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Storia delle chiese e dei movimenti religiosi Umberto Mazzone Chiesa, pace e guerra nel Novecento Menozzi 2013‐2014 Andrea Cenerelli 1 Storia delle chiese e dei movimenti religiosi Umberto Mazzone Chiesa, pace e guerra nel Novecento Daniele Menozzi Capitolo I: Tra “castigo di Dio” e “inutile strage”: i cattolici nella Grande Guerra La lettura provvidenzialistica del conflitto Conclave del 31 agosto 1914‐ Aurelio Galli, segretario alle lettere ai principi, pronunciando davanti ai cardinali la consueta Oratio de eligendo summo pontefice, non si limitava a ricordare l’importanza del ministero petrino di fronte al conflitto appena scoppiato. Metteva anche in rilievo che la causa della guerra risiedeva nei mali che la società si era procurata, dal momento che aveva abbandonato l’unico fondamento su cui potessero riposare l’ordine e l’autorità, ovvero la religione cristiana. Notava che i combattimenti erano suscitati dall’ira di Dio, e nei disegni della Provvidenza, “lo stesso ferro e fuoco delle guerre” era diretto a risanare le nazioni. Per arrivare alla pace bisognava appellarsi ai valori di cui il papato era depositario. Tre erano dunque gli elementi di lettura della guerra: punizione per l’apostasia1 della società moderna; la sua funzione catartica; il nesso tra ristabilimento della pace e ritorno del pontefice a un ruolo direttivo nella vita internazionale. Il discorso riprendeva i giudizi di Pio X2 che aveva espresso prima del conflitto. Era la rotta sulla quale la curia romana davanti al profilarsi della Grande Guerra, voleva indirizzare il futuro pontefice. Il tema era stato già affrontato in seguito alla cultura intransigente ottocentesca e riproposto in relazione ai fenomeni bellici del magistero pontificio di Pio IX: dal momento che la ragione di tutti i mali stava nel rifiuto della società cristiana, verificatosi in seguito alla secolarizzazione operata dalla Rivoluzione francese e continuata dai regimi liberali, la pace era raggiungibile solo attraverso il ripristino del riconoscimento al pontefice di supremo potere di arbitrio sulle nazioni cristiane. Nei suoi primi atti pubblici Benedetto XV3 si dimostrava aderente a questo schema interpretativo generale della guerra, che tramandato dalla chiesa ottocentesca era arrivato alle parole pronunciate dal Galli davanti al conclave, dove erano riuniti i cardinale per l’elezione papale. Tesi di fondo era che il conflitto costituiva la punizione divina per il peccato della società contemporanea di aver abbandonato la sua dipendenza dalla religione e dalla chiesa. In Benedetto XV era salda l’idea che la ragione della guerra stava nel processo di secolarizzazione, lo mostra chiaramente il più importante documento dell’inizio del pontificato, l’enciclica Ab beatissimi apostolorum princips emanata nel novembre del 1914 come complesso programma di governo e ovviamente egemonizzata dal problema del conflitto mondiale. In questo documento l’origine della lotta era individuata in due fattori fondamentali: l’abbandono nell’ordinamento statale dell’osservazione delle norme e delle pratiche della cristiana saggezza, le quali avrebbero garantito, esse sole, la stabilità e la quiete delle istituzioni; poi i poteri umani emancipati da Dio, creatore e padrone dell’universo, ora originati dalla libera volontà degli uomini. L’accento era dunque posto sulla sottrazione delle istituzioni pubbliche alle regole fissate dalla chiesa, che con tutta chiarezza, per il richiamo ai termini come libertà, fratellanza, era fatta risalire alla laicizzazione della società compiuta dalla rivoluzione francese. Questa interpretazione pontificia del conflitto veniva poi ripreso da tutta la pubblicistica vicina alla Santa Sede. Ne offrono un esempio gli interventi su “ La civiltà cattolica” di Enrico Rosa, direttore della rivista dall’aprile del 1915. Vi scriveva: “Il conflitto era il giusto giudizio di Dio, dovuto all’apostasia della società civile dalla società religiosa”. Altro giornale dell’Azione cattolica, “Gioventù italica”, per tutta la durata del conflitto il periodico, fece della guerra una lettura provvidenzialistica, ne riproponeva la presentazione come punizione per l’allontanamento della società moderna dalla chiesa. L’aspetto catartico che veniva ricondotto al disegno provvidenziale del conflitto si evinceva da numerosi articoli. Alfonso Casoli pubblicava nel 1914 su “La civiltà cattolica” un articolo che individuava nel castigo inviato agli uomini un’espressione della bontà divina, dal momento che in seguito ad esso i popoli si ricorderanno di Dio. 1 Abbandono volontario della propria religione. 2 Pio X: nato Giuseppe Melchiorre Sarto. Papa dal 1903 al 1914. 3 Benedetto XV: nato Giacomo Paolo Giovanni Battista della Chiesa. Papa dal 6 settembre 1914 al 22 gennaio 1922. 2 Ne emerge un elemento legato alla cultura demaistriana (cioè clerico‐autoritaria), che sorreggeva la visione cattolica della guerra: la punizione inviata agli uomini aveva un valore rigeneratore, in quanto era finalizzata a consentire il ritorno a quella società cristiana il cui abbandono aveva suscitato l’ira divina. Concezione ben presenta nella cultura cattolica francese dell’epoca. Lo testimonia il gesuita Yves de la Brière che spiega ai lettori di “Études” la genesi del conflitto. Insomma il mondo cattolico transalpino e italiano erano concordi nel vedere la guerra un inizio di ritorno alla civiltà cristiana. La Provvidenza attraverso la guerra, mostra gli esiti disastrosi cui porta la secolarizzazione della società, in tal modo ne favorisce il superamento, riconducendo la vita collettiva alla subordinazione alla chiesa. La cultura cattolica presentava i mali che il conflitto nei disegni provvidenziali era chiamato a riparare. Restaurazione del potere arbitrale del papa e legittimazioni nazionali della guerra Il conflitto bellico aveva mostrato il supremo ruolo del papa sul consorzio umano, sosteneva il cardinale Vincenzo Vannutelli al termine del conflitto. Negli interventi papali degli anni di guerra la rivendicazione di una suprema funzione arbitrale sugli stati non apparve avanzata in maniera diretta. Ma nella produzione letteraria che accompagna, commenta ed esplicita l’attività di Benedetto XV essa appare una nota centrale. Lo stesso cardinal Vannutelli, presentando gli auguri natalizi al pontefice nel 1916, ricordava che la pace era raggiungibile solo se l’umanità avesse saputo riconoscere che il papato costituiva “l’Autorità stabilita da Dio per tutelarla”. Un articolo del 1915, affidato a un cardinale di curia, il benedettino inglese Francis Gasquet, volto a spigare la linea papale, alla “Dublin Review” ripreso da “L’osservatorio Romano” e chiarito da “La civiltà cattolica”: “Nella società umana_ nelle relazioni tra stato e stato è necessaria un’alta autorità morale_ la cui funzione propria sia nel conservare la pace fra le nazioni e reintegrarla se perturbata: e questo è il pontefice romano, capo spirituale della grande famiglia cristiana e come tale rappresentante del principio di pace nel mondo”. La rivista dei gesuiti italiani batterà su questo taste durante tutto il conflitto. Nel quadro di questo parametro erano gli interventi pontifici durante il conflitto: dalla sforzo di ottenere con un chiaro richiamo alla cristianità medievale una tregua d’armi per il Natale del 1914; agli interventi diplomatici perché le operazioni fossero condotte secondo le leggi internazionali; dalle molteplici forme di intervento presso i governi belligeranti per iniziative caritatevoli o umanitarie, ai soccorsi distribuiti alle popolazioni più colpite dalla guerra. Il dispiegamento di questa attività, come sottolineano i documenti vaticani, era condotta senza distinzione di religione, di nazione, di lingua, e presentata come ultimo spazio di esercizio di quella suprema funzione di arbitrato che l’apostata società moderna rifiuta al papa nella sua pienezza. Lo ricorda Benedetto XV, che davanti al rifiuto delle sue indicazioni sui modi per raggiungere la pace egli non può operare per il suo conseguimento che attraverso la pratica e la raccomandazione della preghiera e della carità. In un articolo de “La civiltà cattolica” Giuseppe Chiaudano mostra il significato di questa posizione. Il gesuita spiega che al papa non resta che esplicare il suo supremo potere, anziché attraverso l’esercizio della funzione giudiziaria, che a lui riserverebbe una società cristianamente ordinata, attraverso lo svolgimento del suo ruolo paterno. La deplorazione, l’esortazione, la preghiera e l’azione assistenziale per attenuare le conseguenze della guerra. Questa sottolineatura di un supremo ruolo arbitrale per il papa non vuole negare che la diplomazia pontificia si attestò su una linea di neutralità e imparzialità tra le parti del conflitto. Meno che mai mettere in questione la tesi, della profonda ripugnanza personale di Benedetto XV per la guerra e la sua costante volontà di pacificazione. Ma vuole mostrare piuttosto che al di là dell’ottica vaticana, bisogna indagare i complessivi orizzonti culturali all’interno dei quali si collocò l’azione di Roma. Sotto questo profilo l’aspirazione alla restaurazione del supremo potere arbitrale del pontefice, di cui si credeva il papato avesse goduto nella mitizzata cristianità medievale, costituisce uno dei tratti salienti della mentalità con cui in curia si guardò alla guerra. Inevitabile diventa, porre il problema del rapporto tra questi orientamenti romani e le posizioni assunte dalle chiese nazionali. I cattolici aderirono alla guerra, per ottenere, mostrando il loro lealismo nei confronti dello stato, un reinserimento della comunità cattolica nella vita del paese e, ristabilire una piena uguaglianza di diritti e il ristabilimento di passati privilegi. In che relazione questo atteggiamento di accettazione del conflitto si poneva con la posizione assunta dal papato? Ciascuna delle chiese dei paesi in lotta poteva appropriarsi, collegandole alla propria situazione, delle tesi papali sulle origini della guerra e sugli esiti di pace cui essa doveva condurre. Infatti la responsabilità per l’opera secolarizzatrice del consorzio umano che aveva chiamato il castigo divino veniva rovesciato sulla parte avversa; mentre la restaurazione della società cristiana e del supremo potere del papato veniva connessa alla vittoria del proprio schieramento. Lo dimostrano le riviste dei gesuiti francesi e tedeschi. Su “Études” Lucien Roure spiegava come l’ostacolo alla restaurazione della civiltà cristiana fosse la Germania, che risolveva l’idea di patria in una pangermanistica affermazione della propria potenza in chiave militaristica e imperialistica. O Jacques Maritain su “La croix” spiegava che la nazione tedesca, aveva determinato con Lutero la frattura della cristianità medievale, da cui discendevano gli errori moderni responsabili della secolarizzazione, e intendeva ora con la sua 3 potenza militare e le sue mire imperiali affermare su tutto il mondo quel generale paganesimo che costituiva il suo specifico peccato. In “Stimmen der Zeit” Peter Lippert muove le stesse questioni per la Germania. “Il risollevamento del popolo tedesco è indirizzato al servizio di Dio” sosteneva. Gli Imperi centrali erano ancora portatori di quell’ideologia della regalità di Cristo sulla società che nel Medioevo aveva consentito al Reich tedesco di raggiungere la più ampia espansione territoriale e alla civiltà cristiana la più alta espressione. In questo quadro si accusava la Francia di essere uno stato laico e anticlericale, erede della filosofia illuministica e della Rivoluzione secolarizzatrice e il trionfo della causa tedesca avrebbe protetto gli interessi cattolici. Benedetto XV non poteva che astenersi da un giudizio netto verso il coinvolgimento bellico dei cattolici. Pur combattendosi muovevano nell’ottica che aveva proposto il papa, anche se la declinavano a proprio vantaggio. In uno dei rari testi pubblici in cui si affronta lo scontro tra i cattolici, l’allocuzione concistoriale del 1915, il pontefice spiega il suo atteggiamento a proposito. Era chiara l’impossibilità di governare la contrapposizione che divideva le chiese nazionali, perché un giudizio in materia avrebbe portato una rottura dalle incalcolabili conseguenze nella compattezza e unità della chiesa universale. Religione e pace L’aspirazione alla ricostruzione di una società cristiana a guida romana costituisce un aspetto portante dell’atteggiamento del papa verso la Grande Guerra ed evidentemente ne condiziona l’impegno per la pace. Benedetto XV affida anche a un altro elemento per il ristabilimento della concordia internazionale: il fattore religioso. L’insistenza pontificia su questo punto si sviluppò in molteplici direzioni, ma limiteremo l’analisi alla promozione del culto al Cuore di Gesù, cui Benedetto durante il primo conflitto, si dedicò con particolare intensità. La preghiera al Sacro Cuore, composta personalmente dal papa nel 1915, divenuta famosa per i sequestro fattone alla polizia francese, aveva certamente per scopo, come ricordava il Segretario di stato, cardinal Pietro Gasparri, nella lettera con cui si sollecitava la recita a tutti i cattolici alla sera dopo il rosario, di animare a una mortificazione collettiva che allontanasse il giusto castigo di Dio sugli uomini che si manifestava col conflitto. Essa era in linea con gli schemi generali tenuti da Benedetto nei confronti della guerra. Ma il papa collegava a tale orazione la “cessazione dell’immane flagello” anche sotto un altro profilo: essa doveva portare alla pace in quanto favoriva l’affermarsi sulla terra del regno di quell’amore di Cristo di cui il suo cuore era simbolo. Voleva preparare con tale lettera gli animi a ricevere e accogliere il messaggio di pace che il papa voleva lanciare. Ma se si voleva operare attraverso questo canale cultuale, per la diffusione di una mentalità che, contrapponeva in ultima analisi cristianesimo e guerra, finiva ber giungere a una delegittimazione del conflitto. Che non si tratti di un problema astratto lo dimostra l’enciclica Pacem Dei munus, il più solenne e ampio documento dedicato da Benedetto XV nel 1920 al tema della pace. Qui l’amore verso il Sacro Cuore avrebbe favorito la mitezza, la mansuetudine, la misericordia, il perdono, presentati come atteggiamenti dalla cui assunzione nei confronti di tutti, anche dei nemici, dipendeva l’attuazione di una riconciliazione internazionale. È lecito chiedersi dunque, se promuovendo la devozione al Cuore di Gesù, il papa intendesse diffondere una mentalità che mirava a scardinare la giustificazione religiosa della guerra. Il culto del Sacro Cuore aveva assunto nel corso della guerra connotazioni nazionalistiche. Il ricorso alla devozione veniva presentato da esponenti delle chiese delle due parti in conflitto come una garanzia di sicura vittoria per i rispettivi eserciti, i quali al Sacro Cuore venivano consacrati. Particolarmente accentuata appariva la caratterizzazione della devozione in funzione di un’affermazione bellica nazionale nel movimento che si era sviluppato, soprattutto in ambito francese, per apporre sul tricolore nazionale l’immagine del Sacro Cuore. Benedetto XV si contrappose a questa politicizzazione in chiave nazionalistica, contrapponendo una politicizzazione in chiave ierocratica 4 del culto. Il papa non voleva che ne fosse fatta un’appropriazione bellicistica del culto, come dimostra la dissuasione verso l’apposizione del Sacro Cuore sulle bandiere nazionali. Si ha l’impressione che nella promozione del culto al Sacro Cuore l’ottica ierocratica si intersecasse in maniera stretta con la prospettiva di un effettivo mutamento dei comportamenti che, posti sotto il segno dell’amore reciproco e universale fra gli uomini, giungevano a far cadere l’adesione alle ragioni della guerra. Quindi per Benedetto XV era convinto che ci fosse una contraddizione tra la partecipazione alla guerra e l’accettazione del messaggio cristiano? Per rispondere bisognerà analizzare più da vicino l’atteggiamento tenuto dal papato in ordine alla tradizionale posizione cattolica sui conflitti, vale a dire alla dottrina sulla “guerra giusta”. 4 Ierocrazia: indica una forma di governo in mano ad una divinità o più genericamente a persone che incarnano la divinità o la rappresentano e sono perciò ritenute sacre (ad esempio i sacerdoti). 4 Una giusta guerra? Nell’allocuzione indirizzata al concistoro5 nel gennaio del 1915 Benedetto XV sembrava prendere posizione sulla questione. Rivendicava da una lato il diritto del papa a proclamare, in virtù dell’ufficio, di essere stato “da Dio costituito supremo interprete e giudice della legge eterna”, la giustizia o l’ingiustizia di ogni comportamento umano e quindi anche dei comportamenti bellici. Dall’altro lato egli rifiutava, in quanto padre comune di fedeli militanti nei due schieramenti contrapposti, di formulare tale giudizio in merito alla guerra in corso, dal momento che avrebbe finito per sostenere l’una o l’altra parte. Non per questo rinunciava a richiamare a una moralizzazione del conflitto, ricordando ai due schieramenti alcune norme alle quali dovevano attenersi. Ad esempio di non devastare le regioni invase più del necessario, di non ferire, senza necessità, gli animi degli abitanti in ciò che hanno di più caro, come i templi, i ministri di Dio, i diritti della religione e della fede. Sostanzialmente il testo, pur non palesemente, mostrava l’adesione del papa alla dottrina della guerra giusta, indicando i criteri con cui i belligeranti dovevano contrapporsi, applicava uno degli elementi tipici della guerra giusta, vale a dire quel criterio di valutazione nella conduzione dei conflitti che era definito iustus modus. Alla tesi della guerra giusta, applicata concretamente allo schieramento bellico di appartenenza, si allineavano poi le diverse chiese nazionali. L’obbedienza all’autorità legittima che aveva proclamato la guerra veniva presentata come una ragione sufficiente per una partecipazione, motivata su base religiosa, al conflitto. Gemelli, il direttore della rivista dell’Università cattolica “Vita e pensiero”, quando l’Italia entrò in guerra, esprimerà a legittimazione della guerra, l’invocazione dell’obbedienza all’autorità: “il popolo italiano deve vedere nella calamità della guerra non solo la rivendicazione di un giusto diritto, ma ben più la prova permessa da Dio per la sua rigenerazione, per un’Italia più degna della storia delle sue tradizioni, per un’Italia più cristiana”. Le varie nazioni facevano leva su un patriottismo cattolico, appoggiato dalle varie chiese nazionali. Sono ben noti i richiami di Benedetto XV nei confronti di quei cattolici che si spendevano con troppo ardore a sostenere la legittimazione della nazionale sulla base dell’etica cristiana. In particolare la distanza tra il papato e le chiese nazionali si profilò dopo la celebre Nota dell’agosto del 1917 dove il pontefice faceva riferimento al conflitto in corso come a un’ “inutile strage”. Si profilava uno scontro in ordine alla legittimazione della guerra tra papato e chiese nazionali? Per ogni chiesa nazionale il conflitto rispondeva ai criteri di un conflitto pienamente lecito. Invece nel momento in cui Benedetto XV lo definiva come “inutile strage” diventava difficile poterlo ancora qualificare come “guerra giusta”. Si faceva cadere uno dei cardini su cui poggiava questa concezione, quello della proporzionalità tra mezzi e fini: se la guerra era inutile, non poteva essere strumento adeguato allo scopo che la giustificava, cioè il ristabilimento dell’ordine e del diritto nei rapporti internazionali. Si deve giungere alla conclusione che, partito d un’iniziale applicazione della teologia della “guerra giusta” al conflitto mondiale, Benedetto l’abbia poi abbandonata? A questo proposito occorre un’analisi più accurata della Nota del 1917, l’unico testo pubblico in cui il papa faccia riferimento all’inutilità della conflagrazione. La proposizione diretta a inficiare la concezione della guerra giusta è stata, parrebbe, una scelta consapevole e fermamente voluta dal pontefice. L’analisi complessiva del testo della Nota, ne rivela una struttura complessa. Indirizzato ai capi delle nazioni belligeranti si articolava in tre parti. Nella prima si ricordavano i precedenti appelli del papa alla pace. Nella seconda si indicavano quegli elementi (il disarmo e l’arbitrato) che la Santa Sede giudicava imprescindibili per garantire in futuro una pace duratura. Al termine di questa esposizione, dove non si era mancato di specificare anche la via per la risoluzione delle questioni territoriali tra Francia e Germania e Austria e Italia, il papa lanciava un pesante appello ad accogliere il suo invito. E in questa terza parte emergeva la celebre frase sull’inutilità della guerra. La Nota si svolgeva su due piani, politico‐diplomatico ed etico‐religioso nella parte finale. Col richiamo all’ ”inutile strage” balenava una valutazione che implicava l’abbandono della legittimazione della guerra da parte della chiesa. I governi videro nella Nota il tentativo di Roma di conseguire un preciso obbiettivo politico: affermare il proprio ruolo di mediazione sulla scena internazionale e rafforzare così la presenza vaticana sul piano mondiale. Il significato dell’asserzioni sull’inutilità della guerra sembrava uno strumento di pressione per indurre i governi a un’adesione alle proposte pontificie: far intravedere che, anziché raccomandare l’obbedienza la Santa Sede poteva orientare i fedeli a un distacco dalla guerra, sciogliendoli da quella sottomissione al potere che rappresentava un architrave della dottrina della “giusta guerra”, rappresentava l’unica forza reale di cui essa 5 Concistoro: è una riunione formale del collegio consultivo di un sovrano. In origine usato per gli imperatori romani, che avevano un sacrum concistorium ("sacro collegio"), è passato poi nella terminologia religiosa ad individuare i più alti consigli consultivi. Come riunione formale del Collegio cardinalizio (già Sacro Collegio) della Chiesa cattolica, i concistori si tengono nella Città del Vaticano e sono convocati dal papa. 5 poteva disporre per sostenere i suoi progetti. I governi ritenevano che quella frase lanciasse un avvertimento: Roma calava nello scacchiere diplomatico la sua carta: la velata minaccia della delegittimazione morale della guerra al fine di ottenere quel supremo ruolo arbitrale cui da tempo aspirava. Le reali aspirazioni del papa a mettere in questione la tradizionale legittimazione della guerra si svolgevano all’interno di una cultura che ne impediva la piena esplicazione sul piano pratico. La denuncia dell’”inutile strage” veniva inquadrata all’interno del gioco politico‐diplomatico, sicché non si rivolgeva, con la necessaria autorevolezza, all’unico destinatario, i cattolici impegnati nel conflitto, in grado di renderla capace di erodere la concezione tradizionale. Pur condannato, per i suoi intrinseci limiti, il passo di Benedetto XV apriva un problema: creava infatti una fenditura nella compattezza e coerenza di quel “principio di presunzione” che delegava alle autorità civili il compito di stabilire la giustezza di una guerra. In seguito ai disastri del primo conflitto mondiale il pontificato aveva pubblicamente proclamato, anche per i suoi interessi politico‐diplomatici, che un legittimo governo poteva chiamare a una guerra resa ingiusta dalla sproporzione tra i tragici mezzi distruttivi messi in campo dalla tecnica militare e i pur leciti obbiettivi che esso intendeva perseguire. La chiesa era costretta a prendere atto di questo nuovo volto della violenza bellica. Un primo nodo da dipanare era costituito dalla Società delle Nazioni, l’organismo cui le potenze vincitrici intendevano affidare la pacifica regolamentazione delle relazioni internazionali. Capitolo II: Il primo dopoguerra: “Societas Cristiana” o società delle nazioni Dicembre 1922 Pio XI6, alcuni mesi dopo la sua elezione emanava la sua prima enciclica, Ubi arcano che dedicava alla “pace di Cristo nel regno di Cristo”. Il papa vi constatava che ancora non vi era una vera pace. Ratti vedeva nelle cause del conflitto e nel perdurare delle tensioni internazionali, quel processo di laicizzazione delle pubbliche istituzioni, l’abbandono della convinzione che la legge e l’autorità avessero un’origine divina. La chiesa è la depositaria degli insegnamenti di Cristo e essa può conferire al presente la vera pace di Cristo e assicurare questa pace nel futuro, allontanando il pericolo di guerre. Per Pio XI la chiesa aveva un ruolo decisivo e insurrogabile per la pace. In questa linea il papa tratta della Società delle Nazioni, l’organismo nato dalle discussioni per la pace svoltesi a Versailles e insediatosi a Ginevra nel 1920 con lo scopo di regolare le controversie tra gli stati in via politico‐diplomatica al fine di evitare che si ripetessero gli orrori del primo conflitto mondiale. Per Ratti la vera società delle nazioni era il cristianesimo medievale, oltre a questo nessun istituto umano era in grado di dare alle nazioni un codice internazionale. Sosteneva esistesse un istituto divino, appartenente a tutte le nazioni e superiore a tutte: la chiesa di Cristo. Il papa contrapponeva all’istituto ginevrino la centralità della società cristiana medievale. Per Pio XI la cristianità medievale mostrava come la chiesa fosse capace di risolvere i conflitti quando le veniva riconosciuta la suprema autorità sociale che le deriva dall’essere la vera depositaria divina. Così sviliva il nuovo istituto volto a salvaguardare i rapporti tra gli stati. Alla base di questa posizione, radicata nella mentalità intransigente, era che il papato, depositario per investitura divina dei supremi criteri di giustizia, era l’unico arbitro possibile delle contese fra gli uomini. Nella linea di Benedetto XV la Società delle Nazioni non trovava quella rivalità netta con il papato come con Pio XI. Per Benedetto, la Società delle Nazioni doveva proclamare le regole della giustizia e della carità proclamate dalla chiesa, ma non vi era contrapposizione tra questa e la società cristiana, come era invece con Pio XI. La Società delle Nazioni dunque, secondo Pio XI, proponendosi di far regnare nel mondo la pace, scalzava una prerogativa che si voleva riservare in via esclusiva alla chiesa. Il dibattito nel mondo cattolico L’atteggiamento di Pio XI verso la Società delle Nazioni ebbe immediati riflessi sull’opinione pubblica cattolica. Associazioni volte a promuovere la ierocrazia papale come la Ligue du Christ‐Roi des nations, fondata a Bruxelles nel 1919 da Auguste Philippe, ne trassero ulteriore motivo per sviluppare la polemica contro l’istituzione ginevrina che era stata considerata fin dai suoi esordi succube della massoneria anticristiana. La pace non poteva venire da un organismo che non faceva alcun riferimento a Roma e incrementava così l’apostasia delle nazioni dalla chiesa. “Solo sotto la direzione sovrannaturale del papa si sarebbe realizzata una vera Lega delle Nazioni”. Molte riviste legate all’Università cattolica di Milano, sostenevano svalutando la Società delle Nazioni sostenendo la necessaria associazione del raggiungimento della pace e l’attribuzione al papa di quel supremo ruolo di arbitro internazionale di cui aveva goduto nella cristianità medievale. Non mancarono certo, sempre nel mondo cattolico degli orientamenti favorevoli alla Società delle nazioni, che seguivano il pensiero di Benedetto XV in merito, e quindi disposti all’impegno verso di essa, come dimostrano gli articoli di Ernesto 6 Pio XI: nato Achille Ambrogio Damiano Ratti. Papa dal 1922 al 1939. 6 Vercesi su “Vita e pensiero” rivista dell’Università cattolica, il quale riteneva che con un’attiva collaborazione si poteva portare l’operato della Società delle Nazioni a un azione del tutto coerente con la dottrina cattolica. La linea di Vercesi era manifesta specialmente negli articoli con cui illustrava i lavori dell’Union catholique d’études internationales (UCEI), di cui era stato uno dei promotori (il presidente della sezione italiana era diventato il parlamentare popolare Angelo Mauri). L’UCEI, nata a Friburgo in Svizzera durante la guerra, si era proposta in seguito alla creazione della Società delle Nazioni nel 1920 di costituire presso di esso, con il consenso dello stesso Benedetto XV, un canale informale di rappresentanza degli interessi e delle posizioni cattoliche. Con Pio XI nell’UCEI troveremo molti esponenti della cultura intransigente, che porteranno avanti gli interessi papali a livello internazionale, e seguendo le linee di Pio XI trovarono non poche ambiguità nella Società delle Nazioni, la quale aveva lo scopo di attuare nel mondo uno scopo principalmente cristiano. Il personaggio che più avrebbe interpretato davanti all’opinione pubblica le posizioni dell’UCEI fu il gesuita francese Yves de La Brière. Egli non vedeva nella Società delle Nazioni un organismo in antitesi con la società cristiana, e auspicava a un appoggio cattolico alle sue attività in modo da orientarle verso gli esiti desiderati. L’orientamento nel quale poi si riconosceva tutta l’UCEI stabiliva che nel momento in cui la Società delle Nazioni voleva risolvere il problema dell’organizzazione della pace doveva ricorrere al quel patrimonio cristiano e cattolico che si era sedimentato nel corso del tempo. Il mondo moderno doveva ritornare al cattolicesimo che aveva abbandonato. L’impegno dell’UCEI presso l’istituzione ginevrina si rivelava così come un mezzo adeguato ai tempi presenti per restituire alla chiesa quel ruolo direttivo che essa doveva, come nei felici tempi della cristianità medievale, di nuovo esercitare. Alla frontale contrapposizione alla Società delle Nazioni si sostituiva sostanzialmente la prospettiva di renderla conforme alle concezioni cattoliche. Orientamento che riscosse notevole successo nel mondo cattolico. Ora bisognava si poneva il problema di conciliare l’appoggio cattolico pervenuto alla Società delle Nazioni con le diffidenze espresse da Pio IX. Verso un sostegno vaticano alla Società delle Nazioni La Brière nel 1926 trattò delle questioni internazionali anche in un’udienza personale con il papa. Si evinse un atteggiamento non contrastante con l’azione svolta dall’UCEI. Dagli incontri romani comunque la linea scaturita era evidente. Il papato, rivendicando la superiorità sull’organismo ginevrino, si manteneva estraneo alle sue attività ordinarie, ma al contempo faceva leva sui cattolici che avevano da tempo lavorato per stabilire con esso una positiva collaborazione, per essere formalmente invitato a intervenire sulle deliberazioni che coinvolgevano gli interessi ecclesiastici nel mondo. La Brière e l’UCEI potevano dunque contare su una legittimazione vaticana del loro impegno e, sotto la loro esclusiva responsabilità, continuare a operare nell’intento di raccordare le decisioni ginevrine su pace e guerra con quegli orientamenti romani cui riconoscevano una indiscutibile primazia in materia. La conferenza universale del cristianesimo pratico, tenuta a Stoccolma nel 1925, composta da 600 delegati da trentuno chiese protestanti, anglicane e ortodosse in uno spettacolare incontro ecumenico, aveva manifestato l’interesse ad assicurare un sostegno religioso alla società ginevrina. Ma soprattutto conferenza delle chiese aveva deciso di aprire una propria rappresentanza prezzo il Palazzo delle Nazioni. Questa presenza non poteva che sollecitare un maggiore interesse vaticano verso Ginevra. Infatti diversi segnali suggerivano un’attenuazione della posizione con cui Pio XI aveva iniziato il suo governo. Le opposizioni alla Società delle Nazioni venivano ora principalmente dai cattolici di quell’Action francaise che Pio XI aveva condannato. L’Action francaise7 attraverso il proprio giornale facevano credere a un cedimento cattolico ai progetti della massoneria mondiale, che, attraverso il miraggio della pace, intendeva disarmare la Francia al fine di poterne cancellare l’identità nazionale. Ma a seguito della condanna papale, per i cattolici sostenitori della società ginevrina fu più facile favorire un atteggiamento positivo verso questa. Ne è espressione il libro di Luigi Sturzo La comunità internazionale e il diritto di guerra pubblicato nel 1929. Sturzo sosteneva che la guerra lungi dal costituire un diritto naturale, era soltanto una pratica di garanzia sociale storicamente determinata dalla volontà umana, sicché poteva essere eliminabile dallo svolgimento storico dell’umanità. Non nascondeva i limiti strutturali dell’attività ginevrina ma vedeva in essa anche un elemento decisivo a sostegno della sua concezione. Dal momento che ormai esisteva un’autorità morale in grado di condannare l’atto di guerra compiuto da uno stato in violazione del patto societario, l’opinione pubblica mondiale poteva per la prima volta nella storia moderna orientarsi con certezza circa l’illegittimità di un conflitto. Nella visione di Sturzo si trattava di un passo decisivo: a suo giudizio la guerra sarebbe stata eliminata quando, come era stato il caso di altri istituti sociali a lungo dotati di una legittimazione 7 Action francaise: L'Action française fu un movimento politico francese di ispirazione antiparlamentare e antidemocratica, fondato nel 1899 da Henri Vaugeois e da Maurice Pujo; aderì alla causa monarchica e fu vicino alle posizioni dei fascismi europei. Papa Pio XI condannò l'Action française anche per l'influenza troppo grande che aveva sui giovani cattolici: i libri di Maurras e il Journal furono messi all'Indice per decreto del Sant'Uffizio. 7 morale collettiva, per esempio i sacrifici cruenti alla divinità, il duello, la schiavitù, sarebbe maturata una coscienza comune della sua inaccettabilità. Nell’ottica di Sturzo, sostituire alla guerra una regolamentazione giuridica delle controversie perseguita dalla Società delle Nazioni combaciava sostanzialmente con l’ideale cristiano della pace e perciò non poteva alla fine che incontrarsi con gli indirizzi di un papato indotto dalla sviluppo storico ad abbandonare la nostalgia per la restaurazione della ierocratica cristianità medievale. Il volume di Sturzo doveva rappresentare un contributo a incrementare il sostegno cattolico all’attività della Società delle Nazioni nella convinzione di una convergenza profonda dei suoi fini con quelli dell’istituzione ecclesiastica. Lo stesso sosteneva La Brière Roma e Ginevra non erano contrapposte: la societas cristiana dell’età di mezzo non appariva ora la radicale alternativa all’organismo internazionale, ma il primo e lontano abbozzo dell’assetto che esso inaugurava. A convergere con questi orientamenti della cultura cattolica giungevano i nuovi atteggiamenti pontifici. Nel discorso del Natale 1930 pronunciato davanti ai cardinali e prelati della curia romana, Pio XI aveva manifestato, con una forza e una nettezza in precedenza non riscontrabili, una condanna di ogni conflitto bellico che risolveva in un evidente appoggio verso la società ginevrina. Nel corso di un decennio sembrava essersi quindi consumata una parabola papale verso la Società delle Nazioni: dalla rivendicazione che non in tale istituzione ma il ritorno a una società cristiana diretta dal pontefice costituiva l’unica via per garantire l’ordine nelle relazioni internazionali, Roma, senza rinunciare al principio che solo il regno di Cristo avrebbe assicurato la pace tra i popoli, era passata a vedere nell’organismo ginevrino un importante canale per arginare le tendenze belliciste di quel nazionalismo esasperato in cui ormai individuava un grande pericolo per la pacifica convivenza tra i popoli. Alcuni settori del mondo cattolico erano passati già oltre al terreno della pace, ma uno più avanzato: la questione della difficile legittimazione religiosa alla guerra moderna portava a interrogarsi sulla liceità del servizio militare. Capitolo III: Un “pacifismo” cattolico tra le due guerre mondiali Dal rifiuto della circoscrizione obbligatoria all’obiezione di coscienza Oltre alla valorizzazione di un organismo internazionale capace di risolvere pacificamente le controversie tra i vari stati, negli anni venti di fece strada nel mondo cattolico, che discuteva sui modi con cui evitare il ripetersi delle tragedie della Prima Guerra mondiale la questione della liceità morale dell’obiezione di coscienza al servizio militare. La cultura cattolica affrontava tradizionalmente, il problema sostenendo il “principio di presunzione” a favore dell’autorità politica: dal momento che si poteva presumere che solo i governanti possedessero le informazioni necessarie per decidere sulla giustizia di una guerra, i fedeli avevano il dovere di sottomettersi a tali decisioni. Non era consentito sottrarsi alla leva. Tra le due guerre lo mostra uno dei manuali di teologia più diffusi, dell’autore Dominicus Maria Prümmer, un religioso domenicano che insegnava tale disciplina all’Università svizzera di Friburgo. In tale manuale era espressa l’impossibilità di rifiutare la leva, e ogni soldato può andare al combattimento senza scrupoli di coscienza. Questa quindi la posizione cattolica a riguardo. A seguito del ricorso di armi micidiali, durante la Grande Guerra, alcune correnti del mondo cattolico cominciarono a prendere le distanze da tale posizione. La guerra moderna, che richiamava a una coscrizione generale, non più attraverso eserciti di mestiere, fece sollevare domande circa la moralità di un coinvolgimento in uno scontro bellico che era destinato a provocare immani catastrofi. Alcuni esempi: il Saggio teoretico di diritto naturale di Tapparelli d’Azeglio, sull’ottocentesca denuncia intransigente della modernità politica. Vi si vedeva nello stato moderno nato dalla Rivoluzione francese e segnato quindi dall’apostasia della chiesa, l’introduzione della leva di massa. L’intransigentismo cattolico, nostalgico della cristianità medievale, guardava con diffidenza un tipo di esercito legato a un ordine politico giudicato erroneo. Negli anni Venti diversi esponenti cattolici, ritornavano sul terreno della tradizione intransigente. La questione emerse al congresso di Bierville, organizzato nel 1926 dal Comité internacional d’action démocratique pour la paix. Marc Sangnier, il fondatore , aveva sollevato il problema. Ricordando un suo incontro con Benedetto XV, aveva rivelato che il papa lo aveva invitato a propagandare l’idea della soppressione del servizio militare obbligatorio, ritenendola via fondamentale per il conseguimento della pace. Radicale era l’indicazione proveniente da un libretto pubblicato dal War Resisters’ International (1929), un’associazione fondata in Olanda nel 1921 da u gruppo di giovani che durante la Guerra avevano subito i rigori della legge a seguito del loro rifiuto di indossare la divisa, (viaderi anche Einstein). Il gruppo riunì alcuni scritti teologici operanti in diversi paesi europei contro la coscrizione obbligatoria, per propagandare i suoi obbiettivi pacifisti. Per esempio forte la riflessione del domenicano Stratmann in materia, vicepresidente e guida spirituale del Friedensbund Deutscher Katholiken: la morale cattolica, distinguendo tra guerra giusta e ingiusta, aveva da sempre legittimato l’obiezione di coscienza a una guerra ingiusta, ma nell’età contemporanea la capacità distruttiva degli armamenti toglieva ogni possibilità di dare una base etica al conflitto, così l’obiezione di coscienza doveva generalizzarsi. Ma tante altre posizioni analoghe erano espresse dall’opuscolo che raccoglieva le posizioni dei teologi europei messe insieme dall’associazione War Resisters’ International che in sostanza 8 sosteneva che “ il rifiuto del servizio militare diventa un dovere oggettivo per ogni cattolico che voglia restare fedele all’insegnamento di Gesù e cosciente della criminale assurdità della guerra”. Il libretto sembrava fornire all’opinione pubblica le motivazioni teologiche di questa presa di posizione. Non tardarono i casi concreti di rifiuto alla leva. Le reazioni della gerarchia Vediamo gli interventi della gerarchia episcopale. Il cardinale Michael von Faulhaber, in un discorso per la festa di san Silvestro nel 1928 sosteneva posizioni che vedevano nella leva obbligatoria si uno dei malli della società moderna, ma necessaria per la difesa di un popolo, quindi legittima. I fedeli non dovevano porre obiezione. Il cardinale ricordando l’esistenza di guerre giuste, sottolineava che non fosse possibile sottrarsi al servizio militare, perché lo stato aveva diritto di organizzare la sua difesa. Altro esempio arriva dal vescovo d’Angen Charles‐Paul Sagot du Vauroux, che sosteneva il fatto che il credente deve sì sostenere la pace, ma non ha il diritto di dichiarare ogni guerra un crimine. I giovani di Azione cattolica avevano tre doveri: guardarsi dal pacifismo, dall’antimilitarismo e dall’internazionalismo; accettare il servizio militare. Allineato a queste tesi era anche il futuro pontefice Eugenio Pacelli. Pio XI nella allocuzione natalizia del 1930 ricordava l’impossibilità della pace e la necessità degli eserciti fino a quando la convivenza sociale era minacciata, all’interno come all’esterno delle nazioni, dai pericoli della propaganda comunista. A tagliare corte sulla discussione che rischiava di provocare divisioni, arrivò un atto collettivo della gerarchia francese. Nel gennaio 1933 il comitato arcivescovile emanava una dichiarazione che fissava gli orientamenti a cui l’Azione cattolica francese doveva attenersi. Vi si affermava che “ dovendo ogni cittadino essere pronto a sacrificare la propria vita per difendere i diritti essenziali della patria la chiesa non poteva approvare l’obiezione di coscienza, alle leggi militari era necessario obbedire dato che un individuo non è in grado in queste materie di essere giudice competente”. Per conseguenza la chiesa riconosceva la legittimità della cura che ogni paese deve avere per dotarsi di una forza militare capace di assicurare la sua sicurezza all’interno e all’esterno. La chiusura del dibattito Sul piano privato si potevano manifestare ancora inquietudini sulla questione, ma a livello pubblico le cose andavano diversamente. La discussione circa che le eventuali motivazioni evangeliche dell’obiezione di coscienza, portava ormai all’esito di una condanna. Testimonianza ne fa un volume pubblicato nel 1936 dal gesuita Gaston Fessard, Pax nostra. Si evinceva che nella società contemporanea l’obiezione di coscienza era per la morale cristiana una scelta inammissibile, dal momento che comportava una complicità verso coloro, che in nome di un ideale anticristiano, preparano la rivoluzione universale. Agli occhi di Fessard era la duplice minaccia comunista e nazista a rendere il pacifismo degli obiettori un nemico dell’autentica pace cristiana. La Brière ricordando l’opuscolo dei 6 teologi di War Resisters’ International, li giudicava incauti. Sosteneva che l’obiezione di coscienza era illecita e costituiva un reato meritevole di sanzioni civili. Alla vigilia della Seconda guerra mondiale l’obiezione di coscienza era dunque rifiutata dalla cultura cattolica. L’esito trova spiegazione nei profondi mutamenti del contesto internazionale nella seconda metà degli anni Trenta: il bellicismo nazista, il fallimento della Società delle Nazioni, la ripresa dell’iniziativa internazionalistica del comunismo, inducevano evidentemente a guardare con preoccupazione a esenzioni dal servizio militare. I disastri della Prima guerra mondiale avevano sì portato la cultura cattolica verso una delegittimazione religiosa della guerra, ma tale intervento venne sbarrato dalla gerarchia. Capitolo IV: Il fallimento di una via teologica alla pace negli anni Trenta Il documento di Friburgo Nel febbraio 1932 “Les documents de La vie intellectuelle” pubblicava con titolo Le problème de la moralité de la guerre il testo latino di un documento firmato nell’ottobre del precedente anno da 8 teologi. Documento importante per la sede in cui nacque, legata a Roma e per l’autorevolezza dei sui firmatari. Il testo era il risultato di un gruppo di lavoro internazionale che dal 1929 si riuniva a Friburgo per discutere sul tema della moralità della guerra. L’organizzazione degli incontri fu gestita dal professore di teologia morale Francois Charrière, gli altri membri e firmatari del documento erano tre francesi: Albert Valensin, Joseph Delos, Bruno de Solages; e quattro tedeschi: Joseph Mayer, Constantin Noppel, Franz Keller e Franzikus M. Stratmann. Quest’ultimo personaggio più noto a queste date, autore di un volume del 1924 dal titolo Weltkirche un Weltfriede, dove dichiarava che la contemporanea tecnica bellica aveva reso manifesto l’impossibilità di qualunque conflitto di adempiere alle condizioni poste dalla teologia per qualificarlo come giusto, i quanto cadeva il debitus modus nella sua conduzione. Questi personaggi volevano fornire, nelle incertezze del momento, un orientamento per la coscienza dei fedeli. Dal documento è possibile cogliere l’atteggiamento cattolico sulla pace degli anni Venti e Trenta del Novecento. 9 In primo luogo sollecitava i cattolici all’appoggio verso la Società delle Nazioni. I teologi erano categorici: costituiva un preciso dovere dei governanti e dei cittadini, soprattutto se cristiani, promuovere le istituzioni internazionali che cercavano di evitare la guerra e queste espressioni del documento volevano tradurre sul piano dei comportamenti pratici la posizione di Pio XI espressa nel discorso del Natale 1930 in cui dimostrava un chiaro appoggio alla Lega ginevrina. Ma il documento avanzava anche alcune tesi ulteriori. La guerra contemporanea non rientrava più nell’ambito della ragione. Portava alla distruzione di vincitori e vinti per la potenza degli armamenti, e il conflitto diveniva un mezzo inadatto ai fini che lo rendevano giustificabile. La comunità internazionale doveva essere presa in considerazione riguardo a ogni scelta in materia di conflitti, e se così non era, la guerra non era giustificata, dato che il paese che trasgrediva di osservare tali propositi era qualificabile come aggressore. In sostanza il testo degli otto teologi, oltre a incoraggiare i cattolici ad aiutare gli sforzi della comunità internazionale per dotarla degli strumenti politici e giuridici idonei a regolare i conflitti aveva anche l’obbiettivo di intervenire sulla tradizionale dottrina cattolica circa la giustificazione della guerra, rapportandola alle condizioni storiche del momento, caratterizzate dall’esistenza della Società delle Nazioni e del potenziale distruttivo degli eserciti, al fine di circoscrivere i casi in cui la si poteva effettivamente accettare per legittimare un futuro conflitto. Si trattava insomma di ridurre l’applicabilità concreta della categoria della “giusta guerra” sulla base di un ricorso alla “ragione” che avrebbe dovuto convincere tutti gli uomini della sua validità. Ma nel mondo cattolico si moltiplicarono riserve e opposizioni verso le concezioni espresse dagli otto teologi, che divennero inaccettabili. IL ripiegamento Scarsa fiducia veniva anche dal mondo romano. Il gesuita La Brière aveva sviluppato la tesi che la patria, comunità naturale, esigeva da parte dei credenti l’esercizio di una carità che poteva arrivare al legittimo desiderio di una supremazia esterna dello stato‐nazione; tale forma di nazionalismo non era inconciliabile con la pace, a condizione che rimanesse nei limiti dell’etica cattolica che abbracciava tutti i popoli con un amore fraterno. Bisognava combattere il “nazionalismo immoderato, condannato dallo steso Pio XI. Nella gerarchia cattolica si diffondeva una sostanziale sfiducia sulla possibilità di costruire per via politica un pacifico ordine internazionale, ma anche la necessità di riservare, in quanto fattore irrinunciabile dell’etica cattolica, un netto privilegio alla nazione e ai suoi interessi (in questo momento c’è il fallimento della conferenza sul disarmo, l’uscita della Germania dalla Società delle nazioni, l’incapacità dell’istituto ginevrino di regolare i focolai di guerra accesisi in Asia e in America Latina). Il cardinale inglese Francis A. Bourne, in un discorso del 1932 palesava l’emergere di questi nuovi orientamenti. Riprendeva il tema svolto all’inizio del pontificato da Pio XI, dove solo la chiesa rappresentava la vera Società delle Nazioni cui affidarsi per stabilire pacifiche relazioni tra i popoli. Senza rinunciare a ribadire la condanna verso il nazionalismo immoderato, esaltava l’esempio del fascismo italiano, in cui un capo illustre aveva saputo restituire alla nazione ciò che la faceva realmente grande e rispettabile: il suo fondamento cattolico. In tutto il continente poi, l’accento della gerarchia cattolica si sposta dalla promozione della pace all’esaltazione della nazione. I discorsi del vescovo francese d’Angen, Sagot du Varoux ricordavano che nel presente, segnato allora dalla minaccia del revanscismo tedesco, i cattolici dovevano assumere precisi atteggiamenti: evitare simpatie internazionaliste, coltivando le virtù della patria, rifuggire l’idea dell’orrore della guerra e non gettare discredito sulle virtù militari e soprattutto prepararsi a combattere fino a quando i tedeschi non avessero dato prova di desideri di pace. Però non bisognava volgere come la Germania e l’Italia a sacralizzare la nazione impedendo ogni possibilità di pace, ma a differenza di queste accettare sì i preparativi militari per combatterle, ma senza rassegnarsi a questo come dato di fatto e considerare tutto questo uno sbandamento della vita collettiva ideale. Dalla discussione dei modi per garantire la pace si ritornava ad accettare l’inevitabilità della guerra. Alla metà degli anni Trenta nella stampa cattolica è oramai impossibile ritrovare posizioni a favore della documento di Friburgo. Rilevante testimonianza un volume apparso a Parigi nel 1934, del gesuita olandese Robert Regout. L’opera criticava le concezioni di Stratmann il cui pacifismo era giudicato moralmente lodevole ma teologicamente infondato e perciò incapace di produrre l’effetto sperato. Si è di fronte ad una svalutazione generali delle argomentazioni dei teologi di Friburgo. Regout sosteneva che anche nella guerra moderna, nonostante gli atroci mezzi bellici, restava valido il principio tradizionale della teologia cristiana, ossia rimaneva proporzionale il diritto che un conflitto si prefigurava di ristabilire e il ricorso alla violenza bellica che provocava per farlo. Ai suoi occhi la capacità distruttiva raggiunta dagli armamenti non appariva un criterio sufficiente per annullare la legittima possibilità di un conflitto, perché si presentavano comunque casi in cui la tutela della giustizia rendeva necessaria la pratica della guerra. Il ripristino dei supremi valori etici doveva essere raggiunto anche a prezzo di immani rovine. Sullo sfondo di questa concezione si profilava la concreta situazione storica del momento. Tenendo conto del suo atteggiamento antinazista e anticomunista, e possibile ritenere che il gesuita volesse ricordare che una difesa armata poteva rendersi necessaria per tutelare i principi di convivenza della civiltà cristiana. 10 Nel mondo cattolico entrambi i regimi, nazista e comunista, erano ormai visti un’antitesi a quel regno sociale di Cristo che sempre rappresentava il modello ideale di convivenza civile. La “guerra giusta” ritrovava, in questo momento, la piena validità. Capitolo V: Verso la seconda Guerra mondiale Il ritorno alla “guerra giusta” Attorno alla metà degli anni Trenta si delineava un ripiegamento della cultura cattolica verso una giustificazione etico‐religiosa della guerra; ma in una chiesa dominata dalla monarchia papale, per misurare la nota dominante di questa era l’atteggiamento pontificio, quello di Pio XI. Il discorso al sacro collegio tenuto per il Natale del 1934 mostrava ancora un papato in sintonia con quei settori della cultura cattolica che sottolineavano la difficoltà di una legittimazione religiosa della guerra moderna. Nell’allocuzione ai cardinali del 1935 Pio XI mostrava la sua preoccupazione dell’approssimarsi di un nuovo conflitto. Il papa ne sottolineava l’impossibilità morale, in quanto la guerra avrebbe portato allo sterminio dell’umanità. Se ne deduce, che Pio XI riconduceva l’immoralità del conflitto al coinvolgimento dell’intera società civile nelle calamità provocate dai moderni mezzi di distruzione. Sembra aver quindi assunto, in maniera attenuata, le elaborazioni della cultura cattolica che negli anni precedenti aveva cercato di legare una riconsiderazione della teologia della guerra giusta alle capacità distruttiva delle nuove tecniche belliche. Ma questa teoria sarebbe scomparsa dal mondo cattolico. La svolta sarebbe stata segnata dal conflitto italo‐etiopico. Nel luglio del 1935 alla lettura del decreto con cui si proclamavano l’eroicità e le virtù di Giustino Jacobis, missionario in terre africane, Pio XI affrontava l’argomento sottolineando la sua speranza di pace. Nell’agosto di quello stesso anno, svanita quella speranza, nell’allocuzione orale il papa espresse l’indicazione che si trattava di una ingiusta; il testo pubblicato lasciava trapelare il contrario, una giustificazione dell’aggressione italiana. A questo esito aveva portato il lavoro di revisione di Domenico Tardini, preoccupato, come buona parte della curia romana, delle reazioni del governo fascista alla linea espressa oralmente dal papa. La cosa importante rimane il fatto che, la tal revisione, fu mostrata al papa prima della pubblicazione, il quale, pur consapevole della manipolazione, ne permise la pubblicazione. Così l’atteggiamento della diplomazia vaticana, lasciava pochi dubbi sulla legittimazione romana della guerra imperiale voluta dal fascismo. Nel maggio del 1936, alla conclusione dell’aggressione coloniale italiana, che scardinava di fatto l’autorità della Società delle Nazioni, Pio XI proclamava che la giustizia trionfale di un popolo “grande e buono”, costituiva il preludio di un’autentica pace europea e mondiale. La posizione espressa dal vertice ecclesiastico si tradusse in vari settori della chiesa italiana in vera esaltazione bellicista. In altri ambienti, non solo in una rivista vicina al fascismo come “Vita e pensiero” dell’Università cattolica di Milano, ma anche in diversi giornali diocesani si assistette alla glorificazione dell’intervento militare italiano come via di espansione della civiltà cristiana attraverso le armi del regime. Anche l’atteggiamento dei vescovi si allineava a queste concezioni. In sostanza larga parte del mondo cattolico italiano elaborò una giustificazione religiosa della guerra etiopica. Gli articoli apparsi su “La civiltà cattolica” redatti da Antonio Messineo presentavano una tesi precisa: dal momento che la Società delle Nazioni non aveva la forza per far rispettare le proprie decisioni, toccava ai singoli stati promuovere la giustizia nelle relazioni internazionali. L’abolizione della schiavitù e uno sbocco territorialmente adeguato a una grande pressione demografica, sembravano motivi sufficienti per far sì che un’espansione coloniale rientrasse nella fattispecie di una guerra giusta. Alcune ragioni avanzate dalla propaganda fascista per la conquista dell’Etiopia venivano così presentate come valide anche per la dottrina cattolica. Finì la speranza per un appoggio cattolico alla Società delle Nazioni data la romana legittimazione dell’unilaterale impresa bellica dell’Italia. Da Roma si proclamava per ogni singolo stato la possibilità di imporre militarmente la giustizia attraverso una guerra. La posizione assunta dal papato comportava la dissoluzione delle revisioni cattoliche assunte dopo la Grande Guerra sui temi della pace, in particolare la valorizzazione dell’autorità internazionale come strumento per regolare le rivalità tra stati, ora caduta. Il mondo cattolico si presentava di nuovo sulla scena politica internazionale come un agente che si proponeva di definire la legittimazione morale dei conflitti, non più di cancellarne la possibilità di fronte alla catastroficità dei loro esiti. Toccava al gesuita La Brière prendere atto della situazione e formulare le nuove posizioni su cui si attestava la dottrina cattolica nella giustificazione della guerra. Significativo il titolo del libro che, pubblicato nel 1938, si proponeva di diffondere questa messa a punto: Le droit de juste guerre. Traditio théologique, adaptations contemporaines. Il filo conduttore era l’esposizione delle tradizionali tesi cattoliche in ordine alla legittimazione della guerra, la cui validità veniva poi verificata alla luce delle nuove condizioni politiche internazionali. Vi si sosteneva, con riferimento polemico ai firmatari del documento di Friburgo, che quel che era mutato a partire dagli anni Venti rispetto alla tradizionale concezione cattolica non era tanto la possibilità giuridica di una guerra, 11 ma che l’iniziativa di una guerra non doveva appartenere a uno stato ma a organismi qualificati della comunità internazionale. Riconoscendo così il fallimento della Società delle Nazioni si ritornava alle concezioni classiche di Tommaso d’Aquino, Francisco de Vittoria, Tipparelli d’Azeglio. La guerra veniva di nuovo disciplinata secondo quelle categorie di moralizzazione dello jus ad bellum e dello jus in bello di cui dopo la Grande Guerra si era sottolineata l’incompatibilità con la morale cristiana. Lo sforzo di privare la guerra della sua legittimazione religiosa, che aveva attraversato, in varie forme, il periodo tra i due conflitti mondiali ritornava al punto di partenza. Cultura comune e tendenze minoritarie La posizione di La Brière confermava le tesi diffuse da una prestigiosa istituzione cattolica, l’Union internationale d’études sociales. L’organismo nato a Malines nel 1920 sotto il patrocinio del primate del Belgio cardinal Mercier, operante dal 1926 sotto il suo successore cardinal Jozef Ernest van Roey, si era proposto di raggruppare studiosi cattolici da tutti i paesi europei (l’Italia era rappresentata dal gesuita Angelo Bruccelleri), nordamericani e anche asiatici, nell’intento d’approfondire e diffondere gli aggiornamenti della dottrina sociale della chiesa resi necessari dalle trasformazioni della vita economica. Nel 1937 il gruppo pubblicava a Parigi un volumetto, Code de morale internationale che si proponeva di fissare i principi etici cui dovevano soggiacere le regole del diritto internazionale nel disciplinare le relazioni tra stati. Un intero capitolo era dedicato alla guerra giusta, alle condizioni che rendevano morale il comportamento bellico. La tesi di fondo consisteva nell’affermazione che, in mancanza di un’efficace organizzazione internazionale di arbitrato, i singoli stati erano i soggetti deputati al mantenimento della giustizia. Fino a che la morale cristiana non avesse trionfato su tutti gli uomini, la guerra costituiva una triste realtà, e quindi era importante definire i criteri di giustizia e carità a cui i belligeranti dovevano attenersi. Andando contro le tendenze del mondo cattolico degli anni Venti e inizi Trenta, anziché cercare di rendere illeciti i conflitti, il volume, alla luce delle esigenze del cristianesimo, si preoccupava di una loro moralizzazione. In armonia con il cristianesimo intransigente, con la ripresa puntuale del relativo passo dell’Ubi arcano di Pio XI, dove si sosteneva che solo la subordinazione dell’organismo ginevrino alla chiesa, avrebbe potuto dare alla sua azione pacificatrice il successo che il papato aveva incontrato nella cristianità medievale. Non era del tutto scomparsa dal mondo cattolico la tesi che le condizioni della guerra moderna, non consentivano di considerarla un mezzo per ripristinare la giustizia, in armonia quindi con le teorie del documento di Friburgo. Questa linea emergeva nel volume Il santificatore, che il domenicano Mario Cordovani pubblicava nel 1939. Fu un grande sostenitore della Società delle Nazioni negli anni Venti. Cordovani alla vigilia del conflitto non si limitava a ribadire che le caratteristiche dei moderni scontri bellici rendevano impossibile una moralizzazione della guerra, ma richiedeva anche una coraggiosa revisione della dottrina cattolica sulla materia. Non era voce del tutto isolata quella del domenicano. Giorgio La Pira ex collega, alla Facoltà di Giurisprudenza dell’ateneo fiorentino, di Cordovani, proponeva sulla rivista “Principî” una valutazione analoga. Ma l’atteggiamento di La Pira mutò di fronte all’aggressione hitleriana alla Polonia, sostenendo infatti la necessità di muovere guerra contro i pagani nazisti e gli atei comunisti, portando esempi di come un tempo i cristiani furono chiamati a prendere le armi contro i Turchi per sostenere l’unità e l’esistenza del mondo cristiano. La crisi odierna, ci si rendeva conto, aveva ormai le stesse proporzioni: i “nuovi turchi” ancora più pericolosi minacciano da più parti la civiltà umana edificata da Dio. Così la conservazione della civiltà cristiana richiedeva la legittimazione della guerra, nella sua forma religiosamente più ampia, la guerra santa. Sparivano così le voci minoritarie che avevano riproposto gli orientamenti emersi tra gli anni Venti e Trenta. La giustificazione del coinvolgimento dei fedeli nella Seconda guerra mondiale sarebbe diventato un tema comune a tutta la cultura cattolica. La legittimazione pontificia della guerra Davanti all’aprirsi della conflagrazione, che la Santa Sede cercò fino all’ultimo di evitare con appelli alla pace, Pio XII 8 avrebbe riproposto la linea che Roma aveva ormai da tempo consolidato: nel suo insegnamento la proclamazione dell’imparzialità e della neutralità della Santa Sede si coniugava infatti con l’individuazione delle ragioni del conflitto nell’apostasia del mondo moderno dalla chiesa e nel conseguente flagello che Dio inviava agli uomini per indurli al pentimento; la presentazione del ritorno alla subordinazione alle direttive ecclesiastiche era l’unica via per ristabilire un’autentica pace. Nel discorso del 1939 il papa dichiara di volersi rifare in merito alla guerra al magistero di Pio X, Benedetto XV e Pio XI. Elemento che sottolinea tale linea è presente fin dalla prima enciclica programmatica Summi pontificatus, dove il papa ripropone le tesi intransigenti circa l’origine del conflitto. Pio XII vi individuava la ragione della guerra nel vortice degli errori moderni, in particolare la laicizzazione della società. A suo avviso, il rispetto di 8 Pio XII: nato Eugenio Pacelli. Papa dal 1939 al 1958. 12 quella dottrina di Cristo, di cui la cattedra di Pietro è depositaria, aveva garantito alla cristianità medievale, il fondamento della stabilità della vita privata e pubblica. Ma con il distacco progressivo dei popoli dalla fede, si è giunti a costruire un potere civile indipendente dalle leggi cristiane. Qui sta la causa vera e profonda degli scontri del presente. Gli articoli di Domenico Mondrone su “La Civiltà cattolica” esplicitavano queste valutazioni pontificie: “Dio detronizzato dalla società si ritorce contro di essa rivoltandole contro i moderni mezzi della scienza e della tecnica con cui si credeva di poterlo sostituire come guida società”. Era forte la tesi della guerra come punizione divina, il flagello come disegno provvidenziale. Nel ricevere il nuovo ambasciatore d’Italia, Galeazzo Ciano, il pontefice ritorna ad insistere sul conflitto come necessaria espiazione del rifiuto dei principi cristiani nella convivenza sociale. Quindi l’atteggiamento pontificio sulla guerra si palesava saldamente ancorato all’eredità intransigente e s’insisteva sulla tesi che solo il ritorno al supremo potere del papato sulla vita collettiva poteva garantire il raggiungimento della pace. Nella Summi pontificatus il papa ricorda amareggiato poi che non sottomettendosi i governanti al messaggio pontificio che avrebbe riportato la riconciliazione, non restava al papa che dedicarsi all’azione caritativa e umanitaria, posizione che ricorderà “La civiltà cattolica” faceva riferimento alla linea di Benedetto XV. Ancora una volta il papato quindi non poteva esercitare la funzione di giudice, ma sola quella di padre e maestro. Come già era accaduto per la Grande Guerra, questa linea romana consentiva alle chiese nazionali e ai cattolici impegnati su fronti contrapposti di legittimare la propria partecipazione alla guerra: se i conflitti erano frutto dell’apostasia del mondo moderno e sarebbero cessati con la ricostruzione di una società seggetta alla guida papale, i fedeli di ciascuna delle parti in lotta potevano ricorrere a questo schema generico per giustificare il proprio coinvolgimento nel conflitto. A differenza di Benedetto XV, Pio XII fece ampi riferimenti alla dottrina della guerra giusta, e nel 1940, dopo l’ingresso in guerra dell’Italia il papa ricordava le necessità di una piena subordinazione e obbedienza alle autorità civili. Palese incoraggiamento a sostenere lo sforzo bellico del paese sulla base di quel dovere di sottomissione al potere politico che costituiva una volta portante della dottrina della guerra giusta. Per Pio XII il conflitto non appariva in sé condannabile, erano i modi di condurlo che andavano misurati sulla base dell’etica cristiana. I mezzi con cui si combatteva la guerra avevano superato i confini di quanto permette una guerra giusta, quindi il papa indicava di evitare il ricorso a mezzi ancora più micidiali. Si cercava solamente di sostenere dei metodi più umani nella condotta della guerra, indubbiamente giudicata oramai giusta. Chiesa Italiana e guerra fascista Nel 1940 Pio XII aveva indicato la subordinazione e l’obbedienza dei cattolici alle scelte belliche del paese. La cultura con cui i cattolici vennero preparati al conflitto è ben mostrata da un opuscolo del 1940 con il titolo Moralità della guerra, di Angelo Bruccelleri, uno dei redattori di “La civiltà cattolica”. Una delle linee generali dell’opuscolo appare la critica dei tentativi del precedente decennio volti a mettere in questione la categoria della guerra giusta. Con riferimento al documento del 1929 che incoraggiava l’obiezione di coscienza, il gesuita sosteneva la coscrizione obbligatoria lecita nelle esistenti circostanze internazionali, e così vigeva per i cattolici il principio di presunzione a favore dell’obbedienza all’autorità che dichiarasse una guerra. Si allineava poi alle critiche volte da Rigout e La Brière alla consultazione di Friburgo del 1931, sottolineando in particolare che di fronte a un’aggressione bolscevica alla civiltà cristiana non vi poteva essere alcun dubbio sulla legittimità del ricorso alle armi, per quanto distruttive potessero essere. Si sottolineava il valore morale della guerra come via privilegiata per forgiare la coscienza nazionale e venivano presentati come nemici della chiesa e della cristianità, quello stato sovietico contro il quale si sarebbe indirizzata la guerra italiana a fianco del Terzo Reich. Il gesuita vedeva come auspicabile esito della conflagrazione mondiale ormai in corso, l’instaurazione in Europa dell’ordine prospettato da Mussolini, una romanitas alimentata dai valori della tradizione cattolica. Quando si svilupparono le operazioni militari la cultura cattolica italiana mostrò una piena adesione all’ideologia che, legando la guerra alla ricostruzione della cristianità, permetteva, come già successo nella Prima guerra mondiale, di coniugare secondo le aspirazioni dei cattolici militanti nei due schieramenti contrapposti, l’adesione alle direttive papali con i propri specifici obbiettivi bellici. Sul versante italiano tale linea trovò illustrazione in un contributo intitolato Questa guerra che Giovanni Papini nel 1941 inserì nel suo volume Italia mia: la vittoria dell’Italia era vista come il rovesciamento di quella modernità che, a partire dalle rivoluzioni settecentesche, aveva sottratto alla chiesa la direzione della società. L’Annuario cattolico, compilato dagli ambienti clerico‐ fascisti contribuiva poi a celebrare nel regime la fusione tra cattolicesimo e bellicismo. Da tali ambienti si evince che la chiesa ammetteva la guerra giusta come via per ripristinare il diritto. La guerra di un’Italia, equiparata dalla propaganda fascista all’Impero romano, veniva presentata come destinata a stabilire un nuovo ordine internazionale i cui principi organizzativi avrebbero corrisposto alle direttive del papa. Si intravedeva la tesi che la conflagrazione avrebbe riportato il ripristino della suprema autorità papale sulla comunità dei popoli, che nella tradizione della cultura intransigente rappresentava la condizione di un’autentica pace. In quest’ottica alle armi del regime si affidava, in armonia con gli indirizzi papali, il ritorno della cristianità. Non bisogna mancare di sottolineare il materiale prodotto in funzione di impetrare dal cielo la 13 vittoria della armi italiane. Un esempio è l’attività svolta dalla milanese Opera della regalità. Tra 1939 e il 1940 il suo periodico “Adveniat”, al momento dell’entrata in guerra dell’Italia invitava alla preghiera per il trionfo bellico, attraverso un’articolata serie di iniziative. Si cominciava, in settembre, con l’elaborazione e la diffusione del testo di Invocazioni ai santi militari, poi in novembre si pubblicavano le Invocazioni ai santi protettori. Il testo da cui queste Invocazioni partivano era fornito da Litanie per la patria, elaborate per alimentare un atteggiamento nazional‐cattolico nella Prima guerra mondiale. Le preghiere dei santi, venivano ripiegate in funzione dei temi della propaganda fascista. Ne risultava un’orazione dall’inequivocabile caratterizzazione: pregare per favorire il nuovo impero romano creato dal regime, l’espansione della chiesa cattolica, e anche per conseguire la grandezza della patria, che definita attraverso il richiamo della dignità di stirpe, persino sul piano biologico, veniva presentata come suprema portatrice di civiltà e contrapposta ai nemici ridotti al rango di barbari. La religione era piegata totalmente all’adesione del regime fascista. L’Opera si impegnò anche nella riproposizione del culto del Sacro Cuore. Attraverso la diffusione di questa pratica si mirava ad ottenere un’intensificazione della vita religiosa del singolo, ma al contempo si collegava ad essa il trionfo dell’esercito italiano. L’obbiettivo ultimo, in sintonia con i caratteri ierocratici da tempo assunti dalla devozione, appariva la restaurazione del regno sociale di Cristo, ma nella concretezza si trattava del nuovo ordine mondiale prospettato dall’Asse. Capitolo VI: Dopo la bomba atomica: la riproposizione dell’obiezione di coscienza Le incertezze romane Prima del bombardamento atomico del 1945 su Hiroshima e Nagasaki, la cultura cattolica seppur sensibile al problema della potenza delle nuovi armi micidiali, sembrava non voler attuare aggiustamenti alla dottrina tradizionale. L’impiego dell’ordigno atomico era destinato a spostare la questione. Le riviste come “L’Osservatore Romano” e “La civiltà cattolica” sembravano fare emergere la consapevolezza che si era superato il limite nella conduzione delle operazioni militari. Nel settembre del 1945 padre Brucculeri descriveva con forti accenti le mostruose capacità distruttive della nuova arma, senza trarne però conseguenze sul piano morale e non congedando la dottrina della guerra giusta, ne ribadiva anzi la validità. Negli anni quaranta la scarsa attenzione del mondo cattolico verso il pericolo nucleare era diffusa, solo a partire dal decennio successivo, anche in seguito agli esperimenti sovietici, si cominciò a mostrare più interesse alla questione. Non mancavano eccezioni comunque, quei teologi che dopo il primo conflitto mondiale sostenevano l’impossibilità di associare a uno scontro bellico il perseguimento della giustizia per la sproporzione tra mezzi e fini, videro subito nello scenario catastrofico immaginato di una eventuale conflagrazione nucleari nuovi motivi per consolidare la loro argomentazione. Così il domenicano Stratmann, teneva nel settembre del 1948 una conferenza al Congresso cattolico di Magonza in cui sottolineava che anche una guerra difensiva non poteva più essere vista come una via per ristabilire il diritto, dal momento che alla sua conclusione l’umanità avrebbe incontrato difficoltà per la sua stessa sopravvivenza. Nel nuovo contesto postbellico, alle voci dei teologi legati alla precedente cultura “pacifista”, sembrò unirsi anche quella di un personaggio assai autorevole a Roma. Nel 1947 usciva la terza edizione delle Institutiones iuris pubblici ecclesiastici di Alfredo Ottaviani, futuro cardinale nel gennaio del 1953, ma già assessore della Congregazione del Sant’Ufficio e noto collaboratore di Pio XII. Nell’edizione precedente del 1925 la questione della guerra era stata trattata in poche righe circa le condizioni che permettevano di qualificarla come giusta. In questa edizione invece il tema era ampiamente sviluppato e collocato sotto un nuovo titolo indice dell’avvenuto mutamento: Brllum omnino interdicendum. L’argomentazione era inequivocabile: i tempi presenti avevano reso i caratteri della guerra contemporanea talmente distruttivi che la visione tradizionale circa il perseguimento della giustizia tramite questo mezzo, doveva essere rivisitata. Non arrivava a scardinare la dottrina della guerra giusta, si arrestava infatti davanti all’intangibilità del principio di legittima difesa, che la tradizione cattolica faceva rientrare in quella sfera del diritto naturale di cui la chiesa si era proclamata autentica ed esclusiva depositaria, sicché toccare questa ambito voleva dire incrinare l’intera impalcatura concettuale riguardante l’atteggiamento ecclesiastico verso la società. Il prelato poneva comunque condizioni assai restrittive per la legittimazione della guerra difensiva: non la si poteva intraprendere a meno che un governo non fosse sicuro della vittoria e della prevalenza del bene eventuale sul male che la guerra avrebbe portato. La conclusione di Ottaviani è di particolare valore: “ se i rappresentanti del popolo o lo stesso popolo avessero prova evidente che il governo stia preparando una guerra offensiva, possono e devono sovvertirlo”. Quindi un’affermazione questa che andava contro alla tradizione teologica che insisteva trattando dei conflitti, sul rispetto e l’obbedienza all’autorità. Su queste posizioni anche Cordovani con il suo libro Il santificatore e Corso di teologia cattolica. Insomma da queste visioni se ne deduce che la guerra non poteva più essere uno strumento di giustizia, in quanto atto universale di distruzione. Questi autorevoli personaggi curiali, davanti ai catastrofici esiti dell’impiego dell’energia atomica, sollecitavano dunque una revisione della dottrina tradizionale. 14 Pio XII non si assesterà su queste posizioni, ricevendo un gruppo di senatori statunitensi il 7 ottobre 1947 aveva evocato la vittoriosa difesa della civiltà cristiana, e collegando il pericolo del lontano nemico turco all’attuale comunismo suggeriva una legittimazione religiosa di un eventuale scontro bellico con la Russia sovietica. Quindi posizioni incerte a Roma riguardo all’uso dell’arma atomica. La cautela pontificia sull’argomento è riconducibile alla difficoltà di conciliare due radicati convincimenti: non si poteva rinunciare al principio naturale della legittima difesa, reso acuto dal timore di un’espansione comunista e al contempo si valutava immorale la guerra moderna con le sue potenzialità distruttive. Una spinta che farà emergere questi contrastanti orientamenti arriverà da alcuni ambienti cattolici che assoceranno al rifiuto della conflagrazione atomica alla promozione dell’obiezione di coscienza. Le aperture all’obiezione di coscienza In alcune note del suo manuale Ottaviani non aveva mancato di ricordare che la coscrizione obbligatoria costituiva una delle condizioni che rendevano la guerra moderna così disastrosa. Il che può far domandare se il rifiuto della leva di massa era diventato o meno uno strumento legittimo per opporsi all’eventualità di un conflitto le cui conseguenze lo rendevano automaticamente ingiusto. Alcuni teologi hanno risposto a questa domanda in maniera positiva. La questione si manifestò dapprima in Francia dove alcuni deputati dell’Assemblea Nazionale, tra cui due ecclesiastici, presentarono nel dicembre 1949 un progetto di legge tendente a creare un servizio civile destinato agli obiettori di coscienza per ragioni religiose e morali. Analogo procedimento lo ritroviamo in Italia, presentato al Parlamento italiano da due deputati: uno dei due firmatari era una personalità cattolica di rilievo, Igino Giordani; l’altro Umberto Calosso. Iniziò dunque un dibattito nel mondo cattolico. Il gesuita Alfred de Soras sosteneva che fino a quando restava in piedi la possibilità di una giusta guerra difensiva, come era il caso della situazione storica in corso dove vi era la minaccia dell’espansione sovietica, non si poteva incoraggiare il sottrarsi alla leva, ma ogni cristiano all’apertura di un conflitto doveva rimanere vigile per valutare concretamente se la giustizia richiedeva o meno la partecipazione alla guerra. Il domenicano Alfred‐Marie Congar delle stesse opinioni, collocava l’obiezione di coscienza tra le cose “impossibili e necessarie” allo stesso tempo. Impossibili in quanto nell’esistente contingenza politica l’obiettore di coscienza recava un danno al bene comune della difesa della sua patria; ma anche necessarie in quanto in un presente che cerca nuove vie di moralità collettiva, questi forniva un servizio utile in vista dell’avvenire. Il domenicano poi auspicava che anche in Francia si provvedesse a disciplinare le modalità giuridiche per un riconoscimento dell’obiezione di coscienza. Intervenne sull’argomento anche padre Messineo su “La civiltà cattolica” nel 1950 per ribadire con decisione la tradizione della chiesa in materia. Spiegava che la coscrizione obbligatoria, pur deprecabile, non poteva essere rigettata in una situazione in cui il suo rifiuto metteva in pericolo l tutela del “sacro diritto” di uno stato alla sua indipendenza. Concludendo che, pur essendo sempre lecita l’obiezione di coscienza a una legge ingiusta, la decisione in materia non poteva essere lasciata alla libera scelta di un singolo individuo pena la competa dissoluzione della vita associata. Nonostante il ribadimento della concezione tradizionale, nel mondo cattolico francese si svilupparono ulteriori tendenze a un suo ripensamento. Nel marzo del 1950 il Comité théologique de Lyon dedicava una delle sue periodiche note dottrinali destinate a orientare l’attività pastorale dei sacerdoti a L’objection de coscience et la pensée catholique. La tesi svolta partiva dalla considerazione che la moderna guerra totale, per quanto resa distruttiva dall’impiego dell’energia nucleare, non inficiava in linea di massima la teologia della guerra giusta: esistevano mali peggiori, riferimento implicito era al pericolo di una sovietizzazione dell’Occidente, la schiavizzazione generale introdotta da un potere mondiale che negava il rispetto della persona. Tuttavia gli autori non si limitavano a dichiarare che in tempo di pace si poteva riconoscere almeno un servizio alternativo a quello militare. Alla tradizionale condanna si sostituiva così una cauta disponibilità a riconoscere per la costruzione di un mondo pacifico il valore di un atteggiamento di rifiuto delle armi, che se non si riteneva potesse essere universalmente praticato, doveva comunque essere rispettato. Il gesuita Alfred de Soras sviluppò poi ulteriormente questa linea modificando le posizioni che precedentemente egli stesso aveva tenuto. Sosteneva infatti che senza mettere in discussione la liceità dell’uso delle armi, potendo esistere un’ingiusta aggressione, occorreva anche riconoscere che all’interno della comunità cristiana vi fossero dei “profeti”, che fornivano un servizio alla causa cristiana, impedendo agli atti di guerra giusta di disgregarsi, divenendo atti senza ideali e regole. Dal dibattito alla condanna Gennaio 1951, la rivista “Aggiornamenti sociali” dei gesuiti milanesi, esprimeva il suo parere in merito all’obiezione di coscienza. Escludeva per il singolo cittadino la possibilità, richiamando il principio di presunzione a favore dell’autorità politica, di valutare la giustizia di una guerra, anche nucleare. Per contro si sottolineava l’inopportunità di una disciplina legislativa che offrisse un servizio sostitutivo al servizio militare, in quanto poteva essere soggetta a malintenzionati, politici specialmente, i quali avrebbero potuto operare ai danni 15 dello stato. Le stesse questioni erano sostenute dalla rivista fiorentina “L’Ultima” con l’articolo del direttore, Adolfo Oxilia, che sosteneva fosse impossibile per uno stato legalizzare un tale atteggiamento. Quindi molte posizioni contrastanti e contrarie all’obiezione di coscienza, ma più marcati ancora erano gli interventi contro la legittimazione dell’obiezione di coscienza da parte degli organismi ufficiali delle istituzioni ecclesiastiche. In Francia tratterà il tema il gesuita Gaston Fessard il quale sostiene che il pacifismo dell’obbiettore di coscienza è altrettanto nemico della pace quanto lo sia il nazionalismo rispetto alla nazione. Si schierava poi apertamente contro a chi sosteneva il carattere profetico del rifiuto al servizio militare, sostenendo che i teologi che avanzavano certe ipotesi si sbagliavano in quanto il giudizio della chiesa sul profetismo è sempre retrospettivo e mai preventivo. Il Professore della Facoltà cattolica di Tolosa, René de Naurois, nel 1953 sosteneva che non poteva essere ammessa l’obiezione di coscienza in quanto frutto di una sbagliata percezione della nonviolenza e anche uno statuto legale per l’obbiettore era riprovevole, in quanto significava legittimare da parte dello stato quel principio di non resistenza al male che avrebbe condotto alla dissoluzione anarchica. Nel 1955 a Parigi si svolgeva il congresso di Pax Christi, il movimento che, dopo il riconoscimento di Pio XII, appariva ormai come autorizzato interprete degli orientamenti ecclesiastici sui problemi della pace internazionale, affidava l’argomento al domenicano Ducatillon, il quale sosteneva che nonostante i nuovi mezzi nucleari era comunque valido il diritto della legittima difesa, che per essere tutelata necessitava la coscrizione militare, l’obiezione di coscienza contrastava essa stessa l’obbiettivo di pace che intendeva perseguire. Così autorevoli organismi legati all’istituzione ecclesiastica manifestavano il loro atteggiamento negativo verso l’obiezione di coscienza. In questa repulsione giocava ovviamente un ruolo centrale la paura di lasciare campo all’espansionismo sovietico e alla sovversione comunista. Posizione che trovò conferma nel magistero di Pio XII, il quale richiamava nel convegno di Pax Christi del 1952, la necessità della difesa da eventuali aggressioni del blocco comunista, ricordando poi che la chiesa diffidava di ogni propaganda pacifista. Per Pio XII anche davanti alla minaccia atomica la guerra poteva diventare lecita, sicché al fedele non era permesso sottrarsi agli obblighi militari. Il papato aveva espresso il suo giudizio, e le teorie sulle quali si basavano i fautori dell’obiezione di coscienza, sostenendo che l’autorità ecclesiastica non aveva preso posizione, caddero. Lo stesso Ottaviani, l’assessore del Sant’Uffizio registrò il mutamento nella sua nuova edizione, la quarta del 1958, del suo manuale di diritto pubblico, cancellando la possibilità di ogni ripensamento in merito alla materia. La minaccia del totalitarismo sovietico induceva a ritenere possibile l’eventualità di una guerra e quindi, sia pure sotto la specie difensiva, a legittimarla. In questo contesto risultava moralmente ingiustificabile il sottrarsi al servizio militare. La questione non era chiusa, il dibattito si riaprirà agli inizi degli anni sessanta nel nuovo clima ecclesiale di Giovanni XXIII, che doveva poi sfociare nel concilio Vaticano II: che avrebbe sancito l’auspicio ecclesiastico per una legalizzazione dell’obiezione di coscienza. Ma ora si poneva un altro tema, sviluppatosi parallelamente a quello affrontato: le prese di posizione del mondo ecclesiastico in ordine alla liceità del conflitto nucleare. Capitolo VII: La “giustizia” della guerra ABC9 I dispareri dei teologi Nel 1947 padre Brucculeri, uno dei pochi membri italiani dell’Union internationale d’études sociales, dava conto su la “Civiltà cattolica” delle discussioni tenute a Malines in vista della revisione del Codice di morale internazionale, redatto dieci anni prima, alla luce dei nuovi problemi sorti nel secondo dopoguerra. Tra questi l’impiego delle armi nucleari. Il gesuita notava che opposti erano i pareri circa la loro utilizzabilità. Il testo revisionato appariva partecipe di poche modificazioni, unico auspicio era che i governi si mettessero d’accordo per prescrivere l’uso delle armi. Dispareri in merito affioravano anche in campo protestante. La commissione incaricata nel giugno 1946 dalla chiesa anglicana di studiare i problemi morali posti dalla bomba atomica, era giunta nel febbraio del 1948 a una risoluzione che, richiamando il valore della tradizionale concezione della guerra giusta, ne condannava l’uso indiscriminato, ma allo stesso tempo proclamava la legittimità per un governo preoccupato della sicurezza nazionale di costruire nuovi ordigni e in caso di necessità difensiva di utilizzarli contro il nemico, identificato nell’Unione Sovietica. Nello stesso anno il contrasto tra opposte posizioni riemerse alla prima assemblea del ginevrino Consiglio ecumenico delle chiese. Nel comune pensiero che i nuovi mezzi di distruzione necessitavano di una revisione della tradizionale teoria della guerra giusta, si erano registrate al suo interno molte differenze tra la liceità o illiceità di un possibile conflitto atomico. In campo cattolico le incertezza sembravano doversi ricomporre sulla base degli orientamenti del magistero pontificio. Il teologo belga Jacques Leclerq sosteneva infatti che, sulla base degli interventi papali era facile definire la concezione cattolica sulla materia. L’apparire sulla scena bellica dell’arma atomica implicava solo un 9 Atomica Batteriologica Chimica. 16 aggravamento quantitativo del male inerente agli scontri bellici, sicché si trattava di trovare un’adeguata applicazione della dottrina tradizionale. A tal fine bastava applicare più opportuni e restrittivi vincoli alla liceità della guerra difensiva, la cui conduzione, in caso di suprema tutela dei valori cristiani, poteva implicare anche l’uso della nuova arma. Quindi la sua convinzione era che, sia pure a certe condizioni, la dottrina cattolica legittimava un conflitto nucleare. Ma non era parere condiviso dato che in campo cattolico le preoccupazioni in merito all’uso delle nuove armi erano aumentate all’annuncio del 1949 del Presidente Truman, che dichiarava il possesso sovietico della bomba atomica. Il domenicano Strattman nel 1950 sosteneva infatti che il conflitto atomico doveva essere rifiutato dal credente. L’insegnamento papale prese vie contrapposte. A complicare ulteriormente la situazione arrivava l’ Appello di Stoccolma. Il documento era stato pubblicato nel marzo del 1950 dal Consiglio mondiale dei partigiani della pace, un organismo vicino ai partiti comunisti, in seguito all’annuncio del presidente Truman dove veniva dichiarato che egli aveva dato il via libera agli studi per preparare un’arma termonucleare. Il documento chiedeva l’interdizione dell’arma nucleare per le capacità distruttive e vi si dichiarava che il governo che per primo ne avesse fatto utilizzo commetteva un crimine contro l’umanità. L’appello fece una certa breccia nel mondo cattolico. In particolare un gruppo di 46 personalità cattoliche francesi, assai noti per il ruolo nella stampa e nell’associazionismo ecclesiale, firmavano un documento che, preceduto da alcune frasi tratte dal messaggio natalizio di Pio XII e dal capitolo del manuale di diritto pubblico di Ottaviani, assicurava sostegno all’ Appello di Stoccolma in quanto strumento di pressione sui governi, affinché aprissero un negoziato internazionale per il disarmo e per giungere a proclamare crimine contro l’umanità l’impiego bellico dei nuovi ordigni. La stampa francese si mostrò subito opposta all’Appello in quanto lo riteneva uno strumento di propaganda a favore dell’Unione Sovietica, ma un importante settore della si mostrò sensibile ai temi presenti. In curia erano probabilmente vive le incertezze testimoniate dal silenzio pontificio sulla liceità dell’arma atomica. In ogni caso un evento produsse un irrigidimento dei vertici ecclesiastici. Il 25 giugno 1950 iniziava la guerra di Corea. Sembrò allora profilarsi la possibilità di una nuova conflagrazione mondiale. Immediatamente si aggravarono in ambito cattolico i sospetti sulle iniziative del Movimento dei partigiani della pace, e il pensiero che volessero far abbassare ai cattolici la guardia, con la discussione sul bando dell’arma atomica, al fine di facilitare la penetrazione della rivoluzione bolscevica. Il Movimento venne quindi visto come dipendente da Mosca e strumento per scatenare la guerra rivoluzionaria. Un primo intervento pontificio e le sue ricezioni La nuova situazione internazionale, con la guerra di Corea produsse se non un’esplicita dichiarazione papale in merito, un più chiaro atteggiamento della Santa Sede sulla guerra moderna. Sul piano organizzativo Pio XII affidò a Pax Christi il compito di esprimere l’ortodossa posizione cattolica in merito al conseguimento della pace. Nel discorso del 1952 al convegno di Pax Christi svoltosi ad Assisi, che ne fissava le linee programmatiche, il papa non prese posizione diretta sull’uso delle armi atomiche, per quanto la sua affermazione che rimanevano valide, anche nella situazione contemporanea, le regole tradizionali sulla legittima difesa potessero suonare come un implicito riconoscimento della loro liceità. Un primo chiarimento papale arrivò dalle due encicliche del luglio 1950, dove veniva sottolineato il carattere terrificante delle nuove armi e si invitavano i fedeli alla preghiera per invocare dal Signore il mantenimento della pace. Il dato evidente dei documenti stava tuttavia nell’insistenza del pontefice sul nesso inscindibile tra pace e riconoscimento pubblico dei diritti della religione cattolica. Si riaffermava con forza la tesi centrale della tradizione intransigente: solo il ritorno all’osservanza del cattolicesimo era in grado di assicurare pacifiche relazioni tra i popoli. Il papa richiamava l’attenzione non tanto sull’arma atomica quanto sull’impegno alla costruzione di una società cristianamente ordinata. Nel radiomessaggio natalizio del 1952 il papa sembrava voler dare una risposta più diretta al problema. Il papa nn escludeva che anche nell’epoca nucleare potesse darsi una guerra lecita ed esprimeva un criterio di giudizio sull’utilizzazione delle armi atomiche: la questione non riguardava il loro impiego materiale, ma la tutela di un retto ordine del consorzio umano. Ventilava la possibilità di un uso delle armi atomiche in caso fosse in discussione l’unico valore assoluto, la difesa della civiltà cristiana, che doveva essere garantito. Non cessarono le discussioni intorno alle interpretazioni della concezione papale. All’incontro della Semaine sociale de France, tenutosi a Pau nel 1953 e dedicato al tema della guerra e della pace i domenicani Delos e Ducatillon avevano cercato di tradurre la linea papale, asserendo che essa implicava un aggiornamento della dottrina cattolica sulla guerra. Ducatillon sosteneva che la guerra distruttiva moderna poneva in discussione la teoria tradizionale sulla guerra: la guerra era diventata talmente mostruosa che nessun conflitto poteva corrispondere alle condizioni in cui quella teoria era stata elaborata. Tra i teologi Charles Journet sosteneva la possibilità di “invasioni liberatrici” nel caso in cui i comunisti alimentassero guerre civili allo scopo di affermare all’interno di uno stato un regime totalitario, o di “guerre preventive” nel caso in cui i paesi del blocco sovietico manifestassero volontà di aggressione. In questa 17 prospettiva quindi non solo guerre difensive, ma anche altri tipi di guerre, purché limitate, potevano prevedere il ricorso agli ordigni nucleari. La precisazione della linea papale Verso la metà degli anni 50’ Pio XII sembrava voler finalmente specificare quale atteggiamento si doveva tenere nei confronti della possibilità di un conflitto condotto con armi atomiche, batteriologiche e chimiche. La motivazione era probabilmente la paura di un terzo conflitto mondiale. Due concezioni emersero dalla linea papale: da un lato la proclamazione dell’immoralità di una guerra generale condotta con armi “ABC”; dall’altro lato l’affermazione che la salvaguardia del principio naturale dell’autotutela poteva portare al ricorso di quelle stesse armi. Di qui lo sforzo di porre una serie di condizioni assai restrittive per fissarne un uso compatibile con le tradizionali regole di moralizzazione della guerra: il preventivo sforzo per evitare ad ogni modo il conflitto, la limitazione nell’impiego di tali armi, una motivazione esclusivamente con finalità difensive. L’intervento papale dunque chiariva che solo una guerra difensiva risultava moralmente lecita, ma in tal modo indicava che l’uso delle armi atomiche, pur a condizioni assai circoscritte, poteva ancore rientrare nella fattispecie della giusta guerra. L’invasione sovietica dell’Ungheria del 1956 sembrò fornire l’occasione per una puntuale verifica verifica dell’atteggiamento pontificio. Il papa indicò due linee: da un lato indisse una “crociata” di preghiere allo scopo di ottenere dalla Provvidenza la fine delle violenze in terra ungherese; dall’altro lato ricordò che solo il ristabilimento di un “retto ordine” avrebbe portato alla pace. Quando i carri armati sovietici ristabilirono il potere comunista, il pontefice elaborò una riflessione nel radiomessaggio natalizio del 1956. La linea del papa era chiara: la lesione del diritto compiuta dall’Unione Sovietica nella questione ungherese non si configurava in termini tali da richiedere da parte vaticana il bando di una guerra contro di essa; ma restava ben fermo che Roma, qualora lo ritenesse opportuno, manteneva la facoltà di lanciarla, presentandola anche nei termini di una “guerra santa”. Il papa sembra poi avere auspicato un’azione militare delle Nazioni Unite nella crisi ungherese per impedire all’Unione Sovietica di imporre nuovamente il regime comunista. Giudicava che la legittima rivolta popolare contro il regime comunista avrebbe dovuto essere appoggiata, anche in termini militari, dall’ONU. Si apriva così un dibattito nel mondo cattolico che, a prescindere dalla questione ungherese, affrontava la possibilità di un impiego bellico delle armi nucleari nella situazione politica di quegli anni. Sette autorevoli teologi moralisti si riunirono nel maggio del 1958 a Würzburg e stilarono un manifesto che ribadiva, davanti alla minaccia dell’espansione del comunismo, la liceità della guerra difensiva. L’atteggiamento pontificio, assorbito da autorevoli esponenti della cultura cattolica, sembrava quindi consentire la proliferazione delle armi nucleari. Le diverse posizioni su questo punto si manifestarono in un simposio tenutosi ancora a Würzburg, dall’Accademia cattolica di Baviera e dalla Würzburger Domschule sul tema della possibilità di far rientrare la guerra atomica nella fattispecie di guerra giusta. Il gesuita Gustav Gundlach, utilizzando alcuni documenti di Pio XII, affermava che restava ferma la liceità dell’impiego delle armi nucleari nella difesa dei supremi valori della civiltà cristiana, anche a prezzo della distruzione del mondo. Per contro Clement Münster, uno scrittore cattolico che dirigeva la televisione bavarese, vi proclamava che la limitazione papale circa l’uso dell’arma atomica riguardava il suo utilizzo in un preciso raggio d’azione, su un bersaglio circoscritto, ma dato che le conseguenze non sono prevedibili per le polveri radioattive e non sono controllabili gli effetti delle esplosioni nucleari e termonucleari, ne derivava che, una coerente adesione all’insegnamento papale in realtà richiedeva la totale messa al bando di tali ordigni. L’insegnamento del papa si rifrangeva di nuovo in una visione assai frastagliata. Guerra atomica, difesa della civiltà cristiana e “public policy” americana Nel 1958 la sezione francese di Pax Christi pubblicava un ampio volume dove si affidava al gesuita, padre. de Soras, la trattazione sulla questione dell’uso delle armi nucleari sotto il profilo etico. Il gesuita, sviluppava la sua argomentazione partendo da un’ampia e puntuale citazione dei testi di Pio XII, giungeva alla giustificazione di una guerra atomica geograficamente circoscritta. Soras, ritenendo moralmente legittima, sulla base dell’insegnamento pacelliano, l’uso dell’energia nucleare a circoscritti fini bellici, affermava che la scelta concreta di un suo impiego spettava esclusivamente alla coscienza (illuminata dalla morale cristiana dispensata dal clero) dei governanti. Ma questa autonomia attribuita ai detentori del potere pubblico venne presto messa in questione dal gesuita americano Jhon Courtney Murray, una figura di primo piano nella teologia politica nordamericana. Negli Stati Uniti, si avviò un dibattito all’interno della chiesa cattolica, nella seconda metà degli anni 50’. Su una rivista “Theology Digest” apparivano nel 1957 i contributi di due gesuiti, Jhon Connery e Jhon C. Ford, professori di teologia morale. Ford aveva sostenuto l’immoralità dei bombardamenti a tappeto nella Seconda guerra mondiale, si schierava contro il ricorso delle armi nucleari, anche se controllato, mentre Connery ne affermava la 18 liceità. É proprio su questo dibattito che interveniva Courtney Murray. Questi spostava però i termini del confronto. Collegava la questione della guerra nucleare a due temi nodali nella cultura politica statunitense: la piena integrazione del cattolicesimo nella vita pubblica nordamericana e il ruolo degli Stati Uniti nello scenario politico mondiale. Ribadendo la liceità morale, anche nella situazione odierna, del ricorso alle armi nucleari in vista di una legittima difesa, il papa aveva indicato la via da percorrere. Si trattava secondo il gesuita, di applicare alla concreta condizione politica del momento, caratterizzata dalla possibilità di una guerra ABC, quei criteri che nella tradizionale riflessione cristiana circoscrivevano i confini della guerra giusta: essa doveva essere la risposta a una gravissima violazione del diritto; ci voleva proporzione tra i mali indotti e beni conseguiti; l’apertura delle ostilità doveva avvenire solo dopo aver tentato ogni altra via. In questo contesto l’uso delle armi nucleari, configurandosi all’interno di una guerra “limitata” da quei criteri che ne garantivano la giustizia, diventava legittimo. Courtney in particolare lavorò sulla mobilitazione che il mondo cattolico del suo paese doveva attuare al fine di ottenere che la società statunitense assumesse come condiviso ethos pubblico (public policy) l’aggiornamento della dottrina della guerra giusta delineato nei suoi interventi. Courtney Murray riteneva che gli Stati Uniti dopo il secondo conflitto mondiale, avessero acquisito la responsabilità di orientare complessivamente la politica mondiale. A questo scopo non potevano limitarsi all’opposizione al comunismo, ma dovevano farsi promotori di una prospettiva di giustizia capace di ottenere un consenso generale. Proprio subordinando la loro politica agli imperativi della legge naturale avrebbero potuto presentarsi sulla scena mondiale come portatori di una prospettiva capace di sconfiggere sul piano politico, come su quello spirituale, la demonica minaccia comunista. Non si trattava quindi di lasciare ai governanti la responsabilità dell’impiego dell’energia atomica; bensì di ottenere una loro adesione alle regole fissate dalla chiesa tramite il funzionamento di una società democratica. Se teniamo presente che per il gesuita, queste sue proposte corrispondevano all’insegnamento pontificio e che nella concezione cattolica il papa rappresentava il depositario dell’interpretazione della legge naturale, possiamo comprendere le implicazioni di questo “americanismo”. Alla base dell’orientamento di Courtney stava l’intenzione di far assumere la linea romana a guida della politica americana in ordine all’uso delle armi nella moderna guerra totale. In tal modo in fondo gli indirizzi del papato diventavano anche i principi etico‐politici che sorreggevano il modello politico americano e ne assicuravano la leadership mondiale. La linea del gesuita, che pure con l’ascesa alla presidenza del cattolico Kennedy pareva acquisire effettivo rilievo politico non trovò però unanime accoglienza all’interno dello stesso mondo cattolico statunitense. A controbattere le sue concezioni sulla guerra interveniva il trappista Thomas Merton. Non cadeva l’individuazione delle cause dei conflitti nel disordine interiore dell’uomo contemporaneo e nel suo abbandono del cristianesimo, ma questa valutazione si accompagnava con la pressante richiesta che i credenti si impegnassero per l’adempimento del compito che riteneva conforme il disegno divino sul mondo: la totale eliminazione della guerra nucleare per la sopravvivenza dell’umanità. Merton che intitolava significativamente la sua opera Peace in the Post‐christian Era metteva in dubbio proprio l’obbiettivo che Courtney si era proposto: definire una dottrina che sarebbe dovuta diventare, attraverso la sua piena introiezione a livello della società civile; la direttiva per le linee d’azione dell’autorità politica. Sosteneva infatti che la teoria della guerra giusta come criterio ispiratore del potere pubblico aveva una sua plausibilità in tempi cristiani, ma qui tempi erano passati, dal momento che si viveva in un’epoca post‐cristiana. I tempi odierni vedevano l’autonomia della politica, dunque le armi atomiche non sarebbero mai state usate in una guerra limitata dai criteri di giustizia dettati dalla morale cristiana. La prospettiva del gesuita veniva così capovolta: il tema del conflitto nucleare, lungi dal portare a un accostamento tra chiesa e autorità civili, ne segnava una radicale separazione. Il trappista sottolineava che il credente non solo poteva rifiutare di prestare il servizio militare che gli era chiesto dall’autorità civile, ma era moralmente tenuto a sottrarsi ad essa. Il combattimento del comunismo certo doveva avvenire, ma con le sole armi concesse in una società post‐ cristiana. I credenti avrebbero dovuto mobilitarsi per ottenere dai governi una decisa azione per favorire un negoziato volto a conseguire un disarmo multilaterale che cancellasse l’esistenza stessa degli ordigni nucleari e al contempo lavorare per una organizzazione internazionale capace di abolire la guerra come mezzo di risoluzione dei conflitti. Era evidente la distanza dall’impostazione del papato di Pio XII. Il trappista portava a sostegno delle sue argomentazioni alcune frasi dei primi documenti del nuovo papa Giovanni XXIII10. Se nel radiomessaggio natalizio del 1958 trovava conforto la tesi che l’apporto fondamentale della chiesa al mondo stava nel somministrare la misericordia, nella prima enciclica Ad Petri cathedram, emanata nel giugno del 1959, non individuava solo un pressante invito al negoziato in vista di garantire la pace. L’accento posto in questo testo alla mostruosità delle armi atomiche pareva in consonanza con la sua tesi centrale, cioè che nell’era nucleare la guerra era diventata un’assurdità morale, sicché non si poteva dare con essa alcun 10 Giovanni XXIII: nato Angelo Giuseppe Roncalli. Papa dal 1958 al 1963. 19 perseguimento di giustizia. Si era registrato un effettivo spostamento del magistero papale? Prima di affrontare la questione bisogna affrontare una forma di guerra che, a differenza di quella nucleare, si era effettivamente combattuta, la guerra coloniale. Capitolo VIII: Guerra coloniale e guerra d’indipendenza nazionale: il caso algerino La tradizione novecentesca sulla guerra coloniale La cultura cattolica tra gli anni venti e trenta aveva formulato una concezione relativa all’espansione coloniale, fornendo una legittimazione, entro certi limiti, all’intervento militare in aree giudicate di inferiore civiltà. A questo “diritto di colonizzazione” corrispondeva un “diritto di rivolta”, ma la sua applicazione era prevista secondo schemi tanto rigidi da renderne praticamente impossibile una giustificazione etica. Nel secondo dopoguerra queste teorie erano ancora valide come dimostra il Codice morale internazionale sottoposto ad un intervento di revisione nel 1947‐48. Vi si sosteneva che era missione degli stati progrediti procedere ad “imprese coloniali”. Il disegno divino prevedeva una partecipazione a tutti gli uomini al bene del creato: dato che esso veniva vanificato dai popoli arretrati diveniva legittima un’occupazione che prevedeva un migliore sfruttamento del territorio e dal punto di vista immateriale, era giusto rigenerare i popoli “selvaggi” e liberarli dal vizio, dall’ignoranza e dalla superstizione. Compito principale dello stato coloniale era quello di trasmettere la vera religione. Non erano fornite soluzioni però al caso in cui, il popolo indigeno, diviene idoneo a governarsi grazie all’azione civilizzatrice svolta dalla nazione più progredita, caso questo che inevitabilmente doveva portare al conflitto tra indigeni e la metropoli. Non ci sono indicazioni precise, se non il graduale trasferimento dei poteri agli indigeni, i quali non prevedevano comunque ambire all’indipendenza. Di fronte al tentativo degli stati europei di reintrodurre il controllo politico nelle colonie, allentatosi nella seconda guerra mondiale, cominciarono a delinearsi nuove prospettive. Il papato in merito non poneva ancora il suo giudizio, la posizione di Roma che doveva muoversi in un’ottica universale rimaneva ambigua. Pio XII nel radiomessaggio natalizio del 1954 denotò la sua preoccupazione per i focolai coloniali, sostenendo che lo sviluppo di tali incendi avrebbe avvantaggiato le mire espansionistiche del comunismo. Invitava le potenze a evitare ogni rimpianto coloniale e sollecitava le autorità a realizzare nelle aree coloniali una “pacificazione preventiva” che consisteva nel trasmettere i valori che l’Occidente aveva elaborato nella sua storia, di una “giusta e progressiva libertà politica”. Ma non prendeva posizione, e non diceva nulla sull’atteggiamento da tenere laddove le tensioni divenivano una vera e propria guerra. In effetti in varie parti del mondo conflitti ve ne furono, in questa sede è esaminato il caso della guerra in Algeria, sul cui territorio un gruppo armato guidato dal Front de Libération Nationale (FLN) aveva aperto nel novembre del 1954 le ostilità contro le autorità francesi, dichiarando la volontà di condurre la lotta fino alla restaurazione di uno stato sovrano. Le chiese cristiane e la chiesa cattolica mostreranno atteggiamenti, come vedremo, assai articolati in merito alla legittimazione della guerra di liberazione. Chiesa francese e vescovi algerini Davanti all’esplosione delle ostilità le prime prese di posizione della gerarchia francese, espressa dall’Assemblea dei cardinali e arcivescovi, denunciano una ricerca di un prudente equilibrio. Le dichiarazioni del 1955 e 1957 fanno perno su due richiami essenziali: da un lato la salvaguardia dell’amor di patria, dall’altro il rispetto dei diritti di ogni uomo. Ben diversi risultano le valutazioni e gli indirizzi in ordine alla guerra in corso. Vediamo alcuni esempi. Una prima posizione è nella lettera indirizzata ai soldati richiamati alle armi in partenza per l’Algeria, del cardinal Jules‐Géraud Saliège. Questi sottolineava la legittimità della missione, dato che si trattava di un’opera di pacificazione ricordando i benefici che la Francia aveva appostato all’Algeria e l’affermazione della supremazia dei valori cristiani. Saliège sarà visto nell’opinione pubblica come il più fermo rappresentante in seno all’episcopato della legittimazione cattolica di una guerra volta al mantenimento di una colonia. Una seconda posizione è espressa dal vescovo d’Angers, mons. Chappoulie che pronuncia un discorso sul dovere dei cristiani di fronte alla guerra in Algeria. Affermava che la guerra ha per oggetto la protezione della società algerina ed è legittimata in quanto guerra difensiva contro il terrorismo, sottolineando che il soldato credente deve essere molto rigoroso nell’evitare ogni infrazione dei diritti detenuti. Rispetto a Soliège che sosteneva un aprioristico sostegno ai comandi militari, si sostituisce questa richiesta ai soldati di vigilare in prima persona, sulla base della coscienza cristiana, circa le modalità di conduzione delle operazioni belliche. Una linea ancora diversa è quella espressa da mons. Léon Ètienne Duval arcivescovo di Algeri dal 1954. Riproponeva la posizione cattolica tradizionale: il cristiano è tenuto a obbedire al potere pubblico che ricorre all’uso della forza per mantenere la sicurezza nei rapporti sociali e in questo quadro condanna il terrorismo 20 arabo. Sottolinea poi le responsabilità delle autorità militari nel conformare la loro azione ai principi di giustizia, al rispetto della dignità e dei diritti della persona umana. Il cristiano sostiene Duval è tenuto a rifiutare l’obbedienza all’autorità quando ha la convinzione che essa emana un ordine immorale circa le tecniche della guerra. Ogni ricorso alla violenza era indicato come immorale e anticristiano, chiara denuncia alle azioni controterroristiche francesi. Ma soprattutto è la sconfessione di presentare lo scontro in Algeria come una battaglia per la civiltà cristiana, come quei gruppi controterroristici che usavano insegne religiose come il Sacro Cuore. Duval infine auspicava a una risoluzione politica la quale doveva dare soddisfazione alla volontà di autodeterminazione delle popolazioni algerine. Un’altra questione incombeva: era legittima l’insurrezione contro il potere politico francese in Algeria? Teologia e guerra d’indipendenza Il tema era stato sollevato nel 1955 dal Comité théologique de Lyon che aveva dedicato al conflitto algerino una delle periodiche note dottrinali. Il documento metteva in relazione la situazione algerina con quella irlandese un tempo sottoposta al controllo dell’Inghilterra, sottolineando che non era negabile dal punto di vista morale e cristiano la legittimità delle aspirazioni all’indipendenza del popolo algerino. Ne derivava che non poteva essere condannata un’azione politica intrapresa a favore del raggiungimento dell’indipendenza, e la conduzione di tale obbiettivo mirante la libertà politica algerina, poteva rientrare nella fattispecie di guerra giusta. Il domenicano Ducatillon su la “Revue de l’action populaire”, con il suo articolo Théologie de la colonisation, indicava come esito finale della tutela dei paesi progrediti su quelli arretrati un’emancipazione politica che desse vita a una società, separata dalla madrepatria, ma organicamente costituita da indigeni e coloni. Così proclamava i diritti della Francia di ricorrere alle armi per tutelare i legittimi interessi dei suoi coloni, ledere i quali corrispondeva a terrorismo. Il rifiuto, all’interno del mondo cattolico francese, di riconoscere ogni motivazione moralmente accettabile alla guerra di indipendenza algerina trovava anche basi culturali. Il gruppo delle riviste integriste, in particolare “Verbe”, vedeva nella guerra d’indipendenza algerina un ultimo baluardo di quella rivoluzione iniziata nel 1789, continuata nel 1917 e che percorreva il mondo intero nell’intento satanico di abbattere la civiltà cristiana. Una simile concezione vedeva i paesi coloniali cattolici, in particolare la Francia, come tutori di quell’ordine naturale che la Provvidenza aveva voluto per l’organizzazione della vita collettiva, mentre la guerra rivoluzionaria contro di essi si proponeva di travolgerlo. Questa prospettiva implica una totale delegittimazione della guerra d’indipendenza algerina e una legittimazione per contro alla guerra francese per placarla, in quanto condotta per il bene supremo della civiltà cristiana. In sostanza la guerra coloniale veniva accettata, mentre la guerra d’indipendenza veniva trattata solo teologicamente e in maniera astratta, mai applicata concretamente al caso algerino. Benché presenti alcune voci a favore dell’indipendenza, a livello pubblico non sembrava possibile, in una cultura cattolica arrivare a una giustificazione delle guerre di liberazione. Le posizioni romane Secondo l’ambasciatore francese d’Ormesson, Pio XII, alla fine del 1955, aveva espresso in un colloquio un vivo incoraggiamento contro le forze che lottavano per l’indipendenza algerina. Posizione che la Santa Sede non manifestò pubblicamente. Il papa pubblicamente sollecitava a impegnarsi per la pace, e un tale generico richiamo costituiva probabilmente un punto di coagulo, espresso dalla chiesa universale, a tutti gradito, senza mostrare una vera presa di posizione. Ma in un comunicato della Radio Vaticana all’inizio del 1957 si può cogliere qualche elemento che chiarisce i “giusti diritti” presentati come fattori fondamentali per la pacificazione. Si chiedeva fosse assicurata la tutela dei diritti di tutte le comunità religiose, musulmani, ebrei e cristiani presenti sul territorio. Nell’enciclica Fidei donum del 1957, allo scopo di incoraggiare tutti i cattolici allo sviluppo delle chiese indigene, il papa faceva esplicito riferimento alla situazione africana, affinché la collaborazione di queste popolazioni con i paesi europei portasse a estendere anche a questa area del mondo gli autentici valori della civiltà cristiana. Pio XII mostrava di guardare con favore al processo di emancipazione dei paesi coloniali, ma levava anche un monito contro le degenerazioni in questa via. Un documento conferma l’impressione che Roma tendesse ormai a porre confini più ristretti alla conquista dell’autonomia politica e quindi a stabilire rigidi criteri per la sua legittimazione. Nel 1957 il papa pronunciava un’allocuzione ai partecipanti al Congresso d’Europa, in cui ribadiva uno dei cardini della sua politica internazionale: l’insistenza sulla necessità di un’unificazione europea a base cristiana che, differenziandosi dal mondo comunista e da quello capitalista, si rendesse protagonista di una pacificazione imperniata sui valori indicati dalla chiesa. In questo contesto faceva riferimento alla situazione algerina e alla presenza europea in Africa, ricordando che su questo scacchiere si giocava una partita decisiva per il futuro dell’Europa: occorreva che attraverso una larga azione di aiuti, mantenesse la possibilità di esercitare la sua influenza educativa e formativa. Appare evidente uno spostamento a favore dei paesi europei. Il pontefice non metteva in questione l’accettazione vaticana della decolonizzazione, ma chiedeva che tale processo non andasse a scapito della continuità di una decisiva presenza europea nell’ambito formativo. Roma davanti ai processi di emancipazione in 21 atto in Asia e in Africa, sembra dunque avere precisato la sua posizione. Si esprimeva anche sul piano politico l’esigenza che la metropoli mantenesse una qualche forma di potere nell’organizzazione della società. Con il pontificato di Giovanni XXIII si faceva assai raro invece, l’invito al mantenimento di un rapporto privilegiato con la metropoli e diventava più pressante la richiesta ai paesi occidentali di portare aiuto economico ai popoli sottosviluppati; emergeva una simpatia con cui si accoglieva il raggiungimento dell’autonomia politica nei paesi ex‐coloniali; si avanzava la denuncia a nuove forme di colonialismo le quali potevano determinare pericoli per la pace mondiale. Tuttavia rimaneva il totale silenzio sulla legittimazione della guerra contro il dominio coloniale. Capitolo IX: “Allienum est a ratione bellum”? Roncalli e la pace Giovanni XXIII prima della sua elezione a pontefice era sostanzialmente allineato con le concezioni dominanti nel cattolicesimo italiano dell’epoca. Nei primi periodi del pontificato invece sono riscontrabili alcuni elementi di novità: la persistenza della linea tradizionale si coniuga con elementi differenti rispetto al passato. Significativo è il messaggio radiofonico rivolto a tutto il mondo cattolico del 29 ottobre 1958 per annunciare l’elezione. Due aspetti meritano di essere sottolineati. Da un lato Giovanni XXIII affermava in conformità con l’usuale linea intransigente, che solo la religione può alimentare la pace, sottolineava la mostruosità dei moderni ordigni bellici invitando i responsabili politici ad avviare negoziati per un disarmo che avrebbe consentito di indirizzare le risorse risparmiate all’accrescimento del benessere sociale. La sollecitazione al negoziato sostituiva il richiamo ai criteri per mantenere la giustizia nelle questioni internazionali. La linea del radiomessaggio veniva poi sviluppata nella prima enciclica di Giovanni XXIII, Ad Petri cathedram, pubblicata nell’anno successivo. Anche qui a elementi tradizionali sono associati elementi innovativi. Sempre presente l’invito al negoziato per il disarmo, ora troviamo altri due elementi di innovazione. In primo luogo si asseriva che la chiesa non essendo mossa da intenti politici nel proporre la pace, o interessi materiali, auspicava di poter essere ascoltata dagli uomini di ogni nazione. La novità, non era certo questa, ma ora, anziché additare la soluzione di un “ordine cristiano” come unica via per la costruzione di un mondo pacifico, si voleva favorire un avvicinamento di tutti gli uomini, senza porre come limite, la realizzazione di una società cristiana come la via unica per la sua attuazione. In secondo luogo veniva evidenziata nell’enciclica la “ragione” come strumento per il conseguimento della pace: da un lato perché la violenza bellica era presentata come un fatto irrazionale; dall’altro perché proprio alla comune razionalità umana spettava determinare le forme organizzative di pacifiche relazioni internazionali. In tale prospettiva si affidava a un elemento comune a tutti gli uomini, l’esercizio delle facoltà razionali per l’appunto, il terreno condiviso su cui costruire la pace. Giovanni XXIII, sulla scia delle preoccupazioni portate dalla crisi internazionale del 1961 che vedeva l’erezione del muro di Berlino e la ripresa degli esperimenti nucleari del presidente sovietico Nikita Chrŭšëv, convocava a Castel Gandolfo il 10 settembre una speciale riunione per impetrare la pace inernazionale.mIl radiomessaggio pronunciato nella circostanza non solo insisteva sui drammatici esiti di un conflitto, ma richiamava “credenti e non credenti” purché appartenenti a Dio e a Cristo per diritto di origine e di redenzione affinché si adoperassero a ristabilire un clima di serenità. Gli atteggiamenti di Giovanni XXIII trovarono un positivo riscontro, specialmente in ambienti dove la chiesa maggiormente faticava a trovare appoggio, infatti Chrŭšëv in un’intervista ricordava che l’appello del papa rappresentava un buon segno, fondato sulla ragionevolezza della pace e che l’Unione Sovietica salutava con favore ogni impegno a sostegno della pace. Nel 1962 con la decisione sovietica di installare missili nell’isola di cuba e conseguente risposta americana che decretava il blocco navale dell’isola, il mondo si trovò sull’orlo della guerra nucleare. Ma anche in questa occasione non mancò un vibrante appello del pontefice per la pace, che trovava il gradimento di entrambe le parti. Con Giovanni XXIII siamo di fronte ad un richiamo della pace che non richiedeva necessariamente l’instaurazione di un’organizzazione cristiana della vita collettiva, ma si sollecitava anche la coscienza di ogni singolo uomo, indipendentemente dalle sue convinzioni politiche e alle sue concezioni ideologiche. Un approccio certamente meglio orecchiabile a tutti gli uomini, perché rivolto a questi in quanto tali, non solo in quanto cattolici. L’enciclica “Pacem in terris” In questo contesto, rafforzato nel marzo del 1963 dal conferimento al papa del premio internazionale per la pace della Fondazione Balzan, che matura il più significativo apporto di Giovanni XXIII a un ripensamento dell’atteggiamento cattolico sulla guerra: l’emanazione dell’enciclica Pacem in terris. L’iniziativa per la 22 redazione del documento, pare doversi al mons. Pietro Pavan, allora docente della Pontificia università lateranense. Pavan pareva essersi allineato a quanti ritenevano che con le armi atomiche non era più possibile parlare di un iustus modus nella conduzione della guerra. Sullo sfondo di tali convinzioni nel gennaio del 1963 una prima stesura dell’enciclica veniva inviata al pontefice. Dopo aver eliminato l’apertura al riconoscimento dell’obiezione di coscienza e due frasi sull’immoralità dell’uso delle armi nucleari, l’enciclica veniva firmata l’11 aprile. Riprendendo la linea già vista, era indirizzata non solo agli usuali destinatari di tali documenti (episcopato della chiesa universale, il clero e i fedeli) ma a “tutti gli uomini di buona volontà”. Questa intenzione di rivolgersi a tutti gli uomini era rafforzata dall’idea che i problemi trattati riguardavano l’intera umanità. Il magistero assumeva dunque un atteggiamento e un’impostazione che in precedenza era rimasta confinata in ambiti minoritari. Non bisogna tuttavia dimenticare che per Roncalli (Giovanni XXIII) la questione della pace poteva essere risolta solo ripristinando l’ordine voluto da Dio per il consorzio umano. Ma accanto a questa eredità della tradizione intransigente, asseriva anche che la sua concreta costruzione richiedeva l’apporto di coloro che, pur non illuminati dalla fede, operavano sorretti dalla ragione e dall’onestà naturale. Il testo faceva effettivamente appello alla “ragione” come il dato comune cui tutti gli uomini potevano ricorrere per l’organizzazione della pace. Da un lato la “ragione” era individuata come il terreno comune di incontro di tutti gli uomini, ma dall’altro si affidava alla “retta ragione” la ragione illuminata dalla fede dunque, il compito di sceverare se le istanze dei non cattolici corrispondevano o meno alle giuste ispirazioni della persona. La riproposizione di una concezione tradizionale secondo cui la chiesa, depositaria delle leggi iscritte da Dio nella natura umana, poteva in via esclusiva proporre le vie della pace, si accompagnava, senza avvertire alcuna contraddizione, a una indicazione che sembrava voler ricercare nella comune ragione, indipendentemente dall’appartenenza confessionale, la costruzione di un pacifico consorzio umano. Il mutamento rispetto al predecessore Pio XII è poi evidente. Quest’ultimo aveva precisato i casi in cui era lecito ricorrere alla guerra moderna, mentre Giovanni XXIII asserisce che è contrario alla ragione ricorrere ai suoi strumenti di morte. La differenza è inequivocabile: dalla legittimazione alla condanna. Tuttavia non può essere portata oltre la lettera del testo, sostenendo che esso implicava l’abbandono della teoria della guerra giusta. Nella tradizione teologica, come si ricorderà, la guerra appare lecita sotto due forme: ad vim repellendum (legittima difesa) e ad iura sarcienda (restaurazione del diritto). La Pacem in terris si limita a proclamare che questa seconda specie di conflitto non può più essere considerata accettabile nell’età nucleare. Nulla dice della prima. Si può supporre che introdurre anche questo elemento avrebbe comportato una cesura troppo radicale con un atteggiamento sedimentato da lunghissimo tempo nella dottrina e nella mentalità cattolica. Non si può tuttavia ignorare che il documento lascia impregiudicata la questione del ricorso alla guerra, anche atomica, in vista della legittima difesa. Rimaneva il problema di dare un contenuto al silenzio dell’enciclica in materia. IL compromesso conciliare La Pacem in terris veniva pubblicata dopo la fine della prima sessione del concilio Vaticano II, che nei documenti preparatori aveva inserito anche la trattazione della questione della guerra e della pace. Alla morte di Giovanni XXIII si pose il problema della continuazione dell’assemblea ecumenica da lui convocata; ma, una volta deciso dal nuovo pontefice Paolo VI11, il suo proseguimento, diventava inevitabile che il tema fosse affrontato nel quadro di quell’aggiornamento ecclesiale che la maggioranza dell’assise aveva assunto come proprio programma. É stato studiato il faticoso processo redazionale che portò l’inserzione di questo argomento all’interno del documento, diventato alla fine costituzione pastorale Gaudium et spes, relativo al rapporto della chiesa con il mondo contemporaneo. Non può essere sottovalutato il viaggio di Paolo VI nell’ottobre del 1965 alle Nazioni Uniti per l’assunzione degli orientamenti dell’assemblea ecumenica. L’allocuzione papale venne inserita negli atti del Vaticano II. Paolo VI aveva ricordato la Pacem in terris ma al contempo ne fornì un’interpretazione. Nella sua ottica il silenzio dell’enciclica giovannea sulla guerra di legittima difesa ne costituiva un’approvazione, così la teologia della giusta guerra era ancora valida. Per il nuovo pontefice esisteva una possibile legittimazione morale, anche in presenza dell’armamento atomico, della guerra. L’assemblea conciliare non poteva non tenerne conto, così come doveva risultare chiaro ai padri riuniti in San Pietro il diverso accento che, rispetto a Giovanni XIII, Paolo VI aveva già posto sul ruolo della chiesa a favore della pace. Certo comune al predecessore era la denuncia del pericolo delle armi atomiche e la sollecitazione a indirizzare le risorse degli armamenti allo sviluppo economico e sociale dei popoli. Tuttavia la funzione del papato non veniva più individuata nell’avvicinare i contendenti facendo appello a ciò che li univa, i 11 Paolo VI: nato Giovanni Battista Montini. Papa dal 1963 al 1978. 23 valori razionali della comune condizione umana, ma nell’additare i principi, appartenenti esclusivamente al cristianesimo, di quell’ordine mondano che poteva essere pacifico solo in quanto riflesso dell’ordine divino. Oltre alle posizioni papali si aggiunsero le intenzioni dei vescovi statunitensi di impedire ogni condanna del ricorso alle armi nucleari per respingere una ingiusta aggressione, con lo scopo di evitare fratture tra le decisioni del concilio e le posizioni del loro governo. La condanna dell’armamento cattolico avrebbe fatto passare i cattolici per cittadini sleali. La versione finale del Gaudium et spes emersa dalla ricerca di equilibrio tra queste spinte. Sul piano generale il documento conciliare ribadiva che fintanto che non ci sarà un’autorità internazionale competente, munita di forze efficaci, una volta esaurite tutte le possibilità di un pacifico accomodamento, non si potrà negare ai governi il diritto di una legittima difesa. Quindi nonostante l’ammonimento che la corsa agli armamenti costituisse una piaga per l’umanità, la Gaudium et spes accettava l’opinione che l’ammassamento ordigni bellici e la politica di deterrenza nucleare costituissero ancora un mezzo efficace per assicurare almeno in via temporanea, una certa pace tra le nazioni. Il testo ribadiva insomma una chiara legittimazione della guerra, anche se introduceva all’interno della dottrina tradizionale nuovi elementi che ne indebolivano la portata. Restava irrisolto il nodo della moralità della guerra moderna, che dopo la seconda guerra mondiale, aveva sollevato tante discussioni. La novità della Pacem in terris non aveva trovato sbocco in un esito conciliare che ponesse un punto fermo al lungo dibattito novecentesco sulla proporzionalità tra le distruzioni della guerra arrecate e la giustizia che ci si riproponeva di ristabilire attraverso il ricorso delle armi. Non si arrestava il dibattito nel mondo cattolico. Da un lato alcuni ambienti sostenevano che il magistero roncalliano ( di Giovanni XXIII) rappresentava il definitivo congedo della chiesa dalla guerra giusta; dall’altro lato la dinamica della storia imponeva al governo ecclesiastico di prendere posizione sul vario scatenarsi nella scena politica mondiale della violenza bellica. Le discussioni successive al Vaticano II erano molto frastagliate. Tra violenza rivoluzionaria e guerra imperialistica: la linea montiniana Paolo VI interpretò l’eredità ricevuta da Giovanni XXIII e dal concilio Vaticano II come una decisa spinta a orientare la chiesa verso una partecipazione alla costruzione della pace. Paolo VI riconosceva nel 1973 il ruolo innovativo dell’enciclica Pacem in terris nello stimolare una mobilitazioni a tutti i livelli della società nell’impegno verso la pace, ma al contempo ribadiva che la pace poteva essere instaurata solo nel rispetto dell’ordine stabilito da Dio. Quindi non veniva più dato peso alla comune ragione di tutti gli uomini, ma sul possesso della chiesa dei criteri capaci di assicurare l’ordinata e tranquilla convivenza. Per Paolo VI quindi era importante non più tanto la “ragione” ma la “retta ragione” quella illuminata dalla fede: non vi era pace se non attraverso l’adesione ai valori morali proposti dalla chiesa. La linea centrale di Paolo VI vedeva lo sviluppo come il nuovo nome della pace, nodo centrale dell’enciclica Popolorum progressio, che rivelava la sollecitudine papale a orientare le carità dei credenti verso un concreto intervento economico volto a spegnere tensioni e discordie. L’attenzione verso il disarmo si tradusse verso la richiesta, linea portante del suo governo, che le risorse ottenute dalla diminuzione delle spese militari fossero devolute alla costituzione di un Fondo mondiale destinato al progresso dei popoli arretrati. Sul piano simbolico con l’enciclica Christi matri del 1966, il papa fissava il giorno della pace mondiale il 4 ottobre, giorno in egli aveva fatto visita all’ONU. Invitava tutti alla pace, indipendentemente dalle appartenenze religiose e ideologiche. Nel suo pontificato Paolo VI si trovò davanti alle rivoluzioni in America Latina e alla drammatica guerra in Vietnam. Paolo VI ammetteva in merito alla prima che la rivoluzione poteva diventare legittima nel caso di una tirannia prolungata che attenti ai diritti della persona e nuoccia al bene comune del paese. Principio che non venne sottolineato di fronte all’insorgere in settori del cattolicesimo di una “teologia della violenza”, il papa preferì infatti insistere sui rischi e sulle difficoltà di giungere attraverso alla rivoluzione all’instaurazione di un giusto ordine sociale. Ma il principio enunciato non veniva sconfessato. Il papato intendeva mostrarsi alfiere della pace, ma non escludeva la possibilità di legittimare la violenza, proclamandosi depositario di quei criteri che ne giustificavano l’eventuale utilizzazione. La prospettiva di fondo emerge davanti al citato conflitto esploso in Vietnam, che richiamo intensamente l’azione del pontefice. Si trovò di fronti a poli contrapposti: da un lato l’affermazione del cardinal Spellmann, che lo sforzo bellico degli Stati Uniti doveva essere sostenuto in quanto erano impegnati in una guerra per la difesa della civiltà; dall’altro la denuncia dell’immoralità dei bombardamenti americani del cardinal Lercaro. Paolo Vi si attestò su una posizione mediana, invitando alla trattativa, indicava il simultaneo arresto dei bombardamenti americani e delle infiltrazioni militari nordvietnamite in aiuto della guerriglia vietcong. Certo inefficaci furono i suoi appelli. Paolo VI contrapponeva il pacifismo alla ricerca della pace che poteva avvenire solo attraverso il perseguimento della giustizia di cui riteneva il papato depositario. La volontà di farsi agente di pace non spinse il papa a legittimare la sottrazione del servizio militare per far cessare il conflitto in Vietnam, perché vedeva in gioco in quella guerra la tutela dei supremi valori della vita 24 collettiva, di cui riteneva depositario il papato. Non si trattava di un allineamento alle posizioni imperialistiche statunitensi. Secondo il papa gli Stati Uniti dovevano ritirarsi, ma con una mediata procedura, in modo da garantire al popolo vietnamita il diritto all’autodeterminazione e alla libera promozione del suo pacifico sviluppo. L’obbiettivo primario non era dunque la condanna alla guerra e la sua conclusione immediata, ma la salvaguardia dei diritti e dei doveri della convivenza civile, di cui Roma si sentiva in possesso. Applicando la posizione romana, l’episcopato statunitense, che aveva inizialmente sostenuto lo sforzo bellico del paese, arrivò a proclamare nel 1971 che i mali indotti dalla guerra in Vietnam superavano i beni che si potevano perseguire, e auspicavano la fine del conflitto. Il riconoscimento che si erano superati i limiti tra mezzi e fini, non conduceva a richiedere comportamenti pacifici, la pace poteva venire solo dall’accettazione delle indicazioni di una chiesa che, depositaria dell’equità e del diritto, fissava le regole del consorzio civile e ne decideva la traduzione pratica. L’affermazione di questo principio era ritenuta più importante che il rapido e immediato conseguimento della pace. La difesa di un diritto astratto, aveva come esito l’incapacità di costruire la pace. Capitolo X: Condanna della guerra santa, limitazioni alla guerra giusta: il magistero di Giovanni Paolo II Le oscillazioni iniziali Il pontificato di Giovanni Paolo II12 è costellato da eventi che possono essere considerati riferimenti degli atteggiamenti papali. Significativi infatti sono gli interventi nel 1982 del papa in merito al conflitto tra Inghilterra e Argentina sulle isole Flakland‐Malvinas, e le discussioni all’interno del mondo cattolico riguardanti l’installazione dei missili Pershing e Cruise in Europa occidentale come risposta agli SS‐20 sovietici. Nel messaggio per la giornata della pace del 1982, il pontefice affermava che sussiste il diritto e il dovere dei popoli di provvedere con mezzi proporzionati alla loro esistenza e libertà. Era la legittimazione di una fattispecie di “guerra giusta” che pur circoscrivendone la portata alla “giusta difesa”, non inficiava il presupposto della liceità morale del ricorso alla forza armata nelle relazioni internazionali. In visita alla cittadina di Coventry in Inghilterra, simbolo delle devastazioni della Seconda guerra mondiale il papa proclamava l’orrore della guerra moderna sia nucleare che convenzionale, rendendo questa guerra totalmente inaccettabile come mezzo per comporre dispute tra le nazioni. Qui sembrava emergere in netto rifiuto di ogni legittimazione della violenza bellica. Ma dopo essersi recato anche in Argentina per la linea di imparzialità tenuta dal papato, emergerà una linea molto diversa dal discorso pronunciato a Buenos Aires. Ribadiva che l’amore della patria poteva essere portato, se necessario, fino all’estremo sacrificio della morte, a condizione che fosse integrato nell’universalismo della religione cattolica. Quindi una sorta di proclamazione delle liceità della guerra in discordia con i pareri tenuti in Inghilterra. Altra oscillazione riguardava il parere in merito alle armi nucleari. Agli inizi degli anni 80’ il Consiglio ecumenico delle chiese proclamava che non solo l’impiego ma anche la produzione delle armi atomiche costituiva un crimine contro l’umanità. Il pontefice nel discorso al corpo diplomatico del 1982, secondo un suo studio sulle conseguenze di un conflitto nucleare, invitava all’immediata riduzione degli armamenti nucleari. Ma non molto dopo, 11 giugno di quell’anno, nel messaggio alla seconda sessione straordinaria delle Nazioni Unite dedicata al disarmo, sosteneva che, pur nel quadro di una deplorazione della corsa agli armamenti, nella situazione attuale costituivano una dissuasione fondata sull’equilibrio. Il 20 agosto successivo tuttavia, la lettera agli scienziati riuniti al Centro Ettore Majorana di Erice, sembrava prendere le distanze da questa posizione: “ la logica della dissuasione nucleare non può essere considerata un mezzo adeguato e sicuro per la salvaguardia della pace internazionale. Ma a Roma nel 1983 in una riunione mista di vescovi europei e americani, ai quali veniva imposto di adeguarsi ad alcuni principi comuni: compariva la tesi che nel momento presente la deterrenza costituiva la garanzia per evitare l’aggressione di un blocco contro l’altro. Anche l’appoggio all’azione non violenta praticata da Gandhi in India e la medesima approvazione alla rivolta armata di R. Kalinowski e A. Chmielowski in Polonia ponevano il pontefice in una forte contraddizione. Queste incongruenze possono forse essere spiegate, nel procedimento adottato dal papa nella redazione dei suoi interventi: i quali non sono commissionati alla sola officina curiale, ma quelli pronunciati nel corso dei viaggi, vengono richiesti agli esponenti delle chiese via via incontrate, sicché è normale ritrovare accenti diversi. Dato che per Giovanni Paolo II il papato si identificava con la chiesa, poteva essere svolta un’azione del genere. Giusta a seconda delle prospettive che incontrava. 12 Giovanni Paolo II: nato Karol Jósef Wojtyla. Papa dal 1978 al 2005. 25 Gli orientamenti di Wojtyla negli anni iniziali, che non riguardano gli interventi occasionali, ma al solenne magistero espresso nelle prime encicliche, troviamo un atteggiamento molto stabile. Dalla Dives in misericordia, alla Laborem exercens fino alla Sollicitudo rei sociali, emanate tra il 1980 e il 1987, emerge infatti una tesi precisa: in un mondo contemporaneo minacciato dalle armi nucleari, solo il perseguimento dell’ordine voluto da Dio può portare alla pace autentica, sicché la chiesa che, cui spetta la capacità di definire i criteri per stabilire tale ordine nelle relazioni tra i popoli, è in grado di indicare la via per scongiurare la morte. La sola ragione e la buona volontà non bastano per ambire alla pace, bisogna aprirsi ai valori cristiani, la realizzazione di una convivenza civile si basa sull’adesione al fondamento religioso nell’ordinamento sociale. Gli uomini devono accettare il piano divino che ha fissato l’ordine della vita collettiva. Giovanni Paolo II è profondamente ancorato alla linea papale novecentesca, emerge ciò dalla convergenza culturale con i predecessori, dove richiamandosi alla Pacem in terris non riprende mai il passo realmente innovativo sull’irrazionalità e l’impotenza della guerra odierna, ma si limita alla citazione di brani perfettamente coerenti con la linea del papato novecentesco. Troviamo una trama di fondo riconducibile alla linea intransigente. Ma non mancheranno delle novità. Continuità e adeguamenti Una primo modificazione riguarda la lettura provvidenzialistica dei conflitti. La guerra viene presentata da Giovanni Paolo II come un’accumulazione di peccati, costituisce la violazione del basilare precetto cristiano dell’amore, ma non segue la tradizionale specificazione che in tal modo l’uomo richiama il castigo divino. Il riscatto avviene anziché attraverso il castigo attraverso il perdono e il rispetto dell’altro. Ma lo schema intransigente è ripreso nel sostenere l’incapacità della società moderna di evitare la guerra. La società moderna reca in se i semi della guerra, dal momento che essa ha voluto organizzare la vita collettiva indipendentemente dal riconoscimento della supremazia dei valori spirituali. Quindi l’apostasia della modernità dalla chiesa era la radice di ogni male sociale, concetto pilastro della concezione intransigente. Prima della caduta del muro di Berlino, fino al 1989, il fattore più minaccioso per la pace è il socialismo, motivo di conflitto sono riconducibili al liberalismo e alle tendenze materialistiche della società dei consumi: fondamentale ragione della guerra sta nell’ideologia che presenta lo scontro di classi come motore dello svolgimento della storia. Essa produce una mentalità volta ad asservire o eliminare gli altri. Con l’inizio degli anni novanta l’accento si sposta. La sfrenata ricerca al benessere materiale e al consumo delle società occidentali appare come la causa più pericolosa dei conflitti. La logica del profitto porta molte lacune alla società e genera conflitti perché porta alla distruzione dell’ambiente, all’accaparramento di terre, all’incapacità di fornire risorse per tutti. Nella visione del papa è sufficiente fornire un supplemento morale a tale società, che il cristianesimo può offrire, per consentire il raggiungimento della pace. Non viene fornito un globale rifiuto del mondo moderno. Infatti il pontefice non mostrava rifiuto verso la scienza, un portato tipico della modernità, dato che nel momento che si libera da vincoli ideologici, può essa stessa favorire la costruzione della pace. Ma la tesi di fondo di Giovanni Paolo II è che se non vi è adesione umana al piano divino, non potrà esservi vera pace. Compie su questo punto un aggiornamento importante rispetto all’eredità intransigente, cui pure si richiama. Sostiene che non esclusivamente il cattolicesimo, ma anche le altre chiese cristiane e diverse religioni non cristiane sono interpreti di quei valori spirituali dal cui riconoscimento dipende la pace. L’argomentazione di Wojtyla parte dalla considerazione che la pace equivale allo stabilimento nel mondo di un ordine fondato sulla giustizia: giustizia è per il papa il rispetto dei diritti della persona umana all’interno degli stati e tra gli stati. Ma la tutela di tali diritti è debole. L’edificio giuridico delle Nazioni Unite è debole, in quanto privo di un fondamento etico. Sia chiaro che Giovanni Paolo II intende valorizzare l’azione dell’ONU, solo vuole spronarlo a una più incisiva attività, e sottolinea che i suoi limiti possono essere superati se la tutela dei diritti umani si basasse su valori religiosi. Dio è il fondamento della pace in quanto è il garante di tutti i diritti umani fondamentali: poiché la chiesa ricava dalla rivelazione il disegno di Dio sul mondo, essa costituisce elemento centrale e insostituibile, anche se non esclusivo, nella definizione dei diritti dell’uomo e nel conseguimento dell’autentica pace. Non vi è solo primazia morale della chiesa in vista dell’avvento di una società pacifica, Giovanni Paolo II lega alla costruzione della pace anche un assetto costituzionale dello stato. Gli stati non devono solo riconoscere il fondamento divino dei diritti dell’uomo nelle loro costituzioni, occorre anche che il sistema statale assume specifiche norme, in materia religiosa, matrimoniale, familiare e scolastica. Il papa chiede la puntuale ricezione nella legislazione civile delle regole che, soprattutto in materia familiare ed educativa, appaiono peculiari della morale cattolica e della sua specifica concezione dei diritti dell’uomo. É caduta comunque, nonostante il sostenimento di una società ierocratica per un ordinata convivenza civile, la pretesa di un globale stato cristiano, l’esercizio della libertà religiosa purché orientato alla ricerca della verità, costituisce un passo decisivo verso il conseguimento di una vera pace. Rimane tuttavia la teoria di fondo che spetta comunque alla chiesa determinare almeno alcune coordinate della vita sociale. 26 Guerra giusta, “ingerenza planetaria” e “guerra preventiva” Coerente con questa impostazione complessiva appare il richiamo alla categoria della “guerra giusta”: se il papato detiene i criteri per il retto ordine pacifico della vita collettiva, ovviamente possiede a anche i criteri per regolare i suoi conflitti. Giovanni Paolo II non si limita solo a ribadire la validità del principio della legittima difesa, egli ripropone anche la tradizionale concezione della giusta guerra. Comunque sono presenti diversità rispetto al passato. Anziché enumerare in positivo, le condizioni che legittimano l’uso della violenza bellica, il papa tende a indicare, come nella situazione del momento dove la crisi internazionale sarebbe sboccata nella guerra del Golfo, sia difficile adempierle. Indica che l’eventuale conflitto è lontano dai requisiti di liceità morale che lo giustificano. La possibilità di una “guerra giusta” non è esclusa in via di principio, ma attualmente non vi erano le basi. Vediamo poi le posizioni in merito alla legittimazione dell’”intervento umanitario” e alla “guerra preventiva”, che nell’insegnamento di Giovanni Paolo II sulla pace e sulla guerra, si sono manifestate in occasione delle vicende belliche coincidenti con il suo ultimo decennio di pontificato e che sono apparsi i più significativi elementi di innovazione del suo magistero. L’assunzione da parte della Santa Sede della tesi secondo cui esiste un diritto/dovere d’ingerenza umanitaria, che , se necessario, gli organismi internazionali sono tenuti a rendere operativo attraverso aioni militari trovò la sua formulazione. Giovanni Paolo II aveva sostenuto che gli organismi internazionali preposti alla tutela della pace nel mondo dovevano dotarsi di strumenti capaci di far rispettare la loro autorità. La ragione poi per cui durante la prima guerra del Golfo Roma non appoggiava l’intervento americano erano chiare, Non si trattava a un’opposizione al principio dell’uso della forza, ma il ricorso all’uso delle armi non sembrava alla Santa Sede essere proporzionato al risultato che si intendeva ottenere e non sembravano essere state adeguatamente considerate le conseguenze delle azioni militari sulle popolazioni e sull’equilibrio del paese. Ma la tesi del dovere dell’intervento militare per ragioni umanitarie era confermata. Ma a questa accettazione era contrapposto il sostanziale rifiuto della “guerra preventiva”. Il papa ribadiva che tale guerra non poteva rientrare nei casi di conflitto moralmente lecito e questa linea non era dettata dal “pacifismo” ma dal “realismo” politico. Il rifiuto della guerra preventiva non ha comunque costituito un’occasione per una riconsiderazione della categoria della “guerra giusta”, che è stata anzi riconfermata. Tale categoria è stata però affinata e approfondita, restringendo ulteriormente i casi in cui essa può essere applicata. Il ripudio della guerra santa L’elemento a questo proposito più significativo è l’inequivocabile ripudio della guerra santa. La volontà di Saddam Hussein forniva un palese esempio di conduzione di guerra in nome di Dio. Nel discorso all’Angelus del 1995 anche la crociata medievale per la difesa dei luoghi santi viene presentata come dissonante dal Vangelo. La guerra in nome della religione è una contraddizione, sarà ribadito anche nel giubileo dell’anno 2000. Indubbiamente vi era un chiaro distacco alla tradizione del papato novecentesco, dove Pio XII aveva comunque evocato la possibilità di una guerra santa, sia nel 1947 che nel 1956, facendo rientrare la crociata nelle scelte possibili. Sottrarre ogni possibile avallo religioso alla violenza bellica costituisce un apporto non trascurabile alla costruzione di relazioni pacifiche tra gli uomini. Non è un accantonamento della “guerra giusta” ma della “guerra santa”. La chiesa deve mostrare come la via della pace sia legata alla riconciliazione e al perdono, non c’è giustizia senza perdono. L’appello della politica del perdono è poi rivolto ai governanti, ed è presentata come la base di una società che voglia effettivamente essere giusta e solidale e perciò senza conflitti. Porre come condizione della pace il perdono, anche attribuendo alla chiesa la capacità di esserne la più adeguata educatrice, era ben altra cosa che avanzare la richiesta del ritorno a un potere direttivo sulla società, su cui si era attestato per decenni un magistero pontifico debitore delle concezioni della cultura intransigente. 27 Approfondimenti: i magisteri pontifici del 900’ Benedetto XV: Giacomo della Chiesa fu papa dal 1914 al 1922. Fermo oppositore della prima Guerra mondiale. Eletto papa poco dopo l’inizio della prima Guerra mondiale durante la quale elaborò diverse proposte pace e la sua prima enciclica, Ad Beatissimi Apostolorum del 1° novembre del 1914, si appella ai governanti delle nazioni per far tacere le armi e lo spargimento di tanto sangue umano. Durante tutto il conflitto non smise di inviare proclami per la pace e per la diplomazia oltre ad aiuti concreti alle popolazioni civili colpite dalla guerra. É ricordato per aver definito nella Nota del 1° agosto 1917, la guerra come “inutile strage”. Nonostante la condanna alla guerra assunta dal pontefice, l’adesione di fatto ad essa da parte dei cattolici e del clero era stata, nei vari paesi, pressoché totale. In Francia si era realizzata un’union sacrée contro i tedeschi con la piena partecipazione dei cattolici e del clero allo sforzo bellico. In Germania i cattolici si attendevano, dal loro consenso entusiastico alla guerra, la definitiva consacrazione del proprio ruolo nazionale. Anche in Italia cattolici e la maggioranza dei vescovi avevano aderito senza cesure alla guerra. Nell’agosto del 1917 in seguito alla pubblicazione della Nota di pace di Benedetto XV, il padre domenicano Sertillanges, un predicatore della chiesa della Madeleine a Parigi sosteneva che non voleva la pace del Santo Padre. Al termine del conflitto il papa si adoperò per la riorganizzazione della Chiesa nel nuovo contesto mondiale. Riallacciò le relazioni diplomatiche con la Francia e con altre nazioni. Nel 1920 scrisse la prima enciclica sulla pace, Pacem dei munus. In essa denunciava la fragilità di una pace che non si fonda sulla riconciliazione. Vedeva infatti “germi di antichi rancori”. Per realizzare la pace secondo il papa serviva la fede. In continuità con il predecessore Pio X, Benedetto XV condannò gli errori della società moderna in linea con la cultura intransigente. Pio XI: Achille Ratti fu papa dal 1922 al 1939. La sua prima enciclica Ubi arcano del 1922, mostra il programma del suo pontificato. “La pace di Cristo nel regno di Cristo”. A fronte della tendenza a ridurre la fede a questione privata, Pio XI pensava invece che i cattolici dovessero operare per creare una società totalmente cristiana, nella quale Cristo regnasse su ogni aspetto della vita. Intendeva dunque costruire una nuova cristianità che, rinunciando alle forme istituzionali dell’ Ancien Régime, si sforzasse di muoversi nel seno della società contemporanea. In linea con la cultura intransigente, soltanto la Chiesa cattolica costituita da Dio e interprete delle verità rivelate era in grado di promuovere la nuova cristianità. Questo programma fu completato dalle encicliche Quas primas del 1925, con la quale fu istituita la festa del Cristo Re, ricordando che la religione doveva prevalere in tutti i campi della vita quotidiana e Miserentissimus Redemptor del 1928, sul culto del Sacro Cuore. Nel suo governo dovette fronteggiare il fascismo e il nazionalsocialismo. Pio XII: Eugenio Pacelli fu papa dal 1939 al 1958. Nella sua prima enciclica Summi Pontificatus, nel 1939, condannò in nome della pace ogni forma di totalitarismo, nel solco della dottrina della regalità di Cristo. Eletto in un periodo di grandi tensioni internazionali, con in regime nazista che iniziava ad occupare molti territori europei, il papa tentò invano di scongiurare il rischio di una nuova guerra con diverse iniziative, tra cui la più famosa, il discorso alla radio del 1939 in cui pronunciò una frase simbolo dei suoi atteggiamenti: “nulla è perduto con la pace; tutto può essere perduto con la guerra”. Ma la guerra scoppiò, e Pacelli tentò con altri appelli di far cessare le ostilità. A guerra finita dovette affrontare le ostilità della guerra fredda e del mondo diviso in due blocchi contrapposti. In questo caso il papa non si mantenne sopra le parti e si schierò contro il comunismo. In un mondo ancora segnato dalle ferite della guerra, intuì che più che un papa politico, la gente aveva bisogno di un pastore angelico. Consapevole dei pericoli delle armi moderne e della guerra fredda, sosteneva che la vera pace poteva esservi solo in un nuovo ordine cristiano del mondo. Giovanni XXIII: Angelo Giuseppe Roncalli fu papa dal 1958 al 1963. Indisse il concilio Vaticano II. Pochi giorni dopo l’apertura del Concilio ecumenico il mondo sembrava precipitare nel baratro del conflitto nucleare. L’installazione dei missili sovietici a Cuba sembrava il prologo. Il papa agì per la pace, si rivolse a tutti gli uomini di “buona volontà”. I suoi messaggi furono accolti da entrambe le parti e la crisi rientrò. Il suo modo di avvicinarsi a tutti gli ambienti lo portò ad essere ascoltato anche nei territori sconosciuti alla voce papale. L’enciclica Pacem in terris e il richiamo alla razionalità furono il suo portato più innovativo. Il testo dell’enciclica faceva appello alla “ragione” come elemento comune e caratterizzante di tutti gli uomini, al quale potevano ricorrere per realizzare la pace. Paolo VI: Giovanni Battista Montini fu papa dal 1963 al 1978. Continuò il Concilio ecumenico indetto da Giovanni XXIII, ma fu un papa ancorato alla tradizione intransigente. Per il nuovo pontefice esisteva una possibile legittimazione morale, anche in presenza dell’armamento atomico, della guerra. L’assemblea conciliare non poteva non tenerne conto, così come doveva risultare chiaro ai padri riuniti in San Pietro il diverso accento che, rispetto a Giovanni XIII, Paolo VI aveva già posto sul ruolo della chiesa a favore della pace. Certo comune al predecessore era la denuncia del pericolo delle armi atomiche e la sollecitazione a indirizzare le risorse degli armamenti allo sviluppo economico e sociale dei popoli. Tuttavia la funzione del papato non veniva più individuata nell’avvicinare i contendenti facendo appello a ciò che li univa, i valori razionali della comune condizione umana, ma nell’additare i principi, appartenenti esclusivamente al cristianesimo, di quell’ordine mondano che poteva essere pacifico solo in quanto riflesso dell’ordine divino. Giovanni Paolo II: Karol Jósef Wojtyla fu papa dal 1978 al 2005. Succedeva a Giovanni Paolo I, morto dopo 33 giorni dall’elezione. Vedi ultimo capitolo per il magistero di Giovanni. 28