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Translationes, Vol 14 /2022, Issue 1/2023 TRANSLATIONES Vol 14/2022, Pages 63-84 Issue 1/2023 10.2478/tran-2022-0004 “Fratelli dei cani”: interferenze autobiografiche e autodiegetiche dell’incipit dell’Orestiade di Pier Paolo Pasolini Salvatore Francesco LATTARULO Università “Aldo Moro” di Bari Italia salvatore.lattarulo@uniba.it https://orcid.org/0009-0000-7834-2279 Riassunto: A partire dall’esame di un testo a margine come la Lettera del traduttore, l’articolo analizza la traduzione di Pier Paolo Pasolini del prologo dell’Agamennone di Eschilo. Il saggio approfondisce l’immagine centrale della Lettera: il paragone tra il traduttore e un cane che spolpa un osso. Questo accostamento allude al metodo usato dal traslatore, che si fonda su un approccio istintivo al testo, simile a quello di una bestia. Io penso che tale figura retorica sia stata suggerita a Pasolini dalla figura della vedetta di guardia sul tetto del palazzo degli Atridi, la cui solitaria veglia notturna è accostata alla derelitta condizione di un cane. Pasolini trova nell’associazione tra uomo e cane fatta da Eschilo all’inizio della sua trilogia (Orestea) una formula espressiva assai congeniale alle sue corde. Tale analogia, infatti, è adoperata in diversi punti della sua intera produzione di scrittore per indicare l’emarginazione dell’intellettuale. L’immediata vicinanza che il poeta contemporaneo avverte con il mondo canino implica un’inconscia immedesimazione del traduttore nel disagio del personaggio eschileo. Questa compenetrazione tra sfera umana e sfera animale spiegherebbe il taglio libero e personale di alcune scelte interpretative del monologo introduttivo della tragedia greca; e renderebbe ragione del perché Pasolini intendesse riutilizzare il prologo dell’Agamennone da lui tradotto in un capitolo del romanzo postumo Petrolio. Abstract: (“Fratelli dei cani”: Autobiographical and autodiegetic interferences of the incipit of Pier Paolo Pasolini’s Orestiade) Starting from the examination of a marginal text like Letter of the translator, this article analyzes Pier Paolo Pasolini’s translation of the prologue to Aeschylus’ Agamemnon. The paper delves into the central image of Pasolini’s Letter: the comparison between the translator and a dog picking a bone. This juxtaposition alludes to the method used by the translator, which is based on an instinctive approach to the text, similar to that of a beast. I think that this rhetorical figure was suggested to Pasolini by the figure of the lookout on the roof of Atrides’ royal palace; his solitary nocturnal vigil is compared to the derelict condition of a dog. In the association between man and dog made by Aeschylus at the beginning of his trilogy (Orestea), Pasolini finds an expressive way very congenial to himself. In fact, this analogy is used in many points of his entire production as a writer to indicate the marginalization of the intellectual. The immediate proximity that the contemporary poet feels to the canine world implies an unconscious identification of the translator with the hardships of the Aeschylean character. This direct relationship between the human sphere and the animal sphere would explain the free and personal aspect of some interpretative choices about the introductory monologue of the Greek tragedy. It would also explain why Pasolini intended to reuse the prologue of Agamemnon, which he translated into a chapter of the posthumous novel entitled Petrolio. 63 © Author 2022. This is an open access article licensed under the Creative Commons AttributionNonCommercial-NoDerivsLicense (http://creativecommons.org/licenses/by-nc-nd/3.0/). Parole chiave: Lettera del traduttore, testo a margine, metodo dell’istinto, prologo, Orestiade, analogia uomo-cane, auto-immedesimazione, interferenze autobiografiche e autodiegetiche. Keywords: Letter of the translator, marginal text, instinct method, prologue, Orestiade, man-dog analogy, self identification, autobiographical and autodiegetic interferences. Ah, lo so che le cagne, con il loro latrato, ridestano ignare il Dio dimenticato Pier Paolo Pasolini, Récit (da Le ceneri di Gramsci) 1. Una recente pubblicazione miscellanea curata da Francesco Fava ed Edoardo Zuccato (2022), per il numero inaugurale dei “Quaderni della Società italiana di Traduttologia” mette l’accento sugli aspetti a margine della traduzione, para-testi o ipo-testi, che fanno da cornice e da sfondo al lavoro di chi trasferisce un’opera letteraria in un’altra lingua. Tra questi materiali di contorno, in una parola “autocommenti” (Picconi, 2012: 133), uno spazio di riflessione meritano senz’altro le considerazioni sulle modalità e le finalità alla base del proprio agire che talvolta il traduttore affida a uno scritto di accompagnamento, in genere in sede prefatoria o postfatoria, al prodotto finito: “La nota del traduttore, sebbene progressivamente decurtata di ampiezza e prestigio, può costituire ancora una dimensione liminale attraverso cui ascoltare la voce personale di chi traduce, con le sue scelte e le sue esitazioni”. (Torcello, 2022: 11) In tale quadro si inscrive a pieno un documento emblematico quale la Lettera del traduttore ovvero Nota del traduttore che Pier Paolo Pasolini compilò in aggiunta alla resa in italiano dell’Orestiade di Eschilo. Si osservi innanzi tutto che questa dichiarazione di intenti del poeta traslatore si unisce alla restituzione in italiano della trilogia del tragico eleusino sin dall’edizione einaudiana, per il secondo dei “Quaderni del Teatro Popolare Italiano”, 1 coeva e concorrente della 1 Il volume acclude anche la Lettera del traduttore di Pasolini, il saggio Eschilo e l’ «Orestiade» di George Thomson, gli Appunti alla regia di Vittorio Gassman, gli Appunti alle scene di Teo Otto, la Corrispondenza Thomson-Lucignani, gli scritti Retorica e antichità di Ranuccio Bianchi Bandinelli, Teatro e scenografia al tempo di Eschilo, Testi e documenti sul teatro popolare in Europa e in America di Luciano Lucignani, e la nota Recitazione e regia di Constantin Stanislavskij. 64 princeps urbinate del 1960, 1 a sancire la sua natura di parte essenziale e integrale del lavoro maggiore, pur nella sua apparente e relativa lateralità. Anche la prima delle due intitolazioni (Lettera del traduttore), riportata in entrambi gli imprimatur einaudiani (Eschilo 1960 e 1985), più pregnante rispetto all’asetticità dell’altra (Nota del traduttore), attestata in un fascicolo speciale (9/10 del 10 giugno 1960) del “Notiziario quindicinale” del TPI (cfr. Siti-De Laude in Pasolini, 2001: 1221), dice implicitamente della volontà dell’autore di istituire un dialogo a distanza, una comunicazione ideale con i suoi nuovi lettori-spettatori, nonché con certi settori agguerriti di critici e studiosi, attraverso cui dare conto di una trasposizione attualizzante del greco antico che ha un avanguardistico e audace piglio eretico e corsaro, per riprendere due aggettivi che ormai quasi proverbialmente connotano il suo ben noto profilo dirompente e anticonformista. Il carattere spiccatamente originale della sua proposta aggetta, se si vuole, già dalla ‘soglia’, e cioè a partire dall’intestazione Orestiade che, come il poeta di sangue friulano spiega in alcune righe della Lettera del traduttore 2 conservate nella minuta dattiloscritta, ma poi espunte nella copia a stampa, rivede la vecchia dicitura “Orestea, come dicevano i romantici” (Pasolini, 2oo1: 1221), suggerendo al contempo una circonlocuzione alternativa più al passo con i tempi (“o Le tragedie di Oreste, come si potrebbe, più scioltamente, chiamare oggi la trilogia”, 1221). Già solo questa variante in limine si attira i precocissimi strali di un classicista di vaglia come Ettore Paratore che così inflessibilmente la bacchetta, in omaggio a una consolidata tradizione onomastica di cui si eleva a irreprensibile custode: “Orestea e non Orestiade, come con poco felice fedeltà a una vecchia forma di traduzione del titolo si è annunciata la trilogia nei manifesti e nel frontespizio della versione pasoliniana” (1960: 78). L’eccessiva tempestività di questa peraltro pignola stilettata nominalistica di un nostalgico purista della lingua che sembra bocciare in partenza l’ultima fatica di Pasolini corrobora il sospetto di una fetta del mondo accademico prevenuta e diffidente nei confronti di un parvenu dell’antichistica. 1 Sulla rivalità, sfociata in vertenza giuridica, che si instaura tra la simultanea uscita per il marchio torinese e quella curata dall’INDA, l’ente teatrale siracusano committente del lavoro, cfr. la lettera di Pasolini a Lucignani del marzo 1961: “L’Istituto del Dramma antico doveva darmi ancora la metà della somma pattuita per contratto, cioè 750.000 lire, come sai: e non me le dà perché dice che la pubblicazione di Einaudi ha danneggiato la sua. Sicché io i soldi non li ho da nessuno e dovrò rivolgermi a un avvocato” (Pasolini, 2021: 1217). 2 Adotto di qui in avanti il titolo invalso (e attestato altresì nelle carte preparatorie dell’autore) accolto anche nel volume dei Meridiani dedicato alle opere teatrali di Pasolini che inserisce il testo sotto forma di Appendice a “Orestiade” (Pasolini, 2001: 1007-1009). 65 Il corifeo dell’astio degli ambienti specialistici e universitari è senz’altro il grecista Enzo Degani che, ancorché giovane, fa letteralmente le pulci alla traduzione del poeta felsineo passando tra le strette maglie del suo personalissimo setaccio la sequela di errori e fraintendimenti con cui il capolavoro superstite del padre putativo dei tragici greci sarebbe stato “grossolanamente” (2004: 189) reso. Pasolini fiuta evidentemente per tempo il rischio di esporre il fianco alle frecciate di detrattori accaniti, sedicenti padroni della materia, e perciò si premunisce con questa lettera aperta, a volerla così chiamare, che non è soltanto una specie di microsaggio programmatico, qualcosa che per altra via correda il corpus della sua produzione teorica sulla drammaturgia (si pensi al Manifesto per il Nuovo Teatro), ma è anche un intervento auto-apologetico per spuntare in anticipo le punte avvelenate dei dardi di un establishment conservatore di addetti ai lavori che egli sa attenderlo al varco. 1 Tant’è che nell’avis au lecteur che è Lettera del traduttore risuona il timbro di una excusatio non petita sia pure camuffata da professione di falsa modestia: “Peggio di così non potevo comportarmi” (Pasolini, 2001: 1007). 2. L’avvertenza per pubblico e critica che Pasolini redige quale viatico indispensabile per accedere alle stesse matrici concettuali e agli strumenti esecutivi che hanno ispirato il suo cimento traduttivo è senz’altro degna di attenzione per le enunciazioni di principio che vi sono contenute. Essa si può in sintesi scandire nelle seguenti partizioni: a) l’occasione (ottemperare alla richiesta di Vittorio Gassman che vuole mettere in scena con la sua regia uno spettacolo per la biennale siracusana del dramma antico); b) lo studio preparatorio (compulsare la bibliografia); 1 L’Orestiade di Pasolini provoca un vero e proprio ‘romanzesco processo’ al supposto traduttore eslege (cfr. De Laude 2016). Sebbene drastiche riserve siano state daccapo avanzate negli anni scorsi (Condello, 2012: 10-11), i sostanziali apprezzamenti della critica al lavoro di interpretazione di Eschilo sono soprattutto il frutto della ‘riabilitazione’ postuma della sua intera figura (cfr. in particolare Albini, 1979: 51ss.; 1987: 18ss.; Fagioli, 1980: 9-12; Fusillo, 2007: 147-149; Angioni 2022, 83-84). Ancora di recente Medda si è espresso contro la ormai diffusa credenza che la versione del 1960 sia “la migliore e più attuale traduzione dell’Orestea” (2017, 188). Una messa a punto di fresca data di questa annosa querelle è in Iannucci, 2022: 219-227. A riscattare definitivamente la traduzione di Pasolini dalle animosità dei cosiddetti professori varrà, io credo, la constatazione che lo stesso Albini (1991: 87-88), filologo insigne e frequentatore navigato del teatro antico, la adotta in uno dei suoi più densi contributi scientifici sulla storia della drammaturgia attica. Proprio il prologo dell’Agamennone, oggetto del presente saggio, è riportato nella versione pasoliniana, che viene così consacrata nell’olimpo dei dotti! 66 c) il metodo generale (collazionare traduzioni moderne da adoperare come filtro per voltare il testo-madre: Mazon, 1949; Thomson, 1938; Untersteiner, 1947); d) il metodo analitico (adottare il proprio gusto personale nei punti di divergenza tra gli esemplari di traduzione a disposizione); e) la resa linguistica (prendere a modello il modus scribendi forgiato dall’autore nelle Ceneri di Gramsci); f) la resa stilistica (abbassare l’intonazione aulica del registro arcaizzante a favore di un eloquio prosaico, semplice e discorsivo); h) l’interpretazione demitizzante e storicistica (far risaltare la valenza politica del messaggio tragico). Da questa sinossi si può estrarre un criterio orientativo di fondo: l’approccio vertologico di Pasolini è rubricabile nell’ottica della teoria traduttologica dello Skopos, che nell’inoltrata seconda metà del Novecento ha messo l’enfasi sulla non necessaria omogeneità tra le primeve finalità della lingua di partenza e i nuovi propositi della lingua di arrivo. 1 In sostanza, il passaggio da un dato contesto di origine a un altro sistema ricevente implicito nel processo traduttivo comporta uno scarto dell’intenzionalità (Reiss-Vermeer, 2014: 92-93). Nel mutato orizzonte socio-culturale che ospita il testo sorgente andranno così soddisfatte le aspettative di altri ricettori, sicché la lingua di destinazione riuscirà non già source-oriented ma, all’opposto, target-oriented, come usa dire negli studi di settore (Greco, 2022: 34 e nota 38). Ciò è tanto più vero nel caso di Pasolini, che nella inedita veste di traduttore per delega 2 non dismette i panni dell’intellettuale che deve assolvere al più alto mandato etico di denunciare le trasformazioni in atto nella società del cosiddetto miracolo economico, dominato dalla deriva consumistica che è il portato della restaurata democrazia in cui si annida il serpe strisciante di una neodittatura dei mezzi di produzione e di comunicazione che omologa e massifica le coscienze (Greco, 2009: 161). Mosso da indifferibili istanze civili, il poeta delle Ceneri, convertendo la saga di Oreste, è attirato dalla volontà di svelare il côté politico che si cela al suo interno, ove si registra il sofferto passaggio dal primitivo assetto monocratico al governo popolare, mediante l’istituzione di un collegio cittadino giudicante, non scevro da contraddizioni e da lacerazioni (come, ad esempio, nel caso della nascita della repubblica parlamentare italiana dopo la fine della monarchia sabauda), da nostalgie per un evo barbaro e cavernoso che 1 Nata sul finire dei Settanta (Vermeer, 1978: 100), la Skopostheorie conserva ancora la sua novità in quanto costituisce “una chiave per interpretare il presente e tracciare un futuro ancora informato” (Maldussi, 2009). 2 La genesi dell’incarico a Pasolini di tradurre la trilogia di Eschilo è raccontata da Lucignani in un articolo su “La Repubblica” dell’11 novembre 1977 (2012). 67 permeano ancora lo strato profondo dell’Atene civilizzata del quinto secolo. La persistente tenacia del passato abbarbicato nel presente offre a Pasolini il destro per effettuare un difficile compromesso “tra mondo magico-sacrale e mondo democratico-moderno” (Fusillo, 2022: 232). L’urgenza ideologica superiore del poeta engagé che lo induce a calare Eschilo nel dibattito pubblico nazionale degli anni Sessanta (Angioni, 2022: 7) si coglie ulteriormente in un concomitante articolo apparso sul numero 28 di “Vie Nuove”. Pasolini torna a mettere l’accento sul valore “essenzialmente politico” dell’Orestiade, da lui tradotta di recente, esasperando il gesto rivoluzionario della dea eponima della pólis attica che, attraverso l’introduzione di un organo giudiziario elettivo, abbatte il tirannico status quo ante: “In Italia — osserva l’autore — i tempi sono probabilmente prematuri: non c’è stato ancora l’intervento di Atena” (Pasolini, 1999: 884). Di qui il bisogno, per tornare alla Lettera del traduttore, di servirsi di un medium linguistico “ragionante” (Pasolini, 2001: 1008) con cui divulgare Eschilo aprendo in prospettiva il fronte di una discussione interna che abbia come interlocutori i “marxisti italiani” (Pasolini, 1999: 884). 1 Orbene, secondo Pasolini il nodo irrisolto della transizione epocale da un arcaico regime assolutistico a uno avanzato di tipo plebiscitario sottesa all’Orestiade sta nella perdurante vitalità di quegli affetti “istintivi” (Pasolini, 2001: 1009) su cui si incardinava la comunità tribale, e che non possono essere del tutto estromessi in un riformato consorzio umano illuminato dalla logica e guidato dalla fede nel progresso. Occorre pertanto che lo sviluppo degli statuti costituzionali si riconcili con le spinte irrazionali che affondano nelle pieghe nascoste dell’inconscio collettivo. L’indispensabile coabitazione con queste illogiche forze ataviche (D’Alessandro, Behr, 2018: 83) costituisce nella visione pasoliniana la quintessenza del tormentato conflitto interiore che dilania la mente e il cuore dell’eroe tragico. 3. Quel che mette conto notare è che della semantica dell’istinto lo scrittore si avvalga non solo come lente esegetica del proto-testo con cui è chiamato a confrontarsi ma anche, “operativamente” (Morosi, 2016: 178), come inusuale strategia traduttiva. Nella Lettera del traduttore il lessema fa inequivocabilmente capolino per indicare la bussola di cui l’interprete si è avvalso per orientarsi nelle zone più ardue e spinose (cruces) del testo eschileo: “ho fatto quello che l’istinto mi diceva” 1 Negli anni della traduzione pasoliniana dell’Orestiade è in voga un saggio di Thomson, Eschilo e Atene, divenuto di culto per l’intellighenzia di sinistra, scelto dagli stessi Gassman e Lucignani come base teorica per la mise en scène siracusana, che vede nella “lotta di classe” una possibile griglia di lettura dei miti greci (1949: 20). 68 (Pasolini, 2001: 1007). Ma è soprattutto all’inizio del suo memorandum che Pasolini mette in chiaro che il metro del suo operato è stato l’impulso naturale, l’estro soggettivo, il genio individuale. Seguire il proprio temperamento si è rivelato un atto dovuto all’impellenza del momento, un esito obbligato dalla ristrettezza dei tempi di consegna impostigli dai suoi committenti, che lo incalzano vista l’imminenza della messinscena nell’arena siracusana. “Allora — si giustifica lo scrivente — non mi è rimasto che seguire il mio profondo, avido, vorace istinto, contro il quale, come il solito, stavo cominciando pazientemente a combattere” (1007). Ecco allora che la coercizione dall’alto a fare in fretta 1 è in fondo l’appiglio cui aggrapparsi per scagionare la coscienza dalla sua innata abitudine ad assecondare un’indole caparbia e irriflessiva. Pasolini presenta l’insita inclinazione passionale come il proprio nemico intimo con cui è in durevole lotta la sfera soggettiva della razionalità. In sostanza lo scrittore rivive dentro di sé, nell’antro segreto del suo modus operandi, lo scontro perenne tra logos e physis, tra kosmos e chaos, che governa sulla scena l’esistenza dei personaggi del mito eschileo. Ne viene fuori così una sorta di nuovo canone traduttologico: la versione viscerale. La stesura febbrile, la redazione di getto, è l’applicazione concreta di un imperativo categorico interiore. Più che mai nel caso di Pasolini la partita ufficiale della fedeltà al testo nativo, vexata quaestio dell’ars vertendi, si gioca pertanto sul terreno privato della lealtà a se stesso. La tematizzazione della traduzione spontanea, a voler coniare un’originale norma nell’ambito dei Translation Studies (Giacomarra, 2017: 7-8), si tira dietro di sé la paradigmatica immagine dell’animale insaziabile. La metafora ferina che affiora prepotentemente a un certo punto della sullodata Lettera illumina esemplificativamente quello che si potrebbe chiamare il postulato teorico della traduzione d’istinto di cui l’Orestiade è il campo di prova e di verifica: “Mi sono gettato sul testo, a divorarlo come una belva, in pace: un cane sull’osso, uno stupendo osso carico di carne magra, stretto tra le zampe, a proteggerlo contro un infimo campo visivo”. (Pasolini, 2001: 1007) Questo più volte citato passaggio non va apprezzato soltanto come un’efficace similitudine a effetto, perché la sua eloquente pregnanza si spiega davvero a pieno se la si mette in dialogo serrato con la questione metodologica della trasposizione per istinto che evidentemente a Pasolini sta decisamente a cuore. 2 Non per nulla l’autore di seguito puntella 1 Cfr. la lettera a Lucignani del dicembre 1959, in replica agli inviti pressanti degli organizzatori: “non sono mica un Robot!” (2021, 1193). 2 In Pasolini il cane non è insolito come metro di paragone dello sgobbare alla scrivania; così, in Cronaca di una giornata (uscita su “Paese sera” il 2-3 dicembre 1960), si legge: “vado a Milano, passo venti atroci giorni in un 69 questa scultorea figurazione con l’ennesimo ammicco al motivo discorsivo dell’istinto: “Con la brutalità dell’istinto, mi sono disposto intorno alla macchina da scrivere tre testi” (1007). E se si considera che anche la scelta di ri-verbalizzare Eschilo sulla scorta della lingua plasmata nelle raccolte poetiche precedenti è, per ammissione ancora di Pasolini, fatta “per istinto” (1008), si può ragionevolmente ricavare che l’istinto del traduttore è, data l’insistita cadenza della “parola chiave” (Ottonello, 2018: 19), il Leitmotiv per eccellenza di questa Lettera. È certo interessante notare che al sopra menzionato Degani non sia sfuggita l’icona teriomorfa, e segnatamente cagnesca, adottata dal recensito, ma l’abbia stigmatizzata come una stridente nota di colore su cui sprezzantemente ironizzare e attraverso cui infierire vieppiù sull’eventuale mistranslation dell’autore (“distorce in maniera troppo irriverente il vecchio poeta”) inasprendo la vis polemica: “egli vanta una gestazione canina di soli tre mesi” (2004: 189). Degani non solo fraintende la potenza icastica della liaison tra il cane ingordo che spolpa l’osso e il traduttore edace messa al servizio dell’equazione centrale per Pasolini secondo cui ‘vertere’ è lasciarsi portare dall’intuito (Berman, 1989: 672), bensì non si avvede anche che il singolare accostamento ha tutta l’aria di un’ingegnosa ripresa del primo paragone cui Eschilo ricorre all’inizio della sua trilogia. Come adesso si vedrà, a me sembra infatti che il Pasolini traduttore del ciclo di Oreste abbia simbolicamente indossato la maschera della scolta che al principio dell’Agamennone veglia sulla sommità della reggia degli Atridi kunòs díkēn (v. 3), e che nella commutazione in italiano del monologo incipitario abbia persino ritrovato e riversato una parte di sé, immedesimandosi nella condizione stessa del personaggio (“come un cane”, Pasolini, 2001: 869). 1 E del resto, l’“infimo campo visivo” in cui caninamente (per dirla con Dante) Pasolini confessa di traslato di aver tradotto l’Orestea potrebbe risentire della scarsa luce in cui la vedetta eschilea ‘fa la cuccia’ nella speranza di scorgere il rientro di Agamennone. La Übersetzung diventa così una ri-esplorazione del proprio vissuto personale e una forma di auto-rappresentazione. Si vedrà altresì che la cinologia è una delle costanti più ossessive dell’immaginario alberghetto a lavorare come un cane, lavoro ancora altri atroci venti giorni a Roma” (ora in Pasolini, 1998: 1588). E cfr. la lettera a Giacinto Spagnoletti del gennaio 1952: “Mi alzo alle sette, vado a Ciampino (dove ho finalmente un posto di insegante a 20.000 lire al mese), lavoro come un cane (ho la mania della pedagogia)” (2021: 688). 1 Nella sua traduzione, Untersteiner intensifica l’asciutta similitudine eschilea: “solo proprio come un cane” (1994: 9). 70 artistico pasoliniano, e che proprio in virtù di essa il prologo dell’Agamennone sarà riutilizzato in una pagina del postumo Petrolio. 4. L’attacco dell’Agamennone implica che sia scenicamente attivo un servo del palazzo regale obbligato per ordine di Clitennestra 1 a stare all’erta sulla cima dell’edificio in previsione che nella notte si accenda in lontananza una torcia ambasciatrice della notizia della caduta di Troia e del conseguente ritorno del sovrano di Argo. A causa dello spazio angusto del tetto la guardia, prona in una “attitudine rannicchiata, a quattro zampe, ha perso i connotati dell’umanità […] e si è tramutata in bestia” (Greco, 2022: 255). La sua frustrazione è di natura fisica e psicologica: da un lato si lamenta delle sofferenze del corpo costretto a sopportare senza requie le intemperie della notte, e dall’altro è in ansia per il destino della casa reale su cui si agita lo spettro infausto di una letale congiura interna. Per queste ragioni l’uomo supplica gli dei di porre fine al più presto alla dolorosa corvée. La sua è una piccola tragedia personale limitrofa alla tragedia generale. La cessazione del temporaneo supplizio del guardiano coinciderà con la scaturigine della disgrazia di un’intera famiglia e di un intero popolo. Il dramma privato del phylax, estensibile a tutta la città, è quello dell’estenuante attesa (Pace, 2013: 22) per una lieta notizia contrappuntata dalla logorante apprensione per la catastrofe che da essa deriverà. Il male è l’altra faccia del bene. Pasolini accentua questo umore di fondo dell’opera intercalando a distanza di pochi versi due volte il nesso sintagmatico “ad aspettare”, assente in Eschilo (2001: 869). Proprio il tema cruciale di una gravosa e snervante sospensione induce il mediatore del testo a dilatare il tempo del servizio di vigilanza del prologante. Nella trascrizione pasoliniana esso non ha durata annuale, come recita il testo greco (eteías mêkos, v. 2), ma si prolunga “da anni e anni” (869). Ciò vale ad abbracciare da subito l’intero arco della guerra decennale che il coro richiama nell’avvio della parodo (Eschilo, Agamennone, v. 40). Pertanto la deroga del traduttore 2 è funzionale a 1 Nell’Odissea (IV.124), lo skopós è assoldato da Egisto, l’amante della regina. Il guardiano omerico è perciò un complice prezzolato dei congiurati. In Eschilo, invece, si dovrà ragionevolmente supporre “la fedeltà dell’uomo ad Agamennone” (Greco, 2022: 255) stante l’uguaglianza con un cane. Sul punto (e per la relativa bibliografia) cfr. Pace, 2013: 22. In buona sostanza, la vedetta eschilea sarebbe un cane fedele come il vecchio Argo di Odisseo, che è l’unico a riconoscere il padrone al suo ritorno, morendo sulla soglia di casa istantaneamente per la gioia imprevista. 2 Pasolini può essere stato condizionato dalla traduzione di Mazon, “de si longues années”, che in nota considera attendibile “l’explication du scholiaste, abandonnée à tort par les éditeurs moderns” (1952: 10). E cfr. Untersteiner: “di anno in anno” (1994: 9). 71 fornire immediatamente un dato cronologico che sarà chiarito più avanti. Ma l’infrazione interpretativa contribuisce a coinvolgere emotivamente l’osservatore negli effetti rovinosi determinati sul morale della gente argiva da un conflitto che si protrae ormai da tempo immemorabile. In pari grado l’espansione del lasso temporale connota uno stato di angoscia esistenziale che va ben oltre la natura contingente del servizio di guardia. A Pasolini questo prologo sarà apparso come il ritratto di un io emarginato che nello spazio desolato della notte ragiona sommessamente sul senso delle cose ultime contemplando “tutti i segni delle stelle” (2001: 869). Dinanzi alla remota grandezza del moto eterno degli astri l’uomo sperimenta il sentimento della sua gretta finitezza. I luminosi corpuscoli che si stagliano nell’etere sono gli unici compagni notturni della scolta che, dimenticata da tutti, ha imparato a riconoscerne il corso ciclico che apporta l’alternanza delle stagioni (“ritornano / con l’estate e l’inverno”, 869) sul pianeta. Notevole è senz’altro questa giustapposizione tra il tempo circoscritto della storia e il tempo infinito del cosmo. La tanto sospirata luce dei fuochi segnalatori della presa della rocca di Priamo è ben poca cosa, in fondo, al cospetto del maestoso sfavillio delle costellazioni (“So tutto, di loro, / le nascite, i crepuscoli…”, 869). Viene in mente l’attitudine meditante del pastore leopardiano del Canto notturno che, per ammazzare la noia del suo meschino lavoro, ha preso l’abitudine di scrutare i punti luminescenti del manto celeste per carpirvi invano il segreto della sterminata vastità dell’universo (“e quando miro in ciel ardere le stelle; / dico fra me pensando: / a che tante facelle? / che fa l’aria infinita, e quel profondo / infinito seren? che vuol dir questa / solitudine immensa? ed io che sono?”, vv. 84-89). Dall’altra parte, la visuale cosmica della riflessione della vedetta viene avvalorata da un’interpolazione di Pasolini, che colloca il panorama astrale scandito da nascite e tramonti, allegoria dell’avvicendarsi delle sorti umane, ne “l’altro mondo” (2001: 869), vale a dire in un orizzonte separato dal piano delle vicende terrene (“una realtà altra”, Angioni, 2002: 34) e regolato da leggi e fenomeni incommensurabilmente avulsi dal nostro agire quotidiano. All’acuta sensibilità di Pasolini non sarà perciò rimasto estraneo il tenore ontologico dell’apertura dell’Agamennone, in cui si incunea una breve digressione filosofica sullo stato di miseria tout-court dell’essere umano, tanto più impattante perché messa in bocca a un infimo personaggio, a uno degli ultimi della scala sociale. Proprio per la sua estrazione da una classe umile questa figura di proletario pensatore di notte avrà sprigionato empatia nell’intellettuale marxista. 1 1 Annota Medda, 2017: “il dramma si apre mostrando il riflesso dei grandi eventi del mito nella dimensione di una persona semplice, che valuta la situazione in una prospettiva centrata su se stesso e sui propri guai” (42): e ancora: “Eschilo 72 E, tuttavia, c’è qualcosa di più che rende l’inquieta situazione in cui versa la scolta particolarmente congeniale alle corde affettive di Pasolini. Mi riferisco all’ambientazione notturna. Nella biografia dell’autore la notte è uno dei momenti topici del suo scivolare nell’abisso dei sensi: “Lavoro tutto il giorno come un monaco / e la notte in giro, come un gattaccio / in cerca d’amore…” (Pasolini, 1993: I, 621). 1 La similitudine col felino randagio assetato di lussuria è straordinariamente affine all’esperienza del guardiano eschileo che nelle sue notti da cane “cerca l’amore” (2001: 869). La perfetta sovrapposizione delle due azioni è ragguardevole anche alla luce del fatto che il secondo enunciato è un’ennesima forzatura del testo. Pasolini sessualizza l’attesa notturna del custode solo al fine, mi pare, di auto-proiettarvi un suo caratteristico vizio esistenziale, quando nel buio della metropoli deserta si risvegliano in lui gli stimoli della carne che lo spingono a girovagare in caccia di qualche sfogo clandestino. Poiché la lirica sopra citata (21 giugno 1962), ultima delle Poesie mondane, edite su “L’Europa letteraria” dell’ottobre 1962, è di poco successiva alla pubblicazione della traduzione dell’Orestiade, si può affermare che Pasolini riadatti nei suoi versi un modulo espressivo coniato di suo pugno per l’Agamennone, una soluzione formale che evidentemente è ancora fresca nella sua memoria. E non sarà l’unico indizio, come si vedrà, che l’esperienza del traslatore interseca quella del versificatore e del narratore in proprio. 2 Si è detto che Pasolini erotizza la sfibrante attesa della vedetta: il suo disperato desiderio (“angoscia”) di liberarsi dalla costrizione del servizio di fatica è simile a quello che “prova una donna / quando cerca l’amore” (869). Esso equivale ad appagare i propri bassi istinti. Nell’originale eschileo si fa viceversa riferimento al decisionismo virile (andróboulon, v. 11) di Clitennestra che, avocando a sé prerogative maschili in mancanza del marito, ha confinato d’autorità il servo sulla sfrutta qui magistralmente le possibilità del discorso monologico, fondendo la necessaria funzione informativa del prologo con la rappresentazione dei pensieri e delle emozioni di un uomo semplice che si trova di fronte a eventi molto più grandi di lui” (41). 1 La similitudine con l’agile quadrupede è anche nelle Ceneri di Gramsci (“Povero come un gatto del Colosseo”, 1993: 247). 2 La sezione Il pianto della scavatrice delle Ceneri di Gramsci, proprio quella che nella citata lettera di Pasolini a Lucignani del dicembre ’59 è additata come calco per la lingua usata nella traduzione dell’Orestiade (2021, 1193), contiene uno dei più intensi notturni del poeta, che posa lo sguardo sulle mille facelle che avvolgono Roma dopo il crepuscolo (“Ecco nel calore incantato // della notte che piena quaggiù / tra le curve del fiume e le sopite / visioni della città sparsa di luci, // echeggia ancora di mille vite, / disamore, mistero e miseria / dei sensi, mi rendono nemiche // le forme del mondo, che fino a ieri / erano la mia ragione d’esistere”, 1993: 243). 73 cima della reggia per conseguire un proprio scopo. L’insinuazione malevola della scolta eschilea consiste quindi nell’accreditare la regina – di cui tace l’identità quasi si trattasse di una creatura innominabile – come una donna che ha l’ambizione per il potere ordinariamente detenuto dagli uomini. La trovata di Pasolini a sfondo misogino sta nell’allusione alle voglie sessuali della figlia di Tindaro di cui si farebbe emergere sin d’ora la sfrenata libidine. 1 Resta il fatto che lo scrittore emiliano in questo preciso punto taglia fuori ogni accenno a Clitennestra, ritraendo il servo in preda a egoiche fantasie amorose notturne. Non avendo, nel suo esilio sopraelevato, a disposizione una donna, la sua mortificazione sessuale troverà una plausibile via di risarcimento nell’esercizio di sottintese pratiche onanistiche. Ecco dunque che viene in taglio un altro inconscio processo di auto-identificazione. Si prendano le strofe centrali del secondo componimento della raccolta L’hobby del sonetto (1971-1973): “posso fare una cantatina, che finisce in un unico verso; come un cane che, per leccarsi le ferite, si accuccia, essendo mio costume ormai inveterato, mi masturbo, dentro gli arsi meandri del letto coperto di sudore; eh, mio Signore, sono uno straccio d’uomo; così m’ha leggermente ridotto il vostro amore”. (Pasolini, 2003: 1122) L’assimilazione tra il servo-cane e il poeta-cane che tra le vuote lenzuola si consolano con l’autoerotismo non poteva essere più calzante. Oltretutto Pasolini immette abusivamente già al terzo verso della traduzione (2001: 869) il complemento “in questo lettuccio” (un diminutivo-vezzeggiativo che marca la condizione di chi dorme da solo nella cuccia divenuta l’unica compagna delle sue notti eccitate) per additare la branda su cui il servo giace rannicchiato. In Eschilo l’euné è menzionata una tantum più avanti (v.13) e il traduttore scioglie perifrasticamente il termine (“in questo letto”, 869) rafforzando in sovrappiù l’idea di chi sta sotto le coperte in balia di solitarie smanie 1 Ella “manca di quel pudore che si addice al suo sesso” (Thomson, 1949: 349). Al verso 607 della tragedia eschilea la regina si autodefinisce dōmátōn kúna (“cane da guardia”, rende Pasolini, 2001: 889) millantando di essere rimasta casta e leale al consorte. Si può pensare che il traduttore, cogliendo qui l’intrinseca doppiezza della metafora, che alluderebbe e contrario alla promiscuità del cane piuttosto che alla sua dedizione, la preannunci in filigrana nel prologo. L’archetipo letterario della sposa invereconda quale cagna traditrice è in Omero, Iliade: III.180, dove la fedifraga Elena si autodesigna kunópidos, cioè ‘dagli occhi canini’. 74 morbose. La ridondanza della dizione pasoliniana punterebbe a enfatizzare questo particolare aspetto. Si valuti inoltre il parallelismo tra il giaciglio “coperto di sudore” (2003: 1122) e quello “bagnato di rugiada” (2001: 869): il fradiciume dei teli di stoffa che avvolgono le membra spossate della persona coricata ne acuisce l’avvilimento solipsistico. Se poi si collega la “cantatina” del poeta romito (2003: 1122) con la “voglia / di cantare e di fischiettare” (2001: 869) della sentinella reietta per esorcizzare la reciproca sensazione di vuoto e di privazione, la rete delle corrispondenze si infittisce in modo sorprendente. 5. Si è fin qui ragionato della forte fascinazione che la rappresentazione eschilea del vigilante a guisa di un cane uggiolante nelle tenebre deve aver esercitato sull’animo di Pasolini, 1 che l’avrà interiorizzata 2 quale incisiva personificazione di una umanità abbruttita, vilipesa e derelitta. Nella fantasia letteraria dell’autore di Ragazzi di vita questo motivo fa capolino in età molto acerba. 3 A tale riguardo è esemplare Cane di notte, una lirica datata 1941 divisa in tre quadri. Qui il poeta non ancora ventenne così si esprime: I “Cane, tu sei la morte. Fioco mi travaglia l’allarme del tuo orrore antico, desto nelle tenebrose notti. Io stingo tra le dita il mio corpo bambino. 1 È curioso che questa immagine abbia fatto breccia nel repertorio di alcune riscritture contemporanee dell’Agamennone. Penso all’Agamènnuni del siciliano Emilio Isgrò che fa parte della trilogia L’Orestea di Gibellina. Il celebre monologo eschileo è recitato in vernacolo trinacrio da un carrettiere, che in linea di massima segue la traccia dell’originale, deviando dal solco proprio quando arriva alla similitudine canina, rielaborata comicamente con una sequela di giochi metalinguistici: “stàju vigghiànti / supr’’a casa d’Atrèu, mpujàtu / supra i gùvita, comu un dog, / ch’all’Austràlia veni a diri cani / e in doichlandìsi si pronùnzia Hund, / riciatànnu supra all’acca”; e cioè: “sto a vegliare | sulla casa d’Atreo, appoggiato | sui gomiti, come un dog, | che in Australia vuol dire cane | e in tedesco si pronuncia Hund, | aspirando la acca” (la traduzione è di Treu 2022: 252, nota 18). 2 Non per niente Condello mette in risalto nella traduzione di Pasolini una “pulsione soggettivante” (2012: 11). 3 “I segni di una grammatica animale vengono introdotti da Pasolini fin dalle prime raccolte poetiche» al modo che «l’autore trova in questo linguaggio simbolico anche le possibilità espressive per concepire e ritrarre sé stesso sub specie animalis” (Catelli, 2007: 50). 75 II Cane, cane, tu muori di terrore, tu annoveri le notti, le perdute notti, tu mi scavi, alla tomba del vento, l’ignota terra dei nostri mali. Cane, cane, tu mi desti, mi riempi la stanza di foschi alberi e siepi. III Tu sei la minaccia; il dito alzato; la madre e i figli; il rispetto dei figli e la lor dritta via; la morte”. (Pasolini, 1993: II, 1939) Nel testo svetta il pregnante legame che si instaura tra l’animale a quattro zampe che latra nel buio e il messaggio tanatologico di cui si fa latore, il lugubre annuncio dello spegnersi della vita che minaccia l’essere umano e il recinto dei suoi affetti più cari. Un ventennio dopo il Pasolini traduttore si misurerà con la macabra profezia dei consanguinei lutti che la scolta eschilea affida nottetempo al suo sperduto ululato. L’effigie del cane sbandato, in realtà un alter ego del poeta girovago, riaffiora in Comunicato all’Ansa (Un cane) di Transumanar e organizzar: “Ahi, cane, fermo sul ciglio della via Prenestina che ti guarda di qua e di là prima di attraversare la strada. Non ha nulla da ridire: accetta tutto. Non ha dignità da difendere, a causa della sua bontà. Ecco quindi la mia conclusione: la rassegnazione non ha niente da inviare all’eroismo”. (1993: I, 903) L’ossimorico verso finale indica nell’umile atteggiamento remissivo del quadrupede, che non si ribella alle angherie della vita, la virtù dell’intellettuale che vive orgogliosamente in disparte, fuori del branco, senza scendere a patti con i poteri forti. Su questa scia tematica, il componimento 10 giugno 1962 (dalla sezione Poesie mondane di Poesie in forma di rosa) contiene uno dei più carismatici autoritratti d’autore: “Giro per la Tusculana come un pazzo, / per l’Appia come un cane senza padrone” (1993: I, 619). Solo pochi mesi prima di questi versi Pasolini ha tradotto a modo suo il lamento del prologízon dell’Agamennone, ridotto a un cane orfano del suo legittimo proprietario! E si pensi al ragazzaccio descritto nella Terra di lavoro (ultima 76 composizione delle Ceneri di Gramsci) al modo di “un cane abbandonato” mentre con aria furfantesca fissa il brullo paesaggio della campagna centro-meridionale da dietro la feritoia di un treno in corsa, dove miserabili passeggeri di ritorno alla fatica dei campi rosicchiano avanzi di pane “come cani / su un boccone rubato” (1993: I, 275, 273). Su questi vagoni di ultima classe viaggia quel popolo contadino che patisce una fame di secoli. La comparazione tra siffatto esercito di diseredati e una torma di cani allupati è dello stesso segno di quella che sta nella parte terminale di Profezia, più nota come la lirica di “Alì dagli occhi azzurri”, inclusa nel Libro delle croci di Poesie in forma di rosa. Si tratta della lungimirante premonizione del dramma tristemente attuale di orde di migranti del mare che approdano dalle affamate lande africane (“Regni della Fame”) sulle coste del Sud “coi corpicini e gli occhi / di poveri cani dei padri” (I, 697). Nel Pasolini lirico l’iconologia canina ha giustappunto la tendenza a inquadrare spaccati di povertà e segregazione, come ancora mostrano questi versi di Alla bandiera rossa (da La religione del mio tempo), che denunciano la ben nota mutazione antropologica della società italiana: “il bracciante diventa mendicante, il napoletano calabrese, il calabrese africano, / l’analfabeta una bufala o un cane” (I, 542). In Pilade, una sorta di appendice drammaturgica dell’Orestiade, a riprova di quanto questo mito sia fertilissimo di spunti creativi nell’arte pasoliniana (Bonanno 1993), le Eumenidi preconizzano l’avvento di una gigantesca deflagrazione che si abbatterà sulla terra, producendo una palingenesi del genere umano in cui lo scorrere del tempo sarà convertito in un eterno presente al quale si sottrarranno solo le bestie: “Sarà un infinito giorno di Domenica: solo gli animali — cani, buoi, galline — crederanno che i giorni feriali continuino, e abbaieranno, muggiranno e rasperanno la terra”. (2001: 407) 1 Ancora nel Pilade l’osmosi tra persone e cani ha una intonazione oscena (la fame di cibo diventa appetito sessuale), sulla falsariga di quanto si è sopra discusso a proposito delle voglie carnali attribuite alla vedetta eschilea. L’amico di Oreste blandisce così la ritrosa Elettra, giunta nel cimitero di Argo a omaggiare la tomba dei genitori: “Perché, sappi, io sono qui davanti a te come un marito davanti alla moglie — come un cane davanti alla cagna — meglio, sì, come un cane 1 E cfr. la storia della nascita di Atena nelle parole di Oreste: “Non ha conosciuto l’attesa dentro le viscere, / come un vitello o un cane: non è uscita annaspando / da quel buio della madre bestia, alla luce” (364). 77 davanti alla cagna. Sono pronto ad amarti; come se tu non esistessi, ed esistesse solo la mia pretesa, la mia erezione, il mio seme da gettare”. (439) Talvolta in Pasolini poeta il cane è il contrassegno non già della vittima e del vinto ma del carnefice e del prevaricatore. Si prendano a riferimento le terzine conclusive del poemetto La religione del mio tempo, compreso nell’omonima silloge, in cui le alte gerarchie vaticane, che lucrano sulla pelle delle masse ignare dei fedeli travestite da caritatevoli benefattori, sono bollate per i loro “cuori di cani” (1993: I, 515). Rimane il fatto che l’attitudine preminente dello scrittore è più cinofila che cinofoba. Nel proverbiale miglior amico dell’uomo Pasolini tende semmai a rispecchiarsi. 1 Nel diario di viaggio L’odore dell’India, l’autore così si racconta: “io vado in giro, perdutamente solo, come un segugio dietro le peste dell’odore dell’India” (2009: 1006). Nel sonetto 58 l’amante che si ostina nel suo sentimento nonostante il rifiuto subito è teneramente dipinto “come un cucciolo raccolto che s’aspetta di essere cacciato”. Una prova di coraggio e di vigore nelle amarezze della vita che l’autore, fedele alla consueta analogia, riconsegna all’attenzione dei suoi lettori nei Versi del testamento (titolo di per sé eloquente) di Trasumanar e organizzar, struggente canto sull’essere soli al mondo: “Non c’è cena o pranzo o soddisfazione del mondo, che valga una camminata senza fine per le strade povere, dove bisogna essere disgraziati e forti, fratelli dei cani” (1993: I, 942). 6. Nell’Appunto 62 di Petrolio, Carlo, il protagonista del romanzo, che ha perduto la sua virilità cambiando sesso, si apparta di notte su un prato del suburbio romano dove viene posseduto carnalmente da Carmelo. Il luogo di questo sordido amplesso è punteggiato dai falò delle prostitute in attesa dei loro clienti: “I fuochi delle puttane continuavano a splendere malinconici e vivi: tanto più che la luce della luna si era di nuovo offuscata, e il vapore nero sulla terra si era riaddensato. Sparivano, quei fuochi, uno dietro l’altro, a intervalli quasi regolari, coi loro fiotti di fumo nero, lungo la curva della strada, verso il quartiere che giganteggiava lontano con la cupola, che pareva di metallo. Parevano fuochi accesi da sentinelle, quieti e antichi, segnali che annunciavano i fatti quotidiani e normali della sera inoltrata, inconsapevoli della loro tragicità” (versi dell’inizio dell’Orestiade). 1 “Il cane non cancella l’umano, lo riflette, lo riproduce, lo sdoppia, lo relativizza, lo rinsalda” (Giardina, 2006: 148). All’immaginario canino nella letteratura italiana del secolo scorso lo stesso Giardina ha dedicato un’ampia monografia (2009). 78 L’interpretazione invalsa di questo passo (Pasolini, 2005: 310), favorita d’altronde dagli elementi presenti nel testo, è che “i «fuochi delle puttane» riecheggiano, in versione degradata, quelli avvistati dall’araldo all’inizio dell’Agamennone di Eschilo” (Lago, 2006: 64). C’è chi ha visto nel richiamo al mito una sublimazione del lerciume morale del degenerato hinterland metropolitano: “Questa memoria incongrua e inattesa, in questo quadro autonomo e struggente, dopo l’epifania fallica dell’incontro con Carmelo […], non può come le altre essere derubricata a tardivo bellettrismo. È la nobilitazione dello squallore, è il fuoco della poesia che si accende improvvisamente e trasfigura la periferia degradata restituendole una magia antica, un lampo di miracolo e di soprannaturale”. (Beltrametti, 2019: 161) Né è mancato chi, magari con qualche esagerazione, vi ha avvertito risonanze più profonde con la pièce eschilea: “Carlo-donna […] diviene quasi un’eroina tragica e sarei tentato di definirla quasi una Clitemnestra in versione degradata” (Lago, 2006: 64). Quel che mi preme evidenziare è che la saldatura tra il dramma classico e il romanzo novecentesco non consiste soltanto nella lampante associazione di idee tra le torce segnaletiche delle postazioni di guardia e le pire adescanti delle lucciole che sembrano delimitare un vetusto accampamento militare. Oltre a ciò, negli stessi avanzati anni Settanta in cui lavora all’incompiuto Petrolio, Pasolini, tornando a occuparsi dell’epopea di Oreste nel docu-film Appunti per una “Orestiade” africana, accenna allo stratagemma a staffetta dei fuochi notturni dell’Agamennone, puntualmente descritto da Clitennestra poco dopo il suo ingresso in scena, inserendo nella sceneggiatura uno stralcio della sua traduzione del Sessanta (“È stato il dio del fuoco, bruciando sull’Ida. / Dietro a lui tutta una catena luminosa / […], e cade/ sopra questo tetto degli Atridi, l’ultimo / anello della catena che comincia a Troia”, 2001: 878-879). Un sintomatico esempio, quest’ultimo, di autocitazione transcodificata della traduzione, che viene cioè trasportata in un altro linguaggio artistico. Di un ulteriore pastiche codicologico è indicativo lo stesso rimando all’Agamennone intercalato nella trama narrativa, ove non escluderei che l’autore si riproponesse di integrare lo spazio bianco occupato da una scarna e secca didascalia, “(versi dell’inizio dell’Orestiade)”, con la relativa sua traduzione, in coerenza con l’auto-citazionismo degli Appunti per una “Orestiade” africana. Ma la scintilla che innesca il cortocircuito tra l’Appunto 62 di Petrolio e l’introduzione dell’Orestiade è costituita da un altro non trascurabile dettaglio narrativo. L’ampia digressione del bivacco di fuochi in cui i due amanti consumano le loro voglie clandestine è infatti prontamente preceduta da una similitudine carica per noi di forti 79 implicazioni: “E Carlo gli andò dietro, come un cane. Anzi, come una cagna” (2005: 310). 1 Siamo a uno snodo determinante: nel suo estremo e frammentato romanzo Pasolini, a oltre dieci anni di distanza, riallaccia il filo con la traduzione dell’Orestea scegliendo come bandolo proprio la simbologia canina che si affaccia nel proemio dell’opera. Si è visto che il traduttore tende a femminilizzare la tensione della vedetta con una nuance erotica: “La stessa angoscia che prova una donna / quando cerca l’amore” (2001: 869). Al severo censore Degani non passa certo inosservata l’arbitraria resa di Pasolini: “il guardiano, un uomo normale, verrebbe con ciò punto da inquiete smanie di donna insoddisfatta” (2004: 189-190). Ma verisimilmente lo scrittore è infervorato (“si entusiasma”, commenta in effetti Degani: 189) da una fantasticheria amorosa (la cagna in calore) che mette a fermentare sua sponte nel testo eschileo per portarla a maturazione in un’opera seriore. 2 Questo seme germoglierà nella figura androgina del borghese Carlo che si concede come una cagna lasciva all’autoritario cameriere Carmelo. Il suo legame di sottomissione al master si delinea anche attraverso il desiderio compulsivo di afferrarne la mano dominante, proiezione inconscia della brama di ghermire il membro virile (“la grossa mano che stringeva forte senza accorgersene”, 2005: 300), al cui godimento la cagna Carlo viene infatti addestrata. Va sottolineato che un miraggio simile infiamma il guardiano eschileo: “Che io possa, come rientrerà il mio padrone, con la mia mano toccare la sua amata mano…” (2001: 870). Ed è rimarchevole che nell’Appunto 62 l’equivalenza sessuomane tra uomo e animale baleni nella mente di Carlo come una fulminea illuminazione del suo passato quando Carmelo gli accarezza la nuca: “E si chiedeva qual era il carattere reale di quelle carezze, e che per il momento gli sfuggiva, come un nome, ben noto, che non si riesce a ricordare, benché urga alle soglie della memoria. La rivelazione – come succede in tal caso – fu improvvisa e folgorante. Ecco, Carmelo accarezzava la testa di Carlo come si accarezza la testa di un cane; anzi, di una cagna. 1 A proposito della lotta tra cani ‘umanizzati’ che si scatena nel sesto capitolo (Il bagno sull’Aniene) dei Ragazzi di vita, l’autore, nella deposizione in tribunale a difesa dell’imputazione di oscenità pendente sul romanzo, afferma: “Quando antropomorfizzo la cagna ho voluto dire che molte volte i ragazzi purtroppo conducono la vita come animali” (in Betti, 1977: 65). 2 Anche Greco dà segno di non comprendere la meta-valenza dell’ardita scelta del traduttore (“qui Pasolini pare vagamente psicologizzare dove non ce n’è bisogno”), parlando di testo “banalizzato” (2009: 167). E si veda già il commento trinciante di Rubino: “splendido fraintendimento” (1985: 350). 80 Per qualche istante Carlo contemplò, per così dire, questa situazione: Carmelo che lo accarezzava come si accarezza una cagna”. (2005: 306) Nell’ingegnere questa reminiscenza sembra risalire a galla da chissà quale primordiale era sepolta, tornare al presente da un passo mitico e favoloso. E tale ancestrale recupero mnestico pare investire la stessa storia personale dell’io narrante. In un commosso coccodrillo apparso sul settimanale “L’Espresso” il 9 novembre 1975, una settimana dopo l’efferato omicidio di Pasolini all’idroscalo di Ostia, Giovanni Testori scrive: “Cosa lo spingeva, la sera o la notte, a volere e a cercare quegli incontri? […] La solitudine, questa cagna orrenda e famelica che ci portiamo addosso da quando diventiamo cellula individua e vivente e che pare privilegiare coloro che, con un aggettivo turpe e razzista, si ha l’abitudine di chiamare «diversi»”. (2003: 89) Riferimenti bibliografici ALBINI, Umberto. “Il banco di prova delle Coefore”. In La traduzione dei testi teatrali antichi. Atti del VII Convegno internazionale di studi sul dramma antico. Dioniso n. 50. Pisa: ETS, 1979: 45-57. 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