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Un asino caduto dal cielo

English: Through the streets of Dublin and the waters of Dublin Bay, take place and intersect the vicissitudes, the wanderings and the encounters of characters of all sorts. Four of them, in particular – the last survivor of the good race of true layabouts, a young woman not quite glad to graduate and get married, a loyal friend revived at the wheel of an old Mini and an amazing donkey fallen from the sky – live the time not as a sentence but as an opportunity for freedom and (unexpected) discoveries, in spite of dogmas, conventions and (supposed) values that inhibit our humanity. A funny, parodistic and irreverent odyssey in the Irish present and past, celebrating the ambiguous charm of eternal digression and the heretical power of literary fiction. Italiano: Lungo le strade di Dublino e della sua Baia si dipanano e si incrociano le vicende, le peripezie e le divagazioni di personaggi d’ogni specie. Quattro di loro, in particolare – l’ultimo superstite della stirpe dei veri perdigiorno, una giovane trentenne non proprio convinta di laurearsi e sposarsi, un’amica fedele rinata al volante di una vecchia Mini e un asino unico nel suo genere piovuto da chissà dove – vivono il tempo non come una condanna ma come un’occasione di libertà e di (imprevedibili) scoperte, alla faccia di dogmi, convenzioni e (pseudo)valori che imbrigliano la nostra umanità. Una parodica e irriverente odissea in salsa irlandese, piena di spunti comici, che celebra il fascino inquietante dell’eterna digressione e la potenza eretica della finzione letteraria.

VITO CARRASSI UN ASINO CADUTO DAL CIELO Non avere alcuna proprietà, Rinnegare l’anima, Come i sassi e i fili d’erba Non avere identità. Baustelle, Gli spietati Giacché almeno in questo sarò veritiero, dicendo che mento. Così credo di sfuggire all’accusa che può venirmi dagli altri, riconoscendo io stesso di non dire nulla di vero. Luciano, Storia vera A mio padre, il cui spirito aleggia impercettibilmente fra queste pagine I In principio fu la Baia di Dublino, quindi, l’una dopo l’altra, spuntarono dall’Oceano le contee della vecchia e cara Irlanda. Questo aveva sempre saputo Cormac McAlister, che in trent’anni e rotti dalla Baia non si era mai mosso. Ne conosceva ogni anfratto, ogni pertugio, ogni più recondito recesso, un’autorità insomma nel pontificare sulla materia. Non fu perciò una sorpresa per lui scoprire, quella mattina del 20 agosto di inizio millennio, il copioso affluire di irlandesi, provenienti da Galway come da Cork, dal Donegal come dal Meath, da Sligo come da Kilkenny, dal Kerry come dal Connemara, da sinistra come da destra (più da sinistra, in verità), dall’alto come dal basso (più dal basso, in effetti), da ieri come da domani (ma ancor più da oggi). In pochi minuti, la spiaggia sulla quale sorgeva la sua casupola, abusivamente tirata su a metà strada fra Sandycove e Dalkey, si riempì di curiosi d’ogni specie, con tanto d’occhi spalancati verso il Mar d’Irlanda. Vestitosi come meglio gli consentiva lo scarno guardaroba, dopo aver trangugiato la sua consueta birretta mattutina mista a latte, andò incontro alla folla, pronto a offrire il suo prezioso aiuto. Perché? Le fonti più accreditate riferiscono che l’individuo in questione fosse il discendente diretto di una sequela ininterrotta di autentici perdigiorno, di quelli di cui ormai si è perso lo stampo, come direbbe un bel tipo del lontano Ovest; un campione assoluto nell’arte di farsi i fatti propri, almeno finché le circostanze non richiedessero il suo intervento. Beninteso, purché l’azione non fosse latrice di impegni compromettenti. Se per tanti suoi illustri antenati, pesci, pani e birra erano piovuti, stando alle cronache, letteralmente dal cielo (almeno fino al secolo XIX, Celtic Revival compreso), a lui era toccato in sorte, ma sempre più raramente, di procurarsi le medesime cibarie in una portentosa grotta marina poco distante dalla sua magione. Gliel’aveva mostrata, tanti anni prima, il defunto padre, giusto prima di scomparire in circostanze misteriose. La madre l’aveva invece abbandonato in seguito a un malaugurato tuffo da uno scoglio non troppo benevolo, anche se Cormac affermava di vederla, una volta all’anno, uscire dall’acqua e farsi una passeggiata sulla riva, cantando quell’antico motivetto che gli piaceva tanto. Di fratelli e sorelle neppure l’ombra. Insomma, un perdigiorno solitario di primo livello, una vera primizia per i nostri tempi. Ah, che tempi quelli di una volta… Tempi in cui ti capitava di incontrare, con una certa frequenza, messer il gatto marino. Tempi in cui avresti potuto passeggiare per ore e ore senza sbucciarti un ginocchio sui cocci taglienti di una bottiglia rotta. Tempi in cui meno ti davi da fare, più il consesso degli anziani innalzava encomi in tuo onore. Tempi in cui, a Dio piacendo, la pioggia ti inzuppava, certo, ma scendeva carezzevole sulla pelle, procurandoti uno di quei piaceri che oggi neppure riesci più a sognare. Tempi in cui era lecito e venerato fermarsi dinanzi alla porta degli O’Leary e trascorrere ore su ore a parlare delle frenesie amorose del tuo cavallo, George dalla lunga criniera dorata, che tutti chiamavano George. Tempi in cui le monete ti tintinnavano numerose nelle tasche, ma solo perché eri diretto al campo di Joseph Sheridan, dove tutto il paese si attendeva le tue prodezze nell’eterna sfida a biglia-moneta contro Matthew Shanahan. Tempi in cui bastava dire sì per accettare una proposta di modifica negli accordi che regolavano il quieto vivere fra vicini di casa. Tempi in cui avresti potuto rimanere per giorni e notti steso al suolo senza infondere il benché minimo sospetto di una colluttazione all’ultimo sangue. Tempi in cui chiamarti Cormac era non solo un onore, non solo un vanto e non solo un obbligo contratto al battesimo, ma addirittura l’occasione di imbatterti, di tanto in tanto, in quell’illustre cavaliere che rispondeva appunto al nome di Cormac, che talvolta si mostrava talmente generoso da condurre con sé illustri compagni d’avventura i quali, ad ogni modo, restavano in religioso silenzio durante tutto il corso della conversazione. Insomma, i remoti tempi in cui Cormac McAlister non era ancora nato, ma di cui tanto gli era stato narrato da una serie di reduci dalla battaglia per la salvezza d’Irlanda, combattuta strenuamente ma miseramente perduta il giorno in cui si era sancito l’avvento del Nuovo Mondo, quello delle magnifiche sorti e regressive, per intenderci, quello dell’unico Bene contro tutto il resto che è Male, quello dell’Euforia contro l’Ironia, quello dell’Amicizia contro la Fraternità, quello dello Sfarzo contro la Sforzo, quello della Pura Verità contro l’Oscura Finzione, quello del Pieno Ripieno contro il Vuoto Riempito, quello dei Crudi Fatti contro le Vane Parole: un incubo per Cormac McAlister e i suoi sempre più rari simili. Fatto sta che quella mattina del 20 agosto, una folla oceanica si riversò sulla sua spiaggia, apparentemente del tutto dimentica di impegni, vincoli, incombenze, obblighi, gravami, incarichi, doveri, compiti, responsabilità, ingiunzioni, impicci e impacci, lacci e lacciuoli, faccende e faccenduole. Il mare era moderatamente mosso, il sole faceva rimbalzare i suoi raggi con moderazione sulle onde e una moderata brezza spazzava l’aria salmastra. «Tutto torna», diceva tra sé Cormac McAlister, mentre si offriva, con umana sollecitudine, a lenire le esigenze oratorie degli ospiti. Ma nessuno aveva voglia di parlare, tutti fissavano l’orizzonte, come in attesa di un segno. Un sommesso battere d’ali, poi un sommesso raglio, quindi una folata di vento pregna di odori di stalla, infine il disco solare per metà eclissato. Eccolo, in tutta la sua equivoca realtà. Eccolo, sprigionato da chissà quale profondità del mare. Eccolo, planare nell’aria placido più di un bue. Eccolo, lasciarsi dietro l’opprimente condizione terrena. Eccolo, infischiarsene dei più prestigiosi saggi dell’universo mondo. Eccolo, indicare la via verso il cielo, mentre con il naso all’insù lo si osservava in preda a una penosa sensazione di impotente meraviglia. L’asino, il somaro, il ciuco che vola era lì, dinanzi ai loro occhi! E volava davvero, quel magnifico esemplare, ma non con ali posticce; le sue lunghe orecchie, tanto dileggiate nei trascorsi millenni, si agitavano in un moto regolare, cadenzato, addirittura elegante. Chissà dove sarebbe giunto se un dispettoso riflesso luminoso non l’avesse deconcentrato, facendolo rovinosamente piombare fra le onde dell’azzurro mare. L’oceanica folla trasse prima un sospiro di sollievo, quindi, come un sol uomo, voltò le spalle, totalmente disgustata dall’inaudita perdita di tempo. L’asino volante era rapidamente ritornato nella sua vana, onirica, immaginaria, proverbiale, subdola, ambigua, deprimente, indecente, sconvolgente, repellente, indisponente, destabilizzante, iniqua inconsistenza. Un’immensa coltre di sabbia e polvere segnalò la scomposta fuga di centinaia di migliaia d’individui alla volta dei propri ovili. Ma gli asini sanno nuotare? La domanda sorse spontanea sulle labbra di Cormac McAlister. In mancanza di una risposta incontrovertibile, ritenne opportuno dirigersi sul luogo della caduta, affinché nessuno, un giorno, potesse accusarlo di non aver offerto il suo aiuto a una povera bestia inerme. Mentre la barca filava lesta, sospinta da un benevolo vento, Cormac McAlister rimuginava sul folle comportamento della folla. Un prodigio si era compiuto, magari a metà, magari incompleto, magari privo di lieto fine, ma pur sempre un prodigio. L’Irlanda era davvero quella? Un tempo esisteva solo la Baia di Dublino, tutto il mondo era racchiuso tra Howth e Bray. Allora gli asini volanti non erano certo uno scandalo. Figuriamoci, perfino gli uomini, di tanto in tanto, si libravano leggeri nella brezza e planavano a qualche metro sopra le onde dell’azzurro mar d’Irlanda, così, giusto per vedere l’effetto che fa. Capitava magari di incrociarsi e salutarsi appena con un cenno, per non capitombolare alla stregua dello sfortunato asino. Naturalmente non tutti erano in grado di imitare gli uccelli. Sapete com’è, non tutti amano stare in posizione orizzontale, non tutti hanno lo stomaco forte di Jacky McFadden, non tutti sanno prenderla per il verso giusto, non tutti scorgono nelle braccia analogie con le ali, non tutti resistono un solo minuto lontani da Annie o Mary o Catherine o Alice o Nuala o Frank. E poi, non tutti si ritengono degni d’innalzarsi verso il cielo prima del tempo stabilito. Pare che Michael ed Eileen McAlister fossero dei provetti volatori, anche se nessuno li aveva mai visti al di sopra della propria testa. Non era più il tempo per simili stramberie. Dedicarsi a quello scansafatiche del figlio, ecco a cosa erano invitati dalla comunità dei pii e ligi e onesti e irreprensibili e integri e devoti e distinti e inappuntabili e intolleranti cittadini della grande Dublino, che ogni fine settimana andavano a godersi la spiaggia fra Sandycove e Dalkey e si sentivano ogni volta in dovere di richiamare all’ordine quei tre tipi fuori della grazia di Dio. Ma la loro grazia era tutta lì, nella Baia di Dublino, fra Bray e Howth, ed era sempre bastata ai McAlister. Come pure ai Divney e ai Brinsley e ai Cranly e ai McCruiskeen e ai Pluck e ai Fottrell e ai Mulligan e ai Dedalus e agli Hackett e ai Bloom e ai Finnegan e ai Collopy, perfino a De Selby (che tanto aveva amato la Baia da volerla far saltare in aria). C’era stato pure chi s’era preso la briga di trascinare con la forza il piccolo Cormac in città, per iscriverlo alla scuola dei gesuiti di Clongowes, loro sì che l’avrebbero messo a posto, in riga, al pari di tutti i ragazzi della sua età. Dopo appena un giorno di permanenza, il piccolo era però già fuori dal collegio; naturalmente non era fuggito, sarebbe stato scortese da parte sua sabotare gli sforzi di chi tanto si prodigava per il suo bene, malgrado la sua principale occupazione fosse quella di rigirarsi i pollici: semplicemente, un’invasione di topi provenienti da Sandycove aveva obbligato i padri a chiudere i battenti per circa una settimana. Era stata l’occasione per Cormac McAlister di dare un’occhiata alla grande città, la metropoli che aveva sempre osservato dalla sua spiaggia o dalla collina di Killiney o da un molo di Dun Laoghaire o magari dalla barca sulla quale si divertiva ad acciuffare pesciolini, guardarli negli occhi, intonare la melodia tante volte cantatagli dalla madre e rigettarli tra i flutti, avendoli resi più consapevoli del mondo asciutto. Con le sue sole gambe era riuscito a percorrere in lungo e in largo Dublino, divertendosi in particolare ad attraversare più e più volte la Liffey, saggiando le doti di resistenza di ciascuno dei ponti che ne collegavano le due rive. Se in un primo tempo si era limitato a farsi guidare dai suoi passi, in seguito era stato catturato da certe targhette scure incise nel metallo, nelle quali sempre lo stesso signore sembrava additargli l’itinerario più consono a un forestiero come lui. Stanco di guardare e di camminare e di scansare bus, taxi e biciclette e annusare odori di cibo da ogni angolo delle strade e rispondere a richieste di cui non capiva il senso, si era infine gettato in un soffice prato verde in Stephen’s Green, a pochi passi da un nugolo di suoi coetanei che leggevano e chiacchieravano e mangiavano e dormivano e si sbaciucchiavano. Uno di loro, in preda, a suo dire, a un’estasi mistico-creativa, gli aveva finanche fatto dono del suo grosso sandwich farcito di tonno, mais e maionese. Per Cormac McAlister fu una piacevole scoperta, abituato com’era a mangiare le cose come natura le offre, tonni compresi. Non minore piacere produsse in lui la vista di una ragazza stesa tra i fiori, con gli occhi socchiusi e una mano poggiata sul pelo arruffato di un bonario cagnolino. Ma il sole era prossimo a tramontare e senz’altro Eileen e Michael McAlister erano in trepida attesa del suo ritorno. Dato che la leggiadra ragazza era diretta verso Blackrock, e poiché il cagnolino mostrava una certa simpatia nei suoi confronti, e dal momento che uno più uno fa due, Cormac accompagnò Grainne O’Nolan (così si chiamava) a Pearse Station, donde insieme salirono sul trenino della DART. Peccato che alla fermata di Blackrock ci fosse un certo Diarmuid O’Donoghue ad aspettare la signorina. Malgrado il cagnolino proprio non lo sopportasse. Fischiettando e sospirando, Cormac McAlister percorse il resto del tragitto a piedi, impaziente di raccontare ai genitori della sua prima esperienza dublinese. Si era alzato un vento non proprio rassicurante e la barchetta di Cormac sembrava non essere esattamente a suo agio tra le onde. Dell’asino, in ogni caso, non c’era traccia. Era forse annegato? Una vera disdetta, una così mansueta eppur intraprendente creatura inghiottita dal mare. Ma che fare? Cormac McAlister non era certo una schiappa come nuotatore, ma neppure un olimpionico. Eppoi, avete presente il peso di un asino? Così sia, lui ci aveva provato, toccava a qualcun altro andarlo a ripescare chissà dove, ammesso che non si fosse già salvato grazie all’intervento di quell’angelo di sua madre che, come vegliava su di lui, magari vegliava anche sui poveri asini di questo mondo. Ma il vento soffiava in direzione ostinata e contraria rispetto all’agognata spiaggia, soffiava anzi tanto forte da ribaltare la barchetta e con essa il buon Cormac McAlister, che in men che non si dica si ritrovò nel più profondo dell’abisso della Baia. Toh, accucciato sul fondale, con l’aria placida di chi la sa lunga, c’era proprio l’asino; volare, stare in apnea sott’acqua: era forse giunta l’era dell’asino bianco? D’accordo, il quadrupede era lì, apparentemente incolume, ma accanto a lui parve di scorgere, a Cormac McAlister, nientemeno che la sua amata madre, Eileen McAlister. Era ancora più bella di come la ricordava nel giorno del tuffo fatale. Avrebbe voluto correrle incontro, abbracciarla di santa ragione, sedersi accanto a lei per ascoltare il suo dolce canto, magari raccontarle ciò che era avvenuto dalla sua dipartita, giorno dopo giorno. Tutto come se si trovassero sulla terraferma, all’asciutto, respirando a pieni polmoni l’aria della Baia. La terra su cui camminava era effettivamente ferma, ma attorno a lui c’era tanta ma tanta acqua, altro che aria. Purtroppo Cormac se ne accorse, così che in un baleno la vista gli si annebbiò, naso e bocca si spalancarono, le forze gli vennero meno fino a farlo svenire. Ciò che accadde subito dopo si può solo immaginare, dato che il quadro successivo ci mostra un Cormac McAlister in posizione orizzontale sulla spiaggia, a pancia in su, con le braccia distese in tutta la loro larghezza e le gambe incrociate. A vegliare su di lui il prode asino, che dopo aver tentato la via dell’aria e quella dell’acqua si accingeva evidentemente a riconquistare la terra. Fu proprio l’inconfondibile odore dell’animale, nonché un suo sommesso raglio, a ricondurre il naufrago nel consesso dei vivi. Com’era ancora intenso il piacere della visione della madre e come mordeva ancora il rimpianto di non essersi potuto stringere al suo cuore. Ma allora, quel tuffo non era stato poi tanto fatale… «Qual è il tuo nome, mio generoso salvatore?». «Cormac McAlister, figlio di Michael e Eileen McAlister. Salvatore io? Piuttosto salvato. Non ho neppure la forza di schiudere le labbra per rispondere alla tua domanda. Sento addosso a me una debolezza ignota. Già, ma chi è che parla?». Attorno a lui non sembrava esserci anima viva, fuorché, beninteso, il docile asino, il quale lo osservava con fraterna comprensione. «Io mi chiamo Jude, figlio di Jude e Scarlett. Vengo da Wicklow, dove ero recluso nella stalla sotterranea di John Fitzgerald Marshall. Erano anni che cercavo l’occasione per fuggire e finalmente, ieri, il più piccolo dei figli di Marshall, in cambio di un sorriso e di una carota, mi ha aperto uno spiraglio donde ritrovare la libertà. Mi ero alzato in volo da circa mezz’ora quando mi sono accorto di essere stato scoperto da un centinaio di migliaia di persone. A quel punto mi sono lasciato cascare, sperando nella buona accoglienza degli amici del mare». «Jude? Sei tu forse Jude the Ass, il famoso asino ribelle, colui che non accettò il ricatto delle cento carote pur di non alzare un solo zoccolo a favore del vento del cambiamento, ovverosia in nome del completo accantonamento della tua razza da qualsiasi ruolo nella nostra società?». «In persona. Avessi ceduto alle lusinghe mi sarei perfino conquistato la promozione a cavallo, conservando il diritto di ragliare. Ma avevo già sbagliato una volta, non potevo cascarci ancora. Dovevo in qualche modo rimediare al mio tradimento, permettendo ai miei undici fratelli di sparpagliarsi per Dublino e guadagnarsi ciascuno un posto all’ombra dove continuare a vivere in attesa di tempi migliori». «Insomma, sto appunto parlando con te, asino mio, con te che pure muovi solo orecchie e coda. Del resto io stesso non riesco ad articolare labbra e lingua. Eppure tu mi rispondi». Cormac McAlister ricordò la notte in cui, svegliato di soprassalto da una lugubre cannonata, il padre Michael lo pose sulle sue gambe e gli raccontò la storia dei Dodici Asini: «In un campo di patate non lungi dalla fattoria di Joshua McBethel, comparvero un giorno dodici piccoli asini, che percorrevano in lungo e in largo il campo procedendo sempre in cerchio. Allo scadere di ogni ora, come per incanto, si accucciavano e per circa cinque minuti si scambiavano ragli e raglietti in cui pareva di ascoltare l’eterna storia del mondo. Terminata la sosta, ciascuno afferrava una patata e la masticava lentamente, osservando quieto il paesaggio che mutava. Infine, ecco che ripartiva il cerchio peregrinante, che sempre si tratteneva nei confini di quel campo abbandonato. Incuriosito, il buon Joshua McBethel vinse la sua naturale ritrosia e si accostò a uno degli asini, cercando di carpirgli qualche segreto. Per tutta risposta, l’equide si spostò lateralmente, invitando l’uomo a entrare nel cerchio. Joshua si voltò, dando un’ultima occhiata alla sua fattoria e a Mary e ai piccoli John e Stephen e Paul, quindi si rigirò e mosse tre passi in avanti, trovandosi circondato una volta per tutte dai dodici asini. Ci vollero giorni e mesi e anni, ma finalmente tra l’uomo e gli animali si giunse a un linguaggio comune, con il quale poterono conversare amabilmente sulla sorte di Michael Collins e sulle liriche di James Clarence Mangan e sulle corse di cavalli a Donnybrook e sull’evoluzione degli sport gaelici e sul significato della patata nella storia della nazione e sul ritorno di Finn MacCool e sulle traversie dell’Ulster e sull’emigrazione in America e sul peso della Chiesa nella vita degli irlandesi e sulle scorribande del gatto marino nelle Rosses e sulla delicata questione che aveva tenuto in ambasce per tre notti di fila l’intera popolazione di Navan, ovvero dell’opportunità che Brendan Kelly accettasse le profferte amorose di Gwendoline Monroe da Tralee, pur essendo egli già impegnato con la bella Deirdre Callaghan. Tutto proseguì nel migliore dei modi, finché la cosa non venne scoperta da John Fitzgerald Marshall». Qui il racconto si chiudeva bruscamente, dal momento che Cormac McAlister era ritornato nel mondo dei sogni. Il resto della storia era rimasto fino ad allora un aureo mistero per il ragazzo, che l’aveva ripescata nella memoria subito dopo la scomparsa del padre. Essendo Eileen McAlister più incline al canto che alla narrazione, aveva dovuto affidarsi a ciò che se ne raccontava lungo la Baia di Dublino. Ma i bardi erano ormai merce rara, sicché gli era riuscito di apprendere soltanto di una non molto chiara vicenda di tradimento e forse di riscatto dell’asino Jude, figlio di Jude e di Scarlett, che ora lo fissava con sguardo quasi paterno sulla spiaggia di Sandycove. «Monta in groppa, non appena avrai recuperato in pieno le tue forze e ti sarai armato di santa pazienza. Ti condurrò, con tutta la lentezza che puoi immaginare, sulle strade lungo le quali si è compiuto l’itinerario esemplare dei Dodici Asini, che cercarono fino all’ultimo di proteggere Joshua McBethel, l’assolutamente buono Joshua McBethel». Cormac McAlister si alzò in piedi, sia pure non celermente, e osservò la Baia, che trovò uguale a come l’aveva lasciata prima di annegare. Per un’ora restò immobile a riflettere su quelli che potevano essere i suoi impegni a breve e medio termine. Naturalmente non ne ravvisò, per cui si sentì pronto a salire in groppa all’asino e a lasciarsi da lui guidare lungo le strade del mondo.