“Parlo, dunque sono”
Moira De Iaco
1. Il solipsismo
Con la fondazione della scienza meccanicistica di Galilei, il mondo diviene rappresentazione del Soggetto, al punto che si giunge ad affermare che rimosso l’uomo, nel quale soltanto giacciono sapori, odori, colori, etc., ossia quelle qualità che nella scienza aristotelica erano sensibili propri del mondo, potenze negli oggetti che si attualizzavano con la conoscenza, verrà rimosso anche il mondo
Così scrive Galilei a tal proposito: «Per lo che vo io pensando che questi sapori, odori, colori, etc., per la parte del soggetto nel quale ci par riseggano, non siano altro che puri nomi, ma tengano solamente lor residenza nel corpo sensitivo, sicché rimosso l’animale, siano levate ed annichilate tutte queste qualità». G. Galilei, Il Saggiatore, Barbera, Firenze, 1864, § 41, p. 108 . Ciò è in netta contrapposizione con quanto si legge nel De Anima di Aristotele, nel quale si descrive come ci sia un processo di graduale assimilazione del mondo da parte del soggetto basato sul porre in atto ciò che è in potenza attraverso i mezzi dei sensi, detti da Aristotele medi in quanto per l’appunto mediano. Il gusto, per esempio, per via del proprio medio interno, vale a dire l’umido salivare, porta in atto il sapore che era in potenza nel cibo degustato. Allo svanire della sensazione gustativa così conseguita, non svanisce il sapore sensibile del cibo degustato: ciò che si può sentire resta, al massimo svanisce ciò che è stato attualizzato in un tale lasso di tempo e di spazio. I colori poi, per esempio, continuerebbero a esistere anche se non ci fosse più alcuno a vederli e non si desse dunque una scienza dei colori, ma non potrebbe mai darsi l’esperienza del colore né la formulazione di tale esperire in scienza se non esistessero i colori. Senza l’uomo il mondo resterebbe comunque stabilmente lì in attesa di essere conosciuto. I sensibili propri sono per Aristotele le proprietà degli oggetti, sono i contenuti potenziali della sensazione, che consentono ai sensi ad esse specificamente corrispondenti di sviluppare la conoscenza del mondo. Tra le proprietà degli oggetti e quelle di ciascun senso vi è isomorfismo. . Si compie così il primo grande passo verso il trionfo del soggettivismo. Espropriato delle proprie qualità, il mondo esiste solo in quanto c’è un soggetto che lo pensa; non gode di alcuna realtà oggettiva e dipende interamente dalla rappresentazione soggettiva. In tale panorama, le parole, che nel sistema aristotelico intrattenevano un rapporto di somiglianza con gli oggetti a cui rinviavano, si svuotano al punto da divenire mera nomenclatura: nient’altro che vuote etichette affisse arbitrariamente dal Soggetto.
Le relazioni tra i corpi dell’universo divengono ora di tipo meccanicistico, governate cioè da stringenti regole matematiche: la materia è uno spazio geometrico interamente intelligibile. Non vi è spazio al caso. Mentre nella fisica aristotelica la materia rappresentava il contenuto accidentale e irrazionale delle cose e in quanto tale restava impenetrabile dall’anima ed era oggetto solo di una dialettica del verosimile, ora essa coincide con lo spazio geometrico ed è perciò oggetto di una scienza del necessario che la può dedurre con certezza a priori. La matematica, frutto di processi della ragione, si impadronisce così del mondo, il quale si risolve in una estensione geometrica governata dalle leggi del moto. Le idee che conseguiamo mediante il metodo matematico sono le uniche a essere chiare e distinte, e quindi vere. La matematica, frutto di un raziocinio sfrenato, governa dunque la nostra mente e le sue produzioni conoscitive assicurandone certezza e verità. Si afferma così il dominio crescente di un Soggetto che si contrappone a un mondo da lui derivato, e in quanto tale, secondario e inessenziale. Gioca un ruolo centrale nell’affermazione di tale dominio la filosofia cartesiana, nella quale il Soggetto pensante diviene a tutti gli effetti realizzatore degli oggetti del suo pensiero: il mondo infatti, nella prospettiva cartesiana, è stato sì creato da un ente superiore, ma la sua esistenza è per l’uomo strettamente legata alla capacità del pensiero di rappresentarselo conferendogli così realtà. La mente è autonoma rispetto al corpo, e quindi rispetto ai sensi; è in grado cioè di produrre da sé, in maniera disincarnata, i propri contenuti. Le operazioni mentali sono logicamente distinte e indipendenti dagli stati corporei. Ecco che l’introspezione diviene metodo di conoscenza.
Il Soggetto cartesiano, esposto irrimediabilmente al dubbio
Cartesio parte dalla messa in discussione non solo della verità delle percezioni sensibili, bensì anche di quella dei ragionamenti in quanto spesso si rivelano errati e giunge a dire che non è escluso che l’essere umano sia stato creato da un genio maligno e ingannatore, il quale l’ha creato in modo da non consentirgli di conseguire mai la verità, anche di fronte all’evidenza. Il dubbio diviene così iperbolico e in quanto è pur sempre un assunto metodico di una filosofia che comincia con la ricerca dei principi primi a partire da cui formulare la conoscenza, è stato denominato dubbio metodico., scopre la prima certezza pensando, o meglio, pensandosi solipsisticamente, in un distacco dal mondo, dal proprio corpo, da qualsiasi alterità. L’Io che si pensa nella solitudine del suo pensiero, in una sorta di purezza cogitativa, pone il pensiero di sé come prima unica certezza incontrovertibile, come unica realtà fuor di dubbio e perciò innegabile. Si giunge così a quell’assunto famoso: “Penso, dunque sono”
Cfr. R. Descartes, Meditazioni metafisiche, trad. a cura di S. Landucci, Laterza, Bari 2005, pp. 43-47.. Esso è il primo principio della filosofia cartesiana. L’Io che dubita e dunque pensa, pensando si autopone come prima certezza reale ed evidente; coglie la sua esistenza solo nell’atto del suo pensiero. L’affermazione del pensiero basta a se stessa in maniera del tutto indipendente dal corpo e da qualsiasi altra forma di alterità. Emerge un Io intrappolato nell’autoreferenzialità del suo pensiero. L’Io coglie la sua realtà nella consapevolezza del pensiero dubitante: conosce di dubitare e perciò conosce la sua esistenza. Perfino la prima prova dell’esistenza di Dio, come causa dell’idea di perfezione rispetto alla quale il Soggetto si misura imperfetto, si risolve nell’autoreferenzialità di un cogitare solipsistico: tale idea, infatti, l’Io la trova contenuta nella sua mente, la quale però non l’ha prodotta; idea a priori e quindi trascendente, che condanna definitivamente l’Io alla certezza e alla verità di ciò che solo il suo pensare solitario e autoreferenziale può concepire.
Il Soggetto cartesiano, unico arbitro di quelle idee ricondotte tutte all’interno della mente al punto che niente può più trovare giustificazione al di fuori della ragione, è affetto da una radicale solitudine. Il mondo, rispetto a esso, è relegato nell’ipoteticità dell’epochè. Fuor di ragione, e soprattutto, prima della ragione, prima dell’atto cogitativo di un finito pensante che in quanto tale ha capacità di porre in essere ciò che pensa, è dubbio che esista un finito oltre il finito che dubita e, in quanto per l’appunto pensa, esista. L’Io è separato di principio dal mondo. Non conosce perciò alterità ed è condannato al pensare solipsistico. Qualsiasi sorta di rapporto di somiglianza fra sensazioni e idee del Soggetto conoscente e mondo, cose del mondo, è irrimediabilmente messa in discussione. Non è affatto chiaro in che materia quest’Io, abitante solitario di un mondo che esiste solo come proiezione del suo ragionare, formi i suoi pensieri. Possiamo perciò avanzare a tal proposito una serie di interrogativi. Da dove prende la materia del pensiero se quell’essere infinito da cui egli si pensa generato resta in fondo rispetto a lui trascendente, in quanto idea in lui, ma non da lui? Da dove prende l’idea di quel mondo che egli nega, il quale per poter essere negato deve in fondo avere una sorta di consistenza d’essere? Così come viene da chiedersi da dove gli provenga l’idea di una res extensa, se egli nega ogni sorta, potremmo dire, di contaminazione con il corpo? È dunque, in ultimo, davvero possibile che si dia un Io autoponentesi, scevro d’alterità?
2. Pensiero e linguaggio
Per la via aperta da Galilei e tracciata da Cartesio, Locke giunge a ritenere che il mondo esista nella mente del Soggetto e i segni nascano perciò in relazione all’esigenza di socialità, ossia all’esigenza di comunicare agli altri i contenuti della propria mente, le “proprie” idee. Le parole, dice infatti Locke, «fungono da segno esteriore delle nostre idee interiori»
J. Locke, An Essay Concerning Human Understanding, 1690; trad. it. Saggio sull’intelletto umano, a cura di V. Cicero, Bompiani, Milano, p. 267.. In tale prospettiva, esse non sono altro che contrassegni di concezioni interiori ed in tal modo è come se, direbbe Wittgenstein, si parlasse della traduzione di una sorta di linguaggio mentale in linguaggio verbale
Cfr. L. Wittgenstein, The Blue and Brown Books, Basil Blackwell, Oxford, 1958; trad. it. Libro blu e libro marrone, a cura di Amedeo G. Conte, Einaudi, Torino, 2000, p. 58., una traduzione di un interno in un esterno. I segni, in quanto segni distintivi delle idee presenti nella nostra mente, consentirebbero così di rendere note agli altri le idee internamente serbate e permetterebbero la trasmissione, la condivisione, dei pensieri solipsisticamente concepiti. Il passaggio dall’interno all’esterno che si compie con il linguaggio è come un passaggio dall’invisibile al visibile. Scrive infatti Locke che:
i pensieri si trovano dentro l’animo umano, invisibili e nascosti agli altri, e non potrebbero manifestarsi spontaneamente […], la comunicazione dei pensieri: essa fu necessaria affinché gli uomini mostrassero all’esterno segni sensibili e visibili, mediante i quali potessero divenire note agli altri le idee invisibili che costituiscono i loro pensieri
J. Locke, Saggio sull’intelletto umano, cit., p. 747..
E le domande che subito sorgono spontanee sono: Di che materia sono costituiti questi pensieri e queste idee? Da dove provengono poi i segni che il Soggetto a un certo punto impara a usare per trasmettere i propri contenuti mentali? E, in ultimo, in che misura i segni riescono a rendere visibili i contenuti interiori? Restano sempre quest’ultimi, in una certa misura, invisibili? Sono i segni solo delle immagini sbiadite di essi?. Tra le parole e le idee, così come tra le idee e il mondo, nel percorso così delineato, non intercorre alcun rapporto naturale, alcuna somiglianza. Le parole sono frutto di un’imposizione arbitraria di un segno a una determinata idea e l’idea così designata è il significato proprio e immediato del segno assegnatole. Il significato dunque è direttamente il contenuto interno della mente, è la faccia interna, prioritaria, quella che significa, della materia segnica, esterna, a esso associata.
Si celebra così, in tale prospettiva, una delle distinzioni più perniciose diffusa dal pensiero metafisico occidentale: quella tra interno ed esterno. L’interno sarebbe il luogo nascosto, occulto, assimilabile all’anima che dà vita al corpo; l’esterno, invece, sarebbe sinonimo di corpo e, senza l’attività vivificatrice dell’interno, non sarebbe altro che pura esteriorità priva di vita. Questa distinzione ci ha portati a credere che ci sia sempre un interno più importante dell’esterno e che quest’interno, nel suo essere privato, sia più familiare dell’esterno, pur essendo tuttavia ineffabile, ossia mai del tutto esprimibile. Lo stesso ‘concetto’ di significato è stato pensato secondo questa distinzione: il ‘significato’ è sempre stato considerato come qualcosa di interno che vivifica il morto segno esterno; esso sarebbe il prodotto di un’attività interiore che vivifica i segni e tale attività interiore sarebbe il pensare. Il significato sarebbe quindi una porzione del prodotto del pensare che è il pensiero. Decostruita l’idea del pensare come attività interiore prioritaria rispetto alla produzione di segni, il significato sarà ricondotto al segno senza possibilità di separazione, bensì solo di distinzione logica a fini interpretativi.
Comunemente riteniamo che ci sia un pensare che precede il parlare e che il pensare sia quindi distinto dal parlare: il pensare risulta essere un’attività interiore che anima il parlare e che ha luogo nella testa, nella mente o nello spirito, da qui le tesi secondo le quali il pensare sarebbe un processo psichico, mentale o spirituale. Inoltre, risulta che si pensa con la testa così come si scrive con la mano e si parla con la bocca, quindi la testa sarebbe lo strumento del pensare e il luogo occulto che contiene il pensiero. E infine, emerge che l’attività del pensare non possa essere del tutto esternata, ossia non possa essere del tutto tradotta dal linguaggio, per così dire, mentale nel linguaggio verbale. Wittgenstein scrive che «una delle idee filosoficamente più perniciose è l’idea che pensiamo con la testa o nella testa» e aggiunge che «l’idea del pensare come di un processo che ha luogo nella testa, in uno spazio perfettamente conchiuso, conferisce al pensare un che di occulto»
L. Wittgenstein, Zettel, herausgegeben von G. Elizabeth M. Anscombe und Georg Henrich von Wright, Blackwell, Oxford, 1967; trad. it. Zettel, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 2007, §§ 605-606, p. 127.. Noi assimiliamo il pensare, per via di una proiezione sintattica che ci spinge a immaginare attività in luogo di verbi, a un processo fisiologico, organico, che ha luogo in un determinato organo interno del nostro corpo; lo assimiliamo ad esempio al digerire, il quale è un processo organico che ha luogo nello stomaco.
Noi crediamo infatti che il pensare sia un’attività interiore che avviene nella e per mezzo della mente o dell’anima; in quanto attività il pensare compete sempre a qualcuno, ossia c’è sempre un Io che pensa. Lo stesso Nietzsche ha criticato l’idea del pensare come l’effetto di un Soggetto pensato come causa; il bersaglio della sua critica era la certezza immediata che ci sia un Io che pensa, ossia che ci sia sempre un Soggetto e un oggetto del pensare, del volere, del conoscere
Cfr. F. Nietzsche, Al di là del bene e del male, cit., pp. 20-22.. Con Wittgenstein giungiamo a dire che «qualsiasi processo fisiologico implicato nel pensare è per noi assolutamente privo di interesse. Il pensare è un processo simbolico»
L. Wittgenstein, Wittgenstein’s Lectures Cambridge 1930-1932, Basil Blackwell, Oxford, 1980; trad. it. Lezioni 1930-1932. Dagli appunti di John King e Desmond Lee, a cura di A. G. Gargani, Adelphi, 1995, § 1, p. 43. e «non ha importanza dove questo avviene, se sulla carta o sulla lavagna». Il pensare «può coinvolgere immagini e noi pensiamo che queste si trovino “nella mente”. Questa metafora di “all’interno” o “all’esterno” della mente», continua Wittgenstein, «è perniciosa. Essa deriva dall’espressione “nella testa” quando pensiamo a noi stessi come se stessimo guardando fuori della nostra testa, e al pensiero come a qualcosa che avviene “nella nostra testa” […] Il pensiero è un processo simbolico. Non importa un bel niente dove ha luogo, purché il processo simbolico abbia luogo»
Ivi, pp. 43-44.. Non vi è dunque una lettura diretta del pensiero da parte dell’Io, bensì vi è sempre e solo un’interpretazione di simboli, una lettura di simboli attraverso simboli, un rinvio di simbolo in simbolo
Ivi, § 2, p. 44.. Non esiste una lettura diretta del pensiero da contrapporre a un metodo indiretto di comunicazione del pensiero attraverso il linguaggio, come se il pensiero fosse un paesaggio «che abbiamo visto e dobbiamo descrivere, ma che non ricordiamo con sufficiente esattezza per poterlo descrivere con tutti i suoi annessi e connessi»
L. Wittgenstein, Philosophische Grammatik, herausgegeben von Rush Rhees, Suhrkamp Verlag, Frankfurt am Main, 1969; trad. it. Grammatica filosofica, a cura di M. Trinchero, La Nuova Italia, Firenze, 1990, § 63, p. 69.. Non c’è «un modo di leggere il pensiero più diretto di quello che passa attraverso il linguaggio. Il pensiero non è qualcosa di nascosto; esso sta là, aperto davanti a noi»
L. Wittgenstein, Lezioni 1930-1932, cit., § 2, p. 44.. Non dobbiamo considerare il pensare come «l’attività di un meccanismo che vediamo dall’esterno, ma nel cui interno dobbiamo ancora penetrare»
L. Wittgenstein, The Big Typescript, Springer-Verlag, Wien, 2000; trad. it. The Big Typescript, a cura di A. De Palma, Einaudi, Torino, 2002, § 7, p. 232., ossia non dobbiamo considerare il pensiero come qualcosa di interno e, in quanto tale privato, di cui si possono osservare solo gli effetti esterni, vale a dire i segni che lo esprimono in modo non esaustivo. È un errore credere che il pensare accompagni il parlare, restando un processo da esso separato, interno, e in quanto tale occulto e privato. Non c’è il pensiero e, accanto a questo, il linguaggio; non ci sono per gli altri dei segni e per ognuno di noi un pensiero tacito; non c’è un pensiero etereo, gassoso, privato, che si contrappone ai segni visibili e udibili: il pensiero è già da sempre linguisticamente articolato, perciò, pensare è già parlare e il pensiero è diviso in porzioni, in parti, ossia in segni, le quali sono i significati
Ibidem.. Wittgenstein dice chiaramente che «non c’è l’espressione segnica e accanto a questa il pensiero da solo (per così dire, opaco). Altrimenti sarebbe fin troppo strano che le parole dovessero poter restituire il pensiero»
Ivi, § 9, p. 234.. Come potrebbe infatti il linguaggio articolare il pensiero, ossia distinguerlo in parti, in segni, se questo non fosse già da sempre linguisticamente articolato? Se il pensiero non fosse articolato, non sarebbe esprimibile. Non c’è un pensare che precede il parlare, lo stesso bambino, quando impara la lingua, comincia sin dal primo momento a pensare in quella lingua, non c’è quindi uno stadio intermedio in cui il bambino usa la lingua senza pensare ancora in essa.
3. “Parlo, dunque sono”
Si può dire che non c’è un lato interno del pensiero, ma solo un lato esterno
Ivi, § 2, p. 236.: il pensiero è già sempre linguisticamente articolato; il pensare è un processo simbolico e non un processo psichico, mentale o spirituale che anima il parlare, «non è un processo incorporeo che presti vita al parlare e che sia possibile staccare dal parlare, come il maligno stacca l’ombra di Schlemiehl dal suolo»
L. Wittgenstein, Philosophische Untersuchungen, Basil Blackwell, Oxford, 1953; trad. it. Ricerche filosofiche, a cura di M. Trinchero, Einaudi, Torino, 1999, § 339, p. 144.. Il pensare non può essere separato dal parlare: si pensa parlando e si parla pensando, più radicalmente si parla. Il pensiero si dà nei segni linguistici, i quali appartengono all’esteriorità pubblica, sono condivisi dalla comunità linguistica; possiamo perciò dire che nel pensiero non c’è alcunché di privato in quanto ciascuno può prenderne visione. Si dice che l’altro non può sapere se Io penso poiché solo Io lo so e solo Io conosco i miei pensieri, l’altro ne può venire a conoscenza solo quando Io glieli comunico e si pensa magari che l’Io conosca i pensieri molto meglio di quanto le parole li possano rappresentare, quindi, è come se si dicesse che l’altro a cui comunico i miei pensieri riceve una fotografia di un corpo che conosco solo Io
Cfr. L. Wittgenstein, Bemerkungen über die Philosophie der Psychologie, Basil Blackwell, Oxford, 1980; trad. it. Osservazioni sulla filosofia della psicologia, a cura di G. E. M. Anscombe e G. H. von Wright, Adelphi, Milano, 1990, §§ 564, 565, 576, pp. 172, 173, 176.. E si potrebbe chiedere: ‘che cos’è questo sapere che ho solo Io, questo corpo che solo Io conosco? Come potrei dire che so se questo sapere non fosse già sempre linguisticamente articolato? Come farei poi ad articolare questi pensieri che conosco solo io, se questi non fossero già da sempre linguisticamente articolati? E ancora, come potrei condividere questi pensieri se fossero privati, se fossero dell’Io? Ossia, come potrei condividere con il noi della comunità ciò che solo Io posso conoscere? Posso condividere i miei pensieri con l’altro giacché essi sono da sempre articolati nel linguaggio pubblico, sono articolati nella lingua condivisa dalla comunità e, per ciascuno di noi, venuta dall’altro; essi, quindi, non saranno più i miei pensieri, i pensieri dell’Io, proprio perché sono già da sempre articolati nei segni comuni, condivisi dalla comunità, nei segni del noi pubblico e non dell’Io privato. Il pensiero è dunque pubblico, condiviso, casalingo; esso non è occulto, bensì manifesto: giace già sempre aperto davanti agli occhi di tutti poiché è già da sempre linguaggio e non può essere da esso separato. Il pensiero tacito che attende di essere espresso non esiste e, quindi, possiamo radicalmente dire con Wittgenstein che non c’è pensiero senza linguaggio: noi pensiamo sempre nel linguaggio.
Wittgenstein resta un anticartesiano: la sua filosofia è una critica e una distruzione costante di ogni dualismo, in particolare di quello tra anima e corpo, tra interno ed esterno. Nel rivendicare l’esteriorità linguistica del pensiero, Wittgenstein è vicino ad alcuni filosofi contemporanei. Possiamo ad esempio citare la critica di Merlau-Ponty al Cogito cartesiano; egli scrive nella Fenomenologia della percezione che, leggendo la Seconda Meditazione, comprende come problema centrale l’Io, nello specifico, l’Io di ogni uomo riflettente e, seguendo la riflessione di Cartesio, giunge alla conclusione: ‘penso, dunque sono’. Ma, dice Merlau-Ponty, «questo è un Cogito sulla parola, io non ho colto il mio pensiero e la mia esistenza se non attraverso il medium del linguaggio, e la vera formula di tale Cogito sarebbe: “Si pensa, si è”»
M. Merlau-Ponty, Phénoménologie de la perception, Libraire Gallimard, Paris, 1945; trad. it. Fenomenologia della percezione, a cura di A. Bonomi, Bompiani, Milano, 2003, p. 513. ; il Cogito cartesiano è «un Cogito parlato, messo in parole, compreso in base a parole»
Ivi, p. 515.. Merlau-Ponty dice che il Cogito tacito può essere considerato l’autopresenza, l’esistenza stessa, e in quanto tale precede ogni filosofia; il Cogito tacito è la coscienza che condiziona il linguaggio, è un’apprensione globale e inarticolata del mondo, che attende la parola, per questo, «il Cogito tacito non è Cogito se non quando si è espresso esso pure»
Ivi, p. 518., ossia il Cogito tacito è Cogito solo quando non è tacito, bensì parlato, quindi non ha senso parlare di Cogito tacito. Il passaggio che Merlau-Ponty compie dal ‘penso, dunque sono’ al ‘si pensa, si è’ è una desoggettivazione del e nel linguaggio, in quanto non c’è un Io che pensa nel suo spazio privato e che facendo ciò dà prova a se stesso della propria esistenza, ma abbiamo sempre un pensare linguisticamente articolato: è il linguaggio, per così dire, che pensa, ossia che parla, è il linguaggio che ci dice dandoci in tal modo la possibilità di coglierci come esseri pensanti o, più radicalmente, come esseri parlanti. È il linguaggio che, nel suo pubblico parlare, ci fa pensare, ci fa dire, ci fa essere, ossia ci rende presenti. Ed è per questo che dovremmo dire dire “Parlo, dunque sono” piuttosto che “Penso, dunque sono”.
Per Wittgenstein non c’è un pensiero in attesa di espressione; egli critica perciò fermamente la ricerca della parola giusta, ossia la ricerca di una parola che esprima l’inespresso pensiero. La ricerca della parola giusta è invece decisiva nella filosofia heideggeriana: il poeta, il viandante, è alla ricerca della parola giusta
Cfr. M. Heidegger, Unterwegs zur Sprache, Verlag Günther Neske Pfullingen, 1959; trad. it. In cammino verso il linguaggio, a cura di A. Caracciolo, Mursia, Milano, 2007, p. 129.. Ma, direbbe Wittgenstein, come si sa che la parola da ricercare è giusta, è azzeccata? Noi sappiamo che sarà giusta ancor prima di averla trovata, perché sappiamo già parlare, perché abbiamo già il linguaggio e cerchiamo la parola sempre percorrendo i sentieri che il linguaggio ci dischiude
Cfr. L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., §§ 72-73, p. 30.. Non c’è quindi un inespresso in attesa di essere espresso poiché il sapere di questo inespresso si darebbe già sempre nell’espresso. A proposito dell’inespresso, del pensiero bell’e fatto in attesa di espressione, è importante citare la critica che Wittgenstein rivolge a James, il quale sostiene che, anche prima di aver aperto bocca per parlare, tutto il pensiero è presente nella nostra mente in forma di intenzione di esprimerlo
Cfr. Ivi, § 179, p. 62.. Wittgenstein critica a James anche la descrizione della lacuna (gap) che solo la parola sulla punta della lingua, quella che si sta cercando di richiamare alla mente, può riempire: si ha già un vissuto di tale parola benché essa non ci sia ancora, è lì, pensata e inespressa, in attesa di espressione, è lì, sul confine dato dalla lingua che separa l’interno dall’esterno, l’inespresso dall’espresso
Cfr. Ivi, § 254, p. 87.. Non c’è ancora, non è stata ancora espressa e tuttavia noi sappiamo che è lì, sulla punta della lingua. Ma come sappiamo che è lì? Abbiamo un vissuto della parola che ce lo fa sapere? Non c’è un vissuto che precede e accompagna la parola dandole significato, non c’è un’ombra della parola cercata: la parola si dà e significa nello scorrere del parlare, del comprendere
Cfr. Ivi, § 240, p. 82.. Wittgenstein ci invita a riflettere su che cosa accadrebbe se non trovassimo mai la parola sulla punta della lingua, ossia che cosa accadrebbe se tutto restasse nella nostra privata interiorità. Non c’è un’idea che è nella nostra mente in attesa della parola giusta che la possa esprimere, non c’è un pensiero prima della parola che sia l’intenzione di dire ciò che poi viene detto: ciò che vogliamo dire, ossia l’intenzione di dire, non è un processo inarticolato, psichico, che precede ciò che poi diciamo, noi, infatti, ciò che vogliamo dire lo diciamo e basta, ossia non lo pensiamo prima di dirlo
Cfr. L. Wittgenstein, Ricerche filosofiche, cit., pp. 286-288..
Dove non c’è un operare con segni, i quali non per forza devono essere linguistici (pensiamo ad esempio al calcolo, all’operare con i segni matematici), non c’è pensare. Per analizzare il pensiero non occorre che la filosofia penetri in luoghi occulti, ma basta che si fermi a osservare i segni, ossia i fenomeni linguistici; noi infatti pensiamo parlando o scrivendo e parliamo o scriviamo pensando: non c’è separazione tra parlare o scrivere e pensare, perciò, possiamo radicalmente dire che noi parliamo o scriviamo e basta. Nei Pensieri diversi di Wittgenstein leggiamo: «Io penso effettivamente con la penna, perché la mia testa spesso non sa nulla di ciò che la mia mano scrive»
L. Wittgenstein, Vermischte Bemerkungen, a cura di G.H. von Wright, Suhrkamp, Frankfurt am Main, 1977; trad.it. Pensieri diversi, a cura di M. Ranchetti, Adelphi, Milano, 2001, p. 44.; tale aforisma racchiude in sé la riflessione sul pensiero che fin qui ci ha guidati in quanto riconduce il pensare all’esteriorità dello scrivere, rigettandolo quindi come attività interna localizzata nella testa. L’espressione del pensiero è riportata all’espressione del corpo
A tal proposito si tenga presente F. Palmieri, Wittgenstein e la grammatica, Jaka Book, Milano, 1997, p. 36. Palmieri, per evidenziare l’esteriorità del pensare, pone l’accento sull’espressione corporea giungendo a descrivere il pensiero come segno del corpo.: pensare è scrivere con la mano, è parlare con la bocca; non c’è separazione tra pensare e parlare, tra pensare e scrivere, infatti, «la mano scrive; non scrive perché qualcuno lo vuole, ma qualcuno vuole ciò che essa scrive»
L. Wittgenstein, Osservazioni sulla filosofia della psicologia, cit., § 267, p. 397.; non c’è un pensiero che precede e guida, sotto forma di intenzione, lo scrivere; piuttosto, c’è un pensare che si dà nello stesso scrivere e un’intenzione di dire che si dà nello stesso dire, che è questo dire. Non c’è una mente che contiene il pensiero, ma c’è un corpo che esprime, ossia una bocca che parla, una mano che scrive, che maneggia gli oggetti del mondo attraverso i segni. È importante qui attirare l’attenzione sulla mano, sulla quale la filosofia contemporanea ha riflettuto molto: essa rimanda al nostro maneggiare il mondo, gli oggetti del mondo, attraverso i segni, un maneggiare pubblico, esterno, che riconosce oggettività al mondo senza ridurlo al pensare, al conoscere, soggettivo e privato dell’Io. Il mondo non sta, per così dire, nella mente dell’uomo in forma eterea e gassosa in attesa di articolazione linguistica, ma esiste già da sempre e sono i segni del nostro linguaggio a manifestarlo, a renderlo presente. Noi incontriamo il mondo nel linguaggio, nell’esteriorità pubblica dei segni
L’uomo, dice a tal proposito Wilhelm von Humboldt, «si circonda di un mondo di suoni per accogliere in sé ed elaborare il mondo degli oggetti […] egli vive con gli oggetti percepiti esclusivamente nel modo in cui glieli porge la lingua». W. von Humboldt, La diversità delle lingue, a cura di D. Di Cesare, Laterza, Roma-Bari, 2005, p. 47.. “Parlo, dunque sono”: i segni mi rendono presente all’altro e a me stesso in quanto vengo riconosciuto dall’altro, dalla parola dell’altro, e, allo stesso tempo, ci rendono presente il mondo.
Bibliografia
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