VITO CARRASSI
UN ASINO CADUTO DAL CIELO
Non avere alcuna proprietà,
Rinnegare l’anima,
Come i sassi e i fili d’erba
Non avere identità.
Baustelle, Gli spietati
Giacché almeno in questo sarò veritiero, dicendo che mento.
Così credo di sfuggire all’accusa che può venirmi dagli altri,
riconoscendo io stesso di non dire nulla di vero.
Luciano, Storia vera
A mio padre,
il cui spirito aleggia impercettibilmente fra queste pagine
I
In principio fu la Baia di Dublino, quindi, l’una dopo l’altra, spuntarono
dall’Oceano le contee della vecchia e cara Irlanda. Questo aveva sempre saputo
Cormac McAlister, che in trent’anni e rotti dalla Baia non si era mai mosso. Ne
conosceva ogni anfratto, ogni pertugio, ogni più recondito recesso, un’autorità
insomma nel pontificare sulla materia. Non fu perciò una sorpresa per lui scoprire,
quella mattina del 20 agosto di inizio millennio, il copioso affluire di irlandesi,
provenienti da Galway come da Cork, dal Donegal come dal Meath, da Sligo come
da Kilkenny, dal Kerry come dal Connemara, da sinistra come da destra (più da
sinistra, in verità), dall’alto come dal basso (più dal basso, in effetti), da ieri come
da domani (ma ancor più da oggi). In pochi minuti, la spiaggia sulla quale sorgeva
la sua casupola, abusivamente tirata su a metà strada fra Sandycove e Dalkey, si
riempì di curiosi d’ogni specie, con tanto d’occhi spalancati verso il Mar d’Irlanda.
Vestitosi come meglio gli consentiva lo scarno guardaroba, dopo aver trangugiato
la sua consueta birretta mattutina mista a latte, andò incontro alla folla, pronto a
offrire il suo prezioso aiuto. Perché?
Le fonti più accreditate riferiscono che l’individuo in questione fosse il
discendente diretto di una sequela ininterrotta di autentici perdigiorno, di quelli di
cui ormai si è perso lo stampo, come direbbe un bel tipo del lontano Ovest; un
campione assoluto nell’arte di farsi i fatti propri, almeno finché le circostanze non
richiedessero il suo intervento. Beninteso, purché l’azione non fosse latrice di
impegni compromettenti. Se per tanti suoi illustri antenati, pesci, pani e birra erano
piovuti, stando alle cronache, letteralmente dal cielo (almeno fino al secolo XIX,
Celtic Revival compreso), a lui era toccato in sorte, ma sempre più raramente, di
procurarsi le medesime cibarie in una portentosa grotta marina poco distante dalla
sua magione. Gliel’aveva mostrata, tanti anni prima, il defunto padre, giusto prima
di scomparire in circostanze misteriose. La madre l’aveva invece abbandonato in
seguito a un malaugurato tuffo da uno scoglio non troppo benevolo, anche se
Cormac affermava di vederla, una volta all’anno, uscire dall’acqua e farsi una
passeggiata sulla riva, cantando quell’antico motivetto che gli piaceva tanto. Di
fratelli e sorelle neppure l’ombra. Insomma, un perdigiorno solitario di primo
livello, una vera primizia per i nostri tempi. Ah, che tempi quelli di una volta…
Tempi in cui ti capitava di incontrare, con una certa frequenza, messer il gatto
marino. Tempi in cui avresti potuto passeggiare per ore e ore senza sbucciarti un
ginocchio sui cocci taglienti di una bottiglia rotta. Tempi in cui meno ti davi da
fare, più il consesso degli anziani innalzava encomi in tuo onore. Tempi in cui, a
Dio piacendo, la pioggia ti inzuppava, certo, ma scendeva carezzevole sulla pelle,
procurandoti uno di quei piaceri che oggi neppure riesci più a sognare. Tempi in cui
era lecito e venerato fermarsi dinanzi alla porta degli O’Leary e trascorrere ore su
ore a parlare delle frenesie amorose del tuo cavallo, George dalla lunga criniera
dorata, che tutti chiamavano George. Tempi in cui le monete ti tintinnavano
numerose nelle tasche, ma solo perché eri diretto al campo di Joseph Sheridan,
dove tutto il paese si attendeva le tue prodezze nell’eterna sfida a biglia-moneta
contro Matthew Shanahan. Tempi in cui bastava dire sì per accettare una proposta
di modifica negli accordi che regolavano il quieto vivere fra vicini di casa. Tempi
in cui avresti potuto rimanere per giorni e notti steso al suolo senza infondere il
benché minimo sospetto di una colluttazione all’ultimo sangue. Tempi in cui
chiamarti Cormac era non solo un onore, non solo un vanto e non solo un obbligo
contratto al battesimo, ma addirittura l’occasione di imbatterti, di tanto in tanto, in
quell’illustre cavaliere che rispondeva appunto al nome di Cormac, che talvolta si
mostrava talmente generoso da condurre con sé illustri compagni d’avventura i
quali, ad ogni modo, restavano in religioso silenzio durante tutto il corso della
conversazione. Insomma, i remoti tempi in cui Cormac McAlister non era ancora
nato, ma di cui tanto gli era stato narrato da una serie di reduci dalla battaglia per la
salvezza d’Irlanda, combattuta strenuamente ma miseramente perduta il giorno in
cui si era sancito l’avvento del Nuovo Mondo, quello delle magnifiche sorti e
regressive, per intenderci, quello dell’unico Bene contro tutto il resto che è Male,
quello dell’Euforia contro l’Ironia, quello dell’Amicizia contro la Fraternità, quello
dello Sfarzo contro la Sforzo, quello della Pura Verità contro l’Oscura Finzione,
quello del Pieno Ripieno contro il Vuoto Riempito, quello dei Crudi Fatti contro le
Vane Parole: un incubo per Cormac McAlister e i suoi sempre più rari simili.
Fatto sta che quella mattina del 20 agosto, una folla oceanica si riversò sulla
sua spiaggia, apparentemente del tutto dimentica di impegni, vincoli, incombenze,
obblighi, gravami, incarichi, doveri, compiti, responsabilità, ingiunzioni, impicci e
impacci, lacci e lacciuoli, faccende e faccenduole. Il mare era moderatamente
mosso, il sole faceva rimbalzare i suoi raggi con moderazione sulle onde e una
moderata brezza spazzava l’aria salmastra. «Tutto torna», diceva tra sé Cormac
McAlister, mentre si offriva, con umana sollecitudine, a lenire le esigenze oratorie
degli ospiti. Ma nessuno aveva voglia di parlare, tutti fissavano l’orizzonte, come in
attesa di un segno.
Un sommesso battere d’ali, poi un sommesso raglio, quindi una folata di
vento pregna di odori di stalla, infine il disco solare per metà eclissato. Eccolo, in
tutta la sua equivoca realtà. Eccolo, sprigionato da chissà quale profondità del mare.
Eccolo, planare nell’aria placido più di un bue. Eccolo, lasciarsi dietro l’opprimente
condizione terrena. Eccolo, infischiarsene dei più prestigiosi saggi dell’universo
mondo. Eccolo, indicare la via verso il cielo, mentre con il naso all’insù lo si
osservava in preda a una penosa sensazione di impotente meraviglia. L’asino, il
somaro, il ciuco che vola era lì, dinanzi ai loro occhi! E volava davvero, quel
magnifico esemplare, ma non con ali posticce; le sue lunghe orecchie, tanto
dileggiate nei trascorsi millenni, si agitavano in un moto regolare, cadenzato,
addirittura elegante. Chissà dove sarebbe giunto se un dispettoso riflesso luminoso
non l’avesse deconcentrato, facendolo rovinosamente piombare fra le onde
dell’azzurro mare.
L’oceanica folla trasse prima un sospiro di sollievo, quindi, come un sol
uomo, voltò le spalle, totalmente disgustata dall’inaudita perdita di tempo. L’asino
volante era rapidamente ritornato nella sua vana, onirica, immaginaria, proverbiale,
subdola, ambigua, deprimente, indecente, sconvolgente, repellente, indisponente,
destabilizzante, iniqua inconsistenza. Un’immensa coltre di sabbia e polvere
segnalò la scomposta fuga di centinaia di migliaia d’individui alla volta dei propri
ovili. Ma gli asini sanno nuotare?
La domanda sorse spontanea sulle labbra di Cormac McAlister. In mancanza
di una risposta incontrovertibile, ritenne opportuno dirigersi sul luogo della caduta,
affinché nessuno, un giorno, potesse accusarlo di non aver offerto il suo aiuto a una
povera bestia inerme. Mentre la barca filava lesta, sospinta da un benevolo vento,
Cormac McAlister rimuginava sul folle comportamento della folla. Un prodigio si
era compiuto, magari a metà, magari incompleto, magari privo di lieto fine, ma pur
sempre un prodigio. L’Irlanda era davvero quella?
Un tempo esisteva solo la Baia di Dublino, tutto il mondo era racchiuso tra
Howth e Bray. Allora gli asini volanti non erano certo uno scandalo. Figuriamoci,
perfino gli uomini, di tanto in tanto, si libravano leggeri nella brezza e planavano a
qualche metro sopra le onde dell’azzurro mar d’Irlanda, così, giusto per vedere
l’effetto che fa. Capitava magari di incrociarsi e salutarsi appena con un cenno, per
non capitombolare alla stregua dello sfortunato asino. Naturalmente non tutti erano
in grado di imitare gli uccelli. Sapete com’è, non tutti amano stare in posizione
orizzontale, non tutti hanno lo stomaco forte di Jacky McFadden, non tutti sanno
prenderla per il verso giusto, non tutti scorgono nelle braccia analogie con le ali,
non tutti resistono un solo minuto lontani da Annie o Mary o Catherine o Alice o
Nuala o Frank. E poi, non tutti si ritengono degni d’innalzarsi verso il cielo prima
del tempo stabilito. Pare che Michael ed Eileen McAlister fossero dei provetti
volatori, anche se nessuno li aveva mai visti al di sopra della propria testa. Non era
più il tempo per simili stramberie. Dedicarsi a quello scansafatiche del figlio, ecco a
cosa erano invitati dalla comunità dei pii e ligi e onesti e irreprensibili e integri e
devoti e distinti e inappuntabili e intolleranti cittadini della grande Dublino, che
ogni fine settimana andavano a godersi la spiaggia fra Sandycove e Dalkey e si
sentivano ogni volta in dovere di richiamare all’ordine quei tre tipi fuori della
grazia di Dio. Ma la loro grazia era tutta lì, nella Baia di Dublino, fra Bray e
Howth, ed era sempre bastata ai McAlister. Come pure ai Divney e ai Brinsley e ai
Cranly e ai McCruiskeen e ai Pluck e ai Fottrell e ai Mulligan e ai Dedalus e agli
Hackett e ai Bloom e ai Finnegan e ai Collopy, perfino a De Selby (che tanto aveva
amato la Baia da volerla far saltare in aria). C’era stato pure chi s’era preso la briga
di trascinare con la forza il piccolo Cormac in città, per iscriverlo alla scuola dei
gesuiti di Clongowes, loro sì che l’avrebbero messo a posto, in riga, al pari di tutti i
ragazzi della sua età. Dopo appena un giorno di permanenza, il piccolo era però già
fuori dal collegio; naturalmente non era fuggito, sarebbe stato scortese da parte sua
sabotare gli sforzi di chi tanto si prodigava per il suo bene, malgrado la sua
principale occupazione fosse quella di rigirarsi i pollici: semplicemente,
un’invasione di topi provenienti da Sandycove aveva obbligato i padri a chiudere i
battenti per circa una settimana.
Era stata l’occasione per Cormac McAlister di dare un’occhiata alla grande
città, la metropoli che aveva sempre osservato dalla sua spiaggia o dalla collina di
Killiney o da un molo di Dun Laoghaire o magari dalla barca sulla quale si
divertiva ad acciuffare pesciolini, guardarli negli occhi, intonare la melodia tante
volte cantatagli dalla madre e rigettarli tra i flutti, avendoli resi più consapevoli del
mondo asciutto. Con le sue sole gambe era riuscito a percorrere in lungo e in largo
Dublino, divertendosi in particolare ad attraversare più e più volte la Liffey,
saggiando le doti di resistenza di ciascuno dei ponti che ne collegavano le due rive.
Se in un primo tempo si era limitato a farsi guidare dai suoi passi, in seguito era
stato catturato da certe targhette scure incise nel metallo, nelle quali sempre lo
stesso signore sembrava additargli l’itinerario più consono a un forestiero come lui.
Stanco di guardare e di camminare e di scansare bus, taxi e biciclette e annusare
odori di cibo da ogni angolo delle strade e rispondere a richieste di cui non capiva il
senso, si era infine gettato in un soffice prato verde in Stephen’s Green, a pochi
passi da un nugolo di suoi coetanei che leggevano e chiacchieravano e mangiavano
e dormivano e si sbaciucchiavano. Uno di loro, in preda, a suo dire, a un’estasi
mistico-creativa, gli aveva finanche fatto dono del suo grosso sandwich farcito di
tonno, mais e maionese. Per Cormac McAlister fu una piacevole scoperta, abituato
com’era a mangiare le cose come natura le offre, tonni compresi. Non minore
piacere produsse in lui la vista di una ragazza stesa tra i fiori, con gli occhi
socchiusi e una mano poggiata sul pelo arruffato di un bonario cagnolino. Ma il
sole era prossimo a tramontare e senz’altro Eileen e Michael McAlister erano in
trepida attesa del suo ritorno. Dato che la leggiadra ragazza era diretta verso
Blackrock, e poiché il cagnolino mostrava una certa simpatia nei suoi confronti, e
dal momento che uno più uno fa due, Cormac accompagnò Grainne O’Nolan (così
si chiamava) a Pearse Station, donde insieme salirono sul trenino della DART.
Peccato che alla fermata di Blackrock ci fosse un certo Diarmuid O’Donoghue ad
aspettare la signorina. Malgrado il cagnolino proprio non lo sopportasse.
Fischiettando e sospirando, Cormac McAlister percorse il resto del tragitto a piedi,
impaziente di raccontare ai genitori della sua prima esperienza dublinese.
Si era alzato un vento non proprio rassicurante e la barchetta di Cormac
sembrava non essere esattamente a suo agio tra le onde. Dell’asino, in ogni caso,
non c’era traccia. Era forse annegato? Una vera disdetta, una così mansueta eppur
intraprendente creatura inghiottita dal mare. Ma che fare? Cormac McAlister non
era certo una schiappa come nuotatore, ma neppure un olimpionico. Eppoi, avete
presente il peso di un asino? Così sia, lui ci aveva provato, toccava a qualcun altro
andarlo a ripescare chissà dove, ammesso che non si fosse già salvato grazie
all’intervento di quell’angelo di sua madre che, come vegliava su di lui, magari
vegliava anche sui poveri asini di questo mondo. Ma il vento soffiava in direzione
ostinata e contraria rispetto all’agognata spiaggia, soffiava anzi tanto forte da
ribaltare la barchetta e con essa il buon Cormac McAlister, che in men che non si
dica si ritrovò nel più profondo dell’abisso della Baia. Toh, accucciato sul fondale,
con l’aria placida di chi la sa lunga, c’era proprio l’asino; volare, stare in apnea
sott’acqua: era forse giunta l’era dell’asino bianco? D’accordo, il quadrupede era lì,
apparentemente incolume, ma accanto a lui parve di scorgere, a Cormac McAlister,
nientemeno che la sua amata madre, Eileen McAlister. Era ancora più bella di come
la ricordava nel giorno del tuffo fatale. Avrebbe voluto correrle incontro,
abbracciarla di santa ragione, sedersi accanto a lei per ascoltare il suo dolce canto,
magari raccontarle ciò che era avvenuto dalla sua dipartita, giorno dopo giorno.
Tutto come se si trovassero sulla terraferma, all’asciutto, respirando a pieni
polmoni l’aria della Baia. La terra su cui camminava era effettivamente ferma, ma
attorno a lui c’era tanta ma tanta acqua, altro che aria. Purtroppo Cormac se ne
accorse, così che in un baleno la vista gli si annebbiò, naso e bocca si spalancarono,
le forze gli vennero meno fino a farlo svenire. Ciò che accadde subito dopo si può
solo immaginare, dato che il quadro successivo ci mostra un Cormac McAlister in
posizione orizzontale sulla spiaggia, a pancia in su, con le braccia distese in tutta la
loro larghezza e le gambe incrociate. A vegliare su di lui il prode asino, che dopo
aver tentato la via dell’aria e quella dell’acqua si accingeva evidentemente a
riconquistare la terra. Fu proprio l’inconfondibile odore dell’animale, nonché un
suo sommesso raglio, a ricondurre il naufrago nel consesso dei vivi. Com’era
ancora intenso il piacere della visione della madre e come mordeva ancora il
rimpianto di non essersi potuto stringere al suo cuore. Ma allora, quel tuffo non era
stato poi tanto fatale…
«Qual è il tuo nome, mio generoso salvatore?».
«Cormac McAlister, figlio di Michael e Eileen McAlister. Salvatore io?
Piuttosto salvato. Non ho neppure la forza di schiudere le labbra per rispondere alla
tua domanda. Sento addosso a me una debolezza ignota. Già, ma chi è che parla?».
Attorno a lui non sembrava esserci anima viva, fuorché, beninteso, il docile asino, il
quale lo osservava con fraterna comprensione.
«Io mi chiamo Jude, figlio di Jude e Scarlett. Vengo da Wicklow, dove ero
recluso nella stalla sotterranea di John Fitzgerald Marshall. Erano anni che cercavo
l’occasione per fuggire e finalmente, ieri, il più piccolo dei figli di Marshall, in
cambio di un sorriso e di una carota, mi ha aperto uno spiraglio donde ritrovare la
libertà. Mi ero alzato in volo da circa mezz’ora quando mi sono accorto di essere
stato scoperto da un centinaio di migliaia di persone. A quel punto mi sono lasciato
cascare, sperando nella buona accoglienza degli amici del mare».
«Jude? Sei tu forse Jude the Ass, il famoso asino ribelle, colui che non accettò
il ricatto delle cento carote pur di non alzare un solo zoccolo a favore del vento del
cambiamento, ovverosia in nome del completo accantonamento della tua razza da
qualsiasi ruolo nella nostra società?».
«In persona. Avessi ceduto alle lusinghe mi sarei perfino conquistato la
promozione a cavallo, conservando il diritto di ragliare. Ma avevo già sbagliato una
volta, non potevo cascarci ancora. Dovevo in qualche modo rimediare al mio
tradimento, permettendo ai miei undici fratelli di sparpagliarsi per Dublino e
guadagnarsi ciascuno un posto all’ombra dove continuare a vivere in attesa di tempi
migliori».
«Insomma, sto appunto parlando con te, asino mio, con te che pure muovi
solo orecchie e coda. Del resto io stesso non riesco ad articolare labbra e lingua.
Eppure tu mi rispondi».
Cormac McAlister ricordò la notte in cui, svegliato di soprassalto da una
lugubre cannonata, il padre Michael lo pose sulle sue gambe e gli raccontò la storia
dei Dodici Asini:
«In un campo di patate non lungi dalla fattoria di Joshua McBethel,
comparvero un giorno dodici piccoli asini, che percorrevano in lungo e in largo il
campo procedendo sempre in cerchio. Allo scadere di ogni ora, come per incanto, si
accucciavano e per circa cinque minuti si scambiavano ragli e raglietti in cui pareva
di ascoltare l’eterna storia del mondo. Terminata la sosta, ciascuno afferrava una
patata e la masticava lentamente, osservando quieto il paesaggio che mutava.
Infine, ecco che ripartiva il cerchio peregrinante, che sempre si tratteneva nei
confini di quel campo abbandonato. Incuriosito, il buon Joshua McBethel vinse la
sua naturale ritrosia e si accostò a uno degli asini, cercando di carpirgli qualche
segreto. Per tutta risposta, l’equide si spostò lateralmente, invitando l’uomo a
entrare nel cerchio. Joshua si voltò, dando un’ultima occhiata alla sua fattoria e a
Mary e ai piccoli John e Stephen e Paul, quindi si rigirò e mosse tre passi in avanti,
trovandosi circondato una volta per tutte dai dodici asini. Ci vollero giorni e mesi e
anni, ma finalmente tra l’uomo e gli animali si giunse a un linguaggio comune, con
il quale poterono conversare amabilmente sulla sorte di Michael Collins e sulle
liriche di James Clarence Mangan e sulle corse di cavalli a Donnybrook e
sull’evoluzione degli sport gaelici e sul significato della patata nella storia della
nazione e sul ritorno di Finn MacCool e sulle traversie dell’Ulster e
sull’emigrazione in America e sul peso della Chiesa nella vita degli irlandesi e sulle
scorribande del gatto marino nelle Rosses e sulla delicata questione che aveva
tenuto in ambasce per tre notti di fila l’intera popolazione di Navan, ovvero
dell’opportunità che Brendan Kelly accettasse le profferte amorose di Gwendoline
Monroe da Tralee, pur essendo egli già impegnato con la bella Deirdre Callaghan.
Tutto proseguì nel migliore dei modi, finché la cosa non venne scoperta da John
Fitzgerald Marshall». Qui il racconto si chiudeva bruscamente, dal momento che
Cormac McAlister era ritornato nel mondo dei sogni. Il resto della storia era
rimasto fino ad allora un aureo mistero per il ragazzo, che l’aveva ripescata nella
memoria subito dopo la scomparsa del padre. Essendo Eileen McAlister più incline
al canto che alla narrazione, aveva dovuto affidarsi a ciò che se ne raccontava lungo
la Baia di Dublino. Ma i bardi erano ormai merce rara, sicché gli era riuscito di
apprendere soltanto di una non molto chiara vicenda di tradimento e forse di
riscatto dell’asino Jude, figlio di Jude e di Scarlett, che ora lo fissava con sguardo
quasi paterno sulla spiaggia di Sandycove.
«Monta in groppa, non appena avrai recuperato in pieno le tue forze e ti sarai
armato di santa pazienza. Ti condurrò, con tutta la lentezza che puoi immaginare,
sulle strade lungo le quali si è compiuto l’itinerario esemplare dei Dodici Asini, che
cercarono fino all’ultimo di proteggere Joshua McBethel, l’assolutamente buono
Joshua McBethel».
Cormac McAlister si alzò in piedi, sia pure non celermente, e osservò la Baia,
che trovò uguale a come l’aveva lasciata prima di annegare. Per un’ora restò
immobile a riflettere su quelli che potevano essere i suoi impegni a breve e medio
termine. Naturalmente non ne ravvisò, per cui si sentì pronto a salire in groppa
all’asino e a lasciarsi da lui guidare lungo le strade del mondo.