Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
Benedetto Vertecchi "Riscolarizzare" la società Lezione tenuta il 29 aprile 1999 a Covilhã, presso l’Universidade da Beira Interior Perché parlare di “riscolarizzazione” in un quadro che appare, almeno nei paesi industrializzati, segnato da una scolarizzazione prolungata ed estesa a tutta, o quasi, la popolazione? Non ci sono, infatti, segnali apprezzabili che possano far pensare a una regressione nell'offerta educativi da parte dei sistemi scolastici, tale da privare di tale offerta quote più o meno ampie di popolazione che al momento ne fruiscano. Tuttavia, se esaminiamo quali sono i fenomeni che caratterizzano i sistemi scolastici contemporanei, emergono aspetti contraddittori: da un lato certi comportamenti della popolazione sembrano consolidati, e comunque incoraggiati, dall'altro assistiamo a una progressiva trasformazione del contenuto della proposta d’istruzione. In altre parole, è ben vero che ormai la quasi totalità dei bambini e dei ragazzi fruisce dell’educazione scolastica, che andare a scuola è considerato parte costitutiva della condizione di esistenza delle nuove generazioni e che esistono leggi che sanciscono il diritto-dovere all'istruzione, ma è anche vero che molti segni lasciano intravedere che ci si trova in una fase di passaggio, e che non è ben chiaro quale possa essere il punto d'arrivo dei mutamenti in corso. Quel che è certo è che una prima lunga fase della scolarizzazione - quella che ha visto il progressivo estendersi della fruizione dell’educazione scolastica alle diverse fasce della popolazione - si è esaurita. I sistemi scolastici hanno perso la spinta propulsiva che derivava dalla presenza di una domanda insoddisfatta di istruzione: si avvertono numerosi segni di sbandamento, e molti incominciano a chiedersi quale potrà essere - non solo a lungo termine, ma anche in un futuro prossimo - l'immagine della scuola. La prima fase della scolarizzazione si è esaurita col raggiungimento del suo obiettivo fondamentale, che era quello dell’alfabetizzazione di massa. Certamente tale obiettivo non è stato raggiunto in modo uniforme, né mancano soggetti che ancora sono esclusi dall’educazione scolastica, ma si tratta di casi riconducibili al manifestarsi di una patologia sociale, che non modificano il quadro strutturale dell’educazione. I bambini e i ragazzi privati dell’educazione scolastica negli anni in cui sarebbero obbligati a fruirne configurano, più che un problema che investe i sistemi scolastici, 1 un problema sociale, e che può trovare soluzione soprattutto a livello sociale. Le tendenze che qui preme di rilevare riguardano dunque i sistemi scolastici nella configurazione che hanno effettivamente assunto negli ultimi due secoli, e cioè da quando ha incominciato a manifestarsi da parte di strati sempre più ampi della popolazione l'esigenza di acquisire un repertorio di competenze culturali di base, quelle sinteticamente indicate con l'espressione «leggere, scrivere e far di conto». Questa esigenza ha costituito il vero elemento dinamico dello sviluppo dei sistemi di istruzione. Si è avuta pertanto una crescita determinata assai più dalla presenza di una domanda insoddisfatta che da decisioni capaci di orientare l'offerta. In un primo tempo la domanda si è limitata a esprimere un'esigenza di alfabetizzazione al livello più modesto, ma gradualmente ha assunto caratteri più complessi. Gli interventi «politici» sui sistemi scolastici hanno seguito, e talvolta contrastato, la spinta sociale verso l'istruzione. È come dire che - con l'eccezione dei contesti in cui eventi rivoluzionari abbiano provocato improvvisi e rapidi rovesciamenti degli equilibri sociali preesistenti - nella maggior parte dei casi la domanda ha prevalso sull'offerta, e non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche per ciò che si riferisce alla qualità della proposta. La tendenza al prolungamento del periodo della vita da destinare all’educazione scolastica è emersa prima nei comportamenti sociali e solo successivamente è stata accolta nei vari ordinamenti istituzionali. In altre parole, si sono verificate dinamiche assai simili a quelle che oggi si riscontrano in Italia: mentre da un punto di vista legislativo non si riesce a sancire il diritto-dovere all'istruzione oltre i quattordici anni per elevarlo ai sedici anni, i comportamenti della popolazione (ovviamente ci riferiamo a comportamenti modali, che possono presentare, e in effetti presentano, una variabilità anche piuttosto estesa) si orientano chiaramente verso un’educazione che comprenda l'intera fase evolutiva fino ai diciotto anni. Va notato tuttavia che la spinta all'istruzione che ha sostenuto la prima fase della scolarizzazione è stata sostenuta in larghissima misura da motivazioni non scolastiche, perché collegate ad aspettative di mobilità sociale e di miglioramento delle condizioni quotidiane dell’esistenza. Il declino di questi fattori dinamici è stato parallelo al progredire dell’assorbimento nei sistemi scolastici - il problema riguarda tutti i paesi industrializzati - della totalità o quasi della popolazione per un numero consistente di anni. Andare a scuola ha perso l'originaria connotazione di progresso per entrare a far parte di pratiche di comportamento alle quali non si collegano speciali aspettative che investano il corso successivo della vita. Fare scuola è diventato progressivamente più difficile, perché l’attività educativa si è dovuta acconciare all'attenuazione o all'assenza di quella disposizione positiva che in precedenza ne ha favorito l'accettazione da parte degli allievi. 2 Pur con le contraddizioni e i limiti accennati, si potrebbe pensare che un lungo periodo di educazione scolastica costituisca comunque una base positiva capace di segnare in modo determinante il quadro culturale dei paesi industrializzati. E si potrebbe anche pensare che al generalizzarsi della tendenza a protrarre ai diciotto anni l'età dell’educazione per tutti non possa che fare riscontro un assestamento della cultura diffusa ad un livello qualitativo sostenuto. Invece, stanno emergendo scricchiolii che sono a dir poco allarmanti: nei paesi industrializzati va aumentando, e in misura preoccupante, un fenomeno che è l’esatto contrario di quanto ci si potrebbe aspettare come effetto della scolarizzazione. Sta di nuovo crescendo l’analfabetismo. È un analfabetismo certamente diverso da quello storico, ma proprio per questo più preoccupante: come fenomeno storico l’analfabetismo si presentava come una condizione originaria non corretta attraverso l’educazione, mentre l’analfabetismo che riscontriamo oggi è un effetto, distorto quanto si vuole, ma pur sempre un effetto dell’educazione. Stime recenti elaborate negli Stati Uniti fanno ascendere a oltre quaranta milioni il numero delle persone con oltre sedici anni di età regredite a una condizione di quasi analfabetismo: quel che può sorprendere è che si tratta di persone che mediamente hanno fruito di una decina d'anni di esperienza scolastica. I nuovi analfabeti hanno avuto quindi opportunità di istruzione formale, ma l'esperienza d’istruzione non è stata tale da incidere in modo decisivo sul precisarsi della loro identità culturale. Anche la definizione di analfabeta non è identica a quella classica: oggi dobbiamo, infatti, considerare sostanzialmente analfabeta anche chi - pur possedendo qualche rudimento di capacità alfabetiche, come la capacità di riconosce l'insegna di un negozio o quella di tracciare un graffito per firma - risulta funzionalmente privo della capacità di acquisire e di formulare messaggi codificati in forma scritta. Ciò che ci interessa soprattutto è capire come mai la scolarizzazione, che per definizione ha per intento il trasferimento di capacità alfabetiche, possa produrre un risultato del tutto opposto, e cioè l’analfabetismo: ci troviamo, infatti, di fronte all'intervenire nel quadro culturale della popolazione di un’impressionante regressione. La spiegazione più immediata è che probabilmente al manifestarsi di questo fenomeno concorre il cambiamento di molti comportamenti sociali: non dobbiamo dimenticare che gli apprendimenti scolastici per un lungo tratto di tempo sono stati rinforzati da pratiche correnti nella vita quotidiana, oggi assai meno diffuse. Leggere e scrivere, a livello sociale, servono molto meno di quanto siano serviti in altri tempi, per il fatto che si sono progressivamente affermate modalità di comunicazione che prescindono in tutto o in parte dal possesso di capacità alfabetiche. È diventato poco comune scrivere lettere, si possono avere informazioni attraverso la televisione e la radio, si conserva memoria di eventi trascorsi attraverso immagini o registrazioni 3 sonore. In altre parole è venuto meno, o si è drasticamente ridotto, il rinforzo che poteva venire agli apprendimenti scolastici da pratiche non scolastiche. Ritengo tuttavia che ciò non basti a spiegare come mai le abilità acquisite in un lungo periodo di istruzione decadano nel successivo corso della vita, spesso dopo un tempo assai breve. Occorre individuare una spiegazione più complessa, anche attraverso l'elaborazione di specifiche ipotesi di ricerca. Non ha senso, infatti, supporre che un processo educativo abbia raggiunto un risultato in qualche modo apprezzabile se non si è in grado di costatarne la persistenza nel tempo e se le competenze acquisite non entrano a far parte di un repertorio permanente al quale i soggetti possano far ricorso nel seguito della vita. La questione si pone poi in termini sociali particolarmente gravi se consideriamo che per effetto del nuovo analfabetismo (o delle forme insidiose di semi-alfabetismo che a esso si associano), vengono ricreandosi lacerazioni nel tessuto sociale il cui superamento ha costituito un obbiettivo centrale nello sviluppo della prima fase della scolarizzazione. Siamo già in grado di costatare come il possesso di competenze alfabetiche di livello anche non particolarmente elevato stia creando una nuova discriminazione fra le classi sociali. È difficile pensare che da questa situazione si possa uscire positivamente senza una profonda revisione degli obiettivi e dei criteri di intervento che finora hanno caratterizzato l'attività dei sistemi scolastici, e che costituiscono una estrema estenuazione degli obiettivi e dei criteri che si erano affermati nella fase espansiva. Per cominciare, credo che sia improponibile elaborare ipotesi di sviluppo che consistano soltanto nella dilatazione lineare del servizio, ossia nella crescita progressiva del numero di anni dedicato all’educazione formale. Probabilmente, da questo punto di vista, un limite difficilmente superabile è già stato raggiunto o sta per essere raggiunto: se si considerassero molte manifestazioni patologiche del comportamento in età evolutiva si potrebbe giungere alla conclusione che esse, almeno in parte, sono da considerarsi l'effetto di una scolarizzazione distorta, di un prolungamento artificiale della dipendenza delle nuove generazioni dalle generazioni adulte. Anche le stesse caratteristiche fisiche e psicologiche della popolazione hanno subìto, come effetto della scolarizzazione, modifiche importanti: basti pensare - è solo un esempio, ma mi sembra estremamente significativo - a quanto profondamente sia mutata l’adolescenza nel corso di questo secolo. Quello che si presentava come un periodo piuttosto compatto al termine del ciclo dello sviluppo, tra i quindici e i sedici anni, nel quale giungeva a compimento, da un punto di vista biologico, il processo di crescita e si precisava il profilo della personalità dei giovani che stavano per assumere autonomia nella vita sociale, ora rappresenta un’età di cui è difficile intravedere la conclusione. 4 La scuola è anche un progetto della popolazione: fare scelte in questo campo corrisponde a immaginare come si vorrebbe che fossero le generazioni successive. In altre parole, la scuola va considerata una variabile indipendente rispetto ai fenomeni che investono la popolazione, nel senso che incide profondamente sulle trasformazioni che si osserveranno in tempi successivi. Il senso di responsabilità delle generazioni adulte nei confronti delle nuove generazioni dovrebbe indurre ad abbandonare l’ipotesi di una crescita lineare del numero di anni dedicati all’educazione formale (mi riferisco, come dovrebbe essere evidente, alla prima educazione); occorre invece pensare a un contenitore dell’educazione che vada oltre l’età evolutiva e si spinga verso le successive età della vita, consentendo percorsi educativi non lineari, ma articolati attraverso ritorni funzionali alla ricostituzione del repertorio delle competenze individuali e all’adeguamento di tale repertorio alle necessità della vita sociale e della vita produttiva. Questo nuovo corso della scolarizzazione, nel quale si cessi di identificare in un prolungamento indefinito l’obiettivo sociale da perseguire, ha bisogno di essere fortemente rivisto anche per quanto riguarda i traguardi da raggiungere. Nella prima fase della scolarizzazione l’uscita dal sistema scolastico coincideva sostanzialmente con l’acquisizione delle competenze che sarebbero state usate nel resto della vita: l’educazione scolastica si inseriva in un’interpretazione dei ruoli sociali caratterizzata da una forte rigidità e da una considerevole stabilità delle attività professionali. Si tratta di condizioni che non esistono più. Oggi dobbiamo pensare che la prima parte dell’educazione, quella che interessa l’infanzia e l’adolescenza, abbia il compito di porre le premesse per adattamenti culturali che interverranno nelle successive età della vita, e non solo per rispondere all'esigenza di riqualificazione dei profili professionali, ma anche (e, dal mio punto di vista, direi soprattutto) per conservare e accrescere la capacità di ciascuno di comprendere la realtà in cui vive, di essere parte consapevole della società, di contribuire alle scelte politiche senza essere facile oggetto di condizionamento da parte di quanti possiedano maggiori possibilità di organizzare e manipolare messaggi. L’aspirazione, che ha caratterizzato per un lungo tratto la crescita della scolarizzazione, a definire in modo conclusivo il profilo culturale e professionale dei giovani, a questo punto deve aprire spazi all’acquisizione di competenze che non abbiano un’immediata valenza sociale, ma che siano necessarie per consentire a ciascuno di adattarsi positivamente alle trasformazioni che con ritmo crescente intervengono nel tessuto sociale e culturale e nelle attività produttive. Ciò equivale ad affermare che occorre conferire all’educazione nella prima parte della vita un ruolo di condizione strutturale per gli adattamenti che successivamente saranno necessari. Del resto, se consideriamo quale sia il ritmo del superamento delle competenze nelle società contemporanee, ci rendiamo conto del fatto che 5 quanto più le competenze hanno risvolti pratici e applicativi, tanto più rapido è il tempo entro il quale esse non saranno più utilizzabili. Appaiono invece molto più stabili le competenze che corrispondono ad abilità che richiedono essenzialmente pensiero, e cioè non sono legate ad intenti utilitari, né all'uso di strumentazioni o di modalità comunicative, per quanto importanti, che in momenti determinati appaiano al centro dell'attenzione, ma che - come l'esperienza ha già mostrato - sono soggette a esaurirsi in un tempo sempre più breve. Di conseguenza, è necessario individuare una forma di scolarizzazione, che a questo punto chiamerei riscolarizzazione, che consista fondamentalmente nella sottrazione di quel tanto di contingentemente utilitario presente originariamente nell’idea di scolarizzazione, per allargare il quadro delle competenze verso un affinamento dei processi mentali che consentono di comprendere una realtà in rapida trasformazione e di avere parte attiva in società per il cui sviluppo la conoscenza e la comunicazione assumono un ruolo determinate. In questo senso, la riscolarizzazione non può che avere obiettivi profondamente diversi dalla scolarizzazione. La nuova fase non può che essere caratterizzata dal perseguimento di abilità complesse, che proprio perché complesse si collocano a un livello elevato: quando oggi si parla di qualità dell’istruzione non è per orecchiare parole d’ordine che si vanno diffondendo in altri settori della società, nella produzione di beni e servizi, ma perché si pone l’enfasi su quella componente collegata ai repertori disponibili dal punto di vista concettuale che possono essere utilmente riadattati in funzione di una conoscenza che ci incalza continuamente, che non sappiamo di preciso quale sarà, ma che i ragazzi che oggi si stanno formando incontreranno ad un certo punto del loro cammino. Teniamo conto che i tredici anni che occorrono per far passare una leva di popolazione dall’inizio della scuola elementare alla fine della scuola secondaria superiore equivalgono ormai dal punto di vista culturale al tempo in cui si compiono alcune importanti rivoluzioni: il quadro che troveranno all’uscita della scuola non solo sarà molto diverso da quello che hanno trovato nel momento in cui sono entrati, ma sarà con ogni probabilità diverso anche da quello che inizialmente poteva essere ipotizzato. Si tratta di fenomeni già in atto: il percorso scolastico dei nostri genitori e ancor più dei nostri nonni poteva essere preventivamente descritto in tutto il suo sviluppo, con buone probabilità che il percorso effettivo avrebbe ricalcato quello atteso. Oggi nessuno sarebbe in grado di indicare che cosa attenda alla fine della scuola secondaria i bambini che quest’anno incominciano la scuola elementare: possiamo soltanto sapere - e questo è abbastanza sicuro - che avranno di fronte una situazione profondamente diversa dall’attuale. Questo comporta, da un punto di vista didattico, una revisione profonda dei modi di intervento che sia in grado di assorbire per il possibile i fattori 6 di dispersione che sono presenti nel quadro educativo. Gli effetti dell’educazione derivano dal concorrere di due famiglie di variabili indipendenti: una prima famiglia si riferisce alle caratteristiche personali degli allievi, l’altra famiglia alle condizioni nelle quali ha luogo l'attività. Ci si presenta un’alternativa: se lasciamo prevalere la prima famiglia di variabili indipendenti, riproduciamo più o meno il quadro esistente, quindi esponiamo una buona parte della popolazione, in mancanza di rinforzi esterni, a quella prospettiva di analfabetismo, più o meno completo, a cui facevo riferimento prima. Se, invece, vogliamo affermare un modello educativo centrato sulla seconda famiglia di variabili indipendenti, allora possiamo pensare che gli esiti dell’educazione non debbano risentire eccessivamente della variabilità delle caratteristiche personali. Ciò vuol dire seguire un obiettivo di qualità nell’istruzione, ma vuol dire anche che non possiamo pensare ad una proposta educativa uniforme, perché la differenziazione dei percorsi diventa la condizione perché abbia il sopravvento quella famiglia di variabili indipendenti che prima ho detto essere collegate alle condizioni dell’educazione. In questo senso, alle didattiche centrate su stili d’interazione fondamentalmente uniformi o su stili comunicativi a messaggio rigido, vanno sostituite didattiche centrate sull’analisi delle caratteristiche personali e sulla differenziazione del messaggio in funzione di queste caratteristiche. La spinta alla scolarizzazione ha, sul piano quantitativo, realizzato il progetto comeniano che si riassume nell'espressione «Omnia omnibus», ossia, come viene comunemente tradotto, «tutto a tutti». Io vorrei darne una traduzione diversa, adatta al tempo in cui viviamo e ai problemi che prima ho ricordato: traduciamolo con «a ciascuno ogni cosa», per indicare che quello che abbiamo di fronte non è un soggetto collettivo, ma sono tanti allievi, ciascuno dei quali ha caratteristiche specifiche. A ciascuno di essi, e nei modi in cui è necessario ed è possibile, va rivolto un messaggio d’istruzione specifico per ogni aspetto considerato fondante di un profilo culturale che debba permanere nel seguito della vita. Allora, non un «tutto a tutti» che rischia di disperdere in questa nozione collettiva la specificità dei problemi personali, ma un «ogni cosa a ciascuno», che consenta di identificare qual è in ciascun momento il problema educativo di un allievo, che non è più virtuale, ma caratterizzato dalla precisa consapevolezza di una determinata realtà. In questo senso, «ciascuna cosa a ciascuno» è l’obiettivo che vedo costituire il punto verso cui dovrebbe tendere un processo di riscolarizzazione. In questi ultimi anni la ricerca ha dato grande risalto all’individualizzazione. Non sempre tuttavia le soluzioni proposte sono state del tutto corrispondenti alle ipotesi, a volte per limitazioni nel modello, altre volte per angustie nella dotazione strumentale. È questa comunque la strada da seguire. Nel Laboratorio di Pedagogia sperimentale dell'Università di Roma Tre stiamo cercando un altro modo di 7 interpretare la ricerca di soluzioni centrate sull’allievo. Se finora queste soluzioni sono state caratterizzate essenzialmente dall’individuazione della funzionalità dell’errore nella diversificazione dei percorsi, da qualche anno stiamo lavorando su approcci tesi, se non ad evitare, almeno a ridurre l’errore, nella consapevolezza che un percorso di apprendimento, non disperso o frazionato dalla necessità di compensare le cadute che in questo percorso si verificano, sia più gratificante, consenta di migliorare la motivazione interna all’apprendimento e permetta anche di ridurne i tempi. Non possiamo pensare che sia una via produttiva quella che ripropone in modi estenuanti e ripetitivi determinati percorsi con la consapevolezza che rispetto a essi non si raggiungerà mai un risultato pieno: il problema è raggiungere con certezza tale risultato e operare perché sia raggiunto al miglior livello educativo possibile. Per cui, ancora una volta, «ciascuna cosa a ciascuno» e, vorrei aggiungere, a livello elevato. L'esigenza cui occorre corrispondere è quella di assicurare una elevata qualità dell'istruzione, ossia quella di indirizzare a ciascun allievo una proposta di apprendimento capace di assicurare il conseguimento di determinati traguardi di abilità e di competenza. È questa la sfida che oggi la pedagogia sperimentale si trova ad affrontare: solo la ricerca può fornire, infatti, agli insegnanti gli elementi conoscitivi che possono consentire di variare i modi dell'offerta didattica a seconda delle esigenze che effettivamente si presentano. La didattica, come notava Comenio, è un'attività consapevolmente organizzata (artificium) per conseguire un intento. Si tratta di un'affermazione per nulla scontata, anche se l'opera nella quale è contenuta risale a poco oltre la metà del Seicento1. Infatti, è ancora abbastanza comune che ci si limiti a considerare l'artificialità delle componenti strumentali della didattica, mentre permangono atteggiamenti naturalistici nel considerare le componenti strutturali dei processi di insegnamento. Non c'è dubbio che un libro, un laboratorio di biologia o un programma per calcolatore siano il risultato di una costruzione consapevole, volta a realizzare qualcosa che altrimenti non sarebbe disponibile. Si accetta dunque il carattere artificiale dello strumentario didattico. Gli atteggiamenti sono però molto più differenziati quando si tratta di qualificare i comportamenti dei soggetti implicati nel rapporto didattico. È ancora forte la tendenza a considerare tali comportamenti come la manifestazione di una naturale tendenza all'insegnare. In altre parole, mentre si riconosce che occorre una specifica competenza per scrivere un libro, progettare un laboratorio o realizzare un programma per calcolatore, e che usando tale competenza si modifica in 1 La Didactica magna (ossia l'opera nella quale compare la definizione di didattica sopra ricordata) è stata pubblicata nel 1657. Nell'intestazione dell'opera compare il sottotitolo esplicativo Universale omnes omnia docendi artificium exhibens; subito dopo, nella dedica ai lettori, si legge Didactica docendi artificium sonat. 8 qualche modo il corso della natura, lo stesso carattere di artificialità non viene individuato quando si tratta di definire i comportamenti degli insegnanti e quelli degli allievi. In questo caso, molti preferiscono pensare che si stia manifestando da un lato una naturale tendenza ad insegnare, e dall'altro una naturale tendenza ad apprendere2. Ovviamente, come sempre quando ci si riferisce a caratteristiche "naturali", si dà per scontato che esse siano possedute in differenti misure, per cui ci saranno insegnanti migliori e altri meno buoni, così come ci sono allievi che apprendono con maggiore o minore facilità ciò che ad essi viene proposto3. Ciò che rende insidioso l'atteggiamento naturalistico è che esso si fonda su un’analogia implicita fra le pratiche primarie di adattamento alla vita, nelle quali si manifesta per natura la tendenza degli individui adulti a facilitare l'acquisizione di competenze da parte dei nuovi individui della specie, e la didattica, ossia quell'insieme di pratiche che si riferiscono a un adattamento secondario, in quanto volto al soddisfacimento di bisogni simbolici, che hanno origini culturali e sono estremamente variabili nel tempo e nello spazio. L'adattamento secondario non può che essere artificiale, e cioè costruito in vista del raggiungimento d’intenti, alterando in qualche modo la sequenza "spontanea" dei fenomeni nel processo di sviluppo dei soggetti. Solo perché tali intenti sono generalmente condivisi e profondamente interiorizzati negli atteggiamenti degli adulti si può finire 2 Sui diversi modi di intendere l'insegnamento vedi B. Vertecchi, Interpretazioni della didattica, Firenze, La Nuova Italia, 1990. 3 La suggestione naturalistica trae argomenti di rinforzo dall'analisi statistica della distribuzione di variabili descrittive della popolazione. Si constata, per esempio, che la distribuzione delle principali variabili attitudinali ha una conformazione "a campana": corrisponde cioè alla distribuzione casuale di una variabile binomiale. Dall'analisi della distribuzione delle variabili relative all'apprendimento scolastico, che apparivano (ed ancora appaiono, in condizioni didattiche "tradizionali") fortemente correlate con variabili relative alla dotazione attitudinale hanno tratto argomento le interpretazioni deterministiche delle possibilità di successo negli studi. Tali argomentazioni sono state sottoposte a critica rigorosa da B. S. Bloom ed altri, nell'ambito della precisazione del quadro teorico della proposta di individualizzazione dell'insegnamento nota come mastery learning (vedi J. H. Block (a cura di), Mastery learning. Procedimenti scientifici di educazione individualizzata, Torino, Loescher, 1972). La questione resta comunque di viva attualità, e sollecita periodicamente dibattiti animati, l'ultimo dei quali è seguito alla pubblicazione di un saggio di R. Herrnstein e C. Murray, The Bell Curve: Intelligence and class structure in American life, New York, The Free Press, 1994. Gli argomenti di Herrnstein e Murray non sono certamente originali, dal momento che le conclusioni a cui giungono richiamano quelle già sviluppate da A. R. Jensen in un articolo del 1969, nel quale sosteneva la sostanziale inutilità dei programmi di educazione compensativa avviati negli Stati Uniti agli inizi degli anni Sessanta ai fini del superamento dei condizionamenti socioculturali, ed in particolare quelli di origine etnica (vedi "How Much Can We Boost IQ and Schoolastic Achievement?", Harvard Educational Review, Winter 1969. Le reazioni suscitate dal saggio di Herrnstein e Murray pongono soprattutto in rilievo il carattere ideologico ormai assunto dai riferimenti alla curva normale, che assumono un ruolo di copertura nei confronti di posizioni conservatrici sul piano sociale: vedi R. Jacoby, N. Glauberman (Eds), The Bell Curve Debate, New York, Random House, 1995; J. L. Kincheloe, S. R. Steinberg, A. D. Gresson III (Eds), Measured Lies. The Bell Curve examined, New York, St. Martin's Press, 1996. 9 col considerarli "naturali", accreditando così l'analogia fra il primo e il secondo adattamento. Considerare la didattica un artificium equivale a definirla come l'insieme delle soluzioni attraverso le quali si attua l'adattamento secondario. È evidente tuttavia che questa definizione si applica non al significato "debole" che prima veniva richiamato, quello cioè che si limita a riconoscere l'artificialità dello strumentario didattico, ma al significato "forte", che comprende anche i comportamenti. A seconda che prevalga il significato debole o quello forte si accreditano modalità effettive di praticare l'insegnamento fondamentalmente diverse4. Se si accoglie il significato debole la maggiore enfasi è posta sulle caratteristiche personali dei soggetti coinvolti nell'attività: tali caratteristiche personali assumono valore causale. Poiché la distribuzione delle caratteristiche personali sulla popolazione è molto dispersa (sempre che non intervengano dall'esterno dispositivi in grado di moderare la dispersione, come sono i filtri sociali all'accesso degli allievi, che di riflesso comportano anche limitazioni nel numero degli insegnanti), i risultati dell'attività didattica appaiono altrettanto dispersi. Se invece si opta per l'interpretazione forte aumenta il numero delle variabili cui collegare i risultati, ma aumenta anche la possibilità di orientare i processi al conseguimento di determinati intenti. Infatti, se è difficile (almeno in tempi brevi), e in alcuni casi impossibile, modificare le caratteristiche personali dei soggetti coinvolti nell'attività didattica, gli spazi di libertà si dilatano se si considerano modificabili i comportamenti degli insegnanti. Al limite, tale modifica può consistere nell'attribuire la funzione di insegnare a un soggetto collettivo5 invece di considerarla una sorta di prerogativa posseduta a titolo personale. Le due interpretazioni menzionate sono indipendenti dal complicarsi dello strumentario utilizzato per comunicare i messaggi di apprendimento. In altre parole, il ricorso a procedure per il trasferimento del messaggio di apprendimento caratterizzate dall'impiego di una strumentazione complessa sul piano tecnologico non comporta l'assunzione di un significato forte per la didattica. Ciò spiega la tenuità, per non dire l'inconsistenza, che spesso sul piano dei risultati si riscontra in relazione 4 In una accezione "forte" la didattica comprende sempre una pluralità di dimensioni, che investono le dimensioni cognitive, affettive e relazionali dell'attività di insegnamento. Nelle accezioni "deboli" una o più dimensioni sono enfatizzate rispetto alle altre: è ciò che accade in molte proposte didattiche che si presentano come "alternative", ma nelle quali ad una forte attenzione nei confronti di una componente dell'insegnamento fa risconto la trascuratezza verso altre. Per una rassegna dei significati "forti" e "deboli" vedi B. Vertecchi, "La didattica", in B. V., La scuola italiana verso il 2000, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 370-381. 5 È il caso di molti modelli di organizzazione dell'insegnamento scolastico sviluppati negli ultimi decenni e caratterizzati in varia misura dalla specializzazione e dalla divisione dei compiti didattici. 10 all'impiego di mezzi tecnologici6. È interessante notare la sproporzione fra il messianismo col quale le nuove possibilità vengono presentate e la reticenza nel dichiarare i risultati ottenuti. Ci si trova di fronte ad argomentazioni tutte a priori, fondate su asserzioni indimostrabili, cui non di rado si cerca di conferire autorevolezza attraverso un ricorso spregiudicato e violento a ideologie "nuoviste"7. Il messianismo tecnologico costituisce una componente ideologica forse la principale - del dibattito sull'insegnamento in questi decenni terminali del Novecento. Le spinte alla modernizzazione della scuola centrate sull'acquisizione di apparati tecnologici per nulla verificati sul piano della valenza didattica costituiscono una conseguenza del prevalere della suggestione ideologica sulla dimostrazione scientifica. Se si accetta la definizione generalissima secondo la quale la didattica costituisce l'insieme delle forme dell'adattamento secondario, occorre individuare quale sia l'elemento strutturale che consente di distinguere tale adattamento secondario da quello primario. Non è difficile individuare nell'adattamento primario condizioni di apprendimento - come il condizionamento o l'imitazione - che si ritrovano anche in quello secondario. Si tratta di condizioni di apprendimento che di per sé non richiedono una particolare organizzazione, per il fatto che il soggetto meno esperto acquisisce competenza in un contesto nel quale sia presente almeno un soggetto più esperto, che può avere, ma può anche non avere l'intento di istruire8. Nell'adattamento secondario l'intento di istruire è esplicito. Non si tratta più di lasciare che soggetti non forniti di esperienza conseguano un adattamento funzionale al soddisfacimento di bisogni primari, ma occorre determinare una situazione artificiale, entro la quale si sviluppino azioni finalizzate al trasferimento di un repertorio simbolico i cui singoli elementi non presentano nell'immediato un’utilità evidente. La sedimentazione storica più rilevante delle pratiche per l'adattamento secondario è costituita 6 Una componente ideologica ricorrente nel dibattito sull'impiego di strumentazioni tecnologiche nell'insegnamento è costituita dal consumismo: vedi B. Vertecchi, "Per una critica del consumismo educativo", Cadmo, I, 2, 1993, pp. 5-16. 7 Il "nuovismo" nell'educazione è espressione di un atteggiamento di pensiero sostenuto dalla contrapposizione manichea tra la conoscenza e le pratiche disponibili, considerate il male, e quelle che si propongono in sostituzione, accreditate come il bene. Dal momento che le proposte sostitutive sono inverificate, il credito che ad esse si concede è solo espressione di ideologia. E si tratta di una ideologia fondamentalmente distruttiva ed antagonista rispetto alla razionalità scientifica, che invece procede attraverso la rigorosa verifica sperimentale delle ipotesi innovative. 8 Si ripropone l'annosa questione del rapporto tra educazione e istruzione. Certamente l'educazione comprende sia l'adattamento primario, sia quello secondario, mentre all'istruzione va riconosciuta una posizione centrale nell'adattamento secondario. Ciò non vuol dire, ovviamente, che l'adattamento primario non comporti acquisizione di competenze, ma solo che tali competenze sono, per così dire, implicite nella cultura del contesto sociale di esistenza. Fondamentali, da questo punto di vista, i contributi alla ricostruzione dei modelli educativi forniti dalla ricerca antropologica (si pensi a M. Mead, R. Benedict, C. Lévi-Strauss): vedi M. Callari Galli, Antropologia culturale e processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 11 dalla scuola, e la conoscenza relativa a tali pratiche dalla didattica. Tuttavia, come spesso accade, aspetti contingenti hanno finito col sovrapporsi alla struttura, creando associazioni fra struttura e fenomeni abbastanza organici perché i singoli aspetti costitutivi fossero considerati necessari. Un equivoco ricorrente nel campo delle applicazioni delle nuove tecnologie all'educazione consiste nel cercare prossimità concettuali in altri settori ugualmente interessati al trasferimento di messaggi. Il riferimento più prossimo è sembrato consistere negli approcci, teorici e tecnici, che più o meno in parallelo sono andati affermandosi nel settore della comunicazione di massa. Non si è tenuto conto del fatto che la comunicazione di massa risponde a intenti che sono fondamentalmente diversi rispetto a quelli dell'istruzione. La comunicazione di massa tende, infatti, a riversare su un pubblico il più possibile vasto la maggior quantità di messaggi. Non si propone tuttavia di organizzare tali messaggi in modo da produrre apprendimento, e cioè una modifica del profilo delle competenze individuali che abbia qualche stabilità nel tempo, ma più semplicemente di rendere accessibili i messaggi al maggior numero di potenziali fruitori. Quel che conta non è che questi ultimi acquisiscano effettivamente i messaggi, ma che possano acquisirli, e cioè che vi sia da parte loro una qualche comprensione, per quanto superficiale. È come dire che sono le caratteristiche dei destinatari a determinare quelle dei messaggi: di conseguenza, l'ampliamento del pubblico si consegue abbassando la soglia dei requisiti culturali necessari per la comprensione. L'organizzazione dei messaggi tende perciò a soddisfare le esigenze dello strato inferiore di pubblico che ci si propone di raggiungere9. Ne derivano la rinuncia a argomentazioni complesse, il ricorso a metafore di vita quotidiana, l'uso di un lessico stringato. La sintassi assume andamenti prevalentemente paratattici e si assiste a una drastica riduzione delle forme sinonimiche, con la perdita delle sfumature semantiche. L'unico criterio didattico riconoscibile è quello della divulgazione, e cioè della perdita di specificità dei messaggi da comunicare. Tutto ciò non ha nulla a che fare con una buona didattica. Una buona didattica si identifica per il suo ruolo di mediazione, ossia per la sua capacità di compensare le differenze che separano il destinatario virtuale di un messaggio teso a produrre apprendimento dai destinatari reali. Questo intento non può comportare perdite concettuali, perché altrimenti non avremmo insegnamento, ma divulgazione. La complessità 9 Conviene prestare attenzione alle linee del tutto divergenti che si individuano nello sviluppo della comunicazione di massa e in quello della didattica: mentre lo sviluppo della comunicazione di massa è dominato dall'esigenza di raggiungere un pubblico sempre più numeroso, lo sviluppo della didattica fa emergere una crescente attenzione alle esigenze individuali. Nel primo caso si cerca di individuare la logica di un pensiero collettivo, raccogliendo i fattori comuni e lasciando cadere quelli che esprimono posizioni divergenti, mentre nel secondo caso sono proprio queste posizioni divergenti ad assumere rilievo. 12 dei messaggi volti a comunicare una cultura di qualche complessità consiste soprattutto nel fatto che in essi sono numerose le componenti implicite: in una comunicazione equilibrata, nella quale si supponga che il destinatario possieda la stessa competenza di chi formula il messaggio, il destinatario non ha difficoltà a sciogliere l'implicito. Poiché nella comunicazione didattica il diverso livello delle competenze di chi formula il messaggio e di chi lo riceve costituisce un dato strutturale, l'artificio dell'insegnare consiste nel modificare il messaggio che potrebbe essere rivolto a un destinatario virtuale, sciogliendo quella parte di implicito che è necessaria per colmare l'intervallo di competenza esistente fra il destinatario virtuale e i destinatari reali. Si tratta a questo punto di individuare qual è la condizione che consente di praticare l'artificio didattico, così come sopra è stato definito, e cioè come mediazione volta allo scioglimento della parte di implicito che si frappone alla comprensione del messaggio da parte del destinatario reale. Le diverse interpretazioni che storicamente sono state date a tale condizione configurano i principali modelli della didattica. Per semplicità, possiamo distinguere tali modelli in due grandi classi: la prima tende a far coincidere il destinatario virtuale della proposta di apprendimento con quello reale, mentre l'altra considera il destinatario virtuale solo come un modello, in relazione al quale è possibile individuare le caratteristiche del destinatario reale. Nel primo caso il messaggio preesiste all'emergere delle caratteristiche dei destinatari, mentre nel secondo la sua effettiva conformazione deriva da aggiustamenti successivi introdotti in un prototipo virtuale. È come dire che le informazioni relative alle caratteristiche dei destinatari degli interventi didattici possono essere utilizzate in due modi: a) si possono integrare le informazioni relative ad un certo numero di destinatari ed ottenere un modello nel quale le variabili che si riferiscono ai singoli tratti assumono un valore centrale della distribuzione10. Tale integrazione è possibile sia sul piano diacronico, sia su quello sincronico. Gli insegnanti che giustificano determinate scelte sulla base delle precedenti esperienze non fanno che ricavare, anche se spesso in modi del tutto impliciti, tendenze centrali dalle caratteristiche degli allievi che si 10 Si fa riferimento ai "valori centrali", invece di indicare una specifica misura di tendenza centrale, per due ragioni. La prima è che se l'integrazione procede a partire da dati che siano stati rilevati con strumentazioni di qualche attendibilità su un numero abbastanza elevato di soggetti è molto probabile che le misure di tendenza centrale presentino valori molto prossimi, tanto da essere quasi coincidenti; la seconda è che le cose possono presentarsi in modo del tutto diverso se nell'integrazione prevalgono le percezioni soggettive acquisite attraverso l'esperienza, o se la composizione della popolazione è stata modificata per effetto di filtri selettivi o di condizionamenti socioeconomici. Nelle percezioni soggettive il riferimento più forte può derivare dall'integrazione di dati relativi al comportamento di gruppi, invece che dell'intera popolazione. Così un insegnante può comporre un suo modello di allievo virtuale tenendo conto delle esperienze positive precedentemente effettuate, ma può farlo anche a partire da quelle negative. In questi casi la capacità di attrazione dei valori modali è probabilmente maggiore di quella dei valori medi. 13 sono succeduti nel tempo (integrazione diacronica). Se i dati derivano da rilevazioni effettuate in un tempo iniziale, e se a partire da tali dati è stato definito il messaggio di apprendimento, i valori di riferimento sono centrali rispetto alla specifica situazione di intervento (integrazione sincronica); b) anche nel caso dell'utilizzazione delle informazioni relative alle caratteristiche dei destinatari in funzione dell'adattamento del messaggio alle esigenze individuali, e quindi di un progressivo avvicinamento delle caratteristiche dei destinatari reali del messaggio didattico a quelle del destinatario virtuale, è possibile procedere ad integrazioni di tipo diacronico o di tipo sincronico. Si ha un’integrazione diacronica se il messaggio viene modificato osservando il comportamento del destinatario in un arco di tempo prolungato e in relazione a compiti di apprendimento affini. L'integrazione è sincronica se il profilo del destinatario si ricostruisce con continuità, e se parallelamente viene adattato il messaggio di apprendimento11. Incrociando la dimensione temporale (diacronica-sincronica) di rilevazione delle informazioni relative ai destinatari del messaggio con la modalità della sua formulazione (uniforme-individualizzata) si ottengono quattro tipologie didattiche fondamentali: 1) integrazione diacronica delle caratteristiche dei destinatari e formulazione uniforme del messaggio. Si tratta della tipologia didattica più tradizionale, nella quale il sostrato conoscitivo è genericamente giustificato dall'esperienza. In pratica, il destinatario virtuale dell'intervento 11 Una soluzione che si colloca nell'ambito di ipotesi di integrazione sincronica nella quale il profilo del destinatario viene ricostruito con continuità, ed insieme viene riformulato il messaggio di istruzione, è in corso di definizione presso il Laboratorio di Pedagogia sperimentale del Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Roma Tre. Partendo dalla constatazione che parte della difficoltà di apprendimento può essere spiegata con il possesso di repertori verbali inadeguati, si è provveduto preliminarmente a definire il funzionamento di uno "stimatore", e cioè di una procedura che consenta di ottenere una indicazione relativa al numero di parole disponibili da parte del destinatario del messaggio di istruzione. Il disegno sperimentale prevede che sia rilevata la correlazione esistente fra i dati forniti dallo stimatore e la capacità di comprensione da parte dei soggetti di messaggi scritti. Se, come si ipotizza, si riscontrerà una correlazione elevata si potrà considerare validato lo stimatore ed utilizzarlo per l'adattamento di messaggi per l'apprendimento. Occorrerà stabilire preliminarmente quale sia la consistenza del repertorio verbale impiegato per la formulazione "virtuale" (e cioè in funzione di un ricevente che sia pienamente in grado di comprenderlo) di un terminato messaggio di istruzione, e quindi confrontare tale consistenza con quella dei repertori dei quali dispone ciascun allievo. Lo scarto fra la consistenza del repertorio verbale supposta dalla formulazione virtuale e quella della quale i singoli allievi dispongono effettivamente fornisce i termini per l'intervento didattico: si tratta infatti di riformulare il messaggio (si stanno mettendo a punto soluzioni automatizzate) in modo da utilizzare una quantità di parole di poco superiore a quella già posseduta da ciascun allievo. Tale quantità verrà incrementata a misura che si riscontri un analogo incremento nella competenza degli allievi. Il numero di parole impiegato per la riformulazione del messaggio sarà un po' superiore a quello del cui possesso ciascun allievo viene accreditato perché da un lato va considerata la funzione di chiarificazione del contesto, dall'altro va evitata la banalizzazione che si otterrebbe se il linguaggio utilizzato fosse esattamente uguale a quello disponibile: si creerebbe infatti una situazione molto simile a quella della comunicazione di massa. 14 didattico viene precisandosi attraverso l'integrazione delle caratteristiche di destinatari reali ai quali sia già stata rivolta una proposta simile di apprendimento. Le differenze esistenti fra i soggetti delle cui caratteristiche si è avuta effettiva esperienza vengono compensate facendo riferimento a valori centrali della distribuzione. Nell'istruzione in presenza questa tipologia didattica è essenzialmente influenzata dalla personalità dell'insegnante e dalle esperienze che questi ha compiuto. Per quanto tradizionale, questa tipologia didattica si trova alla base di molte proposte che utilizzano tecnologie avanzate per la comunicazione, per esempio messaggi televisivi, programmi multimediali o testi acquisibili in rete; 2) integrazione diacronica delle caratteristiche dei destinatari e formulazione individualizzata del messaggio. Le caratteristiche dei destinatari derivano dalla loro osservazione prolungata in situazioni di apprendimento. Se si è trattato di situazioni di tipo duale (un insegnante si prende cura di un allievo), il messaggio tiene conto delle attitudini, degli interessi e delle competenze che questi ha già acquisito. Se invece l'osservazione ha interessato gruppi di allievi (è il caso di molte pratiche di orientamento) si perviene ad una riaggregazione dei soggetti sulla base di un criterio, generalmente costituito dalla previsione del successo. Il messaggio viene quindi adattato in funzione delle caratteristiche che sono state considerate per costituire i diversi gruppi di allievi. Qualcosa di analogo avviene quando si organizzano attività a carattere compensativo: il messaggio viene riformulato tenendo conto delle difficoltà precedentemente incontrate. L'adattamento che si consegue attraverso questa tipologia didattica è piuttosto lento, e dal momento che in larga misura procede dalla constatazione di insuccessi può associarsi per gli allievi a dinamiche negative dal punto di vista affettivo; 3) integrazione sincronica delle caratteristiche dei destinatari e formulazione uniforme del messaggio. Questa tipologia corrisponde agli approcci didattici che fanno affidamento su qualche forma di uguagliamento preventivo delle caratteristiche degli allievi (per esempio, una prova di ammissione, oppure attività per il recupero di prerequisiti). Si suppone che ad allievi inizialmente uguagliati nelle loro caratteristiche si possa rivolgere un messaggio uniforme. In alte parole, la condizione di uguagliamento viene assunta come base per la definizione del destinatario virtuale del messaggio di apprendimento. La debolezza di questo approccio deriva dal fatto che l'uguagliamento viene stabilito in relazione ad un numero circoscritto di variabili, ed è quindi probabile che le differenze tra soggetti tornino a manifestarsi durante il percorso di apprendimento. Rientrano in questa tipologia anche gli approcci che prevedono un uguagliamento frazionato, per esempio per livelli di attitudine o di competenza, in corrispondenza ai quali viene modificata la soglia di attesa. Si tratta di approcci centrati su interpretazioni 15 deterministiche della didattica, e quindi fondamentalmente rinunciatari dal punto di vista della qualità dell'istruzione; 4) integrazione sincronica delle caratteristiche dei destinatari e formulazione individualizzata del messaggio. È come dire che il messaggio di apprendimento viene adattato con continuità alle esigenze del destinatario. Poiché tali esigenze sono in massima parte definite dalle caratteristiche cognitive e affettive di ingresso degli allievi, se il livello di tali caratteristiche rivela l'esistenza di difficoltà, la qualità dell'istruzione deve essere incrementata perché la distribuzione delle variabili dipendenti non si presenti riproduttiva delle caratteristiche di ingresso. Questa quarta tipologia didattica si prefigge quindi l'individualizzazione della proposta di apprendimento. Si tratta di una tipologia che comporta conoscenze e tecniche complesse, tanto da potersi configurare in sé come tecnologica, indipendentemente dallo strumentario utilizzato per la comunicazione. Se infatti consideriamo la tecnologia come una forma complessa di conoscenza orientata al saper fare (e non semplicemente come la capacità di produrre o utilizzare strumenti di qualche complicazione), ritroviamo che una simile complessità distingue appunto gli approcci individualizzati alla didattica rispetto a quelli centrati sull'uniformità del messaggio di istruzione che viene proposto agli allievi. L'individualizzazione richiede infatti che si disponga di una informazione analitica e continua circa il procedere del processo di apprendimento e della possibilità di variare il messaggio in funzione delle difficoltà che ciascun allievo sta effettivamente incontrando. Occorre perciò assumere decisioni con continuità, per indirizzare il processo verso il conseguimento degli obiettivi dell'intervento didattico. Conviene osservare che negli approcci a messaggio uniforme si riscontra una bassa densità di decisioni, e che queste sono generalmente piuttosto remote rispetto al momento in cui si effettua l'attività. Le decisioni che determinano l'insegnamento derivano infatti da giudizi che sono il risultato di induzioni confermate nel tempo, e delle quali ci si attende di osservare nuove conferme. Ne consegue che raramente la decisione si presenti come una scelta effettiva fra più linee di comportamento, per il fatto che linee di comportamento diverse da quelle che si è abituati a seguire comportano una formulazione originale di ipotesi che tenga conto delle condizioni nelle quali dovrà svolgersi uno specifico intervento didattico, o un segmento significativo di tale intervento. Alla proposta di messaggi uniformi non corrisponde quindi una vera e propria decisione12, ma una quasidecisione, e cioè l'accettazione di una linea di comportamento per la quale non si possiedono alternative. La quasi-decisione non comporta un effettivo bisogno di conoscenza, per il fatto che può coincidere col manifestarsi di atteggiamenti interiorizzati per imitazione o per esperienza. 12 Sulle applicazioni in didattica della teoria delle decisioni vedi B. Vertecchi, Decisione didattica e valutazione, Firenze, La Nuova Italia, 1993. 16 La tecnologia dell'istruzione si configura quindi come una strategia densa di momenti decisionali, nei quali la scelta delle linee di comportamento si appoggia alla conoscenza analitica delle condizioni di intervento ed ha lo scopo di ottimizzare la qualità dell'istruzione in funzione delle esigenze individuali di apprendimento. 17