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Filologicamente Studi e testi romanzi Collana diretta da Giuseppina Brunetti X Dante romanzo Testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante a cura di Giuseppina Brunetti Filologicamente Studi e testi romanzi Direttore Giuseppina Brunetti (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna) Comitato scientifico Giovanni Borriero (Università di Padova), Paolo Canettieri (Sapienza Università di Roma), Fabrizio Cigni (Università di Pisa), Sabrina Ferrara (Università di Tours), Luciano Formisano (Alma Mater Studiorum - Università di Bologna), Anatole Pierre Fuksas (Università di Cassino), Gabriele Giannini (Università di Montréal), Manuele Gragnolati (Università di Paris-Sorbonne), Gioia Paradisi (Sapienza Università di Roma), Carlo Pulsoni (Università di Perugia), Arianna Punzi (Sapienza Università di Roma), Paolo Rinoldi (Università di Parma), Justin Steinberg (Università di Chicago), Richard Trachsler (Università di Zürich) Redazione Stefano Benenati, Simone Briano, Nicola Chiarini, Michele Colombo, Alina Laura De Luca, Luca Di Sabatino, Jacopo Fois, Niccolò Gensini, Agnese Macchiarelli Filologicamente Studi e testi romanzi Collana diretta da Giuseppina Brunetti X Dante romanzo Testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante a cura di Giuseppina Brunetti Volume pubblicato con il contributo del Dipartimento di Filologia Classica e Italianistica dell’Alma Mater Studiorum - Università di Bologna Fondazione Bologna University Press Via Saragozza 10, 40123 Bologna tel. (+39) 051 232 882 fax (+39) 051 221 019 Quest’opera è pubblicata sotto licenza CC-BY 4.0 ISBN 979-12-5477-199-0 ISBN online 979-12-5477-200-3 DOI 10.30682/9791254771990 www.buponline.com info@buponline.com I diritti di traduzione, di memorizzazione elettronica, di riproduzione e di adattamento totale o parziale, con qualsiasi mezzo (compresi i microfilm e le copie fotostatiche), sono riservati per tutti i Paesi. In copertina: Bologna, Biblioteca Universitaria, ms. 346, c. 113r Progetto di copertina: Roberto Siniscalchi Progetto grafico e impaginazione: Sara Celia Prima edizione: maggio 2023 Indice Giuseppina Brunetti Introduzione Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 7 Roberto Antonelli Le letture romanze, la lirica, la Commedia 21 Paolo Canettieri I trovatori come personaggi di una Commedia 35 Giovanna Santini Trovatori e rime nella Commedia 51 Stefano Resconi Il canone provenzale del De vulgari eloquentia nella prospettiva della tradizione manoscritta trobadorica 71 Claudio Lagomarsini La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 89 Lucilla Spetia Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto: appunti per la biblioteca di Dante 105 Alessandra Forte Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 121 Tavole 139 Indice dei nomi 149 Indice dei manoscritti 157 Giuseppina Brunetti Introduzione Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante Il volume che qui si presenta raccoglie i primi frutti di un progetto più ampio che è stato illustrato da chi scrive, con Luca Di Sabatino e Niccolò Gensini, anche al Convegno triennale della Società italiana di Filologia romanza1. L’idea del presente progetto è nata in una giornata di normale lavoro di insegnamento universitario: a Bologna – frutto anche di accordi quadro stipulati dall’Università felsinea, atti a favorire l’internazionalizzazione e la mobilità degli studenti – la presenza in aula di studenti cinesi è di molto aumentata, anche alle lezioni di filologia romanza. Una studentessa cinese – individuata fra le altre perché a tal punto innamorata di Dante da tatuarsene il nome sul suo esile avambraccio (mirabile dictu e ad ulteriore conferma della lettura durevole della Commedia a ogni latitudine del globo) – dopo aver precisato che era venuta in Italia esplicitamente per studiare le opere dell’Alighieri e dopo avere appreso alla prima lezione del corso (ma come spesso, anche per studenti italiani) il senso dell’aggettivo ‘romanzo’ (conoscendo ovviamente solo il sostantivo), mi chiese come potersi procurare un libro ove poter leggere «tutte cose lomanze di Dante». Mi sono trovata priva di una risposta soddisfacente: pur potendo indicare molti saggi sull’argomento o strumenti complessi (dalla gloriosa Enciclopedia dantesca, utilissima ancora, con l’aggiornamento recente)2, non si dà a tutt’oggi uno strumento compleLa Filologia romanza e Dante. Tradizioni, esegesi, contesti, ricezioni. Convegno triennale della Società italiana di Filologia romanza (Napoli, 21-22 settembre 2021). 2 P. Rigo, A. Forte, L. Dell’Oso, S. Calculli, L. Trovato, Aggiornamento bibliografico 1 8 Giuseppina Brunetti to, né un’agile garzantina né libri in folio più articolati, nei quali reperire tutte le fonti, citazioni certe, questioni e problemi riguardanti le riprese e gli esiti di forme e temi romanzi nell’opera di Dante. Non si dà cioè uno strumento completo in cui leggere il ‘Dante romanzo’ in maniera ordinata, unitaria e filologicamente e/o plausibilmente sicura. Sebbene sia a tutti noto come la comunità scientifica disponga di banche date notevoli e specifiche: da quelle più semplici e pionieristiche come il Dante online della Società dantesca italiana o il Darmouth Dante Project dell’Università di Princeton fino alle più recenti, il Dante Sources (compreso il collegato HDN. Hypermedia Dante Network) o l’Illuminated Dante Project delle Università campane a cui vanno aggiunti senz’altro i nuovi progetti del Vocabolario dantesco promosso dall’Accademia della Crusca e del Vocabolario dantesco latino, nato proprio nell’ambito delle celebrazioni per il settimo Centenario della morte di Dante, strumenti questi ultimi che hanno evidentemente fini più strettamente linguistici e lessicografici; nulla di analogo è stato proposto per la sezione più squisitamente romanza, e non solo per il lessico, quanto per le forme, riprese e tradizioni romanze. Se d’altra parte risultano ancora fiorenti gli incontri scientifici e i volumi dedicati al rapporto dell’opera di Dante col mondo classico3, non altrettanta sistematicità si può rilevare circa il mondo romanzo. E se come ha bene scritto Roberto Antonelli in un suo volume recente: Stazio deve dunque precedere l’incontro con i poeti romanzi ossia la tradizione moderna, per significare insieme la traslazione in atto attraverso il viaggio, l’avvenuto distacco da parte di Dante da un orizzonte esclusivamente romanzo4 ebbene questo orizzonte romanzo, questa tradizione ‘moderna’ al di là di pure pregevolissime messe a punto su problemi specifici – spesso articolate in binomi (ad es. Dante e i trovatori, Dante e l’epica, Dante e i romanzi dell’Enciclopedia dantesca (2006-2021), Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 2021, pp. 619-700. 3 Sin da quelli celeberrimi come Dante e la bella scola della poesia del 1993 a I classici di Dante di qualche anno fa (Firenze, Le Lettere, 2018) o al recente Dante e la tradizione classica a cura di S. Carrai, Ravenna, Longo, 2021. 4 R. Antonelli, Dante poeta-giudice del mondo terreno, Roma, Viella, 2021, p. 131. Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 9 arturiani, su cui la bibliografia è naturalmente ricca, sin dagli apporti dei protagonisti della scuola storica) – o su fenomeni particolari (ad esempio il pregevole I gallicismi della Divina Commedia5), una visione di insieme non è stata ancora raggiunta e un’opera integrata non ancora realizzata. Manca insomma sia uno strumento agile, di rapida consultazione ossia una ‘garzantina’ cartacea, che soddisfi curiosità in maniera puntuale ed efficace, sia un più articolato volume o, meglio, un portale digitale ove riunire ciò che intendiamo nel nostro progetto col titolo sintetico Dante romanzo. Le adesioni di colleghi ai primi passi mossi sono state numerose: ne abbiamo discusso, ricevendo anche un consenso fattivo e collaborativo, coi colleghi Paolo Rinoldi dell’Università di Parma, lo stesso sunnominato Riccardo Viel, Giovanni Palumbo dell’Università di Namur, Fabrizio Cigni dell’Università di Pisa, e confidiamo che un importante momento di confronto sia stata la giornata di studi a Bologna di cui qui presentiamo i risultati. Anche all’interno del cantiere della EPM. Equipe Prophecies de Merlin, di cui abbiamo appena pubblicato il sito (https://site.unibo. it/epm/it), si individuano energie che potranno essere indirizzate esplicitamente a Dante romanzo. Vorremmo osare l’ambizione di condurre in porto l’uno e l’altro, ossia lo strumento sintetico Dante romanzo e il volume articolato e/o il portale ove comprendere autori, testi, problemi legati alla ricezione manoscritta romanza nell’opera di Dante o anche sezioni iconografiche e musicali? Per il primo, più ristretto obiettivo si dirà qui auspicabilmente di sì e lo si immaginerà piuttosto come un primo telaio ove poter sinteticamente e agevolmente sistemare lemmi specifici (le voci Arnaut Daniel o buono incantatore, la voce sestina e la voce Tristano, tanto per fare qualche esempio) – lo spoglio ossia il lavoro di sistematica raccolta bibliografica e la lista delle entrate (autori, testi, forme e temi) sono già iniziati; per il secondo obiettivo, naturalmente, da intendersi suscettibile di incremento periodico, dunque aperto e in progress, dipenderà anche dalle adesioni e dalle risorse, anche economiche, adeguate e sufficienti a sostenere i costi delle ricerche e della loro diffusione e implementazione; e auspichiamo sin d’ora non solo il patrocinio, ma il convinto sostegno della nostra Società italiana di Filologia romanza. R. Viel, I gallicismi della Divina Commedia, Roma, Aracne, 2014; cfr. anche A. Vitale Brovarone, Qualche debito dantesco nei confronti della cultura d’Oltralpe: Brunetto, Arnaut, in «Studi Francesi», 176 (2015), pp. 260-269. 5 10 Giuseppina Brunetti Procedo con qualche esempio. Nell’ambito di un programma di lavoro come quello appena delineato il caso dei riferimenti alla matière de Bretagne occupa senz’altro un ruolo di primo piano. Il tema è ovviamente molto studiato, già dai tempi in cui furono poste basi solide e sicure per ‘pesare’ l’emersione delle leggende arturiana e tristaniana in Dante, dai lavori di Pio Rajna in poi6. Daniela Delcorno Branca e con lei altri hanno descritto la distribuzione dei manoscritti latori di romanzi bretoni in aree e ambienti che furono vicini alle biblioteche di Dante7. Più recentemente molti hanno aggiunto importanti tessere, facendo dialogare fra loro rilievi storico-letterari, paleografici, ecdotici, codicologici. Le emersioni arturiane e tristaniane, più o meno esplicite entro l’opera di Dante, non sono state però ancora sistematizzate, ciascuna per il proprio peso, per le proprie tipologia e collocazione, in un quadro completo e stratificato, cronologicamente ordinato tra la Firenze della fine del Duecento e l’Italia padano-veneta dei primi due decenni del Trecento; un quadro che descriva sia il senso di tali allusioni sia il contesto di riferimento di Dante, che – non è detto – non possa aver risentito di differenti esigenze artistiche e, magari, di nuove letture nel corso della sua esperienza biografica. Oltre al giudizio sulle «Arturi regis ambages pulcerrime» affidato al De vulgari eloquentia8, le emersioni arturiane in Dante riguardano soprattutto Cfr. ad esempio P. Rajna, Dante e i romanzi della Tavola Rotonda, in «Nuova Antologia», 55 (1920), pp. 223-247; E. G. Gardner, The Arthurian Legend in Italian Literature, London, Dent, 1930. 7 Cfr. D. Delcorno Branca, Tristano e Lancillotto in Italia. Studi di letteratura arturiana, Ravenna, Longo, 1998; ma anche almeno voce romanzi arturiani, a cura di Ead., in Enciclopedia dantesca, dir. U. Bosco, 6 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1970-1978, IV (1973), consultabile anche all’indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/romanzi-arturiani_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ [ultima consultazione: 10 marzo 2023]; voce romanzi cortesi, a cura di A. Viscardi, in ibidem, consultabile anche all’indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/romanzi-cortesi_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ [ultima consultazione: 10 marzo 2023]; A. Punzi, G. Paradisi, La tradizione del «Tristan en prose» in Italia e una nuova traduzione toscana, in L’art narratif aux XIIe et XIIIe siècles. Actes du XXe Congrès International de Linguistique et Philologie Romane, Université de Zurich (6-11 avril 1992), publiés par G. Hilty en collaboration avec les presidents de section, Tübingen-Basel, Francke, 1993, pp. 323-337. 8 Cfr. F. Rossi, Dante e le «ambages» cavalleresche, in «Critica del testo», XXII/1 (2019), pp. 67-107. 6 Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 11 personaggi del mondo bretone, i cui profili sono talvolta esplicitamente nominati, talora desumibili per allusione – di Tristano, di Artù, di Lancillotto, di Galeotto nel primo caso, di Ginevra, della Dama di Malehaut, di Mordret nel secondo. Ma, volendo renderne conto sinteticamente entro una sede come quella che qui proponiamo, quale tipo di valore assegnare a ciascun riferimento, quale a ciascuna emersione? Partendo anzitutto da un oculato sondaggio delle conoscenze acquisite, lo spazio per qualche riflessione è ancora aperto, pure in un campo così frequentato. Riguardo al problema di una diversa stratificazione cronologica dei riferimenti danteschi si può notare come l’emersione di tracce nel corpus delle rime raramente è stato associato alle più esplicite evidenze del De vulgari, del Convivio e della Commedia. Si ricordino solo alcuni esempi: il Lai mortel pronunciato da Tristano nel Tristan en prose è stato indicato come possibile ipotesto per il sonetto doppio O voi che per la via d’Amor passate9; oppure: la «donna verde» citata in I’ho veduto già senza radice come allusione a Viviana, la Dama del Lago10; e ancora: il messaggio di Tristano ferito a morte che viene affidato a Caerdino perché lo ripeta ad Isotta come modello per la celebre canzone La dispietata mente, che pur mira11. «O voi che per la via d’Amor passate, / attendete e guardate / s’egli è dolore alcun, quanto ’l mio grave; / e prego sol / ch’audir mi sofferiate, / e poi imaginate / s’io son d’ogne tormento ostale e chiave»; cfr. Rime, a cura di M. Grimaldi, in Dante Alighieri, Le opere, I. Vita nuova - Rime, a cura di D. Pirovano, M. Grimaldi, introduzione di E. Malato, t. I, Vita nuova - Le Rime della Vita nuova e altre rime del tempo della Vita nuova, Roma, Salerno, 2015, pp. 350-357, a p. 353; Dante’s Lyric Poetry, II. Commentary, edited by K. Foster, P. Boyde, Oxford, Clarendon Press, 1967; A. Corbellari, La voix des clercs. Littérature et savoir universitaire autour des dits du XIIIe siècle, Genève, Droz, 2005, pp. 224-225. 10 «Giovane donna a cotal guisa verde / talor per gli occhi sí a dentro è gita, / che tardi poi è stata la partita. / Periglio è grande in donna sí vestita: / però d’affronto de la gente verde / parmi che la tua caccia non seguer de’»; cfr. Rime, a cura di M. Grimaldi, in Dante Alighieri, Le opere, I. Vita nuova - Rime, cit., t. II, Le Rime della maturità e dell’esilio, Roma, Salerno, 2019, pp. 1037-1041, a p. 1039; A. Pézard, Le sonnet de la Dame verte (Dante à Cino, Rime XCV), in «Revue des Étude Italiennes», n.s., a. XI (1965), pp. 329-380; Dante Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di C. Giunta, Milano, Mondadori, 2018, pp. 444-445. 11 «La dispietata mente, che pur mira / di retro al tempo che se n’è andato, / da l’un de’ lati mi combatte il core; / e ’l disio amoroso che mi tira / ver’ lo dolce paese c’ho lasciato, / d’altra part’è con la forza d’Amore»; cfr. F. Brugnolo, Conservare per trasformare. Il transfer lirico in Dante (Vita nuova e dintorni), in Atti degli incontri sulle opere di Dante, I. Vita nova - Fiore - Epistola XIII, a cura di M. Gragnolati, L. C. Rossi, P. Allegretti, N. Tonelli, A. Casadei, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2018, pp. 25-65. 9 12 Giuseppina Brunetti Proposte di autorevoli studiosi che, allineate in una cronologia relativa e in un sistema di possibili richiami, potrebbero spiegare meglio ad esempio il ruolo che nella Commedia assume il notissimo episodio del bacio di Ginevra e Lancillotto narrato nel Lancelot en prose, scena che dovette colpire profondamente Dante e che è richiamata almeno due volte entro i confini della Commedia12. Molto si sa su tali richiami13, ma, per Dante quale doveva essere il legame intertestuale fra il racconto infernale di Francesca e il riso celeste di Beatrice, quale il gioco di sovrapposizioni fra Ginevra-Francesca da un lato e Dama di Malehaut-Beatrice dall’altro? Negli anni che separano la composizione dell’Inferno da quella del Paradiso, Dante può aver modificato la sua percezione dell’episodio? E se il Lancelot en prose è senz’altro un testo presente nella Commedia, altrettanto si può dire per il Tristan en prose, il romanzo attraverso cui probabilmente Dante conobbe per via preferenziale la vicenda degli amanti di Cornovaglia e sul quale gli studi recenti si sono soffermati14? La centralità dei problemi posti dall’amore di Tristano e di Isotta è infatti presente in Dante, ma forse più urgente di quanto non sia possibile rilevare per via di citazione esplicita. Stabilire dunque una possibile cronologia relativa interna delle letture dantesche delle «prose di romanzi» permetterebbe di spiegare meglio le singole allusioni e di problematizzarle rispetto all’intera opera dantesca. Le emersioni nelle rime, particolarmente sensibili ai richiami tristaniani, diventerebbero dunque uno dei luoghi privilegiati per tale operazione a partire da casi come quelli già ricordati. In tal senso una fra le possibili piste da battere nell’ambito del progetto che qui ci proponiamo potrebbe riguardare proprio le rime di Dante: il celebre sonetto che racchiude quello che da sempre è considerato come il Cfr. Inferno V 127-129 («Noi leggiavamo un giorno per diletto / di Lancialotto come amor lo strinse; / soli eravamo e sanza alcun sospetto»); Paradiso XVI 13-15 («Onde Beatrice, ch’era un poco scevra, / ridendo, parve quella che tossio / al primo fallo scritto di Ginevra»). 13 Cfr. G. Brunetti, «Franceschi e provenzali» per le mani di Boccaccio. Con una nota sui manoscritti della «Commedia», in «Studi sul Boccaccio», XXXIX (2011), pp. 23-59, con la bibliografia citata. 14 Cfr. fra gli altri F. Cigni, La «Francesca» e il tristanismo tra Otto e Novecento, in «Meravigliosamente un amor mi distringe». Intorno a Francesca da Rimini di Riccardo Zandonai, a cura di F. Fortunato, I. Comisso, Rovereto, Osiride, 2017, pp. 209-230, e la bibliografia citata a p. 210. 12 Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 13 riferimento più significativo entro l’opera giovanile di Dante alla materia bretone e dunque alla storia ‘romanza’ di Artù e dei suoi cavalieri. Il celeberrimo Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io è infatti, forse, uno dei componimenti più noti del corpus dantesco. Eppure, i commentatori, recependo in larga parte una proposta molto convincente di Pio Rajna del 192015, non sembrano aver ancora trovato un accordo riguardo la fonte più probabile per l’immagine dantesca: Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io fossimo presi per incantamento, e messi in un vasel ch’ ad ogni vento per mare andasse al voler vostro e mio, sì che fortuna od altro tempo rio non ci potesse dare impedimento, anzi, vivendo sempre in un talento, di stare insieme crescesse ’l disio; e monna Vanna e monna Lagia poi con quella ch’è sul numer de le trenta con noi ponesse il buono incantatore; e quivi ragionar sempre d’amore, e ciascuna di lor fosse contenta, sí come i’ credo che saremmo noi16. Il vascello del «buono incantatore», ovvero – come si è sempre detto da Rajna in poi – Merlino, è l’oggetto magico in cui l’atmosfera di rarefatto sogno del sonetto si dipana: un’imbarcazione che in totale pace si muove al semplice desiderio collettivo ed unanime dei suoi ospiti, che in una medesima comunione condividono l’amore per le rispettive donne. I commentatori, anche recenti, sostengono che non sia necessario, ai fini dell’interpretazione dei versi, individuare un preciso antecedente o un riferimento puntuale, ma il senso della scena dantesca si sfaccetterebbe meglio, qualora le allusioni che propone contribuissero alla costruzione del suo significato. 15 16 Cfr. Rajna, Dante e i romanzi, cit., pp. 241-243. Dante Alighieri, Vita nuova - Rime, cit., t. I, pp. 667-675 (corsivi miei). 14 Giuseppina Brunetti Le proposte in tal senso – quella al Mare amoroso è la più diffusa17 – si sono infatti moltiplicate nel corso degli anni, anche grazie agli studi tematici sulle ‘navi magiche’ (ricordo soltanto quelli di Michelangelo Picone18): le proposte riguardano gli ipotesti, più vaghi, la Mannekine di Philippe di Beaumanoir, il Floriant et Florete, il Tant ai mo cor ple de joya di Bernart de Ventadorn, o l’anonimo plazer Lo sen volgra de Salomon; ai più puntuali come le Prophecies de Merlin, di cui si ricorda la magica nave della dama d’Avalon che viaggia sia per terra sia per mare19, al già ricordato Mare amoroso, spesso citato per la congruità dell’atmosfera descritta ma la cui nave magica sembra forse più vicina a quella delle Prophecies, meno però al «vasel ch’ad ogni vento per mare andasse». Ma se per altra via siamo certi che Dante poté avvicinarsi al Tristan en prose, è forse più economico riferire proprio al romanzo francese una qualche influenza nella genesi dell’immagine dantesca, recuperando nel dettaglio, ma declinando ulteriormente, la proposta che era stata già di Rajna: durante una battuta di caccia nella foresta, Tristano incontra una damigella che lo conduce in riva al mare e gli mostra una nef de joie, fornita di ogni bellezza e priva di nocchiero, pronta a viaggiare ovunque i suoi ospiti vogliano, preannunciandogli così che con essa raggiungerà il regno di Logres20. Tristano vi conduce dunque Isotta e la nave trasporta entrambi, dopo molte avventure, presso il Cfr. Mare amoroso, vv. 212-221: «E se potesse avere una barchetta, / tal com’ fu quella che donò Merlino / a la valente donna d’Avalona, / ch’andassi sanza remi e sanza vela / altressì ben per terra com’ per acqua; / e io sapessi fare una bevanda / tal chente fu quella che bevve Tristaino e Isotta, /a bere ve’n daria celatamente una fiata / per far lo vostro cuor d’una sentenza / e d’un volere col mio intendimento […]» (corsivi miei). 18 Cfr. M. Picone, Il motivo della nave magica da Marie de France a Petrarca, in «Ensi firent li ancessor». Mélanges de philologie médiévale offerts à Marc-René Jung, publiés par L. Rossi avec la collaboration de C. Jacob-Hugon et U. Bähler, 2 voll., Alessandria, Edizioni dell’Orso, 1996, II, pp. 813-830. 19 Sul testo e sulla tradizione profetica merliniana medievale lavora, come si è gia accennato, il gruppo di ricerca internazionale EPM. Equipe Prophecies de Merlin che coordino dal 2017; cfr. https://site.unibo.it/epm/it. 20 Cfr. Le Roman de Tristan en prose (version du manuscrit fr. 757 de la Bibliothèque nationale de Paris). De la folie Lancelot au départ de Tristan pour la Pentecôte du Graal, édité par N. Laborderie et T. Delcourt, Paris, Champion, vol. II, 1999, pp. 255-270, 277-278, 296-297, ed in particolare la p. 256 (= Lös. 323; Paris, BnF, fr. 757, c. 79va): «Et trouvent illuec en .i. petit regort entre .ii. roches une petite nef, la plus bele et la plus riche […] car elle estoit trop bien faite de toutes choses» (corsivi miei). 17 Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 15 castello di Mabon l’incantatore che si rivela essere colui che ha inviato il vascello all’eroe al fine di riceverne aiuto – sia detto per inciso, Mabon è sì un cavaliere, signore della tour sur l’Ombre, ma è anche noto per le sue doti magiche, per la capacità di lanciare incantesimi che gli guadagnano l’epiteto di enchanteur, enchanteor; così viene infatti presentato a Tristano che in un primo tempo teme di poterne ricavare danno, ma che ben presto ne scopre l’indole generosa e decide di aiutarlo21. Dopo molte vicissitudini è proprio il viaggio indotto da Mabon sulla nef de joie a permettere a Tristano di raggiungere insieme ad Isotta la Joyeuse Garde e a trascorrevi con lei alcuni mesi di assoluta pace, in perfetta armonia, all’insaputa di tutti e lontano da ogni preoccupazione cavalleresca e politica22. Insomma la nef de joie, costruita da Merlino, ma inviata da Mabon l’incantatore, e che avvicina gli amanti di Cornovaglia al loro ritiro d’amore, sembrerebbe proporsi come una fonte adatta per il «vasel» di Dante, in virtù di contatti che sarà necessario illuminare ancora23, ma che – è ancora interessante rilevare – consuonano significativamente con versi di altri poeti coevi allo stesso giovane Dante, come in questo caso quel Guido Orlandi che, rispondendo all’altro Guido, il Cavalcanti, sembra aver già avvicinato l’idea del piacere cortese, sgombro di preoccupazioni, ad una navigazione serena e ad un 21 Cfr. Roman de Tristan, cit., vol. II, pp. 306-340, ed in particolare le pp. 315-316 (= Lös. 334; Paris, BnF, fr. 757, c. 86vb): «“Sire, ce est cil qui devant vos siet, sil meismes qui parla hui a vos premierement quant vos estiez en la nacele. – Et conment a il non?, fet il. – Sire, l’en apele Mabon l’enchanteor”. Et quant misere Tristan ot parler de Mabon, il est auques espaontés, car il a doutance et paor que il ne face aucun ennui a lui ou a madame Yzeut, plus par la force de ces enchantemenz que par autre force que il eüst. Et il avoit ja bien oï dire a maintez gent que Mabon estoit bien costumier de fere corrouz a chevaliers aventurex» (corsivi miei). 22 Cfr. Roman de Tristan, cit., vol. II, pp. 383-392, 410-414; Le Roman de Tristan en prose (version du manuscrit fr. 757 de la Bibliothèque nationale de Paris). De l’arrivée des amants à la Joyeuse Garde jusqu’à la fin du tournoi de Louveserp, édité par Jean-Paul Ponceau, Paris, Champion, vol. III, 2000, pp. 69-73. 23 Cfr. ad esempio alcuni passi della Tavola Ritonda (in particolare il brano in cui Lancillotto rinomina la Gioiosa Guardia: La Tavola Ritonda o l’Istoria di Tristano, per cura e con illustrazioni di F. L. Polidori, Bologna, Romagnoli, vol. 1, 1864, pp. 22-26) o il congedo della canzone di Pallamidesse Bellindote, Amore grande peccato: «A la Guardia Gioiosa / ten va al mio Tristano / mia chanzone dolorosa» (Crestomazia italiana dei primi secoli, a cura di E. Monaci, nuova ed. riveduta e aumentata a cura di F. Arese, Roma-Napoli-Città di Castello, Dante Alighieri, 1955, pp. 292-293). 16 Giuseppina Brunetti ritiro d’amore per eccellenza, quella Gioiosa Garda verso cui veleggiavano proprio Tristano e Isotta: A suon di trombe, anzi che di corno, vorria di fin’ amor far una mostra d’armati cavalier, di pasqua un giorno, e navicare senza tiro d’ostra ver’ la Gioiosa Garda, girle intorno a sua difesa, non cherendo giostra a te, che se’ di gentilezza adorno, dicendo il ver: […]24 Per passare a un piano più squisitamente formale proporrò una seconda prospettiva perché il progetto Dante romanzo toccherà naturalmente anche gli aspetti linguistici dei rapporti tra le opere dell’Alighieri e le letterature neolatine. Speciale attenzione sarà rivolta alla repertoriazione e allo studio di forme lessicali che Dante mutua, direttamente o per il tramite di altri autori toscani, dai testi galloromanzi e siciliani. Sappiamo che lo stato dell’arte per la lingua di Dante e i suoi debiti verso le altre tradizioni romanze è attualmente robusto: ai dati offerti dall’Enciclopedia dantesca si affiancano infatti, come si accennava poc’anzi, gli approfonditi studi lessicografici di Riccardo Viel sui gallicismi nella Commedia25, e la ricca messe di dati offerta dal Vocabolario Dantesco. Scopo del progetto Dante romanzo sarà dunque non l’allestimento di un glossario o di uno spoglio lessicografico limitato alle voci di origine galloromanza o siciliana, ma una schedatura critica, accompagnata da riflessioni di carattere extralinguistico, delle forme di ascendenza francese, occitanica e italiana meridionale che sono indicative delle coordinate letterarie e culturali entro cui Dante 24 Sull’intero tema cfr. le ricerche di N. Gensini presentate nella relazione Sul vascello di Merlino: tra la «barge» della «dame d’Avalon» e «Guido, i’ vorrei che tu e Lapo e io», tenuta a Ravenna in occasione del ‘Congresso Dantesco Internazionale – AlmaDante 2019’ presso il Dipartimento di Beni Culturali dell’Alma Mater Studiorum – Università di Bologna il 31 maggio 2019 (ma cfr. anche Id., «Suavissimus modernus poeta». Studi su Giovanni Boccaccio, Bologna, Bologna University Press, in corso di stampa). 25 R. Viel, L’impronta del «Roman de la Rose»: i gallicismi del «Fiore» e del «Detto d’Amore», in «Studi Danteschi», LXXI (2006), pp. 129-190; Id., I gallicismi, cit. Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 17 è attivo. Già negli spogli dei gallicismi effettuati da Viel, ad esempio, sono presenti non solo i riferimenti ad autori italiani che Dante conosceva e che possono aver funto da tramite per la penetrazione di tali forme nelle opere dantesche, ma anche i rimandi a testi meno autorevoli, che sono serbatoi di forme francesi: mi riferisco ai volgarizzamenti di quelle opere in prosa, come l’Histoire ancienne jusqu’à César, che in realtà Dante doveva conoscere anche in francese, come è documentato dal celebre passo del De vulgari eloquentia (I x 2) in cui è menzionata la «Biblia cum Troianorum Romanorumque gestibus compilata», in un certo senso la controparte mito-storiografica delle «ambages» arturiane ricordate poc’anzi. Un possibile obiettivo della nostra schedatura è infatti proprio quello di approfondire la conoscenza delle fonti che Dante aveva a disposizione, anche sfruttando le acquisizioni filologiche degli ultimi anni; si pensi, ad esempio, per quanto esito piuttosto che origine, alla pubblicazione del Lancellotto, traduzione toscana del Lancelot en prose, edito a cura di Luca Cadioli26. Venendo dunque a qualche caso concreto, possiamo ricordare che l’Enciclopedia dantesca affronta a più riprese il problema dei rapporti tra Dante e le lingue galloromanze: nelle voci oc e oïl27, e nella voce gallicismi28, che offre anche un nudo elenco di forme di origine transalpina. L’utilizzazione incrociata degli strumenti attualmente a disposizione può già indicare alcune strade per possibili approfondimenti; i dati offerti dai lavori degli ultimi anni ci permettono infatti di ampliare la categoria dei “gallicismi”, alla quale possiamo ascrivere lemmi che l’Enciclopedia dantesca classificava diversamente; possiamo avvalerci dei riscontri presenti nel corpus dell’OVI: consideriamo per esempio il termine snello, presente, per quanto mi consta, nella Commedia, ma non nelle altre opere volgari di Dante, e che Lancellotto. Versione italiana inedita del «Lancelot en prose», a cura di L. Cadioli, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2016. 27 Si vedano le voci oc e oïl, a cura di P. V. Mengaldo, in Enciclopedia dantesca, cit., IV (1973), rispettivamente alle pp. 111-117 e 130-133, consultabili anche online agli indirizzi https://www.treccani.it/enciclopedia/oc_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ e https://www. treccani.it/enciclopedia/oil_%28Enciclopedia-Dantesca%29/ [ultima consultazione: 10 marzo 2023]. 28 Voce gallicismi, a cura di B. Migliorini, in Enciclopedia dantesca, cit., III (1971), pp. 90-91, consultabile anche all’indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/gallicismi_%28EnciclopediaDantesca%29/ [ultima consultazione: 10 marzo 2023]. 26 18 Giuseppina Brunetti in base al corpus OVI è poco frequente nella nostra letteratura antica ed è oggetto di una entrata nell’Enciclopedia dantesca29, dove però non è censito come gallicismo (diversamente da quanto avviene nel repertorio di Viel30). Altro caso, diverso e più interessante, è quello del termine caribo (Purg. XXXI 127-132), di origine ed etimo discussi31, già utilizzato dai Siciliani, in particolare da Giacomino Pugliese nel discordo Donna per vostro amore, e presente anche nelle Leys d’Amors. Il lemma, decisamente raro, al punto da mettere in difficoltà gli antichi commentatori della Commedia, è una spia preziosa di rapporti intertestuali (Scuola siciliana e Provenza) e merita un ripensamento comparativo. Diverso è il caso della santa gesta menzionata in Inf. XXXI 17, dove gesta, nel senso di ‘schiera’, è un francesismo lampante, derivato dalla tradizione epica e impiegato, non a caso, in un passo che fa riferimento alla materia carolingia. Interessante notare come un altro vocabolo, chiaramente legato al mondo delle chansons de geste, oriafiamma, compaia invece in tutt’altro contesto, in Par. XXXI 127, come termine di paragone per la Vergine Maria o più genericamente per la parte più alta del Paradiso: in questo caso, dunque, non abbiamo un legame intertestuale preciso e patente, a dimostrazione della varietà di utilizzi cui Dante sottopone i materiali a sua disposizione. Che si tratti di francesismo è dimostrato dal fatto che per l’area italiana il termine sembra comparire per la prima volta in Dante e conosce poi una limitatissima fortuna. Torno alle poesie della Vita nuova con O voi che per la via d’Amor passate, nominate poc’anzi per i rapporti con la tradizione letteraria oitanica, cui si intrecciano questioni di natura linguistica: abbiamo infatti il francesismo dottanza che se è ampiamente documentato nei nostri autori delle Origini, stando a quanto indicato dall’Enciclopedia dantesca alla voce gallicismi, non si incontra mai nella Commedia; questo termine fa parte di una nutrita schiera di forme in -anza o -enza che non si trovano nel poema, 29 Voce snello, a cura di E. Pasquini, in Enciclopedia dantesca, cit., V (1976), p. 277, consultabile anche online all’indirizzo https://www.treccani.it/enciclopedia/ricerca/snello/ [ultima consultazione: 10 marzo 2023]. 30 Cfr. Viel, I gallicismi, cit., pp. 253-254. 31 P. Canettieri, ‘Descortz es dictatz mot divers’. Ricerche su un genere lirico romanzo del XIII secolo, Roma, Bagatto libri, 1995, in particolare pp. 289-297; Giacomino Pugliese, a cura di G. Brunetti, in I poeti della scuola siciliana, 3 voll., Milano, Mondadori, 2008, II. Poeti della corte di Federico II, a cura di C. Di Girolamo, pp. 582-594. Verso un Dizionario di testi, temi e forme romanze nell’opera di Dante 19 ma che sono presenti nelle Rime o nella Vita nuova. Il medesimo sonetto comprende anche il verbo plorare (v. 20), francesismo: in questo caso, il lemma è attestato nella Commedia, ma è anche già nella fonte dichiarata del sonetto ossia le Lamentazioni di Geremia ed è da considerarsi quindi, simultaneamente, una reminiscenza del latino biblico32. Lo studio della distribuzione dei gallicismi nel corpus dantesco può dunque offrire degli spunti interessanti per l’analisi dell’evoluzione della lingua di Dante e del suo mutevole rapporto con gli illustri modelli testuali francesi, provenzali e siciliani; tutto questo, naturalmente, fatta salva la libertà dell’autore di ricorrere o meno a forme transalpine per ragioni stilistiche, come ci si può attendere da una personalità caratterizzata da spiccato plurilinguismo. In conclusione, il nostro progetto mantiene l’obiettivo di colmare una lacuna nel panorama bibliografico, ossia l’assenza di uno strumento che riunisca e rifletta, in maniera critica e comparata, su nomi, personaggi, testi, termini romanzi presenti nell’opera di Dante. D’altra parte, compatibilmente alle risorse e alle forze intellettuali messe in campo, avvii una riflessione diacronicamente ordinata che distinguendo le tracce esplicite del mondo romanzo presenti nelle opere di Dante e quelle implicite additate dagli studiosi, possa proporre un lavoro d’insieme che permetta la progressione delle ricerche in un campo, quello romanzo, che è nostro patrimonio e della Società. I centenari, come diceva Garin, servono a rilanciare, a ‘fare’, insomma a costruire quello che ancora non c’è33. E anche se il moltiplicarsi delle iniziative rischia per Dante di tramutarsi a volte in una nebulizzante e ipertrofica difficoltà più che in un limpido vantaggio ermeneutico, ci si augura che questo minimo tassello, per un’opera di servizio che ancora non c’è, possa essere accolto con favore e sostenuto da uno sforzo collettivo. Per una riflessione rinnovata e comparativa sul ‘Dante romanzo’ ossia sui modi, testi e forme nell’opera dell’Alighieri, utile alla valutazione di quel medioevo romanzo essenziale ed intimamente connesso alla decifrazione efficiente di una moderna idea di Europa. Cfr. Dante Alighieri, Rime, edizione commentata a cura di D. De Robertis, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2005, p. 283, dove il curatore annota: «Riconosciuto gallicismo; ma è verbo scritturale, in particolare di Geremia». Per l’uso di plorare nella Commedia si veda Viel, I gallicismi, cit., pp. 214-215. 33 E. Garin, A proposito di centenari cartesiani, in «Giornale critico della filosofia italiana», 75 (1996), pp. 495-499. 32 Roberto Antonelli Le letture romanze, la lirica, la Commedia* Come è noto, noi possiamo solo ipotizzare quale sia stato il percorso formativo di Dante dai primi studi in poi. Possiamo pensare che accanto all’Esopo, ricordato un paio di volte, abbia dovuto leggere anche alcuni testi usuali nell’insegnamento elementare, come i Disticha Catonis e altre consimili opere. Nei Disticha Catonis sono indicati a titolo esemplare tre dei quattro auctores poi citati nella sua prima opera, la Vita Nuova: Virgilio, Lucano e Ovidio, a cui Dante aggiunge nel libello un altro testo usuale nell’insegnamento, l’Orazio dell’Ars Poetica. A dimostrazione forse dell’avvenuta lettura puntuale, nel capitolo XXV della Vita Nuova Dante cita anche il titolo delle opere: oltre l’Ars Poetica, l’Eneide, la Pharsalia e i Remedia Amoris. Non aggiungo Omero, in quanto sappiamo che era noto a Dante solo per fama e citazioni indirette. Egli ci dice inoltre, ma nel Convivio, di essere stato in grado di leggere Boezio e Cicerone dopo la morte di Beatrice grazie alla sua conoscenza, definita in qualche modo parziale, dell’arte di grammatica, ovvero del latino.1 Lo studio elementare della grammatica era svolto in genere sui Salmi, testi sacri molto semplici, imparati a memoria e quindi tali da permanere nella cultura degli allievi anche in età matura. I Salmi costituiscono, * Si rinuncia a fornire i rimandi bibliografici alle opere citate, tutte notissime. Alcune delle proposizioni avanzate rimandano a due miei precedenti lavori, due per tutti: Avere e non avere: dai trovatori a Petrarca, in «Vaghe stelle dell’orsa…». L’«io» e il «tu» nella lirica italiana, a cura di F. Bruni, Venezia, Marsilio, 2005, pp. 41-75; Dante poeta-giudice del mondo terreno, Roma, Viella, 2021. 22 Roberto Antonelli insieme ad altri libri dell’Antico Testamento, innanzitutto Geremia e Isaia ma non solo, e del Nuovo Testamento, innanzitutto i Vangeli e Paolo, gli elementi più ricorrenti e importanti sia all’altezza della Vita Nuova che poi nella Commedia, come ben mostrato nelle tavole di Dante and the vulgate Bible, di Carolynn Lund-Mead e Amilcare Iannucci, e nell’analisi di Giuseppe Ledda in La Bibbia di Dante. Non sappiamo se Dante abbia proseguito gli studi per il livello successivo e abbia quindi studiato le arti del trivio e del quadrivio, ma è più che probabile. Ricordiamo che delle sette arti sarà tessuto uno straordinario elogio, paragonandole ai sette cieli, nel Convivio, mentre Tolomeo è già citato nella Vita Nuova per i nove cieli e la loro influenza sulla terra, e che l’iscrizione all’Arte degli Speziali potrebbe rimandare a una frequentazione della Facoltà delle Arti, un aspetto della sua biografia finora forse non adeguatamente considerato nella reciproca relazione. Ad un livello molto alto della sua educazione, più in termini di grande influenza intellettuale che di vero e proprio discepolato, come pensò il Boccaccio, è riferibile l’unica altra citazione che egli ci offre riguardo alla sua formazione, quando nel XV dell’Inferno incontra la «cara e buona imagine paterna» di Brunetto Latini, ovvero del grande intellettuale e uomo politico fiorentino che gli aveva insegnato «come l’uom s’etterna». Secondo una famosa nota di Giovanni Villani, infatti, Brunetto era stato «gran filosofo, cominciatore, maestro in digrossare i fiorentini e farli scorti in bene parlare e in saper guidare e reggere la nostra repubblica secondo politica». Una formazione civile, insomma, come è stato ribadito ancora recentemente, tipica della democrazia comunale e anche della cultura dantesca fiorentina. La presenza delle opere di Brunetto percorre l’intera opera dantesca fino alla Commedia, dal volgarizzamento del De Inventione di Cicerone (la Rettorica, talora indicata anche come modello prossimo per le prose di commento alla Vita Nuova), al Tesoretto, al Tresor, raccomandato nella Commedia, come tutti sappiamo, dallo stesso Brunetto a Dante-personaggio: ovvero, vale la pena sottolinearlo, come vedremo, due opere in volgare. Se si esclude la citazione della Metafisica di Aristotele, del quale è probabilmente nota al nostro anche l’Etica a Nicomaco, e di Tolomeo, potremmo esercitarci a introdurre molte altre possibili letture del tempo della Vita Nuova, per citazioni esplicite o implicite allusioni, non sempre certe peral- Le letture romanze, la lirica, la Commedia 23 tro: da Alberto Magno alle Confessioni e forse alle Enarrationes in Psalmos di Agostino. Ritengo però più utile avanzare intanto due osservazioni: la prima è che rispetto al canone di Inferno IV, nella Vita Nuova Orazio non è citato in quanto «satiro», come poi nel poema; la seconda è che Ovidio viene ricordato per i Remedia Amoris e non per le Metamorfosi, poi esplicitamente citate nel De vulgari eloquentia (riprendendo di nuovo il canone dei poetae regulati), e poi ancora nella Monarchia, oltre che nell’Epistola III, ma soprattutto poi largamente utilizzate nella Commedia. Sono partito dalle prime possibili acquisizioni scolastiche di Dante e quindi anche da quelle latine, poiché intendevo sottolineare che le citazioni dei classici nella Vita Nuova configurano scelte molto coerenti col senso del libello, un testo dedicato esclusivamente al ripensamento e alla rielaborazione di tutta la propria produzione lirica giovanile, e ad una prima resa dei conti con i predecessori italiani e i contemporanei poeti romanzi non affini. Molto opportuna, infatti, e necessaria dal punto di vista dantesco, l’utilizzazione dell’autorità dei quattro, ma forse anche rispecchiamento delle sole letture di classici allora per lui disponibili, pur se, certo, ben sappiamo che Dante non espone mai per intero le sue letture, e magari proprio quelle che più lo avevano ispirato e che comunque egli sottopone ad un indefesso processo di ruminatio per tutta la vita. Per esempio, sembrerebbe molto strano che fino al 1294 non avesse letto Andrea Cappellano, ben noto e citato da Cavalcanti e da altri suoi contemporanei e predecessori e del resto ben individuabile, a mio avviso, in varie occasioni anche tra le rime dantesche, ma mai nominato esplicitamente. Sarà l’argomento, sarà la reticenza, ma il Dante della Vita Nuova si presenta dunque ai suoi lettori, per temi e problematiche affrontate, principalmente e quasi esclusivamente come poeta romanzo e lirico che adduce gli auctores per liberarsi innanzi tutto – in modo del tutto esplicito – di quelli che Contini definiva «i suoi più vicini e concorrenti». Ovvero, cito dal libello: «gli alquanti grossi ch’ebbero fama di saper dire per la ragione che quasi furono i primi che dissero in lingua di sì» (Vita Nuova XXV); e sottolineerei «quasi» perché credo sia importante, per comprendere appieno la visione storiografica di Dante, identificare Giacomo da Lentini in quel primo che cominciò a dire sì come poeta volgare poiché «si mosse però che volle fare intendere le sue parole a donna alla quale era malagevole d’intendere li versi latini», come del resto hanno ben visto prima Teodolin- 24 Roberto Antonelli da Barolini e poi Guglielmo Gorni. Gli alquanti «grossi», sempre in Vita Nuova XXV, saranno invece da identificare con quelli che «rimano così stoltamente», ovvero Guittone e i rimatori municipali, poi espressamente citati nel De vulgari eloquentia, in forza di evidenti legami intertestuali tra libello e trattato come da tempo dimostrato. Si veda infatti, con evidente maggior forza argomentativa e competenza testuale, il posteriore De vulgari eloquentia I xiii 1, ove vengono condannati i municipali di «intentio plebeia», e soprattutto II vi 7, ove viene ripreso e precisato il canone della Vita Nuova, con Virgilio, l’Ovidio delle Metamorfosi, Stazio e Lucano, per condannare aspramente Guittone e i suoi seguaci. Con cui, seppur non nominando esplicitamente Guittone, la condanna di coloro che hanno poetato «casu» (De vulgari eloquentia II iv 3), ove ancora si adducono i poetae regulati, con l’Orazio dell’Ars Poetica, l’unico nel caso ad essere nominato (II iv 4): «Differunt tamen a magnis poetis, hoc est regularibus, quia magni sermone et arti regulari poetati sunt, hii vero casu, ut dictum est», cui occorrerà aggiungere anche il successivo II iv 11: «Et ideo confutetur illorum stultitia qui, arte scientiaque immunes, de solo ingenio confidentes, ad summa summe canenda prorumpunt; et a tanta presumptuositate desistant, et si anseres natura vel desidia sunt, nolint astripetam aquilam imitari». E allora come situare la citazione, in Convivio II xv 1, della Consolatio di Boezio e del De Amicitia di Cicerone che egli stesso dichiara di aver letto per consolazione subito dopo la morte di Beatrice – dunque, si dovrebbe supporre, prima della stesura della Vita Nuova? Sarebbero certamente testi importanti per interpretare le origini della struttura e del senso dell’opera: un prosimetro, come il De consolatione philosophiae, e un discorso sull’amore disinteressato come nel De Amicitia, secondo il prezioso contributo di Domenico De Robertis (Il libro della «Vita Nuova»). Potrebbero però riflettere anche un’auto-interpretazione successiva, come dimostrerebbe l’assenza, nella Vita Nuova, per entrambe le opere, di rimandi diretti sicuri e per contro l’influenza più volte ipotizzata dei Salmi e di Agostino, già citata, e accennata dallo stesso De Robertis, a proposito dell’amore disinteressato. Si pone allora e comunque un problema: da dove la svolta del capitolo XVIII della Vita Nuova, cioè Donne che avete intelletto d’amore? Non solo l’amore disinteressato ma soprattutto la sua conseguenza diretta e paradossalmente forse la sua prima origine, ovvero la scoperta esplicita della ‘parola poetica’ Le letture romanze, la lirica, la Commedia 25 e della sua ‘autonomia’? Qualcosa, sottolineo, che durerà fino alla lirica romantica e oltre, e segnerà tutta la lirica europea occidentale. Che la Vita Nuova poggi sui capisaldi fondamentali della lirica romanza e che la sua genesi e le sue finalità vadano giudicate da tale prospettiva, è peraltro lo stesso Dante a dircelo: lo sottolinea a chiare lettere in due passi tra loro strettamente collegati. Il primo di seguito al passo sui «dicitori d’Amore» già citato (Vita Nuova XXV 6). Dopo aver affermato che i poeti hanno iniziato a scrivere in volgare per fare intendere le proprie parole a donna, prosegue con una vera e propria dichiarazione di poetica: «E questo è contra coloro che rimano sopra altra materia che amorosa, con ciò sia cosa che cotale modo di parlare fosse dal principio trovato per dire d’amore». Il secondo è poco oltre, in Vita Nuova XXX 2: «E se alcuno volesse me riprendere di ciò, ch’io non scrivo qui le parole che seguitano a quelle allegate, escusomene, però che lo intendimento mio non fue dal principio di scrivere altro che per volgare; onde con ciò sia cosa che le parole che seguitano a quelle che sono allegate, siano tutte latine, sarebbe fuori dal mio intendimento se le scrivessi. E simile intenzione so ch’ebbe questo mio primo amico [cioè Cavalcanti] a cui io ciò scrivo, cioè ch’io li scrivessi solamente volgare» (corsivi di chi scrive). L’orizzonte nel quale si muove anche la Vita Nuova è dunque incontestabilmente quello della tradizione lirica d’amore – e solo d’amore – e in volgare, è quello del rapporto tra il rimatore e la donna. Se la Vita Nuova è innanzi tutto la prima riflessione sul passato proprio e della lirica volgare precedente, poi completata nella Commedia, e se esiste filo diretto tra Vita Nuova e Commedia, come ci dice lo stesso Dante nel suo incontro con Beatrice, al sommo del Purgatorio, forse per capire la Vita Nuova e i rapporti dell’Alighieri con la tradizione precedente converrà rimanere all’interno della lirica romanza e quindi compiere criticamente la stessa operazione effettuata da lui e seguirlo nell’operazione esposta, appunto, nel libello: confronto culturale con i predecessori e superamento nella «nuova matera», di se stesso e della propria tradizione, come poi su altri presupposti e altre acquisizioni nella Commedia. Non sarà del resto un caso se appunto l’auctoritas dei poetae regulati è addotta nella Vita Nuova esclusivamente sul piano retorico e se di Orazio e Ovidio vengono citate due opere attinenti strettamente alla retorica, l’Ars Poetica e appunto uno dei fondamenti storici, e teorici, della lirica d’amore romanza, ovvero l’Ars 26 Roberto Antonelli Amandi e specificamente i Remedia Amoris, implicati nella redazione del libello più di quanto forse non si sia finora sospettato. Non vi è invece traccia neppure implicita di Cicerone, semmai incorporato nella tradizione lirica attraverso l’elaborazione cristiana sull’amore premio a se stesso che da Agostino arriva a san Bernardo. La collocazione della citazione dei quattro poetae regulati latini in un contesto, il cap. XXV, di forte impegno teorico e soprattutto retorico, appare strategicamente ben congegnata perché organicamente collegata alla scoperta di una poesia fondata sull’autonomia della parola poetica consegnata precedentemente al cap. XVIII e ai componimenti immediatamente successivi, fino appunto al cap. XXV e all’affermazione decisa del ruolo di Dante stesso e di Cavalcanti. È dunque da quel rapporto organico tra poesia, amore, donna, e sua resa retorico-linguistica in volgare, secondo una tensione poi teorizzata nel De vulgari eloquentia, che occorrerà procedere per comprendere i rapporti di Dante con la lirica romanza e quindi la svolta attestata in Vita Nuova XVIII 3-9. Sarà opportuno ricordarne i termini di riferimento essenziali. Di tutto il lungo racconto, sottolineo soltanto tre frasi (ma sarebbe opportuno rileggerlo tutto). Innanzi tutto la domanda della donna: «A che fine ami tu questa donna, poi che tu non puoi sostenere la sua presenza? Dilloci, ché certo lo fine di cotale amore conviene che sia novissimo». Da cui la risposta di Dante: «Madonne, lo fine del mio amore fue già lo saluto di questa donna, forse di cui voi intendete, ed in quello dimorava la beatitudine, che è la fine di tutti li miei desiderii. Ma poi che le piacque di negarlo a me, lo mio segnore Amore, la sua merzede, ha posto tutta la mia beatitudine in quello che non mi puote venire meno» (corsivo di chi scrive). Riprendendo di nuovo il discorso dopo un’altra domanda della «donna che m’avea prima parlato», Dante fornisce la risposta definitiva: «In quelle parole che lodano la donna mia». Da cui la successiva autoriflessione e domanda: «Poi che è tanta beatitudine in quelle parole che lodano la mia donna, perché altro parlare è stato lo mio?» e la decisione di «prendere per matera de lo mio parlare sempre mai quello che fosse loda di questa gentilissima». Come sappiamo, la «nova matera» è la loda della donna, poiché la beatitudine è ormai individuata soltanto nella “parola in sé”, cioè nell’autonomia assoluta della poesia, senza più alcuna possibile dialogicità con l’oggetto dell’amore, che diviene solamente “strumento” per l’attivazione della parola in quanto rispecchiamento dell’Io. Fino se vogliamo alle estreme conseguenze, ovvero la morte fisica Le letture romanze, la lirica, la Commedia 27 della donna, come altre volte si è detto, per chiarire definitivamente l’abbandono di un discorso lirico basato sul valore di scambio, come in tutta la lirica precedente: di «guiderdone», un termine infatti il cui uso si chiude con Dante e prima ancora con Cavalcanti. Ma ciò, come appunto già detto altrove e che quindi in questa sede accenno appena, rappresenta innanzi tutto un geniale completamento, portato alle estreme conseguenze, di una problematica che aveva visto impegnati i più grandi esponenti della lirica trobadorica (noti a Dante anche al di là di quelli esplicitamente citati, ma molte volte di difficile accertamento), che però non erano mai arrivati ad una soluzione che superasse lo stallo di un’eterna ossessiva e inevasa richiesta d’amore all’amata, che poteva avere come unico sbocco soltanto un’ossessione retorica. Risulta evidente anche dall’esempio più avanzato, la famosa e bellissima tenzone di Bernart de Ventadorn, Raimbaut d’Aurenga e Chrétien de Troyes, ove troviamo il riconoscimento ‘esplicito’, da parte di Bernart, del carattere narcisistico dell’amore (corsivi di chi scrive): Anc non agui de me poder ni no fui meus de l’or’en sai qu˙m laisset en sos olhs vezer en un miralh que mout me plai: miralhs, pus me mirei en te, m’an mort li sospir de preon, c’aissi˙m perdei com perdet se lo bels Narcisus en la fon. 20 E da parte di Chrétien l’affermazione del valore dell’attesa, senza necessario soddisfacimento dell’amante, che pure ancora l’auspica: Cuers, se ma dame ne t’a chier, ja mar por ce t’an partiras; toz jorz soies an son dangier, puis qu’anpris et comancié l’as. Ja, mon los, planté n’ameras, ne por chier tans ne t’esmaiier. Bien adoucist par delaiier, et quant plus desirré l’avras, tant iert plus dous a l’essaiier. 45 50 28 Roberto Antonelli Due aspetti su cui ragioneranno in particolare i lirici italiani: Guinizzelli e ancora più in particolare Cavalcanti e Dante, da cui forse lo scatto in avanti della lirica italiana rispetto a quella trobadorica (ma già in Giacomo da Lentini, il “maestro” di Guinizzelli, vi sono fondamentali accenni al riguardo). Nel momento in cui non si richiede la ricompensa, il corpo della donna, la dialogicità, sia pur fittizia, perderà la centralità fino ad allora avuta: la scrittura si focalizzerà sull’Io, come dapprima appunto in Giacomo, e sulla distanza o inconoscibilità dell’oggetto, come in Cavalcanti, o sulla sua perdita, come poi in Dante. È il percorso che segna la nascita della specificità della lirica italiana ed europea: in particolare ovviamente la nascita e lo sviluppo del sonetto quale genere dell’io lirico, da Giacomo da Lentini (non a caso il suo inventore) a Guinizzelli, a Cavalcanti, a Dante. Non posso soffermarmi su questo passaggio, ma è importante ricordare che la canzone di Bernart non solo è in parte tradotta da Dante nel Paradiso (XX 73-75), pur non nominando mai questo trovatore in tutta la sua opera (ed è fatto molto significativo per le abitudini di Dante, e spiega anche tutte le nostre difficoltà nel ricostruire la sua biblioteca anche romanza), ma era stata tradotta già prima da Bondie Dietaiuti, rimatore in strettissima relazione con Brunetto Latini e con Guido Guinizelli, ovvero col “padre” di Dante, nelle cui rime sono stati individuati anche versi tradotti o riconducibili con buona certezza alle già citate canzoni in tenzone di Bernart, di Chrétien e Raimbaut. Come sappiamo, rime in lode della donna amata erano già in Giacomo, in Guinizzelli e in Cavalcanti, nel quale, però, la dialettica fra Io e Tu viene interrotta radicalmente, per la prima volta, supponendo la morte o la probabile morte dell’Io quale a priori del movimento lirico e quindi già con possibile enucleazione del valore assoluto della voce: «tu voce sbigottita e deboletta», con diretto coinvolgimento della parola. Fra i due poli possibili Dante sceglie la morte del Tu, di Beatrice, non quella dell’Io: una morte sopraggiunta a metà della storia però, non alla fine come nei trovatori. Un espediente che rende possibile per la prima volta una scansione temporale interna alle rime, e quindi la narrazione della storia dell’Io: un libro canzoniere in forma di prosimetro – anche perché questa scrittura di secondo grado andava ovviamente spiegata e motivata. Una scelta che quindi prescinde completamente da ogni suggestione proveniente dalla cultura non romanza, dal De consolatione philosophiae, per quanto riguarda Le letture romanze, la lirica, la Commedia 29 la struttura, e dal De Amicitia per quanto riguarda la storia dell’Io. Rende cioè possibile una concezione d’amore affidata esclusivamente alla parola e non allo scambio interpersonale, con una svolta che anche dal punto di vista tematico e teorico va ben oltre la teoria dell’amore disinteressato esposta nel trattato ciceroniano e nelle sue declinazioni. Da questo punto di vista, il De vulgari eloquentia appare come lo sviluppo e la teorizzazione assoluta e autonoma delle premesse retoriche stabilite nella Vita Nuova, volto a stabilire un possibile ruolo per i nuovi intellettuali volgari e in primis per Dante, posto ora di necessità a riflettere al di là del recinto comunale. La riaffermazione, in un trattato latino, di una gerarchia e di un canone e della propria appartenenza ad una storia “alta” dei rimatori volgari arrivati ormai a poter essere gratificati di un titolo accademico, doctores, come in Guiraut Riquier, e soprattutto di quello di poeti, seppur non regulati – non più semplici rimatori, come Dante si premura di chiarire – comporta una ricerca di auctoritates più ampia rispetto a quella precedente, sia rispetto alla lirica in volgare di sì, che in volgare d’oc e d’oïl, e un nuovo regolamento di conti con Guittone e i suoi seguaci: dunque anche la costituzione, per quanto riguarda la lirica d’amore, di un sistema retorico e regolatorio più stringente e preciso rispetto alla Vita Nuova, come del resto imponeva la scelta del genere “trattato”. Ma non richiederà un ripensamento e una radicale rimessa in discussione delle proprie scelte precedenti, semmai un allargamento per comprendervi anche le petrose e le morali: sono l’altezza stilistica e la congruenza dei generi che stabiliscono l’appartenenza al canone, come già nel capitolo XXV della Vita Nuova. Si possono dunque accogliere l’uno accanto all’altro i grandi siciliani e i bolognesi illustri, gli stilnovisti, con qualche inversione di prestigio interno tra Cavalcanti e Guinizzelli e Cino, trovatori come Peire d’Alvernha, Aimeric de Pegueillhan, Aimeric de Belenoi, Folchetto di Marsiglia e Guiraut de Borneilh, Bertran de Born e Arnaut Daniel, e trovieri come Thibaut de Champagne e Gace Brulé, scambiato con Thibaut. Lo scopo è quello di fissare le regole del gioco, con l’allargamento di interessi oltre la venus, alla salus e alla virtus: i magnalia. Naturalmente a patto di riconoscere attraverso Cino il primato dell’«amico suo», ovvero di se stesso, nella lirica d’amore e in quella morale. Avrebbe potuto essere invece il Convivio, con la scelta della donna gentile, della Filosofia vs. Beatrice, l’occasione di un 30 Roberto Antonelli completo e radicale mutamento del canone, ma il trattato in volgare rimarrà bruscamente e significativamente interrotto, come quello in latino. Costituirà invece un thesaurus di ragionamenti e materiali a disposizione per la Commedia, con un completo rovesciamento di genere linguistico e retorico rispetto al De vulgari eloquentia (con la scelta del sermo humilis), e ideale rispetto al Convivio, con la scelta di quell’amore-caritas e di quella sapienza che incorpora in sé nell’antica e nuova fiamma (come dirà esplicitamente in Purg. XXX 46-48) anche le scelte filosofiche del Convivio. Nella Commedia l’operazione coinvolgerà dunque di nuovo se stesso come stilnovista e come lettore dei trovatori, all’interno di una profonda operazione di autocoscienza morale e letteraria che diviene uno dei motivi conduttori del libro. Dalla Francesca di Inf. V (non a caso – è stato detto – il primo personaggio-donna incontrato nella guerra «sì del cammino e sì della pietade», Inf. II 5), fino alla Beatrice di Purg. XXX e XXXI che presenterà a Dante il conto di tutta la sua vita, e fino al Folchetto di Paradiso IX (anticipato in Purg. XXVI 140-146), che ne figurerà il destino futuro e rappresenterà intanto l’estremo limite – per Dante ovviamente, ma forse anche per noi – della lirica trobadorica. L’io autoriale si dovrà quindi necessariamente sdoppiare lungo tutta l’opera: il personaggio-Dante, l’io “esistenziale”, come è stato detto, dovrà sperimentare, necessariamente inconsapevole, in quanto distinto dall’auctor, tutte le stazioni penitenziali disposte dal Dante autore, narratore a posteriori delle vicende narrate nel poema. La poesia romanza sfilerà dunque di fronte a Dante-personaggio nella struttura e nelle funzioni predisposte da Dante-autore e “poeta-giudice”, fino a riesaminare esplicitamente tutta la vita poetica di Dante prima del 1300, e implicitamente anche quella successiva. Francesca incorporerà dunque l’amore cortese, stilnovistico e lirico nel nome di Guinizzelli e dello stesso Dante, come è noto, mentre nei canti XVII-XXXIII del Purgatorio sarà sviluppato un unico grandioso e nuovo discorso sull’amore, ideale e insieme affettivo e metapoetico: una rinarrazione della tradizione lirica romanza in quanto oggetto di una nuova originale translatio competitiva e vincente anche rispetto alla tradizione classica, proprio grazie alla Commedia. Un discorso quindi sulla propria poesia e sul senso di Beatrice (e della sua morte prematura) nella Commedia. La presenza, ancora una volta, dei grandi poeti della tradizione classica, Virgilio e Stazio, che accompagne- Le letture romanze, la lirica, la Commedia 31 ranno Dante fin quasi al colmo del Purgatorio costituirà infatti e ancora la premessa agli incontri successivi e la legittimazione autorevole del discorso metapoetico svolto nei canti dal XXII al XXVI. Qui Dante incontrerà, in ordinata successione biografica e culturale, tutti i rimatori volgari della propria esperienza poetica – quasi tutti, meglio, ovvero quelli già citati nelle opere precedenti. Perlomeno i più rilevanti: prima di tutti Forese e la propria frequentazione del genere comico con relativa palinodia, quindi Bonagiunta, che introduce a sua volta Giacomo da Lentini, il primo a dire in volgare di sì, appunto, e Guittone, quali antecedenti antinomici del «dolce stil novo» di Dante, comprensivo forse dei suoi sodali stilnovisti – lo confermerà a Guinizzelli, come sappiamo, due canti dopo –, ma al contempo dagli stilnovisti suoi amici ben distinto, come chiaramente ben indicato dalla citazione di Donne ch’avete intelletto d’amore da parte di Bonagiunta (sono le famose terzine di Purg. XXIV 55-63). Ovvero di quella canzone origine e svolta della Vita Nuova in sodalizio peraltro ancora con Guinizzelli e Cavalcanti ma già ben oltre il loro insegnamento e dettato. Nell’incontro con Bonagiunta è stata vista finora solo l’autoaffermazione del Dante storico, l’autore di Donne ch’avete e l’“inventore” dello stil novo. Forse dovremmo imparare a leggervi anche il Dante giudice, che, come ovunque nella Commedia, ma in particolare negli incontri con i poeti fino a Beatrice, mette sotto inchiesta il personaggio-poeta e si vale di tale prerogativa per riscrivere anche la storia letteraria e poetica esclusivamente dal proprio punto di vista. Il viaggiatore penitente è giudicato formalmente da Dio, ma ovviamente dal nuovo Dante, dall’autore. Il riconoscimento di sé, nella famosa terzina che definisce lo stil novo (Purg. XXIV 52-54), stacca la propria esperienza da ogni altra (Io: «I’ mi son un che») ed è la precondizione essenziale e ultima per l’ascesa a Beatrice e a Dio. Dopo la spiegazione di Virgilio sull’essenza di amore, fornita nel canto XVIII, è impossibile non giudicare la definizione di stil novo messa in bocca a Bonagiunta come una determinazione storico-biografica da cui Dante-auctor si è ormai staccato, e da cui sta facendo staccare anche il personaggio-poeta. L’amore della proposizione dantesca, prima ancora di dispiegarsi come «l’Amor che move il sole e l’altre stelle», ha dietro di sé l’inizio di questo specifico percorso: l’amore che informa di sé tutta la natura nella spiegazione di Virgilio in Purg. XVIII 16-27, e soprattutto il nuovo Dante, personaggio-poeta che sta superando anche la propria poesia lirica e persino quanto di ancora non 32 Roberto Antonelli chiaro vi era stato nella svolta dei sonetti XX e XXI della Vita Nuova prima dell’annunzio della morte di Beatrice nel capitolo XXIII. In un complesso gioco delle parti tra auctor e agens, come sempre in ogni opera proposta come autobiografica ma tanto più nella Commedia, possiamo infatti intravedere il nuovo pensiero nella sottolineatura della propria individualità e nel ‘dittare dentro’ della risposta dantesca a Bonagiunta, che si accompagna ad un rimante-chiave, cioè «spira», della dinamica d’amore della Commedia e della spiegazione di Virgilio nel canto seguente, il XXV, ove il quadro sarà complicato dallo «spirito novo» (v. 72), l’anima intellettiva, che Dio ispira nel feto ormai maturo. Sarà dunque in progressione logica e lineare che nello stesso canto XXV sia evocato intertestualmente in quanto averroista (come già in Inferno X), attraverso il sintagma «il possibile intelletto», il suo grande alter ego ormai antinomico, l’altra via della poesia, lirica: Guido Cavalcanti, che tornerà ancora in cima al Paradiso. Nel canto successivo, non a caso, a completare il quadro storiografico, si affronterà Guido Guinizzelli, precedente dal punto di vista cronologico in vita ma posteriore nella cronologia poetica dantesca (in quanto sostitutivo di Guido Cavalcanti), ovvero «il padre / mio e de li altri miei miglior che mai / rime d’amor usaro dolci e leggiadre» (da interpretare, contrariamente a tutti i commenti, come ‘migliore di me e dei miei sodali che mai usarono ecc.’). Guinizzelli, dopo aver violentemente attaccato Guittone e quel Guiraut de Bornelh celebrato nel De vulgari, si schernisce in funzione palinodica e indica in Arnaut “un” – non “il” – miglior fabbro del parlar materno, al quale è concesso il significativo ed eccezionale onore di parlare in provenzale. Non con parole qualsiasi, però, come ormai sappiamo, ma con l’incipit e altri stilemi della canzone di Folchetto Tan m’abellis l’amoros pensamens citata esplicitamente nel De vulgari: quel Folchetto che sarà l’unico poeta romanzo ammesso in Paradiso, proprio in quanto figura di poeta militante, come Dante, ovvero implicitamente figura di colui che rappresenta l’acme e l’esaurimento di tutta la tradizione romanza, una volta superato l’esame di Beatrice, seppure in attesa di quello teologico di Pietro, Giacomo e Giovanni e dell’investitura a poeta-profeta. L’unica scelta sottratta ad ogni palinodia, che in realtà in Inferno IV ha già investito tutta la «bella scola» dei più grandi auctores pagani, riguarderà perciò Beatrice e la «nova matera», così come rappresentata nel capitolo XVIII della Vita Nuova e nel ritorno di lei nei capp. XL e XLII, fino alla Le letture romanze, la lirica, la Commedia 33 famosa proposizione di non dire più di Beatrice «infino a tanto che io potesse più degnamente trattare di lei». Ma già allora tanto sottratta alla dialettica del mondo da poter poi riassumere in sé, nel poema, l’antica fiamma e la nova, ovvero appunto «l’Amor che move il sole e l’altre stelle», la lirica romanza e il poema sacro. In Purgatorio XXX e XXXI Beatrice è la giovane donna fissata nella Vita Nuova – si noti il vestito di colore rosso, lo stesso con cui apparve in sogno a Dante – ma è ormai anche altro: ora il viaggiatore nel mondo dei morti, che ha visto il dispiegarsi della giustizia divina come immaginato e predisposto dal suo autore, diviene esplicitamente ‘soggetto’ di un nuovo percorso e ‘oggetto’ di un giudizio conclusivo. Beatrice è inflessibile, è l’Ammiraglio, ripercorre la vita di Dante dalla Vita Nuova, esplicitamente citata in una serie rimica di marca stilnovistica, fino alla grazia concessa per elezione da Dio a Dante. Una grazia però tradita da Dante con la deviazione verso altri tipi d’amore e altri tipi di poesia romanza, chiaramente evocata da impetrare insieme ad altri cospicui rimandi alla lirica dantesca posteriore al libello, come è stato mostrato in particolare da Corrado Bologna: Purg. XXX 118-135. Se a tanta grazia non seguisse un corrispettivo pentimento sarebbe violata la legge di Dio, ma l’ammissione di colpa ottenuta non è ritenuta sufficiente, tanto da fornire l’occasione di una ancor più aspra rampogna: Beatricegiudice, ovvero Dante-autore e -giudice, condanna infatti tutta la poesia post-Vita Nuova fino ovviamente al 1300, stabilendo al contempo implicitamente ancora una volta un legame prima interrotto ma tuttora vitale fra il poemetto giovanile e la Commedia, ricordando in particolare l’importanza simbolica della sua morte (Purg. XXXI 43-63). Come lo stesso Dante aveva riconosciuto nel libello – ma poi dimenticato –, per darsi a una “pargoletta” o fugace novità. Siamo al momento forse di maggior divaricazione tra Dante-autore e Dante-personaggio e -poeta, tesi peraltro proprio per questo a una necessaria riconciliazione purificatrice con una drammatizzazione che coinvolge le strutture profonde dell’opera e il suo rapporto con il lettore. Il riferimento alle liriche del Dante post-Vita Nuova è abbastanza chiaro ai lettori fin dall’Ottimo Commento trecentesco, e coinvolge esplicitamente sia una ballata, ovvero il genere preferito da Cavalcanti, I’ mi son pargoletta bella e nova, sia le rime petrose «o altra novità con sì breve uso», quasi una ripresa predatata (rispetto al viaggio oltremondano, collocato nel 1300) del successivo De vulgari eloquentia, sempre in funzione palinodica. 34 Roberto Antonelli Il colpo finale all’antica identità del personaggio-poeta Dante è dato infine dalla vista di Beatrice, ancora più bella dell’antica, e dall’immersione nel fiume Lete che toglie la memoria del peccato – e forse anche della lirica precedente, in Paradiso assente quale esplicita protagonista – ove il «caddi vinto», si noti, riprende chiaramente il «caddi come corpo morto cade» dell’incontro con Francesca in Inferno V, ovvero la prima donna nominata e in un certo senso l’anti-Beatrice, concludendo l’incontro con la poesia romanza e con la propria poesia. Paolo Canettieri I trovatori come personaggi di una Commedia Vorrei qui guardare ai quattro trovatori che agiscono nella grande Commedia dell’oltremondo dantesco, non tanto come a delle funzioni, che esprimono idee sulla poesia, giacché questo è stato già ampiamente fatto1, bensì in quanto Personaggi di un dramma, cercando di stabilire come essi abbiano animato la scena, come parlino, quali relazioni intercorrano fra loro, quali caratteristiche fisiche e caratteriali abbiano (se ne hanno), come si muovano sul palco2. 1 T. Barolini, Il miglior fabbro: Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 81 (ed. orig. Dante’s Poets: Textuality and Truth in the Comedy, Princeton, Princeton University Press, 1984); cfr. anche M. Marti, Con Dante fra i poeti del suo tempo, Lecce, Milella, 1966; G. Folena, Dante e i trovatori, ora in Id., Textus testis. Lingua e cultura poetica delle origini, Torino, Bollati-Boringhieri, 2002, pp. 229-240. I testi citati da Dante nel De vulgari eloquentia sono raccolti, analizzati e tradotti in L. Formisano, Le rime provenzali e francesi, in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma, Salerno, pp. 267-338. Tra i numerosi contributi generali dedicati all’argomento, si vedano almeno i saggi su Dante, Bertran de Born e Folchetto di Marsiglia di F. Suitner, Folchetto di Marsiglia in Dante e negli antichi commenti alla Commedia, in Id., Dante, Petrarca e altra poesia antica, Fiesole, Cadmo, 2005, pp. 29-46 e 47-75; M. Picone, Scritti danteschi, a cura di A. Lanza, Ravenna, Longo, 2017 e il recentissimo R. Antonelli, Dante poeta-giudice del mondo moderno, Roma, Viella, 2021. 2 Oltre che al classico G. Contini, Dante come personaggio-poeta della “Commedia”, in Id., Un’idea di Dante. Saggi danteschi, Torino, Einaudi, pp. 33-62, cfr. ora F. Suitner, Nel Duecento di Dante. I personaggi, Firenze, Le Lettere, 2020 e, metodologicamente centrale nella direzione che indichiamo, C. Ossola, Personaggi della Divina Commedia, Padova, Marsilio, 2021. Un repertorio analitico esaustivo è quello di B. Delmay, I personaggi della Divina Commedia. Classificazione e regesto, Firenze, Olschki, 1986. Fra le molte risorse in 36 Paolo Canettieri Sono stati personaggi principali o secondari, hanno avuto una parte marginale o di contorno, erano funzionali allo svolgimento del dramma o semplicemente delle comparse con un ruolo del tutto marginale, che magari fanno da sfondo per caratterizzare l’ambiente, per esaltare per contrasto la funzione dei protagonisti, ma senza alcun ruolo decisivo nello sviluppo del racconto? In primo luogo, c’è da chiedersi: ha senso leggere in questa chiave i quattro trovatori? Essi fanno sistema fra loro, sono guardati anche come trovatori nel loro complesso o sono piuttosto funzioni sceniche, attanti che nulla hanno a che vedere con l’attività compositiva che ebbero da viventi? Un sistema, indubbiamente, si intravede. Innanzitutto, la distribuzione delle quattro anime è perfettamente simmetrica e regolare, dovendosi distribuire su tre cantiche: una Inferno, due Purgatorio e una Paradiso. Inoltre, si noti che le due anime poste nel Purgatorio si collocano sulla fascia in posizione assolutamente centrale nel poema: agiscono cioè nel quarantesimo e nel sessantesimo canto, a partire dall’inizio: 34 + 6 (Sordello) e 34 + 26 (Arnaut). Rispetto al sistema dei generi provenzale, possiamo dire che i primi due poeti, Bertran de Born e Sordello, stanno lì per aver composto sirventes e i secondi due per aver composto canzoni d’amore3. I primi si sono dedicati, cioè, alla guerra, allo scherno, al ludico, all’invettiva e alla politica, i secondi due all’amoris accensio. Si noti, peraltro, che un sistema distributivo in parte analogo, ma fondato con progressione cronologico-stilistica, si nota anche per i poeti in lingua di sì: uno all’Inferno con importante funzione attanziale (Pier delle Vigne, per la Scuola dei Siciliani), due nel Purgatorio (Bonagiunta e Guinizzelli, su cui fin troppo si è detto, per i Siculo-toscani e gli Stilnovisti di prima maniera), laddove per il Paradiso probabilmente bastava la presenza dell’amico di Cino nell’Empireo a rappresentare colui che, in parallelo con Folchetto, aveva vòlto l’amoris accensio a lo divino, crimine contro l’Umarete, mi permetto di rinviare al nostro Prosopographical Atlas of Romance Literature (Parli), alla voce Divina Commedia, curata da S. De Santis, dove i personaggi sono via via inquadrati nel loro fitto reticolo prosopografico. 3 Sul sistema dei generi lirici dei trovatori, cfr. P. Canettieri, Appunti per la classificazione dei generi trobadorici, in «Cognitive Philology», 4 (2011), on-line. I trovatori come personaggi di una Commedia 37 nità – va detto – di poco inferiore alla Crociata contro gli albigesi propugnata da quel trovatore convertito a vescovo di Tolosa. La comparsa sulla scena di Bertran de Born nel XXVIII dell’Inferno è preceduta da una serie di numerosi altri personaggi, che occupano una parte molto importante del canto4: Maometto (e Alì) (> Fra Dolcino e Clemente V), Pier da Medicina che istiga Guido da Polenta contro Malatestino da Verrucchio (> Guido del Cassero e Angiolello da Carignano vs. Malatestino Malatesta), Curione che istiga Giulio Cesare contro Pompeo, Mosca dei Lamberti che istiga Guelfi contro Ghibellini (> Buondelmonte dei Buondelmonti, una degli Amidei, una dei Donati). L’entrata in scena del trovatore è accompagnata dalla nota descrizione: porta capo ‘diviso’ dal corpo. Il Personaggio, inoltre, per parlare usa le rime di Bertran de Born, che a sua volta spesso le aveva tratte da Arnaut Daniel: mi riferisco in particolare a quelle in -erna e in -esta, per la quale Bertran lamenta la scarsità di rimanti nella nota chiusa di Nom puesc mudar un chantar non esparga5. Per ciò che riguarda l’azione: Bertran si reca al piè del ponte, alza il braccio con la testa, per avvicinarsi ai suoi uditori, lamenta la gravità della pena, si presenta con la formula di rito («I’ son Bertram dal Bornio») e 4 Come noto, in DVE II ii 8 Bertran de Born è menzionato come massimo poeta cantore delle armi, con il sirventese Non puosc mudar mon chantar non esparga, che è un contrafactum di una canzone di Arnaut Daniel, Si·m fos amor de joi donar tan larga, anch’essa citata nel De vulgari eloquentia, ma come esempio di canzone priva di rime e partizioni al suo interno (DVE II xiii 2). Il libro di poesie di Bertran de Born, provvisto di vida e razos e tràdito in questa forma da canzonieri italiani, costituiva peraltro un precedente di assoluto rilievo (e certo noto a Dante) dell’idea di riunire in forma commentata le poesie di un autore, idea del resto messa a profitto nella Vita nuova: su questo corpus, cfr. W. Meliga, La raccolta con razos di Bertran de Born, in Studi di filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, a cura di P. G. Beltrami, M. G. Capusso, F. Cigni, S. Vatteroni, 2 voll., Pisa, Pacini, 2006, II, pp. 955-991; sulla forma-libro, V. Bertolucci Pizzorusso, Osservazioni e proposte per la ricerca sui canzonieri individuali, in Lyrique romane médiévale: la tradition des chansonniers. Actes du Colloque de Liège, 1989, éd. par M. Tyssens, Liège, Université de Liège, 1991, pp. 273-302. Sulla presenza di Bertran de Born, cfr. anche S. Asperti, Dante, i trovatori, la poesia, in Le culture di Dante. Studi in onore di Robert Hollander. Atti del quarto Seminario dantesco internazionale (University of Notre Dame, Indiana, 25-27 settembre 2003), a cura di M. Picone, T. J. Cachey Jr, M. Mesirca, Firenze, Cesati, 2004, pp. 61-92. 5 Cfr. P. Canettieri, Il gioco delle forme nella lirica dei trovatori, Roma, Bagatto, 1996, pp. 205-219. 38 Paolo Canettieri riferisce molto sinteticamente della sua colpa: «diedi al re giovane i ma’ conforti», «feci il padre e ’l figlio in sé ribelli». Cioè egli come gli altri peccatori ha istigato alla discordia, con l’aggravante, qui, di aver messo il figlio contro il padre (il re Giovane/Giovanni contro Enrico II) come e peggio di Achitofèl, che aveva istigato Assalonne contro David. La gravità dell’atto di Bertran de Born è sottolineata da figure retoriche di suono, allitterazione e paronomasia («perch’io partii così giunte persone / partito porto il mio cerebro»). Anche in questo Dante è abbondantemente mimetico con il Bertran-Poeta e, per via di un traslato poetico che va come sempre da Amore a Guerra e viceversa, con lo stile di Arnaut Daniel, che di Bertran fu fonte inesauribile, oltre che verosimilmente sodale (si pensi alla sestina «qui pert per mal dir s’arma»)6. Anche l’entrata in scena di Sordello si fa attendere7. Essa, infatti, è preceduta dalle comparsate dell’Aretin (Benincasa da Laterina) ucciso da Ghin di Tacco, dell’altro (forse Guccio dei Tarlati di Pietramala), annegato «correndo in caccia», da Federigo Novello (ucciso da Fumaiolo di Alberto dei Bostoli), da quel di Pisa (Gano di Marzucco fatto uccidere dal conte Ugolino) e da Marzucco (il padre che si fa francescano). Poi scorre il conte Orso (degli Alberti, ucciso dal fratello Alessandro), Pier de la Broccia (giustiziato da Filippo III di Francia), insieme alla donna di Brabante (cioè Maria, moglie di Filippo). Nonostante questa torma che lo precede, Sordello è annunciato, a mio avviso, proprio dalla notissima similitudine che apre il canto e che sta lì proprio per rappresentare l’azione questuante di quella folla a contrasto con le movenze composte del mantovano. Secondo me «Quando si parte il gioco della zara» è indotta, prodotta per allusività, proprio dalla figura di Sordello, o almeno da letture o ascolti di componimenti affini ai prodotti lirico giocosi di quella che Gianfranco Folena, con espressione felice, definì l’‘Accademia tabernaria’ dei trovatori che si trovarono a comporre nel Nord Italia8. Ibidem, pp. 221-240. Sul personaggio, cfr. almeno Ossola, Personaggi, cit., pp. 85-87. Sulla funzione poetica e politica di Sordello nella Commedia, cfr. M. Perugi, Il Sordello di Dante e la tradizione mediolatina dell’invettiva, in «Studi danteschi», 55 (1983), pp. 23-135; T. Barolini, Bertran de Born and Sordello: The poetry of Politics in Dante’s Comedy, in «Publications of the Modern Language Association of America», XCIV (1979), pp. 305-405. 8 G. Folena, Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, in Storia della 6 7 I trovatori come personaggi di una Commedia 39 In un notissimo testo di Aimeric de Peguilhan – testo che Dante potrebbe ben aver conosciuto, anche considerato che Aimeric era auctoritas suprema per l’Alighieri – parlo di Li fol e.ill put e.ill fillol, il trovatore ormai maturo se la prende con i novelli giullaretti che si fanno strada in maniera scorretta nelle corti del nostro Settentrione9. Fra loro, c’è anche Sordello, di cui dice: Greu es car hom lor o col e non lur en fa revel. Non o dic contra·N Sordel, q’el non es d’aital semblan ni no·s va ges percasan si co·ill cavaillier doctor, mas qant faillo·l prestador, non pot far seis ni cincs terna. [È gravoso che glielo si permetta e non si faccia loro opposizione. Non lo dico contro messer Sordello, perché egli non assomiglia a loro e non si va affatto adoperando come i cavalieri dottori, ma quando gli mancano i prestatori, ai dadi non gli può uscire cinque né sei con la terna]10. Quello che conduce a perdere Sordello, senza ombra di dubbio, è il gioco della zara. Del resto, il trovatore mantovano è motteggiato come giocatore perdente anche in una cobla anonima tràdita dal canzoniere P, dove il suo nome è messo in rilievo dalla rima: E tot qan m’a ofes en aiquest an de bon talan perdon a ser Sordel, q’el meteis me venjara be iogan; cultura veneta, I, Dalle origini al Trecento, Vicenza, 1976, pp. 452-562, rist. in Id., Culture e lingue nel Veneto medievale, Padova, Editoriale Programma, 1990. 9 G. Barachini, Aimeric de Peguilhan, Li fol e·ill put e·ill fillol (BdT 10.32), in «Lecturae tropatorum», 12 (2019), pp. 51-85, a p. 71: «I folli, i miserabili e i figliocci aumentano troppo, e non mi piace, e i giullaretti novelli, spregevoli, importuni e calunniatori corrono un po’ troppo avanti; e i mordaci sono già per ognuno di noi due dei loro, e non c’è chi li schernisca per tutto questo». 10 Ibidem. 40 Paolo Canettieri per qe no.m cal ausir lo de coutel. Qe.l s’avei ben q’amdos sos palafres E son destrer, el a iugat totz tres. S’el ven a flum no.i ha gua ni pon, despoilla si e mostra son reon. [E tutto quanto mi ha offeso in questo anno, di buon grado perdono a ser Sordello, perché egli stesso ben mi vendicherà giocando; dunque non mi importa di ucciderlo con il coltello. È già avvenuto che i suoi due palafreni e il suo destriero, se li è giocati tutt’e tre. Se viene al fiume e non c’è guado né ponte, svestendosi mostra il suo rotondo]. La rima con Sordel ha una notevolissima importanza nel procedimento di costruzione del canto VI del Purgatorio11. Fra i trovatori, il nome del nostro personaggio si trova in rima abbastanza spesso (sette volte), in tenzoni, sirventesi e scambi di coblas composti per lo più da sodali o avversari poetici del trovatore mantovano. In genere, proprio per i contesti in cui la rima è inserita, i rimanti relativi appartengono ad un registro stilistico fra il medio e il basso, fino al bassissimo. Nel sirventese che abbiamo menzionato di Aimeric de Peguilhan troviamo, oltre ai ben noti e antichi bel e novel, anche revel, desclavel, Chantarel, Trufarel, tropel, pel. In un altro componimento del medesimo trovatore, Sordel rima con novel, ma anche con flabel. Nella cobla che abbiamo letto si è visto Sordel alle prese col coutel. Si tratta del resto di una rima che ab antiquo, fin da Guglielmo IX, poteva accogliere lemmi alti e bassi, connotando in senso misto quello che in genere si definisce il registro del componimento (si Le rime e le relative serie della Commedia sono repertoriate in A. Punzi, Rimario della Commedia di Dante Alighieri, Roma, Bagatto, 2001. Sul senso del riuso rimico nella Commedia, ha insistito molto Roberto Antonelli, del quale cfr. ora la messa a punto in Dante poeta-giudice, cit., p. 151 e passim, con relativa bibliografia. Per l’influsso dei trovatori sulla produzione lirica italiana del Duecento, cfr. G. Santini, Tradurre la rima. Sulle origini del lessico rimico nella lirica italiana del Duecento, Roma, Bagatto, 2007; R. Rea, Guinizzelli “praised and explained” (da“[O] caro padre meo” al XXVI del «Purgatorio»), in «The Italianist», XXX/1 (2010), pp. 1-17; A. Bampa, La prima ricezione di Arnaut Daniel in Italia (con nuove prospettive sull’analisi della produzione lirica del Duecento), in «Medioevo letterario d’Italia», 12 (2015), pp. 9-53. 11 I trovatori come personaggi di una Commedia 41 pensi ad Ab la dolchor del temps novel e alla sua chiusa). Del resto, nel componimento di Bertran de Born da cui Aimeric ha preso la struttura metrica e le rime per il suo testo (e che certamente Dante conosceva, perché è da lì che trae ispirazione per far parlare Bertan con rima in -erna), la serie in -el dà luogo, oltre ai classici castel, capdel, bel, ausel, anche a cembel, coutel, Bordel, Monmaurel, Martel, revel, isnel. Ma andiamo con ordine e assistiamo alla grandiosa entrata in scena del mantovano. Virgilio indica un’anima che guarda verso i due viandanti e che insegnerà loro quale sia la via d’ascesa più rapida. Dante ne specifica lo stato, la provenienza, le movenze e la posa. Nell’ordine l’anima è: «sola soletta», «lombarda», «altera e disdegnosa», «onesta e lenta» nel muovere gli occhi, taciturna, simile a un leone a riposo. Molti critici e commentatori hanno rimarcato, a mio avviso correttamente, la vicinanza di questa descrizione con quella, fatta da Dante e da altri prima di lui, fra cui Brunetto Latini, dei magnanimi. Virgilio chiede quale sia il modo migliore per ascendere (la «miglior salita»), ma l’anima non risponde alla domanda («non rispuose al suo dimando»; vedremo che la risposta qui contrasta con quella, massimamente cortese, di Arnaut Daniel), bensì chiede informazioni su di loro («di nostro paese e de la vita»). Si rammenterà qui, en passant, che il senhal per Sordello che utilizzò Uc de Saint Circ era, appunto, Ma vida e che tanto sulla vita e sulla vitale gioia del vivere insisterà il mantovano in molte sue poesie. Ne citeremo una in particolare in cui questo tema è esposto con dovizia di sfumature (vv. 1-8): Aitant ses plus viu hom quan viu jauzens c’autre viure no·s deu vid’apellar; per qu’ieu m’esfors de viur’e de reinhar ab joi, per leys plus coratjozamens servir q’ieu am, quar hom que viu marritz non pot de cor far bos faitz ni grazitz; doncx er merces si·m fai la plus grazida viure jauzens, pus als no·m ten a vida12. 12 Ed. Sordello, le poesie, a cura di M. Boni, Bologna, Palmaverde, 1954, p. 7. 42 Paolo Canettieri Il canto prosegue la discussione fra Dante e Virgilio sulla questione se le preghiere possano modificare ciò che Dio ha stabilito, questione che ancora meglio chiarirà Beatrice, dice Virgilio, ciò che provoca la richiesta di Dante di affrettare il cammino per raggiungerla. Poi l’ombra di Sordello, tutta concentrata in sé («tutta in sé romita»), si muove verso Virgilio («surse ver lui del loco ove pria stava»), esclamando «O Mantoano, io son Sordello / de la tua terra!», «e l’un l’altro abbracciava». La rima del nome Sordello, che Dante trovava autorizzata da Aimeric de Peguilhan e che si incontrava, come abbiamo visto, anche in Bertran de Born (e aggiungerei anche il Donatz proensals), dà l’avvio alla nota invettiva contro l’Italia, dove Dante parla utilizzando a man bassa le rime di Bertran de Born piuttosto che quelle, in genere facili e piane, di Sordello (così, ad esempio, per -esta ed -erra). Sordello è visto, certo, nella sua dimensione Politica, quella che in lingua provenzale produce il genere del sirventes, che Dante ripropone, variato, nell’invettiva (credo che non sia un caso se l’invettiva inizi proprio con serva, come il sirventes che viene definito dai trattati un genere sirven, poiché «es dictatz ques servish al may de vers o de chanso […] cant al compas de las coblas». Questo genere «deus parlar de fayt d’armes … o de lausor de senyor o de maldit…» (Doctrina), «deu tractar de reprehensio o de maldig general per castiar los fols e los malvatz» (Leys d’amors), «la sua materia es de tot ço qui.s pot dir o per alscuns afers assanyalats, axi con per host o per aveniment de rey o per preso d’alcun loch, o per castich d’alcuna persona o per semblan cosa» (Ripoll)13. L’Italia del sirventese-invettiva di Dante è vista come una nave senza nocchiero nel mare tempestoso e come cavallo selvaggio senza freno, con immagine ripresa dall’Eneide e già utilizzata nel Convivio. Dante poi se la prende con «Alberto tedesco» (Alberto I d’Austria), con geniale anticipazione della sequenza dei principi che caratterizzerà il canto seguente e che è notoriamente mutuata dal più noto dei canti politici sordelliani. Segue un elenco di famiglie italiane in lite: Montecchi e Cappelletti, Monaldi e Filippeschi, ecc. Si rivolge anche a Dio, che ha rivolto gli occhi altrove, poi come sempre pensa a Firenze. Nel complesso la digressione occupa più della metà del 13 Il confronto fra le definizioni fornite dai trattati di poetica in Canettieri, Appunti, cit. I trovatori come personaggi di una Commedia 43 canto VI e quindi Sordello come Personaggio torna ad agire solo nel canto successivo, reiterando con Virgilio le manifestazioni reciproche di affetto, ossia le «accoglienze oneste e liete»: come sottolinea giustamente Mercuri, «il canto inizia all’insegna della cortesia e della nobiltà»14. Qui il nome del nostro personaggio è utilizzato in forma tronca ad inizio verso e quindi il personaggio si rivolge ai due viandanti chiedendo loro chi sono («Sordel si trasse, e disse – Voi chi siete?»). Virgilio si presenta con lunga perifrasi, per poi dire in esteso il suo nome con la formula consueta («Io son Virgilio»). Il dialogo fra i due mantovani occupa le terzine seguenti: Sordello chiede a Virgilio se è venuto passando dall’Inferno e questi risponde raccontando in breve da dove viene (il Limbo) e il percorso che ha portato lui e Dante fin lì. Chiede quindi a Sordello quale possa essere la strada più breve per ascendere il monte. Sordello a questo punto assume il ruolo di guida (v. 42, «per quant’ir posso, a guida mi t’accosto»). Questa funzione attanziale è forse generata da una poesia composta per N’Agradiva, cioè Guida di Rodez, per la quale Sordello attua un’interpretatio nominis per cui la parola guida diviene centrale nel componimento. Si tratta della già menzionata Aitant ses plus viu hom quan viu jauzens: …………………quar enaissi es guitz, per dreg guidar, sos gens cors ben aibitz, las pros en pretz, cum las naus en mar guida la tramontana e·l fers e·lh caramida. E puys guida·l ferm’estela luzens la naus que van perillan per la mar, be degra mi cil, qi·l sembla, guidar, qu’en la mar suy per lieys profondamens tant esvaratz destreitz et esbaitz, qe·i serai mortz ans que·n hiesc’e peritz si no·m socor, quar non truep a l’yssida riba ni port, gua ni pont, ni guerida15. Poiché sta per tramontare, sarà bene pensare a un «bel soggiorno», dice con modi cortesi e trobadorici il più giovane dei due mantovani. Sordello è una 14 15 Dante Alighieri, Pugatorio, a cura di R. Mercuri, Torino, Einaudi, 2021. Ibidem. 44 Paolo Canettieri guida attenta alle possibilità di movimento dei due viandanti. «Davvero non possiamo salire oltre durante la notte?», chiede Virgilio? E Sordello è sollecito a chiarire che non c’è alcun impedimento alla salita, se non la medesima oscurità della notte: questa intrica il desiderio, la voglia con il nonpoder, altro termine mutuato direttamente dalle letture dei trovatori. Virgilio allora chiede a Sordello di condurlo là dove «aver si può diletto dimorando», anche qui facendo riferimento al concetto di demorar dei trovatori (si notino quindi le serie afferenti al medesimo campo semantico: accoglienze - acueil, soggiorno - sojorn, dimorando - demorar). Sordello conduce i due viandanti alla fioritissima e profumatissima valle dei principi. Le anime qui ‘cantano’ il Salve Regina. Il trovatore dice ai due che sarà meglio fermarsi e osservare gli atti e i volti di quelle anime da lontano. La presentazione delle anime di quei grandi aristocratici procede per coppie, come Sordello aveva fatto nel planh per Blacatz, un componimento che può a tutti gli effetti essere considerato anche come un sirventes. Strutturalmente binario, in esso vengono condannati due principi in ogni cobla di otto versi, ognuno nello spazio di quattro versi. Si procede in ordine gerarchico: l’imperatore (Federico II) e il re di Francia (Luigi IX); segue la coppia del re inglese (Enrico III) e del re di Castiglia (Ferdinando III), poi vengono il re d’Aragona e quello di Navarra (Giacomo I e Thibaut I de Champagne, il troviero). Infine, due conti, quello di Provenza, Raimondo Berengario I, e quello di Tolosa, Raimondo VII. Anche il Sordello dell’Antipurgatorio dantesco procede per coppie, ma, al contrario delle coppie di descoratz, privi di cuore, del planh per Blacatz, ci sono coppie che cantano in coro, è da immaginare in forma responsiva. Il Sordello di Dante addita ai due viandanti, sempre in ordine gerarchico, «Rodolfo imperador» e il suo nemico Ottocaro II re di Boemia (che fu migliore del figlio Vincislao). La seconda coppia è formata dal re di Francia e dal re di Navarra (rispettivamente Filippo III l’Ardito ed Enrico I), ed è descritta per antitesi: il primo personaggio è figurato per le dimensioni del naso (nasetto) e il secondo per le sembianze benigne. Rispettivamente sono il padre e il suocero del «mal di Francia», cioè l’attuale regnante, Filippo il Bello, su cui tanto l’Alighieri ebbe da ridire: il nasetto suo padre era morto «fuggendo e disfiorando il giglio», emblema di Francia, con la metafora della deflorazione che ha certo a che fare con quella utilizzata nel Fiore. I trovatori come personaggi di una Commedia 45 Entrambi i regnanti, l’uno battendosi il petto e l’altro appoggiando la mano sulla guancia, mostrano nella prossemica dolore e tristezza perché entrambi conoscono la vita «viziata e lorda» dell’attuale regnante e di qui «viene il duol che sì li lancia». La terza coppia è composta da un membruto Pietro III d’Aragona e dal maschio naso di Carlo I d’Angiò, ed è accompagnata dalla nota digressione sulla degenerazione del retaggio di entrambi, rappresentato dai due figli di Pietro III, Giacomo (I di Sicilia e II d’Aragona) e Federico (III di Sicilia) e da Carlo II, successore di Carlo I d’Angiò. L’ultima coppia è quella costituita da Arrigo III d’Inghilterra («che ha ne li rami suoi miglior uscita») e Guglielmo VII, marchese di Monferrato. Nel complesso, possiamo dire che sia lo schema binario sia la deplorazione nei confronti dei modi dei regnanti, con toni di scherno e maniere forti, impavide e scanzonate, passi dal planh per Blacatz al Purgatorio di Dante. Se siamo alla ricerca di un componimento trobadorico esplicitamente alluso (mi si perdoni il calembour), funzionalizzato e attualizzato, provvisto di un senso preciso nella Commedia, senza ombra di dubbio questo va cercato nel planh di Sordello: nessun altro testo trobadorico ha quest’importanza e questa vitalità nello strutturare un discorso (anche) narrativo oltre che nel ‘generare’ una serie di personaggi. Non c’è modo ora per soffermarsi ulteriormente sulla guida di Sordello nell’VIII canto: basti qui dire che le varie funzioni del Personaggio si estendono ben oltre quel che siamo riusciti a raccontare qui. Il Personaggio Arnaut Daniel di Purgatorio XXVI è introdotto da Guido Guinizzelli, con descrizione valoriale relativa al suo comporre, funzionale peraltro al discredito della fama di altri poeti, nello specifico di Guittone da un lato e di Guiraut de Bornelh dall’altro (e in parallelo)16. Nel De vulgari eloquentia, come noto, Giraut de Bornelh è il trovatore con maggiori esplicite menzioni ed è esempio di eccellenza perché poeta della virtus: per tale ragione egli viene allineato a Dante stesso; cfr. M. Picone, Giraut de Bornelh nella prospettiva di Dante, in «Vox Romanica», XXXIX (1980), pp. 22-43. Sul mutamento di giudizio di Dante su Giraut de Bornelh, Contini si chiedeva: «Perché Dante limita Giraut? Perché è un bon à tout faire disponibile per ogni bisogna di ordine poetico, svolazzando fra trobar leu ed ermetismo, e per dir tutto un po’ cinico?». Su questa annosissima questione, cfr. anche Barolini, Il miglior fabbro, cit., pp. 82-104; P. V. Mengaldo, Dante come critico, in «La parola del testo», 1 (1997), pp. 36-54, oltre al saggio di Picone sopra menzionato. Sul XXVI del Purgatorio la bibliografia è sterminata; mi limito qui a menzionare A. Roncaglia, Il canto XXVI del 16 46 Paolo Canettieri Guinizzelli poi ‘dà luogo’ «altrui secondo», dove secondo sta probabilmente per ‘adatto, opportuno’, ed è probabilmente correlato a «luogo». Dante inizia il dialogo, dicendo ad Arnaut che il suo desiderio di conoscerne il nome sta «apparecchiando» ad esso un luogo grazioso («al suo nome il mio disire / apparecchiava grazïoso loco»). È qui da contemplare l’ipotesi che il luogo della mente che si appresta ad accogliere in maniera degna e cortese il ‘nome’ di Arnaut sia riferibile alla mnemotecnica dei loci. Il nome di Arnaut sarà accolto degnamente in una camera del palazzo della memoria dantesca e il desiderio di conoscerlo, come solerte servitore, sta apparecchiando quel luogo di accoglienza. Si noti, peraltro, la probabile citazione della sestina arnaldiana: «Son desirat – qu’apres dins cambra intra», dove la camera sarà stata anch’essa interpretata come locus del palazzo della memoria («si que la cambra e.l jardis mi resembles totz temps palatz» aveva detto Jaufre Rudel cui Arnaut aveva risposto «il m’es de joi, tors e palatz e cambra»). Questo era quindi il cortes deman, che piaceva ad Arnaut («Tan m’abelis vostre cortes deman») e a cui egli non poteva non rispondere degnamente, in maniera compiuta e senza nascondimenti. Arnaut, del resto, non agisce sulla scena, è una funzione vocale, priva di qualsiasi valore attanziale, se non quello di mostrare al lettore che Dante conosceva anche la lingua provenzale. Questo Arnaut privo di cognomen disambiguante (si pensi invece alla presentazione del dannato: «I’ son Bertram dal Bornio») si presenta come tutti gli altri ‘Io sono’ seguito dal nome, ma questa presentazione detta in Purgatorio, Roma, Signorelli, 1951; A. Monteverdi, Il canto XXVI del Purgatorio, Firenze, Le Monnier,1965; L. Blasucci, Autobiografia letteraria e costruzione narrativa nel XXVI del Purgatorio, in «Annali della scuola normale superiore di Pisa», classe di lettere e filosofia, s. III, XVIII, 3, Pisa, 1988; G. Folena, Il canto di Guido Guinizzelli, in «Giornale storico della letteratura italiana», CLIV (1977), pp. 481-508, rist. in Id., Textus testis, cit., pp. 241-265; M. Picone, Vita nuova e tradizione romanza, Padova, Liviana, 1979; Id., Canto XXVI, in Lectura Dantis Turicensis, a cura di G. Güntert, M. Picone, Firenze, Cesati, 2000-2002, II, pp. 407-442; P. G. Beltrami, Arnaut Daniel e “la bella scola” dei trovatori di Dante, in Le culture di Dante, cit., pp. 29-59. Sulle relazioni tra Dante e i poeti italiani suoi contemporanei, cfr. C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino, 1998; D. Pirovano, Il dolce stil novo, Roma, Salerno, 2014; Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., pp. 125-128. I trovatori come personaggi di una Commedia 47 provenzale va a coincidere perfettamente con quella che fa il Daniel nella nota tornada: Ieu sui Arnaut, cui però Dante fa seguire lo straniante «que plor e vauc cantan», che a sua volta rinvia, come ho già messo in rilievo, allo stereotipo che il Monaco di Montaudon aveva prodotto per il «men famoso Arnaldo», Arnaut de Maruelh: E·l noves: Arnautz de Maruoill, qu’ades lo vei d’avol escuoill, e sidonz no n’a chausimen; e fai o mal car no l’acuoill, qu’ades clamon merce sei oill; on plus canta, l’aiga en deissen. Sia l’Arnaut de Maruelh del Monge de Montaudon che l’Arnaut di Dante compiono simultaneamente l’azione di piangere e di cantare17. Anche alla 17 Cfr. P. Canettieri, Un episodio della ricezione di Purgatorio XXVI: la “Leandreride” di Giovanni Girolamo Nadal, in «Anticomoderno», 2 (1996), pp. 179-200. P. Gresti, Dante e i trovatori. Qualche riflessione, in «Testo», n.s. XXII, 61-62 (2011), pp. 175-190, a p. 184 ritiene che «questa immagine sia assimilabile ad altre usate nella Commedia, come per esempio “dirò come colui che piange e dice” (Inf. v, 126), oppure “parlare e lagrimar vedrai insieme” (Inf. xxxiii, 9): la sostituzione di dice o di parlare con il vau cantan provenzale può essere semplicemente dovuta al fatto che qui chi parla è un trovatore», ma andrebbe comunque spiegato perché l’Arnaut purgatoriale qui dica di cantare, anziché dire (come al v. 139), laddove la funzione canora ha specificità che vanno molto oltre quella propria dei trovatori. Gresti, inoltre (pp. 182-184), discute bizzarramente le argomentazioni che avevo scritto su un post nel mio blog. All’episodicità e provvisorietà degli scritti nel web 2.0, si dovrebbe rispondere su mezzi analoghi, senza confondere i generi: i testi sui social, per loro natura volatili, possono essere considerati come materiali di lavoro su cui ragionare, non come saggi scientifici su cui discutere, perché la loro natura non lo consente. A riprova di questa convinzione, ecco un estratto dell’email che il 9 ottobre 2009 scrivevo al Gresti: «Anche io credo che le lezioni dei manoscritti vadano rispettate e che si debba intervenire il meno possibile: la mia non era una proposta di intervento, ma un invito, un po’ paradossale è vero, a leggere il passo di Purg. XXVI nella direzione che mi interessava. Del resto, quella che leggi sul blog è una versione antica, che per un periodo ho distribuito solo agli amici e che ho pubblicato ora per impormi di tornare a riflettere sulla questione: sono tanto d’accordo con te che nel saggio a stampa (è uscito su Anticomoderno un po’ di anni fa, mi pare nel volume sulla sestina) è scomparso (quasi) tutto ciò che ti pare improprio da un punto di vista strettamente “positivistico” e sono rimaste due sole cose: 1. il fatto che Nadal credesse che l’Arnaut dantesco fosse AMar. 2. che non si può escludere che Dante conoscesse AMar e che a lui facesse parziale riferimento». Queste due ultime proposizioni son quelle su cui sarebbe stato corretto, eventualmente, discutere. 48 Paolo Canettieri luce dei riscontri che ho già addotto fra le canzoni di Arnaut de Maruelh e il brano purgatoriale, mi sembra chiaro che la purgazione affinante cui Dante fa riferimento riguarda non solo il peccato della lussuria, ma anche lo stile caro e chiuso che ad esso si accompagna e che anche Dante aveva voluto imitare e sussumere nel cantare lussuriosamente della preziosissima e chiusissima Donna Pietra: la polarizzazione dei due stili è rappresentata onomasticamente, come se le due facce di uno stesso medaglione fossero rappresentate dai due Arnaldi, funzioni canore che piangono e cantano con stili distinti. La polarità di stile si riverbera peraltro in quella del ‘dire libero’ del purgante (v. 139: «El cominciò liberamente a dire»), opposto chiaramente alle ‘costrizioni’ metriche e retoriche che il Daniel sempre s’impose. Arnaut, insomma, spicca proprio per non avere, al contrario degli altri trovatori, alcuna funzione attanziale, se non quella di parlare un’altra lingua, canora. Finito di parlare, egli «si ascose nel foco che li affina», che è forse il verso di più raffinata perfidia che Dante abbia mai scritto. Folchetto di Marsiglia in Paradiso IX è introdotto dalla donna di Sordello, Cunizza, la quale, a sua volta, subentra all’elegante uscita di scena di Carlo Martello18. Nel momento in cui l’altra letizia (oltre Cunizza) entra in scena era già nota a Dante «per cara cosa» e si mostra come una splendente pietra preziosa («qual fin balasso in che lo sol percuota»). Dopo la riflessione sulla letizia paradisiaca che illumina l’anima contrapposta alla tristizia che in terra abbuia la mente, Dante dice all’anima: ‘Poiché Dio vede tutto e il tuo vedere penetra in lui (s’inluia), sicché nessun desiderio ti può essere celato, come mai la tua voce – che rende felice il cielo con il canto all’unisono con i serafini – non soddisfa i miei desideri («non satisface a’ miei disiri»)? Io non attenderei la tua domanda, se fossi in te come tu sei in me’ («s’io m’intuassi come tu t’immii»). ‘Desiderio’ di sapere e domanda, quindi, come in Arnaut Daniel. Meraviglia di fronte a quella che può apparire una scortesia, da parte di Folchetto, se letta alla luce delle parole dell’altro amoroso. 18 G. Toja, Il canto di Folchetto di Marsiglia, in «Convivium», XXXIV (1966), pp. 234-256; M. Picone, Paradiso IX: Dante, Folchetto e la diaspora trobadorica, in «Medioevo romanzo», 8 (1981-1983), pp. 47-89; P. Squillacioti, Folchetto di Marsiglia ‘trovatore di Dante’: Tant m’abellis l’amoros pessamens, in «Rivista di letteratura italiana», 11 (1993), pp. 583-607. I trovatori come personaggi di una Commedia 49 Folchetto prontamente risponde e si presenta come un personaggio “Mediterraneo”: prima fa una perifrasi lunga due terzine per intendere il mare nostrum e poi con un’ulteriore perifrasi geografica di due terzine precisa il proprio luogo di origine. Ancora tre versi per riferire il proprio nome e la sua indole amorosa («Folco mi disse quella gente a cui / fu noto il nome mio; e questo cielo / di me s’imprenta com’io fe’ di lui»). Altre due terzine per dire che tanto non arsero d’amore né Didone per Enea né Fillide per Demofonte né Ercole per Iole. Ancora due terzine per dire che in Paradiso, tuttavia, non ci si pente della colpa, ma si ride della Provvidenza e che, ugualmente, si guarda l’arte che adorna questo ‘affetto’ (cioè, a mio avviso, l’arte della canzone, del trobar più che la creazione divina, come molti interpretano) e si discerne il bene per il quale il mondo celeste fa ruotare quello terrestre («Qui si rimira ne l’arte ch’addorna / cotanto affetto, e discernesi ’l bene / per che ’l mondo di su quel di giù torna»). Si guarda, cioè, all’arte del trobar, che è arte armonica e ciclica, e in essa si intravede il bene e non il male della colpa, come privi di colpa si guarda benevoli all’amore profano. Poi Folchetto in cinque terzine presenta Raab che è la luce più intensa del cielo di Venere. Per lei Folchetto gioca sulla rima arnaldiana alma, che rima con palma usato due volte in aequivocatio. Infine, il vescovo di Marsiglia si appunta su Firenze e sulla sua creatura peggiore, il maledetto fiore (il fiorino) che ha sviato pecore e agnelli e ha fatto diventare lupo il pastore: abbandonati Vangelo e Padri della Chiesa, papa e cardinali si dedicano solo ai Decretali. Il canto si chiude con la Profezia: presto il Vaticano e gli altri luoghi di Roma dove sono seppelliti i primi cristiani, saranno liberati da questo adulterio. Anche l’amore di Folchetto, quindi, non comporta la rinuncia del personaggio all’invettiva politica. Da un punto di vista attanziale, quindi, possiamo dire che se Sordello fa la parte del leone (in tutti i sensi), Bertran de Born e Folchetto hanno un ruolo in definitiva secondario (per intenderci, Folchetto e Cunizza, non hanno né spazio né funzioni differenti) e viene fortemente a ridimensionarsi il ruolo di Arnaut, che è comprimario, se non spalla di Guinizzelli: sarà qui tuttavia il caso di sottolineare che il puro flatus vocis che risulta da quelle parole dette in provenzale, da questo enigmatico non-Personaggio, mostra invece potentemente l’importanza, nel tempo, della funzione poetica. Giovanna Santini Trovatori e rime nella Commedia Si può facilmente affermare, come del resto è stato fatto (ad esempio da Barolini), che la Commedia rappresenta la sintesi della ricezione dantesca della poesia trobadorica, sia perché pochi sono i poeti menzionati esplicitamente, rispetto a quelli che Dante annovera nel De vulgari eloquentia, sia perché questi delineano ormai una funzione specifica, orientata ad una risistemazione generale1. La teoria dei trovatori si riduce a tre/ quattro, massimo cinque personaggi (inclusi Sordello e il Lemosì di Purg. XXVI 120). 1 T. Barolini, Il miglior fabbro: Dante e i poeti della Commedia, Torino, Bollati Boringhieri, 1993, p. 81 (ed. orig. Dante’s Poets: Textuality and Truth in the Comedy, Princeton, Princeton University Press, 1984). Molto è stato scritto sul tema della ricezione della poesia trobadorica, a partire dalla quale Dante di fatto fonda la sua personale ideologia sull’amore e la sua poetica. L’esplicitazione di alcune particolari connessioni e snodi non può essere considerata altro che la parte emergente di un processo che investe l’opera dantesca in modo profondo e capillare. Una ricognizione della cultura letteraria romanza presente a Dante, in particolare nella stesura del De vulgari eloquentia, è proposta in L. Formisano, Le rime provenzali e francesi, in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma, Salerno, pp. 267-338, ad essa rimando sia per le citazioni testuali e le traduzioni, sia per più completi additamenti bibliografici sui principali aspetti teorici e storico-letterari. Tra i numerosi contributi dedicati a questo argomento, si vedano almeno i saggi di F. Suitner, Dante e Bertran de Born e Folchetto di Marsiglia in Dante e negli antichi commenti della Commedia, raccolti in Id., Dante, Petrarca e altra poesia antica, Fiesole, Cadmo, 2005, pp. 29-46 e 47-75, oltre a quelli di M. Picone pubblicati in Scritti danteschi, a cura di A. Lanza, Ravenna, Longo, 2017 e al più recente R. Antonelli, Dante poeta-giudice del mondo terreno, Roma, Viella, 2021, in particolare cap. 8. Il poeta-giudice e la tradizione poetica, pp. 121-140. 52 Giovanna Santini Partirò dalla fine, che è anche il culmine della teoria. Nel IX canto del Paradiso, Folquet de Marseilha chiude la serie dei trovatori: è, secondo l’opinione generalmente condivisa e così espressa brevemente da Picone, «il massimo poeta della tradizione romanza col quale si riconosce Dante nella Commedia»2. Tam m’abellis l’amoros pessamens, citata nel De vulgari eloquentia (II vi 6) come esempio di canzone illustre contraddistinta dal «gradus constructionum […] sapidus et venustus etiam et excelsus» (II vi 5), oltre ad essere possibile modello per il sonetto della Vita Nuova Gentil pensero che parla di vui3, presta, com’è noto, l’avvio ad Arnaut Daniel nel XXVI del Purgatorio4. Come osserva Suitner, «questo fatto semplicissimo, di essere appunto amanti e poeti d’amore, ci spiega la presenza di Arnaut e Folquet nella Divina commedia»5. Suitner parla anche del «perfetto paM. Picone, Paradiso IX: Dante, Folchetto e la diaspora trobadorica, in «Medioevo romanzo», 8 (1981-1983), pp. 47-89, a p. 66. Folquet de Marselha, attivo già nel 1178, abbandona la poesia dopo il 1195, quando entra con la famiglia nell’Ordine cistercense (secondo la vida per la tristezza da cui fu colto, nel momento in cui ormai erano morti la sua amata e il suo signore, visconti di Marsiglia, così come il re Riccardo Cuor di Leone, il conte Raimon de Tolosa e il re Alfonso d’Aragona). Come vescovo di Tolosa (dal 1205) è tenace oppositore dell’eresia catara e partecipa direttamente alla crociata albigese (1208-1229). Il suo poetare che «si caratterizza per l’astrazione concettualistica, per l’andamento argomentativo, con una particolare predilezione per l’aforisma e l’antitesi, per l’ampia ed elaborata sintassi e la ricchezza dell’ornato, dove dominano le figure di ripetizione distese in ritmi andanti e rime facili» (Formisano, Le rime provenzali, cit., p. 316), in quanto sintesi della tradizione trobadorica poteva rappresentare un eccellente modello di poesia elevata; del resto era già acquisito come riferimento d’elezione dai poeti della scuola siciliana (anche su questo argomento l’attenzione degli studiosi è stata vivissima). 3 Cfr. P. Squillacioti, Folchetto di Marsiglia ‘trovatore di Dante’: «Tant m’abellis l’amoros pessamens», in «Rivista di letteratura italiana», 11 (1993), pp. 583-607, alle pp. 583-590. 4 Nelle parole che Virgilio rivolge a Beatrice in Inf. II 79 «Tanto m’aggrada il tuo comandamento» si anticipa la traduzione del v. 140 di Purg. XXVI (Formisano, Le rime provenzali, cit., p. 316). Per il testo della Commedia cfr. Dante Alighieri, Commedia, con il commento di A. Chiavacci Leonardi, 3 voll., Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1991. 5 Suitner, Dante, Petrarca, cit., p. 54. Arnaut Daniel, il cantor amoris per eccellenza del DVE II ii 8, è caro a Dante per il suo raffinatissimo poetare, aspro e prezioso, modello indiscusso nella stagione delle petrose. Emblema della fol’amor è la sua sestina Lo ferm voler qu’el cor m’intra (tuttavia non menzionata esplicitamente nel trattato), che Dante imita in Al poco giorno e probabilmente ha a mente nel riproporne la figura etimologica del v. 6 «jauzirai joi» nel v. 144 di Purg XXVI («jauzen lo joi»). 2 Trovatori e rime nella Commedia 53 rallelismo» delle immagini dei due personaggi, entrambi “vinti d’Amore”, entrambi colpevoli della pasada folor: questo chiarisce l’uso dell’incipit di Folchetto in bocca ad Arnaut6. Si aggiunge anche che il legame intessuto tra i due è rafforzato dal simile parallelismo con Dante poeta/amante («infin che si convenne al pelo»)/ convertito, che però si diversifica nell’esito: Arnaut piange di pentimento e Folchetto ride della provvidenza, Dante compie il percorso che conduce dall’uno all’altro e ‘imbarca esperienza per morir meglio’, come premonisce l’anima del lussurioso Guinizelli (in Purg. XXVI 71-75)7. Il sentimento che aleggia nel canto XXVI del Purgatorio è il sentimento doloroso della separazione espiatoria: le ombre che si accostano muso a muso come formiche «contente a brieve festa», e poi subito si separano, e tornano a urlare e cantare, «lagrimando», formano la «schiera bruna» (che rinvia al nigrum agmen virgiliano di Aen. IV 404, come osservato dai commentatori8) dei lussuriosi che purgano il loro peccato grazie al pentimento intervenuto «prima ch’a lo stremo», cioè il ‘ben dolere’, ossia il dolore finalizzato al bene, alla salvezza. Lo stesso fa Arnaut che plora e va cantan e consiros guarda indietro la pasada folor9, con pensiero dolente osserva l’amore che l’aveva infiammato, e invece jausen, guarda avanti lo joi, la gioia che lo attende10, e chiede a Dante di ricordarsi (al fine della preghiera ma anche Ibidem, pp. 55-56. Sul canto XXVI del Purgatorio, si veda R. Rea, Memorie di un lussurioso. Lettura del canto XXVI del Purgatorio, in «L’Alighieri», n.s., 45 (2015), che pone l’accento sul valore autobiografico del canto, non solo dal punto di vista della storia letteraria ma anche dal punto di vista dell’evoluzione morale: «Dante, quando si trova di nuovo di fronte al peccato di lussuria, allude ancora al suo personale coinvolgimento in tale colpa» (p. 105). 8 La citazione del brano virgiliano è da considerarsi coerente con il peccato di lussuria, considerata la sua collocazione nella parte finale dell’episodio di Didone, quando Enea decide di abbandonare la passione amorosa e di ripartire; su questo cfr. G. Ledda, La «Commedia» e il bestiario dell’aldilà: osservazioni sugli animali del «Purgatorio», in Dante e la fabbrica della «Commedia», a cura di A. Cottignoli, D. Domini, G. Gruppioni, Ravenna, Longo, 2008, pp. 139-159, in part. alle pp. 148-153. 9 I tre elementi che connotano le manifestazioni emotive di Arnaut richiamano da vicino i tre che descrivono il comportamento delle schiere dei lussuriosi: «e tornan, lagrimando, a’ primi canti / e al gridar che più lor si convene» (vv. 47-48; corsivi di chi scrive). 10 Nei vv. 142-144 si condensa lo scarto tra lo sconforto causato dalle passioni mondane e la gioia procurata dalla grazia, mediante la stretta corrispondenza tra elementi negativi/ passati e positivi/futuri introdotta dal chiasmo tra consiros vei e vei jausen. 6 7 54 Giovanna Santini della memoria letteraria e per evitare di ripeterne l’errore) della sua dolorosa esperienza («sovenha vos a temps de ma dolor»): Purg. XXVI 136-148 Io mi fei al mostrato innanzi un poco e dissi ch’al suo nome il mio disire apparecchiava grazïoso loco. El cominciò liberamente a dire: «Tan m’abellis vostre cortes deman qu’ieu no me puesc ni voill a vos cobrire. Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu’esper, denan. Ara vos prec, per aquella valor que vos guida al som de l’escalina sovenha vos a temps de ma dolor!» Poi s’ascose nel foco che li affina. Avanti per Arnaut c’è la gioia della salvezza, che più avanti nella Commedia è già realizzata nella gioia/gioiello Folchetto di Marsiglia, nominato da Cunizza «luculenta e cara gioia» e poi da Dante stesso «altra letizia»: Par. IX 37-42 Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m’è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor s’incinqua: vedi se far si dee l’omo eccellente, sì ch’altra vita la prima relinqua. Folchetto, del resto, si trova in Paradiso anche perché ha già ampiamente espiato attraverso la crociata, dove si è esposto a una forma estrema di ‘ben dolere’, la morte da martire, che in una delle sue ultime canzoni è definita appunto «aquel morir bos» (BdT 155, 15, v. 22), che sembrerebbe riecheggiare nel «morir meglio» di cui parla Guinizelli (Purg. XXVI 75)11. Ecco Alcuni versi di questa canzone sono citati da G. Toja, Il canto di Folchetto di Marsiglia, in «Convivium», XXXIV (1966), pp. 234-256 e poi da Suitner, Dante, Petrarca, cit. p. 62, per la loro pertinenza rispetto alla rappresentazione del trovatore da parte di Dante. 11 Trovatori e rime nella Commedia 55 dunque un altro elemento di legame tra i due canti e i due destini: il livello emotivo dell’opposizione tra tristitia e letizia che ne connota i personaggi e che si manifesta attraverso il contrasto tra l’opacità delle «schiere brune» e il rifulgere delle anime nel cielo di Venere. Esso è avvalorato dalla premessa che introduce la presentazione di Folchetto e che commenta il letiziar e l’effetto che produce esteriormente, il riso tra i mortali e il fulgore tra le anime del Paradiso, rammentando come invece giù la tristizia rabbuia i volti (forse non solo in Inferno, ma anche in Purgatorio)12: Par. IX 67-72 L’altra letizia, che m’era già nota per cara cosa, mi si fece in vista qual fin balasso in che lo sol percuota. Per letiziar là su fulgor s’acquista, sì come riso qui; ma giù s’abbuia l’ombra di fuor, come la mente è trista. Il rapporto tra colpa e provvidenza divina e tra pentimento (penitenza) e gioia è poi chiarito dalle parole di Folchetto stesso, dove è evidente che il termine di paragone implicito è costituito dalle anime penitenti del Purgatorio: vv. 103-105 Non però qui si pente, ma si ride, non de la colpa, ch’a mente non torna, ma del valor ch’ordinò e provide. Anche la fama duratura guadagnata con le opere che accomuna i tre personaggi del XXVI del Purgatorio, Guinizelli, Dante e Arnaut, si congiunge a distanza, ma su un altro piano, con quella che poi si riconosce a Folchetto nel IX del Paradiso («grande fama rimase»; il passo è citato supra). Resta controversa l’interpretazione di questo passo, per alcuni editori infatti con giù del v. 71 si deve intendere all’Inferno, per altri sulla terra (cfr. Dante Alighieri, Commedia, cit., III, p. 255 n.). La follia passata è rievocata «lietamente» anche da Cunizza, che esplicitamente dichiara il suo stato emotivo nel momento in cui si presenta a Dante, cfr. vv. 32-36: «Cunizza fui chiamata, e qui refulgo / perché mi vinse il lume della stella; / ma lietamente a me medesma indulgo / la cagion di mia sorte, e non mi noia». 12 56 Giovanna Santini Purg. XXVI 106-120 Ed elli a me: «Tu lasci tal vestigio, per quel ch’i’ odo, in me, e tanto chiaro, che Letè nol può tòrre né far bigio. […] E io a lui: «Li dolci detti vostri, che, quanto durerà l’uso moderno, faranno cari ancora i loro inchiostri». «O frate», disse, «quel ch’io ti cerno col dito», e additò un spirto innanzi, «fu miglior fabbro del parlar materno. Versi d’amore e prose di romanzi soverchiò tutti; e lascia dir li stolti che quel di Lemosì credon ch’avanzi. A voce più ch’al ver drizzan li volti, e così ferman sua oppinïone prima ch’arte o ragion per lor s’ascolti. Così fer molti antichi di Guittone, di grido in grido per lui dando pregio, fin che l’ha vinto il ver con più persone. La certezza del vestigio, l’impronta nitida e imperitura, che Dante lascia su Guinizelli per ciò che gli ha detto e che riverbera l’impronta che lascerà l’opera stessa di Dante, è posta in riscontro immediato con l’apprezzamento dantesco per «li dolci detti» («le rime dolci e leggiadre») guinizzelliani, la cui rinomanza continuerà almeno finché durerà l’«uso moderno»; subito appresso, il «caro padre» e «maestro» addita Arnaut Daniel, il «miglior fabbro», decretandone, dall’altezza dell’autorità che Dante stesso gli ha appena concesso, la superiorità rispetto a tutti gli altri, compreso il Lemosì (Giraut de Bornelh secondo l’opinione generale), che invece, come Guittone, è stato sopravvalutato per via delle voci circolanti («a voce»/«di grido in grido») piuttosto che ad onor del vero, che però nel tempo è destinato a prevalere (in merito all’arte e alla ragione)13. Della fama di Folchetto parla Cunizza, proponendo un termine iperbolico (Par. IX 39-40 «e pria che La specularità tra il Lemosì e Guittone è esaltata dal chiasmo e dalle sequenze allitterative: «a voce più c’al ver… e così ferman» / «così fer molti… di grido in grido… l’ha vinto il ver». 13 Trovatori e rime nella Commedia 57 moia, / questo centesimo anno ancor s’incinqua») paragonabile a quelli con cui reciprocamente si elogiano Guinizelli e Dante (Purg. XXVI 108 «che Letè nol può tòrre né far bigio» e 113 «quanto durerà l’uso moderno»). Anche l’uso dell’aggettivo ‘caro’, in cui il valore affettivo si somma ed è connesso alla preziosità e rarità, è utilizzato in modo simile nei due canti in riferimento ai due poeti, Guinizelli e Folchetto (Purg. XXVI 111 e 114 e Par. IX 37 e 68). Quindi i legami e i confronti si tessono a più livelli: la linea continua dell’eccellenza poetica lega Dante a Guinizelli e, da questi, arriva indietro ad Arnaut. Almeno secondo l’opinione più oggettiva di Guinizelli (ovviamente condivisa da Dante) o forse anche secondo un filtro di soggettività più matura che si sostituisce all’attitudine storiografica del De vulgari eloquentia14. Il parallelismo si tesse anche attraverso le parole con le quali i due massimi poeti si presentano: Arnaut in Purg. XXVI 142 con le parole della sua poesia, in provenzale, seguendo l’esordio della tornada di En cest sonet coind’e leri (BdT 29, 10, v. 43, che è citata anche nella vida provenzale15): «Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan»; e Dante, alla domanda di Bonagiunta di Purg. XXIV 152-154, con le parole del suo io di poeta lirico: «I’ mi son un che, quando / Amor mi spira, noto, e a quel modo / ch’e’ ditta dentro vo significando» (in entrambe le allocuzioni, la formula iniziale di presentazione è completata da una frase relativa con verbo aspettuale): Purg. XXVI 142-144 Ieu sui Arnaut, que plor e vau cantan; consiros vei la passada folor, e vei jausen lo joi qu’esper, denan. 14 Nel trattato latino, Giraut de Bornelh è il trovatore più citato ed esempio per eccellenza della poesia della virtus e per questo è posto in linea di continuità diretta con Dante (tra altri contributi, cfr. M. Picone, Giraut de Bornelh nella prospettiva di Dante, in «Vox Romanica», XXXIX (1980), pp. 22-43). La rilevanza del trovatore era suggellata dalla posizione incipitaria in parte della tradizione manoscritta (nelle raccolte definite appunto Giraut-Sammlungen perché iniziano con i suoi componimenti) e dalla vida che lo definisce ‘maestro dei trovatori’ e ne descrive l’opera con accenti che a Dante forse non erano sfuggiti. Sul mutamento di giudizio di Dante su Giraut de Bornelh, oltre al saggio di Picone appena menzionato, cfr. Barolini, Il miglior fabbro, cit., pp. 82-104. 15 Il testo è citato da Arnaut Daniel, Canzoni, edizione critica, studio introduttivo, commento e traduzione a cura di G. Toja, Firenze, Sansoni, 1960. 58 Giovanna Santini Purg. XXIV 52-57 E io a lui: «I’ mi son un che, quando Amor mi spira, noto, e a quel modo ch’e’ ditta dentro vo significando». «O frate, issa vegg’io», diss’elli, «il nodo che ’l Notaro e Guittone e me ritenne di qua dal dolce stil novo ch’i’ odo. La canzone a cui Bonagiunta fa riferimento in Purg. XXIV 51 per avere conferma di averlo riconosciuto è, del resto, Donne ch’avete intelletto d’amore, che nella Vita Nuova (XIX 4) «segna il distacco da Cavalcanti e la sperimentazione delle rime della lode, sulla scia di Guinizelli» (lo ricorda Mercuri)16; come del resto segna una svolta anche nel De vulgari eloquentia (per la prima volta nel trattato, Dante si pone in prima posizione ed esplicitamente si autocita)17. Tuttavia, nell’ottica di Dante, alla fine della linea della tradizione trobadorica c’è, per quanto riguarda l’aspetto concettuale, Folchetto di Marsiglia, che si pone però, e Dante con lui, oltre lo snodo della palinodia. Dunque, ci sono anche una serie di legami oppositivi: Arnaut vs. Giraut de Bornelh come, del resto, Dante e Guinizelli vs. Guittone; ma poi anche Guinizelli e Arnaut vs. Dante e Folchetto, in considerazione del loro diverso allontanamento dalla pasada folor. Guinizelli è il portavoce della cognizione oggettiva, o forse della cognizione di un Dante che vede l’esperienza vissuta col senno di poi e la reinterpreta: è Guinizelli che addita Arnaut e che, affermando la sopravalutazione di Guittone, conferma la distanza tra le scuole toscana e stilnovista chiaramente spiegata da Bonagiunta da Lucca nel XXIV del Purgatorio, dove Guittone non solo non va al di là del nodo, ma è posto in mezzo ad una sequenza in cui segue il Notaro e precede Bonagiunta stesso (quindi in una posizione, certo di tramite, ma in cui non può ambire a quella consapevolezza che invece dimostra quest’ultimo)18. Non si può non osserDante Alighieri, Purgatorio, a cura di R. Mercuri, Torino, Einaudi, p. 276. Cfr. DVE II viii 8: «ut nos ostendimus cum dicimus». 18 Della vasta bibliografia dedicata alla complessità delle relazioni tra Dante e i poeti italiani suoi contemporanei, in particolare riferimento al canto XXIV del Purgatorio, cfr. almeno C. Giunta, La poesia italiana nell’età di Dante. La linea Bonagiunta-Guinizzelli, Bologna, Il Mulino, 1998, e D. Pirovano, Il dolce stil novo, Roma, Salerno, 2014. 16 17 Trovatori e rime nella Commedia 59 vare il parallelismo tra le due figure di Bonagiunta e Guinizelli, interpreti concordi della tradizione nella Commedia, e ricordare nello stesso tempo un’ulteriore opposizione, com’è ovvio, quella tra scuole siculo-toscana e stilnovista: Giacomo da Lentini, Guittone e Bonagiunta vs. Guinizelli e Dante. Ma in nuce vi è anche un’altra opposizione, in absentia, tra Guinizelli e Cavalcanti, già sostituito nella prima parte del De vulgari eloquentia con Cino da Pistoia, mentre nella Vita Nuova era primo amico e iniziatore dello Stil novo. Il canto XXVI si ricollega dunque implicitamente al canto XI della stessa cantica, dove ai vv. 97-98 si nominano i due Guidi che si sono scambiati la gloria della lingua, che alla fine è vinta da Dante stesso19. Sebbene con alcune differenze, nella Commedia come nel De vulgari eloquentia, la tradizione poetica provenzale è rappresentata attraverso l’ottica della continuità storica e, nello stesso tempo, del confronto parallelistico con l’esperienza poetica italiana: la precorre e ne è il termine di Su Guinizelli come contraltare di Cavalcanti e sulla presenza di quest’ultimo nei canti XVII-XVIII del Purgatorio cfr. Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., pp. 125-128 che rinvia a E. Malato, Lo fedele consiglio della ragione. Studi e ricerche di letteratura italiana, Roma, Salerno, 1989, pp. 126-127 e Id., Dante e Guido Cavalcanti. Il dissidio per la Vita nuova e il «disdegno» di Guido (1997), Roma, Salerno, 2004; notevole la numerosità delle serie rimiche di matrice cavalcantiana nella Commedia commentata sempre da Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., pp. 150-154. La questione del rapporto di Dante con i maestri e gli amici rimane controversa per gli studiosi, sia per ciò che riguarda il riconoscimento dei personaggi attraverso il semplice nome (nel caso dei due Guidi di Purg. XI 97-98) sia per l’eclissi progressiva di Guido Cavalcanti e di Cino da Pistoia. Significativo da questo punto di vista anche l’ordine dei poeti in DVE I xiii 4 con Guido Cavalcanti che apre la serie e Cino che la chiude, per cui cfr. nota in Dante Alighieri, De vulgari eloquentia, cit., p. 98; sul rapporto tra Cino e Cavalcanti cfr. l’introduzione di Fenzi nello stesso volume alle pp. LIIILVI. Sul legame d’amicizia e sulla relazione poetica tra Cavalcanti e Dante cfr. Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., cap. 9, Le due vie: Cavalcanti e Dante, pp. 141-154; la presunta ambiguità dell’amicizia tra i due è sciolta da R. Rea, Vita nuova e Rime. Unus philosophus alter poeta. Un’ipotesi per Cavalcanti e Dante, in Dante tra il settecentocinquantenario della nascita (2015) e il settecentenario della morte (2021). Atti delle celebrazioni in Senato, del Forum e del Convegno Internazionale di Roma, a cura di E. Malato, A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2016, pp. 351-381; utile anche per gli additamenti bibliografici. L’assenza di Cino da Pistoia nella seconda parte del trattato si collega all’autocitazione esplicita di Dante, quindi al venire meno della necessità di proporre l’amico come controfigura di sé stesso, mentre l’eclissi di Cino nel poema sembrerebbe attenuata dalla fitta intertestualità (cfr. S. Italia, Dante e Cino da Pistoia. Un dialogo interrotto?, in La letteratura italiana e le arti. Atti del XX Congresso dell’ADI - Associazione degli Italianisti (Napoli, 7-10 settembre 2016), a cura di L. Battistini, et al., Roma, Adi editore, 2018, pp. 1-7, e la bibliografia ivi citata). 19 60 Giovanna Santini paragone. Credo che in questo senso Dante reinterpreti la poesia di quei trovatori scelti, non a caso contemporanei tra di loro e in contatto dialogico (considerati gli scambi espliciti e i legami intertestuali e di contraffattura), alla luce della logica della scuola, cioè non solo la poesia dei trovatori serve a misurare quella dei poeti toscani e stilnovisti, ma il paradigma della competizione non solo stilistica, giocata anche esplicitamente tra questi ultimi, è applicato anche ai loro antecessori. D’altra parte il discorso parrebbe qui incompleto se non si tenesse conto che la tradizione lirica romanza è immersa in un continuum di cui, oltre ai trovatori e ai poeti italiani già menzionati, fanno parte anche i poeti latini, a partire da Virgilio. Ovviamente, non intendo entrare nel merito del canone dei poeti classici, se non per una costatazione minima20. Nel canto VII del Purgatorio, il riconoscimento di Virgilio da parte di Sordello, tra l’incredulo e il meravigliato, in un abbraccio umilmente affettuoso, passa attraverso un sentimento di riverenza verso il grande poeta latino, capace di eccellere nella lingua che è ancora quella che accomuna tutti, perché è lingua nostra: «“O gloria di Latin”, disse, “per cui / mostrò ciò che potea la lingua nostra, / o pregio etterno del loco ond’io fui”» (Purg. VII 16-17)21. Il riconoscimento è successivo alla presentazione di Sordello stesso, nel canto precedente, il VI del Purgatorio, non per la sua poesia, che non è menzionata esplicitamente, ma per l’affezione alla patria comune Mantova e per il fervore politico che ispira a Dante i versi successivi sull’Italia: del resto il Sordello guida, conoscitore di personaggi politici della scena recente, è quello che accompagna Dante e Virgilio nell’antipurgatorio per ben tre canti, la sua parola poetica resta nel sottofondo e rievocata attraverso la galleria di personaggi che presenta22. Sull’«incorporazione e superamento» della tradizione poetica classica da parte di Dante personaggio-poeta e auctor, tra altri, si veda almeno Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., pp. 129-136. 21 Per l’interpretazione dell’espressione ‘lingua nostra’, cfr. M. Tavoni, Il concetto dantesco di “unità” linguistica e le prime intuizioni di una “nazione” italiana, in Pre-sentimenti dell’Unità d’Italia nella tradizione culturale dal Due all’Ottocento. Atti del Convegno di Roma, 24-27 ottobre 2011, a cura di C. Gigante, E. Russo, Roma, Salerno, 2012, pp. 23-48. 22 Sulla funzione poetica e politica di Sordello nella Commedia, cfr. T. Barolini, Bertran de Born and Sordello: The poetry of Politics in Dante’s Comedy, in «Publications of the Modern Language Association of America», XCIV (1979), pp. 305-405. 20 Trovatori e rime nella Commedia 61 Però, qui si individua un’altra linea di lettura della tradizione, quella stessa inseguita nel De vulgari eloquentia, come Virgilio è «gloria di Latin» nel VII del Purgatorio (v. 16), i due Guidi si contendono la «gloria della lingua» nelle parole di Oderisi da Gubbio nel canto XI (vv. 97-99), e poi, forse in un senso simile, Arnaut primeggia nel suo «parlar materno» del canto XXVI (v. 117). E si deve ricordare che l’idea della ‘gloria’ ha un valore specifico, è la gloria di chi raggiunge onori e fama attraverso la poesia, grazie all’uso di una lingua sublime, secondo quanto detto nel DVE I xvii 5-7 a proposito del concetto di illustre. Del resto, al suo primo apparire nel II canto dell’Inferno (vv. 58-60), innanzitutto Virgilio aveva ricordato, attraverso le parole che gli aveva rivolto Beatrice, la propria fama illimitata: «O anima cortese mantoana / di cui la fama ancor nel mondo dura / e durerà quanto ’l mondo lontana» (con una formula paragonabile a quelle menzionate sopra, a proposito di Folchetto, Guinizelli e Dante). Forse si può ammettere che si tratta di livelli diversi (anche se a volte confluenti e intersecanti): la gloria della lingua passando dal suo massimo grado di sperimentazione al suo livello più sublime (Virgilio – Guido1/Guido2 – Dante // Arnaut Daniel – Folchetto di Marsiglia); lo stile lirico con l’opposizione tra il vecchio e il nuovo uso (Notaro – Guittone – Bonagiunta vs. Guinizelli – Dante // Giraut vs. Arnaut – Folchetto). Tuttavia, il riconoscimento di Folchetto come «uno dei provenzali letterariamente più ammirati da Dante, particolarmente reputato come interprete della poesia d’amore» (ragion per cui è collocato nel cielo di Venere), non basta a spiegarne la presenza nel Paradiso, che invece si giustifica con l’esperienza della seconda parte della sua vita, in cui da vescovo combatte l’eresia: «Dante fu colpito dall’immagine di Folquet ex-trovatore e campione di fede»23 e proietta la sua immagine nei canti successivi (in primo luogo in quello di san Domenico e poi del cielo di Marte dove vengono allineati i grandi protagonisti della lotta agli infedeli: Carlo Magno, Orlando, Goffredo di Buglione, ecc.)24. Siamo dunque ad un altro livello, quello politico-morale, per cui da Folchetto nel Paradiso si può andare indietro a Sordello del Purgatorio, di cui s’è detto, dove il personaggio ispira l’invettiva politica dantesca contro 23 24 Suitner, Dante, Petrarca, cit., pp. 60 e 67. Ibidem, pp. 68-70. 62 Giovanna Santini l’Italia serva (e del resto non potrà considerarsi un caso se a introdurre Folchetto è proprio Cunizza da Romano). Ma il legame a distanza su questo terreno è tessuto pure con l’ultimo trovatore della Commedia, l’unico ad essere finito all’Inferno, Bertran de Born. Allora si potrebbe individuare un’altra linea Bertran de Born – Sordello – Folchetto – Dante. La critica si è interrogata molto sul perché la figura di Bertran, evidentemente apprezzato da Dante sotto più aspetti, sia rappresentata in una dimensione così truculenta e senza appello nella Commedia, soprattutto nel confronto con l’immagine che se ne ricava dal De vulgari eloquentia e, forse ancor di più, dal Convivio25. Su questo non voglio dilungarmi, se non per ragionare sul fatto che probabilmente, secondo il punto di vista di Dante, se è vero che aveva potuto conoscere fonti simili a quelle delle vidas che ci sono pervenute, l’entrare nel convento cistercense di Dalon non era atto di pentimento sufficiente per mondarsi dai peccati commessi: altro era ciò che avevano fatto Cunizza (forse Dante aveva presente per conoscenza diretta l’epilogo fiorentino della biografia di Cunizza, con dettagli quali la liberazione degli uomini della masnada del fratello e del padre, il cui atto fu trascritto nella casa dei Cavalcanti nel 126526), o Folchetto (che, divenuto vescovo 25 Nel De vulgari eloquentia Bertran de Born, con il suo Non puosc mudar mon chantar non esparga, è menzionato come poeta per eccellenza della poesia delle armi (DVE II ii 8). Del sirventese non doveva sfuggirgli lo stretto legame formale con la canzone di Arnaut Daniel, Si·m fos amor de joi donar tan larga, che più avanti è ricordata come esempio di canzone con stanze senza rime (DVE II xiii 2). Il carattere guerresco del suo corpus poetico è esaltato nei contenuti dal corredo di vidas e razos che accompagna parte della tradizione testuale, che probabilmente Dante ha a mente nel rappresentare il trovatore. Del resto, nel momento in cui progetta la Vita Nuova, forse Dante ha presenti raccolte di testi con razos come quella del libre di Bertran de Born (unica nel genere per numerosità e articolazione), costituita da poesie inserite all’interno di una cornice narrativa in prosa; sul libre cfr. V. Bertolucci Pizzorusso, Osservazioni e proposte per la ricerca sui canzonieri individuali, in Lyrique romane médiévale: la tradition des chansonniers, Actes du Colloque de Liège, 1989, éd. par M. Tyssens, Liège, Université de Liège, 1991, pp. 273-302 e W. Meliga, La raccolta con razos di Bertran de Born, in Studi di filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, a cura di P. G. Beltrami, M. G. Capusso, F. Cigni, S. Vatteroni, 2 voll., Pisa, Pacini, 2006, II, pp. 955-991. 26 Cfr. Dante Alighieri, Commedia, cit., p. 248 n.; in generale sulla circolazione dei canzonieri trobadorici in Toscana, cfr. S. Resconi, La Lirica trobadorica nella Toscana del Duecento: canali e forme della diffusione, in «Carte Romanze», 2/2 (2014), pp. 269-300. Per quanto riguarda la presenza di Bertran de Born nella Commedia, cfr. tra numerosi altri E. Vilella, «E de fendutz per bustz tro als braiers»: sulla presenza dell’“eredità” di Bertran de Born nella Commedia, in «Tenzone», 11 (2010), pp. 173-187, utile anche per i riferimenti bibliografici relativi. Trovatori e rime nella Commedia 63 di Tolosa, si era impegnato nella crociata albigese). Per competere e ‘farsi eccellente’, «sì c’altra vita la prima relinqua», forse Bertran de Born avrebbe dovuto almeno partecipare ad una crociata, la terza, che invece sembrerebbe aver disertato (stando a ciò che si deduce dai suoi stessi componimenti e dalle fonti documentarie27), o a quella di Spagna, verso la quale parrebbe esortarlo (senza esito) Folchetto nella seconda tornada di Oimais no·i conosc razo (BdT 155, 15), la stessa canzone in cui il trovatore marsigliese teorizza la necessità di affrontare la morte da crociato per servire Dio (si veda supra), alla quale Bertran sembra rispondere con la canzone religiosa Can mi perpens ni m’arbire (BdT 9, 19)28. Non sappiamo ciò che Dante potesse conoscere, ma sicuramente quello che sa gli basta per condannarlo a quel contrappasso esemplare e per non lasciargli neppure la speranza purgatoriale che invece spetta a Sordello. A questo punto riprendo rapidamente il discorso sulle rime e sui rimanti che Dante sparge nella Commedia prelevandoli da alcuni dei suoi poeti preferiti. Il discorso richiederebbe un lungo preambolo sui procedimenti di costruzione del testo poetico, sui sistemi di citazione intra e intertestuale, sulla strutturazione della memoria poetica, sulle competenze e sulle conoscenze, sulle fonti e via dicendo. È sempre un discorso molto affascinante anche perché comporta tutta una serie di ragionamenti generali sui meccanismi cognitivi, sulla mentalità, sulle ideologie e così via29. 27 A proposito della probabile mancata partenza di Bertran de Born per la terza crociata nel 1190, pur dopo aver variamente sollecitato i due sovrani, Riccardo Cuor di Leone e Filippo Augusto, che continuavano a temporeggiare, cfr. G. Gouiran, L’amour et la guerre. L’œuvre de Bertran de Born, Aix-en-Provence, Université de Provence, 1985, pp. XXIVXXV, che rinvia al suo Bertran de Born et la trosième croisade: essai de datation de deux chansons, in Mélanges Jean Larmat: regards sur le Moyen Âge et la Renaissance (histoire, langue et littérature), Paris, Les Belles Lettres, 1982, pp. 127-142. 28 A proposito dell’attribuzione di questo testo a Bertran de Born, cfr. Gouiran, L’amour et la guerre, cit., pp. 801-802. Lo scambio dovrebbe essere avvenuto tra il 1195 e il 1196, quando Bertran si era già ritirato a Dalon. Sulla questione dell’identificazione di Azimans con il trovatore perigordino, cfr. Le poesie di Folchetto di Marsiglia, edizione critica a cura di P. Squillacioti, Pisa, Pacini, 1999, p. 379. 29 Strumento fondamentale per l’analisi di rime e serie rimiche della Divina commedia è A. Punzi, Rimario della Commedia di Dante Alighieri, Roma, Bagatto, 2001, di cui si veda anche la bibliografia e lo studio introduttivo che permette di rilevare ulteriormente quanto la trama memoriale intratestuale e intertestuale del poema dantesco, tessuto attraverso le 64 Giovanna Santini Qui, mi sembra utile rilevare alcune evidenze, di più semplice riscontro quando si tratta di rime difficili, per la rarità dei riusi in tutta la tradizione. Cercando in modo sistematico nella Commedia le rime che possono essere classificate come proprie dello stile caro arnaldiano, sembrerebbe di poter affermare che Dante ne faccia un uso ampio e non necessariamente preordinato, cioè in sostanza che il riuso segua principi e ragioni diverse, che hanno a che fare a volte con i contenuti e i significati, con le scelte stilistiche, con le necessità di rievocazione, con l’urgenza dell’espressione, ma forse anche non sempre con ragioni che possono essere classificate come sicuramente intenzionali. D’altra parte, l’utilizzo di rime rare non si limita ovviamente a quelle del «miglior fabbro»: ormai Dante ha di fronte tutta una tradizione di poesia clus e aspra anche italiana (da quella ricercata, oscura e artificiosa toscana di cui sono esempi Monte Andrea, Inghilfredi, Guittone stesso, a quella bassa, comico-realistica alla Rustico Filippi) e sfrutta i meccanismi di invenzione rimica che ha appreso dalla tradizione, per cui è ben difficile distinguere l’uno dall’altro apporto30. Tra tutti i casi che si potrebbero segnalare, quello più pertinente e significativo, rispetto alle riflessioni che si sono proposte, è forse il riuso della rima di matrice arnaldiana «arche», nel discorso di Guinizelli nel XXVI del Purgatorio. La serie di rimanti «scarche», «marche», «imbarche» (vv. 71-75) si può ricondurre alla rima arc e ai rimanti embarc, marc, descarc (vv. 3, 35, 43) di Si·m fos Amors de joi donar tan larga di Arnaut Daniel, canzone già menzionata nel De vulgari eloquentia (II xiii 2)31, e nello stesso tempo alla rime, contribuisca a definire il complesso sistema semantico del poema. Sul valore del riuso rimico nella Commedia, cfr. anche Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., p. 151. 30 Per l’influsso di Arnaut Daniel sulla produzione lirica italiana del Duecento si veda, oltre al mio Tradurre la rima. Sulle origini del lessico rimico nella lirica italiana del Duecento, Roma, Bagatto, 2007, in part. il cap. IV (Rime care: il trobar clus italiano e il modello rimico danielino) e l’Appendice 5 (Rime danieline: confronto e illustrazione delle serie dei rimanti), R. Rea, Guinizzelli “praised and explained” (da“[O] caro padre meo” al XXVI del «Purgatorio»), in «The Italianist», XXX/1 (2010), pp. 1-17, in particolare riferimento alla polemica antiguittoniana, e il riesame complessivo di A. Bampa, La prima ricezione di Arnaut Daniel in Italia (con nuove prospettive sull’analisi della produzione lirica del Duecento), in «Medioevo letterario d’Italia», 12 (2015), pp. 9–53, e la bibliografia in essi menzionata. 31 Il sirventese di Bertran de Born, Non puosc mudar mon chantar non esparga, menzionato in DVE II ii 8, riutilizza le terminazioni rimiche della canzone di Arnaut; per un’analisi della tradizione italiana delle stesse rime, cfr. Santini, Tradurre la rima, cit., pp. 163-167 e Bampa, La prima ricezione, cit., pp. 32-46. Trovatori e rime nella Commedia 65 rima «archi» e ai rimanti «’mbarchi» : «marchi» (vv. 1-4) del sonetto guinizelliano O caro padre meo (dove si ricollega al trobar car anche la rima imi ai vv. 10-1432) – a cui risponde Guittone con Figlio mio dilettoso, in faccia laude – in una sorta di preannuncio dei due personaggi, che implica anche la precisa traiettoria ideologica antiguittoniana33. Ma credo che si possa dire qualcosa in più anche sul canto IX del Paradiso, dov’è alta la concentrazione di rime rare e rarissime all’interno del poema stesso (tra cui anche alma certamente di arnaldiana memoria34). Vi si nota, infatti, l’introduzione di alcune terminazioni significativamente sentite come oscure da Dante stesso, proprio nei momenti in cui emerge la figura di Folchetto, prima nelle parole con cui Cunizza ne segnala la presenza a Dante e poi quando quest’ultimo gli rivolge direttamente la parola: Par. IX 37-42 Di questa luculenta e cara gioia del nostro cielo che più m’è propinqua, grande fama rimase; e pria che moia, questo centesimo anno ancor s’incinqua: vedi se far si dee l’omo eccellente, sì ch’altra vita la prima relinqua. vv. 70-75 Per letiziar là su fulgor s’acquista, sì come riso qui; ma giù s’abbuia l’ombra di fuor, come la mente è trista. «Dio vede tutto, e tuo veder s’inluia», diss’io, «beato spirto, sì che nulla voglia di sé a te puot’ esser fuia. La rima imi si può infatti ricondurre alla tradizione della rima im/ims provenzale per cui cfr. Santini, Tradurre la rima, cit., pp. 175-178 e Rea, Guinizzelli “praised and explained”, cit., pp. 6-7. 33 Sullo scambio di sonetti si veda P. Borsa, La tenzone tra Guido Guinizzelli e Frate Guittone, in «Studi e problemi di critica testuale», 65 (2002), pp. 47-88, in part. p. 86, dove si commenta anche la relazione con Purg. XXVI, e Id., La nuova poesia di Guido Guinizelli, Fiesole, Cadmo, 2007, pp. 13-59, e Rea, Guinizzelli “praised and explained”, cit., e Id., Memorie di un lussurioso, cit., in particolare pp. 125-127. 34 Si veda Santini, Tradurre la rima, cit., pp. 169-170 accolto da Bampa, La prima ricezione, cit., p. 38. 32 66 Giovanna Santini Le rime inqua e uia rievocano infatti quelle della profezia enigmatica, la «narrazion buia», pronunciata da Beatrice nell’ultimo canto del Purgatorio: Purg. XXXIII 37-54 Non sarà tutto tempo senza reda l’aguglia che lasciò le penne al carro, per che divenne mostro e poscia preda; ch’io veggio certamente, e però il narro, a darne tempo già stelle propinque, secure d’ogn’intoppo e d’ogne sbarro, nel quale un cinquecento diece e cinque, messo di Dio, anciderà la fuia con quel gigante che con lei delinque. E forse che la mia narrazion buia, qual Temi e Sfinge, men ti persuade, perch’ a lor modo lo ’ntelletto attuia; ma tosto fier li fatti le Naiade, che solveranno questo enigma forte sanza danno di pecore o di biade. Tu nota; e sì come da me son porte, così queste parole segna a’ vivi del viver ch’è un correre a la morte. La ricorrenza colpisce in primo luogo perché l’eco che si produce a distanza tra i rimanti propinque e propinqua genera una sovrapposizione tra le «stelle propinque», che precedono l’avverarsi della profezia del ritorno dell’aquila imperiale a ristabilire l’ordine divino e liberare la Chiesa dai suoi predatori (in riferimento alla visione del carro del canto che precede, il XXXII del Purgatorio), e «la luculenta e cara gioia / del nostro cielo che più m’è propinqua», l’anima luminosa di Folchetto; ossia tra «le costellazioni che, seguendo il divino volere, influiscono sugli eventi storici, dei singoli come dei popoli» (nel commento di Chiavacci Leonardi35) e Folchetto, esempio del modo in cui nella vita terrena si possa con gli atti predisporsi al bene e acquistare fama, seguito subito dalla narrazione delle tre profezie di Cunizza a proposito del popolo trevigiano36, e Dante Alighieri, Commedia, cit., II, p. 967 n. La sconfitta dei guelfi padovani nella palude del Bacchiglione nel 1314, grazie a Cangrande, venuto in aiuto dei ghibellini di Vicenza; l’assassinio di Rizzardo da Camino, 35 36 Trovatori e rime nella Commedia 67 vescovo/crociato, che dopo aver introdotto la meretrice Raab propone la profezia conclusiva che rispecchia quella del canto purgatoriale: presto Roma e i luoghi sacri saranno liberati dall’adulterio commesso verso Cristo per amore del denaro. Il parallelo istituito tra le figure di Folchetto e Raab, che nel racconto biblico contribuì alla conquista di Gerico da parte degli ebrei, entrambi «grandi peccatori d’amore […] divenuti poi amanti di Dio e operanti per lui»37, e, quindi, tra la crociata albigese e la conquista della Terra Santa (per inciso: già presente in alcune fonti storiche38), chiarisce la presenza di Folchetto, come altro personaggio che ha “favorito la gloria” (della Chiesa), e rafforza anche il senso stesso del discorso, premesso alla profezia finale dei vv. 139-142, incentrato sulla corruzione di Firenze e della Chiesa e legato direttamente al canto XXXIII del Purgatorio anche attraverso il riuso della stessa rima in -anta: Par. IX 121-130 Ben si convenne lei lasciar per palma in alcun cielo de l’alta vittoria che s’acquistò con l’una e l’altra palma, perch’ella favorò la prima gloria di Iosüè in su la Terra Santa, che poco tocca al papa la memoria. La tua città, che di colui è pianta che pria volse le spalle al suo fattore e di cui è la ’nvidia tanto pianta produce e spande il maledetto fiore c’ha disvïate le pecore e li agni, però che fatto ha lupo del pastore. Per questo l’Evangelio e i dottor magni son derelitti, e solo ai Decretali si studia, sì che pare a’ lor vivagni. A questo intende il papa e’ cardinali; non vanno i lor pensieri a Nazarette, là dove Gabrïello aperse l’ali. Ma Vaticano e l’altre parti elette di Roma che son state cimitero signore e vicario imperiale di Treviso; il tradimento del vescovo di Feltre; cfr. ibidem, II, pp. 251-253 nn. 37 Ibidem, II, p. 262 n. 38 Ibidem, II, pp. 263-264 e 268. 68 Giovanna Santini a la milizia che Pietro seguette, tosto libere fien de l’avoltero». Purg. XXXIII 55-60 E aggi a mente, quando tu le scrivi, di non celar qual hai vista la pianta ch’è or due volte dirubata quivi. Qualunque ruba quella o quella schianta con bestemmia di fatto offende a Dio, che solo a l’uso suo la creò santa. È Folchetto che, dopo aver spiegato la funzione di Raab, testimone del valore della crocifissione («de l’alta vittoria / che s’acquistò con l’una e l’altra palma»), rivolge l’accusa verso Firenze, pianta generata da Lucifero e generatrice del fiorino, causa principale della corruzione che coinvolge la Chiesa tutta. Il suo discorso politico, che implica direttamente Dante («la tua città»), completa quello di Cunizza sulle città italiane, troppo immerse nei loro interessi terreni e incapaci di pensare e fare proprio il progetto provvidenziale di restaurazione del potere imperiale, e nello stesso tempo si ricongiunge a quello di Beatrice sulla necessità del ritorno di un messaggero di Dio (un erede imperiale) capace di riscattare la Chiesa e restituirla alla pianta alla quale era stata tolta, ossia l’albero edenico della scienza del bene e del male allegoria della giustizia divina39. Mi pare che la pianta diabolica che fiorisce di denaro si connoti ulteriormente nella sua perversione se si confronta con l’albero, spogliato a causa del peccato originale, che rifiorisce di fiori purpurei grazie al sacrificio di Cristo, cui si appaia, del resto, il rinverdimento della pianta-Dante dopo il bagno purificatore nell’Eünoe che lo prepara all’ingresso nel Paradiso (Purg. XXXIII 142-145: «Io ritornai da la santissima onda / rifatto sì come piante novelle / rinovellata di novella fronda, / puro e disposto a salire a le stelle»)40. Nel confronto intessuto attraverso le rime con l’ultimo canto del Purgatorio appare più nitido il punto d’arrivo del IX del Paradiso, in cui si 39 Per l’interpretazione complessa della visione cfr. Dante Alighieri, Commedia, cit., pp. 930-931 e 939-940 nn. 40 Il valore del richiamo dell’immagine dell’albero edenico nell’effetto che produce su Dante l’immersione nell’Eünoe di Purg XXXIII è osservato già da Chiavacci Leonardi in Dante Alighieri, Commedia, cit., p. 960. Trovatori e rime nella Commedia 69 compie «per interposta persona», attraverso l’exemplum di Folchetto, l’evoluzione del poeta che si fa profeta41. Nel canto successivo Dante, entrando nel cielo del Sole, ha ormai assunto pienamente la funzione di cui Beatrice l’aveva solennemente investito42: Par. X 22-27 Or ti riman, lettor, sovra ’l tuo banco, dietro pensando a ciò che si preliba, s’esser vuoi lieto assai prima che stanco. Messo t’ho innanzi: ormai per te ti ciba; ché a sé torce tutta la mia cura quella materia ond’io son fatto scriba. Il poeta si è ‘fatto scriba’, ha raccontato e condannato il disordine a cui conduce la passione per le cose terrene, così come Beatrice gli aveva chiesto negli ultimi canti del Purgatorio (Purg. XXXII 103-105: «al carro tieni or li occhi, e quel che vedi, / ritornato di là fa che tu scrive» e Purg. XXXIII 52-57: «E aggi a mente, quando tu le scrivi, / di non celar qual hai vista la pianta / ch’è or due volte dirubata quivi»), ha compiuto «quel lungo processo interiore e letterario che lo ha portato dall’amore lirico per madonna, attraverso l’amore per la filosofia, all’amor-charitas»43 e può ora condividere con il lettore il piacere della contemplazione dell’ordine divino e compiere il percorso paradisiaco tra i sapienti e i teologi. 41 42 43 Antonelli, Dante poeta-giudice, cit., p. 205. Su questo cfr. Dante Alighieri, Commedia, cit., p. 958. Il commento è di Mercuri in Dante Alighieri, Purgatorio, cit., p. 20. Stefano Resconi Il canone provenzale del De vulgari eloquentia nella prospettiva della tradizione manoscritta trobadorica Come noto, nell’opera dantesca non mancano espliciti rinvii e indizi che possano permetterci di ragionare sulla natura dei testi trobadorici letti dall’autore della Commedia. Non stupisce dunque che la provenzalistica – in fondo nata nell’Italia umanistico-rinascimentale proprio con la finalità precipua di ricostruire il sostrato letterario di cui si erano nutrite le Tre Corone1 – si sia messa sulle tracce del canzoniere dal quale Dante avrebbe acquisito le proprie competenze in materia di poesia in lingua d’oc. Un primo tentativo in questo senso viene condotto da Arthur Pakscher, che in un articolo pubblicato nell’annata 1886 della «Zeitschrift für romanische Philologie» avanza un’ipotesi clamorosa. Nel corso dell’anno precedente il filologo tedesco aveva studiato uno dei canzonieri provenzali conservati alla Biblioteca Apostolica Vaticana, oggi noto con la sigla H (Vat. lat. 3207), e proprio durante questa attività di ricerca aveva avuto modo di “riscoprire” l’autografia e idiografia petrarchesca del Vaticano latino 3195, ingaggiando poi un’aspra polemica con Pierre de Nolhac sulla primogenitura del riconoscimento2. Questa silloge trobadorica è stata esemplata nel Veneto orientale (molto probabilmente in area padovana) tra la fine del Punto di riferimento bibliografico per questa fase fondativa è S. Debenedetti, Gli studi provenzali in Italia nel Cinquecento e Tre secoli di studi provenzali, edizione riveduta, con integrazioni inedite, a cura e con postfazione di C. Segre, Padova, Antenore, 1995. 2 Cfr. C. Pulsoni, Polemiche letterarie e nazionalistiche. A proposito del “ritrovamento” del ms. Vat. Lat. 3195, in «Giornale Italiano di Filologia», 73 (2021), pp. 363-405 (si veda in particolare la lettera di Pakscher pubblicata alle pp. 373-374, ove si fa riferimento al suo studio del canzoniere provenzale). 1 72 Stefano Resconi Duecento e gli inizi del Trecento e presenta numerose annotazioni che si infittiscono in corrispondenza delle poesie di Arnaut Daniel: per il fatto di affrontare in prospettiva proto-filologica alcuni problemi di natura testuale, linguistica e letteraria delle liriche, tale apparato glossatorio non aveva mancato di suscitare anche l’attenzione dei provenzalisti del Cinquecento3. Pakscher, forse galvanizzato dal coevo ritrovamento petrarchesco, suggerì allora che la mano responsabile dell’eccezionale lavorio critico-esegetico condotto con particolare acribia proprio sui versi del «miglior fabbro del parlar materno» in anni compatibili con le peregrinazioni dantesche in Italia settentrionale potesse essere quella dell’autore della Commedia. L’ipotesi venne smentita in maniera inappellabile già l’anno successivo da Cesare De Lollis, ma fu poi inaspettatamente riproposta ancora in un contributo pubblicato nel 19504. In anni ancora precedenti a questo tentativo di riconoscere la mano di Dante in uno dei canzonieri conservati si sviluppa anche un’altra e più produttiva prospettiva di ricerca, che, facendo interagire la struttura dei manoscritti trobadorici giunti fino a noi con i riferimenti puntuali ai poeti provenzali presenti nelle opere dantesche, cerca di ricostruire la fisionomia del canzoniere letto dall’autore della Commedia. Una indagine di questo tipo è condotta già da uno dei padri della provenzalistica scientifica, Karl Bartsch, che in un articolo del 1869 ipotizza che Dante possa aver conosciuto una silloge veneta, provvista di biografie, affine a A D I5. Questo contributo è dato alle stampe meno di un decennio prima della pubblicazione del fondamentale studio di Gustav Gröber che, tentando per la prima volta di riconoscere i rapporti genealogici reciproci tra 3 Questa sezione del manoscritto è approfonditamente analizzata da M. Careri, Il canzoniere provenzale H (Vat. Lat. 3207). Struttura, contenuto e fonti, Modena, Mucchi, 1990, alle pp. 135-158. 4 C. De Lollis, Postille autografe a Dante, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», IX (1887), pp. 238-248. Negli anni successivi, l’edizione diplomatica di un altro canzoniere conservato alla Vaticana, A, fu motivo di screzi tra Pakscher e De Lollis: cfr. D. Stefanelli, Cesare De Lollis tra filologia romanza e letterature comparate, Milano, Ledizioni LediPublishing, 2018, n. 2 alle pp. 111-112. La riproposizione novecentesca dell’ipotesi di Pakscher si trova in R. L. John, Dantes Autographen, in «Anzeiger der österreichischen Akademie der Wissenschaften. Philos.-hist. Klasse», 87 (1950), pp. 23-32. 5 K. Bartsch, Die von Dante benutzen provenzalischen Quellen, in «Jahrbuch der deutschen Dante-Gesellschaft», 2 (1869), pp. 377-384. Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 73 i diversi manoscritti trobadorici, fornì una nuova cornice metodologica anche alle indagini sul canzoniere provenzale dantesco6; è questa infatti la prospettiva adottata da Salvatore Santangelo nel suo studio dedicato a Dante e i trovatori, pubblicato per la prima volta nel 1921 e poi in forma riveduta nel 19597. Secondo il filologo siciliano le conoscenze trobadoriche del Dante fiorentino dovevano essere piuttosto scarse (un’affermazione che si può spiegare tenendo conto che, nel momento in cui egli svolge la sua ricerca, ben poco è noto della tradizione manoscritta provenzale in Toscana); la formazione trobadorica dantesca sarebbe dunque avvenuta a Bologna attraverso la consultazione di un canzoniere – privo di biografie – interconnesso a un settore oggi ben noto della tradizione trobadorica, quello della ‘terza tradizione’ avalliana, nei suoi legami con i derivati italiani settentrionali del ramo linguadociano8. L’analisi di Santangelo, nel recuperare l’impianto teorico e metodologico di Gröber prima che D’Arco Silvio Avalle lo riportasse definitivamente in auge, risulta di grande interesse in prospettiva storica9; la tendenza a proiettare gran parte delle conoscenze trobadoriche dantesche in un unico manoscritto porta però l’indagine a dipanarsi in una prospettiva eccessivamente astratta, postulando l’esistenza di un canzoniere di proporzioni decisamente ampie nel quale si assommano caratteristiche riscontrabili in settori anche molto diversi della tradizione. Oggi disponiamo di conoscenze decisamente più dettagliate relative alla diffusione manoscritta della lirica provenzale in Italia; una circolazione che si rivela così massiccia da interessare molteplici luoghi e ambienti 6 G. Gröber, Die Liedersammlungen der Troubadours, in «Romanische Studien», II (1875-1877), pp. 337-670. 7 S. Santangelo, Dante e i trovatori provenzali, seconda edizione riveduta, Catania, Università di Catania, 1959. 8 Sulla “terza tradizione”, il cui valore ecdotico è stato negli ultimi anni ridimensionato, cfr. D’A. S. Avalle, I manoscritti della letteratura in lingua d’oc, nuova edizione a cura di L. Leonardi, Torino, Einaudi, 1993, alle pp. 98-101. 9 Sulla problematica ricezione del lavoro di Gröber – soprattutto da parte della romanistica francese – cfr. F. Zinelli, Gustav Gröber e i libri dei trovatori (1877), in «Studi Mediolatini e Volgari», XLVIII (2002), pp. 229-274, alle pp. 271-274; Santangelo aveva comunque già fatto riferimento agli studi di Gröber in un articolo del 1905 dedicato al canzoniere U, così come anche Giulio Bertoni in vari suoi studi su canzonieri provenzali, a partire dalla sua analisi di Q, anch’essa pubblicata nel 1905. 74 Stefano Resconi socio-culturali. La moderna ‘filologia dei canzonieri’ ha inoltre sviluppato metodologie di studio raffinate utili anche a mettere in luce e valorizzare il significato culturale complessivo delle raccolte di poesia, mostrando che singoli canzonieri o insiemi coerenti di canzonieri possono orientare la fruizione dei loro lettori e offrire così interpretazioni anche molto diverse della poesia dei trovatori. Sovrapponendo le tappe della biografia dantesca al panorama oggi noto della circolazione manoscritta trobadorica in Italia risulta allora ben chiaro che molto probabilmente (o quasi certamente) non esiste ‘il’ canzoniere provenzale di Dante di cui abbiamo parlato finora, ma esistono invece ‘i’ canzonieri provenzali ai quali Dante ha avuto accesso in momenti diversi della propria vita, che vengono così a costituire la sua ‘biblioteca’ trobadorica10. Si tratterà dunque di sillogi che potevano veicolare interpretazioni anche molto diverse della lirica occitana: a Dante lettore e creatore letterario sarà poi spettato il compito non solo di costruire una sintesi personale di queste letture stratificate, ma anche di valorizzare di volta in volta l’impostazione ideologica o il canone maggiormente funzionali al proprio discorso teorico o poetico. Tenuto conto di ciò, il De vulgari eloquentia – in ragione della sua natura di trattato che cita testi letterari – è un’opera di capitale importanza anche per la ricostruzione del settore provenzale della biblioteca di Dante: il corpus trobadorico che si delinea nel libro, nella sua interrelazione con le informazioni sui trovatori presenti nel resto della produzione dantesca – citazioni esplicite e richiami intertestuali impliciti –, offre infatti dei dati di grande interesse sul rapporto tra l’autore della Commedia e i canzonieri d’oc. È comunque chiaro che una valutazione complessiva del canone provenzale del De vulgari non può non tener conto di due fattori di non secondaria importanza: l’individuazione del pubblico al quale Dante si sta rivolgendo e la funzione che il canone medesimo assume in rapporto agli obiettivi teorici del trattato. Si tratta ovviamente di due aspetti inscindibili, e le cure editoriali riservate a quest’opera nell’ultimo decennio hanno destato un ampio dibattito al riguardo, generato in particolare dai lavori di Mirko Tavoni: lo studioso ha infatti riproposto – sulla base di una rinno10 In anni relativamente recenti ampio è stato il dibattito relativo alla ricostruzione virtuale della ‘biblioteca’ di Dante; basti il rinvio al contributo di R. Zanni, Una ricognizione per la biblioteca di Dante in margine ad alcuni contributi recenti, in «Critica del Testo», XVII, 2 (2014), pp. 161-204. Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 75 vata serie di indizi e circostanze desumibili sia dai contenuti dell’opera, sia da quanto sappiamo della biografia di Dante – l’ipotesi che il De vulgari sia stato scritto fra la metà del 1304 e l’inizio del 1306 ‘per’ Bologna, città che riunisce tutti gli ambienti di riferimento del trattato, tutti ambienti litterati: cioè lo studio universitario, con le Facoltà delle Arti e di Teologia; un circolo di poeti illustri, continuatori del magistero del Guinizelli; le artes dictandi, diffuse a cavallo fra università, giudici, notai e uffici di cancelleria del Comune. E sembra la città perfetta in cui Dante possa aver concretamente impostato e svolto, in latino, il trattato di teoria del linguaggio, poetica e retorica che lo qualificava come massimo “doctor eloquens” di fronte a tutti quegli ambienti11. In base a questa ipotesi Dante si rivolgerebbe dunque a un target di litterati notevolmente differenziato, e ciò porta a chiedersi se – in riferimento agli anni danteschi – si abbia riprova della circolazione di materiali trobadorici in contesti così variegati della società bolognese. Un comune sostrato di conoscenze provenzali è infatti presupposto necessario perché i riferimenti ai trovatori presenti nel trattato possano risultare efficaci nei confronti del pubblico cui si rivolgono, e il dato risulta di un certo interesse considerando che Gianfranco Folena, nel suo fondamentale capitolo su Tradizione e cultura trobadorica nelle corti e nelle città venete, descriveva la figura di Rambertino Buvalelli, trovatore felsineo, isolata nell’ambito di una città nella quale «non c’è nessun indizio di cenacolo trobadorico»12. Le scoperte e le ricerche degli ultimi anni permettono di descrivere una situazione che, almeno dal punto di vista della ricezione della poesia d’oc, si rivela vitale: lo comprovano innanzitutto i frammenti di canzonieri provenzali e francesi rinvenuti anche di recente in archivi e biblioteche bolognesi, tra i quali si segnala in particolare quello di Castagnolo Minore, sia per il fatto di mostrarsi ben ancorato a Bologna anche dal punto di vista del luogo di esecuzione, sia perché – trasmettendoci un florilegio – attesta un M. Tavoni, Convivio e De vulgari eloquentia: Dante esule, filosofo laico e teorico del volgare, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», XVII, 1 (2014), pp. 11-54, a p. 46. 12 Il capitolo è stato pubblicato per la prima volta in Storia della cultura veneta. I. Dalle origini al Trecento, Vicenza, Pozza, 1976, pp. 452-562; la citazione si trova a p. 489. 11 76 Stefano Resconi interesse di tipo ormai già didattico-esemplare per la poesia trobadorica13. Per quanto riguarda gli ambienti amministrativi, possiamo invece ricordare le tracce rinvenute da Armando Antonelli e Riccardo Pedrini su un foglio di pergamena utilizzato nel 1302 come coperta di atti conservati all’Archivio di Stato, poi studiate da Sandro Orlando14. Pur essendo decisamente circoscritta, anche questa attestazione presenta degli elementi di eccezionalità, innanzitutto per il fatto di riportare, almeno in un caso, l’attribuzione del testo, evidenziando un interesse per la paternità autoriale abitualmente assente in questo tipo di testimonianze scrittorie15. Inoltre, l’incipit del più celebre componimento di Rigaut de Berbezilh, Atressi con l’orifanz (BdT 421, 2), è nel reperto contraddistinto dalla medesima ipometria che si ritrova nella citazione di questa lirica integrata nella peculiare raccolta di vidas e razos di P (Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Pluteo 41.42): il dato, pur minuto, coinvolgerebbe Bologna nelle dinamiche di trasmissione che interconnettono il Veneto all’Italia centrale in cui è stato vergato P16. Strettamente imparentato con P è d’altra parte il canzoniere S (Oxford, Bodleian Library, Douce 269), la cui compilazione è stata recentemente collocata a Bologna da Giulio Martire, anche in ragione della presenza nel manoscritto di elementi decorativi affini a quelli presenti nei codici universitari di questa 13 L. Allegri, Frammento di antico florilegio provenzale, in «Studi Medievali», s. III, XXVII, 1 (1986), pp. 319-351; per una disamina complessiva dei numerosi ritrovamenti di lacerti manoscritti nelle biblioteche di area emiliano-romagnola, cfr. A. Antonelli, Frammenti romanzi di provenienza estense, in «Annali Online di Ferrara - Lettere», 1 (2012), pp. 38-66. 14 S. Orlando, Tracce di un canzoniere trobadorico nella Bologna del primissimo Trecento, in “Liber”, “fragmenta”, “libellus” prima e dopo Petrarca. In ricordo di D’Arco Silvio Avalle. Seminario internazionale di studi. Bergamo, 23-25 ottobre 2003, a cura di F. Lo Monaco, L. C. Rossi, N. Scaffai, Firenze, Sismel-Edizioni del Galluzzo, 2006, pp. 107-114. 15 Sono verosimilmente nomi di esecutori i due trascritti in corrispondenza delle tracce liriche vergate nelle carte bianche del ms. Paris, BnF, Nouv. acq. fr. 7516, alle quali si avrà modo di accennare anche infra: cfr. S. Asperti, “Don Johanz la sap”: musicisti e lirica romanza in Lombardia nel Trecento, in Studi di Filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, a cura di P. G. Beltrami, M. G. Capusso, F. Cigni, S. Vatteroni, 2 voll., Pisa, Pacini, 2006, I, pp. 67-90. 16 Una ulteriore traccia trobadorica bolognese potrebbe essere la prima cobla di BdT 225, 10 – anche in questo caso provvista di indicazione di paternità, per quanto incongrua – vergata sull’ultima carta del ms. Chantilly, Musée Condé 470: cfr. G. Brunetti, Un capitolo dell’espansione del francese in Italia: manoscritti e testi a Bologna fra Duecento e Trecento, in «Quaderni di filologia romanza», 17 (2003), pp. 125-164, a p. 156. Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 77 città17. La contiguità tra interessi trobadorici e ambito universitario nel più vasto campo dell’Italia nordorientale si rileva d’altra parte anche nello stesso canzoniere H da cui abbiamo preso le mosse, che è un codice palinsesto su un libro scolastico-universitario18. Il caso bolognese è dunque emblematico di una cultura trobadorica ormai penetrata in diversi livelli del tessuto socioculturale cittadino, e descrive una situazione che doveva caratterizzare anche altre realtà dell’Italia settentrionale. Il canone provenzale del De vulgari interagisce così con un pubblico competente e ricettivo, e ritengo plausibile pensare che Dante lo abbia concepito mediando tra due finalità ben differenti, ma entrambe irrinunciabili nell’ottica del trattato. Da una parte, è indubbio che le citazioni liriche galloromanze disseminate nell’opera abbiano l’obiettivo di comprovare e mettere in risalto la competenza dell’autore nell’eloquenza in volgare, risultando quando necessario funzionali anche a supportare le prese di posizione maggiormente militanti esposte nel testo. Dall’altra, il trattato, in quanto riflessione teorica e forse perfino ‘accademica’ sulla poesia, deve fondare le proprie argomentazioni su presupposti oggettivi, riconoscibili come tali anche dai suoi lettori: in questo contesto, l’elemento in grado di garantire tale oggettività è inevitabilmente il prestigio della tradizione manoscritta, che poteva offrire un canone neutro di riferimento delineato da costanti reperibili nella maggior parte dei canzonieri o da informazioni riportate in maniera autorevole nel loro apparato paratestuale (dunque, vidas e razos). Il necessario compromesso tra queste due istanze porterebbe allora a riconoscere nelle citazioni galloromanze del De vulgari, piuttosto che l’ossatura del canzoniere ideale del Dante-poeta dei primi anni dell’esilio, il repertorio maggiormente efficace e funzionale nel fornire supporto argomentativo alla trattazione del Dante-teorico, anche in rapporto alle conoscenze presupposte nel pubblico cui si rivolge. Questa prospettiva ‘contestuale’ può forse aiutare, se non a risolvere, almeno a ridimensionare alcuni aspetti del canone provenzale del trattato che potrebbero apparire problematici, quali ad esempio la mancanza di qualsiasi riferimento a Bernart de Ventadorn: un’assenza – eclatante, se si tiene conto del ruolo giocato da questo autore nella storia della lirica in G. Martire, Il canzoniere trobadorico S (Oxford, Bodleian Library, Douce 269): nuove acquisizioni per un’ipotesi di localizzazione, in «Critica del Testo», XXIII, 1 (2020), pp. 9-50. 18 Careri, Il canzoniere provenzale H, cit., p. 59. 17 78 Stefano Resconi volgare e del fatto che Dante doveva certamente conoscerlo – che trova però un corrispettivo nei canzonieri, all’interno dei quali non viene dispiegata alcuna particolare strategia per mettere in rilievo la produzione di Bernart19. Un altro nodo critico che è possibile considerare in quest’ottica è quello del rapporto di forza tra Guiraut de Borneil e Arnaut Daniel, almeno apparentemente mutato nel passaggio dal De vulgari alla Commedia (Purg. XXVI 115 e sgg.). Il primato riconosciuto a Guiraut nella definizione dei magnalia (II ii 6-9) – comunque reso funzionale anche all’autopromozione della poesia ‘morale’ dantesca – è infatti sancito in maniera autorevole dalla vida del trovatore20, nonché dall’ampia diffusione del modello della Guiraut-Sammlung – per usare la terminologia gröberiana – nell’organizzazione interna dei canzonieri provenzali circolanti in Italia: elementi che devono aver avuto un loro peso agli occhi del Dante-teorico, e per giunta perfettamente compatibili se non addirittura funzionali alla cornice teorica di matrice aristotelica adottata in questo luogo del trattato21. La non sopita fascinazione (e anzi, verosimilmente, la preferenza) dantesca per Arnaut si riconosce allora sottotraccia in diversi dettagli meno patenti del De vulgari, a partire dal fatto che la massa di testi arnaldiani citati o allusi equivale per consistenza numerica a quella bornelliana22. Mi soffermerei anche su un 19 Come noto, Dante riecheggia l’esordio di Can vei la lauzeta mover (BdT 70, 43) in una celebre terzina del Paradiso (XX 73-75), dunque in anni ben successivi a quelli della stesura del trattato; l’operazione affine condotta anche da Bondie Dietaiuti nei primi versi di Madonna, m’è avenuto simigliante, nonché la presenza della lirica in canzonieri provenzali a diverso titolo legati alla Toscana quali P U lasciano però supporre che Dante possa averla conosciuta già ben prima dell’esilio; a riprova della notorietà di questo trovatore nella Toscana duecentesca, si ricordi inoltre che è probabilmente proprio Bernart l’obiettivo polemico alluso ai vv. 5-7 della guittoniana Ora parrà s’eo saverò cantare. 20 «E fo meiller trobaire que negus d’aquels qu’eron estat denan ni foron apres lui; per que fo apellatz maestre dels trobadors, et es ancar per toz aquels que ben entendon subtils ditz ni ben pauzatz d’amor ni de sen» (cito da J. Boutière, A.-H. Schutz, Biographies des troubadours. Textes provençaux des XIIIe et XIVe siècles, Paris, Nizet, 1964, a p. 39); è da notare che la preminenza riconosciuta a Guiraut non è limitata al solo ambito dei ditz d’amor, ma anche a quello dei ditz de sen, ove il concetto di sen può risultare avvicinabile a quello dantesco di rectitudo, associato alla poesia del trovatore limosino in questo passo del De vulgari. 21 Per una diversa e importante lettura, maggiormente incentrata sull’evoluzione della poetica dantesca, cfr. M. Picone, Giraut de Bornelh nella prospettiva di Dante, in «Vox Romanica», 39 (1980), pp. 22-43. 22 Il corpus delle liriche galloromanze citate o, nel caso della sestina di Arnaut, alluse nel De vulgari è pubblicato a cura di L. Formisano in Dante Alighieri, Le opere, III. De vulgari Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 79 passaggio di particolare interesse, che si legge nelle pagine in cui Dante discute, pur in una prospettiva estremamente teorica23, dell’inscindibile legame tra testo verbale e testo musicale in ambito lirico: trattando delle stanze costruite secondo una forma melodica priva di ripetizioni interne – ovvero quella che, adottando proprio la terminologia dantesca, definiamo abitualmente oda continua – egli osserva che «huiusmodi stantia usus est fere in omnibus cantionibus suis Arnaldus Danielis, et nos eum secuti sumus cum diximus Al poco giorno e al gran cerchio d’ombra»24 (II x 2). Come messo in rilievo da Mirko Tavoni nel commentare questo passo, la valutazione dantesca è qui esplicitamente formulata sulla base di un’analisi condotta sull’intero corpus d’autore, configurandosi come un caso unico nell’intero trattato: una tale percezione è verosimilmente catalizzata anche dalla lettura dei canzonieri, all’interno dei quali la sezione d’autore – intesa dunque come un insieme di testi che acquisisce un proprio statuto e significato unitario – funge da elemento strutturante principale. L’ammirazione dantesca per Arnaut precede in effetti di lunga data la composizione del De vulgari, come comprovato in maniera inoppugnabile dalle ‘petrose’, che andranno collocate attorno al Natale del 1296. Un preciso antecedente lirico provenzale verosimilmente richiamato proprio in due delle poesie di questo ciclo – la sestina e Così nel mio parlar voglio esser aspro – potrebbe inoltre serbare un indizio utile a interconnettere Dante alla tradizione manoscritta toscana delle poesie di Arnaut: in queste due liriche Luciano Formisano ha infatti individuato delle riprese di una delle più celebri poesie di Raimbaut d’Aurenga, Ar resplan la flors enversa (BdT 389, 16)25. Il dato è di particolare interesse perché questa poesia di Raimbaut circolava in Toscana sotto il nome di Arnaut Daniel e, come ho avuto modo di segnalare altrove, non è improeloquentia, a cura di E. Fenzi, con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma, Salerno, 2012, pp. 265-338; nel trattato sono inoltre ricordati anche Peire d’Alvernhe (I x 2) e Sordello (I xv 2), ma senza rinviare ad alcun loro componimento. 23 Cfr. M. S. Lannutti, “Ars” e “scientia”, “actio” e “passio”. Per l’interpretazione di alcuni passi del De vulgari eloquentia, in «Studi Medievali», XLI (2000), pp. 1-38, alle pp. 18-22. 24 Cito da Dante Alighieri, Le opere, III. De vulgari eloquentia, cit., p. 212. 25 L. Formisano, Al poco giorno ed al gran cerchio d’ombra, in Dante Alighieri. Le quindici canzoni. Lette da diversi. I, 1-7, Lecce, Pensa Multimedia, 2009, pp. 213-239, alle pp. 225-226. 80 Stefano Resconi babile che proprio tale ascrizione – per giunta certamente non ingenua – possa aver contribuito a garantire un certo successo al testo, al quale rinvia un problematico verso del Mare amoroso e, forse, anche Inghilfredi nella sua Del meo voler dir l’ombra26. Tenuto conto di ciò, non è dunque improbabile che Dante abbia inserito Ar resplan la flors enversa nella rete di richiami intertestuali che intessono il corpus delle petrose – così debitrici nei confronti del magistero del «miglior fabbro del parlar materno» – proprio perché riteneva anch’essa frutto della penna di Arnaut, secondo quanto leggeva nei canzonieri trobadorici toscani sui quali era avvenuta la sua prima formazione. Come già ipotizzato da Karl Bartsch, nella filigrana delle citazioni e dei rimandi provenzali del trattato si riconosce comunque la chiara presenza di fonti di matrice veneta, forse affini in particolare a quelle confluite in canzonieri come I K: la vida di Peire d’Alvernhe, che costituisce – insieme al più celebre componimento del medesimo poeta (Chantarai d’aquestz trobadors, BdT 323, 11) – un elemento strutturante di questo tipo di raccolte27, offre infatti a Dante l’informazione cronologica che si legge a I x 2. Questa biografia ci è trasmessa dai canzonieri A B E I K N2 R; suggerisce di circoscrivere il tipo di fonte a un apporto affine a I K anche l’applicazione di un principio di economia: è infatti dimostrabile che proprio questo è il settore della tradizione manoscritta cui rinvia l’unica citazione che nel trattato Dante riserva a una poesia di Bertran de Born, Non puosc mudar mon chantar non esparga (BdT 80, 29), sirventese ricordato a II ii 8 come modello di poesia delle armi. L’incipit della lirica è così riportato dai tre latori manoscritti del De vulgari28: 26 S. Resconi, Traduzioni toscane di poesie provenzali e storia della tradizione manoscritta trobadorica, in Tradurre i trovatori. Esperienze ecdotiche e di traduzione a confronto, a cura di C. Cantalupi, N. Premi, Verona-Bolzano, QuiEdit, 2020, pp. 87-112, alle pp. 104 e sgg. 27 Cfr. R. Antonelli, Il canone della lirica provenzale nel Veneto, in I trovatori nel Veneto e a Venezia. Atti del Convegno Internazionale. Venezia, 28-31 ottobre 2004, a cura di G. Lachin, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 207-226. 28 I tre testimoni si collocano in dipendenza da un archetipo all’interno di uno stemma bifido che vede opporsi B (Berlin, Staatsbibliothek Preußischer Kulturbesitz, Lat. folio 437) alla famiglia costituita da G (Grenoble, Bibliothèque Civique, 580) e T (Milano, Biblioteca Trivulziana, 1088): cfr. Dante Alighieri, Le opere, III. De vulgari eloquentia, cit., pp. xcv-xcvii. Il ricontrollo che ho effettuato sulle riproduzioni digitali dei manoscritti conferma per questo luogo la lettura offerta da M. Chiamenti, Intertestualità trobadorico- Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 81 B: No pose nuldat cun cantar non exparia G: Non posse nuldat cun cartar non exparia T: Non pose nuldat cun cartar non exparia Colpisce la presenza di un cospicuo numero di fraintendimenti di origine paleografica, alcuni dei quali forse riconducibili già all’archetipo: pur trattandosi di fenomeni chiaramente poligenetici, è infatti difficile pensare che i testimoni convergano indipendentemente sulla forma nuldat, nella quale si assommano le cattive letture mu > nul e r > t. Tutti i tre manoscritti riportano però una lezione d’interesse, ovvero c’un, che sostituisce la più diffusa mon in F M b (ove M b rappresentano però tradizioni di matrice provenzale propria) e si può equiparare anche a un, tràdita da D I K: la sostanziale sovrapponibilità di questi due esiti è comprovata dall’incipit della poesia citato al termine della razo che introduce il componimento in I K, ove I legge un e K, a fronte di un testo lirico che – come in I – riporta un, ha invece c’un. È dunque economico e verosimile pensare che Dante abbia letto la vida di Peire d’Alvernhe e il sirventese di Bertran de Born nello stesso tipo di fonte, se non in un medesimo manoscritto, che, valutando la questione sulla base dei canzonieri conservati, poteva risultare affine a I K. Molti commentatori hanno riflettuto sulle ragioni che possono aver portato Dante ad associare a Bertran proprio Non puosc mudar mon chantar non esparga, che non è certo uno dei componimenti più rappresentativi del trovatore di Autafort29. Si potrebbero certo riconoscere delle ragioni contenutistiche: la lirica, in forte posizione di apertura (v. 3), fa esplicito riferimento al legame consustanziale tra largueza e nobiltà, toccando un tema etico che interessa la riflessione dantesca di questi anni (come comprovato in maniera paradigmatica dal quarto trattato del Convivio). Riconosciamo poi nel testo alcune istanze che potremmo spingerci a definire dantesche, in «Medioevo e Rinascimento», n.s. 8 (1997), pp. 81-96, a p. 90. Edizione di riferimento per questa poesia trobadorica è G. Gouiran, L’amour et la guerre. L’œuvre de Bertran de Born, Aix-en-Provence, Université de Provence, 1985. Édition revue et corrigée pour Corpus des Troubadours, 2012, consultabile online all’indirizzo: https://trobadors.iec. cat/veure_d.asp?id_obra=446 [ultima consultazione: 1 settembre 2022]. 29 Cfr. G. Chiarini, Bertran de Born nel De vulgari eloquentia, in Miscellanea di studi in onore di Aurelio Roncaglia a cinquant’anni dalla sua laurea, 4 voll., Modena, Mucchi, 1989, II, pp. 411-419. 82 Stefano Resconi ‘sordelliane’30, quali l’esercizio della libertà di critica nei confronti dei potenti, oppure l’idea che la poesia possa influenzare fattivamente lo scenario politico. Agli occhi di Dante il sirventese doveva inoltre presentare dei non secondari pregi formali: è infatti imitazione metrica di Si·m fos Amors de joi donar tan larga (BdT 29, 17), lirica di Arnaut Daniel citata anch’essa nel De vulgari (II xiii 2), la cui fortuna è comprovata anche dalla pur molto parziale trascrizione estravagante riservatale nella traccia dell’Archivio di Stato di Bologna cui si è accennato precedentemente. Nel suo testo Bertran recepisce dal modello le difficili uscite rimiche in -omba, -om ed -esta, mettendone esplicitamente in evidenza la complessa preziosità nella tornada: anche Dante raccoglierà la sfida, intrecciando endecasillabi che rimano in -omba ed -esta ai vv. 94-99 del sesto canto dell’Inferno31. Proprio la valutazione del ruolo e della posizione di Non puosc mudar nella fonte recepita da Dante potrebbe permettere di individuare un’altra ragione che – agendo sinergicamente con quelle contenutistico-formali appena ricordate – potrebbe anch’essa contribuire a spiegare la particolare attenzione riservata a questa poesia. Dicevamo infatti che la lezione che contraddistingue l’incipit del sirventese riportato nel De vulgari riconduce a una fonte affine a (F) I K, ovvero ai testimoni che riportano il cosiddetto libre di Bertran de Born, un ampio macrotesto nel quale i componimenti di questo autore sono accompagnati dalle razos relative, a costruire una sorta di prosimetro biografico dedicato a un poeta-guerriero fortemente legato alle sorti politiche dei grandi signori del suo tempo32. All’interno 30 Con riferimento al Sordello del planh per la morte di Blacatz, che deve avere avuto un ruolo non secondario nella costruzione del Sordello-personaggio del Purgatorio: cfr. M. L. Meneghetti, La parabola di un avatar. Lettura del canto VI del Purgatorio, in «Rivista di Studi Danteschi», XIII, 2 (2013), pp. 233-266. 31 È da notare che serie rimiche in -arga e -omba si trovano anche nelle terzine del sonetto con il quale Pallamidesse Bellindote dà avvio alla sua tenzone con Monte Andrea (La pena ch’ag[g]io cresce e non menova; il testo si legge in Poeti del Duecento, a cura di G. Contini, MilanoNapoli, Ricciardi, 1960, pp. 468-469, e le medesime uscite sono poi utilizzate anche da Monte nella sua risposta); i quattro rimanti implicati trovano tutti riscontro in Si·m fos Amors de joi donar tan larga, che è dunque verosimilmente qui riecheggiata, comprovando il successo incontrato da Arnaut in ambito guittoniano. Meno probante la presenza delle uscite rimiche di questa canzone del trovatore perigordino disciolte nell’articolata struttura metrica di una canzone dello stesso Monte Andrea (in tenzone con Tomaso da Faenza), Ahi lasso doloroso, più non posso. 32 Sul libre di Bertran de Born cfr. in particolare V. Bertolucci Pizzorusso, Osservazioni e proposte per la ricerca sui canzonieri individuali, in Lyrique romane médiévale: la Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 83 del libre, Non puosc mudar occupa una posizione di rilievo: è infatti il secondo componimento della raccolta, preceduto solo da Ges no me desconort (BdT 80, 21). La razo relativa a quest’ultima poesia ci informa però che Bertran l’avrebbe scritta nel momento in cui, tradito da tutti i suoi alleati, si trova costretto ad arrendersi e consegnare Autafort a Riccardo Cuor di Leone che, mostrandosi magnanimo, perdona il trovatore e gli rende i suoi possedimenti. A fronte di questo scenario in cui Bertran è perdente nei confronti del futuro sovrano d’Inghilterra, la razo di Non puosc mudar, che dunque segue immediatamente nel libre, descrive invece un Bertran cantore entusiasta della guerra scatenatasi tra Riccardo, ormai diventato re, e Filippo Augusto: don tuich li baron a cui desplasia la patz foron molt alegre, e·N Bertrans de Born plus que tuich, per so que plus volia guerra que autr’om e car crezia que per lo seu dire lo reis Richartz agues comensada la guerra33. Il valore di emblema della poetica di Bertran che Dante riconosce a Non puosc mudar è dunque dovuto alla compartecipazione di molteplici fattori: alle forti motivazioni contenutistico-formali potrebbero dunque aggiungersi anche quelle legate alle caratteristiche della tradizione testuale usufruita da Dante. A riprova della natura stratificata delle conoscenze trobadoriche dantesche cui facevo riferimento all’inizio del contributo, si potrà segnalare che – analizzando in maniera estensiva le tracce di modelli provenzali nelle opere di Dante – è possibile dimostrare che il libre non deve essere stato l’unica fonte bertrandiana cui l’autore della Commedia ha avuto accesso. È stato infatti notato che la similitudine che apre il XXVIII dell’Inferno (non casualmente, quello che culmina nell’incontro con Bertran de Born) riproduce la struttura retorico-sintattica della prima cobla di Si tuit li dol e·l tradition des chansonniers. Actes du Colloque de Liège, 1989, édités par M. Tyssens, Liège, Bibliothèque de philosophie et lettres de l’Université de Liège, 1991, pp. 273-302, e W. Meliga, La raccolta con razos di Bertran de Born, in Studi di Filologia romanza offerti a Valeria Bertolucci Pizzorusso, cit., II, pp. 955-991. 33 Cito da Boutière e Schutz, Biographies des troubadours, cit., a p. 132. Per una lettura del sirventese di Bertran in prospettiva dantesca cfr. M. Picone, I trovatori di Dante: Bertran de Born, in «Studi e Problemi di Critica Testuale», XIX (1979), pp. 71-94, alle pp. 75-80. 84 Stefano Resconi plor e·l marrimen (BdT 80, 41)34, un planh scritto in occasione della morte del Re Giovane che doveva verosimilmente figurare adespoto ai piani alti della sua trasmissione manoscritta: il dato è comprovato dalla dispersione attributiva evidenziata dai suoi tre latori, che lo ascrivono alternativamente a Rigaut de Berbezilh (a1), Peire Vidal (c) e Bertran de Born (T). Quest’ultima ha tutta l’aria di essere un’attribuzione facilior, come suggerisce anche l’esistenza di un altro planh per il giovane Enrico, questo sicuramente di Bertran e incluso nel libre (Mon chan fenisc ab dol et ab maltraire, BdT 80, 26). Salvo pensare alla fruizione di un unico apporto manoscritto in cui al libre fossero affiancati ulteriori componimenti del trovatore di Autafort, tra i quali anche questo planh, dovremmo attribuire a Dante la lettura di almeno un secondo apporto bertrandiano, dunque forse di matrice *T*35. Si può segnalare che proprio una fonte del medesimo tipo sembra riconoscersi anche nella fitta rete di riecheggiamenti trobadorici che contraddistingue i versi provenzali pronunciati da Arnaut Daniel-personaggio nel XXVI del Purgatorio: alcuni sintagmi – che potrebbero investire anche il luogo filologicamente più tormentato di queste terzine, ovvero il v. 146 – parrebbero infatti prelevati da due poesie di Guilhem de Berguedà, la pluriattestata Quan vei lo temps camjar e refrezir (BdT 210, 16) e il planh scritto in occasione della morte di Pons de Mataplana, Consiros cant e planc e plor (BdT 210, 9), tràdito esclusivamente proprio da T36. Il caso della citazione di Non puosc mudar appena considerato si rivela dunque esemplare nell’illustrare la peculiare dinamica che il Dante del De vulgari instaura con le sue fonti trobadoriche, contraddistinta dal compromesso tra le proprie conoscenze e predilezioni in ambito provenzale, le esigenze imposte dalla natura e dagli obiettivi teorici del trattato, nonché l’autorevolezza della tradizione manoscritta. Si riconosce però un elemento qualificante della costruzione concettuale dell’opera che, non 34 Su questo planh si veda R. Manetti, Anonimo (già attribuito a Bertran de Born) Si tuch li dol e·l plor e·l marriment (BdT 80.41), in «Lecturae tropatorum», 11 (2018). 35 Su questo tipo di tradizione cfr. in ultimo M. L. Meneghetti, Autorialità medievale, tra aggregazione e disaggregazione, in c.d.s. negli Atti del Convegno L’auteur dans ses livres: autorité et matérialité dans les littératures romanes du Moyen Âge (XIIIe-XVe siècles) – Universités de Genève et Fribourg. 36 Cfr. M. Perugi, Arnaut Daniel in Dante, in «Studi Danteschi», 51 (1978), pp. 59152, alle pp. 125-133. Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 85 avendo riscontro nei codici conservati, si configura dunque come la più eclatante innovazione compiuta da Dante rispetto alle forme della circolazione manoscritta della lirica in volgare nell’Italia del suo tempo. Mi riferisco al fatto che il De vulgari presupponga un trilinguismo che associa strettamente provenzale, francese e italiano, non solo dal punto di vista della genesi storico-linguistica, ma anche da quello del valore letterario in ambito lirico di registro elevato; ciò in deroga anche a quanto notoriamente affermato a I x 2, ove non si attribuisce alla lingua d’oïl particolare prestigio in questo genere37. Il capitolo del trattato dedicato al gradum constructionis excellentissimum (II vi) mostra bene la percezione dantesca dell’unitarietà consustanziale delle tre tradizioni, denotando un approccio così innovativo da disorientare anche gli studiosi moderni. Come precisa l’autore medesimo (par. 7), la capacità di comporre ricorrendo a una struttura sintattica adeguata non si può apprendere solo dalla teoria, ma richiede lo studio di diversi modelli autorevoli: tale presupposto determina così la presenza di un cospicuo numero di rinvii a testi esemplari, in una sequenza che pone però diversi problemi di tipo filologico. È questo il caso del richiamo a una delle più celebri poesie di Aimeric de Pugulhan, Si com l’arbres que per sobrecargar (BdT 10, 50), che in tutti i tre testimoni manoscritti del De vulgari è erroneamente inserita all’interno del testo latino che segue l’elenco di esempi romanzi. Il fatto che il Trivulziano evidenzi inoltre delle difficoltà nella lettura di questo incipit ne comprova la probabile natura di integrazione marginale mal collocata; tenuto conto che il contesto di questo passo invita all’accumulazione di esempi, l’aggiunta potrebbe anche non essere stata inserita da Dante nell’autografo – come di norma si pensa –, ma piuttosto integrata fortunosamente nell’archetipo da una mano diversa da quella dell’autore38. Ai fini del nostro discorso interessa Si potrà ricordare il precedente delle Regles de trobar di Jofre de Foixà – scritte però in tutt’altro contesto culturale –, nelle quali il cicilia è citato insieme a provenzale, francese e galego-portoghese; il successo incontrato dalla lirica italiana in ambito catalano negli ultimi decenni del Duecento è comprovato anche da ben precise tracce stilistico-letterarie rilevabili in diversi testi, tra i quali spicca Amors, merce no sia!, uno dei componimenti del cançoneret di Sant Joan de les Abadesses: cfr. M. S. Lannutti, L’ultimo canto: musica e poesia nella lirica catalana del Medioevo (con una nuova edizione del cançoneret di Sant Joan de les Abadesses), in «Romance Philology», 66 (2012), pp. 309-363, alle pp. 317-328. 38 T (c. 10v) riporta infatti così l’incipit della poesia di Aimeric: «si com lobardis com larbres che per sobre carcar»; questa lirica era ben nota, come mostra non solo l’estensione 37 86 Stefano Resconi soprattutto che i tre latori concordino nel collocare la lirica francese Ire d’amor qui en mon cuer repaire (RS 171), da Dante erroneamente ritenuta di Thibaut de Champagne, in seconda posizione, ove viene a interrompere la nutrita sequenza di esempi provenzali. Tale collocazione era risultata sospetta già a Pio Rajna, primo editore critico moderno del trattato, che aveva di conseguenza posizionato l’incipit francese tra quelli provenzali e italiani, adottando una soluzione poi recepita dalle edizioni successive, fino a quella curata nel 2012 da Enrico Fenzi, che ha deciso di non intervenire sulla collocazione che tutti i tre latori assegnano a Ire d’amors39. A fronte del comune accordo dei testimoni, questa mi pare forse la soluzione più prudente: se la sequenza ordinata su base linguistica ha perfettamente senso per noi moderni, Dante potrebbe infatti averle preferito una scansione che collocasse in prima e più evidente posizione i due grandi modelli di riferimento delle tradizioni galloromanze. Proprio questa impostazione trilingue è priva di riscontri nella coeva circolazione manoscritta italiana della lirica aulica. Mentre oc e oïl possono entrare in contatto all’interno dei codici – come nel canzoniere di Modena o nel caso dei componimenti francesi trascritti in alcune sillogi provenzali allestite in Italia settentrionale –, nell’età di Dante la lirica in lingua del sì non ha ancora raggiunto un prestigio tale da poter partecipare a raccolte plurilingui di questo tipo: il Sirventese lombardesco trascritto in coda alla copia cinquecentesca del canzoniere di Bernart Amoros potrebbe infatti essere una traccia aggiunta alla fine del manoscritto originario, mentre il caso del Libro siciliano poi utilizzato dal Barbieri risulta problematico, tanto dal punto di vista della collocazione cronologica, quanto da quello della sua tradizione manoscritta, ma anche l’evidente ripresa della memorabile similitudine iniziale ai vv. 28-30 di Luntan vi son, ma presso v’è lo core di Carnino Ghiberti. 39 Cfr. l’ampia discussione testuale riservata a questo luogo in Dante Alighieri, Le opere, III. De vulgari eloquentia, cit., pp. cxv-cxvii. La problematicità del passo era già stata rilevata da W. Pfeffer, A Note on Dante, De vulgari, and the Manuscript Tradition, in «Romance Notes», 46, 1 (2005), pp. 69-76, riflessione poi riproposta in Ead., Les manuscrits ne mentent pas: le cas de Dante et le De vulgari eloquentia, in «Revue des langues romanes», CXX, 1 (2016), pp. 161-174, ma senza citare le edizioni pubblicate nel frattempo; a proposito di questo passo del De vulgari segnala che «il riordinamento per categorie linguistiche degli autori (…) non è (…) troppo omogeneo con altri elenchi» Paola Allegretti, Osservazioni minime sulla recensione del De vulgari eloquentia, in «Letteratura italiana antica», 12 (2011), pp. 325-332, a p. 332. Il canone provenzale del De vulgari eloquentia 87 della sua fisionomia effettiva. Per trovare attestazioni di un trilinguismo lirico in materiali scrittori degli anni danteschi dobbiamo abbandonare i canzonieri e concentrarci su testimonianze decisamente meno controllate, come le pagine nelle quali vediamo coesistere, in forma di tracce talvolta stratificate, componimenti italiani, provenzali e francesi spesso appartenenti a generi lirici ‘popolareggianti’ e legati alla fruizione performativa: basti ricordare, a titolo di esempio, le poesie trascritte in alcune carte rimaste bianche nel ms. Paris, BnF, Nouv. acq. fr. 7516, oppure quelle vergate in una pagina del ms. Città del Vaticano, BAV, Pal. lat. 75040. Questo aspetto comprova ulteriormente la forte innovatività del trattato dantesco, che presuppone un trilinguismo lirico privo di riscontro nella sorvegliata tradizione aulica dei canzonieri, ma che si rileva semmai in attestazioni estravaganti che ci parlano della partecipazione di ampie fasce di pubblico a una diffusa cultura lirica plurilingue. Inoltre, a fronte della schiacciante preponderanza numerica delle sillogi poetiche provenzali allestite in Italia rispetto alle francesi, i tre rinvii a Thibaut de Champagne presenti nel trattato si rivelano assolutamente non scontati, e anzi forse indicativi di una circolazione della poesia dei trovieri di registro elevato che, pur se certo minore rispetto a quella dei trovatori, potrebbe essere stata ben più ampia di quanto possano lasciar pensare i canzonieri a noi giunti, allestiti in un’Italia che riconosce nella poesia provenzale il modello lirico aulico galloromanzo di riferimento41. Cfr., per il primo dei due casi, L. Formisano, M. Zaggia, Le composizioni liriche del codice gonzaghesco della Biblioteca Nazionale di Parigi, fr. 7516 nouv. acq., in G. Schizzerotto, Sette secoli di volgare e di dialetto mantovano, Mantova, Publi-Paolini Editore, 1985, pp. 40-71, e P. Gresti, Osservazioni sulle liriche del codice parigino B.n.F., Nouv. Acq. 7516, in «Studi di Filologia Italiana», LXX (2012), pp. 1-40; per il secondo M. Careri, Una nuova pagina di lirica romanza (provenzale, francese e italiana): Vat. Pal. Lat. 750, c. 179v, in «Medioevo Romanzo», XXXIX, 2 (2015), pp. 241-267. 41 Per restare al solo Dante, si considerino le riprese da liriche dei trovieri rilevate nella canzone trilingue Aï faux ris, pour quoi traï aves da R. Viel, “Aï faux ris”: tracce del francese di Dante e del suo pubblico, in «Studj romanzi», n.s. 12 (2016), pp. 91-136, alle pp. 127-129. 40 Claudio Lagomarsini La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione L’occasione per tornare su un tema già più volte affrontato1 come quello delle presenze arturiane in Dante e nei suoi primi commentatori non viene tanto dalla possibilità di aggiungere nuovi pezzi al dossier quanto dall’esigenza di una ricognizione critica. Nell’ottica di presentare una veduta d’insieme, sembra opportuno incrociare due direttrici, una verticale e una orizzontale: si tratta di analizzare, in prima istanza, le interpretazioni che di uno stesso passo forniscono commentatori che si sono susseguiti nel tempo; alla luce di questo esame si potrà quindi valutare in 1 Cfr. la voce Romanzi arturiani, a cura di D. Delcorno Branca, in Enciclopedia dantesca, dir. U. Bosco, 6 voll., Roma, Istituto della Enciclopedia italiana, 1970-1978, IV (1973), pp. 1028-1030; D. Delcorno Branca, Prospettive per lo studio della Mort Artu in Italia, in Modi e forme della fruizione della “materia arturiana” nell’Italia dei sec. XIII-XIV, Milano, Istituto Lombardo di Scienze e Lettere, 2006, pp. 67-83; Ead., La linea cortese di Boccaccio e dei suoi lettori tra Romagna ed Emilia, in Boccaccio e la Romagna. Atti del convegno di Forlì (22-23 novembre 2013), a cura di G. Albanese, P. Pontari, Ravenna, Longo, 2015, pp. 47-65; M. Picone, Dante e la tradizione arturiana [1982], in Id., Scritti danteschi, a cura di A. Lanza, Ravenna, Longo, 2017, pp. 357-370; G. Porta, Tristan et les premiers commentateurs de la Divine comédie, in Tristan-Tristrant. Mélanges en l’honneur de Danielle Buschinger, éd. par A. Crépin, W. Spiewok, Greifswald, Reineke, 1996, pp. 423430; L. Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella ‘Commedia’ di Dante, Bologna, Il Mulino, 2007; F. Franceschini, «Mediante Beatrice»: semiotica e linguistica dei canti XV, XVI e XVII del ‘Paradiso’, in Id., Tra secolare commento e storia della lingua. Studi sulla ‘Commedia’ e le antiche glosse, Firenze, Cesati, 2008, pp. 55-92; L. Azzetta, Vicende d’amanti e chiose di poema. Alle radici di Boccaccio interprete di Francesca, in «Studi sul Boccaccio», 37 (2009), pp. 155-170; G. Brunetti, «Franceschi e provenzali» per le mani di Boccaccio. Con una nota sui mss. della Commedia, in «Studi sul Boccaccio», 39 (2011), pp. 23-59. 90 Claudio Lagomarsini che misura il trattamento dei luoghi arturiani ci permette di precisare le conoscenze e le idee del singolo commentatore rispetto all’insieme della materia bretone. I passaggi della Commedia in cui Dante cita più o meno esplicitamente romanzi arturiani sono quattro: in Inf. V 67 si menziona il nome di Tristano nella schiera dei lussuriosi e, alla fine dello stesso canto (vv. 127137) – dove la vicenda di Paolo e Francesca è romanzata proprio sulla base del sottotesto tristaniano –, si incontra il famoso rimando alla scena del bacio tra Ginevra e Lancillotto nel Lancelot in prosa. La memoria di questo episodio tornerà nella terza cantica (Par. XVI 14-15), dove una similitudine associa il riso di Beatrice alla tosse con cui la Dama di Malohaut manifesta la sua presenza a Lancillotto che conversa con Ginevra prima del bacio. Una citazione puntuale dalla Mort Artu si trova infine in Inf. XXXII 61-62, dove si evoca la vicenda di Mordred, l’usurpatore del regno di Artù. Resta da accertare se in Dante si possano cogliere riferimenti ai romanzi di Chrétien de Troyes2, ma se anche così fosse le allusioni sono sfuggite ai commentatori antichi, e un analogo silenzio cade sull’Estoire del Saint Graal, il cui prologo, secondo una recente ipotesi3, avrebbe potuto fornire a Dante uno spunto narrativo per l’inizio del poema. I commentatori medievali, d’altra parte, non rilevano neppure le citazioni arturiane esplicite ma estranee alla Commedia, come il brano del De vulgari eloquentia (I x 2) sulle «Arturi regis ambages pulcerrime» o il rimando del Convivio (IV xxviii 78) alla monacazione di Lancillotto nella Mort Artu. Tenuto conto di tutto questo, la nostra ricognizione si concentrerà sui quattro “passaggi arturiani” della Commedia, gli unici effettivamente discussi dagli antichi interpreti. A proposito di cronologia, ci soffermeremo 2 Cfr. K. Stierle, Il mondo cavalleresco nella Commedia, in La letteratura cavalleresca dalle chansons de geste alla Gerusalemme liberata. Atti del convegno (Certaldo, 21-23 giugno 2007), a cura di M. Picone, Pisa, Pacini, 2008, pp. 129-138; C. Bologna, Galeotto fu il Lancelot. Dante lesse Chrétien de Troyes?, in Metafora medievale: il libro degli amici di Mario Mancini, a cura di C. Donà, M. Infurna, F. Zambon, Roma, Carocci, 2011, pp. 49-80. 3 Cfr. A. Punzi, Ancora sul romanzo nella Commedia, in Letteratura, alterità, dialogicità. Studi in onore di Antonio Pioletti, a cura di E. Creazzo, G. Lalomia, A. Manganaro, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2015, pp. 799-815. La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 91 sui primi centosessant’anni di commenti – da Iacopo Alighieri (poco dopo il 1321) a Cristoforo Landino (1481)4 – lasciando da parte la ricezione post-rinascimentale. 1. La storia di Tristano I commentatori medievali ignorano la tradizione del Tristan in versi, come dimostra la menzione del padre dell’eroe, sempre identificato con Meliadus e non con il Rivalen citato da Béroul. Una conferma viene dagli accenni alle circostanze del ferimento a morte, che secondo i commentatori sarebbe avvenuto per mano di re Marco e nella camera di Isotta, anziché in una mischia al castello di Estult, come narra Thomas. Laddove Boccaccio spiega che Tristano visse «al tempo del re Artù e della Tavola Ritonda», precisando che «fu de’ cavalieri di quella Tavola»5, risulta ulteriormente confermata la dipendenza dal romanzo in prosa, la cui principale invenzione rispetto alla tradizione in versi consiste proprio nell’accesso del cavaliere alla Tavola Rotonda. Il caso di Tristano è interessante anche per mostrare la contaminazione di fonti letterarie e storiche operata da alcuni commentatori. Collocando il nostro personaggio al tempo di Artù, le Chiose palatine avvertono l’esigenza di fornire una datazione precisa: «Ne l’anni Domini CCCCLXV, secondo che si legge ne le istorie di Brettagna, fue il re Artù»6. Questo anno 465, che non ha riscontro nei romanzi francesi, deriva con ogni probabilità dal Chronicon di Martino Polono, che sarà poi esplicitamente richiamato nel commento che l’Anonimo fiorentino allega al medesimo passo della Commedia7. Per esami all’ingrosso è utile il portale del Dartmouth Dante Project, accessibile online all’indirizzo: https://dante.dartmouth.edu/[ultima consultazione: 15 giugno 2022]. Le edizioni dei singoli commenti citati saranno richiamate via via. 5 Giovanni Boccaccio, Esposizioni sopra la Comedìa di Dante, a cura di G. Padoan, in Tutte le opere di Giovanni Boccaccio, a cura di V. Branca, VI, Milano, Mondadori, 1965, p. 312. 6 Chiose palatine. Ms. Pal. 313 della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze, a cura di R. Abardo, Roma, Salerno, 2005, p. 129. L’editore non dà informazioni sulla fonte di questa notizia. 7 «Alcuna memoria fa di lui [scil. di Artù] la cronica martiniana, et dice che al tempo di Illaris Papa regnava Artù in Brettagna come si trova nelle storie de’ Brettoni, il quale, per la sua 4 92 Claudio Lagomarsini Ripercorrendo la vicenda tristaniana, diversi commentatori si concentrano sull’episodio del ferimento a morte, che consente di rimettere a fuoco il problema delle fonti. L’Ottimo commento è il primo a richiamare il racconto in modo puntuale, annotando che Marco di Cornovaglia, una volta appurato il tradimento subìto dal nipote, «lo fedío d’uno dardo atossicato»8. Il dettaglio è confermato da Boccaccio, secondo cui Tristano «fu fedito dal re Marco d’un dardo avelenato». Altri commentatori presentano una versione divergente: per Francesco da Buti e Cristoforo Landino, la ferita è provocata da una lancia infilata in un foro della porta che chiude la camera di Isotta9. Un poco diversa dalle precedenti è la versione dell’Anonimo fiorentino, stando al quale «il re Marco sopragiuntolo, da una finestra gli lanciò una lancia avelenata et ferìllo a morte»10. Nei commentatori latini che riportano il dettaglio, Tristano è «percussus telo venenato», dove il termine telum può indicare tanto una lancia, quanto un giavellotto o un dardo. In verità, nel Tristan en prose, il ferimento era narrato in modo piuttosto sintetico11: Or dist li contes que un jour estoit entrés mesire Tristans es cambres la roïne et harpoit un lay qu’il avoit fait. Audret l’entendi et le vint conter au roi March, si fist puis tant qu’il feri monsigneur Tristran d’un glaive envenimé que Morgain li benignità et probità, Fiandra, Francia, Norvegia, Dacia et l’altre marine isole d’intorno sottopose a sé et a sua signoria» (Commento alla Divina Commedia d’Anonimo Fiorentino del secolo XIV, a cura di P. Fanfani, Bologna, Romagnolo, 1866, p. 155). Nel Chronicon il pontificato di papa Ilario (461-468) viene appunto fatto cominciare nell’anno 465: cfr. Martini Oppaviensis Chronicon pontificum et imperatorum, ed. L. Weiland, in Monumenta Germaniae Historica. Scriptores, ed. G. H. Pertz, t. XXII, Hannover, Bibl. Aulici Hahniani, 1872, pp. 377-475, a p. 419. 8 Cfr. Ottimo commento alla Commedia, I. Inferno, a cura di G. B. Boccardo, Roma, Salerno, 2018, p. 140. 9 «Il re Marco l’uccise, trovatolo un dì in camera con la reina Isotta, e con quella medesima sua lancia ch’avea lasciata fuori mettendola per uno buco ch’era all’uscio; sì che lo ferì e della detta ferita in fine morìe» (Commento di Francesco da Buti sopra la Divina Comedia di Dante Allighieri, a cura di C. Giannini, 3 voll., Pisa, Nistri, 1858-1862, I, p. 163); «El re gl’appostò in camera, et chon la lancia medesima di Tristano, la quale lui haveva lasciata fuori dell’uscio, lo ferì mettendo la lancia per un bucho dell’uscio» (Cristoforo Landino, Comento sopra la Comedia, a cura di P. Procaccioli, 4 voll., Roma, Salerno, 2001, I, p. 457). 10 Commento d’Anonimo Fiorentino, cit., p. 155. 11 Le Roman de Tristan en prose, sous la dir. de Ph. Ménard, 9 voll., Genève, Droz, 1987-1997, IX, § 76. La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 93 ot baillié. Mesire Tristrans estoit desarmés, si que li rois le feri mortelment par mi la quisse, et quant li rois ot fait cestui caup, il s’em parti, car il n’osa monsigneur Tristran atendre. Il testo non dice da dove e come sia portato il colpo, e sulla parte del corpo raggiunta dall’arma di Marco i manoscritti divergono: l’edizione Ménard promuove una lezione minoritaria (par mi la quisse, ‘attraverso la coscia’), quasi certamente innovativa rispetto alla variante condivisa da tutti gli altri testimoni, che hanno par mi l’eschine, ‘attraverso la schiena’. Da un sondaggio condotto nei manoscritti12, risulta confermata la lezione glaive envenimé. Nessun testimone francese, cioè, parla – come alcuni commentatori danteschi – di un dardo scagliato da lontano o fatto penetrare in un foro della porta. Anche i volgarizzamenti italiani che riportano l’episodio (Tristano Panciatichiano e Veneto) identificano l’arma con una «lancia avelenata» / «lanza venenosa», senza precisare le modalità con cui è inferto il colpo mortale. È curiosa, allora, la situazione che si riscontra in un manoscritto quattrocentesco francese (Paris, BnF, Fr. 99): nel corpo del testo è confermata con qualche variante la lezione vulgata: «Si fist appareillier un glaive dont il fist le fer appareiller de venin et oingdre, et en fery Tristan parmi l’eschine» (c. 759vb); che però sembra contraddetta dalla rubrica-sommario posta all’inizio del manoscritto: «Et comment le roy Marc li lança par une fenestre ung dart envenimé dont il morut» (c. 1r). La trecentesca Tavola ritonda parla di un «lanciotto» scagliato da una «finestra ferrata»13; «lancia» e «finestra» tornano nel cantare delle Ultime imprese e morte di Tristano14. Nel cinquecentesco Tristan de Leonís castigliano15, infine, Marco ferisce 12 Sono stati collazionati i seguenti codici: Chantilly, Musée Condé, 647; London, BL, Add. 5474; Città del Vaticano, BAV, Pal. lat. 14740; Modena, Bibl. Estense, α.T.3.11; Paris, BnF, Fr. 97, 101, 103, 104, 336, 772, 757, 760, 1628, 12599, 24400. Sono grato a Véronique Winand per avermi aiutato in alcuni controlli. Anche la Compilation arthurienne di Rustichello da Pisa conferma la lezione vulgata: cfr. Il romanzo arturiano di Rustichello da Pisa, a cura di F. Cigni, Pisa, Pacini, 1994, § 222. 13 La Tavola Ritonda o l’Istoria di Tristano, a cura di F. L. Polidori, Bologna, Romagnoli, 1864, p. 496. 14 Cfr. F. Cigni, Un nuovo testimone del cantare Ultime imprese e morte di Tristano, in «Studi mediolatini e volgari», 43 (1997), pp. 131-191, a p. 168 (ottava 65). 15 Cfr. M. L. Cuesta Torre, La lanza herbolada que mató a Tristán: la version castellana medieval frente a sus correlatos franceses e italianos (cap. 80 del Tristan de Leonís de 1501), in Medievalismo en Extremadura: estudios sobre literatura y cultura hispánicas en la Edad 94 Claudio Lagomarsini Tristano con una lancia avvelenata fatta penetrare tra le assi di legno da un soppalco (sobrado). Se non siamo davanti a racconti alternativi scaturiti per poligenesi, la menzione del dardo collegherebbe l’Ottimo (da cui dipende forse Boccaccio) a un perduto testo francese dal quale discende anche la rubrica iniziale del ms. BnF, Fr. 99. L’Anonimo fiorentino sembra tener presente, invece, la versione “italiana” che troviamo sia nella Tavola ritonda sia nel cantare. Quanto a Francesco da Buti e al Landino, sarebbero piuttosto affini (ma con qualche differenza di costruzione) al racconto castigliano, cioè alla sua fonte italiana. La brevità del resoconto fornito dal testo francese duecentesco potrebbe essere all’origine di questa diffrazione di versioni, per le quali non è comunque da escludere, come si diceva, la poligenesi. A titolo di esempio, in un codice del Tristan di area italiana nord-occidentale della fine del Duecento (BnF, Fr. 760) si trova il sintetico testo vulgato, senza nessuna spiegazione ulteriore, ed è invece la miniatura (c. 121r) a incaricarsi dei dettagli taciuti: Marco non scaglia la lancia, ma la fa passare per una finestra (non da una porta né da una stanza sopraelevata) per colpire Tristano alle spalle. Prima di passare ad altro, converrà dare conto di una chiosa fantasma penetrata nella discussione sui commenti relativi a Tristano: Giuseppe Porta rileva che Guido da Pisa «fait quelque concession à la popularité du roman de la Table Ronde, tout en qualifiant pudiquement Tristan de “philosophe”, ce qui le disculpe de toute passion illicite». Questa interpretazione, però, discende da un equivoco: nell’edizione del commento non si legge, come sostiene Porta, che Tristano è «mirabiliter philosophus»16, ma «mirabiliter filocaptus», cioè ‘mirabilmente innamorato’, o ‘amante mirabile’. La passione è salva, nessuna filosofia può davvero scagionare Tristano, il cui peccato – che vale al cavaliere l’inferno dantesco – era ben presente alla tradizione francese, dove Tristano, al pari di Lancillotto, non arriverà mai a contemplare i segreti del Graal. Media, ed. J. Cañas Murillo, F. J. Grande Quejigo, J. Roso Díaz, Cáceres, Universidad de Extremadura, 2009, pp. 499-514. 16 Così in Porta, Tristan et les premiers commentateurs, cit., p. 425, che afferma di citare il testo da Guido da Pisa’s Expositiones et Glose super Comediam Dantis, ed. by V. Cioffari, Albany, University of New York Press, 1974, p. 112 (corsivi di chi scrive). La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 95 2. Il bacio di Ginevra Come è stato sottolineato da diversi interventi critici, il principale elemento che ci consente di valutare la relazione tra Dante, i commenti antichi e le loro fonti è la modalità di presentazione del bacio tra Ginevra e Lancillotto. Nel romanzo francese è Ginevra a baciare per prima. Anche nei manoscritti di confezione italiana che riportano l’episodio è sempre la regina a prendere l’iniziativa, mentre Lancillotto si limita a ricambiare il bacio17. Nella tradizione del Lancelot in prosa esiste però una variante relativa alla Dama di Malohaut, che spia la scena di lontano: secondo la maggior parte dei testimoni, osservando Ginevra e Lancillotto, la dama «sot que ele lo baisoit»; secondo altri (tra cui alcuni codici italiani), «sot bien que il la beisoit». Tornando su questo passaggio, Brunetti ha proposto una rilettura dei dati18: in entrambe le varianti, Lancillotto è baciato da Ginevra e ricambia il bacio. Stando alla “variante italiana”, la Dama di Malohaut – segretamente innamorata del cavaliere, già suo prigioniero – si rende conto che anche lui, dapprima timido ed esitante, sta baciando con intenzione. È in questo modo che Dante, con il suo stile vertiginosamente allusivo, avrebbe inteso il testo francese, letto forse in una copia italiana portatrice della variante citata. Veniamo dunque ai commenti medievali. Alcuni (Ottimo, Amico dell’Ottimo, Andrea Lancia, Benvenuto da Imola)19 ripristinano l’ordine del bacio in modo corrispondente alla fonte francese. L’Amico dell’Ottimo sottolinea che la scena del bacio, come effettivamente accade nel Lancelot, avviene in un prato. Il Lancia, che pure ha legami strettissimi con questo commento, innova, specificando che il bacio si verifica in un padiglione dell’accampamento militare. Non mi risulta che sia mai stato notato un dettaglio onomastico che caratterizza l’Ottimo: il mediatore del bacio è 17 Per una sintesi delle varie interpretazioni mi permetto di rinviare a C. Lagomarsini, Il bacio di Ginevra, in Briciole di discorsi amorosi. Scritti per Sara Natale & Simone Albonico offerti dagli amici fiorentini, Pisa, Il Campano, 2018, pp. 143-146. 18 Cfr. Brunetti, «Franceschi e provenzali», cit., p. 40. 19 Cfr. Ottimo commento, cit., p. 141; Amico dell’Ottimo, Chiose sopra la Comedia, a cura di C. Perna, Roma, Salerno, 2018, p. 58; Andrea Lancia, Chiose alla Commedia, a cura di L. Azzetta, 2 voll., Roma, Salerno, 2012, I, p. 182; Benevenuti de Rambaldis de Imola Comentum super Dantis Aldigherij Comoediam, ed. G. W. Vernon, J. Ph. Lacaita, Firenze, Barbèra, 1887, pp. 205-206. 96 Claudio Lagomarsini chiamato «Galeotto lo Bruno», con un appellativo che rimanda a un preciso personaggio, Galehaut le Brun, che non compare nel Lancelot bensì nel ciclo di Guiron le Courtois. Figlio di Hector, Galehaut le Brun – che a parte il prénom non ha niente a che vedere con l’omonimo principe delle Lointanes Isles – è un cavaliere della generazione di re Uterpendragon ed è responsabile dell’iniziazione cavalleresca di Guiron. Ma torniamo al bacio. Altri commentatori non hanno la stessa cura filologica dei colleghi, e le succinte formulazioni con cui presentano la scena fanno pensare a una semplice parafrasi di Dante. Tra questo tipo di chiose spicca quella di Iacomo della Lana, che calca la mano sull’iniziativa virile di Lancillotto: non solo il cavaliere timido del testo francese bacia la regina, ma le getta un braccio al collo20. Non sembrano conoscere il testo del Lancelot né corrispondono a fonti note due versioni del tutto disallineate rispetto alle precedenti: nelle Chiose Selmi si legge che «si levò da collo il prenze il suo mantello, e li coprì amendue, e prese il capo de la reina e quello di Lancelotto e feceli insieme basciare»21. Il dettaglio del mantello che copre entrambi gli amanti fa forse riferimento alla leggendaria mole di Galeotto (sottolineata anche da Boccaccio), che nella tradizione francese è detto figlio di una gigantessa. Nelle Chiose ambrosiane, il contesto del bacio diventa un torneo22, forse per una confusione con la guerra che, nel romanzo, oppone Galehaut e Artù. Resta infine il caso isolato delle Chiose Seriacopi, che si concludono proprio con il commento dei versi su Lancillotto23. In realtà non si evoca la scena del bacio, ma si riassume un considerevole tratto del romanzo francese, dalla morte del padre di Lancillotto, Ban de Benoïc (cap. IIIa)24, fino all’imprigionamento dell’eroe presso Malohaut (cap. XLVIIIa). Si allude poi alla sfida lanciata da Galehaut ad Artù (che nel testo francese è al cap. XLVIa, 20 Cfr. Iacomo della Lana, Commento alla Commedia, a cura di M. Volpi, Roma, Salerno, 2009, pp. 218-219. 21 Chiose anonime alla prima cantica della Divina Commedia di un contemporaneo del poeta, a cura di F. Selmi, Torino, Stamperia Reale, 1865, p. 35. 22 Le chiose ambroisiane alla Commedia, a cura di L. C. Rossi, Pisa, Scuola Normale Superiore di Pisa, 1990. 23 Cfr. M. Seriacopi, Un commento inedito di fine Trecento ai canti 2-5 dell’Inferno, in «Dante Studies», 117 (1999), pp. 199-244, alle pp. 242-243. 24 Qui e oltre si fa riferimento alla numerazione di Lancelot, roman en prose du XIIIe siècle, ed. A. Micha, 9 voll., Paris-Genève, Droz, 1978-1983. La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 97 prima quindi dell’imprigionamento) per passare poi alla guerra (LIIa), e al ferimento di Gauvain, che in francese è sì gravemente colpito (LIIa § 20) ma non «a morte» come sostiene l’anonimo commentatore. La chiosariassunto si conclude con il passaggio in cui «Lancelotto stava cosìe armato a llato alla bertesca dove era la reina» (LIIa § 25), ben prima del bacio. Posta la dipendenza diretta di questo commentatore dal testo francese, sono interessanti alcuni dettagli innovativi: si legge per esempio che Lancillotto sarebbe stato usurpato del suo regno «per uno suo zio», ma nel francese l’usurpatore è Claudas de la Terre Deserte, che non ha con Lancillotto alcuna relazione di parentela. Diversamente da quanto riferisce la chiosa, a Malohaut Lancillotto non è fatto prigioniero dopo una giostra con i tre fratelli della dama, bensì in seguito a un agguato teso da quaranta soldati (cap. XLVIIIa § 6). Galehaut è detto «figliuolo d’uno giogante», ma in francese è sua madre a essere una gigantessa, mentre il padre è qualificato solo come «povre prince» (V § 6), da cui il titolo di principe/prenze che alcuni commentatori antichi (tra cui Boccaccio) attribuiscono appunto a Galehaut. Ancora: quando Galehaut minaccia Artù di muovergli guerra, il chiosatore dice che «aveva per sua prodeza conquistato ventinove reami, e diceva che mmai non si incoronerebbe s’egli non ne avesse trenta». Nel Lancelot si legge che Galehaut «a conquis .XXX. reaumes, mais il ne velt estre coronés devant ce qu’il ait conquis le roiaume de Logres»25. È quindi interessante notare come in Rustichello da Pisa – la cui compilazione accoglie del Lancelot solo l’episodio della guerra – si trovi una corrispondenza proprio con la versione delle Chiose Seriacopi: «Voir fu, ensi con vos avez hoï, que li haut prince Galeout conquist .XXIX. roiames […]. Or avint qu’il dit qu’il ne voloit porter corone jusque atant qu’il aüsse aconpli li trentismes rois et roiames. Et dit qu’il veaut que li trentismes soit li roi Artus»26. Se non dimostra una dipendenza del chiosatore da Rustichello stesso, questa convergenza potrebbe suggerire una mediazione italiana del racconto, su cui resta da fare luce. Oltre alla citata ed. Micha, cap. XLVIa § 1 (e nota 1a), cfr. Lancelot do Lac. The Non-Cyclic Old French Prose Romance, ed. E. Kennedy, 2 voll., Oxford, Clarendon, 1980, I, pp. 263-264. 26 Il romanzo arturiano, cit., § 163. 25 98 Claudio Lagomarsini 3. La tosse della Dama di Malohaut I commenti all’episodio del bacio vanno letti insieme a quelli sulla tosse della Dama di Malohaut, che interessa lo stesso segmento del romanzo francese. Iacomo della Lana conferma la sua lettura precedente, aggiungendo alcuni dettagli: è sempre Lancillotto a prendere l’iniziativa gettando «lo braço a collo» di Ginevra27, ma il bacio – precisa questa ulteriore chiosa – si sarebbe verificato «in una sala» (non all’aperto come nel romanzo), e la tosse della Dama di Malohaut viene interpretata dal chiosatore come un incoraggiamento affinché il cavaliere vinca la timidezza che lo paralizza. Si conferma, insomma, che il Lana non ha contezza del romanzo francese, dove la dama, gelosa di Lancillotto, tossisce ben prima del bacio e solo per avvertire il cavaliere amato (che parla fitto con Ginevra un poco più lontano) della propria presenza. La chiosa del Lana confluirà poi senza modifiche nel commento dell’Anonimo fiorentino28. L’interpretazione di Giovanni da Serravalle29, che sembra partire da una base simile a quelle appena presentate, si degrada ulteriormente fino a privare di senso la similitudine dantesca che accosta Beatrice alla Dama di Malohaut: in Serravalle, infatti, non è più la dama ma direttamente Galehaut a tossire perché l’amico prenda il coraggio di baciare Ginevra. Tra i commenti che sostengono l’interpretazione della tosse come incoraggiamento, Francesco da Buti confonde platealmente Lancelot e Tristan, attribuendo alla Dama di Malohaut (anonima in francese) il nome «Branguina» che richiama quello di Brangien, la nutrice di Isotta30. Un cortocircuito sulle ragioni della tosse – letta ora come un incoraggiamento, ora come il segno che la Dama di Malohaut si è accorta del bacio – interessa pressoché tutti i commentatori. Per esempio, secondo l’Ottimo (seguito dal Lancia), la dama «tossío in segno che aveduta se n’era del fallo della reina al suo signore re»31; l’equivoco continua così fino a Iacomo della Lana, Commento, cit., p. 2172. Cfr. Commento d’Anonimo Fiorentino, cit., III, p. 306. 29 Cfr. Fratris Johannis de Serravalle Translatio et Comentum totius libri Dantis Aldigherii, ed. M. da Civezza, T. Domenichelli, Prato, Giachetti, 1891. 30 Come già notato da Franceschini, «Mediante Beatrice», cit., pp. 74 sgg. 31 Cfr. Ottimo commento alla Commedia, III. Paradiso, a cura di V. Celotto, Roma, Salerno, 2018, p. 1612. 27 28 La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 99 Cristoforo Landino, secondo il quale alla vista del bacio la dama avrebbe tossito «a dimostrare che se ne fussi accorta, chome prolixamente è scripto nel favoloso et non molto elegante El libro della tavola ritonda»32. Le Chiose Vernon, che pure contengono una vistosa alterazione (la Dama di Malohaut è infatti confusa con «la Donna del Lagho»), sono le uniche a fornire un’interpretazione del passo che grosso modo collima con il contesto della fonte francese33: «Essendo insieme Lancillotto e messer Ghaleotto e lla reina Ginevra e lla donna del lagho, la quale volea bene a messer Ghaleotto, e ponendo ella mente alle mani alla reina Ginevra che ggià s’avedea ch’ella volea bene a Lancilotto, el primo atto ch’ellino s’avidono di lei fu un tossire sotto bocie contro a messer Ghaleotto o vero Lancilotto». Con quest’ultima parziale eccezione, nessuno dei commentatori dimostra una conoscenza precisa del romanzo francese. In effetti, diversamente dagli altri luoghi arturiani di Dante, sarebbe stato necessario in questo caso leggere attentamente molte pagine della fonte. Per comprendere il reale intento della Dama di Malohaut occorreva cioè mettere a fuoco le relazioni che i personaggi allacciano nel corso di tutto il racconto. Alla conoscenza puntuale (ma anche estensiva) dei romanzi francesi che Dante dimostra di possedere non ha fatto seguito, insomma, una lettura altrettanto scrupolosa da parte dei suoi commentatori. 4. Mordred Il principale elemento che ha dato difficoltà ai commentatori è la relazione di parentela tra Mordred e Artù. Si tratta in effetti di un ganglio narrativo molto complesso, rispetto al quale la tradizione francese offriva risposte che potevano disorientare i lettori: nel Merlin e nella prima parte del Lancelot (fino al cap. XCVI dell’ed. Micha), Mordred è presentato sempre come il figlio legittimo di re Lot d’Orcanie. Nella Suite Merlin e nella seconda parte del Lancelot si precisa invece che Mordred è nato dal rapporto incestuoso di Artù con una sua sorella, della quale non è fatto il nome. Nella Mort Artu, Mordred fa inviare una falsa lettera in cui Artù smentisce la notizia (eviden32 33 Cristoforo Landino, Comento, cit., IV, p. 1790. Chiose sopra Dante, a cura di J. W. Vernon, Firenze, Piatti, 1846, p. 600. 100 Claudio Lagomarsini temente già diffusa) dell’incesto, e solo più tardi prende coscienza di essere il padre del traditore34. Dalla sua posizione di prequel del ciclo, infine, l’Estoire del Saint Graal spiega che Mordred, creduto da molti il figlio di re Lot, era invece il figlio che Artù – ben prima di sposare Ginevra – generò con una sua sorella35: questo resoconto sembra creato ex post proprio per spiegare l’apparente contraddizione tra le due parti del Lancelot e poi la tardiva presa di coscienza di Artù nel romanzo conclusivo del ciclo. Nei commenti, Mordred è detto nipote di Artù (senza allusioni a problemi genealogici né tantomeno all’incesto) da Iacopo Alighieri, Guido da Pisa, nella versione breve delle Chiose Selmi, nelle Chiose ambrosiane e nell’Anonimo fiorentino. Sarebbe invece il figlio di Artù secondo quasi tutti gli altri (Bambaglioli, Ottimo, Amico dell’Ottimo, Pietro Alighieri, Chiose cassinesi, Lancia, Benvenuto da Imola, Boccaccio, Francesco da Buti, ecc.). Solo una minoranza di commentatori allude al problema genealogico: Iacomo della Lana, che pure dimostra di avere una conoscenza approssimativa della materia arturiana, dice «figlolo over nevodo»36. Nella versione lunga delle Chiose Selmi si legge che Mordred fu «nipote», ma «è chi dice che esso Mortaret fu anco suo figliuolo»: del resto il compilatore di questa versione conosce a fondo la Mort Artu, di cui offre un lungo e dettagliato riassunto37. Nelle Chiose filippine, sullo strato più antico («nepos»), il chiosatore B – che anche altrove sembra tenere presente il Serravalle – aggiunge «imo filius»38. Sulla questione della genealogia l’Anonimo fiorentino – nel quale si trova un riassunto esteso della battaglia di Salisbury narrata nella Mort Artu – è il più preciso e registra che Mordred «era nipote del re Artù, figliuolo della sirocchia ch’era reina d’Orgama [corr.: Organia]»39. Nella chiosa su Mordred un problema particolare investe Iacomo della Lana, che chiama in causa una fonte detta «Contes de la Tabola Retonda»40. 34 Cfr. La Mort du roi Arthur, ed. D. Hult, Paris, Librairie générale française, 2009, §§ 144 e 185. 35 L’Estoire del Saint Graal, ed. J.-P. Ponceau, 2 voll., Paris, Champion, 1997, § 863. 36 Iacomo della Lana, Commento, cit., pp. 878-879. 37 Su cui vd. spec. Delcorno Branca, Prospettive, cit. 38 Cfr. Chiose Filippine: ms. CF 2 16 della Bibl. oratoriana dei Girolamini di Napoli, a cura di A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2002, p. 564. 39 Commento d’Anonimo Fiorentino, cit., I, p. 674. 40 Così nella redazione bolognese trecentesca, quella pisana quattrocentesca usa il plurale: «nelli Contes della Taula Ritonda»: cfr. Iacomo della Lana, Commento, cit., pp. 878-879. La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 101 Nella medesima chiosa, entrambe le redazioni in cui ci è giunto il commento riportano che «infine da cors a cors lo re Artuxo lo ferrì d’una lança». A fronte dell’«impiego consapevole di una locuzione in francese»41, vale solo la pena di osservare che nella Mort Artu non si trova un’espressione corrispondente: nel lungo duello di Artù e Mordred, che comporta due fasi distinte42, non si esplicita mai la modalità “corpo a corpo” del combattimento. Considerate altre indecisioni del Lana nei passaggi di ascendenza arturiana, sembra insomma da escludere una frequentazione dei testi francesi43. Quello di cors a cors sarebbe piuttosto un gallicismo riflesso, attestante la generica consapevolezza di una provenienza francese della materia. 5. Le competenze arturiane degli antichi commentatori: valutazioni conclusive Dopo aver passato in rassegna le chiose relative a singoli passaggi della Commedia si può tentare, in conclusione, una valutazione comparativa delle competenze arturiane esibite dagli antichi commentatori, a cominciare da Iacopo Alighieri, che molto probabilmente non torna alle fonti francesi e, se ha avuto una conoscenza della materia arturiana mediata da testi italiani (evoca tra l’altro il «leggere della Tavola Rotonda»), ne ha conservato ricordi nebulosi: lo dimostra in particolare il fatto che il padre di Tristano sia chiamato «re Meliadusso di Logres»44, con una vistosa confusione tra Meliadus (re di Leonois) e i re di Logres, Uterpendragon e Artù. Anche a proposito di Iacomo della Lana, come annota opportunamente Volpi, «la brevità e la genericità dei riferimenti alle vicende del ciclo bretone all’interno del Commento, che si risolvono per lo più in parafrasi dei versi danteschi, non permettono di ricostruire la conoscenza di questa cultura romanzesca»45. In effetti, dove il Lana non è generico, sbaglia o Come annota Volpi in Iacomo della Lana, Commento, cit., p. 46. Cfr. La Mort du roi Arthur, cit., cap. XXII, pp. 852-854 e 860-862. 43 Diversamente da Franceschini («Mediante Beatrice», cit., p. 78) che ipotizza «una frequentazione diretta di testi oitanici». 44 Iacopo Alighieri, Chiose all’Inferno, a cura di S. Bellomo, Padova, Antenore, 1990, p. 109. 45 Cfr. l’introduzione a Iacomo della Lana, Commento, cit., p. 39. 41 42 102 Claudio Lagomarsini innova: aggiunge per esempio il dettaglio di Lancillotto che, baciandola, getta il braccio al collo di Ginevra, ed è il capofila nell’interpretazione erronea relativa alla tosse della Dama di Malohaut, letta come segno di incoraggiamento. Altri commentatori che lavorano entro la prima metà del Trecento non dimostrano una conoscenza diretta del francese: mentre nelle Chiose Palatine si riprende addirittura il Chronicon di Martino Polono, Guido da Pisa insiste sulla conoscenza diffusa («omnibus quasi nota») delle vicende di Tristano e offre commenti molto succinti negli altri passaggi di interesse arturiano. L’Ottimo (1333-1334) segna invece un momento di svolta, essendo il primo commento a diffondersi in spiegazioni articolate che, da una parte, dimostrano un vivo interesse per la materia bretone, dall’altra tradiscono però la mediazione di fonti alternative ai romanzi francesi in prosa. Lo si è visto ad esempio nel dettaglio del dardo avvelenato (estraneo alla versione vulgata del Tristan), come anche nella confusione tra Galehaut des Lointanes Isles e Galehaut le Brun o, infine, nell’interpretazione relativa alla tosse della Dama di Malohaut. Le Chiose Selmi (1337) costituiscono un episodio speciale della ricezione: il racconto del bacio è alterato con l’invenzione di Galehaut che unisce i volti di Ginevra e Lancillotto sotto il proprio mantello. L’estensore della versione lunga – che qui non si dà cura di emendare o precisare – interviene attivamente nella chiosa su Mordred, dove offre una ricapitolazione dettagliata e puntualissima della Mort Artu, la cui conoscenza diretta può essere confermata anche dalla presenza del gallicismo oste («si leverebbe da oste», «con tutta la sua oste») per ost ‘esercito’. Quanto a Boccaccio, che di certo è stato un lettore appassionato di racconti arturiani, non si può dire che sia stato anche un lettore attento (o che lo sia stato al pari di Dante): lo evidenziano diverse innovazioni, che in qualche caso tradiscono la ricezione passiva di chiose altrui, per es. a proposito del dardo avvelenato, un dettaglio forse mutuato dall’Ottimo. Nella seconda metà del Trecento, a complicare le traiettorie ricezionali, intervengono i cantari: la prima traccia di questa presenza si potrebbe indicare in Benvenuto da Imola (1375-1380) e nella sua allusione a narrazioni popolari di tipo orale. Poco più tardi Francesco da Buti – che dimostra di avere una conoscenza molto approssimativa della tradizione romanzesca – evoca esplicitamente i cantari a proposito dell’episodio del bacio. La materia arturiana nei primi commentatori di Dante: una ricognizione 103 Al volgere del nuovo secolo, mentre i romanzi arturiani continuano a essere copiati e letti nelle corti signorili italiane, l’interesse per la materia bretone è vivo, ma filtrato presso i commentatori da una pluralità di fonti diverse. L’Anonimo fiorentino dedica chiose ampie ai passaggi arturiani della Commedia, anche se non sembra avere una conoscenza di prima mano dei testi francesi. A questa altezza cronologica, ormai, è molto difficile distinguere quali informazioni derivino dal francese, quali da compilazioni o volgarizzamenti italiani, quali dalla tradizione canterina e quali, soprattutto, da chiose precedenti. Nel pieno Rinascimento Cristoforo Landino esibisce un atteggiamento di sufficienza davanti alla materia arturiana: in coda alla chiosa su Tristano (che come abbiamo visto contiene dettagli non corrispondenti al francese), le avventure dei cavalieri erranti sono definite «più fabulose che vere». A prendere ulteriore distanza dall’entusiasmo dimostrato da Dante, Landino cita infine il celebre, sprezzante verso dei Trionfi: «Ecco que’ che le carte empion di sogni». Lucilla Spetia Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto: appunti per la biblioteca di Dante 1. Concludendo il suo recente contributo sul Convivio e il De vulgari eloquentia, Tavoni elencava cosa ancora restasse da fare, e due punti spiccano tra gli altri, ossia «procedere a un confronto sistematico tra le fonti dei due trattati nel loro dispiegarsi diacronico sotto forma di citazioni e riferimenti puntuali»; quindi attuare un confronto tra la cosiddetta ‘biblioteca di Dante’ e quelle storiche che egli può aver conosciuto o frequentato1. Ora, la ‘biblioteca di Dante’ relativamente alle fonti della letteratura oitanica è quella che ha goduto di minor attenzione da parte della critica, in particolare per ciò che concerne la tradizione lirica2, sovrastata invece dalla conoscenza indubbia della produzione trobadorica di cui c’è ricca testimonianza nelle opere dantesche. In tempi recenti tuttavia sono emersi importanti elementi di riflessione che indirizzano verso una conoscenza reale, ma poco esibita, di esempi della lirica oitanica da parte di Dante, in particolare di quel Thibaut de Champagne che rappresenta al tempo stesso l’ultimo grande esponente della tradizione lirica gallo-romanza e un grandissimo innovatore, avendo 1 M. Tavoni, Convivio e De vulgari eloquentia. Dante esule, filosofo laico e teorico del volgare, in «Nuova Rivista di Letteratura Italiana», XVII, 1 (2014), pp. 11-54, spec. p. 53 da cui è tratta la citazione. 2 L. Formisano, Ancora su Dante e Rutebeuf: a proposito di Inf., XXI-XXII, in «Per beneficio e concordia di studio». Studi danteschi offerti a Enrico Malato per i suoi ottant’anni, a cura di A. Mazzucchi, Cittadella (PD), Bertoncella Artigrafiche, 2015, pp. 427-437, osserva in part. a p. 437 che manca un quadro complessivo di riferimento per la cultura francese di Dante. 106 Lucilla Spetia lui stesso concepito un ‘canzoniere d’autore’ che sottintende una linea diegetica, ciò che sembra aver ispirato almeno Guittone3. Già in un contributo ormai datato, in cui fornivo i primi risultati della mia indagine sul canzoniere francese di Zagabria e il codice che lo accoglie, conservato presso la Nacionalna i Sveučilišna Knjižnica di Zagabria con la segnatura Hrvatski Državni Arhiv, Metropolitana - knjižnica Zagrebačke Nadbiskupije MR 924, avevo osservato che Dante era venuto a contatto in Veneto, ove si colloca la composizione del codice stesso, almeno con un ristretto corpus di liriche di Thibaut. Quella mia osservazione, sfuggita a tutti, trova ora conferma negli studi più recenti, per cui si può spingere un po’ più in avanti l’indagine e giungere a proporre i luoghi e il momento in cui Dante abbia conosciuto la lirica oitanica, e in tal modo contribuire fattivamente – si spera – ad arricchire il dossier sulla ‘biblioteca’ di Dante, dossier che rimane a fortiori incompleto, data la vastità del sapere dantesco e la sua capacità di ruminatio delle fonti5, e quindi di un loro recupero inatteso nella scrittura. 2. Com’è noto, Dante fa riferimento alla lirica oitanica solo nel De vulgari eloquentia in tre occasioni diverse e tutte assai rilevanti6. Nella prima (I ix 2) il poeta, mentre sta parlando dell’ydioma tripharium, si sofferma sul fatto che i doctores, i maestri delle tre lingue concordano in molti vocaboli, in particolare nell’uso della parola amore, a riprova Per la questione e la bibliografia pregressa, cfr. L. Spetia, Il canzoniere di Thibaut de Champagne: un’ipotesi filologica o una probabilità storica?, in La lirica del / nel Medioevo: esperienze di filologi a confronto. Atti del V seminario internazionale di studio (L’Aquila, 2829 novembre 2018), a cura di L. Spetia, M. León Gómez, T. Nocita, in «Spolia. Journal of Medieval Studies», n.s. 2018, pp. 193-216. 4 L. Spetia, Il ms. MR 92 della Biblioteca Metropolitana di Zagabria visto da vicino, in La filologia romanza e i codici. Atti del Convegno (Messina, Università degli studi, Facoltà di Lettere e Filosofia, 19-22 dicembre 1991), a cura di S. Guida, F. Latella, 2 voll., Messina, Sicania, 1993, I, pp. 235-272, spec. p. 272. 5 L’espressione quanto mai appropriata è di R. Viel, Fonti galloromanze del Dante minore. Nuove prospettive, in Sulle tracce del Dante minore. Prospettive di ricerca per lo studio delle fonti dantesche, a cura di T. Persico, R. Viel, Bergamo, Sestante, 2017, pp. 117-139, spec. p. 137. 6 Per l’edizione, cfr. Dante Alighieri, Le Opere, III. De vulgari eloquentia, a cura di E. Fenzi, con la collaborazione di L. Formisano e F. Montuori, Roma, Salerno, 2012. 3 Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 107 della discendenza dei tre ydiomata da un’unica matrice, quel protoromanzo lucidamente individuato da Dante, sebbene erroneamente non identificato con il latino dell’uso. Per corroborare tale affermazione egli riporta tre esempi lirici, ossia l’incipit di Si.m sentis fezelz amics, / per ver encusera amor di Giraut de Bornelh, quindi De fin amor si vient sen et bonté del Rex Navarre, infine i vv. 3-4 di Al cor gentile reimpara sempre amore di messer Guido Guinizzelli, ossia «Ne fe’ amor prima che gentil core, / né gentil cor prima che amor, natura». Lo stesso incipit, che appartiene a una delle più belle e famose liriche di Thibaut de Champagne «per la propensione per le immagini rare e per uno stile improntato ad un austero decoro»7, ritorna in II v 4 a proposito della metrica, quando Dante sta parlando dell’endecasillabo. L’identificazione tebaldiana in termini trinitari dell’amore con il valore e la cortesia, che per Dante però diviene saggezza – come vedremo – e a cui nei versi successivi farà eco un’altra triade costituita da amore, paura e ardimento (v. 17), si presta a dare conto insieme ad altri esempi tratti da trovatori e poeti volgari, tra cui lui stesso, dello splendore del metro principe della lirica italiana per la sua durata, ciò che gli consente di contenere concetti, costrutti e vocaboli: la sua bellezza quindi è moltiplicata per il fatto di accogliere cose di valore. Mi pare che nessuno fino ad ora abbia osservato che proprio tale considerazione sull’endecasillabo sia particolarmente calzante proprio per tre esempi su tutti, ossia quello di Thibaut per la triade appena ricordata; quello di Guido Guinizzelli Al cor gentile reimpara sempre amore, in cui qualche commentatore ha colto la connessione con l’incipit tebaldiano8; infine quello di Dante stesso, Amor, che movi tua virtù dal cielo, ove entra in gioco un’altra triade, amore, valore e ispirazione celeste. E tale osservazione non può che riconoscere il ruolo preminente assegnato da Dante a quel poeta d’Oltralpe che fu anche re. L. Formisano, Le rime provenzali e francesi, in ibidem, pp. 265-338, a p. 335. Cfr. Viel, Fonti, cit., p. 124. In realtà l’incipit che più merita di essere accostato alla canzone guinizzelliana e di riflesso ad Amore e ’l cor gentil sono una cosa dello stesso Dante (che ne è un esplicito omaggio), è quello che segue in II vi 6, e che però non appartiene a Thibaut, per cui cfr. ibidem; e M. Tavoni, De vulgari eloquentia, in Dante Alighieri, Opere, dir. M. Santagata, I. Rime, Vita Nova, De vulgari eloquentia, a cura di C. Giunta, G. Gorni, M. Tavoni, Milano, Mondadori, 2015, pp. 1065-1547, a p. 1218. Tuttavia in assenza di indizi che suggeriscano la probabilità di una conoscenza diretta delle liriche oitaniche da parte dei poeti dello Stilnovo, bisogna limitarsi a parlare di interdiscorsività, piuttosto che di intertestualità. 7 8 108 Lucilla Spetia La terza e ultima citazione è inserita dall’Alighieri in II vi 6 a proposito delle costruzioni sintattico-retoriche, e nell’escludere quella sapida, e quella sapida et venusta, egli riconosce come eccellente quella sapida, venusta et excelsa, propria ai dictatores illustres, di cui fornisce una serie di esempi. Si tratta di versi tratti da canzoni di pregio (illustri secondo la definizione dantesca) formati da questo tipo di costrutto, e se la lista delle citazioni trobadoriche, oltre a comprendere Giraut de Bornelh già più volte ricordato in altri luoghi del trattato, si allarga anche ad altri trovatori come Folquet de Marselha, Arnaut Daniel, Aimeric de Belenoi e Aimeric de Peguilhan, e quella dei poeti volgari prevede i due Guidi, Guinizzelli e Cavalcanti, quindi il Giudice di Messina, l’amico Cino da Pistoia e se stesso; per i poeti oitanici viene ricordato ancora una volta il solo Thibaut de Champagne, peraltro con una lirica, Ire d’amor que en mon cor repaire, che in realtà non gli appartiene e che va piuttosto ascritta al suo confratello, anch’esso originario della Champagne, ma più anziano, ossia Gace Brulé, di cui le Grandes Chroniques de France per il 1236 ricordano il legame con il Rex Navarre, ma tale attestazione non è verificabile9. 3.1. La conoscenza diretta e dichiarata dei poeti oitanici (anzi dovremmo dire di uno solo) da parte di Dante si esaurisce qui, e sembra a prima vista costituire un magro raccolto, che tuttavia se osservato con attenzione può dirci molto, soprattutto se l’indagine si allarga anche ad altri testi danteschi, e si incrocia con essi, a partire dalla Vita Nova per giungere alla Commedia, ma tenendo conto anche delle liriche. Com’è noto, Dante nella Vita Nova, definita già da lui stesso «il libro della memoria», inserisce al paragrafo XXV 3-4 (16, 6 secondo la nuova paragrafatura di Gorni)10 un’importante digressione teorica, originata da un problema di natura retorica sul parlare figurato, ossia la giustificazione della personificazione di Amore in letteratura, ciò che gli consente di 9 Cfr. Les chansons de Thibaut de Champagne Roi de Navarre. Édition critique, éd. A. Wallensköld, Paris, Champion, 1925, pp. XVI-XVII. Si tratta dell’edizione di riferimento per i testi del troviere. 10 Cfr. G. Gorni, Vita Nova, in Dante Alighieri, Opere, dir. M. Santagata, I. Rime, cit., pp. 745-1063. Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 109 allargare il proprio discorso ad una riflessione sulla storia della più recente poesia in volgare. La digressione appare particolarmente importante, come ammesso unanimemente, perché per la prima volta Dante rivendica il riconoscimento della dignità di poeti anche a quelli volgari, e non solo ai latini, per aver utilizzato la lingua materna, e tra di loro egli ricorda quanti hanno scritto «in lingua d’oco» e «in lingua di sí». Attraverso tale affermazione e quanto segue sui poeti cosiddetti ‘grossi’ e colui che per primo scrisse in volgare per far intendere le sue parole a donna incapace di conoscere e comprendere la lingua dei colti – ossia il latino –, Dante mira a promuovere se stesso e i suoi amici dello Stilnovo, segnando uno stacco rispetto ai poeti della generazione precedente ma anche rispetto al mai amato Guittone d’Arezzo e a Guido Orlandi, in polemica con Guido Cavalcanti, cui Dante si associa in cerca di una interessata approvazione, e d’altra parte ricordando in maniera indiretta quel Giacomo da Lentini autore di Madonna dir vo voglio, modellata sul testo folchettiano A vos, midontç voille retrair’en cantan11. Il fatto che, in un luogo preposto a ricordare proprio i poeti che hanno composto nelle lingue volgari, Dante si limiti a ricordare solo i trovatori e gli italiani, omettendo del tutto l’esperienza lirica oitanica – cui invece mostra di essere interessato e di cui risulta in qualche modo informato nel De vulgari eloquentia –, induce a credere che all’altezza cronologica della scrittura del ‘libro della memoria’ sullo scorcio del XIII secolo, Dante non avesse avuto esperienza diretta della lirica d’oïl, pur ammettendo che dovesse essere informato della sua esistenza. Infatti se egli avesse avuto già modo di conoscerla direttamente, ad essa avrebbe fatto riferimento, peraltro in un luogo della Vita Nova – già segnata ancor prima del capitolo XXV da visioni in sogno di Amore che rivolge a Dante la parola – dove egli parla della personificazione di Amore, tratto significativo della tradizione lirica francese, e in particolare fatto proprio da quel Thibaut che in due occasioni alterca con il dio Amore, ossia nel débat L’autre nuit en mon dormant (RS 339) trasmesso da diversi canzonieri (K M N O R S T V X Z), e nel dialogo – definito estrainge tenson dallo stesso Re di Navarra – Kant Amors vit ke je li aloignoie (RS 1684) unicum di C, che sebbene posto dall’editore Al riguardo cfr. D. Pirovano, Vita Nuova, in Dante Alighieri, Le Opere, I. Vita Nuova-Le Rime della Vita Nuova e altre Rime del tempo della Vita Nuova, a cura di D. Pirovano, M. Grimaldi, Roma, Salerno, 2015, pp. 1-289, a p. 27. 11 110 Lucilla Spetia Wallensköld tra le composizioni dubbie, va con ogni probabilità ascritto al grande troviere champenois12. 3.2. Anche i passi delle rime che potrebbero essere debitori alla tradizione oitanica secondo quanto indicato da Giunta, sembrano rinviare a fenomeni di interdiscorsività, piuttosto che di precisa intertestualità13; e d’altra parte non si hanno al momento indicazioni storicamente accertate di manufatti contenenti lirica oitanica pervenuti o allestiti a Firenze, sebbene pur si dovesse sapere della sua esistenza, considerando quanto si è detto a proposito di Guittone. Ben diverso invece è il discorso relativo alla canzone trilingue Aï faux ris, finalmente ascritta a Dante e di cui Viel postula due redazioni, in cui si manifesta l’attenzione per la scrittura di lirica in lingua d’oïl, secondo un’ideazione straordinaria: infatti in essa si alternano il francese, il latino e il volgare secondo il sistema di retrogradatio cruciata, giocata quindi non sui rimanti come nella sestina, bensì sugli ydiomata. La canzone va ricondotta cronologicamente ai tempi dell’esilio e in particolare a quelli di elaborazione del De vulgari eloquentia, e pur essendo debitrice del discordo plurilingue di Raimbaut de Vaqueiras, essa deve proprio l’incipit a due liriche di Thibaut – Une chanson ancor vueil (RS 1002) per l’espressione m’ont mi oeil traï, da accostare ai primi due versi della canzone dantesca Aï faux ris, pour quoi traï aves/oculos meos?, e fors’anche un jeu-parti dello stesso Sire, ne me celez mie (RS 1185) per l’espressione un faus ris –, ma è possibile evocare anche echi di Gace Brulé, Pierre de Molins e Chatelain de Couci, non solo per l’incipit. La circolazione di materia oitanica (e andrebbe aggiunto, soprattutto lirica), gli ibridismi danteschi in direzione del franco-veneto riscontrabili nella canzone, infine le luminescenze di pre-umanesimo14, oltre al fatto che proprio all’area padana siano riconducibili ternari o sonetti trilingui (francese, latino e volgare, non più fiorentino ovviamente) d’epo12 Sulla questione ritornerò nello studio in preparazione sul ‘canzoniere d’autore’ di Thibaut. 13 C. Giunta, Rime, in Dante, Opere, dir. M. Santagata, I. Rime, cit., pp. 3-744, spec. pp. 632-640. Un discorso a parte potrebbe meritare la tradizione oitanica delle pastorelle che, come dimostra il Frammento piacentino, possono aver conosciuto anche una trasmissione orale. 14 A tal proposito, cfr. infra. Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 111 ca contemporanea o successiva a Dante, indirizzano verso la Marca come terreno fertile per l’ideazione della canzone (ma non necessariamente di composizione), in quanto area marginale ove lingue diverse venivano in contatto e in cui si produce quel fenomeno particolarissimo noto appunto come franco-veneto15. 3.3. Infine alcune indagini recenti hanno evidenziato come in due canti dell’Inferno (XXII-XXIII), successivi e connessi strettamente tra loro e in continuità narrativa con quello che li precede, dato anche il luogo di ambientazione (tra V e VI bolgia dell’VIII cerchio) e in relazione alla colpa (pratica della baratteria nei primi due, ipocrisia nel terzo), compaia in controluce la figura proprio di Thibaut de Champagne attraverso richiami intertestuali di rilievo16. Infatti nel canto XXII (vv. 48-54) Dante incontra i barattieri, uno dei quali, afferrato dai diavoli ed estratto dalla pece, viene interrogato da Virgilio. A lui risponde il barattiere, dichiarando di essere nato nel regno di Navarra da un ribaldo e poi di essersi messo al servizio del buon re Tebaldo. Secondo gli antichi commentatori (tra tutti il Lana e l’Ottimo) il barattiere sarebbe un certo Ciampolo, adattamento in italiano di Jean-Paul, sebbene non sia possibile sapere da dove essi abbiano tratto questa notizia. Per Picone, dato anche il sapore fabliolistico del canto, il Navarrese sarebbe da identificare con il poeta Rutebeuf, di origine champenoise e al servizio di un altro Thibaut re di Navarra, ossia l’omonimo figlio del Thibaut lirico, il quale ricorre per quest’ultimo proprio all’attributo bon sia nella Voie de Tunes che nella Complainte du roi de Navarre. La coincidenza tra barattiere e ribaldo, termine da associare a quello di ioculator, ossia giullare, consentirebbe di interpretare la baratteria come una sorta di frode culturale compiuta da falsi intellettuali, per cui con questo episodio si manifesterebbe anche la presa di distanza di Dante da una concezione esclusivamente ‘giullaresca’ del letterato, considerato di solito un ruffiano al servizio di 15 Per tutto ciò, R. Viel, «Aï faux ris»: tracce del francese di Dante e del suo pubblico, in «Studj romanzi», n.s. XII (2016), pp. 91-136, anche per la bibliografia pregressa. 16 Così L. Formisano, Inferno XXII, in «Lectura Dantis Bononiensis», IV (2014), pp. 23-45, spec. p. 23, che ha parlato del canto XXII come dell’elemento centrale di un trittico. Lo studioso ha quindi analizzato gli elementi in comune tra i due canti. 112 Lucilla Spetia qualche potente signore in cambio della soddisfazione di beni materiali, e perciò equiparabile a un barattiere17. La presenza di un re Tebaldo in relazione al peccato di baratteria potrebbe non essere irrilevante, quando si pensi che proprio nel 1302 venne pronunciata a Firenze una sentenza contro Dante giudicato in contumacia, in quanto colpevole di baratteria18. D’altra parte che si sia in presenza di luoghi sensibili per la vicenda personale di Dante, è rivelato dal fatto che all’inizio del primo canto della triade, il XXI (vv. 1-3), il poeta faccia riferimento proprio alla Comedia, il genere letterario da cui l’opera prende il titolo. Emerge allora l’opposizione tra l’immagine del Navarrese, falsa e deforme, «che si rivolge al pubblico per beffarlo e manipolarlo, e quella vera e armonica dell’auctor [ossia Dante] che coinvolge il pubblico nel suo stesso processo soteriologico», e si rivela essere quindi il nuovo autentico poeta comico secondo l’uso moderno19. L’ipotesi di Picone è stata però contestata da Formisano che ritiene necessario dover ritornare alla lettera del passo dantesco, per cui la baratteria del Navarrese è la stessa di frate Gomita (vv. 83-87): inoltre, sebbene la Navarra fosse governata dai conti di Champagne, tuttavia non è certo che il condannato fosse un francese e non piuttosto un ispanico; infine non è scontato che il buon re Tebaldo sia proprio Thibaut II, e non invece suo padre, ossia lo chansonnier Thibaut IV come conte di Champagne, e I come re di Navarra dal 123420. Proprio quest’ipotesi potrebbe essere la più plausibile quando si tenga conto delle recentissime acquisizioni di Bisceglia21, che ha osservato, per la M. Picone, Giulleria e poesia nella Commedia: una lettura intertestuale di Inferno XXI-XXII, in «Letture Classensi», XVIII (1989), pp. 11-30; e Id., La carriera del libertino: Dante vs. Rutebeuf (una lettura di Inferno XXII), in «L’Alighieri. Rassegna dantesca», XLIV (2003), pp. 77-94. 18 V. Pacca, Cronologia, in Dante Alighieri, Opere, dir. M. Santagata, I. Rime, cit., pp. CXXXIII-CXLI. 19 Picone, Giulleria, cit., p. 29, da cui è tratta la citazione. 20 Formisano, Inferno XXII, cit., p. 34; e Id., Ancora su Dante, cit., p. 436. 21 M. Bisceglia, Il buon re Tebaldo di Inf. XXII. Un riferimento al Rex Navarre nella Commedia?, in Thibaut de Champagne. Edizione, tradizione e fortuna, a cura di P. Canettieri, L. Spetia, S. M. Visalli, Roma-Bristol, «L’Erma» di Bretschneider, 2020, pp. 205-230. La studiosa non esclude tuttavia una sovrapposizione volontaria dei due Thibaut. 17 Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 113 rarità della rima in -aldo nella Commedia, che i rimanti ribaldo : Tebaldo : caldo presenti nelle terzine dantesche del canto XXII interessate, costituiscono una ripresa dei rimanti chaut : ribaut : Thiebaut attestati in una lirica di Thibaut, l’unica in cui egli si menzioni in fine verso e all’interno di una strofa (quindi non nel congedo o nell’invio), ossia Je me cuidoie partir (RS 1444). L’ordine diverso dei rimanti associato al fatto che in entrambi i luoghi si osserva una contrapposizione (tra quanti tradiscono Amore e l’amante cortese nel testo oitanico, tra il servitore corrotto e il buon sovrano nel passo dell’Inferno), conferma si tratti di una ripresa dal poeta francese, tanto più significativa perché rimotivata nel testo dantesco. Ancor più importante è il fatto che l’incipit di tale poesia trovi un’eco in un sonetto inviato da Dante a Cino da Pistoia, Io mi credea del tutto esser partito / da queste nostre rime, messer Cino, sonetto che risale alla maturità, quella maturità che Dante invoca rimproverando il suo amico di avere un cuore volubile e invitandolo a correggersi alla ricerca di una passione reale. Bisceglia ha altresì osservato che la lirica di Thibaut appena menzionata, Je me cuidoie partir, occupa nella tradizione manoscritta una posizione immediatamente prossima a De bone amour vient seance et bonté, ossia proprio il testo menzionato per due volte nel De vulgari eloquentia. Non solo. Un’altra lirica di Thibaut, Diex est ensi cum li pelicanz (RS 273), viene invocata da Barbieri come fonte del passo di Inferno XXIII, vv. 58-108, quando Dante incontra nella sesta bolgia gli ipocriti, appesantiti dal manto del loro peccato, ossia una cappa di foggia monastica costituita da piombo pesantissimo ricoperto da una patina d’oro. Il nesso tra i due testi consiste nel fatto che nella sua lirica Thibaut attacca i papelart, ossia i falsi devoti e religiosi che hanno sottratto gioia e pace dal mondo e s’en porteront en enfer le grant (o le grief ) fais22. D’altra parte l’appellativo ‘buon re Tebaldo’ del canto precedente potrebbe ricordare la forma allocutiva usata da un anonimo chierico in un jeu parti indirizzato proprio a Thibaut le Chansonnier (RS 1666). 22 L. Barbieri, «Cil porteront en enfer li grief fais». Il re di Navarra e gli ipocriti danteschi, in «Rivista di studi danteschi», XIII (2013), pp. 151-168. Per lo studioso, se il Navarrese fosse identificabile con Rutebeuf, si potrebbe riscontrare un altro elemento di continuità tra i due canti dell’Inferno, in quanto questi fu uno dei più accaniti fustigatori dell’ipocrisia religiosa, di cui si dà conto nel canto XXIII. 114 Lucilla Spetia 4. L’analisi dei luoghi qui esaminati, consente di confermare che Dante ha avuto conoscenza diretta della lirica oitanica a partire dal suo esilio, che gli consente pur nell’amarezza dell’esperienza, di oltrepassare gli angusti confini della civitas amplissima Petramala dietro cui va riconosciuta Firenze (DVE I vi 2), e di allargare i suoi orizzonti di vita personale e culturale. Infatti, mentre va rigettata l’ipotesi di Santangelo che localizzava in Bologna la formazione trobadorica di Dante23, poiché certo dovette svilupparla nella sua Firenze ancor prima dell’esilio – tenuto conto che alla Toscana tra la fine del XIII secolo e gli inizi del XIV riconduce il canzoniere provenzale P24 –, si deve però ammettere che egli può averla ampliata e arricchita tra Bologna e il territorio della Marca che Dante comincia a visitare e frequentare già dalla metà del 1303, quando si reca a Verona presso Bartolomeo della Scala, e tra il 1303 e il 1304 quando ha occasione di visitare Padova, Treviso e fors’anche Venezia25. A Verona e al suo patrimonio librario ci riconducono i prosatori latini menzionati nel De vulgari eloquentia II vi 7-8, ossia Tito Livio, Plinio, Frontino, Paolo Orosio e molti altri (e in parte utilizzati anche in altre opere), quos amica sollicitudo nos visitare invitat, frase dietro la quale si può cogliere il riferimento dantesco a una visita, o forse più d’una, alla Biblioteca Capitolare di Verona che li possedeva; invece il dialogo filosofico ciceroniano De finibus bonorum et malorum, assai raro e che risulta noto solo a Dante e ai preumanisti padovani, sembra indirizzarci verso Padova, ove avevano cominciato a prendere forma le nuove raccolte librarie fra Duecento e Trecento per opera di Lovato Lovati e degli appartenenti alla sua scuola26. Formisano, Le rime provenzali, cit., p. 267. Cfr. G. Noto, «Intavulare». Tavole di canzonieri romanzi. I. Canzonieri provenzali. 4. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana P (plut. 41.42), Modena, Mucchi, 2003, spec. pp. 31-35. 25 G. Indizio, Le tappe venete dell’esilio di Dante, in «Miscellanea Marciana», XIX (2004), pp. 35-64; e poi in Id., Problemi di biografia dantesca, Ravenna, Longo, 2013, pp. 93-114; ma anche Tavoni, Convivio, cit. 26 L. Gargan, Per la biblioteca di Dante, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», CLXXXVI (2009), pp. 161-193, pure per la bibliografia pregressa; poi in Id., Dante, la sua biblioteca e lo studio di Bologna, Roma-Padova, Antenore, 2014, pp. 3-36. 23 24 Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 115 5. Gli studiosi, pur non facendo alcun riferimento all’epoca e alle circostanze dell’approccio di Dante alla lirica oitanica, si sono però chiesti se egli abbia avuto modo di vedere un canzoniere27, e nel caso, incrociando i dati provenienti dalle briciole testuali di cui disponiamo28, appartenente a quale famiglia di quelle riconosciute tradizionalmente nell’ancora insuperato lavoro di Schwan29. Eppure, invece di ipotizzare contatti non verificabili, esiste ancora oggi un testimone che può aiutarci a capire dove e che tipo di raccolta di lirica oitanica può essere venuta per le mani dell’Alighieri. Infatti, il negletto canzoniere francese di Zagabria (sigla Za) ha delle caratteristiche che mostrano significativi punti di contatto con quanto emerso sinora. Innanzitutto si tratta di una piccola silloge composta da appena 25 testi, scritti a mo’ di prosa e privi di notazione musicale – secondo la tradizione italiana dei canzonieri provenzali, molti dei quali esemplati proprio in area veneta – e soprattutto di rubriche attributive. Il numero esiguo dà già l’idea di una scelta operata dal copista o dal suo modello, sulla scorta di fonti un po’ più cospicue, di cui certo egli dispose, come attesta il fatto che proprio una lirica di Thibaut de Champagne, Chanter m’estuet qe ne m’en puis tenir (RS 1476) sia copiata due volte in 9a e in 18a posizione e con differenze significative che rinviano a due fonti diverse (l’una in comune con i mss. K X V O R, l’altra con M T Z S)30, a conferma di una circolazione se non intensa, certo vivace delle liriche di Thibaut in Italia, fors’anche reCosì Formisano, Le rime provenzali, cit., p. 269. Barbieri, «Cil porteront», cit., pp. 157-158 e nota 22 di p. 158, ritiene possibile trattarsi di un canzoniere affine a R, in cui sarebbe confluita una fonte di C di area lorenese. Invece Viel, «Aï faux ris», cit., p. 129 e nota 80, ritiene che Dante abbia avuto per le mani un canzoniere della famiglia K N X V, ove si leggono in successione Thibaut, Gace Brulé e Chatelain de Couci, ma è possibile pure prendere in considerazione C, poiché vi sono stati scambi tra la Lorena e l’Italia del Nord ove sono stati copiati gli unici due testimoni di lirica italiana ancora conservati (quello di Modena e quello di Zagabria). 29 E. Schwan, Die altfranzösischen Liederhandschriften, ihr Verhältniss, ihre Entstehung und ihre Bestimmung, Berlin, Weidmanssche Buchhandlung, 1886. 30 Sulla giustapposizione di due fonti concorda pure S. Resconi, Le doppie trascrizioni nei canzonieri francesi: implicazioni ecdotiche e linguistiche, in Innovazione linguistica e storia della tradizione. Casi di studio romanzi medievali, a cura di S. Resconi, D. Battagliola, S. De Santis, Milano-Udine, Mimesis, 2020, pp. 175-196, spec. p. 182. 27 28 116 Lucilla Spetia latrici di qualche jeu-parti, come suggerirebbe la testimonianza dantesca31. Tale circostanza potrebbe spiegare perché Za, che attesta Diex est ensi cum li pelicanz, sia portatrice della varia lectio grant rispetto a grief, presupposta invece da Barbieri per il passo del canto XXIII dell’Inferno. Il ricorso da parte del copista ad almeno due fonti è certificato dal fatto che è possibile riconoscere all’interno della silloge due gruppi differenti quanto agli autori rappresentati, e soprattutto in relazione alla varia lectio. Il primo è costituito da 13 liriche che vanno dalla II alla XIV, in cui il testimone di Zagabria mostra di accordarsi con la sezione francese del canzoniere trobadorico di Modena (sigla H), talora costituendo recensio a sé stante in opposizione agli altri manoscritti francesi. Con l’eccezione di due testi anonimi, esse sono ascritte ad autori più antichi e classici, collocabili tra la fine del XII secolo e l’inizio di quello successivo, ossia Hugues de Bregi, Gace Brulé, Chatelain de Coucy e Conon de Bethune, cui si aggiunge anche Chardon de Croisilles, la cui fioritura si pone più avanti, nella prima metà del Duecento e che fu in rapporti con Thibaut de Champagne. Nel gruppo si sono incuneati in successione due frammenti che non rivelano alcun legame con H, ossia un’anonima e frammentaria canzone di crociata Hai las je cuidoie avoir laisé en France (RS 227b), solo qui tràdita (si tratta della n. X), e la canzone di Thibaut ripetuta. Quanto al secondo gruppo si riconoscono 9 liriche, di cui 6 ascritte al Re di Navarra e 3 a Gace Brulé, ma esse non sono riportate in successione, bensì mescolate tra di loro (a Thibaut appartengono infatti le composizioni che vanno dalla XVI alla XVIII e ancora la XX e la XXI, mentre sono di Gace la XIX, la XXII e la XXIII, e la XV andrà attribuita a Jehan de Braine), e per le quali Za si accorda per lo più con la famiglia K N P X V e talora O. Si delinea quindi una piccola sezione tebaldiana, in cui sono rifluiti impropriamente testi di altri poeti tra cui Gace, e tale osservazione si accorda pienamente con l’erronea attribuzione del De vulgari eloquentia. Resta per ultimo da notare che per le liriche XXIV e XXV, rispettivamente attribuibili a Pierre de Molins e a Mahieu le Juif, Za mostra di contaminare il suo secondo modello con altra fonte, ossia quella in comune con 31 Per nuove riflessioni sul codice e su Za in particolare (oltre che sull’attribuzione della lirica XV), cfr. L. Spetia, I canzonieri dei trovieri copiati in Italia: nuove considerazioni e proposte interpretative, in I trovieri e il Veneto. Miscellanea di studi, a cura di L. Gatti, F. Sangiovanni, «Quaderni di Francigena», 4 (2022), pp. 31-68. Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 117 H; mentre per la notissima lirica della prigionia di Riccardo che principia il canzoniere, il copista si è avvalso anche di una fonte cui hanno attinto i manoscritti provenzali esemplati in Italia P S e f copiato in Provenza. Ma soprattutto, interessa sottolineare che tra i poeti attestati da Za siano riconoscibili alcuni di quelli postulati dagli studiosi, come possibili o probabili fonti della scrittura dantesca. Infine la localizzazione del manoscritto che contiene il canzoniere, indirizza senza ombra di dubbio verso Padova. Si tratta infatti di un ‘codice di collettore’, nel quale confluirono per volontà di un singolo, amatore e/o committente e presumibilmente in un arco di tempo ristretto, libretti diversi (ossia ‘unità codicologiche’), la cui eterogeneità contenutistica e linguistica (tra francese e latino) ben corrisponde agli interessi culturali dell’ambiente borghese in cui esso è andato costituendosi, poiché a manuali di buon vivere succedono testi di sapore filosofico, ma soprattutto opere di carattere storico, anche in attestazione unica, tra cui un Chronicon paduanum che narra secondo un andamento annalistico gli eventi più importanti della città di Padova tra il 1175 e il 1313, e composto a partire dal 1283. Anche la datazione delle opere, da collocare a partire dalla seconda metà del XIII secolo, conferma che esso venne definendosi a ridosso dell’esilio di Dante. Una spia ulteriore della conoscenza del materiale oitanico in relazione a Thibaut de Champagne proprio a Padova potrebbe essere il fatto che Dante nel De vulgari eloquentia (I xiv 5) per spiegare la sincope dei participi in -tus e dei nomi in -tas in padovano menzioni mercò e bonté, quest’ultima rimante della doppia citazione tebaldiana. D’altra parte nuove considerazioni, che meritano ulteriori approfondimenti, consentono al momento di rivalutare anche la città di Verona, ove venne allestito almeno il modello di uno dei testi trasmessi dal codice di Zagabria (Livre d’Enanchet), come luogo ove potrebbe essere giunto materiale lirico non solo provenzale, ma anche francese. 6. È quindi tra le due città venete, un ambiente ove il francese (anche quello della lirica) godeva di prestigio e suscitava interesse, che Dante ebbe modo di leggere personalmente la lirica d’oïl probabilmente proprio negli anni 1303-1304 mentre stava concependo il De vulgari eloquentia, in un canzoniere (o più d’uno?) dalla limitata estensione che tramandava almeno 118 Lucilla Spetia alcune liriche tebaldiane accanto ad altre di autori più o meno importanti (certo il prolifico Gace e il più parco Pierre de Molins, cui sono ascritte solo tre liriche); e secondo il suo ben collaudato sistema, mentre ne ha citate due (in un caso sia pure erroneamente) in quanto pertinenti al suo discorso sul volgare nel trattato latino, ha poi proceduto a una loro rifunzionalizzazione nelle liriche, dalla canzone trilingue alle Rime, e soprattutto ha trasformato i suoi libri peculiares in personaggi della Commedia32. La fonte cui Dante attinse doveva certo riportare i nomi dei poeti, altrimenti egli non avrebbe potuto ricavare il nome di Rex Navarre per le sue citazioni, e ciò ci conferma che il copista di Za ha operato una scelta precisa nell’eliminare le rubriche attributive, poiché la silloge, posta in fondo a un codice che aveva ben altre pretese come intento costitutivo (tra norme di buon vivere e precetti filosofici, e soprattutto insegnamenti da trarre dalla realtà storica), si presentava come raccoltina d’occasione e forse di ammaestramento, coerentemente con il contenuto dell’intero codice e senza alcuna volontà documentaria, come invece si coglie nella messa a punto dei canzonieri provenzali di tradizione italiana e della stessa sezione francese del Canzoniere di Modena. Piuttosto l’allestitore della piccola silloge ha voluto affiancare a testi di sapore storico come l’iniziale Ja nus homs pris ne dira sa raison di Riccardo Cuor di Leone o la canzone di crociata in attestazione unica, anche liriche d’amore e satiriche, come quella di scherno Par grant franchise me convient chanter di Mahieu le Juif (la XXV), modellata sulla provenzale Dona pros e richa di Albertet de Sisteron, e quelle attribuite a un grande personaggio storico, anch’esso coinvolto con le crociate, ossia Thibaut de Champagne. La scelta dantesca di citare esplicitamente nel De vulgari eloquentia soltanto incipit di liriche di Thibaut de Champagne (o a lui ascritte) potrebbe derivare non solo dalla consonanza che egli pare aver trovato nei versi di quello con la propria visione d’amore, ma forse anche dalla posizione prestigiosa dell’autore, se non addirittura da una conoscenza pregressa, sia pure sommaria, del suo operato poetico, se si può ammettere che Guittone conobbe Thibaut. Se quindi il contatto diretto di Dante con la lirica oitanica va collocato in una fase precisa della sua vicenda storica, allora quando si invoca un influsso della scrittura poetica del Rex Navarre anche su altre rime dantesche, come Lo doloroso amor, bisogna riconoscere con Viel che si tratti piuttosto 32 Così riconosce in modo pertinente Gargan, Per la biblioteca, cit., p. 183. Il canzoniere francese di Zagabria e la tradizione lirica oitanica nel Veneto 119 di un’eco interdiscorsiva, e non di riferimenti intertestuali, e che la ‘linea dolorosa’ che caratterizza la scrittura tebaldiana pur riscontrabile in Dante, principia con Guittone33. Quanto al buon re Tebaldo, se è altamente probabile l’identificazione con il poeta d’Oltralpe, ci si può chiedere con Panicara se nell’appellativo bon usato da un funambolo della parola come il Navarrese, non si debba cogliere ironia34. In effetti all’inizio del canto XXII dell’Inferno si assiste alla parodia del grande trovatore Bertran de Born, il cui sirventese Be·m platz costituisce l’intertesto trobadorico, con una caduta dal piedistallo del sommo poeta della Salus romanza, così esaltato nel De vulgari eloquentia, caduta che si manifesterà appieno nel canto XXVIII35. Ed allora, forse Dante in un luogo – si è detto – fortemente segnato dalla propria vicenda personale oltreché culturale, potrebbe voler prendere le distanze da un poeta come Thibaut, che nel suo canzoniere d’autore ha tracciato (o finge di tracciare) un percorso diegetico di consonanza con l’amore e quindi di distacco da esso in direzione religiosa, per contrapporre a quegli sé stesso, come vero auctor, profondamente e coerentemente convinto della scelta di costruire il poema sacro. Infine la reinterpretazione dantesca dell’incipit autenticamente tebaldiano De bone amor vient seance et bonté in De fin amor si vient sen et bonté può trovare una spiegazione nella volontà di Dante di accostare la lezione originaria alla propria visione giovanile dell’amore. Infatti, mentre la variante fine rispetto a bone dell’edizione Wallensköld appare rilevante per individuare la fonte, essendo attestata nei canzonieri M T R Z a36, la lezione sen non necessariamente va connessa a science del ms. R, non solo perché seance poteva essere interpretata come science per una errata e frettolosa lettura, ma soprattutto perché se così fosse non si comprende la ragione per cui Dante avrebbe modificato science in sen, introducendo peraltro l’avverbio si ai fini del recupero della misura del verso. Infatti l’incipit della lirica di Thibaut è stato più volte accostato ai primi due versi del sonetto Viel, Fonti galloromanze, cit., pp. 126-134. V. Panicara, Canto XXII, in Lecturae Dantis Turicensis, a cura di G. Güntert, M. Picone, 3 voll., Firenze, Franco Cesati, 2000-2002, I. Inferno, 2000, pp. 305-319, spec. p. 314. 35 Picone, La carriera, cit., pp. 83-84. 36 Formisano, Le rime provenzali, cit., p. 335. 33 34 120 Lucilla Spetia dantesco Amor e ’l cor gentil sono una cosa / si come il saggio in suo dittare pone, che rappresenta una risposta al testo guinizzelliano Al cor gentile reimpara sempre Amore37, il cui incipit e i successivi vv. 3-4 seguono la citazione della lirica di Thibaut nel De vulgari eloquentia, rispettivamente II v 4 e I ix 2. Così mentre Guinizzelli associa amore a cuore gentile, Dante ne fa una cosa sola, e in onore del padre e maestro (Purgatorio XXVI) aggiunge anche la saggezza38. Dante allora potrebbe aver voluto consapevolmente sostituire a seance che significa ‘cortesia’ il vocabolo sen senz’altro comprensibile in riferimento alla saggezza e più consono a quanto egli aveva scritto. Se quindi lo studio del canzoniere di Zagabria ci fornisce elementi importanti per la ricostruzione della biblioteca di Dante, essa al tempo stesso e reciprocamente può aiutarci a chiarire le modalità di definizione di Za, così come l’indagine sulla canzone trilingue può aiutarci a comprendere e storicamente collocare la tendenza rilevabile in alcune liriche di Za alla provenzalizzazione con un’interferenza del volgare, perché tale tendenza potrebbe agevolmente essere ricondotta a quell’humus particolare proprio alla Marca, già rilevata. Su tutti M. Santagata, Introduzione, in Dante Alighieri, Opere, dir. M. Santagata, I. Rime, cit., pp. XI-CXXXII, spec. p. LXXXIV. 38 Pirovano, Vita Nuova, cit., pp. 172-174. 37 Alessandra Forte Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia Uno spoglio della più antica tradizione illustrata della Commedia, condotto con un’attenzione specifica alle fonti romanze, rivela che di questa elegante filigrana, sottesa ad alcuni dei luoghi cruciali e di maggior fascino del poema dantesco, qualcosa confluisce anche tra le carte miniate dei suoi testimoni più e meno celebri. Al fine di inquadrare forme e modalità di possibili incursioni figurate di una tradizione nell’altra, propongo i primi risultati di una ricerca dedicata alle più antiche traduzioni visive dei canti danteschi ospitanti figure di poeti e trovatori, con l’apertura, lungo il discorso, di due brevi parentesi su temi e personaggi di ascendenza arturiana1. Prendendo avvio dalle immagini dei trovatori, noteremo anzitutto che, lungo i percorsi miniati tràditi dai primi codici illustrati del poema – seguendo una parabola che principia con Bertran de Born, tra i dannati (Inf. XXVIII), e termina con Folchetto di Marsiglia, tra le anime beate (Par. IX), passando per Sordello (Purg. VI-VIII) e Arnaut Daniel (Purg. XXVI) –, registriamo una serie di comparse di anime ritratte il più delle volte come generiche, oppure del tutto conformi alla nuova funzione loro affidata nell’architettura oltremondana dantesca. Trattasi di figure divenute a 1 La bibliografia su questi temi è assai vasta. Per un inquadramento del rapporto tra la poesia dantesca e quella trobadorica, e un bilancio aggiornato delle allusioni e dei richiami nell’opera dantesca (e nella Commedia in particolare) a protagonisti e vicende della letteratura cortese e cavalleresca, rimando anzitutto agli importanti contributi contenuti in questo stesso volume e agli studi ivi citati. 122 Alessandra Forte tutti gli effetti personaggi della Commedia, chiamate ad assolvere ruoli specifici, riconoscibili pertanto come poeti solo in poche e puntuali occasioni. Bertran de Born, per esempio, mai ritratto come poeta e neanche come uomo d’armi – come invece talvolta si ricava dalla tradizione illustrata dei canzonieri provenzali2 – risente senza eccezioni della nuova caratterizzazione dantesca, e nel nuovo contesto infernale si distingue dai suoi compagni di pena unicamente per il peculiare destino cui è soggetto, che lo vede, com’è noto e come prova un gran numero di immagini dantesche dedicate all’episodio3, trasportare la propria testa recisa «a guisa di lanterna» (Inf. XXVIII 122). Bertran è uno dei personaggi danteschi più ricorrenti nelle traduzioni visive della Commedia, spesso protagonista esclusivo di un intero quadretto visivo, con ogni probabilità proprio in ragione della particolare efficacia della punizione assegnatagli, esemplificativa de «lo contrapasso» (Inf. XXVIII 142), nonché particolarmente impressionante, in termini di imago agens4, per un lettore che si trovasse a osservarne, mentre ne apprendeva il destino oltremondano, la trasposizione in figura sul proprio libro miniato. Limitandoci a una selezione di immagini, le più rappresentative, individuiamo la figura di Bertran, così come appena descritta, nelle miSi vedano, a titolo di esempio, le miniature del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Fr. 854 (= I) e dell’affine ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Fr. 12473 (= K). Un primo sguardo d’insieme sulla tradizione dei canzonieri provenzali illustrati in M. L. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori. Ricezione e riuso dei testi lirici cortesi fino al XIV secolo, Modena, Mucchi, 1984, alle pp. 325-363. Su localizzazione e datazione di un gruppo piuttosto coeso di esemplari cfr. G. Canova Mariani, Il poeta e la sua immagine: il contributo della miniatura alla localizzazione e alla datazione dei canzonieri provenzali AIK e N, in I trovatori nel Veneto e a Venezia. Atti del convegno internazionale di Venezia, 28-31 ottobre 2004, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 47-76. Un quadro bibliografico aggiornato nel più recente C. Baldi, Commentare per immagini. Il canzoniere provenzale ms. M.819 della Morgan Library & Museum di New York e il suo apparato decorativo, tesi di laurea magistrale, tutor Prof. M. Collareta, Università di Pisa, a.a. 2018/2019. 3 Nell’impossibilità di trattare in dettaglio la totalità delle soluzioni censite per ciascun episodio menzionato, lungo questo bilancio saranno sempre citate le occorrenze figurate di un personaggio o di una situazione narrativa più significative, valorizzando volta per volta le eccezioni alla tendenza generale. Per brevità, i manoscritti danteschi saranno indicati mediante l’impiego di sigle; ciascuna sigla è sciolta contestualmente alla prima menzione estesa del codice cui si riferisce. 4 Cfr. L. Battaglia Ricci, Per una lettura dell’Inferno. Strutture narrative e arte della memoria, in «Rivista di Studi danteschi», III, 2 (2003), pp. 227-252, a p. 246; L. Bolzoni, Dante o la memoria appassionata, in «Lettere italiane», LX (2008), pp. 169-193. 2 Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 123 niature del Dante Estense (ms. Modena, Biblioteca Estense Universitaria, a.R.4.8 = Est, c. 39r)5, della Commedia di Altona (Schulbibliothek des Christianeums, ms. N.2 Aa 5/7 = Alt, c. 39r)6, di quella conservata a Madrid (Biblioteca Nacional de España, ms. 10057 = Mad 10057, c. 52r)7, o ancora nelle soluzioni offerte dal Dante Egerton (London, British Library, ms. Egerton 943 = Eg, c. 51r)8 e dai mss. Paris, Bibliothèque nationale de Sul manoscritto cfr. Dante Estense: ms. Modena, Biblioteca Estense Universitaria, a.R.4.8 [Ital. 474]. Commentario, a cura di E. Milano, Torino, Priuli & Verlucca, 1995; C. Ponchia, Frammenti dell’aldilà. Miniature trecentesche della Divina Commedia, Padova, Il Poligrafo, 2015, passim. Una scansione digitale del codice è disponibile online all’indirizzo: http://bibliotecaestense.beniculturali.it/info/img/mss/i-mo-beu-alfa.r.4.8.html [ultima consultazione: settembre 2022]. 6 Per una breve descrizione del manoscritto cfr. la scheda, a firma di M. Boschi Rotiroti, contenuta in Censimento dei Commenti danteschi. I commenti di tradizione manoscritta (fino al 1480), a cura di E. Malato, A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2011 (d’ora in poi = CCD), p. 429. Sui luoghi e i tempi della sua realizzazione, cfr. A. Ippolito, Testo e immagine nel Dante di Altona, in Dante visualizzato. Carte ridenti I: XIV secolo, a cura di R. Arqués Corominas, M. Ciccuto, Firenze, Cesati, 2017 (d’ora in poi = Dante visualizzato I), pp. 177-191; F. Franceschini, Dante, poeta sovrano e il «Codex Altonensis», in Esercizi di lettura per Marco Santagata, a cura di A. Andreoni, C. Giunta, M. Tavoni, Bologna, Il Mulino, 2017, pp. 81-93. Mi permetto di rinviare infine, per qualche novità, a A. Forte, Copisti di immagini. Affinità iconografiche nella tradizione miniata della Commedia, in corso di pubblicazione. Del codice è disponibile una riproduzione facsimilare, con commentario: Divina Commedia. Codex Altonensis, hrsg von der Schulbehörde der Freien und Hansestadt Hamburg durch H. Haupt, Berlin, Mann, 1965. 7 Cfr. CCD, cit., pp. 844-845 (scheda di F. Geymonat). Sull’apparato illustrativo del codice, cfr. G. Pittiglio, Il ms. 10057 di Madrid: una Commedia tra “storie seconde” e hapax iconografici, in Dante visualizzato. Carte ridenti II: XV secolo. Prima parte, a cura di M. Ciccuto, L. M. G. Livraghi, Firenze, Cesati, 2019 (d’ora in poi = Dante visualizzato II), pp. 143-163. Da rivedere, però, l’ipotesi di attribuzione delle scelte iconografiche del manoscritto al commento di Giovanni da Serravalle, alla luce dell’identificazione delle chiose apposte sui margini del codice con una porzione consistente di quelle già note come Chiose Filippine (edite a partire dal ms. Napoli, Biblioteca Oratoriana dei Girolamini, CF. 2 16, per cui cfr. infra): rimando in proposito al recente A. Forte, Le chiose alla Commedia Madrid, Biblioteca Nacional de España, ms. 10057: identificazione e prime ipotesi, in «L’Alighieri», 58 (2021), pp. 129-147. Il manoscritto è visionabile online all’indirizzo: http://bdh-rd. bne.es/viewer.vm?id=0000007649&page=1 [ultima consultazione: settembre 2022]. 8 Sul manoscritto si vedano gli studi di Anna Pegoretti (cfr. almeno Ead., Indagine su un codice dantesco. La Commedia Egerton 943 della British Library, Ghezzano, Felici, 2014; Ead., Un Dante “domenicano”: la «Commedia» Egerton 943 della British Library, in Dante visualizzato I, cit., pp. 127-142), e quelli contenuti nel commentario all’edizione facsimilare: Il manoscritto Egerton 943. Dante Alighieri, «Commedia». Saggi e commenti, a cura di M. Santagata 5 124 Alessandra Forte France, It. 74 (c. 83r)9 e Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, Vat. lat. 4776 (c. 99r)10. Rintracciamo un Bertran piuttosto spaventoso anche nella soluzione assai scenografica offerta dalla Commedia Additional (London, British Library, ms. Additional 19587 = Add. 19587, c. 47v)11, dove il dannato è ritratto in due tempi, dapprima mentre avanza verso i due poeti e poi, sollevato manualmente il capo all’altezza del suo interlocutore e mentre il sangue fuoriesce copioso dal collo e dal capo recisi, impegnato in un dialogo con Dante. Non troppo distanti in termini di logica compositiva, e ancora di notevole impatto visivo, anche la soluzione elaborata dal ms. XIII.C.4 della Biblioteca Nazionale di Napoli (c. 24r; cfr. Tavola 1)12, che vede Bertran ostentare minaccioso la propria testa recisa a un Dante visibilmente atterrito, e la proposta visiva della Commedia Marciana (Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, ms. It. IX 276 = Marc, c. 20v)13, il cui Bertran riaccosta la testa al collo, in uno strambo (saggi di M. Santagata, A. Pegoretti, C. Ponchia, F. Toniolo), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2015. Il codice è consultabile online all’indirizzo: http://www.bl.uk/manuscripts/ FullDisplay.aspx?ref=Egerton_MS_943 [ultima consultazione: settembre 2022]. 9 Cfr. CCD, cit., pp. 941-942 (scheda di G. Pomaro). Sul corredo illustrativo, cfr. S. Maddalo, La corona e la porpora. Dante politico tra Chiesa e Impero in un codice quattrocentesco, in Dante visualizzato I, cit., pp. 271-282, alle pp. 272-276; G. Ferrante, Illuminated Dante Project. Per un archivio digitale delle più antiche illustrazioni della Commedia. I. Un case study quattrocentesco (mss. Italien 74, Riccardiano 1004 e Guarneriano 200), in Dante visualizzato II, cit., pp. 229-255. Il codice è consultabile online all’indirizzo: https://gallica. bnf.fr/ark:/12148/btv1b10500687r [ultima consultazione: settembre 2022]. 10 Cfr. CCD, cit., pp. 524-525 (scheda di A. Mazzucchi); M. Boschi Rotiroti, F. Pasut, Codici fiorentini della Commedia in epoca tardogotica. Aspetti codicologici e artistici, in Dante visualizzato II, cit., pp. 11-33. Manoscritto visionabile online all’indirizzo: https://digi. vatlib.it/view/MSS_Vat.lat.4776 [ultima consultazione: settembre 2022]. 11 Cfr. CCD, cit., pp. 819-829 (scheda di A. Giglio); M. Rotili, I codici danteschi miniati a Napoli, Napoli, Banca Sannitica, 1972, pp. 41-49, 84-87; A. Forte, Intorno ai mss. danteschi Strozzi 152 e Additional 19587: una prima collazione iconografica, in Oltre le righe. Usi e infrazioni dello spazio testuale, a cura di V. Allegrini, S. De Simone, A. Forte, D. Panno-Pecoraro, Pisa, Edizioni della Normale, 2020, pp. 104-121. Manoscritto interamente digitalizzato visionabile online all’indirizzo: http://www.bl.uk/manuscripts/Viewer. aspx?ref=add_ms_19587_fs001r [ultima consultazione: settembre 2022]. 12 Cfr. CCD, cit., pp. 897-898 (scheda di M. Boschi Rotiroti); Rotili, I codici danteschi, cit., alle pp. 27-33, 87-89. 13 Cfr. S. Marcon, C. Ponchia, La «Commedia» dantesca figurata della Biblioteca Marciana. Codice It. IX 276 (=6902), Torino, UTET, 2011, con riproduzione facsimilare. Cfr. anche Ponchia, Frammenti dell’aldilà, cit., passim. Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 125 tentativo di ricomposizione del corpo, che finisce quasi per annullare gli effetti macabri della mutilazione. Vediamo infine come i miniatori attivi sulle carte del Dante Holkham (Oxford, Bodleian Library, ms. Holkham misc. 48 = Holk, p. 44)14, realizzando non un’unica figura ma una serie di anime decapitate, finiscano per estendere indebitamente la peculiare ed esclusiva caratterizzazione di Bertran anche agli altri compagni di pena, Geri del Bello compreso15 (una figura, quest’ultima, in ragione della sua collocazione liminare lungo il racconto dantesco16, non nuova a episodi di confusione da parte di miniatori e programmatori iconografici17). Per ragioni di contiguità topografica, è forse utile aprire qui, sospendendo per un istante la disamina delle occorrenze figurate del gruppo dei trovatori in territorio miniato dantesco, una breve parentesi iconografica sul personaggio di Mordret, citato a Inf. XXXII tra i traditori dei congiunti: per Dante, com’è noto, Mordret è «quelli a cui fu rotto il petto e l’ombra / con esso un colpo per la man d’Artù» (Inf. XXXII 61-62), con riferimento a un episodio specifico della vita del personaggio letterario, che denota la conoscenza, da parte del poeta, del romanzo conclusivo del LancelotGraal, la Mort Artu18. Non attestato nella più antica tradizione figurata della Commedia, il personaggio evidentemente non attirò l’attenzione dei programmatori iconografici, con buona probabilità in ragione della sua marginalità nel racconto dantesco stesso, dacché non inserito nella cornice di un dialogo diretto con il poeta viator bensì solo menzionato all’interno della rassegna di traditori condotta da Camicion de’ Pazzi (Inf. XXXII Sul manoscritto cfr. da ultimo Il manoscritto Holkham misc. 48. Dante Alighieri, Commedia: saggi e commenti, a cura di M. Solimine, S. Esposito (saggi di L. Battaglia Ricci, S. Bertelli, L. Pasquini), Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 2021, e relativa bibliografia. Il codice è consultabile online all’indirizzo: https://digital.bodleian.ox.ac. uk/objects/10974934-30a5-4495-857e-255760e5c5ff/ [ultima consultazione: settembre 2022]. 15 Identificato con certezza dalla didascalia apposta sopra la figura: «Geri del bello». 16 Com’è noto, l’anima di Geri è punita nella medesima bolgia di Bertran (Inf. XXVIII), ma citata da Dante solo al principio del canto successivo: cfr. Inf. XXIX 1-39. 17 Si veda per es. il Geri del ms. Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, Strozzi 152, ritratto «di schianze macolato», assimilato in questo caso agli «ammalati» del canto successivo (Inf. XXIX 40-84). 18 Cfr. D. Delcorno Branca, Tristano e Lancillotto in Italia. Studi di letteratura arturiana, Ravenna, Longo, 1998, pp. 143-154; Ead., La tradizione della Mort Artu in Italia, in «Critica del testo», VII, 1 (2004), pp. 317-339. 14 126 Alessandra Forte 52-69). Possiamo dunque ipotizzare che Mordret corrisponda a una delle molte anime dipinte nelle soluzioni, tra le più fitte, di Alt (cc. 43r-v), Eg (c. 57r), Est (cc. 44r-v), It. 74 (cc. 370v-371r), Urb 365 (c. 87r)19, ma non individuarlo con esattezza: nei corredi che danno spazio a ritratti di Cocito un po’ più estesi, non limitati cioè soltanto ai più celebri episodi di Bocca degli Abati e di Ugolino e Ruggieri, talvolta è difatti possibile distinguere, tra le anime ritratte come generiche, i due conti di Mangona poiché tra loro accostati (Inf. XXXII 40-42) o Bocca degli Abati perché sollevato «per la cuticagna» (Inf. XXXII 97-99), ma non riesce di isolare molti altri – e non riesce mai di isolare Mordret. Un’unica felice eccezione a questa tendenza si rintraccia nella miniatura del Dante Holkham (p. 50), in cui l’anima del personaggio arturiano, seppur non caratterizzata, risulta individuabile grazie alla didascalia apposta poco sopra il disegno («Mordret»)20. Dal momento che la didascalia parrebbe vergata in seconda istanza, a copertura di una scrittura preesistente, è senz’altro di qualche interesse, tanto più a fronte del silenzio iconografico generale, che qualcuno abbia qui voluto riservare uno spazio visivo a questo personaggio. Tornando ai trovatori, e passando alla volta di Purg. VI, con Sordello, la cui presenza, lungo il racconto, scorterà Dante e Virgilio fino alla valletta dei principi e alla visione della cacciata del serpente a opera dei due messi celesti (Purg. VII-VIII), rileviamo che il trovatore dei codici miniati della Commedia non è molto più che un’anima purgante, spesso ritratta come sagoma nuda (Est, c. 56r; Mad 10057, c. 74r; Urb, c. 115r; Bud, c. 34v21; 19 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Urb. lat. 365. Cfr. L. Battaglia Ricci, Iconografia del Dante Urbinate della Biblioteca Vaticana (cod. Urb. lat. 365), Lectura Dantis Scaligera 2005-2007, a cura di E. Sandal, Roma-Padova, Antenore, 2008, pp. 183-212; C. Cieri Via, L’Inferno in immagine. Il racconto di Guglielmo Giraldi attraverso il sistema iconico del ms. Urb. Lat. 365, in Dante visualizzato. Carte ridenti III: XV secolo. Seconda parte (d’ora in poi = Dante visualizzato III), a cura di R. Arqués Corominas, S. Ferrara, Firenze, Cesati, 2019, pp. 15-33; G. Puma, Le miniature del Purgatorio nell’Urbinate Latino 365, ibidem, pp. 55-72. 20 Sebbene l’assenza di attributi specifici lasci ancora qualche indecisione su quale, tra i due dannati più prossimi alla didascalia, sia effettivamente Mordret. 21 Budapest, Egyetemi Könyvtár, Cod. Ital. 1. Sul codice si vedano i saggi contenuti nel secondo volume (Studi e ricerche) di Commedia. Biblioteca universitaria di Budapest, Codex Italicus 1, a cura di G. P. Marchi, J. Pál, Verona, Grafiche-SIZ, 2006 e i più recenti Ponchia, Frammenti dell’aldilà, cit., passim, e E. Draskóczy, Le illustrazioni del Codex Italicus 1 fra il testo, la tradizione iconografica e la fantasia del miniatore, in Dante visualizzato I, cit., Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 127 Strozzi 152, c. 36r22; Additional 19587, c. 69v; M676, c. 54v23; Pad 67, c. 119v24; Plut. 40.01, c. 126v25; Yates Thompson 36, c. 76v26), talvolta pp. 219-235. Una riproduzione digitale del manoscritto è visionabile all’indirizzo: https:// edit.elte.hu/xmlui/handle/10831/9820?noflip [ultima consultazione: settembre 2022]. 22 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Strozzi 152. Cfr. CCD, cit., pp. 639640 (scheda di G. Adini); A. Mazzucchi, Commenti danteschi antichi e lessicografia napoletana, in «Rivista di Studi Danteschi», VI, 2 (2006), pp. 321-370, a p. 328; B. Stoltz, Le strategie narrative e il commento figurativo nei codici trecenteschi della Commedia di Dante: Strozzi 152, Holkham 48 e Additional 19587, in Dante visualizzato I, cit., pp. 111-126; Forte, Intorno ai mss. danteschi, cit. Il manoscritto è digitalizzato all’indirizzo: http://www. danteonline.it/italiano/codici_frames/codici.asp?idcod=204 [ultima consultazione: settembre 2022]. 23 New York, Morgan Library, ms. M676. Cfr. Mazzucchi, Commenti danteschi antichi, cit.; L. Azzetta, Andrea Lancia copista dell’Ottimo commento. Il ms. New York, Pierpont Morgan Library, M 676, in «Rivista di Studi Danteschi», X (2010), pp. 173-188; R. Iacobucci, Note codicologiche e paleografiche sul codice M 676 della Morgan Library & Museum (in margine a una recente attribuzione), in «Nuovi Annali della Scuola Speciale per Archivisti e Bibliotecari», XXV (2011), pp. 5-28; C. Perna, Per l’identificazione di alcune “glosae singulares” del codice M 676 della Morgan Library & Museum di New York, in «Rivista di Studi Danteschi», VIII, 2 (2008), pp. 389-393; A. Perriccioli Saggese, Le illustrazioni della Divina Commedia Morgan 676 fra Firenze e Napoli, in Dante visualizzato II, cit., pp. 265276. Il manoscritto è visionabile online all’indirizzo: https://www.themorgan.org/dantealighieri/divina-commedia/3 [ultima consultazione: settembre 2022]. 24 Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile, ms. 67. Cfr. CCD, cit., pp. 930-932 (scheda di M. Spadotto); Ponchia, Frammenti dell’aldilà, cit., passim. Disponibile una riproduzione facsimilare del manoscritto (La Divina Commedia degli Obizzi: Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile, ms. 67, Rimini, Imago, 2017), accompagnata da un commentario di studi (La Divina Commedia degli Obizzi: Padova, Biblioteca del Seminario Vescovile, ms. 67, a cura di S. Bertelli, M. Ciccuto, A. Forte, S. Maddalo, Rimini, Imago, 2021). 25 Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Plut. 40.01. Cfr. CCD, cit., p. 584 (scheda di F. Mazzanti); A. Forte, Errori in miniatura. Per i rapporti genealogici tra il Padovano 67 e il Laurenziano 40.01, in Dante visualizzato I, cit., pp. 161-175. Il codice è digitalizzato all’indirizzo: http://teca.bmlonline.it/ImageViewer/servlet/ImageViewer?idr= TECA0000623312&keyworks=Plut.40.01#page/1/mode/1up [ultima consultazione: settembre 2022]. 26 London, British Library, ms. Yates Thompson 36. Cfr. gli studi contenuti nel commentario di accompagnamento all’edizione facsimilare del codice: La «Divina Commedia» di Alfonso d’Aragona Re di Napoli. I. Facsimile del manoscritto Yates Thompson 36, Londra, British Library. II.1/2. Commentario al codice, a cura di M. Bollati, Modena, Franco Cosimo Panini, 2006; J. Molina Figueras, L’avara povertà di Catalogna? Il manoscritto Yates Thompson, un canto al lusso tardogotico e alla cultura umanistica nella corte napoletana di Alfonso d’Aragona, in Dante visualizzato II, cit., pp. 73-89; V. Vitale, 128 Alessandra Forte abbigliata o solo ricoperta di una veste leggera (Eg, c. 72v; Holk, p. 6727; Alt, c. 55r28), talaltra dotata di barba e lunghi capelli (Mad 10057, c. 74r; Marc, c. 31r; Eg, c. 72v). Nei codici illustrati della Commedia Sordello è un’anima anzitutto mantovana, di cui viene fissata in figura la commozione seguita all’incontro con il suo concittadino, come dimostra l’episodio in assoluto più rappresentato del Sordello-personaggio, ossia l’abbraccio con l’anima di Virgilio, testimoniato da un numero assai elevato di codici (Holk, p. 67; Alt, c. 55r; Eg, c. 73r; Mad 10057, c. 74r; Est, c. 56r; Strozzi 152, c. 36r; Additional 19587, c. 69v; Pad 67, c. 119v; Plut. 40.01, c. 126v; M676, c. 54v; Yates Thompson 36, c. 76v). Qualche volta è attestato anche il secondo abbraccio con il quale Sordello si stringe a Virgilio, condito di nuova soggezione non appena scoperta l’identità di quell’anima mantovana come la sua: in un codice che testimonia figurativamente entrambi gli abbracci, dettagliato e ricco come Eg (cc. 73r-74r), possiamo apprezzare il cambio di registro29. Meno frequente ma non del tutto trascurata è infine la visualizzazione del Sordello impegnato a tracciare un segno sul terreno in risposta alla domanda di Virgilio circa la possibilità di proseguire il cammino purgatoriale una volta tramontato il sole (cfr. Purg. VII 43-60; si vedano le miniature di Alt, c. 56r; Holk, p. 69; Mad 10057, c. 76r; Strozzi 152, c. 36v; Pad 67, c. 121v; Plut.40.01, c. 129v; Est, c. 57r). Sia che si scelga, dunque, di limitare la rappresentazione al momento più icastico del racconto, sia che si proceda all’illustrazione di un maggior numero di frammenti narrativi L’impero di Alfonso il Magnanimo nella “Commedia aragonese”, ibidem, pp. 91-118; e il recentissimo dossier monografico Yates Thompson 36: la “Commedia” di Alfonso V, in «Dante e l’Arte», 8 (2021), consultabile online all’indirizzo: https://revistes.uab.cat/dea [ultima consultazione: settembre 2022]. 27 Qui Sordello condivide l’abito con le altre anime purganti. L’inserto è dunque coerente con le scelte operative dell’artista o con le istruzioni fornite dai programmatori, e non prerogativa dell’anima specifica. 28 In Alt una veste ricopre Sordello solo in alcune delle sue numerose comparse in scena. Tale intermittenza, unita alla presenza indebita del personaggio in alcuni luoghi della scena figurata, denuncia una certa irregolarità iconografica (ravvisabile anche più distesamente) nella conduzione, in questo manoscritto, dell’illustrazione della seconda cantica. Rimando in proposito a quanto meglio approfondito in Forte, Copisti di immagini, cit. 29 Il secondo abbraccio è attestato anche in Holk (p. 68), Est (c. 56v), Fi (c. 101v), Bud (c. 33v), Urb (c. 115r). Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 129 del canto, ciò che accomuna il complesso delle raffigurazioni che coinvolgono Sordello è ancora una volta – come già visto per Bertran – la presenza in scena di un personaggio tutto dantesco, collocato nel secondo regno sulla base di valutazioni di ordine morale connesse alla sua storia personale, e mai specificamente connotato come poeta. Destino analogo investe Folchetto, sebbene questi, rispetto ai primi due trovatori considerati, nella più antica tradizione miniata del poema dantesco vanti in verità un numero assai inferiore di testimonianze visive, dal momento che il Paradiso, com’è noto, fu per varie ragioni la cantica meno illustrata30. Nei codici che affrontano la decorazione della terza cantica e in particolare del canto che ospita Folchetto, incontriamo, anche in questo caso, un’anima talvolta generica (M676, c. 100v; Pad 67, c. 197r; Plut. 40.01, c. 211r), talvolta agghindata con abiti e attributi che la connotano come maschile, così distinguendola da quelle di Cunizza e Raab (si osservi, per es., la ricca miniatura del Dante Marciano, a c. 59r, che veste Folchetto con fogge e costumi maschili tipici della moda tardo-trecentesca)31. Più frequente – e di rilievo nell’ottica di questa indagine – è la rappresentazione di Folchetto in abiti vescovili: di particolare eleganza la soluzione elaborata dall’Holkham (p. 130), dove «Folcho de Marsilia», come precisato dalla didascalia apposta sopra la figura, veste un abito talare, completo di piviale, cui si aggiunge la mitra vescovile; o, ancora, la proposta dello Yates Thompson 36 (c. 145r), dove il trovatore indossa l’abito cistercense e, su probabile influenza delle chiose dell’Ottimo commento, «tiene sul capo la mitria e nella destra il pastorale»32. Occorre comunque notare che la rappresentazione di Folchetto come vescovo non è una novità dell’iconografia dantesca, ma vanta qualche precedente figurato già nei canzonieri provenzali: è in queste vesti che il trovatore compare, per esempio, nelle miniature tràdite dai codici siglati Cfr. almeno L. Battaglia Ricci, «Figurare il Paradiso». Minimi appunti sui più antichi testimoni illustrati, in «Studi e Problemi di Critica Testuale», XC, 1 (2015), pp. 297-315. 31 Ma la scelta accomuna tutte le anime del Paradiso (e alcune di quelle collocate tra Inferno e Purgatorio) di questo codice, non caratterizzando dunque nello specifico il nostro personaggio. 32 M. Petoletti, Paradiso, in La «Divina Commedia» di Alfonso d’Aragona, II, cit., pp. 99-100. 30 130 Alessandra Forte A (c. 61r)33, N (c. 55r)34, e nei già citati K (c. 46r) e I (c. 61r)35, dotato in tutte le occorrenze di piviale e mitra, e talvolta del pastorale. Nel secondo dei due capilettera abitati che introducono alla prima e alla seconda parte del canto IX del Paradiso36, realizzati sul ms. Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, Banco Rari 39, latore della Commedia con commento del Buti37, si rintraccia anche un riferimento al luogo di provenienza del trovatore, Marsiglia: nella sezione superiore della L che introduce al discorso di Folchetto (Par. IX 88: «La maggior valle in che l’acqua si spanda»), bipartita, un’anima in dialogo con Dante, scortato da Beatrice, addita una città raffigurata in basso, riconoscibile come Marsiglia per la collocazione di un nucleo cittadino tra due fiumi; trattasi evidentemente di Ebro e Magra, così come esplicitato dallo stesso Folchetto: «Di quella valle fu’ io litorano / tra Ebro e Macra, che per cammin corto / parte lo Genovese dal Toscano» (Par. IX 88-90)38. Anche Folchetto dunque, come 33 Città del Vaticano, Biblioteca Apostolica Vaticana, ms. Vat. lat. 5232. Sul corredo del codice, cfr. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori, cit., pp. 337-344; Canova Mariani, Il poeta e la sua immagine, cit., pp. 55-62, e bibliografia ivi citata. 34 New York, Pierpont Morgan Library, ms. M819. Cfr. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori, cit., pp. 352-363; Canova Mariani, Il poeta e la sua immagine, cit., pp. 68-76, con bibliografia. 35 Cfr. Meneghetti, Il pubblico dei trovatori, cit., pp. 344-348; Canova Mariani, Il poeta e la sua immagine, cit., pp. 62-68, con bibliografia. 36 Il primo capilettera abitato introduce al verso incipitario del canto (Par. IX 1: «Da poi che Carlo tuo, bella Clemenza»). Il secondo subentra a metà canto circa, in corrispondenza del verso che dà inizio al discorso di Folchetto (Par. IX 88: «La maggior valle in che l’acqua si spanda»), introdotto dalla rubrica: «Qui comi(n)cia la lectione seco(n)da del canto VIIII». Si tratta di una pratica del tutto inconsueta nella suddivisione e nell’illustrazione della materia dantesca, che in questo codice si accorda con la scansione operata dal Buti nel suo commento. 37 Sul manoscritto cfr. CCD, cit., pp. 653-654 (scheda di M. L. Tanganelli); C. Ponchia, Continuità e innovazione. Tendenze illustrative della Divina Commedia nel primo Quattrocento, in Dante visualizzato II, cit., pp. 35-46. Il manoscritto è digitalizzato all’indirizzo: https://archive.org/details/br39_20200814/page/n15/mode/2up [ultima consultazione: settembre 2022]. 38 Nell’altra figura di vescovo rappresentata nella porzione inferiore del primo capilettera del canto, che precede quello appena visto, si potrà allora riconoscere non Folchetto, come a lungo ritenuto proprio in ragione dell’abito vestito (cfr. P. Brieger, M. Meiss, C. S. Singleton, Illuminated manuscript of the Divine Comedy, 2 voll., Princeton, Princeton University Press, 1969, I, p. 189), ma il vescovo Alessandro Novello di Feltre, citato da Cunizza da Romano nella prima porzione del canto IX, e del resto da questa Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 131 Bertran e Sordello, nei codici miniati del poema appare quale figurina anzitutto dantesca, del cui passato personale è citata nella Commedia – e trasposta in immagine nel contesto della sua prima ricezione figurata – soltanto la carica episcopale ricoperta. Al contempo, l’immagine elaborata dai primi lettori di Dante, dacché conserva un tratto identitario forte (e non dantesco) di Folchetto – l’identità di vescovo, in aggiunta a quella di trovatore – non troppo si discosta, a differenza di quanto accade agli altri due, da quella già concepita nell’ambito della decorazione delle letterine incipitarie dei canzonieri provenzali. Dei quattro trovatori provenzali calati come personaggi nei luoghi morali della Commedia, giudicati, seguendo il filo delle colpe commesse e dei meriti acquisiti, come uomini prima che come rimatori, è il solo Arnaut a non subire nel poema una scissione identitaria, restando poeta, tra altri poeti chiamati a disquisire di poesia, anche tra le fiamme della sua purgazione (Purg. XXVI 91-148). Ne è riflesso evidente il fatto che Arnaut sia il solo, dei tre finora considerati, a vantare una comparsa come poeta anche sulla scena miniata della Commedia. Se la tendenza illustrativa più diffusa resta quella di assimilare l’anima del trovatore agli altri abitanti del luogo oltremondano specifico (a quelle dei purganti lussuriosi, in questo caso)39, secondo un processo visivo che abbiamo ormai osservato ampiamente per gli altri tre trovatori, o in alternativa se ne affida l’identificazione, pur senza particolari caratterizzazioni, all’andamento della narrazione visiva40, nella splendida raffigurazione del codice Filippino (Napoli, Biblioteca Oratoriana dei Girolamini, ms. CF 2.16 = Fi, c. 149r41; cfr. Tavola 2) il legame dell’anima di Arnaut con l’attività di additato anche nel contesto dell’illustrazione appena descritta (si osservi la porzione superiore dello stesso capilettera). Così più di recente G. Pittiglio, Le immagini della «Divina Commedia». Tradizione, deroghe ed eccentricità iconografiche tra XIV e XV secolo, tesi di dottorato (XXX ciclo), tutor Prof.ssa C. Cieri Via, Sapienza Università di Roma, a.a. 2016/2017, pp. 376-378. 39 Come vediamo accadere in Eg (c. 110r), Est (c. 83r), Marc (cc. 46r-v), Strozzi 152 (c. 53v), M676 (cc. 79r-79v), Urb 365 (c. 171v), Yates Thompson 36 (c. 113v). 40 È il caso, per es., della Commedia di Altona, che dedica ben sette miniature solo al canto XXVI del Purgatorio, isolando, nel quadretto finale, l’incontro di Dante con Arnaut (cc. 83r-85r). 41 Sul codice si veda Chiose Filippine. Ms. CF 2 16 della Bibl. Oratoriana dei Girolamini di Napoli, a cura di A. Mazzucchi, Roma, Salerno, 2002 (con saggi di G. Savino, 132 Alessandra Forte rimatore è dichiaratamente ostentato dalla presenza di un volume aperto, adagiato accanto alla sua esile figurina, sulla parete rocciosa della cornice purgatoriale. La presenza poi, al fianco di Arnaut, nel quadretto visivo realizzato sulla carta a questa precedente (c. 147v; cfr. Tavola 3), di una seconda anima vestita di un copricapo cerchiato di pelliccia, agilmente identificabile con quella di Guido Guinizzelli, mi pare denunci chiaramente che il responsabile del progetto iconografico di questo codice avesse ben chiare le urgenze letterarie e poetiche del canto XXVI del Purgatorio, e piena consapevolezza, come mostrano le caratterizzazioni puntuali delle due figure calate sulla scena miniata, che le anime qui interpellate da Dante fossero proprio quelle di poeti. Uno sguardo alle chiose vergate sulle medesime carte di Fi restituisce peraltro una felice convergenza di intenti, le Chiose Filippine definendo l’uno e l’altro «dictator», il primo (Guido Guinizzelli) «bonus»42 e il secondo (Arnaut Daniel) «magnus»43, con riferimenti espliciti alla composizione di sonetti e rime, e le due miniature presentando i poeti muniti di attributi caratterizzanti: il libro per Arnaut e il copricapo professorale per Guido. Di grande interesse, con riferimento a quest’ultimo, «spiritus Guidonis Guinizelli de Bononia», come precisano ancora le chiose44, che il copricapo da lui indossato, foderato di pelliccia e con cuffietta bianca sottostante, coincida anche con il tipo talvolta vestito dai giudici bolognesi del tempo45, discostandosi invece da quello affidato al Guinizzelli del Canzoniere Palatino (Firenze, Biblioteca Nazionale Centrale, ms. Banco Rari 217, cc. 13r e 24r)46. Stratigrafia del Dante Filippino, alle pp. 73-83, e A. Perriccioli Saggese, Le miniature del Filippino, alle pp. 85-95). 42 Chiose Filippine, cit., p. 958 (Purg. XXVI 50). 43 Ibidem, p. 964 (Purg. XXVI 142). 44 Ibidem, p. 958 (Purg. XXVI 50), corsivo mio. 45 Il copricapo parrebbe somigliare anche al tipo «a “tamburello”, spesso cerchiato di pelliccia e indossato dritto o obliquo sulla testa», che vestono alcune figure di trovatori sulle carte, per es., del canzoniere I (cit. da Canova Mariani, Il poeta e la sua immagine, cit., p. 64). 46 Trattasi in questo caso di una cuffietta bianca, comune a molti dei poeti rappresentati nelle iniziali abitate del codice. Sul corredo illustrativo del manoscritto, cfr. M. L. Meneghetti, Il corredo decorativo del Canzoniere Palatino, in I canzonieri della lirica italiana delle origini. IV. Studi critici, a cura di L. Leonardi, Firenze, SISMEL-Edizioni del Galluzzo, 2001, pp. 394-415, alle pp. 398-415. Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 133 L’impiego di un copricapo funzionale a connotare le figure in scena come anime di poeti ricorre in altri due codici illustrati della Commedia (Additional 19587 e Arsenal 853047), ma in maniera, in verità, meno accurata di quanto visto su Fi. Rileviamo anzitutto che una simile caratterizzazione non connota esclusivamente i poeti menzionati a Purg. XXVI, ma è talvolta introdotta già a partire dalle trasposizioni figurate degli altri rimatori di Purg. XXIV e XXV: si osservi il disegno abbozzato a c. 101r della Commedia Additional 1958748, in cui, all’interno del gruppo di anime di golosi, almeno una figura – Bonagiunta? – indossa un morbido cappello a punta molto simile a quello che veste, nel medesimo disegno, lo stesso Dante e a quello che ricopre, passando alla carta successiva (c. 102v), il capo di un’altra anima purgante (con ogni probabilità, Guido Guinizzelli)49. Se si rivolge poi uno sguardo alle miniature realizzate sulla Commedia Arsenal 8530, e sempre con riferimento all’illustrazione dei canti XXIV-XXVI del Purgatorio, è possibile intercettare, in ben quattro diversi frammenti illustrati del codice, una figurina dotata di un copricapo assai somigliante a quello di Dante, ma di identità apparentemente incerta, a causa della difficoltà di riconoscervi uno solo dei poeti menzionati tra Purg. XXIV e Purg. XXV. Ritratta sia nella prima che nella seconda porzione della miniatura di Purg. XXIV (c. 103r), sia nel cuore che al termine di Purg. XXV (cc. 104r, 105r), è assai improbabile che quest’anima rappresenti uno dei contemporanei di Dante e ben più plausibile che coincida in realtà con la figura di Stazio, presente, questa sì, lungo l’intero arco narrativo che unisce i canti XXIV-XXVI. Occorrerà però notare che, nella prima miniatura di Purg. XXIV (c. 103r), l’anima del poeta classico figura come sagoma nuda, identica a quella comparsa in Paris, Bibliothèque de l’Arsenal, ms. 8530. Sul manoscritto cfr. CCD, cit., p. 937 (scheda di M. Boschi Rotiroti); Rotili, I codici danteschi, cit., pp. 50-51, 77-81. Il codice è visionabile online all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/btv1b52507439j [ultima consultazione: settembre 2022]. 48 Successivi alla prima fase decorativa del manoscritto, i disegni realizzati sul Dante Additional da Purg. XXIV in avanti non mostrano più evidenti affinità iconografiche con le figurazioni del già citato ms. Strozzi 152, come invece accade per l’intera estensione dell’Inferno e buona parte del Purgatorio. Rinvio in proposito a Forte, Copisti di immagini, cit. 49 La tipologia di copricapo qui impiegata accomuna un gran numero di figurine di trovatori ritratti in vari canzonieri provenzali: degna di menzione quella ritratta a c. 65r del canzoniere I, raffigurante proprio Arnaut Daniel. 47 134 Alessandra Forte scena, per la prima volta, a Purg. XXI (c. 98r), in forme assai diverse – a cominciare dall’assenza del copricapo – da quelle appena descritte: l’insieme delle circostanze spinge dunque a credere che sulla scena miniata dell’Arsenal 8530 dovette senz’altro verificarsi qualche corto-circuito. Nel contesto appena delineato, ciò che è certo, comunque – si tratti di un contemporaneo o di un antico –, è che qualcuno qui è poeta, e concorre a provarlo l’impiego di un attributo evidentemente inconfondibile per i codici iconografici del tempo. Importa allora rilevare, nel discorso che stiamo qui conducendo, che nelle più antiche carte miniate della Commedia l’identificazione di questi personaggi come poeti (e lo sforzo di caratterizzazione che ne deriva) si ravvisa unicamente nell’illustrazione di questo specifico gruppo di canti, ossia nell’unico luogo morale del poema – tra quelli abitati dai trovatori – in cui il passato personale degli uomini non prevale sul ruolo e sulla funzione letteraria dei poeti. In conclusione, spostandoci dalle fonti provenzali a quelle di materia arturiana, risaliamo al principio del poema, per rivolgere un ultimo sguardo alla ricezione figurata del canto V dell’Inferno. Anche sul piano iconografico, i protagonisti indiscussi del canto dantesco si confermano Francesca e Paolo, due figure dalle sembianze di norma assimilate a quelle delle altre anime di lussuriosi – rappresentate dunque come sagome nude in volo (Cha, c. 61r50; Alt, c. 15r; Arsenal 8530, c. 9r), talvolta alate (Strozzi 152, c. 5r; Additional 19587, c. 8r) – ma sempre agilmente riconoscibili poiché tra loro ravvicinate o chiuse in un abbraccio (Alt, c. 15r; Arsenal 8530, c. 9r; M676, c. 11r; Vat. lat. 4776, c. 16r; Yates Thompson 36, c. 9r). Nei codici più antichi della Commedia non è mai illustrata la storia narrata da Francesca: pare che ciò accada soltanto in un disegno, piuttosto articolato, affidato a una testimonianza manoscritta cinquecentesca (ms. Torino, Biblioteca Nazionale Universitaria, L.III.17)51, riconsiderata da 50 Sul celebre manoscritto cfr. L. Battaglia Ricci, Un sistema esegetico complesso: il Dante di Chantilly di Guido da Pisa, in «Rivista di Studi Danteschi», 8, pp. 83-100; C. Balbarini, L’Inferno di Chantilly. Cultura artistica e letteraria a Pisa nella prima metà del Trecento, Roma, Salerno, 2011. 51 Il manoscritto, cartaceo, latore dell’Inferno nel testo originale e in traduzione francese, è stato fortemente danneggiato dall’incendio che ha colpito la Biblioteca Nazionale di Torino nel 1904. Una breve descrizione del codice e bibliografia utile in L. Renzi, Le conseguenze di un bacio. L’episodio di Francesca nella «Commedia» di Dante, Bologna, Il Mulino, 2007, alle pp. 212-213, 25n. Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 135 Lorenzo Renzi52, nella quale è possibile individuare, per il solo canto V dell’Inferno, ben quindici momenti narrativi illustrati, di cui otto dedicati al dialogo di Dante con i due amanti e ben tre deputati a illustrare l’antefatto narrato da Francesca (la scena del bacio, l’uccisione di Francesca e Paolo da parte di Gianciotto, la rappresentazione stilizzata di Caina in attesa dell’anima colpevole di quest’ultimo). Con specifico riferimento alla dimensione cortese, un’altra testimonianza di rilievo, ma sempre cronologicamente tarda rispetto alla più antica tradizione manoscritta finora indagata, è la Commedia dipinta di Antonio Grifo53, in cui Francesca e Paolo appaiono dapprima ritratti come due anime nude, slanciate in volo verso Dante e Virgilio, e un attimo dopo, al momento del colloquio, acconciate con sfarzo e vestite di abiti cortigiani in linea con la moda del tempo (c. 43v): così agghindati, ripristinati i costumi di scena e la cornice cortese, i due sono pronti a ripercorrere, con Dante, la triste storia del loro breve amore54. Sullo stesso libro miniato, appena una carta prima (c. 43r), com’è stato già osservato, compare anche Tristano, accompagnato dalla postilla «Tristano alla franzosa habito novo»55, che ne esplicita l’aspetto modaiolo, ricorrente, proseguendo nel percorso miniato dell’incunabolo dantesco, anche nei ritratti di alcuni spiriti combattenti del cielo di Marte (Carlo Magno, Orlando, Rinoardo, Goffredo di Buglione e altri, a c. 281r56), oltre Cfr. ibidem, pp. 194-198. Cfr. Comedia di Dante con figure dipinte. L’incunabolo veneziano del 1491 nell’esemplare della Casa di Dante in Roma con postille manoscritte e figure dipinte, Commentario all’edizione in facsimile, a cura di L. Marcozzi, Roma, Salerno, 2015; M. L. Meneghetti, Come lavorava Antonio Grifo: ancora sulla decorazione (e la data) dell’incunabolo della Casa di Dante in Roma, in «Per beneficio e concordia di studio». Studi danteschi offerti a E. Malato per i suoi ottant’anni, a cura di A. Mazzucchi, Cittadella, Bertoncello Artigrafiche, 2015, pp. 611-619 e S. Maddalo, Commentare in figura la “Commedia”. Antonio Grifo e i “marginalia” miniati nell’incunabolo della Casa di Dante, in Dante visualizzato III, cit., pp. 193-207; L. Marcozzi, «Figurando il Paradiso»: le figure dipinte dell’incunabolo della Commedia della Casa di Dante in Roma e una nuova iconografia dell’Empireo, ibidem, pp. 135-159. 54 Cfr. quanto accuratamente osservato da Maddalo, Commentare in figura la “Commedia”, cit., pp. 201-202. 55 Cfr. Marcozzi, Comedia di Dante con figure dipinte, cit., p. 35. Nel Tristano di questa Commedia, sulla base dell’abito indossato, Meneghetti, Come lavorava Antonio Grifo, cit., pp. 618-619, riconosce una caricatura di Luigi XII. 56 Tutti vestiti «con calze a righe bianche o d’altro colore, e abiti con maniche ampie e con cappello a tesa rialzata» (ibidem, p. 111). 52 53 136 Alessandra Forte che – scelta tutt’altro che banale – del nostro Folchetto (Par. IX, c. 259v), il quale unisce all’abito “alla francese” «una berretta vescovile paonazza»57. Nella tradizione miniata più antica della Commedia, però – tornando a Francesca e Paolo –, non c’è posto per simili divagazioni iconografiche: l’attenzione dei programmatori iconografici è per lo più rivolta alla punizione dei due amanti, dei quali non è mai trasposta in figura la storia di amore e morte, né – trattandosi di un livello del racconto ancora più profondo – esplicitato in figura l’antefatto letterario che sottende all’insorgere della passione tra i due, ossia il bacio di Lancillotto e Ginevra (del resto la fonte romanza non compare in figura neanche in una testimonianza dettagliatissima come quella torinese appena richiamata, che tutt’al più conserva il libro, scivolato a terra mentre i due cognati si scambiano il bacio58). Appaiono però particolarmente interessanti, proprio in ragione della loro eccentricità nel più ampio panorama dell’antica ricezione figurata del canto V dell’Inferno, due codici danteschi di fine Trecento: il già citato Dante Marciano (c. 4r), che ci offre la prima e unica rappresentazione, sulla scena di Inf. V, di Gianciotto Malatesta, se è a lui che allude – come credo – l’uomo ritratto in primo piano nell’angolo della scena (e non al Dante svenuto al termine del racconto59), e, in maniera assai più elegante, il ms. Milano, Biblioteca Trivulziana, Triv. 1076 (c. 13r; cfr. Tavola 4), che ritrae a sua volta i due amanti in abiti cortesi, secondo i dettami della moda tardo-trecentesca, ma soprattutto dà spazio a un dettaglio iconografico di grande pregnanza semantica: nella mano destra, Paolo stringe un libricino di pregio, simbolo evidente della lettura peccaminosa che ha condotto i due amanti all’Inferno, rara (diremmo unica) testimonianza visiva esplicita, nella tradizione illustrata più antica della Commedia dantesca, del richiamo, dietro il racconto di Francesca, alla storia del bacio di Lancillotto e Ginevra, letta appunto sulle pagine di un libro-Galeotto. Se il ritratto di Paolo e Francesca offerto dal dantesco Triv. 1076 è davvero molto vicino alle raffigurazioni di uomini e donne cortesi rintracciaIbidem, p. 105. Cfr. Renzi, Le conseguenze di un bacio, cit., p. 196. 59 Di questo parere già Pittiglio, Le immagini della «Divina Commedia», cit., p. 101, che riporta il dettaglio all’attenzione. Un accenno alla possibilità che si tratti invece del Dante svenuto al termine del racconto di Francesca in Ponchia, La «Commedia» dantesca figurata della Biblioteca Marciana, cit., p. 38. 57 58 Tracce romanze nella tradizione miniata della Commedia 137 bili in manoscritti illustrati di altre tradizioni – sarebbe, per es., assai arduo distinguere, per abiti, accessori e acconciature, le figure dei due amanti riminesi qui ritratti dalla coppia della splendida miniatura del Tacuinum Sanitatis tradito dal ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Nouv. acq. lat. 1673 –, contatti ancor più evidenti con la tradizione illustrata di altri testi, e con quella dei romanzi cavallereschi in particolare, mostra la miniatura che, sempre sullo stesso codice dantesco, raffigura le anime di donne e uomini lussuriosi così come menzionate nella prima parte del canto V (c. 12v; cfr. Tavola 5): si osservi come le elegantissime figure, nell’ordine, di Semiramide, Didone, Cleopatra, Elena, Achille, Tristano e Paride, siano qui calate in uno scenario affatto infernale, che, più che alludere a un quadro di punizione eterna, pare ritrarre una schiera di dame raffinate e guerrieri prestanti di tutt’altro contesto. A partire da tale vicinanza di motivi, indizio forte di una spiccata familiarità dell’artista attivo sulle carte della Commedia Triv. 1076 con l’illustrazione di altri testi, ho potuto verificare che a questi, forse da identificare con il cosiddetto “Maestro del De natura deorum”60, la critica riconosce una certa vicinanza ai modelli della bottega di Giovannino de’ Grassi61 – si guardi in particolare alle illustrazioni realizzate su due carte contigue del taccuino di modelli segnato Bergamo, Biblioteca Civica, ms. Cassaf. 1 21 (cc. 3v-4r)62 – ma anche alle opere dei cosiddetti Maestro del Guiron63 e Maestro del Lancelot64 – dei quali occorre citare, per qualche confronto stringente con le miniature della Commedia Triv. 1076, almeno il Lancelot tràdito dal ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Fr. 343 e il Guiron le Courtois del ms. Paris, Bibliothèque nationale de France, Nouv. acq. fr. 524365. L’insieme dei prodotti librari appena Cfr. M. Bollati, Maestro del De natura Deorum, in Dizionario biografico dei miniatori italiani. Secoli IX-XVI, a cura di M. Bollati, Milano, Sylvestre Bonnard, 2004, pp. 507-508 e bibliografia ivi indicata. 61 Cfr. Ead., Giovannino de Grassi, ibidem, pp. 318-321 e relativa bibliografia. 62 Il taccuino è oggi digitalizzato all’indirizzo: https://www.bdl.servizirl.it/vufind/Record/BDL-OGGETTO-2411 [ultima consultazione: settembre 2022]. 63 Cfr. F. Moly, Maestro del Guiron, in Dizionario biografico dei miniatori italiani, cit., pp. 516-517 e relativa bibliografia. 64 Cfr. Ead., Maestro del Lancelot, ibidem, pp. 542-543, con bibliografia. È assai probabile, ad infittire le corrispondenze stilistiche, che tale maestro abbia preso parte anche all’allestimento del Tacuinum Sanitatis sopra menzionato (BnF, Nouv acq. lat. 1673). 65 Sulla tradizione illustrata dei romanzi arturiani, si veda ora il più recente I. Molteni, 60 138 Alessandra Forte richiamati riporta alla miniatura lombarda della fine Trecento o dei primi anni del Quattrocento, cui afferisce lo stesso dantesco Triv. 1076. È tra le opere di questi maestri che con ogni probabilità si celano dunque i modelli che sottesero alla peculiare rappresentazione delle anime dei lussuriosi offerta da Triv. 1076, figurazione che mi pare essere, tra le molte circostanze finora osservate, la traccia più significativa di un contatto tangibile tra le tradizioni illustrate dantesca e romanza, e dell’effettiva incursione, tra le carte ornate della Commedia, di personaggi cortesi, dame e cavalieri che, senza mutare d’abito, si prestano a recitare storie e vicende di nuovi eroi e nuove eroine. I romanzi arturiani in Italia. Tradizioni narrative, strategie delle immagini, geografia artistica, Roma, Viella, 2020. Tavole Tavole 141 1. Napoli, Biblioteca Nazionale “Vittorio Emanuele III”, XIII.C.4, c. 24r: Incontro con Bertran de Born (Inf. XXVIII). 142 Tavole 2. Napoli, Biblioteca Oratoriana dei Girolamini, CF 2.16, c. 149r: Incontro con Arnaut Daniel (Purg. XXVI). Tavole 143 3. Napoli, Biblioteca Oratoriana dei Girolamini, CF 2.16, c. 147v: Incontro con Arnaut Daniel e Guido Guinizzelli (Purg. XXVI). 144 Tavole 4. Milano, Biblioteca Trivulziana, 1076, c. 13r: Incontro con Paolo e Francesca (Inf. V). Tavole 145 5. Milano, Biblioteca Trivulziana, 1076, c. 12v: Incontro con le anime dei lussuriosi (Inf. V). Referenze fotografiche La Tavola 1 è riprodotta su concessione del Ministero della Cultura © Biblioteca Nazionale di Napoli. Le Tavole 2 e 3 sono riprodotte su concessione del Ministero della Cultura - Biblioteca e Complesso monumentale dei Girolamini. Le Tavole 4 e 5 sono riprodotte su concessione dell’Archivio Storico Civico e Biblioteca Trivulziana. Indice dei nomi Abardo, Rudy: 91 Abati, Bocca degli: 126 Achille: 137 Achitofel: 38 Adini, Giulia: 127 Agostino d’Ippona, Aurelio, santo: 23, 24, 26 Aimeric de Belenoi: 29, 108 Aimeric de Peguilhan: 39-42, 85, 108 Albanese, Gabriella: 89 Albertet de Sisteron: 118 Alberti, Alessandro degli: 38 Alberti, Orso degli: 38 Alberto I d’Asburgo, duca d’Austria: 42 Alberto Magno: 23 Alfonso II d’Aragona: 52 Alighieri, Iacopo: 91, 100-101 Alighieri, Pietro: 100 Allegretti, Paola: 11, 86 Allegri, Laura: 76 Allegrini, Vincenzo: 124 Amico dell’Ottimo: 95, 100 Andrea Cappellano: 23 Andreoni, Annalisa: 123 Angiolello da Carignano: 37 Anonimo fiorentino: 91, 92, 94, 98, 100, 103 Antonelli, Armando: 76 Antonelli, Roberto: 8, 35, 40, 46, 51, 59, 60, 64, 69, 80 Aristotele: 22 Arnaut Daniel: 9, 29, 32, 36-38, 41, 4549, 52-58, 61, 62, 64, 72, 78-80, 82, 84, 108, 121, 131-133, 142, 143 Arnaut de Maruelh: 47, 48 Arqués Corominas, Rossend: 123, 126 Artù: 11, 13, 90, 91, 96, 97, 99-101, 125 Asperti, Stefano: 37, 76 Assalonne: 38 Avalle, D’Arco Silvio: 73 Azzetta, Luca: 89, 95, 127 Bähler, Ursula: 14 Balbarini, Chiara: 134 Baldi, Camilla: 122 Bambaglioli, Graziolo: 100 Bampa, Alessandro: 40, 64, 65 Ban di Benoïc: 96 Barachini, Giorgio: 39 Barbieri, Giovanni Maria: 86 Barbieri, Luca: 113, 115, 116 Barolini, Teodolinda: 23, 24, 35, 38, 45, 51, 57, 60 Bartsch, Karl: 72, 80 Battaglia Ricci, Lucia: 122, 125, 126, 129, 134 150 Indice dei nomi Battagliola, Davide: 115 Battistini, Lorenzo: 59 Beaumanoir, Philippe de: 14 Bellomo, Saverio: 101 Beltrami, Pietro Giovanni: 37, 46, 62, 76 Benincasa da Laterina: 38 Benvenuto da Imola: 95, 100, 102 Bernardo di Chiaravalle, santo: 26 Bernart Amoros: 86 Bernart de Ventadorn: 14, 27, 28, 77, 78 Béroul: 91 Bertelli, Sandro: 125, 127 Bertolucci Pizzorusso, Valeria: 37, 62, 82 Bertoni, Giulio: 73 Bertran de Born: 29, 35-38, 41, 42, 46, 49, 62-64, 80-84, 119, 121, 122, 124, 125, 129, 131, 141 Bisceglia, Margherita: 112, 113 Blacatz: 44, 45, 82 Blasucci, Luigi: 46 Boccaccio, Giovanni: 22, 91, 92, 94, 97, 100, 102 Boccardo, Giovanni Battista: 92 Boezio, Anicio Manlio Torquato Severino: 21, 24 Bollati, Milvia: 127, 137 Bologna, Corrado: 33, 90 Bolzoni, Lina: 122 Bonagiunta Orbicciani: 31, 32, 36, 57-59, 61, 133 Boni, Marco: 41 Borsa, Paolo: 65 Boschi Rotiroti, Marisa: 123, 124, 133 Bosco, Umberto: 10, 89 Bostoli, Fumaiolo di Alberto dei: 38 Boutière, Jean: 78, 83 Boyde, Patrick: 11 Branca, Vittore: 91 Branca Delcorno, Daniela: 10, 89, 100, 125 Brangania: 98 Brieger, Peter: 130 Brosse, Pierre de la: 38 Brugnolo, Furio: 11 Brunetti, Giuseppina: 12, 18, 76, 89, 95 Bruni, Francesco: 21 Buondelmonti, Buondelmonte dei: 37 Buvalelli, Rambertino: 75 Cachey, Theodore Joseph Jr.: 37 Cadioli, Luca: 17 Calculli, Sara: 7 Camino, Rizzardo da: 66 Cañas Murillo, Jesús: 94 Canettieri, Paolo: 18, 36, 37, 42, 47, 112 Canova Mariani, Giordana: 122, 130, 132 Cantalupi, Cecilia: 80 Capusso, Maria Grazia: 37, 62, 76 Careri, Maria: 72, 77, 87 Carlo I d’Angiò: 45 Carlo II d’Angiò: 45 Carlo Magno: 61, 135 Carlo Martello: 48, 130 Carrai, Stefano: 8 Casadei, Alberto: 11 Cavalcanti (famiglia): 62 Cavalcanti, Guido: 15, 23, 25-29, 31-33, 58, 59, 108, 109 Celotto, Vittorio: 98 Cesare, Caio Giulio: 37 Chardon de Croisilles: 116 Châtelain de Coucy: 110, 115, 116 Chiamenti, Massimiliano: 80 Chiarini, Giorgio: 81 Chiavacci Leonardi, Annamaria: 52, 66, 68 Chrétien de Troyes: 27, 90 Ciampolo di Navarra: 111 Ciccuto, Marcello: 123, 127 Cicerone, Marco Tullio: 21, 22, 24, 26 Cieri Via, Claudia: 126, 131 Cigni, Fabrizio: 9, 12, 37, 62, 76, 93 Cino da Pistoia: 29, 59, 108, 113 Cioffari, Vincenzo: 94 Claudas de la Terre Deserte: 97 Clemente V, papa: 37 Cleopatra: 137 Indice dei nomi Collareta, Marco: 122 Comisso, Irene: 12 Conon de Béthune: 116 Contini, Gianfranco: 23, 35, 45, 82 Corbellari, Alain: 11 Cottignoli, Alfredo: 53 Creazzo, Eliana: 90 Crépin, André: 89 Cuesta Torre, Maria Luzdivina: 93 Curione, Gaio Scribonio: 37 David, re d’Israele: 38 De Lollis, Cesare: 72 De Robertis, Domenico: 19, 24 De Santis, Silvia: 36, 115 De Simone, Sara: 124 Debenedetti, Santorre: 71 Delcourt, Thierry: 14 Dell’Oso, Lorenzo: 7 Delmay, Bernard: 35 Demofonte: 49 Di Girolamo, Costanzo: 18 Di Sabatino, Luca: 7 Dietaiuti, Bondie: 28, 78 Didone: 49, 53, 137 Dolcino, frate: 37 Domenichelli, Teofilo: 98 Domenico di Guzmán, santo: 61 Domini, Donatino: 53 Donà, Carlo: 90 Donati, Forese: 31 Draskóczy, Eszter: 126 Enea: 49, 53 Enrico I, re di Navarra: 44 Enrico II Plantageneto, re d’Inghilterra: 38 Enrico III Plantageneto, re d’Inghilterra: 44 Enrico Plantageneto, detto il Re Giovane: 84 Ercole: 49 Esposito, Sara: 125 Fanfani, Pietro: 92 Federico II di Svevia, imperatore: 44 151 Federico III di Sicilia: 45 Fenzi, Enrico: 35, 51, 59, 79, 86, 106 Ferdinando III, re di Castiglia: 44 Ferrante, Gennaro: 124 Ferrara, Sabrina: 126 Filippi, Rustico: 64 Filippo II Augusto, re di Francia: 63, 83 Filippo III l’Ardito, re di Francia: 38, 44 Filippo IV il Bello, re di Francia: 44 Filippo di Brabante: 38 Fillide: 49 Folena, Gianfranco: 35, 38, 46, 75 Folquet de Marselha: 29, 30, 32, 35, 36, 48, 49, 52-58, 61-63, 65-69, 108, 121, 129-131, 136 Formisano, Luciano: 35, 51, 52, 78, 79, 87, 105-107, 111, 112, 114, 115, 119 Forte, Alessandra: 7, 123, 124, 127, 128, 133 Fortunato, Federica: 12 Foster, Kenelm: 11 Franceschini, Fabrizio: 89, 98, 101, 123 Francesco da Buti: 92, 94, 98, 100, 102, 130 Frontino, Sesto Giulio: 114 Gace Brulé: 29, 108, 110, 115, 116, 118 Galehaut le Brun: 96, 102 Gardner, Edmund Garratt: 10 Gargan, Luciano: 114, 118 Garin, Eugenio: 19 Gensini, Niccolò: 7, 16 Geremia, profeta: 19 Geri del Bello: 125 Geymonat, Francesca: 123 Gherardesca, Ugolino della: 38, 126 Ghiberti, Carnino: 86 Ghino di Tacco: 38 Giacomino Pugliese: 18 Giacomo, apostolo: 32 Giacomo I, re d’Aragona: 44 Giacomo I di Sicilia: 45 Giacomo da Lentini: 23, 28, 31, 59, 109 152 Indice dei nomi Giannini, Crescentino: 92 Gigante, Claudio: 60 Giglio, Antonella: 124 Giovanni, apostolo: 32 Giovanni (Bertoldi) da Serravalle: 98, 100, 123 Giraut de Bornelh: 29, 32, 45, 56-58, 61, 78, 107, 108 Giunta, Claudio: 11, 46, 58, 107, 110, 123 Goffredo di Buglione: 61, 135 Gomita, frate: 112 Gorni, Guglielmo: 24, 107, 108 Gouiran, Gérard: 63, 81 Gragnolati, Manuele: 11 Grande Quejigo, Francisco Xavier: 94 Grassi, Giovannino de’: 137 Gresti, Paolo: 47, 87 Grifo, Antonio: 135 Grimaldi, Marco: 11, 109 Gröber, Gustav: 72, 73 Gruppioni, Giorgio: 53 Guglielmo VII, marchese di Monferrato: 45 Guglielmo IX, duca d’Aquitania: 40 Guida, Saverio: 106 Guida di Rodez: 43 Guido da Pisa: 94, 100, 102 Guido del Cassero: 37 Guido delle Colonne: 108 Guilhem de Berguedà: 84 Guinizelli, Guido: 28-32, 36, 45, 46, 49, 53-59, 61, 64, 65, 75, 107, 108, 120, 132133, 143 Guiraut Riquier: 29 Guiron le Courtois: 96 Guittone d’Arezzo: 24, 29, 31, 32, 56, 5859, 61, 64, 65, 106, 109, 110, 118, 119 Güntert, Georges: 46, 119 Haupt, Hans: 123 Hilty, Gerold: 10 Hugues de Berzé: 116 Hult, David: 100 Iacobucci, Renzo: 127 Iacomo della Lana: 96, 98, 100, 101, 111 Iannucci, Amilcare: 22 Ilario, papa: 92 Indizio, Giuseppe: 114 Infurna, Marco: 90 Inghilfredi da Lucca: 64, 80 Ippolito, Antonella: 123 Italia, Sebastiano: 59 Jacob-Hugon, Christine: 14 Jaufre Rudel: 46 Jehan de Braine, conte di Mâcon: 116 Jofre de Foixà: 85 John, Robert Ludwig: 72 Kennedy, Elspeth: 97 Laborderie, Noëlle: 14 Lacaita, Giacomo Filippo: 95 Lachin, Giosuè: 80 Lagomarsini, Claudio: 95 Lalomia, Gaetano: 90 Lamberti, Mosca dei: 37 Lancia, Andrea: 95, 98, 100 Landino, Cristoforo: 91, 92, 94, 99, 103 Lannutti, Maria Sofia: 79, 85 Lanza, Antonio: 35, 51, 89 Latella, Fortunata: 106 Latini, Brunetto: 22, 28, 41 Ledda, Giuseppe: 22, 53 León Gómez, Magdalena: 106 Leonardi, Lino: 73, 132 Livio, Tito: 114 Livraghi, Leyla Maria Gabriella: 123 Lo Monaco, Francesco: 76 Lot d’Orcanie: 99 Lovati, Lovato de’: 114 Lucano, Marco Anneo: 21, 24 Luigi IX, re di Francia, santo: 44 Luigi XII, re di Francia: 135 Lund-Mead, Carolynn: 22 Indice dei nomi Maddalo, Silvia: 124, 127, 135 Maestro del De natura deorum: 137 Maestro del Guiron: 137 Maestro del Lancelot: 137 Mahieu le Juif: 116, 118 Malatesta, Giovanni (Gianciotto): 136 Malatesta, Malatestino: 37 Malatesta, Paolo: 90, 134-136, 144 Malatestino da Verucchio: 37 Malato, Enrico: 11, 59, 123, 135 Malehaut, dama di: 11, 12, 90, 95, 9799, 102 Manetti, Roberta: 84 Manganaro, Andrea: 90 Maometto: 37 Marcellino da Civezza: 98 Marchi, Gian Paolo: 126 Marcon, Susy: 124 Marcozzi, Luca: 135 Maria di Brabante: 38 Marti, Mario: 35 Martino Polono: 91, 92, 102 Martire, Giulio: 76, 77 Mazzanti, Francesca: 127 Mazzucchi, Andrea: 59, 100, 105, 123, 124, 127, 131, 135 Meiss, Millard: 130 Meliadus: 91, 101 Meliga, Walter: 37, 62, 83 Ménard, Philippe: 92, 93 Meneghetti, Maria Luisa: 82, 84, 122, 130, 132, 135 Mengaldo, Pier Vincenzo: 17, 45 Mercuri, Roberto: 43, 58, 69 Mesirca, Margherita: 37 Micha, Alexandre: 96, 97, 99 Migliorini, Bruno: 17 Milano, Ernesto: 123 Molina Figueras, Joan: 127 Molteni, Ilaria: 137 Moly, Florence: 137 Monaco di Montaudon: 47 Monte Andrea: 64, 82 153 Monteverdi, Angelo: 46 Montuori, Francesco: 35, 51, 79, 106 Nadal, Giovanni Girolamo: 47 Nocita, Teresa: 106 Nolhac, Pierre de: 71 Noto, Giuseppe: 24 Novello, Alessandro: 67, 130 Oderisi da Gubbio: 61 Omero: 21 Orazio, Quinto Flacco: 21, 23-25 Orlandi, Guido: 15, 109 Orlando: 61, 135 Orlando, Sandro: 76 Orosio, Paolo: 144 Ossola, Carlo: 35, 38 Ottocaro II, re di Boemia: 44 Ovidio, Publio Nasone: 21, 23-25 Pacca, Vinicio: 112 Padoan, Giorgio: 91 Pakscher, Arthur: 71, 72 Pál, József: 126 Pallamidesse di Bellindote: 15, 82 Palumbo, Giovanni: 9 Panicara, Vittorio: 119 Panno-Pecoraro, Dario: 124 Paradisi, Gioia: 10 Paride: 137 Pasquini, Emilio: 18 Pasquini, Laura: 125 Pasut, Francesca: 124 Pazzi, Camicion de’: 125 Pedrini, Riccardo: 76 Pegoretti, Anna: 123, 124 Peire d’Alvernha: 29, 79-81 Peire Vidal: 84 Perna, Ciro: 95, 127 Perriccioli Saggese, Alessandra: 127, 132 Persico, Thomas: 106 Pertz, Georg Heinrich: 92 Perugi, Maurizio: 38, 84 154 Indice dei nomi Petoletti, Marco: 129 Pézard, André: 11 Pfeffer, Wendy: 86 Picone, Michelangelo: 14, 35, 37, 45, 46, 48, 51, 52, 57, 78, 83, 89, 90, 111, 112, 119 Pier da Medicina: 37 Pier della Vigna: 36 Pierre de Molins: 110, 116, 118 Pietro, apostolo: 32, 68 Pietro III, re d’Aragona: 45 Pirovano, Donato: 11, 46, 58, 109, 120 Pittiglio, Gianni: 123, 131, 136 Plinio: 114 Polenta, Francesca da: 12, 30, 34, 90, 134136, 144 Polenta, Guido da: 37 Polidori, Filippo Luigi: 15, 93 Pomaro, Gabriella: 124 Pompeo, Gneo Magno: 37 Ponceau, Jean-Paul: 15, 100 Ponchia, Chiara: 123, 124, 127, 136 Pons de Mataplana: 84 Pontari, Paolo: 89 Porta, Giuseppe: 89, 94 Premi, Nicolò: 80 Procaccioli, Paolo: 92 Pulsoni, Carlo: 71 Puma, Giulia: 126 Punzi, Arianna: 10, 40, 63, 90 Raab: 49, 67, 68, 129 Raimbaut d’Aurenga: 27, 28, 79 Raimbaut de Vaqueiras: 110 Raimon de Tolosa: 52 Raimondo VII, conte di Tolosa: 44 Raimondo Berengario I, conte di Provenza: 44 Rajna, Pio: 10, 13, 14, 86 Rea, Roberto: 40, 53, 59, 64, 65 Renzi, Lorenzo: 89, 134-136 Resconi, Stefano: 62, 80, 115 Riccardo I Plantageneto (Cuor di Leone), re d’Inghilterra: 52, 63, 83, 117, 118 Rigaut de Berbezilh: 76, 84 Rigo, Paolo: 7 Rinoldi, Paolo: 9 Rodolfo I d’Asburgo, imperatore: 44 Romano, Cunizza da: 48, 49, 55, 56, 62, 65, 66, 68, 130 Roncaglia, Aurelio: 45 Roso Díaz, José: 94 Rossi, Federico: 10 Rossi, Luca Carlo: 11, 76, 96 Rossi, Luciano: 14 Rotili, Mario: 124, 133 Russo, Emilio: 60 Rustichello da Pisa: 93, 97 Rutebeuf: 111, 113 Sandal, Ennio: 126 Santagata, Marco: 107, 108, 110-112, 120, 123, 124 Santangelo, Salvatore: 73, 114 Santini, Giovanna: 40, 64, 65 Savino, Giancarlo: 131 Scaffai, Niccolò: 76 Scala, Bartolomeo I della: 114 Scala, Cangrande della: 66 Schizzerotto, Giancarlo: 87 Schutz, Alexander Herman: 78, 83 Schwan, Eduard: 115 Scornigiani, Gano di Marzucco degli: 38 Scornigiani, Marzucco degli: 38 Segre, Cesare: 71 Selmi, Francesco: 96 Seriacopi, Massimo: 96 Singleton, Charles Southward: 130 Solimine, Marina: 125 Sordello da Goito: 36, 38-45, 49, 51, 6063, 79, 82, 121, 126, 128, 129, 131 Spadotto, Marina: 127 Spetia, Lucilla: 106, 112, 116 Spiewok, Wolfgang: 89 Squillacioti, Paolo: 48, 52, 63 Stazio, Publio Papinio: 8, 24, 30, 133 Stefanelli, Diego: 72 Indice dei nomi Stierle, Karlheinz: 90 Stoltz, Barbara: 127 Suitner, Franco: 35, 51, 52, 54, 61 Tanganelli, Maria Luisa: 130 Tarlati di Pietramala, Guccio dei: 38 Tavoni, Mirko: 60, 74, 75, 79, 105, 107, 114, 123 Thibaut II, re di Navarra: 112 Thibaut IV, conte di Champagne, I re di Navarra: 29, 44, 86, 87, 105-113, 115120 Thomas: 91 Toja, Gianluigi: 48, 54, 57 Tolomeo, Claudio: 22 Tomaso da Faenza: 82 Tonelli, Natascia: 11 Toniolo, Federica: 124 Trovato, Lorenzo: 7 Tyssens, Madeleine: 37, 62, 83 Ubaldini, Ruggieri degli: 126 Uc de Saint Circ: 41 155 Vatteroni, Sergio: 37, 62, 76 Venceslao II, re di Boemia: 44 Vernon, William Warren: 95, 99 Viel, Riccardo: 9, 16-19, 87, 106, 107, 110, 111, 115, 118, 119 Vilella, Eduard: 62 Villani, Giovanni: 22 Virgilio, Publio Marone: 24, 30-32, 41-44, 52, 60, 61, 126, 128, 135 Visalli, Samuele Maria: 112 Viscardi, Antonio: 10 Vitale, Vincenzo: 127 Vitale Brovarone, Alessandro: 9 Volpi, Mirko: 96, 101 Wallensköld, Axel: 108, 110, 119 Weiland, Ludwig: 92 Winand, Véronique: 93 Zaggia, Massimo: 87 Zambon, Francesco: 90 Zanni, Raffaella: 74 Zinelli, Fabio: 73 Indice dei manoscritti Altona Schulbibliothek des Christianeums N.2 Aa 5/7: 123, 126, 128, 131, 134 Barcelona Biblioteca de Catalunya 3871: 85 Bergamo Biblioteca Civica Angelo Mai Cassaf. 1 21: 137 Berlin Staatsbibliothek Lat. folio 437: 80, 81 Phillipps 1910: 80 Bern Burgerbibliothek 389: 109, 115 Budapest Egyetemi Könyvtár Cod. Ital. 1: 126, 128 Chantilly Bibliothèque et Archives du Musée Condé 470: 76 597: 134 647: 93 Città del Vaticano Biblioteca Apostolica Vaticana Barb. lat. 4087: 81 Chig. L. IV. 106: 81, 82 Pal. lat. 750: 87 Pal. lat. 14740: 93 Reg. lat. 1490: 119 Urb. lat. 365: 126, 128, 131 Vat. lat. 3195: 71 Vat. lat. 3207: 71, 77 Vat. lat. 4776: 124, 134 Vat. lat. 5232: 72, 80, 130 Firenze Biblioteca Medicea Laurenziana Plut. 40 01: 127-129 Plut. 41 42: 39, 76, 78, 114, 117 Plut. 41 43: 73, 78 Plut. 90 inf. 26: 84 Strozzi 152: 125, 127, 128, 131, 134 158 Indice dei manoscritti Biblioteca Nazionale Centrale Banco Rari 39: 130 Banco Rari 217: 132 Biblioteca Oratoriana dei Girolamini CF 2.16: 123, 131, 142, 143 Biblioteca Riccardiana 2909: 73 New York Pierpont Morgan Library M676: 127-129, 131, 134 M819: 130 Grenoble Bibliothèque Civique 580: 80, 81 London British Library Add. 5474: 93 Add. 19587: 124, 127, 128, 133, 134 Egerton 943: 123, 126, 128, 131 Yates Thompson 36: 127-129, 131, 134 Madrid Biblioteca Nacional de España 10057: 123, 126, 128 Milano Biblioteca Trivulziana 1076: 136-138, 144, 145 1088: 80, 81 Modena Biblioteca Estense Universitaria α.R.4.4: 72, 81, 116, 117 α.R.4.8: 123, 126, 128, 131 γ.N.8.4.11-13: 84 α.T.3.11: 93 Napoli Biblioteca Nazionale ‘Vittorio Emanuele III’ XIII.C.4: 124, 141 Oxford Bodleian Library Douce 269: 76, 119 Holkham misc. 48: 125, 128, 129, 131 Padova Biblioteca del Seminario Vescovile 67: 127-129 Paris Bibliothèque de l’Arsenal 5198: 109, 115, 116 8530: 133, 134 Bibliothèque nationale de France Nouv. acq. lat. 1673: 137 Fr. 97: 93 Fr. 99: 93, 94 Fr. 101: 93 Fr. 103: 93 Fr. 104: 93 Fr. 336: 93 Fr. 343: 137 Fr. 757: 14, 15, 93 Fr. 760: 93, 94 Fr. 772: 93 Fr. 844: 109, 115, 119 Fr. 845: 109, 115, 116 Fr. 846: 109, 115, 116 Fr. 847: 116, 117 Indice dei manoscritti Fr 854: 72, 80-82, 122, 130, 132-133 Fr. 1591: 109, 115, 119 Fr. 1592: 80 Fr. 1628: 93 Fr. 1749: 80 Fr. 12472: 117 Fr. 12473: 80-82, 122, 130 Fr. 12474: 81 Fr. 12581: 109, 115 Fr. 12599: 93 Fr. 12615: 109, 115, 119 Fr. 15211: 84, 85 Fr. 22543: 80 Fr. 24400: 93 Fr. 24406: 109, 115, 116 Nouv. acq. fr. 1050: 109, 115, 116 Nouv. acq. fr. 5243: 137 Nouv. acq. fr. 7516: 76, 87 It. 74: 124, 126 Siena Biblioteca comunale degli Intronati H. X. 36: 109, 115, 119 Torino Biblioteca Nazionale Universitaria L.III.17: 134 Venezia Biblioteca Nazionale Marciana It. IX. 276: 124, 128, 129, 131 Zagreb Nacionalna i Sveučilišna Knjižnica MR 92: 106, 115-118, 120 159 Finito di stampare nel mese di maggio 2023 per i tipi di Fondazione Bologna University Press