Dalla famiglia-modello alla famiglia-contenitore: storie di vita
familiare nella fiction italiana
di Milly Buonanno
Premessa
La televisione ha svolto e svolge tuttora un ruolo rilevante nei processi di
costruzione sociale della famiglia: ciò che in un dato momento del tempo si
afferma come desiderabile, accettabile o reprensibile in fatto di istituzione,
struttura, vita familiare, viene definito, interpretato, e ottiene visibilità sulla
scena pubblica (anche) con l’influente contributo del medium televisivo. La
‘presenza ubiqua’ della famiglia entro e attraverso l’intera gamma dei generi
televisivi non toglie che la produzione di discorsi e immagini concernenti
forme e relazioni familiari abbia trovato un terreno elettivo nel racconto
d’immaginazione, dunque nella fiction.
Nel mezzo secolo e oltre della sua storia, la fiction italiana ha prodotto un
cospicuo corpus di narrazioni sulla famiglia, e ha costruito e offerto differenti
rappresentazioni di vita familiare, tenendo conto - pur senza rispecchiarle delle trasformazioni che la famiglia stava attraversando nella realtà sociale del
Paese. Il presente capitolo intraprende un’esplorazione delle tante storie di
famiglia che si sono avvicendate nel corso degli anni sul piccolo schermo, allo
scopo precipuo di tracciare una mappa (necessariamente selettiva) dei principali
percorsi tematici lungo i quali si è snodato il racconto televisivo, e in
particolare dei punti di svolta che ne hanno segnato l’evoluzione verso nuovi
modi di concepire e ‘mettere in scena’ la famiglia. Nel contesto di una società
tradizionalmente familicentrica come quella italiana, e in una fase di grande
trasformazione dell’istituzione familiare, in che modo le rappresentazioni della
fiction televisiva hanno negoziato tra continuità e mutamento, e hanno
risposto alle ansietà collettive suscitate dai processi di cambiamento? La fiction
privilegia o esclude specifici modelli di famiglia? A quale idea o sentimento
della famiglia si rifanno le storie di fiction contemporanee?
Questa ricognizione storica sulla famiglia narrata in televisione costituisce la
prima articolazione di un discorso che prosegue nel capitolo successivo,
attraverso l’analisi della fiction di maggior successo – il programma dell’anno –
della stagione televisiva 2014-2015.
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1. Una presenza ubiqua
Famiglia e televisione sono inestricabilmente legate in un rapporto di reciproca
intersezione. La televisione, come tecnologia e forma culturale, è situata nello
spazio fisico e sociale della casa – alimentando nella sfera delle ansietà
collettive il timore degli effetti deleteri di questo medium domestico sulla vita e
sulle relazioni familiari – e a sua volta la famiglia è per così dire ‘di casa’ in
televisione. Niente, forse, è altrettanto ubiquo in televisione come la famiglia;
oltre che nei generi narrativi, cioè nelle storie di fiction, la famiglia è
diffusamente presente come tema o protagonista di programmi di
intrattenimento, reality e talk-show, nelle notizie di cronaca e nella pubblicità, è
saldamente insediata nell’orizzonte di strategie di produzione e di offerta che
contribuisce a orientare e a regolare, è leggibile in filigrana nella stessa
organizzazione dei palinsesti.
Mai come ora, e comunque a partire dagli anni Novanta, la televisione italiana,
e non soltanto la programmazione delle reti generaliste come Raiuno e Canale
5 (a cui si aggiungono le reti del narrowcasting digitale e satellitare come Real
time, Lei, Fox life), è apparsa altrettanto saturata dal protagonismo e dalla
visibilità della famiglia. Sebbene la cosa sia stata poco o per nulla rilevata, la
reality-based television, o i cosiddetti reality shows esplosi in anni recenti nei nostri
palinsesti televisivi, per una parte consistente della loro variegata e proliferante
tipologia configurano una vera e propria televisione familicentrica. Si pensi alla
ricerca di familiari scomparsi per il tramite della ormai longeva Chi l’ha visto?
(Raitre); alle cerimonie e ai ricevimenti nuziali offerti in visione da Wedding
planners (Real Time), Quattro matrimoni Italia (Fox Life), o comunque prefigurate
nelle fasi preliminari della scelta e delle prove dell’abito da sposa, sempre con
accompagnamento di familiari, come in Abito da sposa cercasi (Real Time), Chi
veste la sposa: mamma contro suocera (Lei); ai delitti e alle violenze in famiglia
narrate dalle cronache dei telegiornali, oggetto di insistite ricostruzioni negli
studi di Porta a porta (Raiuno), e di conversazioni nei talk show pomeridiani di
attualità e gossip; ai contenziosi familiari dibattuti nell’aula di Forum (Canale 5);
ai melodrammi familiari dell’abbandono, dell’agnizione, della colpa e del
perdono, che trovano scioglimento (letteralmente: in lacrime) in C’è posta per te
(Canale 5); alle famiglie della pubblicità.
Ma in specie nei generi narrativi l’ubiquità della famiglia è tale che, a volerne
ricostruire esaustivamente la presenza, si dovrebbe citare poco meno di tutto
ciò che è passato e passa sugli schermi. Sia pure in ruoli secondari o in
posizioni decentrate nello spazio della narrativa, sfondi, squarci e temi di vita
familiare sono praticamente presenti ovunque, o quasi; se la famiglia non è
sempre protagonista, è raro che i protagonisti non abbiano una famiglia o non
ne incontrino una sulla loro strada. Non mi riferisco soltanto alla fiction
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italiana, poiché al corpus di programmi televisivi di produzione nazionale si
affianca, nella proliferante offerta dell’ambiente multicanale, il corpus assai più
esteso delle serie statunitensi e (il recente ritorno) delle soap spagnole, tutte o
quasi a forte protagonismo familiare. Né le storie di famiglia restano confinate
nel loro genere specifico, il family appunto (ad es. Un medico in famiglia, I Cesaroni,
Una grande famiglia), ma infiltrano altri generi: dal poliziesco (Ho sposato uno
sbirro), al biografico (Atelier fontana. Le sorelle della moda), alla mafia-story
(Gomorra:la serie), al feuilleton melodrammatico (Le tre rose di Eva), al teen drama
(Fuoriclasse).
Una presenza così pervasiva e trasversale, di certo superiore a quella di
qualsiasi altro soggetto, richiama qualche messa in guardia: vale a dire che,
soprattutto nel caso della famiglia e della sua rappresentazione, occorre essere
consapevoli della parzialità di una lettura limitata alle storie di famiglia offerte
dalla fiction italiana. Ritaglio di un discorso televisivo innegabilmente molto
più vasto, non per questo tuttavia le ‘nostre’ storie di famiglia sono meno
significative; proprio perché la famiglia, sotto vari aspetti, è così centrale per la
televisione, è importante sapere come viene raccontata e fantasizzata in un
settore della produzione nazionale dotato di indubbia risonanza e incidenza
nell’immaginario collettivo. Tanto più che, nel caso italiano, siamo in presenza
di una doppia centralità della famiglia: nella televisione, come si è già detto, e
inoltre nella società e nella tradizione culturale di un Paese tipicamente
‘familicentrico’. Egualmente, occorre essere consapevoli del fatto che le
narrative – e dunque anche la fiction televisiva – selezionano, re-immaginano e
ri-definiscono, piuttosto che meramente rispecchiare la realtà; l’esercizio
ermeneutico che può consentirci di scoprire e ricostruire i nessi fra
immaginazione e realtà è compito nostro, come spettatori, studiosi, critici.
1.1. Un rapido excursus
Nei sessanta anni trascorsi dall’avvio del servizio pubblico radiotelevisivo
(1954) la famiglia italiana, pur conservando parte delle sue specificità distintive,
quali ad esempio la densità dei rapporti di solidarietà intergenerazionale e la
cruciale funzione di ammortizzatore sociale, è stata attraversata da processi di
profonda trasformazione: caduta della natalità, relativizzazione dell’importanza
del matrimonio come fondamento del rapporto di coppia e delle scelte di
procreazione, crescente instabilità coniugale, diffusione delle coppie di fatto,
pluralizzazione delle forme di convivenza e altro ancora (Saraceno, 2012). Al
posto di una esplorazione sincronica della fiction contemporanea, circoscritta
indicativamente agli anni duemila, preferisco pertanto effettuare un excursus
diacronico sui modi in cui i cambiamenti della famiglia italiana sono stati
rielaborati narrativamente in oltre mezzo secolo di storytelling televisivo.
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Adotterò a questo fine una periodizzazione per decenni, pur nella
consapevolezza del carattere largamente fittizio di una tale scansione
temporale, che ha tuttavia il vantaggio pratico di costituire una convenzione
condivisa e pronta all’uso.
2. Anni Cinquanta e Sessanta: la famiglia moderna sotto una lente di ingrandimento
Guido Guarda, un acuto osservatore della televisione delle origini, annotava
alla fine degli anni Cinquanta come in Italia, a differenza che in altri paesi, il
genere delle storie di famiglia stentasse a emergere e ad affermarsi. Guarda
assumeva a termine di confronto il successo delle situation comedies americane,
con la loro umoristica messa in scena della vita quotidiana di famiglie
suburbane medio-borghesi, e attribuiva l’apparente anomalia italiana sia
all’assenza di una classe media estesa, sia alla difficoltà di «formare con attori
nostrani, anche bravi, un nucleo familiare che sappia di vero, che dia realmente
l’idea della lunga convivenza…di un marito e di una moglie che veramente si
sono sempre bisticciati pur amandosi teneramente » (Guarda, 1959, p.54).
In realtà, appena pochi anni dopo, sarà proprio il tema della convivenza
familiare a ispirare le storie di Vivere insieme: un ciclo antologico di 80
teledrammi (Programma Nazionale, 1962-1970), definiti all’epoca ‘originali
televisivi’ per distinguerli dagli sceneggiati, dedicati ai problemi della famiglia
moderna. Del tutto aliena dall’approccio umoristico delle sitcom americane,
Vivere insieme affrontava di volta in volta con programmatica serietà «un caso
patologico o semplicemente un momento drammatico della convivenza
familiare: sono cioè altrettanti esempi di deteriorato vivere insieme» (Sciascia, 1965,
p. 10, il corsivo è mio). Contrasti fra coniugi, infedeltà coniugale, crisi dell’autorità
genitoriale, impatto del lavoro extra-domestico della donna sulla vita familiare,
solitudine degli anziani, e in generale incomprensioni e incapacità di dialogo: la
serie coglieva i segnali di ansietà per il cambiamento incipiente della famiglia
italiana, e li restituiva ulteriormente amplificati nella narrazione, volta per volta,
di un caso-limite. Gli autori rispondevano alle critiche precisando che si
trattava piuttosto di «un momento limite di un caso normale…quel momento
non fa che mostrarci attraverso una lente di ingrandimento i casi di tutti i
giorni» (Sciascia, 1965, p. 11).
Verso la fine del decennio, in coincidenza con l’emergere di movimenti –
studentesco, femminista – che facevano dell’autoritarismo patriarcale uno dei
loro bersagli critici, il primo telefilm italiano di ambiente familiare, La famiglia
Benvenuti (Programma Nazionale,1968-1969), si impegnò in una operazione
inversa rispetto a Vivere insieme, scegliendo di raccontare non la deteriorata, ma
l’armoniosa convivenza di una famiglia borghese. Padre di sinistra, mogliemadre casalinga, due figli, una domestica: presentata come ‘tipicamente
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italiana’, non esente da piccole crisi e tensioni sempre felicemente risolte nella
riconferma di una piena fiducia nei valori familiari, La famiglia Benvenuti si
caratterizzava per un misurato ma tangibile egualitarismo nelle relazioni sia
coniugali sia inter-generazionali. La serie si proponeva infatti di intercettare una
delle più significative trasformazioni allora in corso nella famiglia italiana, dove
il modello dell’autorità patriarcale stava cedendo il posto a una più paritaria
struttura di ruoli e di relazioni.
3. Anni Settanta: la cittadella assediata
Chiusa rapidamente la rasserenante parentesi de La famiglia Benvenuti (appena 13
episodi in due stagioni), il clima plumbeo del decennio non risparmiò la
rappresentazione televisiva della famiglia. Le fiction dell’epoca erano
fortemente intrise di elementi di critica della famiglia borghese, emblematizzata
da un modello prevalente di ‘famiglia-monade’ (Buonanno, 1985). Ripiegata su
se stessa, autocentrata, appartata rispetto al mondo esterno e alle stesse cerchie
di relazioni parentali e socio-amicali, la monade familiare della fiction appariva
come una ‘cittadella assediata’ a rischio di implosione. Si trattava, nella gran
parte dei casi, di una famiglia nucleare, caratterizzata: 1) da un modello di forte
contenimento della natalità - nella media, un figlio per famiglia -, 2) da
dinamiche evolutive preferibilmente centrifughe - al termine della storia il
nucleo familiare si ritrovava spesso modificato da separazioni, abbandoni, o
altro -, 3) da un clima di tensione nei rapporti coniugali - coppie mal assortite o
ormai disamorate. Non che il matrimonio apparisse inevitabilmente destinato
alla rottura, ma sui rischi di rottura c’era comunque una forte enfasi: il che
presumibilmente traduceva, al riguardo dell’instabilità matrimoniale, una
percezione e un’ansietà collettiva all’epoca molto acute. Per l’ Italia, entrata più
tardi di altri paesi nei trend di evoluzione della famiglia, la dissolubilità
dell’unione coniugale costituiva un fenomeno ancora troppo recente per essere
già in qualche misura metabolizzato o normalizzato nel costume, così come
nell’immaginario televisivo.
Per limitarsi a pochi esempi:
Dedicato a un bambino (Programma Nazionale, 1971), affrontava con linguaggio
da telefilm-inchiesta un drammatico caso di disadattamento infantile,
riconducendone la genesi all’atteggiamento genitoriale distratto e anaffettivo di
una conflittuale coppia agiata.
Dedicato a una coppia (Programma Nazionale, 1974): qui il tema del disagio
infantile restava sullo sfondo, rispetto alla centralità di una crisi di coppia che
sembrava scaturire dalla profonda insoddisfazione, dal vuoto di prospettive
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derivante dal raggiungimento di una sicurezza economica perseguita come fine
in sé.
Dov’è Anna (Programma Nazionale, 1976): storia di una coppia piccoloborghese, senza figli, la cui vita modesta e apparentemente serena era
improvvisamente sconvolta dalla inspiegabile sparizione della donna. L’ostinata
ricerca della verità da parte del marito sarebbe approdata alla scoperta di un
macchinoso piano delittuoso messo in atto per brama di denaro da un’altra
coppia, ossessivamente convinta che «non … potesse esistere felicità senza
ricchezza».
Con una qualche consapevolezza sociologica (gli studi e gli studiosi di
sociologia della famiglia si trovavano spesso citati nelle dichiarazioni degli
autori) queste fiction mettevano a tema le tensioni latenti o manifeste nei
rapporti di coppia, le ripercussioni sui figli, le conseguenze anche tragiche di un
perseguimento del benessere economico nel quale – ricorrendo anche qui
all’evidenza di casi-limite - si identificava un fattore primario di innesco delle
crisi familiari. Avviata negli anni del miracolo economico, la trasformazione
dell’Italia in una società affluente era a sua volta difficile da metabolizzare
nell’immaginario televisivo.
4. Anni Ottanta: dal trauma alla normalizzazione
Il decennio degli anni ottanta sembra caratterizzarsi come una fase di svolta e
ne porta impressi i segni di contraddizione. Non diversamente dagli anni
Settanta, e talora in toni perfino più drammatici, numerose storie di fiction
raccontano la famiglia-in-crisi: in particolare, la famiglia come fonte di nevrosi,
dunque distruttiva (figlia tossicodipendente uccisa da overdose in Storia di
Anna: Raiuno, 1981; altra giovane anoressica in Mia figlia: Raiuno, 1982). Né
mancano gruppi familiari disgregati dall’incapacità di fronteggiare solidalmente
gravi problemi, irreparabili rotture matrimoniali, drammi della gelosia, rapporti
coniugali corrosi da ossessioni di maternità o di paternità, laceranti conflitti
d’ogni sorta, figli trascurati da genitori assenti, nel migliore dei casi affetti
appannati e separazioni e in generale una impressionante frequenza di adulteri.
La famiglia italiana della fiction, e soprattutto la coppia coniugale, vive ancora
una difficile stagione. Ma questo avviene entro uno scenario che comincia a
diventare più variegato. Almeno due elementi intervengono ad articolare il
quadro. Il primo è una nuova enfasi sui legami intergenerazionali, sui rapporti e
gli affetti tra genitori e figli. Se ogni passione tra i coniugi è spenta o
illanguidita, la famiglia sopravvive nella continuità dei rapporti
intergenerazionali, nella saldezza dell’attaccamento ai figli. Nelle storie di
fiction, soprattutto degli ultimi anni Ottanta, le coppie hanno quasi sempre figli
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o li adottano o li vorrebbero ad ogni costo o non si rassegnano alla loro
perdita; su piani narrativi primari o secondari, è tutto un succedersi di padri e
madri intensi.
Ma soprattutto si inaugura una visione più sdrammatizzante del divorzio e delle
sue conseguenze sui figli. «Fatti che ieri erano traumatizzanti, oggi sono
soltanto dei problemi e anche piuttosto comuni», recita ad esempio la
presentazione di Benedetta & company (Raiuno,1983): storia di una bambina nata
dall’amore adolescenziale di due quindicenni. Sia la giovane coppia, sia le
coppie adulte dei rispettivi genitori si separeranno in breve volgere di tempo e
daranno vita con serenità e allegria ad altre unioni, senza per questo che i
vincoli di reciproca solidarietà affettiva e di prossimità residenziale vengano
meno; così che Benedetta crescerà a sua volta serena, al riparo dai traumi della
separazione, da cui la protegge l’affetto dei genitori naturali e acquisiti, e di una
schiera di nonni.
Una visione altrettanto sdrammatizzante si ritrova nelle fiction che, a partire
dalla seconda metà degli anni Ottanta, anche la televisione commerciale inizia a
produrre. Per la verità, rispetto alla televisione pubblica, all’epoca decisamente
familicentrica, la televisione privata è assai meno ricca di storie di famiglia, o ne
presenta di più sfocate. In una fase in cui il grosso dell’offerta si concentra non
sulla generalista Canale 5 ma sulla rete ‘giovane’ Italia 1, al cuore delle fiction
Fininvest c’è piuttosto l’amicizia che la famiglia. Ma proprio una produzione
destinata al pubblico dei più giovani, la serie Chiara e gli altri (Italia1, 19891991), contribuisce in modo significativo a riformulare l’idea della famiglia, a
introdurre una nuova definizione di normalità familiare.
La serie Chiara e gli altri trae spunto da una vicenda reale: invertendo la prassi
più diffusa, una sentenza di separazione ha stabilito che i tre figli della coppia
continuino a risiedere nell’abitazione di famiglia, e che siano invece i genitori a
pendolare, alternandosi nella casa a turni quadrimestrali. La famiglia nucleare
originaria si scinde dunque, a seconda dei turni di presenza, in una famiglia
monoparentale materna oppure paterna.
A partire da questa anomala situazione, di fatto più cornice che tema, la serie
racconta la vita quotidiana dei tre ragazzi - una bambina, una preadolescente,
un adolescente - i quali crescono sereni ed equilibrati, senza risentire di carenze
affettive, in ottimi rapporti con entrambi i genitori, che del resto si sono
separati in un clima di civiltà e mantengono un reciproco rispetto. Un evento
potenzialmente traumatico e destabilizzante diviene insomma la premessa non
soltanto di una nuova soddisfacente stabilità, ma perfino di un preferibile e
quasi ideale modello di vita familiare. L’evidente sollievo manifestato dai figli
nell’ultimo episodio di fronte alla decisione dei genitori di rimanere separati e
pendolari - contro le sollecitazioni del giudice a riprendere la convivenza -
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sembra in effetti insinuare che non malgrado ma grazie alla separazione dei
genitori sia possibile per i figli crescere bene. Due anni dopo, al termine della
seconda serie, i genitori ritroveranno un’intesa ma preferiranno comportarsi da
amanti clandestini. «Ci sono famiglie felici con i genitori sposati; famiglie felici
con i genitori divisi; famiglie felici con i genitori clandestini; la nostra è la sola
famiglia felice con i genitori sposati, divisi e clandestini»; nelle parole
conclusive dei figli, la pluralizzazione delle realtà familiari è definitivamente
riconosciuta e accettata.
Chiara e gli altri rappresenta una novità nella fiction di fine anni Ottanta per i
suoi contenuti, per il tono lieve e ottimistico con cui tratta di un fallimento
matrimoniale, per il quadro rassicurante che disegna una riorganizzazione
familiare complicata eppure miracolosamente capace di garantire la tenuta dei
rapporti e degli affetti, perfino la felicità. Altre storie di famiglia dello stesso
periodo (ad es. Un milione di miliardi, Raiuno 1989), sia pure senza arrischiarsi in
situazioni così atipiche, cominciano a incorporare separazione e divorzio nel
realistico orizzonte di possibilità, piuttosto che fra le tragedie dell’esperienza
familiare, e introducono le prime figure di Figli sereni di amori smarriti, come la
psicologa Donata Francescato intitolerà un suo libro pochi anni dopo (1994).
La famiglia è destinata a divenire un soggetto protagonista e un contesto
relazionale in crescita nella fiction delle reti private. Si apre infatti con la prima
serie di Casa Vianello (Canale 5, 1988-2005) la stagione delle sitcom familiari, o
domestic comedies, un genere nuovo nella tradizione produttiva italiana – proprio
quello di cui Guido Guarda aveva segnalato l’assenza nella televisione delle
origini - che nello spazio di rappresentazione della famiglia farà rientrare e
consoliderà un modello assai raro nella fiction e certo non in ascesa nella realtà:
la famiglia nucleare stabile.
La commedia brillante (un genere alquanto raro nella fiction domestica) diviene
a sua volta, sul finire del decennio, la formula a cui la televisione pubblica
affida la rappresentazione della tipica ‘famiglia lunga’ italiana (E se non se ne
vogliono andare, E se poi se ne vanno, Raiuno 1988 e 1989), tratteggiata acutamente
nella sua inesausta disposizione a fare da ammortizzatore dei problemi dei figli
adulti.
5. Anni Novanta: ri-definizioni della famiglia
5.1. Madri, padri, figli
L’ingresso negli anni Novanta segna una certa rarefazione delle storie di
famiglia; almeno nell’offerta della televisione pubblica, temi e ambienti familiari
tendono a essere relegati in secondo piano, oppure narrati più distrattamente.
Ma non è senza significato che fra i protagonisti delle storie di fiction si
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estenda il numero dei divorziati, indice (tra le altre cose) di uno slittamento in
avanti della prospettiva temporale nonché dell’interesse della narrazione: ora,
rispetto alla separazione o al divorzio, sembra interessare non tanto il prima - la
crisi coniugale che li precede e li provoca - quanto il dopo, che talvolta può, sia
pure alla lunga, preludere o condurre a una seconda unione, o ad altre scoperte
affettive. Lentamente ma avvertibilmente i percorsi narrativi cambiano
direzione e meta: le storie, le traiettorie di disunione tendono a essere scalzate
da storie e parabole di ricostituzione di coppie e famiglie.
L’elemento che in vari casi accomuna le storie di famiglia dei primi anni
Novanta è una intensa tematizzazione della maternità. Due principali profili
materni si disegnano:
- la madre-coraggio, appassionata e indomita figura di donna che non si lascia
piegare dalla sorte o dal dolore e lotta, sola contro tutti, per la salvezza dei figli:
come in Liberate mio figlio (Raiuno, 1992), film tv ispirato al sequestro Casella;
- la madre desiderante, animata e talora agìta da un intenso desiderio di
maternità irrealizzata, di cui è emblema la protagonista de La storia spezzata
(Raidue, 1992). In questo denso melodramma familiare ricompare la crisi della
coppia, ma in un contesto narrativo in cui entrambe le parabole sono
comprese: quella disgregativa, che porta i coniugi al divorzio, e quella
ricompositiva che approda al ricongiungimento finale della stessa coppia
originaria. Al pari di molte altre storie di famiglia degli anni Novanta, La storia
spezzata si iscrive nella tendenza a rielaborare e riproporre l’ideale
dell’affiatamento di coppia e della felicità domestica entro nuove e più
eterogenee configurazioni familiari: il gruppo di famiglia teneramente
allacciato, immagine con cui la storia si congeda, è formato da due coniugi già
divorziati e dalla figlia nata dal secondo matrimonio di lui.
E’ importante rilevare come, attraverso le figure e le vicende delle protagoniste
femminili di molta fiction, non si esprima soltanto il desiderio di maternità ma,
insieme, una concezione della maternità che non ha più necessariamente radici
nella biologia, nella natura, nel corpo.
Numerose fiction si impegnano infatti a ‘de-naturalizzare’ i rapporti genitorifigli, mediante la narrazione di vicende di maternità (soprattutto) e paternità
che prescindono dalla genitorialità naturale. Testimoniando come sia possibile
dedicare amore e cure a figli non propri, queste storie perseguono forse un
intento di rassicurazione rispetto al timore che i propri figli possano non essere
amati dai nuovi partners dei coniugi separati. Ma ancora più importante
istituiscono il primato degli ‘affetti elettivi’, rispetto alla biologia, nella sfera dei
rapporti di filiazione e, più in generale, di convivenza. In Nuda proprietà vendesi
(Raiuno, 1998), ad esempio, una giovane coppia ‘fa famiglia’ – la cosiddetta
famiglia di elezione - con una coppia di anziani senza figli.
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La scissione della maternità dalle sue radici biologiche comporta
evidentemente, e in qualche misura è al servizio di, una forte sottolineatura
proprio della tensione desiderante e volontaria nei confronti dei figli: mettere
da parte il destino biologico e la determinazione dei legami di sangue significa
voler seguire soltanto la scelta elettiva e consapevole di essere madre.
Il tema materno resta una presenza costante dell’offerta televisiva, ma la fiction
di fine secolo è anche fortemente all’insegna della paternità: che si tratti di
storie di famiglia vere e proprie, o di storie dove il tema familiare è comunque
presente, tutte focalizzano di preferenza sulla figura paterna e sul rapporto
padre-figli: dalla duplice edizione di Un figlio a metà (Raiuno, 1992 e 1995) a
Fuga per la vita (Canale 5, 1993), Amico mio (Raidue e Canale 5, 1993-1998), Sì ti
voglio bene (Raiuno, 1994), Pazza famiglia (Raiuno, 1995-1996), Il Maresciallo Rocca
(Raiuno, 1996-2005).
Questo spunto consente di sviluppare alcune brevi considerazioni su ‘una
strana coppia’ (a riguardarla secondo criteri referenziali) di motivi ricorrenti
nelle storie di famiglia della fiction di fine secolo: i figli e l’importanza dei figli,
non rileva se naturali o adottati o affidati, per la fondazione e la realizzazione di
una autentica pienezza di identità e vita familiare; e la presenza forte della
figura paterna.
Non si erano mai visti tanti bambini sugli schermi televisivi, i legami e i
rapporti intergenerazionali non erano mai stati, forse, tanto esaltati e
tematizzati come in questo periodo. In effetti, è quasi impossibile rinvenire
nelle storie di fiction che si sono succedute dalla fine degli anni Ottanta una
famiglia o una relazione familiare stabile o temporanea, completa o incompleta,
originaria o ricostituita, libera o istituzionalizzata, che sussista in assenza di
figli, o dell’intenso desiderio di averne.
In questo trionfo dell’infanzia sugli schermi è un’Italia vecchia e nuova che si
rivela. Alla base di tutto c’è, naturalmente, quello che si potrebbe definire il
côté infantocentrico della cultura nazional-popolare, l’appassionato e quasi
devoto attaccamento ai figli tradotto come meglio non si potrebbe nel detto
napoletano «i figli so’ piezz’e core», o nella celebre battuta di Filomena
Marturano: «i figli so’ figli». Ma l’Italia antica dei sentimenti puerocentrici e
della dedizione ai figli si salda qui con l’Italia recente del crollo demografico,
dove la rarefazione dell’infanzia e dei figli ne accresce e impreziosisce il valore.
Dunque i figli contano, e si contano numerosi. Malgrado una innegabile
prevalenza di figli unici, la forte restrizione della natalità, che è nei reali
comportamenti demografici e che avevamo ritrovato nella fiction dei primi
anni Ottanta, costituisce un modello assai meno dominante nelle storie di
famiglia di fine secolo: la coppia separata di Chiara e gli altri (Italia 1, 1989-1991)
ha tre figli, e Nonno Felice (Canale 5, 1992-1995) passa da tre a cinque nipotini; i
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partners di Papà prende moglie (Canale 5, 1993) contribuiscono con due figli
ciascuno alla nuova famiglia ricostituita e progettano di avere altri bambini; tre
figli nell’unità di convivenza di Un figlio a metà un anno dopo (Raidue, 1995),
generati da uno stesso padre con due compagne diverse; il Maresciallo Rocca
(Raiuno, 1996-2005) è un vedovo con tre figli, e ne adotterà un quarto.
Accanto ai figli, i padri; la tematizzazione della paternità è un’altra tendenza
che vediamo emergere nella fiction degli anni Novanta, e che attraversa anche
gli anni duemila (ne parlo qui, perché mi interessa mettere insieme i due temi o
i due soggetti - i padri e i figli - e individuare ciò che li accomuna, nel tentativo
di comprendere o almeno ipotizzare il motivo che ne determina o favorisce
l’ascesa nell’immaginario familiare televisivo).
Riguardati sullo sfondo delle trasformazioni che, sul piano sia dei
comportamenti demografici sia dei rapporti di generazione, hanno investito la
famiglia italiana negli ultimi decenni, i padri e i figli sembrano in effetti
condividere un requisito comune: gli uni e gli altri sono, per così dire, risorse
scarse. Sulla scarsità dei figli non c’è bisogno di spendere molte parole; il
precipitoso calo della natalità che ha portato la società italiana al livello di
crescita zero (e oltre) è un fenomeno largamente noto e diffusamente
osservabile nelle sue manifestazioni primarie e nelle sue conseguenze. Quanto
ai padri, anche per loro si può, a buon diritto, parlare di un deficit di presenza
simbolica e materiale che data già da tempo, e che l’instabilità familiare è
suscettibile di estendere e di accelerare.
Ora, dove nella realtà c’è deficit o scarsità, nelle storie di famiglia della fiction
c’è pienezza di risorse: di padri presenti, di figli desiderati. Divenuti una risorsa
scarsa e un’esperienza rara nella vita quotidiana, i figli (e i rapporti padri-figli)
invadono in compenso l’immaginario televisivo; la loro dilagante presenza e la
valorizzazione di cui sono oggetto costituiscono, forse, anche un modo di
venire simbolicamente a patti con la duplice rottura, demografica e relazionale,
verificatasi nella famiglia italiana.
Questa apparente contraddizione, questo scarto forte tra fiction e realtà,
consente di vedere all’opera il modo, o almeno uno dei modi principali in cui
l’immaginario lavora e restituisce la realtà stessa: fantasizzando sulle risorse
scarse, elaborando risarcimenti per le ansietà, colmando simbolicamente i
vuoti.
5.2. La famigliastra
E’ di nuovo una produzione seriale a far slittare ulteriormente la
rappresentazione della famiglia introducendo, in un uno scenario che ormai è
preparato ad accoglierlo, il modello della ‘famigliastra’. Si tratta della serie Papà
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prende moglie (Canale 5, 1993), in otto episodi da un’ora che vanno in onda nella
più familiare delle collocazioni in palinsesto: la prima serata della domenica.
Papà prende moglie narra di due professionisti, una dietologa separata e un
avvocato vedovo, entrambi con due figli, che avendo lo studio nello stesso
stabile finiscono per innamorarsi. La relazione è dapprima tenuta segreta ai
figli; poi necessariamente comunicata, in un clima più imbarazzato e distratto
che teso, quando i partner e soprattutto la donna ritengono che sia giunto il
momento di affrontare ‘la prova familiare’, e cioè di andare a vivere tutti
insieme: «o facciamo una cosa fatta bene tutti insieme come una famiglia vera
oppure basta stop finito» finge di minacciare la protagonista.
Poiché questo avviene già nel primo episodio, è evidente che la serie si
impegna a rendere subito esplicita la propria definizione della famiglia:
convivenza della coppia e dei figli sotto lo stesso tetto, indipendentemente dai
legami istituzionali (i due non sono sposati e lei neppure divorziata) e di
consanguineità (ciascuno ha figli concepiti con altri partner in precedenti
matrimoni), insomma una famiglia aperta.
Gli episodi successivi vedono il composito gruppo convivere nella grande casa
di lei - una palazzina a due piani con giardino - che ora esibisce sulla targhetta
d’ingresso tre diversi cognomi; malgrado le iniziali diffidenze dei figli, le
frizioni tra i fratellastri, qualche volatile tensione nella coppia, il gruppo è
presto destinato a consolidarsi in una circolarità di affetti condivisi e in un
clima di calore e di allegria. Nell’ultimo episodio, avendo lei nel frattempo
ottenuto il divorzio, la coppia si unisce in matrimonio e la storia si chiude
lasciando aleggiare l’eventualità di un quinto figlio in arrivo.
Con Papà prende moglie, la fiction (prima Mediaset, poi Rai con Pazza famiglia)
introduce e normalizza quella che all’epoca veniva definita la famigliastra:
normalizzazione largamente favorita da un lavoro di ridefinizione che, pur
accogliendo molti e radicali cambiamenti della realtà familiare, mantiene un
ancoraggio forte alla tradizione, e in particolare riconferma la validità del
binomio casa-famiglia, e l’importanza della famiglia numerosa.
5.3. La commedia del ri-matrimonio
Il problema della instabilità matrimoniale viene evocato, richiamato,
narrativizzato di continuo nelle storie di fiction degli anni Novanta: alcuni
personaggi esordiscono già nella condizione di single separati; altri attraversano
una crisi coniugale e si separano in corso di narrazione; altri ancora, magari di
non primario rilievo narrativo, sono visti in situazioni di potenziale rottura del
matrimonio. A titolo di annotazione marginale si può aggiungere che, sebbene
non ne sia necessariamente la causa ma a volte la conseguenza oppure
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intervenga dopo, quando la coppia è già separata, nondimeno un elemento
quasi costante nelle vicende di crisi e di disunione è la relazione extraconiugale
o un nuovo rapporto sentimentale, più spesso del marito o ex marito.
Ma laddove l’instabilità coniugale è il tema, la cornice o il sottotesto della
storia, si vede emergere una trama narrativa comune protesa verso una
medesima risoluzione: la ricomposizione della coppia coniugale. Esempio
emblematico: Non lasciamoci più (Raiuno, 1999-2001), dove un avvocato
divorzista persegue e sistematicamente realizza l’intento di ricongiungere le
coppie dei suoi clienti sull’orlo della separazione (le premesse di questa formula
erano state poste già alla fine del precedente decennio dalla fiction Come stanno
bene insieme: Raidue, 1989).
Tutte queste coppie riconciliate realizzano a loro volta la conciliazione tra
l’instabilità del matrimonio - rappresentata come una minaccia ricorrente ma
nella gran parte dei casi transitoria, all’origine di scissioni e separazioni
spessissimo, anche se non sempre, revocate - e il ristabilimento del patto e del
legame coniugale fra partners che riscoprono la validità della originaria scelta
reciproca. Sia perché è resa in tal modo reversibile, sia perché la sua eventuale
irreversibilità non appare più, a sua volta, così devastante, la rottura dell’unione
tende a perdere in buona misura il suo carattere di potente turbativa della vita
familiare.
Qui, come in precedenza, si tratta per molti aspetti del trattamento accorto e
sensibile di una materia problematica e sofferta, qual è la possibilità di rottura
dell’unione coniugale, che persino le società, dove essa è fortemente diffusa nei
comportamenti della popolazione, hanno difficoltà a metabolizzare
culturalmente; si pensi ad esempio a quanto è drammatizzato il tema del
divorzio nella fiction americana. E, a proposito di fiction o cinema americano:
quello che la fiction italiana mette in scena in tal modo è una convenzione
narrativa già largamente utilizzata dalla commedia brillante hollywoodiana degli
anni Trenta, quella che il filosofo Stanley Cavell ha definito «la commedia del
ri-matrimonio» (Cavell, 1999).
5. 4. La work-family
Va infine segnalato l’avvento di un nuova forma familiare, simbolica ed extradomestica, introdotta dalle fiction ambientate nei setting professionali: la workfamily, costituita e tenuta insieme non dai legami di parentela e di affinità ma
dalla consuetudine fra persone originariamente estranee che, lavorando a
stretto contatto e spesso cooperando, imparano a conoscersi e ad accettarsi, e
sviluppano sentimenti di reciproca confidenza e solidarietà, talvolta rapporti
più assidui e profondi che si estendono al tempo non lavorativo. Sono “come
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una famiglia”, diretta da una madre esigente e severa ma tutt’altro che
anaffettiva, le Commesse (Raiuno, 1999-2001), non diversamente dalla piccola
comunità di agenti e funzionari che si ritrovano fianco a fianco, in una
apparente assenza di gerarchie, nell’ambiente di lavoro di Distretto di polizia
(Canale 5, 2000-2012). Nella fiction americana la work-family è comparsa negli
anni Settanta, e ha funzionato come alternativa alla famiglia ‘vera’,
fantasizzazione di un’isola di relazioni affettive e cooperative all’interno delle
organizzazioni, nella quale trovare rifugio e risarcimento dalle crescenti tensioni
della vita familiare. Nella fiction italiana la work-family è piuttosto una seconda
famiglia, un tessuto relazionale non alternativo ma aggiuntivo; oppure, come è
possibile osservare in diversi casi, tra work-family e famiglia vera si danno zone,
potenziali o attualizzate, di intersezione e di sovrapposizione, ogni qualvolta la
coppia amorosa o coniugale è costituita e messa in scena nello stesso ambiente
professionale.
Ma anche la work-family contribuisce al lavoro di ri-definizione della famiglia e
all’enfasi sulla natura elettiva dei legami che ‘fanno famiglia’.
6. Anni duemila: la famiglia-contenitore
La fiction degli anni Novanta, a cui è parso opportuno dedicare un’attenzione
più analitica, ha funzionato come una sorta di laboratorio di sperimentazione
(tema materno e paterno, famigliastra, ricomposizioni, work-family, e inoltre
qualche preludio di convivenze omosessuali come ad esempio in Commesse),
registrando a suo modo e contribuendo comunque a legittimare
nell’immaginario i processi di morfogenesi della famiglia, ovvero la
pluralizzazione delle forme familiari, in atto nella società.
Se si guarda alle storie di famiglia che hanno riscosso più larga e prolungata
popolarità nel corso del Duemila - Un medico in famiglia (Raiuno, 1998-presente),
I Cesaroni (Canale 5, 2006-2014), più di recente Una grande famiglia (Raiuno,
2012-presente) – si può facilmente essere indotti a concluderne per il ritorno
perfino trionfale del modello della ‘famiglia estesa’ nella fiction. Si pensi a Un
medico in famiglia. In questa serie, che fa i suoi esordi alle soglie del Duemila e
diverrà una delle più longeve nella storia della fiction italiana, si mette in scena
la vita di una famiglia multigenerazionale, residente in perfetta armonia nella
villetta suburbana di un immaginario quartiere romano. La famiglia
multigenerazionale è una tipologia pressoché scomparsa nella realtà delle
strutture familiari italiane, ma evidentemente capace di rappresentare un
modello ideale da ‘mondo che abbiamo perduto’, pienamente consonante con
un sentimento nostalgico della famiglia che alberga ancora, presumibilmente, in
larga parte della collettività nazionale. E, a proposito di ‘mondo che abbiamo
perduto’, l’unità di convivenza raccolta sotto lo stesso tetto della villetta
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suburbana citata prima (che in alcune fasi della narrazione arriva a ospitare fino
a 14 individui) costituisce un esempio di trasposizione al tempo presente di una
concezione e una composizione della famiglia tipiche dell’età premoderna:
quando si intendeva per famiglia l’intera comunità co-residente, formata non
soltanto dalle diverse generazioni dei parenti e degli affini, ma anche dai servi e
dai pigionanti. Multigenerazionali e prolifiche, sebbene meno affollate, sono
egualmente le unità di convivenza de I Cesaroni, Una grande famiglia, Questo
nostro amore 70 (Raiuno, 2014)
In realtà non siamo tanto in presenza di famiglie estese nel senso della
tradizione pre-moderna, ma di quello che si presta a essere definito un inedito
tipo di ‘famiglia-contenitore’. Nella famiglia–contenitore, che trova favorevoli
pre-condizioni nel carattere di saga familiare che finiscono per assumere serie
di lunga durata, c’è davvero di tutto, entro e attraverso le differenti generazioni:
matrimoni civili e religiosi, crisi di coppia, divorzi, convivenze etero e omo,
tradimenti, ricomposizioni, amori e sesso tra adolescenti, nascite fuori del
matrimonio, figli naturali e adottati. E’ una sorta di campionario della pluralità
delle forme e dei percorsi di vita familiare.
Se è vero che viviamo in una fase di modernità liquida (Bauman, 2002), la
famiglia-contenitore della fiction potrebbe costituirne una evidenza
emblematica: una famiglia, se non proprio liquida, certo fluida e peculiarmente
aperta, dalla quale si esce e nella quale si entra e rientra a volontà, trovando
sempre sostegno, accoglienza, reciprocità di affetti.
Nella famiglia-contenitore il tasso di nuzialità, a volerlo misurare, risulterebbe
elevatissimo: ci si sposa e risposa di continuo. In Medico in famiglia non a caso
ogni stagione si conclude con una cerimonia religiosa o civile a seconda dello
status e del volere dei membri della coppia. E non è forse senza significato che
i matrimoni civili in Medico in famiglia vengano officiati in casa da altri membri
della famiglia (come in effetti è consentito in Italia da un decreto presidenziale
ma raramente praticato). Anche questa ricodifica in forma privata di un rito
pubblico-istituzionale rientra nel ricco campionario della famiglia-contenitore.
In tema di famiglie estese, comunque multigenerazionali, va anche segnalata la
comparsa, relativamente frequente nelle ultime stagioni, della ‘famigliaimpresa’: La grande famiglia le ha conferito larga notorietà ma non ne costituisce
l’unica incarnazione. Televisione pubblica (Rosso San Valentino, Raiuno 2013;
Una buona stagione, Raiuno 2014) e privata (Le tre rose di Eva, Canale 5 20122015; I segreti di Borgo Larici, Canale 5 2014) attingono a questa tipologia
familiare - artefice, nella realtà, di un peculiare modello virtuoso di piccola e
media impresa tuttora presente in Italia, sebbene progressivamente indebolita –
per raccontare storie, tendenzialmente a tinte forti, di famiglie lacerate da
conflitti inter e intra-generazionali su questioni di eredità o di gestione del
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patrimonio, nonché esposte agli attacchi sleali e talora perfino delittuosi di
rivali esterni. La famiglia-impresa trova a sua volta una variante criminale nelle
storie di mafia, camorra, e ‘ndrangheta, dove più di recente cominciano ad
assumere rilievo protagonistico le famiglie dei boss; si veda Il clan della camorra
(Canale 5, 2013), Le mani dentro la città (Canale 5, 2014), e soprattutto Gomorra la
serie (Sky, 2014).
7. Famiglia, famiglie
Se la confrontiamo con quella che emergeva nella prima età della storia della
televisione, la famiglia italiana rappresentata e raccontata dalla fiction
nell’ultimo quarto di secolo o poco più appare davvero profondamente
modificata. Soprattutto non è più una famiglia, al singolare; la monade nucleare,
che le storie di decenni orsono coglievano preferibilmente nei suoi momenti di
crisi - e seguivano lungo un percorso che se non adduceva necessariamente alla
rottura definitiva portava tuttavia a contemplarne l’abisso - è esplosa. Si è scissa
in una pluralità di famiglie: stabili, mobili, libere, ricostituite, naturali, adottive.
Ciascuna riconosciuta e legittimata, a patto di adempiere a due basilari
condizioni: convivenza sotto lo stesso tetto e presenza di figli (ma, come si è
già detto, maternità e paternità prescindono all’occorrenza dai legami di
sangue).
L’instabilità coniugale ha perso i suoi originari connotati drammatici ed è stata
in qualche misura normalizzata; in particolare, appare dislocata ai margini o
alle spalle delle storie narrate, che ora preferibilmente si impegnano a
ricostruire nuovi affetti, legami, convivenze. Nondimeno l’ideale della famiglia
unita è oggi saldamente installata nella fiction televisiva, forse più che in
passato. Questo ideale non è legato ad alcun modello normativo; qualsiasi tipo
di famiglia è in grado di aspirarvi e di realizzarlo, purché sia costruita sugli
affetti.
Secondo il riconoscimento diffuso degli studiosi, la peculiarità della famiglia
italiana contemporanea risiede nel combinare un elemento di cambiamento
estremo con elementi di moderato e graduale cambiamento, e altri di forte
continuità. A ben guardare, la fiction televisiva ha fatto ricorso a una medesima
combinatoria di elementi, ma rovesciandone il segno: vale a dire che le storie di
famiglia hanno ricodificato in termini di forte continuità proprio l’ambito di
esperienza dove nella realtà si verifica il cambiamento estremo (il crollo della
natalità), e hanno invece tendenzialmente estremizzato aspetti di cambiamento
più moderato e graduale (divorzi, matrimoni civili, gravidanze giovanili…). Il
fatto è che in un genere essenzialmente conservatore - in senso culturale e non
politico-ideologico - qual è la fiction televisiva (delle reti generaliste),
l’accoglimento del nuovo non è mai separato da un’attività negoziale intesa ad
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amministrare e ad ammortizzare lo choc che ogni cambiamento è suscettibile
di provocare.
Il cambiamento, qualsiasi cambiamento, appare tanto più accettabile quanto
più è in grado di esibire legami di forte continuità con il precedente stato di
cose che è intervenuto a modificare; così, mentre dispiegavano, senza esitare ad
attingere a situazioni-limite tutto un repertorio di mutazioni della realtà e della
vita familiare, le storie di fiction hanno provveduto a mantenere ben fermi
alcuni requisiti strutturanti la definizione e l’identità del modello tradizionale
della famiglia nucleare stabile: il binomio casa-famiglia e, ancora più
importante, i figli e l’attaccamento ai figli. E, al di sopra di tutto e autentico
fattore unificante del variegato e assortito campionario familiare: l’importanza
sempre e comunque, il valore della famiglia quale essa sia, purché elettivamente
costituita.
Le storie di fiction hanno raccontato, s’intende non rispecchiato, le
trasformazioni in corso nella famiglia italiana, e in particolare l’instabilità
matrimoniale e le sue conseguenze; e lo hanno fatto costruendo al tempo
stesso e sostenendo l’idea che in qualunque tipo di famiglia possano trovare
soddisfazione le attese di pienezza affettiva, di togetherness e di felicità. «Ci sono
famiglie felici con i genitori sposati; famiglie felici con i genitori separati;
famiglie felici con i genitori clandestini...» (Chiara e gli altri).
In tal modo il mutamento familiare è stato riconciliato, reso meno traumatico,
addomesticato, mentre si lavorava a incorporarlo in qualche misura nel ‘dato
per ovvio’ della vita quotidiana.
Molta fiction italiana degli ultimi anni ha lavorato a diffondere l’idea che è lo
stare insieme, secondo dinamiche di aggregazione (e disaggregazione) di natura
fondamentalmente elettiva, sulla base dei reciproci affetti, delle affinità
sentimentali, degli accordi interpersonali, che ‘fa famiglia’, indipendentemente
dalle forme e dalle parabole della convivenza, nonché dalla natura biologica e
istituzionale dei legami tra i vari membri. E, comunque la si definisca e la si
faccia, la famiglia resta la struttura di relazione primaria per gli individui. Nella
fiction il riconoscimento della morfogenesi delle strutture familiari si
accompagna a una valorizzazione dell’importanza della famiglia in tutte le sue
forme. Non più il modello ideale, la famiglia nucleare classica ha ricevuto un
nostalgico e forse ultimo tributo ne Il matrimonio (Raiuno, 2014) di Pupi Avati:
una storia di famiglia dal sapore d’antan, in cui quietamente si consuma anche
l’intento di raccontare la vita familiare nei termini, ormai alquanto desueti, di
un puro drama of emotions.
Dunque, può essere appropriato concludere questo excursus sulle cangianti
rappresentazioni della famiglia nella fiction italiana parafrasando la formula di
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rito con cui l’araldo di corte annunciava il momento della successione dinastica
nella monarchia francese: «La famiglia è morta. Lunga vita alle famiglie».
Riferimenti bibliografici
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Buonanno M. (a cura di) (1985), Matrimonio e famiglia. Ricerca sui racconti televisivi,
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Saraceno C. (2012), Coppie e famiglie, Milano, Feltrinelli.
Sciascia U. (1965), Vivere insieme, Torino, ERI.
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