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Sono, si dice, un altro

Ci sono immagini che persistono a lungo nella memoria individuale e collettiva. Immagini che segnano un’epoca, trascendendo le intenzioni e le finalità dei loro autori per vivere un’esistenza altra, legata al loro uso e riuso mediatico. Così è accaduto alle due polaroid di Aldo Moro scattate durante il suo sequestro da parte delle Brigate rosse nel 1978. Foto entrate immediatamente nel circuito informativo internazionale, scatenando reazioni contrastanti sul piano politico, culturale, estetico. Nella prima sezione del libro viene narrato e analizzato il contesto storico, politico e sociale nel quale si è svolto l’evento, il progetto brigatista e i documenti strategici di «attacco al cuore dello Stato», la preparazione e lo svolgimento dell’azione militare, il trasporto di Moro nella «prigione del popolo», gli scatti della prima e della seconda polaroid e la loro diffusione ai giornali. Lo shock comunicativo determinato dalle immagini e l’ampio dibattito che esse suscitarono sui media e tra intellettuali e accademici. La seconda sezione è dedicata all’analisi delle interpretazioni artistiche ed estetiche delle due polaroid con contributi di sociologi, semiologi, esperti di comunicazione visiva, storici dell’arte e fotografi. Testi di: Sergio Bianchi, Lanfranco Caminiti, Marco Clementi, Claudio D’Aguanno, Tano D’Amico, Francesco Ferrara, Giovanni Fiorentino, Francesco Galluzzi, Pio Marconi, Tiziana Migliore, Raffaella Perna, Paolo Virno

sono, si dice, un altro Tiziana Migliore Figura 1 1/ Deposizioni di Anna Laura Braghetti e Mario Moretti. Cfr. Gotor 2008, p. 185. Via Montalcini 8 è l’indirizzo presso il quale, secondo le sentenze dei tribunali ai processi dei brigatisti, Aldo Moro fu tenuto prigioniero nei cinquantacinque giorni che precedettero la sua esecuzione e ivi ucciso, in un garage sotterraneo. L’intercapedine sarebbe stata ricavata alzando un tramezzo con un pannello di gesso fra uno studio e un salone e occultandolo alla vista con una libreria a muro. 126 3,24 mq (2004) è la ricostruzione 1:1, a firma di Francesco Arena, della presunta cella di Aldo Moro. Esposta per la prima volta a Roma, Fondazione Nomas, interpreta il capitolo più drammatico dell’Italia postbellica in absentia disgiunta, per elusione dell’istanza enunciante. Dopo quasi trent’anni, non v’è traccia del detenuto né delle immagini, visive e verbali, diffuse al punto da confonderne la memoria. Dov’è Moro nell’installazione di Arena? Che rapporto si tesse con le due Polaroid? Un’unità di misura fornisce il dato di partenza, notazionale, con cui Arena artifica la prigione di via Montalcini 8: «Un cubicolo lungo tre metri e largo meno di uno, quanto una comune porta di appartamento, stipiti compresi»1. L’architettura d’arrivo differisce dall’oggetto descritto non nella totalità, che può benissimo essere definita «cella di Moro», ma nelle parti che la compongono, eteroclite. L’ambiente di reclusione è contenuto, a sua volta, in un parallelepipedo di legno, solitamente usato come cassone da imballaggio e trasporto di valori. Vecchi fini sostengono la funzione di mezzi, significati si trasformano in 2/ Alla stregua di un bricoleur, l’artista utilizza elementi pre-vincolati e tenta di significanti2. Arena, nel rifigurare comprendere come ciascuno di essi può l’insieme, apre la cassa. contribuire alla definizione di un insieme. Ciò implica una conoscenza approfondita dell’oggetto e un’introspezione accentuata. Laddove la conoscenza scientifica costruisce eventi per mezzo di strutture, l’arte costruisce strutture per mezzo di eventi. Lévi-Strauss 1962, trad. it. pp. 29-30. Container. Status dell’ostaggio L’ingresso (fig. 1) è dissimulato tra le assi di rivestimento. Conduce a un primo 3/ Gotor 2008., p. 185. 4/ Ci si è interrogati sul perché non sia stata eseguita una perizia giudiziaria per valutare la compatibilità dei risultati dell’autopsia con la descrizione dell’ambiente del sequestrato. Il tono muscolare generale lascerebbe supporre una certa libertà di movimento e la possibilità di scrivere in condizioni relativamente agevoli (sedia e tavolo), ben lontane da quelle concesse a Moro nell’angusto covo di via Montalcini. Su questo aspetto si è soffermato Alfredo Carlo Moro, in Gotor 2008, p. 188. 5/ «I “due amici”, caduti nelle mani del nemico, sono manipolati come cose e non come esseri umani […]. L’appropriazione somatica ha l’effetto di privare l’attante soggetto del suo fare, dal momento che la “cosa” può essere definita in negativo come sprovvista di questa qualità: il soggetto diviene oggetto passando dallo stato di agente allo stato di paziente, senza perdere per questo le sue altre proprietà strutturali». Greimas 1976, trad. it. p. 151. Figura 2 vano, di 70 x 120 cm., che funge da anticamera al secondo, di 200 x 120 cm, accessibile attraverso una porta dotata di serratura e spioncino (fig. 2). Le pareti sono di compensato, il pavimento è di linoleum grigio. Anche l’arredo corrisponde alle testimonianze rilasciate dai brigatisti3. Nel locale più grande, chiuso sugli altri lati, stanno, a sinistra, una branda con materasso, coperta, lenzuola, cuscino e federa; accanto, in alto, una mensola su cui poggiano dei fogli A4, una penna, un asciugamano, una bottiglia di acqua minerale e un rotolo di carta igienica; sotto, un water fisiologico, una bacinella di plastica, una ventola elettrica (fig. 3). La stanza è intonsa, ma in entrambi i vani c’è una lampadina accesa. Che la replica sia fedele o no alla vera cella in cui Moro trascorse la prigionia4, ci interessa ragionare sul montaggio sotteso all’opera, con funzionamento a matrioska: l’ibrido tra una struttura mobile, da trasferimento di merci, e un abitacolo. In una cassa simile il corpo di Moro, rannicchiato, giunse a quell’indirizzo. Si rovescia il rapporto tra circoscrivente e circoscritto: l’involucro della cassa, caricato di senso, contiene la cella, che contiene il detenuto, «presente nel modo della sparizione» (Baudrillard 1987). Manca la persona, restano procedimenti vuoti. Dentro questo schema, il dispositivo di sorveglianza di Moro, che è stato letto con la lente di un’etica carceraria, opposta all’alienazione e all’annientamento (Sciascia 1978, pp. 17-18) o viceversa come scena di un martirio (Reichlin 1978), torna a riguardare lo status dell’ostaggio in astratto. Con le trasformazioni che comporta sul piano attanziale – la riduzione del soggetto in oggetto – e modale – il dover dipendere da altri, l’essere un io presso di sé sempre disarcionato (Lévinas 1974, p. 160). Cattura e cattività marcano l’appropriazione di un attante che si arroga il diritto di reificarne un altro. La congiunzione fisica, e in tal senso la riduzione dell’altro allo stato di «cosa», non ne implica però la perdita delle attività cognitive e patemiche5. 3,24 mq bonifica l’affare Moro dall’ipertrofia di 127 Figura 3 6/ Altrove Arena attiva l’isotopia della santificazione: in una variante delle sue aureole, cerchio di metallo illuminato, riempito delle lettere di Moro; e nella cassa che raccoglie i facsimili dell’arredo della cella di Padre Pio a San Giovanni Rotondo. È l’emblematica Strumento (2005), in risonanza con 3,24 mq, della quale recupera il sistema a scatole cinesi. Pur nella diversità di programmi – l’isolamento volontario vs la detenzione forzata – la cella di Padre Pio screzia la cella di Moro di un livello di contenuto spirituale, a due chiavi di lettura: 1) il sacrificio estremo per lo Stato; 2) una politica fatta di riti e parole solenni: «parlo innanzitutto del Partito comunista, il quale non può dimenticare che il mio prelevamento è avvenuto mentre si andava alla Camera per la consacrazione del Governo che m’ero tanto adoperato a costruire». Lettera di Aldo Moro al segretario della Dc Benigno Zaccagnini, 31 marzo 1978, in Gotor 2008, p. 13. 7/ Sull’immaginario sorto intorno a Moro cfr. Pezzini 2008, § 1.3; § 2.2. Il reworking che ne dà il film di Marco Bellocchio Buongiorno notte è approfondito in Pezzini 2012. Vedi anche Braghetti e Tavella 2003. 128 narrazioni che lo hanno connotato6, scaturigine di una «dissuasione fantastica. Il segno ha perso il proprio significato diretto per diventare un ambiente in cui la verità è sospesa» (Fabbri 1990, p. 10). Contro la regola che impone sovrainterpretazioni su un’istanza, erroneamente ritenuta non in grado di intendere e volere, l’opera di Arena sceglie l’omissione: nessun riferimento esplicito ad Aldo Moro, ma un «potenziale di immagine» anonimo, asettico, che consente di proiettare, da un tempo zero verso il futuro, il percorso di «disumanizzazione» riservato a questo soggetto. Il tipo di struttura impedisce di immedesimarsi. Non si improvvisa la condizione dell’ostaggio. La rende bene la trasferenza in uno spazio artistico, dove dentro casse stanno valori in deposito presso terzi, finché non si decide a chi appartengano. Aprendo e illuminando il container, però, l’artista anticipa, sempre per ellissi, il doppio regime endoscopico ed esoscopico che caratterizza la vicenda. Si pensi al film di Marco Bellocchio, Buongiorno notte (2003), in cui la percezione reciproca è centrale. C’è il personaggio della terrorista che osserva Moro nella sua intimità, dallo spioncino della porta; c’è la caricatura mediatica del Moro oggetto dell’opinione pubblica; e l’orientamento contrario, restaurato dal film, ma a lungo negato: il Moro osservatore, che pone domande e chiede risposte7. Figure bifocali della manipolazione. Se Arena avesse lasciato chiuso il container, limitandosi a offrire fessure di intravisione, l’analogia con i meccanismi di significato delle polaroid non sarebbe stata tanto stringente. La doppia prospettiva, dall’esterno all’interno e dall’interno verso l’esterno, insieme all’espediente della mise en abîme, cioè del discorso a incassamento, rende 3,24 mq una forma delle foto in cavo. Le foto di Moro. Mise en abîme e doppio regime dello sguardo È corretto considerare le polaroid scattate dai brigatisti e pubblicate su «la Repubblica», il 19 marzo e il 20 aprile, come operazioni di messa in scena. Belpoliti (2008, pp. 9-10) parla giustamente di tableaux, elaborati a uso propagandistico. Non ne consegue, però, che, generaliter, essi siano «fatti per mentire» o che costituiscano «un sistema globale di informazione fuorviante», tanto che «non riusciamo più a distinguere la costruzione dell’immagine realizzata nella pubblicità dal resto delle “immagini vere” del giornale, quelle che riproducono la cosiddetta “realtà”». Curare l’assetto sintattico è proprio di qualsiasi discorso pubblico attento all’efficacia. La veridicità è una delle funzioni perseguibili e l’organizzazione interna, piuttosto, smentisce usi aberranti. Snidarli dipende dalle competenze di lettura testuale e dalla possibilità di comparare la singola organizzazione con altre dello stesso genere. Figura 4 8/ Pezzini 2008, pp. 379-380. Veridicità della fotografia. Il duca Lante della Rovere L’impiego delle polaroid di Moro, raffrontato con la contemporanea foto di Massimiliano Grazioli Lante Della Rovere, ostaggio della banda della Magliana (fig. 4), rivela un’altissima tensione veridica. Il 7 aprile il «Corriere della Sera» diffondeva «l’ultima foto del duca pervenuta dai rapitori». Subito sotto, si trovava un lugubre articolo non firmato dal titolo Cerimonia dei partigiani cristiani sul luogo dell’eccidio in via Fani 8. A dispetto dell’evidenza – il capo chino, gli occhi chiusi, le spalle basse e il vezzo di un ciuffo ribelle, unica nota animata ad arte – nessuno aveva osato mettere in dubbio l’«esistenza in vita» di Lante delle Rovere. Era bastato che tenesse in mano una copia recente de «La Nazione». Un luogo comune: fa fede la data. Eppure, nella foto, il duca era già cadavere, ucciso per aver riconosciuto uno dei sequestratori. Ecco un messaggio propagandistico – è servito a ottenere il pagamento del riscatto dalla duchessa – ma chiaramente menzognero. Si è voluto far credere, e si è creduto, che quell’uomo fosse ancora vivo, benché l’immagine, in sé, confutasse tale supposizione: non aveva parvenza di credibilità. Moro, 20 aprile A livello iconografico la seconda polaroid di Moro mutua questo schema. Il falso comunicato n. 7, a cui la foto seguiva, lo annunciava cadavere nel Lago della Duchessa. Era l’indizio di una commutazione con Lante della 129 9/ Spicca il ruolo di Steve Pieczenik, specializzato in psichiatria ad Harvard e funzionario della sezione antiterrorismo del Dipartimento di Stato americano. Cfr. Pieczenik in Amara 2006. 10/ Sciascia 1978., p. 52. 130 Rovere, su cui non si è abbastanza riflettuto. A detta di Sciascia (1978, p. 84), la notizia della messa a morte, escogitata dalle Br o dal governo, giovava a entrambi come ballon d’essai, prova generale per scaricare riprovazione, orrore e pietà su un falso allarme; il che avrebbe devitalizzato la notizia vera, quando sarebbe esplosa. Solo più tardi si conoscerà l’autore dell’apocrifo, Antonio Chichiarelli, falsario di quadri, soprattutto di De Chirico, e in rapporto con la banda della Magliana e i servizi segreti. Caso esemplare di agente doppio. Il piano del falso fu concepito dalle forze dell’«antiguerriglia psicologica», un gruppo di consulenti istituito da Cossiga per la gestione della crisi. Oltre a sorvegliare gli organi di stampa, si decise, in quel frangente, di costringere le Br a fornire un documento fotografico dell’«esistenza in vita» di Moro, dopo la condanna a morte del 15 aprile9. Ma sia queste rivelazioni, sia il plausibile movente degli effetti, suggerito da Sciascia, prescindono dall’analisi delle modalità simboliche con cui è descritta la fine di Moro: mediante suicidio e nel Lago della Duchessa, al confine tra Lazio e Abruzzo. Che significa? La polaroid del 20 aprile ha il suo alter ego nella foto del duca. Ne cita la tecnica di referenzializzazione temporale da un lato marcando il proprio dir-vero, dall’altro appropriandosi e pilotando gli stessi mezzi stampa controllati dal governo: si vede lo statista che regge una copia de «la Repubblica» del 19 aprile e ne mostra il titolo Moro assassinato?. La vertigine dell’inserzione nella prima pagina dell’omonimo quotidiano, dove la foto appare sotto la testata Ore contate per Moro, suscita in Belpoliti (p. 20) l’idea di un evento irreale, il che non fu. Qui, infatti, il programma di presagio funesto delle Br, intuibile nella citazione dell’immagine del duca, si scontra con un Moro che si enuncia vivo: niente più «secoli di scirocco» nello sguardo10, che è invece affisso, punta l’obiettivo, con una leggera dissimmetria dell’occhio sinistro, il ciglio sollevato e le labbra tese in un mezzo sorriso. Instabilità del volto difficilmente esprimibili da esanimi. «Comprendere il modo in cui il nostro corpo proprio è ad un tempo un corpo qualunque, oggettivamente situato tra i corpi, e un aspetto del sé, la sua maniera di essere al mondo, è un problema immenso» (Ricœur 1990, p. 110). Si sa che, dopo quel flash, Moro scrisse almeno quarantasette lettere, la metà del suo epistolario. Attivò tutti i canali possibili, diplomatico, familiare, ecclesiastico. I giorni successivi furono «i più esaltanti e dinamici sul piano compositivo: un’esplosione grafologica» (Gotor 2008, p. 382), per tentare, nella contropartita con l’altro – lettore, spettatore – di ravvicinare il sé ipse al sé idem. Moro, 19 marzo Uno spartiacque separa la polaroid del 20 aprile dalla precedente del 19 marzo che, priva in sé di deittici temporali, e quindi soggetta a opposte interpretazioni, diviene credibile per riverbero, a posteriori. La prima foto, insieme al comunicato n. 1, che annunciava il processo da parte del «tribunale del popolo», era uscita su «la Repubblica» con il titolo Moro è vivo, ecco la foto. L’avevano fatta trovare a Roma a un giornalista de «Il Messaggero», in una busta abbandonata su una cabina fototessere11. Nella polaroid stessa Moro appare sotto un drappo con la stella a cinque punte, tanto che non ha torto Vincino a commentare, nella vignetta apparsa su «Il Male»: «Scusate, abitualmente vesto Marzotto»12. Il logo delle Br assorbe l’identità dell’uomo politico. Forse il programma delle Br non consiste nello «sbandierare un “simbolo”», ma la loro pratica di filtraggio e ironizzazione di cliché, etichette e stereotipi della cultura occidentale è innegabile. Prendiamo sul serio, allora, la contro-simbologia della falsa esecuzione, utilizzata dal trust del governo e a cui il Moro della seconda polaroid reagisce: il suicidio e il Lago della Duchessa. 11/ La cabina photomatic o Photomaton è, per eccellenza, la macchina di certificazione dell’identità individuale: psichiatrica ed etnologica, prima, poi criminale e poliziesca. Cfr. Migliore 2010. Dal comunicato n. 1: «Sia chiaro quindi che con la cattura di ALDO MORO, ed il processo al quale verrà sottoposto da un Tribunale del Popolo, non intendiamo “chiudere la partita” né tantomeno sbandierare un “simbolo”, ma sviluppare una parola d’ordine su cui tutto il Movimento di Resistenza Offensivo si sta già misurando, renderlo più forte, più maturo, più incisivo e organizzato». 12/ Cfr. Belpoliti 2008., p. 6. Le due fasi del sequestro Tratto distintivo del sequestro di Moro è che qui non si condanna l’ostaggio al silenzio. Da quella cella, anzi, doveva filtrare una parola rivelatrice, in seguito a un processo, che era il mezzo di potere intimidatorio contro la classe dirigente, cercato dalle Br per essere riconosciute come «soggetto storico» (Saudan 1983). Per il riscatto non c’era cifra – e nessuna trattativa economica, benché prevista, ebbe buon esito – non perché lo scambio fosse impossibile in assoluto, ma perché l’oggetto dello scambio coincideva con il soggetto produttore, suscettibile, da ospite nolente in territorio nemico, di diventare spia. Il comunicato n. 6, rinvenuto in un cestino dei rifiuti in via 131 13/ Per gli stessi motivi né Usa né Urss erano favorevoli alla partecipazione del Pci al governo: per gli Stati Uniti significava consentire l’accesso a piani militari e postazioni strategiche della Nato a chi aveva contatti con il Partito comunista sovietico; per la Russia rappresentava un’emancipazione dai Soviet e un avvicinamento alla politica americana. 14/ «E non fa certo identità di vedute la circostanza che io abbia sostenuto fin dall’inizio (e, come ho dimostrato, molti anni fa) che ritenevo accettabile, come avviene in guerra, una scambio di prigionieri politici». Lettera di Aldo Moro alla Democrazia cristiana, 27 aprile 1978, in Gotor 2008, p. 141. 15/ Sulla scomparsa degli scritti Gotor, autore di questa ipotesi, appoggia la versione del senatore Giovanni Pellegrino, presidente della Commissione d’inchiesta sul terrorismo in Italia dal 1996 al 2001. Pellegrino suppone il tradimento in extremis di un mandatario infedele, incaricato di recuperare le carte di Moro nell’ambito di una trattativa da concludersi con la liberazione del prigioniero. L’intermediario, «doppiamente leale», al suo Paese e a una dimensione sovranazionale legata alla Guerra fredda, avrebbe ubbidito, infine, al livello di realtà dei due blocchi. Se sovietico o americano è ancora da sapere. Cfr. Gotor 2008, p. 255; pp. 272-273. 132 dell’Annunciata a Milano, dichiarava la fine del processo. Del cosiddetto Memoriale di Moro, stando alle promesse iniziali dei brigatisti, ci si sarebbe aspettati un utilizzo su vasta scala. Invece gli originali delle carte uscirono di scena. Il sospetto che circolassero documenti riservati attirò gli apparati di intelligence di tutto il mondo, pronti a intercettarli a prescindere dai contenuti: per difendere il fronte atlantico potenzialmente minacciato da quelle dichiarazioni o per rafforzare il blocco sovietico a cui le Br potevano trasferirle13. Al loro posto subentrò, con il vero comunicato n. 7, la richiesta di liberazione di «prigionieri comunisti», in cambio di Moro. Soluzione introdotta da lui stesso14, ma questa sì impossibile. Infatti la strategia dei brigatisti non contemplava il negoziato segreto con la Dc; secondava invece, su questo asse, la pubblicazione delle lettere, per aumentare il livello di visibilità dello scontro. Dunque la sostituzione sarebbe stata apertamente ricattatoria e lesiva della libertà e dell’onore del governo, che non avrebbe mai accettato. Nondimeno, al termine dell’interrogatorio, le Br impugnarono il piano dello scambio. Uccidere subito Moro significava farne un martire, mentre rilasciarlo dovette sembrargli non tanto pericoloso, quanto pregiudizievole: in fondo il rifiuto del governo avrebbe mostrato l’ineguaglianza dello scambio e svelato che Moro aveva perduto il suo prezzo. «La fase più perversa del lavoro dei carcerieri: usare Moro contro se stesso, contro il suo partito, contro la linea portata fin là» (Calvino 1978, p. 2339). È chiaro, allora, che si sono avuti due sequestri in uno, con diverse poste e finalità: in un primo tempo, spionistico, valgono le rivelazioni di un soggetto politico; nel secondo, con gli scritti fuori dal gioco, la detenzione equivale a un sequestro di persona15. Si lanciò un nuovo ultimatum, che usufruì della forza contrattuale del primo. La polaroid del 20 aprile, dopo il falso comunicato n. 7, suffraga questa ipotesi. In concomitanza con questa data comunichiamo l’avvenuta esecuzione del presidente della DC Aldo Moro, mediante «suicidio». Consentiamo il recupero della salma, fornendo l’esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del Lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa località Cartore (RI), zona confinante tra Abruzzo e Lazio (comunicato n. 7 – falso). Gli esperti convocati da Cossiga garantirono l’autenticità del messaggio, che però offriva differenze notevoli dai precedenti – è breve, satirico, con errori di ortografia e l’intestazione «Brigate rosse» scritta a mano e non a macchina. La materialità documentaria sconfessa anche qui l’uso fuorviante che si può fare di una foto, come di un testo verbale. In seguito i brigatisti avrebbero denunciato il falso, additandone il mandante: la statura morale dei democristiani è nota a tutti, rilevarla può solo renderceli più odiosi, e rafforzare il proposito dei rivoluzionari di distruggere il loro putrido potere. Di tutto dovranno rendere conto e mentre denunciamo, come falso e provocatorio il comunicato del 18 aprile attribuito alla nostra Organizzazione, ne indichiamo gli autori: Andreotti e i suoi complici (comunicato n. 7 – vero). Al di là dell’allusione al lago e al suo pantano – la qualifica di «putrido» per il potere della Dc – è importante stabilire il nesso simbolico tra i due comunicati, rivolti l’uno all’attenzione dell’altro e più concordi di quanto non si pensi16. Moro ha consegnato le carte ed abdicato al proprio ruolo di leader politico, in questo suicidandosi. Come Lante delle Rovere, ha pagato il prezzo del riscatto eppure è morto. Resta l’uomo. È un valore? Il corpo del reato 16/ Fabbri (1990: 19) sostiene che la vittoria dello Stato italiano sulle Br è stata ottenuta, da un lato, con il tradimento nei confronti di Moro, dall’altro con il perdono generalizzato, che è anche un riconoscimento dell’azione, mentre l’amnistia ne avrebbe comportato l’oblio. Fin dall’inizio Br e Dc convennero nel tenere scissi fare ed essere di Moro, il sé ipse sotto tiro dal sé idem, disgregando il «me di referenza». Per i brigatisti «il problema al quale la Dc deve rispondere è politico e non di umanità; umanità che non possiede e che non può costituire la facciata dietro la quale nascondersi, e che, reclamata dai suoi boss, suona come un insulto» (comunicato n. 1). Il governo prese quelle intimazioni alla lettera: utilizzò l’umanità, attraverso le pose dimesse delle polaroid, come argomento di un’identità perduta, l’«aura» del personaggio politico superiore all’individuo e coincidente con l’immagine ufficiale dell’onorevole. E, all’indomani della prima foto, celebrò il Moro morto, da monumentare: Montanelli intonò un requiem; l’onorevole comunista Antonello Trombadori, nei corridoi 133 della Camera dei deputati, esclamò: «Moro è morto!»; un comitato del partito firmò un testo di misconoscimento dal titolo Il Moro che parla dalla «prigione del popolo» non è il Moro che abbiamo conosciuto17. Alla notizia del processo brigatista, un atteggiamento di diffidenza saldò la linea della fermezza e crebbe, tramutandosi in ostilità. «Costoro sembrano più preoccupati della “memoria” di Moro che non della sua vita» (Martelli 1978). Era difficile credere all’«enigmatica correlazione» per cui il fautore dell’incomprensibile linguaggio, sintomo della volontà di amministrare il potere senza capire che il potere «era altro», fosse il meno implicato di tutti nelle cose orribili organizzate per conservarlo (Pasolini 1975). Perciò il governo identificò la sua persona con il ruolo politico fino a quel momento occupato. E vide «altro» nelle parole e nelle immagini del Moro prigioniero; le congelò come corpo del reato per l’autorità giudiziaria. Su disegno dell’antiguerriglia psicologica, si dissociò Moro dalle sue lettere, con perizie che le giudicavano ora prive di raziocinio, ora estorte con la violenza; lo si assimilò all’aggressore, insinuandone la complicità; se ne sminuì la conoscenza di segreti sensibili, in ambito politico e militare18. L’appello del papa, di liberarlo «semplicemente, senza condizioni», suggellò una strategia di vanificazione dell’ostaggio, che sortì l’effetto, tragico, di neutralizzare integralmente il valore di Moro. Aprire la porta 17/ Sciascia 1978, pp. 73-74. 18/ Cfr. Gotor 2008, pp. 207-211. 19/ «La lingua offre lo strumento di un discorso in cui la personalità del soggetto si offre e si crea, raggiunge l’altro e da lui si fa riconoscere. La lingua è una struttura socializzata, che la parola piega a fini individuali e intersoggettivi, immettendovi un intento nuovo e strettamente personale». Benveniste 1956, trad. it. p. 89. 20/ Lettera di Aldo Moro alla moglie Eleonora, 5 maggio 1978, in Gotor 2008, p. 178. 134 Egli arguì la riduzione delle possibilità, «da personaggio a uomo solo, da uomo solo a creatura» (Sciascia, p. 73). Nelle lettere e nella polaroid del 20 aprile, con uno sguardo che «balugina sullo sfondo, indocile a qualunque rimozione, sfuggente a qualsiasi cancellazione» (Gotor, p. 314), cercò il canale per edificare se stesso, come cardine e bussola di una battaglia insistita contro la sopraffazione19. Non negò la parte di sé «creatura»: «Che di tutto resti qualcosa […]. Vorrei capire, con i miei piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe bellissimo […]. Credo di tornare a voi in un’altra forma»20. Però tenacemente ribatteva, a chi minacciava la sua incolumità: «non ho subìto nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro, e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure si risponde»21. Per respingere la condizione reificata dell’ostaggio, lui stesso comparò i «beni» in causa: la libertà, che il governo poteva recuperare, pur a caro prezzo, e la vita, in nessun modo recuperabile. Scegliere la prima significava reintrodurre la pena di morte22. Moro fece politica fino all’ultimo, trovando temi idonei a dimostrare che ciò non voleva dire trascendere l’essere umano. Adombrò questo concetto nell’accezione del termine «famiglia»: dal proprio nucleo, alla famiglia del partito, agli italiani che il partito rappresenta e non: «è noto che i gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale della mia lotta contro la morte»23. Un sistema a inglobamento centrifugo, idealistico, che Moro continuò a sostenere, anche da «uomo solo»; ecco perché la struttura cellaostaggio, che ne è l’esatta antifrasi, si apre in 3,24 mq. «Tutto è inutile, quando non si vuole aprire la porta»24. L’enacting dei ruoli, integrati l’uno nell’altro – «personaggio», «uomo solo», «creatura» – svela uno spessore intellettuale e morale incompatibile tanto con la politica al potere, quanto con le Br. Non meno ciechi dei governanti nei distinguo delle funzioni, i brigatisti poterono soltanto ammettere: «per quanto sia forte il ruolo del personaggio, la persona è più ricca»25. Moro non fu inerme nemmeno nel portabagagli di un’auto, da cadavere crivellato di colpi, testimone della «famiglia» dei brigatisti26. Qualcuno, in segreto, conserva le carte. A noi, ancora oggi, servono le lettere. La cassa di 3,24 mq promette una circolazione preziosa. 21/ Lettera di Aldo Moro alla Democrazia cristiana, 27 aprile 1978. Ibidem, p. 140. 22/ Lettera di Aldo Moro al segretario della Dc Benigno Zaccagnini, 22-23 aprile 1978, in Gotor 2008, pp. 99-100. 23/ Gotor 2008, p. 143. Cfr. Sciascia 1978, p. 54. 24/ Lettera di Aldo Moro alla moglie Eleonora, 5 maggio 1978, in Gotor 2008, p. 178. 25/ Mario Moretti, in Zavoli 1992, p. 330. 26/ De Luna 2004, p. 145, nota 6. 135 Riferimenti bibliografici Amara Emmanuel, Nous avons tué Aldo Moro, Patrick Robin Éditions, Paris 2006. Baudrillard Jean, Otage et terreur: l’échange impossible, «Traverses», 25, 1982, juin, pp. 2-13. – Les stratégies fatales, Grasset, Paris 1983 (trad. it. Le strategie fatali, Feltrinelli, Milano 1984). – L’autre par lui-même, Galilée, Paris 1987 (trad. it. L’altro visto da sé, Costa & Nolan, Genova 1987). – L’esprit du terrorisme, Galilée, Paris 2002 (trad. it. Lo spirito del terrorismo, Cortina, Milano 2002). Belpoliti Marco, Settanta, Einaudi, Torino 2002. – La foto di Moro, Nottetempo, Roma 2008. 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