Benedetto Vertecchi
"Riscolarizzare" la società
Lezione tenuta il 29 aprile 1999 a Covilhã, presso l’Universidade da Beira
Interior
Perché parlare di “riscolarizzazione” in un quadro che appare, almeno
nei paesi industrializzati, segnato da una scolarizzazione prolungata ed
estesa a tutta, o quasi, la popolazione? Non ci sono, infatti, segnali
apprezzabili che possano far pensare a una regressione nell'offerta
educativi da parte dei sistemi scolastici, tale da privare di tale offerta quote
più o meno ampie di popolazione che al momento ne fruiscano. Tuttavia,
se esaminiamo quali sono i fenomeni che caratterizzano i sistemi
scolastici contemporanei, emergono aspetti contraddittori: da un lato certi
comportamenti della popolazione sembrano consolidati, e comunque
incoraggiati, dall'altro assistiamo a una progressiva trasformazione del
contenuto della proposta d’istruzione. In altre parole, è ben vero che ormai
la quasi totalità dei bambini e dei ragazzi fruisce dell’educazione
scolastica, che andare a scuola è considerato parte costitutiva della
condizione di esistenza delle nuove generazioni e che esistono leggi che
sanciscono il diritto-dovere all'istruzione, ma è anche vero che molti segni
lasciano intravedere che ci si trova in una fase di passaggio, e che non è
ben chiaro quale possa essere il punto d'arrivo dei mutamenti in corso.
Quel che è certo è che una prima lunga fase della scolarizzazione - quella
che ha visto il progressivo estendersi della fruizione dell’educazione
scolastica alle diverse fasce della popolazione - si è esaurita. I sistemi
scolastici hanno perso la spinta propulsiva che derivava dalla presenza di
una domanda insoddisfatta di istruzione: si avvertono numerosi segni di
sbandamento, e molti incominciano a chiedersi quale potrà essere - non
solo a lungo termine, ma anche in un futuro prossimo - l'immagine della
scuola.
La prima fase della scolarizzazione si è esaurita col raggiungimento del
suo obiettivo fondamentale, che era quello dell’alfabetizzazione di massa.
Certamente tale obiettivo non è stato raggiunto in modo uniforme, né
mancano soggetti che ancora sono esclusi dall’educazione scolastica, ma
si tratta di casi riconducibili al manifestarsi di una patologia sociale, che
non modificano il quadro strutturale dell’educazione. I bambini e i ragazzi
privati dell’educazione scolastica negli anni in cui sarebbero obbligati a
fruirne configurano, più che un problema che investe i sistemi scolastici,
1
un problema sociale, e che può trovare soluzione soprattutto a livello
sociale. Le tendenze che qui preme di rilevare riguardano dunque i sistemi
scolastici nella configurazione che hanno effettivamente assunto negli
ultimi due secoli, e cioè da quando ha incominciato a manifestarsi da parte
di strati sempre più ampi della popolazione l'esigenza di acquisire un
repertorio di competenze culturali di base, quelle sinteticamente indicate
con l'espressione «leggere, scrivere e far di conto». Questa esigenza ha
costituito il vero elemento dinamico dello sviluppo dei sistemi di istruzione.
Si è avuta pertanto una crescita determinata assai più dalla presenza di
una domanda insoddisfatta che da decisioni capaci di orientare l'offerta. In
un primo tempo la domanda si è limitata a esprimere un'esigenza di
alfabetizzazione al livello più modesto, ma gradualmente ha assunto
caratteri più complessi. Gli interventi «politici» sui sistemi scolastici hanno
seguito, e talvolta contrastato, la spinta sociale verso l'istruzione. È come
dire che - con l'eccezione dei contesti in cui eventi rivoluzionari abbiano
provocato improvvisi e rapidi rovesciamenti degli equilibri sociali
preesistenti - nella maggior parte dei casi la domanda ha prevalso
sull'offerta, e non solo da un punto di vista quantitativo, ma anche per ciò
che si riferisce alla qualità della proposta. La tendenza al prolungamento
del periodo della vita da destinare all’educazione scolastica è emersa
prima nei comportamenti sociali e solo successivamente è stata accolta
nei vari ordinamenti istituzionali. In altre parole, si sono verificate
dinamiche assai simili a quelle che oggi si riscontrano in Italia: mentre da
un punto di vista legislativo non si riesce a sancire il diritto-dovere
all'istruzione oltre i quattordici anni per elevarlo ai sedici anni, i
comportamenti della popolazione (ovviamente ci riferiamo a
comportamenti modali, che possono presentare, e in effetti presentano,
una variabilità anche piuttosto estesa) si orientano chiaramente verso
un’educazione che comprenda l'intera fase evolutiva fino ai diciotto anni.
Va notato tuttavia che la spinta all'istruzione che ha sostenuto la prima
fase della scolarizzazione è stata sostenuta in larghissima misura da
motivazioni non scolastiche, perché collegate ad aspettative di mobilità
sociale e di miglioramento delle condizioni quotidiane dell’esistenza. Il
declino di questi fattori dinamici è stato parallelo al progredire
dell’assorbimento nei sistemi scolastici - il problema riguarda tutti i paesi
industrializzati - della totalità o quasi della popolazione per un numero
consistente di anni. Andare a scuola ha perso l'originaria connotazione di
progresso per entrare a far parte di pratiche di comportamento alle quali
non si collegano speciali aspettative che investano il corso successivo
della vita. Fare scuola è diventato progressivamente più difficile, perché
l’attività educativa si è dovuta acconciare all'attenuazione o all'assenza di
quella disposizione positiva che in precedenza ne ha favorito
l'accettazione da parte degli allievi.
2
Pur con le contraddizioni e i limiti accennati, si potrebbe pensare che un
lungo periodo di educazione scolastica costituisca comunque una base
positiva capace di segnare in modo determinante il quadro culturale dei
paesi industrializzati. E si potrebbe anche pensare che al generalizzarsi
della tendenza a protrarre ai diciotto anni l'età dell’educazione per tutti non
possa che fare riscontro un assestamento della cultura diffusa ad un livello
qualitativo sostenuto. Invece, stanno emergendo scricchiolii che sono a dir
poco allarmanti: nei paesi industrializzati va aumentando, e in misura
preoccupante, un fenomeno che è l’esatto contrario di quanto ci si
potrebbe aspettare come effetto della scolarizzazione. Sta di nuovo
crescendo l’analfabetismo.
È un analfabetismo certamente diverso da quello storico, ma proprio per
questo più preoccupante: come fenomeno storico l’analfabetismo si
presentava come una condizione originaria non corretta attraverso
l’educazione, mentre l’analfabetismo che riscontriamo oggi è un effetto,
distorto quanto si vuole, ma pur sempre un effetto dell’educazione. Stime
recenti elaborate negli Stati Uniti fanno ascendere a oltre quaranta milioni
il numero delle persone con oltre sedici anni di età regredite a una
condizione di quasi analfabetismo: quel che può sorprendere è che si
tratta di persone che mediamente hanno fruito di una decina d'anni di
esperienza scolastica. I nuovi analfabeti hanno avuto quindi opportunità di
istruzione formale, ma l'esperienza d’istruzione non è stata tale da incidere
in modo decisivo sul precisarsi della loro identità culturale. Anche la
definizione di analfabeta non è identica a quella classica: oggi dobbiamo,
infatti, considerare sostanzialmente analfabeta anche chi - pur
possedendo qualche rudimento di capacità alfabetiche, come la capacità
di riconosce l'insegna di un negozio o quella di tracciare un graffito per
firma - risulta funzionalmente privo della capacità di acquisire e di
formulare messaggi codificati in forma scritta.
Ciò che ci interessa soprattutto è capire come mai la scolarizzazione,
che per definizione ha per intento il trasferimento di capacità alfabetiche,
possa produrre un risultato del tutto opposto, e cioè l’analfabetismo: ci
troviamo, infatti, di fronte all'intervenire nel quadro culturale della
popolazione di un’impressionante regressione. La spiegazione più
immediata è che probabilmente al manifestarsi di questo fenomeno
concorre il cambiamento di molti comportamenti sociali: non dobbiamo
dimenticare che gli apprendimenti scolastici per un lungo tratto di tempo
sono stati rinforzati da pratiche correnti nella vita quotidiana, oggi assai
meno diffuse. Leggere e scrivere, a livello sociale, servono molto meno di
quanto siano serviti in altri tempi, per il fatto che si sono progressivamente
affermate modalità di comunicazione che prescindono in tutto o in parte
dal possesso di capacità alfabetiche. È diventato poco comune scrivere
lettere, si possono avere informazioni attraverso la televisione e la radio, si
conserva memoria di eventi trascorsi attraverso immagini o registrazioni
3
sonore. In altre parole è venuto meno, o si è drasticamente ridotto, il
rinforzo che poteva venire agli apprendimenti scolastici da pratiche non
scolastiche. Ritengo tuttavia che ciò non basti a spiegare come mai le
abilità acquisite in un lungo periodo di istruzione decadano nel successivo
corso della vita, spesso dopo un tempo assai breve. Occorre individuare
una spiegazione più complessa, anche attraverso l'elaborazione di
specifiche ipotesi di ricerca. Non ha senso, infatti, supporre che un
processo educativo abbia raggiunto un risultato in qualche modo
apprezzabile se non si è in grado di costatarne la persistenza nel tempo e
se le competenze acquisite non entrano a far parte di un repertorio
permanente al quale i soggetti possano far ricorso nel seguito della vita.
La questione si pone poi in termini sociali particolarmente gravi se
consideriamo che per effetto del nuovo analfabetismo (o delle forme
insidiose di semi-alfabetismo che a esso si associano), vengono
ricreandosi lacerazioni nel tessuto sociale il cui superamento ha costituito
un obbiettivo centrale nello sviluppo della prima fase della scolarizzazione.
Siamo già in grado di costatare come il possesso di competenze
alfabetiche di livello anche non particolarmente elevato stia creando una
nuova discriminazione fra le classi sociali. È difficile pensare che da
questa situazione si possa uscire positivamente senza una profonda
revisione degli obiettivi e dei criteri di intervento che finora hanno
caratterizzato l'attività dei sistemi scolastici, e che costituiscono una
estrema estenuazione degli obiettivi e dei criteri che si erano affermati
nella fase espansiva.
Per cominciare, credo che sia improponibile elaborare ipotesi di sviluppo
che consistano soltanto nella dilatazione lineare del servizio, ossia nella
crescita progressiva del numero di anni dedicato all’educazione formale.
Probabilmente, da questo punto di vista, un limite difficilmente superabile
è già stato raggiunto o sta per essere raggiunto: se si considerassero
molte manifestazioni patologiche del comportamento in età evolutiva si
potrebbe giungere alla conclusione che esse, almeno in parte, sono da
considerarsi l'effetto di una scolarizzazione distorta, di un prolungamento
artificiale della dipendenza delle nuove generazioni dalle generazioni
adulte. Anche le stesse caratteristiche fisiche e psicologiche della
popolazione hanno subìto, come effetto della scolarizzazione, modifiche
importanti: basti pensare - è solo un esempio, ma mi sembra
estremamente significativo - a quanto profondamente sia mutata
l’adolescenza nel corso di questo secolo. Quello che si presentava come
un periodo piuttosto compatto al termine del ciclo dello sviluppo, tra i
quindici e i sedici anni, nel quale giungeva a compimento, da un punto di
vista biologico, il processo di crescita e si precisava il profilo della
personalità dei giovani che stavano per assumere autonomia nella vita
sociale, ora rappresenta un’età di cui è difficile intravedere la conclusione.
4
La scuola è anche un progetto della popolazione: fare scelte in questo
campo corrisponde a immaginare come si vorrebbe che fossero le
generazioni successive. In altre parole, la scuola va considerata una
variabile indipendente rispetto ai fenomeni che investono la popolazione,
nel senso che incide profondamente sulle trasformazioni che si
osserveranno in tempi successivi. Il senso di responsabilità delle
generazioni adulte nei confronti delle nuove generazioni dovrebbe indurre
ad abbandonare l’ipotesi di una crescita lineare del numero di anni
dedicati all’educazione formale (mi riferisco, come dovrebbe essere
evidente, alla prima educazione); occorre invece pensare a un contenitore
dell’educazione che vada oltre l’età evolutiva e si spinga verso le
successive età della vita, consentendo percorsi educativi non lineari, ma
articolati attraverso ritorni funzionali alla ricostituzione del repertorio delle
competenze individuali e all’adeguamento di tale repertorio alle necessità
della vita sociale e della vita produttiva.
Questo nuovo corso della scolarizzazione, nel quale si cessi di
identificare in un prolungamento indefinito l’obiettivo sociale da perseguire,
ha bisogno di essere fortemente rivisto anche per quanto riguarda i
traguardi da raggiungere. Nella prima fase della scolarizzazione l’uscita
dal sistema scolastico coincideva sostanzialmente con l’acquisizione delle
competenze che sarebbero state usate nel resto della vita: l’educazione
scolastica si inseriva in un’interpretazione dei ruoli sociali caratterizzata da
una forte rigidità e da una considerevole stabilità delle attività
professionali. Si tratta di condizioni che non esistono più. Oggi dobbiamo
pensare che la prima parte dell’educazione, quella che interessa l’infanzia
e l’adolescenza, abbia il compito di porre le premesse per adattamenti
culturali che interverranno nelle successive età della vita, e non solo per
rispondere all'esigenza di riqualificazione dei profili professionali, ma
anche (e, dal mio punto di vista, direi soprattutto) per conservare e
accrescere la capacità di ciascuno di comprendere la realtà in cui vive, di
essere parte consapevole della società, di contribuire alle scelte politiche
senza essere facile oggetto di condizionamento da parte di quanti
possiedano maggiori possibilità di organizzare e manipolare messaggi.
L’aspirazione, che ha caratterizzato per un lungo tratto la crescita della
scolarizzazione, a definire in modo conclusivo il profilo culturale e
professionale dei giovani, a questo punto deve aprire spazi all’acquisizione
di competenze che non abbiano un’immediata valenza sociale, ma che
siano necessarie per consentire a ciascuno di adattarsi positivamente alle
trasformazioni che con ritmo crescente intervengono nel tessuto sociale e
culturale e nelle attività produttive. Ciò equivale ad affermare che occorre
conferire all’educazione nella prima parte della vita un ruolo di condizione
strutturale per gli adattamenti che successivamente saranno necessari.
Del resto, se consideriamo quale sia il ritmo del superamento delle
competenze nelle società contemporanee, ci rendiamo conto del fatto che
5
quanto più le competenze hanno risvolti pratici e applicativi, tanto più
rapido è il tempo entro il quale esse non saranno più utilizzabili. Appaiono
invece molto più stabili le competenze che corrispondono ad abilità che
richiedono essenzialmente pensiero, e cioè non sono legate ad intenti
utilitari, né all'uso di strumentazioni o di modalità comunicative, per quanto
importanti, che in momenti determinati appaiano al centro dell'attenzione,
ma che - come l'esperienza ha già mostrato - sono soggette a esaurirsi in
un tempo sempre più breve. Di conseguenza, è necessario individuare
una forma di scolarizzazione, che a questo punto chiamerei
riscolarizzazione, che consista fondamentalmente nella sottrazione di quel
tanto di contingentemente utilitario presente originariamente nell’idea di
scolarizzazione, per allargare il quadro delle competenze verso un
affinamento dei processi mentali che consentono di comprendere una
realtà in rapida trasformazione e di avere parte attiva in società per il cui
sviluppo la conoscenza e la comunicazione assumono un ruolo
determinate.
In questo senso, la riscolarizzazione non può che avere obiettivi
profondamente diversi dalla scolarizzazione. La nuova fase non può che
essere caratterizzata dal perseguimento di abilità complesse, che proprio
perché complesse si collocano a un livello elevato: quando oggi si parla di
qualità dell’istruzione non è per orecchiare parole d’ordine che si vanno
diffondendo in altri settori della società, nella produzione di beni e servizi,
ma perché si pone l’enfasi su quella componente collegata ai repertori
disponibili dal punto di vista concettuale che possono essere utilmente
riadattati in funzione di una conoscenza che ci incalza continuamente, che
non sappiamo di preciso quale sarà, ma che i ragazzi che oggi si stanno
formando incontreranno ad un certo punto del loro cammino.
Teniamo conto che i tredici anni che occorrono per far passare una leva
di popolazione dall’inizio della scuola elementare alla fine della scuola
secondaria superiore equivalgono ormai dal punto di vista culturale al
tempo in cui si compiono alcune importanti rivoluzioni: il quadro che
troveranno all’uscita della scuola non solo sarà molto diverso da quello
che hanno trovato nel momento in cui sono entrati, ma sarà con ogni
probabilità diverso anche da quello che inizialmente poteva essere
ipotizzato. Si tratta di fenomeni già in atto: il percorso scolastico dei nostri
genitori e ancor più dei nostri nonni poteva essere preventivamente
descritto in tutto il suo sviluppo, con buone probabilità che il percorso
effettivo avrebbe ricalcato quello atteso. Oggi nessuno sarebbe in grado di
indicare che cosa attenda alla fine della scuola secondaria i bambini che
quest’anno incominciano la scuola elementare: possiamo soltanto sapere
- e questo è abbastanza sicuro - che avranno di fronte una situazione
profondamente diversa dall’attuale.
Questo comporta, da un punto di vista didattico, una revisione profonda
dei modi di intervento che sia in grado di assorbire per il possibile i fattori
6
di dispersione che sono presenti nel quadro educativo. Gli effetti
dell’educazione derivano dal concorrere di due famiglie di variabili
indipendenti: una prima famiglia si riferisce alle caratteristiche personali
degli allievi, l’altra famiglia alle condizioni nelle quali ha luogo l'attività. Ci
si presenta un’alternativa: se lasciamo prevalere la prima famiglia di
variabili indipendenti, riproduciamo più o meno il quadro esistente, quindi
esponiamo una buona parte della popolazione, in mancanza di rinforzi
esterni, a quella prospettiva di analfabetismo, più o meno completo, a cui
facevo riferimento prima. Se, invece, vogliamo affermare un modello
educativo centrato sulla seconda famiglia di variabili indipendenti, allora
possiamo pensare che gli esiti dell’educazione non debbano risentire
eccessivamente della variabilità delle caratteristiche personali. Ciò vuol
dire seguire un obiettivo di qualità nell’istruzione, ma vuol dire anche che
non possiamo pensare ad una proposta educativa uniforme, perché la
differenziazione dei percorsi diventa la condizione perché abbia il
sopravvento quella famiglia di variabili indipendenti che prima ho detto
essere collegate alle condizioni dell’educazione. In questo senso, alle
didattiche centrate su stili d’interazione fondamentalmente uniformi o su
stili comunicativi a messaggio rigido, vanno sostituite didattiche centrate
sull’analisi delle caratteristiche personali e sulla differenziazione del
messaggio in funzione di queste caratteristiche.
La spinta alla scolarizzazione ha, sul piano quantitativo, realizzato il
progetto comeniano che si riassume nell'espressione «Omnia omnibus»,
ossia, come viene comunemente tradotto, «tutto a tutti». Io vorrei darne
una traduzione diversa, adatta al tempo in cui viviamo e ai problemi che
prima ho ricordato: traduciamolo con «a ciascuno ogni cosa», per indicare
che quello che abbiamo di fronte non è un soggetto collettivo, ma sono
tanti allievi, ciascuno dei quali ha caratteristiche specifiche. A ciascuno di
essi, e nei modi in cui è necessario ed è possibile, va rivolto un messaggio
d’istruzione specifico per ogni aspetto considerato fondante di un profilo
culturale che debba permanere nel seguito della vita. Allora, non un «tutto
a tutti» che rischia di disperdere in questa nozione collettiva la specificità
dei problemi personali, ma un «ogni cosa a ciascuno», che consenta di
identificare qual è in ciascun momento il problema educativo di un allievo,
che non è più virtuale, ma caratterizzato dalla precisa consapevolezza di
una determinata realtà. In questo senso, «ciascuna cosa a ciascuno» è
l’obiettivo che vedo costituire il punto verso cui dovrebbe tendere un
processo di riscolarizzazione.
In questi ultimi anni la ricerca ha dato grande risalto
all’individualizzazione. Non sempre tuttavia le soluzioni proposte sono
state del tutto corrispondenti alle ipotesi, a volte per limitazioni nel
modello, altre volte per angustie nella dotazione strumentale. È questa
comunque la strada da seguire. Nel Laboratorio di Pedagogia
sperimentale dell'Università di Roma Tre stiamo cercando un altro modo di
7
interpretare la ricerca di soluzioni centrate sull’allievo. Se finora queste
soluzioni sono state caratterizzate essenzialmente dall’individuazione della
funzionalità dell’errore nella diversificazione dei percorsi, da qualche anno
stiamo lavorando su approcci tesi, se non ad evitare, almeno a ridurre
l’errore, nella consapevolezza che un percorso di apprendimento, non
disperso o frazionato dalla necessità di compensare le cadute che in
questo percorso si verificano, sia più gratificante, consenta di migliorare la
motivazione interna all’apprendimento e permetta anche di ridurne i tempi.
Non possiamo pensare che sia una via produttiva quella che ripropone in
modi estenuanti e ripetitivi determinati percorsi con la consapevolezza che
rispetto a essi non si raggiungerà mai un risultato pieno: il problema è
raggiungere con certezza tale risultato e operare perché sia raggiunto al
miglior livello educativo possibile.
Per cui, ancora una volta, «ciascuna cosa a ciascuno» e, vorrei
aggiungere, a livello elevato. L'esigenza cui occorre corrispondere è quella
di assicurare una elevata qualità dell'istruzione, ossia quella di indirizzare
a ciascun allievo una proposta di apprendimento capace di assicurare il
conseguimento di determinati traguardi di abilità e di competenza. È
questa la sfida che oggi la pedagogia sperimentale si trova ad affrontare:
solo la ricerca può fornire, infatti, agli insegnanti gli elementi conoscitivi
che possono consentire di variare i modi dell'offerta didattica a seconda
delle esigenze che effettivamente si presentano.
La didattica, come notava Comenio, è un'attività consapevolmente
organizzata (artificium) per conseguire un intento. Si tratta di
un'affermazione per nulla scontata, anche se l'opera nella quale è
contenuta risale a poco oltre la metà del Seicento1. Infatti, è ancora
abbastanza comune che ci si limiti a considerare l'artificialità delle
componenti strumentali della didattica, mentre permangono atteggiamenti
naturalistici nel considerare le componenti strutturali dei processi di
insegnamento. Non c'è dubbio che un libro, un laboratorio di biologia o un
programma per calcolatore siano il risultato di una costruzione
consapevole, volta a realizzare qualcosa che altrimenti non sarebbe
disponibile. Si accetta dunque il carattere artificiale dello strumentario
didattico. Gli atteggiamenti sono però molto più differenziati quando si
tratta di qualificare i comportamenti dei soggetti implicati nel rapporto
didattico. È ancora forte la tendenza a considerare tali comportamenti
come la manifestazione di una naturale tendenza all'insegnare.
In altre parole, mentre si riconosce che occorre una specifica
competenza per scrivere un libro, progettare un laboratorio o realizzare un
programma per calcolatore, e che usando tale competenza si modifica in
1
La Didactica magna (ossia l'opera nella quale compare la definizione di didattica sopra ricordata)
è stata pubblicata nel 1657. Nell'intestazione dell'opera compare il sottotitolo esplicativo
Universale omnes omnia docendi artificium exhibens; subito dopo, nella dedica ai lettori, si legge
Didactica docendi artificium sonat.
8
qualche modo il corso della natura, lo stesso carattere di artificialità non
viene individuato quando si tratta di definire i comportamenti degli
insegnanti e quelli degli allievi. In questo caso, molti preferiscono pensare
che si stia manifestando da un lato una naturale tendenza ad insegnare, e
dall'altro una naturale tendenza ad apprendere2. Ovviamente, come
sempre quando ci si riferisce a caratteristiche "naturali", si dà per scontato
che esse siano possedute in differenti misure, per cui ci saranno
insegnanti migliori e altri meno buoni, così come ci sono allievi che
apprendono con maggiore o minore facilità ciò che ad essi viene
proposto3.
Ciò che rende insidioso l'atteggiamento naturalistico è che esso si fonda
su un’analogia implicita fra le pratiche primarie di adattamento alla vita,
nelle quali si manifesta per natura la tendenza degli individui adulti a
facilitare l'acquisizione di competenze da parte dei nuovi individui della
specie, e la didattica, ossia quell'insieme di pratiche che si riferiscono a un
adattamento secondario, in quanto volto al soddisfacimento di bisogni
simbolici, che hanno origini culturali e sono estremamente variabili nel
tempo e nello spazio. L'adattamento secondario non può che essere
artificiale, e cioè costruito in vista del raggiungimento d’intenti, alterando in
qualche modo la sequenza "spontanea" dei fenomeni nel processo di
sviluppo dei soggetti. Solo perché tali intenti sono generalmente condivisi
e profondamente interiorizzati negli atteggiamenti degli adulti si può finire
2
Sui diversi modi di intendere l'insegnamento vedi B. Vertecchi, Interpretazioni della didattica,
Firenze, La Nuova Italia, 1990.
3
La suggestione naturalistica trae argomenti di rinforzo dall'analisi statistica della distribuzione di
variabili descrittive della popolazione. Si constata, per esempio, che la distribuzione delle
principali variabili attitudinali ha una conformazione "a campana": corrisponde cioè alla
distribuzione casuale di una variabile binomiale. Dall'analisi della distribuzione delle variabili
relative all'apprendimento scolastico, che apparivano (ed ancora appaiono, in condizioni didattiche
"tradizionali") fortemente correlate con variabili relative alla dotazione attitudinale hanno tratto
argomento le interpretazioni deterministiche delle possibilità di successo negli studi. Tali
argomentazioni sono state sottoposte a critica rigorosa da B. S. Bloom ed altri, nell'ambito della
precisazione del quadro teorico della proposta di individualizzazione dell'insegnamento nota come
mastery learning (vedi J. H. Block (a cura di), Mastery learning. Procedimenti scientifici di
educazione individualizzata, Torino, Loescher, 1972). La questione resta comunque di viva
attualità, e sollecita periodicamente dibattiti animati, l'ultimo dei quali è seguito alla pubblicazione
di un saggio di R. Herrnstein e C. Murray, The Bell Curve: Intelligence and class structure in
American life, New York, The Free Press, 1994. Gli argomenti di Herrnstein e Murray non sono
certamente originali, dal momento che le conclusioni a cui giungono richiamano quelle già
sviluppate da A. R. Jensen in un articolo del 1969, nel quale sosteneva la sostanziale inutilità dei
programmi di educazione compensativa avviati negli Stati Uniti agli inizi degli anni Sessanta ai
fini del superamento dei condizionamenti socioculturali, ed in particolare quelli di origine etnica
(vedi "How Much Can We Boost IQ and Schoolastic Achievement?", Harvard Educational
Review, Winter 1969. Le reazioni suscitate dal saggio di Herrnstein e Murray pongono soprattutto
in rilievo il carattere ideologico ormai assunto dai riferimenti alla curva normale, che assumono un
ruolo di copertura nei confronti di posizioni conservatrici sul piano sociale: vedi R. Jacoby, N.
Glauberman (Eds), The Bell Curve Debate, New York, Random House, 1995; J. L. Kincheloe, S.
R. Steinberg, A. D. Gresson III (Eds), Measured Lies. The Bell Curve examined, New York, St.
Martin's Press, 1996.
9
col considerarli "naturali", accreditando così l'analogia fra il primo e il
secondo adattamento.
Considerare la didattica un artificium equivale a definirla come l'insieme
delle soluzioni attraverso le quali si attua l'adattamento secondario. È
evidente tuttavia che questa definizione si applica non al significato
"debole" che prima veniva richiamato, quello cioè che si limita a
riconoscere l'artificialità dello strumentario didattico, ma al significato
"forte", che comprende anche i comportamenti. A seconda che prevalga il
significato debole o quello forte si accreditano modalità effettive di
praticare l'insegnamento fondamentalmente diverse4. Se si accoglie il
significato debole la maggiore enfasi è posta sulle caratteristiche personali
dei soggetti coinvolti nell'attività: tali caratteristiche personali assumono
valore causale. Poiché la distribuzione delle caratteristiche personali sulla
popolazione è molto dispersa (sempre che non intervengano dall'esterno
dispositivi in grado di moderare la dispersione, come sono i filtri sociali
all'accesso degli allievi, che di riflesso comportano anche limitazioni nel
numero degli insegnanti), i risultati dell'attività didattica appaiono
altrettanto dispersi. Se invece si opta per l'interpretazione forte aumenta il
numero delle variabili cui collegare i risultati, ma aumenta anche la
possibilità di orientare i processi al conseguimento di determinati intenti.
Infatti, se è difficile (almeno in tempi brevi), e in alcuni casi impossibile,
modificare le caratteristiche personali dei soggetti coinvolti nell'attività
didattica, gli spazi di libertà si dilatano se si considerano modificabili i
comportamenti degli insegnanti. Al limite, tale modifica può consistere
nell'attribuire la funzione di insegnare a un soggetto collettivo5 invece di
considerarla una sorta di prerogativa posseduta a titolo personale.
Le due interpretazioni menzionate sono indipendenti dal complicarsi
dello strumentario utilizzato per comunicare i messaggi di apprendimento.
In altre parole, il ricorso a procedure per il trasferimento del messaggio di
apprendimento caratterizzate dall'impiego di una strumentazione
complessa sul piano tecnologico non comporta l'assunzione di un
significato forte per la didattica. Ciò spiega la tenuità, per non dire
l'inconsistenza, che spesso sul piano dei risultati si riscontra in relazione
4
In una accezione "forte" la didattica comprende sempre una pluralità di dimensioni, che
investono le dimensioni cognitive, affettive e relazionali dell'attività di insegnamento. Nelle
accezioni "deboli" una o più dimensioni sono enfatizzate rispetto alle altre: è ciò che accade in
molte proposte didattiche che si presentano come "alternative", ma nelle quali ad una forte
attenzione nei confronti di una componente dell'insegnamento fa risconto la trascuratezza verso
altre. Per una rassegna dei significati "forti" e "deboli" vedi B. Vertecchi, "La didattica", in B. V.,
La scuola italiana verso il 2000, Firenze, La Nuova Italia, 1984, pp. 370-381.
5
È il caso di molti modelli di organizzazione dell'insegnamento scolastico sviluppati negli ultimi
decenni e caratterizzati in varia misura dalla specializzazione e dalla divisione dei compiti
didattici.
10
all'impiego di mezzi tecnologici6. È interessante notare la sproporzione fra
il messianismo col quale le nuove possibilità vengono presentate e la
reticenza nel dichiarare i risultati ottenuti. Ci si trova di fronte ad
argomentazioni tutte a priori, fondate su asserzioni indimostrabili, cui non
di rado si cerca di conferire autorevolezza attraverso un ricorso
spregiudicato e violento a ideologie "nuoviste"7.
Il messianismo tecnologico costituisce una componente ideologica forse la principale - del dibattito sull'insegnamento in questi decenni
terminali del Novecento. Le spinte alla modernizzazione della scuola
centrate sull'acquisizione di apparati tecnologici per nulla verificati sul
piano della valenza didattica costituiscono una conseguenza del prevalere
della suggestione ideologica sulla dimostrazione scientifica.
Se si accetta la definizione generalissima secondo la quale la didattica
costituisce l'insieme delle forme dell'adattamento secondario, occorre
individuare quale sia l'elemento strutturale che consente di distinguere tale
adattamento secondario da quello primario. Non è difficile individuare
nell'adattamento primario condizioni di apprendimento - come il
condizionamento o l'imitazione - che si ritrovano anche in quello
secondario. Si tratta di condizioni di apprendimento che di per sé non
richiedono una particolare organizzazione, per il fatto che il soggetto meno
esperto acquisisce competenza in un contesto nel quale sia presente
almeno un soggetto più esperto, che può avere, ma può anche non avere
l'intento di istruire8.
Nell'adattamento secondario l'intento di istruire è esplicito. Non si tratta
più di lasciare che soggetti non forniti di esperienza conseguano un
adattamento funzionale al soddisfacimento di bisogni primari, ma occorre
determinare una situazione artificiale, entro la quale si sviluppino azioni
finalizzate al trasferimento di un repertorio simbolico i cui singoli elementi
non presentano nell'immediato un’utilità evidente. La sedimentazione
storica più rilevante delle pratiche per l'adattamento secondario è costituita
6
Una componente ideologica ricorrente nel dibattito sull'impiego di strumentazioni tecnologiche
nell'insegnamento è costituita dal consumismo: vedi B. Vertecchi, "Per una critica del
consumismo educativo", Cadmo, I, 2, 1993, pp. 5-16.
7
Il "nuovismo" nell'educazione è espressione di un atteggiamento di pensiero sostenuto dalla
contrapposizione manichea tra la conoscenza e le pratiche disponibili, considerate il male, e quelle
che si propongono in sostituzione, accreditate come il bene. Dal momento che le proposte
sostitutive sono inverificate, il credito che ad esse si concede è solo espressione di ideologia. E si
tratta di una ideologia fondamentalmente distruttiva ed antagonista rispetto alla razionalità
scientifica, che invece procede attraverso la rigorosa verifica sperimentale delle ipotesi innovative.
8
Si ripropone l'annosa questione del rapporto tra educazione e istruzione. Certamente l'educazione
comprende sia l'adattamento primario, sia quello secondario, mentre all'istruzione va riconosciuta
una posizione centrale nell'adattamento secondario. Ciò non vuol dire, ovviamente, che
l'adattamento primario non comporti acquisizione di competenze, ma solo che tali competenze
sono, per così dire, implicite nella cultura del contesto sociale di esistenza. Fondamentali, da
questo punto di vista, i contributi alla ricostruzione dei modelli educativi forniti dalla ricerca
antropologica (si pensi a M. Mead, R. Benedict, C. Lévi-Strauss): vedi M. Callari Galli,
Antropologia culturale e processi educativi, Firenze, La Nuova Italia, 1993.
11
dalla scuola, e la conoscenza relativa a tali pratiche dalla didattica.
Tuttavia, come spesso accade, aspetti contingenti hanno finito col
sovrapporsi alla struttura, creando associazioni fra struttura e fenomeni
abbastanza organici perché i singoli aspetti costitutivi fossero considerati
necessari.
Un equivoco ricorrente nel campo delle applicazioni delle nuove
tecnologie all'educazione consiste nel cercare prossimità concettuali in
altri settori ugualmente interessati al trasferimento di messaggi. Il
riferimento più prossimo è sembrato consistere negli approcci, teorici e
tecnici, che più o meno in parallelo sono andati affermandosi nel settore
della comunicazione di massa. Non si è tenuto conto del fatto che la
comunicazione di massa risponde a intenti che sono fondamentalmente
diversi rispetto a quelli dell'istruzione. La comunicazione di massa tende,
infatti, a riversare su un pubblico il più possibile vasto la maggior quantità
di messaggi. Non si propone tuttavia di organizzare tali messaggi in modo
da produrre apprendimento, e cioè una modifica del profilo delle
competenze individuali che abbia qualche stabilità nel tempo, ma più
semplicemente di rendere accessibili i messaggi al maggior numero di
potenziali fruitori. Quel che conta non è che questi ultimi acquisiscano
effettivamente i messaggi, ma che possano acquisirli, e cioè che vi sia da
parte loro una qualche comprensione, per quanto superficiale. È come dire
che sono le caratteristiche dei destinatari a determinare quelle dei
messaggi: di conseguenza, l'ampliamento del pubblico si consegue
abbassando la soglia dei requisiti culturali necessari per la comprensione.
L'organizzazione dei messaggi tende perciò a soddisfare le esigenze dello
strato inferiore di pubblico che ci si propone di raggiungere9. Ne derivano
la rinuncia a argomentazioni complesse, il ricorso a metafore di vita
quotidiana, l'uso di un lessico stringato. La sintassi assume andamenti
prevalentemente paratattici e si assiste a una drastica riduzione delle
forme sinonimiche, con la perdita delle sfumature semantiche. L'unico
criterio didattico riconoscibile è quello della divulgazione, e cioè della
perdita di specificità dei messaggi da comunicare. Tutto ciò non ha nulla a
che fare con una buona didattica.
Una buona didattica si identifica per il suo ruolo di mediazione, ossia per
la sua capacità di compensare le differenze che separano il destinatario
virtuale di un messaggio teso a produrre apprendimento dai destinatari
reali. Questo intento non può comportare perdite concettuali, perché
altrimenti non avremmo insegnamento, ma divulgazione. La complessità
9
Conviene prestare attenzione alle linee del tutto divergenti che si individuano nello sviluppo della
comunicazione di massa e in quello della didattica: mentre lo sviluppo della comunicazione di
massa è dominato dall'esigenza di raggiungere un pubblico sempre più numeroso, lo sviluppo della
didattica fa emergere una crescente attenzione alle esigenze individuali. Nel primo caso si cerca di
individuare la logica di un pensiero collettivo, raccogliendo i fattori comuni e lasciando cadere
quelli che esprimono posizioni divergenti, mentre nel secondo caso sono proprio queste posizioni
divergenti ad assumere rilievo.
12
dei messaggi volti a comunicare una cultura di qualche complessità
consiste soprattutto nel fatto che in essi sono numerose le componenti
implicite: in una comunicazione equilibrata, nella quale si supponga che il
destinatario possieda la stessa competenza di chi formula il messaggio, il
destinatario non ha difficoltà a sciogliere l'implicito. Poiché nella
comunicazione didattica il diverso livello delle competenze di chi formula il
messaggio e di chi lo riceve costituisce un dato strutturale, l'artificio
dell'insegnare consiste nel modificare il messaggio che potrebbe essere
rivolto a un destinatario virtuale, sciogliendo quella parte di implicito che è
necessaria per colmare l'intervallo di competenza esistente fra il
destinatario virtuale e i destinatari reali.
Si tratta a questo punto di individuare qual è la condizione che consente
di praticare l'artificio didattico, così come sopra è stato definito, e cioè
come mediazione volta allo scioglimento della parte di implicito che si
frappone alla comprensione del messaggio da parte del destinatario reale.
Le diverse interpretazioni che storicamente sono state date a tale
condizione configurano i principali modelli della didattica. Per semplicità,
possiamo distinguere tali modelli in due grandi classi: la prima tende a far
coincidere il destinatario virtuale della proposta di apprendimento con
quello reale, mentre l'altra considera il destinatario virtuale solo come un
modello, in relazione al quale è possibile individuare le caratteristiche del
destinatario reale. Nel primo caso il messaggio preesiste all'emergere
delle caratteristiche dei destinatari, mentre nel secondo la sua effettiva
conformazione deriva da aggiustamenti successivi introdotti in un prototipo
virtuale. È come dire che le informazioni relative alle caratteristiche dei
destinatari degli interventi didattici possono essere utilizzate in due modi:
a) si possono integrare le informazioni relative ad un certo numero di
destinatari ed ottenere un modello nel quale le variabili che si riferiscono ai
singoli tratti assumono un valore centrale della distribuzione10. Tale
integrazione è possibile sia sul piano diacronico, sia su quello sincronico.
Gli insegnanti che giustificano determinate scelte sulla base delle
precedenti esperienze non fanno che ricavare, anche se spesso in modi
del tutto impliciti, tendenze centrali dalle caratteristiche degli allievi che si
10
Si fa riferimento ai "valori centrali", invece di indicare una specifica misura di tendenza centrale,
per due ragioni. La prima è che se l'integrazione procede a partire da dati che siano stati rilevati
con strumentazioni di qualche attendibilità su un numero abbastanza elevato di soggetti è molto
probabile che le misure di tendenza centrale presentino valori molto prossimi, tanto da essere quasi
coincidenti; la seconda è che le cose possono presentarsi in modo del tutto diverso se
nell'integrazione prevalgono le percezioni soggettive acquisite attraverso l'esperienza, o se la
composizione della popolazione è stata modificata per effetto di filtri selettivi o di
condizionamenti socioeconomici. Nelle percezioni soggettive il riferimento più forte può derivare
dall'integrazione di dati relativi al comportamento di gruppi, invece che dell'intera popolazione.
Così un insegnante può comporre un suo modello di allievo virtuale tenendo conto delle
esperienze positive precedentemente effettuate, ma può farlo anche a partire da quelle negative. In
questi casi la capacità di attrazione dei valori modali è probabilmente maggiore di quella dei valori
medi.
13
sono succeduti nel tempo (integrazione diacronica). Se i dati derivano da
rilevazioni effettuate in un tempo iniziale, e se a partire da tali dati è stato
definito il messaggio di apprendimento, i valori di riferimento sono centrali
rispetto alla specifica situazione di intervento (integrazione sincronica);
b) anche nel caso dell'utilizzazione delle informazioni relative alle
caratteristiche dei destinatari in funzione dell'adattamento del messaggio
alle esigenze individuali, e quindi di un progressivo avvicinamento delle
caratteristiche dei destinatari reali del messaggio didattico a quelle del
destinatario virtuale, è possibile procedere ad integrazioni di tipo
diacronico o di tipo sincronico. Si ha un’integrazione diacronica se il
messaggio viene modificato osservando il comportamento del destinatario
in un arco di tempo prolungato e in relazione a compiti di apprendimento
affini. L'integrazione è sincronica se il profilo del destinatario si ricostruisce
con continuità, e se parallelamente viene adattato il messaggio di
apprendimento11.
Incrociando la dimensione temporale (diacronica-sincronica) di
rilevazione delle informazioni relative ai destinatari del messaggio con la
modalità della sua formulazione (uniforme-individualizzata) si ottengono
quattro tipologie didattiche fondamentali:
1) integrazione diacronica delle caratteristiche dei destinatari e
formulazione uniforme del messaggio. Si tratta della tipologia didattica più
tradizionale, nella quale il sostrato conoscitivo è genericamente
giustificato dall'esperienza. In pratica, il destinatario virtuale dell'intervento
11
Una soluzione che si colloca nell'ambito di ipotesi di integrazione sincronica nella quale il
profilo del destinatario viene ricostruito con continuità, ed insieme viene riformulato il messaggio
di istruzione, è in corso di definizione presso il Laboratorio di Pedagogia sperimentale del
Dipartimento di Scienze dell'Educazione dell'Università di Roma Tre. Partendo dalla
constatazione che parte della difficoltà di apprendimento può essere spiegata con il possesso di
repertori verbali inadeguati, si è provveduto preliminarmente a definire il funzionamento di uno
"stimatore", e cioè di una procedura che consenta di ottenere una indicazione relativa al numero di
parole disponibili da parte del destinatario del messaggio di istruzione. Il disegno sperimentale
prevede che sia rilevata la correlazione esistente fra i dati forniti dallo stimatore e la capacità di
comprensione da parte dei soggetti di messaggi scritti. Se, come si ipotizza, si riscontrerà una
correlazione elevata si potrà considerare validato lo stimatore ed utilizzarlo per l'adattamento di
messaggi per l'apprendimento. Occorrerà stabilire preliminarmente quale sia la consistenza del
repertorio verbale impiegato per la formulazione "virtuale" (e cioè in funzione di un ricevente che
sia pienamente in grado di comprenderlo) di un terminato messaggio di istruzione, e quindi
confrontare tale consistenza con quella dei repertori dei quali dispone ciascun allievo. Lo scarto fra
la consistenza del repertorio verbale supposta dalla formulazione virtuale e quella della quale i
singoli allievi dispongono effettivamente fornisce i termini per l'intervento didattico: si tratta
infatti di riformulare il messaggio (si stanno mettendo a punto soluzioni automatizzate) in modo da
utilizzare una quantità di parole di poco superiore a quella già posseduta da ciascun allievo. Tale
quantità verrà incrementata a misura che si riscontri un analogo incremento nella competenza degli
allievi. Il numero di parole impiegato per la riformulazione del messaggio sarà un po' superiore a
quello del cui possesso ciascun allievo viene accreditato perché da un lato va considerata la
funzione di chiarificazione del contesto, dall'altro va evitata la banalizzazione che si otterrebbe se
il linguaggio utilizzato fosse esattamente uguale a quello disponibile: si creerebbe infatti una
situazione molto simile a quella della comunicazione di massa.
14
didattico viene precisandosi attraverso l'integrazione delle caratteristiche
di destinatari reali ai quali sia già stata rivolta una proposta simile di
apprendimento. Le differenze esistenti fra i soggetti delle cui
caratteristiche si è avuta effettiva esperienza vengono compensate
facendo riferimento a valori centrali della distribuzione. Nell'istruzione in
presenza questa tipologia didattica è essenzialmente influenzata dalla
personalità dell'insegnante e dalle esperienze che questi ha compiuto. Per
quanto tradizionale, questa tipologia didattica si trova alla base di molte
proposte che utilizzano tecnologie avanzate per la comunicazione, per
esempio messaggi televisivi, programmi multimediali o testi acquisibili in
rete;
2) integrazione diacronica delle caratteristiche dei destinatari e
formulazione individualizzata del messaggio. Le caratteristiche dei
destinatari derivano dalla loro osservazione prolungata in situazioni di
apprendimento. Se si è trattato di situazioni di tipo duale (un insegnante si
prende cura di un allievo), il messaggio tiene conto delle attitudini, degli
interessi e delle competenze che questi ha già acquisito. Se invece
l'osservazione ha interessato gruppi di allievi (è il caso di molte pratiche di
orientamento) si perviene ad una riaggregazione dei soggetti sulla base di
un criterio, generalmente costituito dalla previsione del successo. Il
messaggio viene quindi adattato in funzione delle caratteristiche che sono
state considerate per costituire i diversi gruppi di allievi. Qualcosa di
analogo avviene quando si organizzano attività a carattere compensativo:
il messaggio viene riformulato tenendo conto delle difficoltà
precedentemente incontrate. L'adattamento che si consegue attraverso
questa tipologia didattica è piuttosto lento, e dal momento che in larga
misura procede dalla constatazione di insuccessi può associarsi per gli
allievi a dinamiche negative dal punto di vista affettivo;
3) integrazione sincronica delle caratteristiche dei destinatari e
formulazione uniforme del messaggio. Questa tipologia corrisponde agli
approcci didattici che fanno affidamento su qualche forma di
uguagliamento preventivo delle caratteristiche degli allievi (per esempio,
una prova di ammissione, oppure attività per il recupero di prerequisiti). Si
suppone che ad allievi inizialmente uguagliati nelle loro caratteristiche si
possa rivolgere un messaggio uniforme. In alte parole, la condizione di
uguagliamento viene assunta come base per la definizione del
destinatario virtuale del messaggio di apprendimento. La debolezza di
questo approccio deriva dal fatto che l'uguagliamento viene stabilito in
relazione ad un numero circoscritto di variabili, ed è quindi probabile che
le differenze tra soggetti tornino a manifestarsi durante il percorso di
apprendimento. Rientrano in questa tipologia anche gli approcci che
prevedono un uguagliamento frazionato, per esempio per livelli di
attitudine o di competenza, in corrispondenza ai quali viene modificata la
soglia di attesa. Si tratta di approcci centrati su interpretazioni
15
deterministiche della didattica, e quindi fondamentalmente rinunciatari dal
punto di vista della qualità dell'istruzione;
4) integrazione sincronica delle caratteristiche dei destinatari e
formulazione individualizzata del messaggio. È come dire che il
messaggio di apprendimento viene adattato con continuità alle esigenze
del destinatario. Poiché tali esigenze sono in massima parte definite dalle
caratteristiche cognitive e affettive di ingresso degli allievi, se il livello di
tali caratteristiche rivela l'esistenza di difficoltà, la qualità dell'istruzione
deve essere incrementata perché la distribuzione delle variabili dipendenti
non si presenti riproduttiva delle caratteristiche di ingresso. Questa quarta
tipologia didattica si prefigge quindi l'individualizzazione della proposta di
apprendimento. Si tratta di una tipologia che comporta conoscenze e
tecniche complesse, tanto da potersi configurare in sé come tecnologica,
indipendentemente dallo strumentario utilizzato per la comunicazione. Se
infatti consideriamo la tecnologia come una forma complessa di
conoscenza orientata al saper fare (e non semplicemente come la
capacità di produrre o utilizzare strumenti di qualche complicazione),
ritroviamo che una simile complessità distingue appunto gli approcci
individualizzati alla didattica rispetto a quelli centrati sull'uniformità del
messaggio
di
istruzione
che
viene
proposto
agli
allievi.
L'individualizzazione richiede infatti che si disponga di una informazione
analitica e continua circa il procedere del processo di apprendimento e
della possibilità di variare il messaggio in funzione delle difficoltà che
ciascun allievo sta effettivamente incontrando. Occorre perciò assumere
decisioni con continuità, per indirizzare il processo verso il conseguimento
degli obiettivi dell'intervento didattico. Conviene osservare che negli
approcci a messaggio uniforme si riscontra una bassa densità di
decisioni, e che queste sono generalmente piuttosto remote rispetto al
momento in cui si effettua l'attività. Le decisioni che determinano
l'insegnamento derivano infatti da giudizi che sono il risultato di induzioni
confermate nel tempo, e delle quali ci si attende di osservare nuove
conferme. Ne consegue che raramente la decisione si presenti come una
scelta effettiva fra più linee di comportamento, per il fatto che linee di
comportamento diverse da quelle che si è abituati a seguire comportano
una formulazione originale di ipotesi che tenga conto delle condizioni nelle
quali dovrà svolgersi uno specifico intervento didattico, o un segmento
significativo di tale intervento. Alla proposta di messaggi uniformi non
corrisponde quindi una vera e propria decisione12, ma una quasidecisione, e cioè l'accettazione di una linea di comportamento per la
quale non si possiedono alternative. La quasi-decisione non comporta un
effettivo bisogno di conoscenza, per il fatto che può coincidere col
manifestarsi di atteggiamenti interiorizzati per imitazione o per esperienza.
12
Sulle applicazioni in didattica della teoria delle decisioni vedi B. Vertecchi, Decisione didattica
e valutazione, Firenze, La Nuova Italia, 1993.
16
La tecnologia dell'istruzione si configura quindi come una strategia densa
di momenti decisionali, nei quali la scelta delle linee di comportamento si
appoggia alla conoscenza analitica delle condizioni di intervento ed ha lo
scopo di ottimizzare la qualità dell'istruzione in funzione delle esigenze
individuali di apprendimento.
17