sono, si dice, un altro
Tiziana Migliore
Figura 1
1/ Deposizioni di Anna Laura Braghetti e
Mario Moretti. Cfr. Gotor 2008, p. 185. Via
Montalcini 8 è l’indirizzo presso il quale,
secondo le sentenze dei tribunali ai processi
dei brigatisti, Aldo Moro fu tenuto
prigioniero nei cinquantacinque giorni che
precedettero la sua esecuzione e ivi ucciso,
in un garage sotterraneo. L’intercapedine
sarebbe stata ricavata alzando un tramezzo
con un pannello di gesso fra uno studio e
un salone e occultandolo alla vista con una
libreria a muro.
126
3,24 mq (2004) è la ricostruzione 1:1, a firma di
Francesco Arena, della presunta cella di Aldo Moro.
Esposta per la prima volta a Roma, Fondazione Nomas,
interpreta il capitolo più drammatico dell’Italia
postbellica in absentia disgiunta, per elusione dell’istanza
enunciante. Dopo quasi trent’anni, non v’è traccia del
detenuto né delle immagini, visive e verbali, diffuse al
punto da confonderne la memoria. Dov’è Moro
nell’installazione di Arena? Che rapporto si tesse con
le due Polaroid?
Un’unità di misura fornisce il dato di partenza,
notazionale, con cui Arena artifica la prigione di via
Montalcini 8: «Un cubicolo lungo tre metri e largo
meno di uno, quanto una comune porta di appartamento, stipiti
compresi»1. L’architettura d’arrivo differisce dall’oggetto descritto non
nella totalità, che può benissimo essere definita «cella di Moro», ma
nelle parti che la compongono, eteroclite. L’ambiente di reclusione è
contenuto, a sua volta, in un parallelepipedo di legno, solitamente usato
come cassone da imballaggio e trasporto di
valori. Vecchi fini sostengono la funzione
di mezzi, significati si trasformano in
2/ Alla stregua di un bricoleur, l’artista
utilizza elementi pre-vincolati e tenta di
significanti2. Arena, nel rifigurare
comprendere come ciascuno di essi può
l’insieme, apre la cassa.
contribuire alla definizione di un insieme.
Ciò implica una conoscenza approfondita
dell’oggetto e un’introspezione accentuata.
Laddove la conoscenza scientifica
costruisce eventi per mezzo di strutture,
l’arte costruisce strutture per mezzo di
eventi. Lévi-Strauss 1962, trad. it. pp. 29-30.
Container. Status dell’ostaggio
L’ingresso (fig. 1) è dissimulato tra le assi
di rivestimento. Conduce a un primo
3/ Gotor 2008., p. 185.
4/ Ci si è interrogati sul perché non sia stata
eseguita una perizia giudiziaria per valutare
la compatibilità dei risultati dell’autopsia
con la descrizione dell’ambiente del
sequestrato. Il tono muscolare generale
lascerebbe supporre una certa libertà di
movimento e la possibilità di scrivere in
condizioni relativamente agevoli (sedia e
tavolo), ben lontane da quelle concesse a
Moro nell’angusto covo di via Montalcini.
Su questo aspetto si è soffermato Alfredo
Carlo Moro, in Gotor 2008, p. 188.
5/ «I “due amici”, caduti nelle mani del
nemico, sono manipolati come cose e non
come esseri umani […]. L’appropriazione
somatica ha l’effetto di privare l’attante
soggetto del suo fare, dal momento che la
“cosa” può essere definita in negativo come
sprovvista di questa qualità: il soggetto
diviene oggetto passando dallo stato di
agente allo stato di paziente, senza perdere
per questo le sue altre proprietà
strutturali». Greimas 1976, trad. it. p. 151.
Figura 2
vano, di 70 x 120 cm., che funge da anticamera al secondo, di 200 x
120 cm, accessibile attraverso una porta dotata di serratura e
spioncino (fig. 2). Le pareti sono di compensato, il pavimento è di
linoleum grigio. Anche l’arredo corrisponde alle testimonianze
rilasciate dai brigatisti3. Nel locale più grande, chiuso sugli altri lati,
stanno, a sinistra, una branda con materasso, coperta, lenzuola,
cuscino e federa; accanto, in alto, una mensola su cui poggiano dei
fogli A4, una penna, un asciugamano, una bottiglia di acqua minerale
e un rotolo di carta igienica; sotto, un water fisiologico, una bacinella
di plastica, una ventola elettrica (fig. 3). La stanza è intonsa, ma in
entrambi i vani c’è una lampadina accesa.
Che la replica sia fedele o no alla vera cella in cui Moro trascorse la
prigionia4, ci interessa ragionare sul montaggio sotteso all’opera, con
funzionamento a matrioska: l’ibrido tra una struttura mobile, da
trasferimento di merci, e un abitacolo. In una cassa simile il corpo di
Moro, rannicchiato, giunse a quell’indirizzo. Si rovescia il rapporto tra
circoscrivente e circoscritto: l’involucro della cassa, caricato di senso,
contiene la cella, che contiene il detenuto, «presente nel modo della
sparizione» (Baudrillard 1987). Manca la persona, restano
procedimenti vuoti.
Dentro questo schema, il dispositivo di sorveglianza di Moro, che è
stato letto con la lente di un’etica carceraria, opposta all’alienazione e
all’annientamento (Sciascia 1978, pp. 17-18) o viceversa come scena di
un martirio (Reichlin 1978), torna a riguardare
lo status dell’ostaggio in astratto. Con le
trasformazioni che comporta sul piano attanziale
– la riduzione del soggetto in oggetto – e modale
– il dover dipendere da altri, l’essere un io
presso di sé sempre disarcionato (Lévinas 1974,
p. 160). Cattura e cattività marcano
l’appropriazione di un attante che si arroga il
diritto di reificarne un altro. La congiunzione
fisica, e in tal senso la riduzione dell’altro allo
stato di «cosa», non ne implica però la perdita
delle attività cognitive e patemiche5.
3,24 mq bonifica l’affare Moro dall’ipertrofia di
127
Figura 3
6/ Altrove Arena attiva l’isotopia della
santificazione: in una variante delle sue
aureole, cerchio di metallo illuminato,
riempito delle lettere di Moro; e nella cassa
che raccoglie i facsimili dell’arredo della
cella di Padre Pio a San Giovanni Rotondo.
È l’emblematica Strumento (2005), in
risonanza con 3,24 mq, della quale recupera
il sistema a scatole cinesi. Pur nella diversità
di programmi – l’isolamento volontario vs
la detenzione forzata – la cella di Padre Pio
screzia la cella di Moro di un livello di
contenuto spirituale, a due chiavi di lettura:
1) il sacrificio estremo per lo Stato; 2) una
politica fatta di riti e parole solenni: «parlo
innanzitutto del Partito comunista, il quale
non può dimenticare che il mio
prelevamento è avvenuto mentre si andava
alla Camera per la consacrazione del
Governo che m’ero tanto adoperato a
costruire». Lettera di Aldo Moro al
segretario della Dc Benigno Zaccagnini, 31
marzo 1978, in Gotor 2008, p. 13.
7/ Sull’immaginario sorto intorno a Moro
cfr. Pezzini 2008, § 1.3; § 2.2. Il reworking che
ne dà il film di Marco Bellocchio Buongiorno
notte è approfondito in Pezzini 2012. Vedi
anche Braghetti e Tavella 2003.
128
narrazioni che lo hanno connotato6, scaturigine di
una «dissuasione fantastica. Il segno ha perso il
proprio significato diretto per diventare un ambiente
in cui la verità è sospesa» (Fabbri 1990, p. 10).
Contro la regola che impone sovrainterpretazioni su
un’istanza, erroneamente ritenuta non in grado di
intendere e volere, l’opera di Arena sceglie
l’omissione: nessun riferimento esplicito ad Aldo
Moro, ma un «potenziale di immagine» anonimo,
asettico, che consente di proiettare, da un tempo zero
verso il futuro, il percorso di «disumanizzazione»
riservato a questo soggetto.
Il tipo di struttura impedisce di immedesimarsi. Non si
improvvisa la condizione dell’ostaggio. La rende bene
la trasferenza in uno spazio artistico, dove dentro casse stanno valori in
deposito presso terzi, finché non si decide a chi appartengano. Aprendo
e illuminando il container, però, l’artista anticipa, sempre per ellissi, il
doppio regime endoscopico ed esoscopico che caratterizza la vicenda. Si
pensi al film di Marco Bellocchio, Buongiorno notte (2003), in cui la
percezione reciproca è centrale. C’è il personaggio della terrorista che
osserva Moro nella sua intimità, dallo spioncino della porta; c’è la
caricatura mediatica del Moro oggetto dell’opinione pubblica; e
l’orientamento contrario, restaurato dal film, ma a lungo negato: il
Moro osservatore, che pone domande e chiede risposte7. Figure bifocali
della manipolazione.
Se Arena avesse lasciato chiuso il container, limitandosi a offrire fessure
di intravisione, l’analogia con i meccanismi di significato delle polaroid
non sarebbe stata tanto stringente. La doppia prospettiva, dall’esterno
all’interno e dall’interno verso l’esterno, insieme all’espediente della
mise en abîme, cioè del discorso a incassamento, rende 3,24 mq una forma
delle foto in cavo.
Le foto di Moro. Mise en abîme e doppio regime dello sguardo
È corretto considerare le polaroid scattate dai brigatisti e pubblicate su «la
Repubblica», il 19 marzo e il 20 aprile, come operazioni di messa in
scena. Belpoliti (2008, pp. 9-10) parla giustamente di tableaux, elaborati a
uso propagandistico. Non ne consegue, però, che, generaliter, essi siano
«fatti per mentire» o che costituiscano «un sistema globale di
informazione fuorviante», tanto che «non riusciamo più a distinguere la
costruzione dell’immagine realizzata nella pubblicità dal resto delle
“immagini vere” del giornale, quelle che riproducono la cosiddetta
“realtà”». Curare l’assetto sintattico è proprio di qualsiasi discorso
pubblico attento all’efficacia. La veridicità è una delle funzioni perseguibili
e l’organizzazione interna, piuttosto, smentisce usi aberranti. Snidarli
dipende dalle competenze di lettura testuale e dalla possibilità di
comparare la singola organizzazione con altre dello stesso genere.
Figura 4
8/ Pezzini 2008, pp. 379-380.
Veridicità della fotografia. Il duca Lante della Rovere
L’impiego delle polaroid di Moro, raffrontato con la
contemporanea foto di Massimiliano Grazioli Lante Della Rovere,
ostaggio della banda della Magliana (fig. 4), rivela un’altissima
tensione veridica. Il 7 aprile il «Corriere della Sera» diffondeva
«l’ultima foto del duca pervenuta dai rapitori». Subito sotto, si
trovava un lugubre articolo non firmato dal titolo Cerimonia dei
partigiani cristiani sul luogo dell’eccidio in via Fani 8. A dispetto dell’evidenza
– il capo chino, gli occhi chiusi, le spalle basse e il vezzo di un
ciuffo ribelle, unica nota animata ad arte – nessuno aveva osato
mettere in dubbio l’«esistenza in vita» di Lante delle Rovere. Era
bastato che tenesse in mano una copia recente de «La Nazione».
Un luogo comune: fa fede la data. Eppure, nella foto, il duca era
già cadavere, ucciso per aver riconosciuto uno dei sequestratori.
Ecco un messaggio propagandistico – è servito a ottenere il
pagamento del riscatto dalla duchessa – ma chiaramente
menzognero. Si è voluto far credere, e si è creduto, che quell’uomo
fosse ancora vivo, benché l’immagine, in sé, confutasse tale
supposizione: non aveva parvenza di credibilità.
Moro, 20 aprile
A livello iconografico la seconda polaroid di Moro mutua questo schema.
Il falso comunicato n. 7, a cui la foto seguiva, lo annunciava cadavere nel
Lago della Duchessa. Era l’indizio di una commutazione con Lante della
129
9/ Spicca il ruolo di Steve Pieczenik,
specializzato in psichiatria ad Harvard e
funzionario della sezione antiterrorismo del
Dipartimento di Stato americano. Cfr.
Pieczenik in Amara 2006.
10/ Sciascia 1978., p. 52.
130
Rovere, su cui non si è abbastanza riflettuto. A detta di Sciascia (1978, p.
84), la notizia della messa a morte, escogitata dalle Br o dal governo,
giovava a entrambi come ballon d’essai, prova generale per scaricare
riprovazione, orrore e pietà su un falso allarme; il che avrebbe
devitalizzato la notizia vera, quando sarebbe esplosa. Solo più tardi si
conoscerà l’autore dell’apocrifo, Antonio Chichiarelli, falsario di quadri,
soprattutto di De Chirico, e in rapporto con la banda della Magliana e i
servizi segreti. Caso esemplare di agente doppio. Il piano del falso fu
concepito dalle forze dell’«antiguerriglia psicologica», un gruppo di
consulenti istituito da Cossiga per la gestione della crisi. Oltre a
sorvegliare gli organi di stampa, si decise, in quel frangente, di
costringere le Br a fornire un documento fotografico dell’«esistenza in
vita» di Moro, dopo la condanna a morte del 15 aprile9. Ma sia queste
rivelazioni, sia il plausibile movente degli effetti, suggerito da Sciascia,
prescindono dall’analisi delle modalità simboliche con cui è descritta la
fine di Moro: mediante suicidio e nel Lago della Duchessa, al confine tra
Lazio e Abruzzo. Che significa?
La polaroid del 20 aprile ha il suo alter ego nella foto del duca. Ne cita la
tecnica di referenzializzazione temporale da un lato marcando il proprio
dir-vero, dall’altro appropriandosi e pilotando gli stessi mezzi stampa
controllati dal governo: si vede lo statista che regge una copia de «la
Repubblica» del 19 aprile e ne mostra il titolo Moro assassinato?. La
vertigine dell’inserzione nella prima pagina dell’omonimo quotidiano,
dove la foto appare sotto la testata Ore contate per Moro, suscita in Belpoliti
(p. 20) l’idea di un evento irreale, il che non fu. Qui, infatti, il
programma di presagio funesto delle Br, intuibile nella citazione
dell’immagine del duca, si scontra con un Moro che si enuncia vivo:
niente più «secoli di scirocco» nello sguardo10, che è invece affisso,
punta l’obiettivo, con una leggera dissimmetria dell’occhio sinistro, il
ciglio sollevato e le labbra tese in un mezzo sorriso. Instabilità del volto
difficilmente esprimibili da esanimi. «Comprendere il modo in cui il
nostro corpo proprio è ad un tempo un corpo qualunque,
oggettivamente situato tra i corpi, e un aspetto del sé, la sua maniera di
essere al mondo, è un problema immenso» (Ricœur 1990, p. 110). Si sa
che, dopo quel flash, Moro scrisse almeno quarantasette lettere, la metà
del suo epistolario. Attivò tutti i canali possibili, diplomatico, familiare,
ecclesiastico. I giorni successivi furono «i più esaltanti e dinamici sul
piano compositivo: un’esplosione grafologica» (Gotor 2008, p. 382),
per tentare, nella contropartita con l’altro – lettore, spettatore – di
ravvicinare il sé ipse al sé idem.
Moro, 19 marzo
Uno spartiacque separa la polaroid del 20 aprile dalla precedente del
19 marzo che, priva in sé di deittici temporali, e quindi soggetta a
opposte interpretazioni, diviene credibile per riverbero, a posteriori.
La prima foto, insieme al comunicato n. 1, che annunciava il processo
da parte del «tribunale del popolo», era uscita su «la Repubblica»
con il titolo Moro è vivo, ecco la foto. L’avevano fatta trovare a Roma a un
giornalista de «Il Messaggero», in una busta abbandonata su una
cabina fototessere11. Nella polaroid stessa Moro appare sotto un drappo
con la stella a cinque punte, tanto che non ha torto Vincino a
commentare, nella vignetta apparsa su «Il Male»: «Scusate,
abitualmente vesto Marzotto»12. Il logo delle Br assorbe l’identità
dell’uomo politico. Forse il programma delle Br non consiste nello
«sbandierare un “simbolo”», ma la loro pratica di filtraggio e
ironizzazione di cliché, etichette e stereotipi della cultura occidentale è
innegabile. Prendiamo sul serio, allora, la contro-simbologia della falsa
esecuzione, utilizzata dal trust del governo e a cui il Moro della seconda
polaroid reagisce: il suicidio e il Lago della Duchessa.
11/ La cabina photomatic o Photomaton è,
per eccellenza, la macchina di certificazione
dell’identità individuale: psichiatrica ed
etnologica, prima, poi criminale e
poliziesca. Cfr. Migliore 2010. Dal
comunicato n. 1: «Sia chiaro quindi che con
la cattura di ALDO MORO, ed il processo al
quale verrà sottoposto da un Tribunale del
Popolo, non intendiamo “chiudere la
partita” né tantomeno sbandierare un
“simbolo”, ma sviluppare una parola
d’ordine su cui tutto il Movimento di
Resistenza Offensivo si sta già misurando,
renderlo più forte, più maturo, più incisivo
e organizzato».
12/ Cfr. Belpoliti 2008., p. 6.
Le due fasi del sequestro
Tratto distintivo del sequestro di Moro è che qui non si condanna
l’ostaggio al silenzio. Da quella cella, anzi, doveva filtrare una parola
rivelatrice, in seguito a un processo, che era il mezzo di potere
intimidatorio contro la classe dirigente, cercato dalle Br per essere
riconosciute come «soggetto storico» (Saudan 1983). Per il riscatto non
c’era cifra – e nessuna trattativa economica, benché prevista, ebbe buon
esito – non perché lo scambio fosse impossibile in assoluto, ma perché
l’oggetto dello scambio coincideva con il soggetto produttore,
suscettibile, da ospite nolente in territorio nemico, di diventare spia.
Il comunicato n. 6, rinvenuto in un cestino dei rifiuti in via
131
13/ Per gli stessi motivi né Usa né Urss
erano favorevoli alla partecipazione del Pci
al governo: per gli Stati Uniti significava
consentire l’accesso a piani militari e
postazioni strategiche della Nato a chi
aveva contatti con il Partito comunista
sovietico; per la Russia rappresentava
un’emancipazione dai Soviet e un
avvicinamento alla politica americana.
14/ «E non fa certo identità di vedute la
circostanza che io abbia sostenuto fin
dall’inizio (e, come ho dimostrato, molti
anni fa) che ritenevo accettabile, come
avviene in guerra, una scambio di
prigionieri politici». Lettera di Aldo Moro
alla Democrazia cristiana, 27 aprile 1978, in
Gotor 2008, p. 141.
15/ Sulla scomparsa degli scritti Gotor,
autore di questa ipotesi, appoggia la
versione del senatore Giovanni Pellegrino,
presidente della Commissione d’inchiesta
sul terrorismo in Italia dal 1996 al 2001.
Pellegrino suppone il tradimento in
extremis di un mandatario infedele,
incaricato di recuperare le carte di Moro
nell’ambito di una trattativa da concludersi
con la liberazione del prigioniero.
L’intermediario, «doppiamente leale», al suo
Paese e a una dimensione sovranazionale
legata alla Guerra fredda, avrebbe ubbidito,
infine, al livello di realtà dei due blocchi. Se
sovietico o americano è ancora da sapere.
Cfr. Gotor 2008, p. 255; pp. 272-273.
132
dell’Annunciata a Milano, dichiarava la fine del processo. Del cosiddetto
Memoriale di Moro, stando alle promesse iniziali dei brigatisti, ci si
sarebbe aspettati un utilizzo su vasta scala. Invece gli originali delle carte
uscirono di scena. Il sospetto che circolassero documenti riservati attirò
gli apparati di intelligence di tutto il mondo, pronti a intercettarli a
prescindere dai contenuti: per difendere il fronte atlantico
potenzialmente minacciato da quelle dichiarazioni o per rafforzare il
blocco sovietico a cui le Br potevano trasferirle13. Al loro posto subentrò,
con il vero comunicato n. 7, la richiesta di liberazione di «prigionieri
comunisti», in cambio di Moro. Soluzione introdotta da lui stesso14, ma
questa sì impossibile. Infatti la strategia dei brigatisti non contemplava il
negoziato segreto con la Dc; secondava invece, su questo asse, la
pubblicazione delle lettere, per aumentare il livello di visibilità dello
scontro. Dunque la sostituzione sarebbe stata apertamente ricattatoria e
lesiva della libertà e dell’onore del governo, che non avrebbe mai
accettato. Nondimeno, al termine dell’interrogatorio, le Br
impugnarono il piano dello scambio. Uccidere subito Moro significava
farne un martire, mentre rilasciarlo dovette sembrargli non tanto
pericoloso, quanto pregiudizievole: in fondo il rifiuto del governo
avrebbe mostrato l’ineguaglianza dello scambio e svelato che Moro aveva
perduto il suo prezzo. «La fase più perversa del lavoro dei carcerieri:
usare Moro contro se stesso, contro il suo partito, contro la linea
portata fin là» (Calvino 1978, p. 2339).
È chiaro, allora, che si sono avuti due sequestri in uno, con diverse
poste e finalità: in un primo tempo, spionistico, valgono le rivelazioni
di un soggetto politico; nel secondo, con gli scritti fuori dal gioco, la
detenzione equivale a un sequestro di persona15. Si lanciò un nuovo
ultimatum, che usufruì della forza contrattuale del primo. La polaroid
del 20 aprile, dopo il falso comunicato n. 7, suffraga questa ipotesi.
In concomitanza con questa data comunichiamo l’avvenuta esecuzione del presidente
della DC Aldo Moro, mediante «suicidio». Consentiamo il recupero della salma,
fornendo l’esatto luogo ove egli giace. La salma di Aldo Moro è immersa nei fondali
limacciosi (ecco perché si dichiarava impantanato) del Lago Duchessa, alt. mt. 1800 circa
località Cartore (RI), zona confinante tra Abruzzo e Lazio (comunicato n. 7 – falso).
Gli esperti convocati da Cossiga garantirono l’autenticità del
messaggio, che però offriva differenze notevoli dai precedenti – è
breve, satirico, con errori di ortografia e l’intestazione «Brigate rosse»
scritta a mano e non a macchina. La materialità documentaria sconfessa
anche qui l’uso fuorviante che si può fare di una foto, come di un testo
verbale. In seguito i brigatisti avrebbero denunciato il falso,
additandone il mandante:
la statura morale dei democristiani è nota a tutti, rilevarla può solo renderceli più
odiosi, e rafforzare il proposito dei rivoluzionari di distruggere il loro putrido potere.
Di tutto dovranno rendere conto e mentre denunciamo, come falso e provocatorio il
comunicato del 18 aprile attribuito alla nostra Organizzazione, ne indichiamo gli
autori: Andreotti e i suoi complici (comunicato n. 7 – vero).
Al di là dell’allusione al lago e al suo pantano – la qualifica di
«putrido» per il potere della Dc – è importante stabilire il nesso
simbolico tra i due comunicati, rivolti l’uno all’attenzione dell’altro e
più concordi di quanto non si pensi16. Moro ha consegnato le carte ed
abdicato al proprio ruolo di leader politico, in questo suicidandosi.
Come Lante delle Rovere, ha pagato il prezzo del riscatto eppure è
morto. Resta l’uomo. È un valore?
Il corpo del reato
16/ Fabbri (1990: 19) sostiene che la vittoria
dello Stato italiano sulle Br è stata ottenuta,
da un lato, con il tradimento nei confronti
di Moro, dall’altro con il perdono
generalizzato, che è anche un
riconoscimento dell’azione, mentre
l’amnistia ne avrebbe comportato l’oblio.
Fin dall’inizio Br e Dc convennero nel tenere scissi fare ed essere di
Moro, il sé ipse sotto tiro dal sé idem, disgregando il «me di referenza».
Per i brigatisti «il problema al quale la Dc deve rispondere è politico e
non di umanità; umanità che non possiede e che non può costituire la
facciata dietro la quale nascondersi, e che, reclamata dai suoi boss, suona
come un insulto» (comunicato n. 1). Il governo prese quelle
intimazioni alla lettera: utilizzò l’umanità, attraverso le pose dimesse
delle polaroid, come argomento di un’identità perduta, l’«aura» del
personaggio politico superiore all’individuo e coincidente con
l’immagine ufficiale dell’onorevole. E, all’indomani della prima foto,
celebrò il Moro morto, da monumentare: Montanelli intonò un
requiem; l’onorevole comunista Antonello Trombadori, nei corridoi
133
della Camera dei deputati, esclamò: «Moro è morto!»; un comitato del
partito firmò un testo di misconoscimento dal titolo Il Moro che parla dalla
«prigione del popolo» non è il Moro che abbiamo conosciuto17.
Alla notizia del processo brigatista, un atteggiamento di diffidenza saldò
la linea della fermezza e crebbe, tramutandosi in ostilità. «Costoro
sembrano più preoccupati della “memoria” di Moro che non della sua
vita» (Martelli 1978). Era difficile credere all’«enigmatica
correlazione» per cui il fautore dell’incomprensibile linguaggio,
sintomo della volontà di amministrare il potere senza capire che il
potere «era altro», fosse il meno implicato di tutti nelle cose orribili
organizzate per conservarlo (Pasolini 1975). Perciò il governo identificò
la sua persona con il ruolo politico fino a quel momento occupato. E
vide «altro» nelle parole e nelle immagini del Moro prigioniero; le
congelò come corpo del reato per l’autorità giudiziaria. Su disegno
dell’antiguerriglia psicologica, si dissociò Moro dalle sue lettere, con
perizie che le giudicavano ora prive di raziocinio, ora estorte con la
violenza; lo si assimilò all’aggressore, insinuandone la complicità; se ne
sminuì la conoscenza di segreti sensibili, in ambito politico e militare18.
L’appello del papa, di liberarlo «semplicemente, senza condizioni»,
suggellò una strategia di vanificazione dell’ostaggio, che sortì l’effetto,
tragico, di neutralizzare integralmente il valore di Moro.
Aprire la porta
17/ Sciascia 1978, pp. 73-74.
18/ Cfr. Gotor 2008, pp. 207-211.
19/ «La lingua offre lo strumento di un
discorso in cui la personalità del soggetto si
offre e si crea, raggiunge l’altro e da lui si fa
riconoscere. La lingua è una struttura
socializzata, che la parola piega a fini
individuali e intersoggettivi, immettendovi
un intento nuovo e strettamente
personale». Benveniste 1956, trad. it. p. 89.
20/ Lettera di Aldo Moro alla moglie
Eleonora, 5 maggio 1978, in Gotor 2008, p.
178.
134
Egli arguì la riduzione delle possibilità, «da personaggio a uomo solo,
da uomo solo a creatura» (Sciascia, p. 73). Nelle lettere e nella polaroid
del 20 aprile, con uno sguardo che «balugina sullo sfondo, indocile a
qualunque rimozione, sfuggente a qualsiasi cancellazione» (Gotor, p.
314), cercò il canale per edificare se stesso, come cardine e bussola di
una battaglia insistita contro la sopraffazione19. Non negò la parte di sé
«creatura»: «Che di tutto resti qualcosa […]. Vorrei capire, con i miei
piccoli occhi mortali come ci si vedrà dopo. Se ci fosse luce, sarebbe
bellissimo […]. Credo di tornare a voi in un’altra forma»20. Però
tenacemente ribatteva, a chi minacciava la sua incolumità: «non ho
subìto nessuna coercizione, non sono drogato, scrivo con il mio stile
per brutto che sia, ho la mia solita calligrafia. Ma sono, si dice, un altro,
e non merito di essere preso sul serio. Allora ai miei argomenti neppure
si risponde»21. Per respingere la condizione reificata dell’ostaggio, lui
stesso comparò i «beni» in causa: la libertà, che il governo poteva
recuperare, pur a caro prezzo, e la vita, in nessun modo recuperabile.
Scegliere la prima significava reintrodurre la pena di morte22. Moro fece
politica fino all’ultimo, trovando temi idonei a dimostrare che ciò non
voleva dire trascendere l’essere umano. Adombrò questo concetto
nell’accezione del termine «famiglia»: dal proprio nucleo, alla famiglia
del partito, agli italiani che il partito rappresenta e non: «è noto che i
gravissimi problemi della mia famiglia sono la ragione fondamentale
della mia lotta contro la morte»23.
Un sistema a inglobamento centrifugo, idealistico, che Moro continuò a
sostenere, anche da «uomo solo»; ecco perché la struttura cellaostaggio, che ne è l’esatta antifrasi, si apre in 3,24 mq. «Tutto è inutile,
quando non si vuole aprire la porta»24. L’enacting dei ruoli, integrati
l’uno nell’altro – «personaggio», «uomo solo», «creatura» – svela
uno spessore intellettuale e morale incompatibile tanto con la politica al
potere, quanto con le Br. Non meno ciechi dei governanti nei distinguo
delle funzioni, i brigatisti poterono soltanto ammettere: «per quanto
sia forte il ruolo del personaggio, la persona è più ricca»25. Moro non
fu inerme nemmeno nel portabagagli di un’auto, da cadavere crivellato
di colpi, testimone della «famiglia» dei brigatisti26. Qualcuno, in
segreto, conserva le carte. A noi, ancora oggi, servono le lettere. La cassa
di 3,24 mq promette una circolazione preziosa.
21/ Lettera di Aldo Moro alla Democrazia
cristiana, 27 aprile 1978. Ibidem, p. 140.
22/ Lettera di Aldo Moro al segretario della
Dc Benigno Zaccagnini, 22-23 aprile 1978,
in Gotor 2008, pp. 99-100.
23/ Gotor 2008, p. 143. Cfr. Sciascia 1978, p.
54.
24/ Lettera di Aldo Moro alla moglie
Eleonora, 5 maggio 1978, in Gotor 2008, p.
178.
25/ Mario Moretti, in Zavoli 1992, p. 330.
26/ De Luna 2004, p. 145, nota 6.
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