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E' vietata la riproduzione. Tutti i diritti sono riservati. La riflessione Dal secondo Dopoguerra il cemento ha inghiottito la natura e pezzi di memoria della Calabria IL PAESAGGIO PERDUTO Umberto Zanotti Bianco a Sibari negli scavi del 1932 Esempi di edifici non completati di BATTISTA SANGINETO T utte le volte che mi capita di andare in giro per la Calabria, mi coglie una sensazione, opprimente, di assenza, di mancanza di qualcosa che non riesco, immediatamente, a definire. Poi, d’un tratto, capisco, ricordo: mi mancano i luoghi, mi manca il paesaggio, quello della mia infanzia e della mia prima giovinezza: non c’è più, si è dissolto, è stato occultato dal cemento. E con esso mi sembra di aver perduto anche una parte della mia storia personale e collettiva, una parte vitale della mia identità. Il paesaggio umanizzato calabrese è scomparso almeno due volte: la prima alla fine della civiltà antica e la seconda durante questo dopoguerra quando il suolo agricolo, i boschi, le valli, i paesaggi della nostra regione sono stati inghiottiti dal cemento. Nel quindicennio 1990-2005 è stato cementificato, dati ISTAT, ben il 26,13% del suolo agricolo utilizzato (SAU) della Calabria che risulta essere seconda solo alla Liguria della quale è stato cementificato, con i risultati devastanti che abbiamo visto, il 45,55% del territorio. Un’apocalisse di cemento si è abbattuta sui nostri territori, in un quindicennio! LA PRIMA SCOMPARSA La prima sparizione dei paesag- gi umanizzati è avvenuta, in Calabria, per un regresso in termini di civiltà conseguente alla fine del mondo antico, a causa dell’abbandono delle coste e delle pianure divenute malsane ed insicure, per la risalita degli insediamenti verso l’interno, per colpa della miseria conseguente alla poca disponibilità di territorio agricolo in un contesto geomorfologico difficilissimo, a causa dell’enorme fatica che una conformazione montuosa e silvestre imponeva agli uomini per le coltivazioni. Gli insediamenti antichi, distribuiti in prevalenza lungo le coste e nelle pianure, dopo la fine dell’antichità, intorno al VI secolo d.C., vengono abbandonati e gli uomini e le loro abitazioni risalgono, lontano dalle malattie e dalle incursioni, lontano dal mare, verso l’interno, verso le montagne. Le coste del Mezzogiorno e della Calabria si spopolano, si impaludano e i siti delle città di origine magnogreca e romana vengono abbandonati e, poi, inesorabilmente cancellati dalle intemperie. A partire dalla fine dell’antichità le rovine dei monumenti e delle abitazioni vengono inghiottite da una rigogliosa vegetazione spontanea che ne ha occultato, fino agli inizi del ‘900, l’ubicazione, forse più in Calabria che nelle altre regioni del Mezzogiorno d’Italia. La La prima sparizione nei secoli scorsi natura, con i suoi impetuosi sconquassi, ha sottratto per molti secoli le antiche grandezze dell’uomo, rendendole indisponibili allo sguardo ed alla percezione dei calabresi e dei forestieri, fin quasi agli inizi del XX secolo. Nel resoconto di un viaggio in Calabria da Reggio a Eboli, compiuto, nel 1897 in bicicletta da Luigi Bertarelli - l’industriale milanese allora direttore, poi storico presidente, del Touring Club fondato nel 1894 - il paesaggio della media valle del Crati, che pure è già attraversato da almeno un ventennio dalla ferrovia Cosenza-Sibari, appare disabitato, selvaggio e paragonabile ad una giungla amazzonica: “Uscendo da Cosenza la strada […] attraversa un paese curiosissimo, interessante in sommo grado, selvaggio del più riposto angolo delle maremme toscane. Immense macchie totalmente deserte che coprono la larga valle dove dappertutto, come nelle jangade brasiliane, l’acqua c’è o corrente, o stagnante, o visibile, o nascosta. Non una casa, non una persona nel lungo tragitto. La strada silenziosa passa talvolta per chilometri nell’ombra del bosco; i rami le si riuniscono sopra e fanno volta. […] Dalla melma emergono teste colossali di bufali, che se ne stanno a ruminare, il corpo nascosto nella mota, teste sciocche e spaventose che si direbbero di bisonte, corpi neri, gibbosi e glabri, che paiono di ippopotami”. Fino al XVIII secolo la memoria dell’antico paesaggio della Magna Grecia e di Roma si era persa anche fra gli eruditi di tutta Europa e se in Campania, già nel corso del ‘700, gli scavi borbonici riportarono parzialmente alla luce le città di Ercolano (1738), Pompei (1748) e i templi di Paestum, nelle altre regioni dovette, invece, passare almeno un secolo prima che venissero effettuate scoperte archeologiche di un qualche rilievo. In Calabria ci vollero gli scavi di Paolo Orsi, prima, e di Umberto Zanotti Bianco, poi, per portare alla luce i resti delle antiche città di Locri, di Reggio Calabria, dei templi di Crotone e di Cirò Punta Alice, di Sibari la cui esistenza era stata, fino ad allora, solo probabile, ma non provabile. “Sybaris” è stata cercata da studiosi italiani e stranieri almeno a partire dal ’700, ma l’impaludamento della pianura ne aveva impedito non solo il ritrovamento, ma finanche le ricerche. A trovarne i resti archeologici fu, per primo, Umberto Zanotti Bianco che, nel 1932, si recò nella pianura di Quando qui era come in Amazzonia continua a pagina 40 E' vietata la riproduzione. Tutti i diritti sono riservati. Domenica 4 gennaio 2015 info@quotidianodelsud.it 40 La riflessione La necessità e la mancanza della bellezza in un contesto ambientale violentato dalla mano dell’uomo L’ INVASIONE Segue da pagina 39 Sibari per seguire i cantieri della “Società Bonifiche del Mezzogiorno” e per impiantarne di proprî alla ricerca dell’antica città. La scoperta fortuita di una colonna ancora in posizione verticale, avvenuta non molto tempo prima in località Parco del Cavallo, lo spinse a cercare intorno ad essa. Lo scavo, sebbene interrotto dopo poche settimane, portò alla luce parte di un edificio che fu poi identificato come il teatro della colonia latina di Copia. Ci vollero i primi anni ’60 del secolo scorso, affinché la Soprintendenza archeologica della Calabria allargasse lo scavo di Zanotti Bianco mettendo alla luce non solo l’intero teatro, ma confermando, archeologicamente, la veridicità delle affermazioni delle fonti letterarie antiche riguardo alla fondazione di “Sybaris”. LA SECONDA SCOMPARSA La seconda scomparsa dei paesaggi, l’occultamento e la cancellazione dei luoghi nativi avviene, in Calabria, nel secondo dopoguerra con la cementificazione del territorio, con le case non-finite che invadono le campagne, le periferie delle città, le coste e, addirittura, le golene dei fiumi. Nel paesaggio contemporaneo calabrese la natura è stata, in molti territori, brutalmente violentata e cancellata dalla mano dell’uomo che è stato capace di sostituirle solo un angoloso ed irto groviglio di asfalto e di cemento, tanto che si fa fatica a riconoscerla nelle parole di Corrado Alvaro che, pure, ne scrive negli anni ‘30 del ‘900. Per lo scrittore di San Luca, uno dei più importanti del ‘900 europeo, la Calabria era “una bellezza di pura geologia, di conformazione del terreno e di storia della terra”, è il magnifico risultato della “elaborazione della natura e il suo rivolgimento e il suo cambiar positura e aspetto”. Quanto più i paesaggi appaiono naturali, come sono stati quelli calabresi fino a pochi decenni or sono, tanto più la percezione che se ne ha è quella di una permanenza, di una lunghissima durata che permette di misurare, per contrasto, il carattere inevitabilmente più effimero dei singoli destini individuali. La natura nasconde, occulta, abolisce non solo la storia, ma anche il tempo, ma il tempo non si abolisce completamente se sono presenti le rovine, perché la loro presenza impedisce al paesaggio di sprofondare, di perdersi nell’indeterminatezza di una natura senza uomini. Il filosofo inglese Sir Isaiah Berlin amava dire che “il mio paesaggio sono gli uomini”. Il calabrese contemporaneo, però, non vive più come diceva Alvaro “in mezzo alla natura ancora sottomesso, come presso una bestia di cui non conosce la forza ma sa che è potente” perché non avendone più paura ne ha sfigurato il volto, pur continuando a non conoscerne la forza, se le frane portano via le case ed i fiumi senza più argini travolgono le costruzioni alzate nei loro alvei o sommergono le rovine di Sibari, la cui messa alla luce è costata fatica a generazioni di archeologi venuti da tutto il mondo e miliardi di lire a tutti i cittadini italiani. Non si può sopportare che le rovine di Sibari rovinino, non si può tollerare che le rovine diventino macerie: perché lo diventano, macerie, quando non hanno il tempo di esser rovine, quando vengono, o debbono, esser portate via con la ruspa, come potrebbe sciaguratamente ancora accadere. La stabilità, la conservazione e la cura dei luoghi e dei paesaggi, in altre parole, garantisce alle società un senso di durata, un senso di perpetuità adatto a custodire ed a coltivare l’identità e la bellezza. Con la cementificazione, e con la conseguente scomparsa del paesaggio storico e naturale della Calabria, è stato scardinato, invece, questo fondamentale nesso psicologico di identità. I paesaggi storici, la loro bellezza, invece, vanno coltivati dai vivi ogni giorno, se si vuole che qualcosa ne resti, per noi stessi e dopo la nostra morte. “La bellezza non salverà nessuno se noi non sapremo salvare la bellezza” (Settis). Abbiamo bisogno della bellezza perché essa è una necessità psicologica archetipica (come sostiene l’analista junghiano Luigi Zoja) così radicata in ognuno di noi al punto che gli antichi erano convinti che bellezza e giustizia fossero intimamente legate: “kalòs kai agathòs” (bello e buono). La “kalokagathìa” rappresentava l’ideale di perfezione per gli esseri umani (l’eroe mitico Memnone) e per le loro opere (il Discobolo di Mirone). LA BELLEZZA, I “BRAND” E L’IDENTITÁ La bellezza del nostro Patrimonio non è una merce, non si può vendere, non se ne può ricavare un “brand”, ma costituisce una riserva inalienabile di ricchezza spirituale da custodire e tramandare a coloro che ci sopravvivranno. I paesaggi storici e naturali, le città, i territori, le regioni non sono mercanzie sulle quali apporre un marchio di fabbrica da pubblicizzare e vendere, ma organismi delicati e complessi che intrattengono fra loro relazioni millenarie e che, nel caso della Calabria in particolare, hanno bisogno, come “conditio sine qua non”, di esser restaurati, conservati e tutelati, prima di essere, nei modi prescritti dall’articolo 9 della Costituzione, fruiti e utilizzati per far cassa. Se quanto appena scritto è valido per le cose materiali, capaci di produrre emozioni e valori immateriali, figurarsi quanto possa esserlo per quelle immateriali, quelle talmente immateriali che sono, appunto, leggende. Come sia possibile che si conti- Alla patetica ricerca di Alarico Fabbricati di cemento addossati “Metastasi cementizie” in area rurale nui ad insistere con questa leggenda di Alarico al punto di voler, a tutti i costi, farne il “brand” dell’antica capitale dei Bruzi (come ci dice il geografo antico Strabone), della patria di Telesio e della Accademia cosentina e, per fare un solo esempio fra i tanti, del filosofo Valentino Gentile che, nel ‘500, era fra i più celebri eresiarchi d’Europa (come ci ha, di recente, raccontato Luca Addante in un suo importante libro)? Cosenza avrebbe, ed ha, ben altri e più fondati, e fondanti, elementi storici e culturali sui quali costruire, immaginare e rappresentare, a se stessi e agli altri, la propria identità. Come ha scritto Vito Teti “La costruzione dell’identità richiede la capacità di cogliere i mutamenti recenti e in corso senza rimanere ancorati a un passato indefinito e immaginario”. Basta, dunque, con questo barbaro invasore del quale non sappiamo neanche per certo che sia morto a Cosenza e del quale non abbiamo nessuna, neanche la più labile, traccia materiale o reperto archeologico da mostrare a chicchessia! Basta con queste, ormai, patetiche luminarie da festa strapaesana di quart’ordine raffiguranti, e celebranti, un capo di una tribù di assas- E' vietata la riproduzione. Tutti i diritti sono riservati. 41 Domenica 4 gennaio 2015 info@quotidianodelsud.it La fuga dai paesi Da molti anni lo spopolamento dei borghi più piccoli ai quali vengono privilegiate le periferie senz’anima delle città DELLE CAMPAGNE sini che ha saccheggiato Roma dopo averne massacrato gli abitanti e violentato le donne! Nel catalogo del “Museo dei Brettii e degli Enotri”, di recente pubblicato dall’Amministrazione comunale medesima per i tipi di Rubbettino, sono presenti le prove – dimostrabili e tangibili perché frutto di scavi archeologici condotti, negli ultimi tre decenni, nel centro storico della città – dell’importanza e della bellezza che ebbe Cosenza sin dall’epoca ellenistica e, poi, soprattutto romana. Non si è accorto nello scriverne la presentazione, gentile architetto Occhiuto, che la quantità e la qualità delle informazioni riguardo alle strutture, alle “domus”, alle terme ed ai reperti archeologici cosentini, contenute nel volume, avrebbero potuto, più fondatamente della leggenda di Alarico, rappresentare e ravvivare l’anima antica della nostra città? Perché spendere energie e soldi (ben 7 milioni di euro per un museo inevitabilmente virtuale!) per una leggenda che può, forse, suscitare fremiti di orgoglio in lontani popoli centroeuropei e non rivolgere, invece, la propria cura, e i propri progetti finanziabili, ad un Patrimonio che abbiamo già sotto i piedi, che intimamente ci appartiene da un punto di vista culturale ed identitario e che rischia di andare perduto? LE METASTASI CEMENTIZIE E IL PATRIMONIO La seconda sparizione dei paesaggi avviene, come ho già detto, nel dopoguerra e, segnatamente, a partire dagli anni ’70 del secolo scorso. Una delle afflizioni più grandi di questa nostra terra è quella dei paesi abbandonati, dei borghi svuotati di persone e di senso. Abbandoni che hanno innescato una fuga reale e metaforica delle genti di Calabria non solo da quei paesi e dalla regione, ma anche dalla propria storia e dalla propria memoria. Una fuga che ha condotto e che conduce alla riduzione in rovina di quei paesi e alla dissoluzione d’intere comunità (Vito Teti). Una società ed una civiltà che sembrano in disfacimento perché solo chi possiede, in senso metaforico, un luogo può andare oltre il luogo, senza un luogo si è sempre fuori luogo ed i calabresi sembrano essere sempre “in fuga” dai propri luoghi. I cala- bresi stanno perdendo la memoria di sé, senza nemmeno accorgersene sono diventati stranieri a se stessi, nemici di se medesimi. Si pensi al recente inurbamento di una grande quantità di “paesani” che, lasciato il borgo natio, vengono ad abitare nelle città o, per essere più precisi, nelle periferie delle città. Essi scelgono come luogo in cui vivere, anche perché meno costosa, quella colata di cemento che ha inghiottito, e continua a farlo, tumultuosamente l’antica campagna, producendo una terra di nessuno, uno “spazio dell’indecisione” sociale ed economica che Gilles Clément chiama “terzo paesaggio”, né urbano, né rurale. A Cosenza ne abbiamo, confinanti, esempi fra i più evidenti: Castrolibero, Montalto, Mendicino e Rende, metastasi cementizie che si estendono fino alle prime pendici della Sila e dell’Appennino e che la rendono senza forma, nella quale “la città è periferia di se stessa e ha il suo centro in ogni luogo” (Italo Calvino). Temo che si possa dire che il paesaggio – sia quello storico, sia quello na- Le colate e la terra di nessuno Un’immagine di movimenti franosi Il parco archeologico di Sibari allagato dopo l’esondazione del fiume Crati nel gennaio 2013 Cementificazione in area rurale turale – è, purtroppo, perduto in larghissime porzioni della Calabria. Quel paesaggio che costituisce il tessuto connettivo, il supporto vivente dei beni edificati nel corso della nostra plurimillenaria storia. Beni che non sono un mero accumulo di dati eruditi, un archivio polveroso a cui attingono solo gli studiosi, ma la memoria vivente e critica delle società umane che ci hanno preceduto (Settis). Un passato che può e deve farsi lievito per il presente, serbatoio di energie e di idee per il futuro e non un magazzino di “brand” dal quale estrarre ed utilizzare quello che si ritiene essere il più conveniente, il più vendibile, magari in qualche esposizione ultrapaesana, come l’EXPO milanese, per la quale, peraltro, sono stati colati, irreversibilmente e inutilmente, altri milioni di metri cubi di cemento (La Cecla dice che “i metri cubi firmati non fanno città”). È sempre più urgente, invece, che si ponga rimedio a questa perdita prima che il destino dei nostri paesaggi, del nostro Patrimonio sia definitivamente compiuto, prima che sia troppo tardi, caro presidente Oliverio. Battista Sangineto