Questo
«NON POTEVA
STACCARSENE SENZA
LACERARSI»
Per una genealogia del romanzo familiare italiano
E-book
app
a cura di Filippo Gobbo, Ilaria Muoio, Gloria Scarfone
artiene
a
i
l
a
r
i
a
muoio8
9
g
m
a
i
l.com
201
“Non poteva staccarsene senza lacerarsi” : per una genealogia del romanzo
familiare italiano / a cura di Filippo Gobbo, Ilaria Muoio, Gloria Scarfone. Pisa : Pisa university press, 2020. - (Saggi e studi)
853.909 (WD)
I. Gobbo, Filippo II. Muoio, Ilaria III Scarfone, Gloria 1. Romanzi italiani –
Analisi strutturale
CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa
Membro Coordinamento
University Press Italiane
In copertina: Foto di famiglia scattata da Ernesto Turchet (1943)
© Copyright 2020 by Pisa University Press srl
Società con socio unico Università di Pisa
Capitale Sociale € 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503
Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126 Pisa
Tel. + 39 050 2212056 - Fax + 39 050 2212945
press@unipi.it
www.pisauniversitypress.it
sto
Qu
e
ISBN 978-88-3339-454-1
E
b
oo
Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi
4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633.
Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o
comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica
autorizzazione rilasciata da CLEARedi - Centro Licenze e Autorizzazione per le Riproduzioni
Editoriali - Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano - Tel. (+39) 02 89280804 - E-mail: info@
cleareadi.org - Sito web: www.cleareadi.org
INDICE
a
es
Qu
k
a
pp
oo
to
E
-b
Premessa
5
Introduzione
Ricostruzioni di appartenenze: il romanzo familiare
come categoria problematica e necessaria
Gloria Scarfone
7
Coscienza genealogica e utopia del matrimonio
nei Cento anni di Giuseppe Rovani
Francesca Puliafito
25
Progresso e pessimismo: il romanzo verista
(Verga e De Roberto)
Jobst Welge [traduzione di Ilaria Muoio]
41
Un romanzo in costruzione: I Viceré
e il tema dell’improduttività
Rossana Chianura
75
«Nell’ombra dove seggono le madri».
Una lettura dei Divoratori di Annie Vivanti
Chiara Tognarelli
97
Il genere cadetto. Il romanzo di famiglia come forma simbolica
Lorenzo Mecozzi
121
«NON POTEVA STACCARSENE SENZA LACERARSI»
I Buddenbrook nelle terre dei Viceré.
Sul romanzo di famiglia a partire da Paolo il caldo
Luca Danti
141
Uno scheletro nell’armadio dei Muñoz Muñoz.
Traumi, segreti di famiglia e dinamiche generazionali in Aracoeli
Ivan Pupo
161
Romanzo (non) familiare: la famiglia
quale inconscio collettivo in Piazza d’Italia e Il piccolo naviglio
Veronica Frigeni
179
ppart
iene
ook a
uesto
E-b
4
«Questo è il libro per cui sono venuto al mondo».
L’epopea storico-familiare in Canale Mussolini di Antonio Pennacchi
Simona Di Martino
199
La Gemella H: ideologia e materialismo nel romanzo familiare
Giacomo Tinelli
223
Una storia di ombre. Immaginazione delle origini
e indagine genealogica nel romanzo contemporaneo
Elisabetta Abignente
243
Finzioni che legano: la saga familiare come genere interartistico
e intermediale
Alessio Baldini
265
Genealogia di un romanzo genealogico
Giorgio van Straten
293
Q
a il
Premessa
«Non poteva staccarsene senza lacerarsi». Per una genealogia del romanzo familiare italiano nasce da un progetto comune dei tre curatori
che il sostegno del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica
dell’Università di Pisa ha permesso di concretizzare, prima finanziando il convegno internazionale svoltosi presso l’Ateneo il 14 e il 15 novembre del 2019 e, successivamente, questo volume. Al Dipartimento,
al suo direttore Rolando Ferri e, soprattutto, a Francesca Fedi che ci
ha fatto da mediatrice va dunque il nostro primo e più sincero ringraziamento. Ma molte altre sono le persone che hanno contribuito in
maniera determinante e che qui non possiamo non ricordare; su tutte:
Alberto Casadei, Riccardo Castellana, Valeria Cavalloro, Raffaele Donnarumma e Sergio Zatti. Infine, un grazie speciale va a Marina Polacco,
principale interlocutrice e importante punto di riferimento di questo
nostro progetto.
Filippo Gobbo
Ilaria Muoio
Gloria Scarfone
Que
sto
E-b
ook
app
artie
ne a
ilari
amu
oio8
9 gm
ail.c
om
Que
sto E
-boo
k ap
part
iene
a ila
riam
u
Introduzione
Ricostruzioni di appartenenze:
il romanzo familiare come categoria
problematica e necessaria
Gloria Scarfone
Je me demande […] si, entre tant de sujets possibles
de romans, tentés par de romanciers, le sujet-type
ne serait pas précisément l’histoire d’une famille.
Albert Thibaudet, Le roman domestique, 19241
1.
es
Qu
Mia cara figlia, noi non siam nati per quella che con vista miope consideriamo
la nostra piccola, personale felicità, perché non siamo esseri staccati, indipendenti e autonomi, ma anelli di una catena; e, così come siamo, non saremmo
pensabili senza la serie di coloro che ci hanno preceduti e ci hanno indicato
la strada, seguendo da parte loro rigidamente e senza guardare a destra o a
sinistra, una tradizione provata e veneranda. La tua via, a mio parere, è già chiaramente e nettamente tracciata da parecchie settimane, e non saresti mia figlia,
non saresti nipote di tuo nonno che riposa in Dio, non saresti addirittura un
degno membro della nostra famiglia se pensassi sul serio, tu sola, di seguire con
caparbietà e sventatezza una tua strada irregolare e arbitraria2.
to
ok
bo
E-
In modo eloquente ed icastico, questo noto passo dei Buddenbrook
(1901) riassume alcuni degli aspetti più importanti che contraddistinguono il romanzo familiare come genere letterario storicamente e socialmente connotato: l’idea di una logica superindividuale che trascende
pa
ap
In A. Thibaudet, Le liseur de romans, Paris, G. Cres, 1925, pp. 180-181.
T. Mann, I Buddenbrook, Torino, Einaudi, 2014, p. 134.
ne
rtie
1.
2.
ai
lar
GLORIA SCARFONE
8
l’orizzonte del soggetto; la coazione a ripetere delle dinamiche familiari
inscritte in un determinismo ereditario che frena la volontà del singolo;
la difficoltà cui quest’ultimo va incontro nel suo tentativo di autoaffermarsi al di fuori del nucleo domestico. Ogni «strada» alternativa a quella
di «coloro che ci hanno preceduti» è «irregolare e arbitraria»; intraprenderla significherebbe disconoscere «una tradizione provata e veneranda»
in nome di una «piccola, personale felicità». L’indipendenza, rivendicata e cercata dal protagonista del Bildungsroman, pare negata a priori ai
personaggi del romanzo familiare che, come «anelli di una catena», sembrano ineluttabilmente bloccati all’interno di un meccanismo da cui non
possono uscire, perché senza di loro sarebbe mutilo. «Non siamo esseri
staccati», scrive Johann Buddenbrook nella lettera alla figlia Tony.
Ritroviamo anche qui l’immagine del distacco che dà il titolo a
questo volume: «Non poteva staccarsene senza lacerarsi». L’espressione
è tratta da un passo di Menzogna e sortilegio (1948) di Elsa Morante,
forse il più rappresentativo esempio del genere nel Novecento italiano.
Siamo nelle pagine dell’opera in cui viene ripercorsa, attraverso un’analessi che permette di recuperare le vicende di alcuni dei membri della
prima generazione, la storia familiare di Francesco De Salvi (seconda
generazione), il padre della narratrice Elisa (terza generazione).
Qu
es
to
E-
[Francesco] odiava dunque la sua casa? Non amava più sua madre? ciò non si
può affermare: allorquando, infatti, tornato l’autunno, e riaprendosi i corsi,
egli doveva ripartire dal villaggio, ecco che, d’improvviso, si sentiva stringere il cuore dalla pena. Durante la breve vacanza, il suo desiderio sollecitava
impaziente l’ora del ritorno in città; ma pure, col giungere di quest’ora, a un
tratto la collina della noia e della tristezza si accendeva in una tardiva rivelazione. In guisa d’ami aguzzi, il terribile affetto, i rimorsi, le consolazioni mancate traevano lo studente verso quel monticello sassoso al quale era tornato
con ripugnanza e di cui, per vergogna, usando diversi sotterfugi, mascherava
ai suoi compagni di liceo perfino il nome vero. All’ultimo, invece, oh, gioco
amaro e sorprendente!, egli non poteva staccarsene senza lacerarsi3.
bo
ok
ap
pa
rtie
ne
ai
lar
iam
uo
io8
9g
ma
il.c
om
3. E. Morante, Menzogna e sortilegio, in C. Cecchi, C. Garboli (a cura di), Opere, vol. I,
Milano, Mondadori, 1988, pp. 487-488.
20
12
28
09
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
o
E
-
u
e
st
Q
C’è qui tutto il groviglio sentimentale che, in modo più o meno consapevole e manifesto, affligge i personaggi del romanzo di famiglia fino a minarne l’equilibrio psichico (basti pensare, sempre a proposito di Menzogna
e sortilegio, al delirio finale della protagonista Anna Massia). «The family is
unquestionably the source of much that is good, if also of much we should like
to forget or cancel»4. Il nucleo domestico è oggetto di sentimenti ambivalenti, di una «duplicità senza soluzione: dove l’amore e l’odio, la ripulsa e la
voglia, la colpa e l’innocenza, si intrecciano»5. L’orgoglio ostinato o la vergogna colpevole delle proprie origini si innestano su un legame originario
irriducibile, caratterizzato tanto dall’affetto quanto dall’astio:
oo
k
b
Verso la propria famiglia ella [Lucrezia Uzeda] aveva ancora quel misto d’astio,
d’invidia e di premura, secondo che il vanto di farne parte, il dolore d’averla
lasciata o il sospetto d’esserne ripudiata predominavano nel suo cervello6.
a
pp
a
ien
e
rt
Il passo citato è tratto dai Viceré (1894) di Federico De Roberto, altro importantissimo esempio del genere7. Come nei Buddenbrook, nel
romanzo l’immagine della catena viene impiegata per designare un legame con la propria famiglia (qui, nello specifico, quello matrimoniale)
che imprigiona il singolo come, appunto, una «catena al collo»8. Ogni
tentativo di minare l’equilibrio claustrofobico garantito da questa catena dà origine a un «dramma domestico»9 potenzialmente pericolo-
a
ia
ila
r
io
mu
o
ail
.c
m
8
9
g
4. R. Boyers, The Family Novel, in «Salmagundi», 26, 1974, p. 5.
5. E. Morante, Una duplicità senza soluzione, in «l’Europa letteraria», V, 27, 1964, p. 126.
6. F. De Roberto, I Viceré, Torino, Einaudi, 1990, p. 500.
7. Cfr. almeno M. Polacco, Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni,
D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano (1881-1923), Bologna, Pendragon,
1999, pp. 149-174. P. Pellini, De Roberto e la coazione di Malpelo. Narrazioni familiari dal
verismo al modernismo, in Idem, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo,
Firenze, Le Monnier, 2004, pp. 212-235.
8. De Roberto, op. cit., p. 98. La stessa espressione della «catena al collo» ritornerà verso
la fine dell’opera (p. 543). Ancora, l’immagine compare almeno in altri due luoghi (pp. 315 e
481) in riferimento rispettivamente al primo e al secondo matrimonio di Raimondo Uzeda.
9. Ibid., p. 315. Il riferimento qui è alla decisione presa da Raimondo di lasciare la moglie Matilde per donna Isabella Fersa; decisione in potenza dannosa, perché l’abbandono di
Raimondo avrebbe potuto rappresentare uno scandalo per la nobile famiglia Uzeda, ma che
viene salvaguardata tramite l’annullamento del matrimonio.
9
om
1
20
0
22
8
22
91
10
GLORIA SCARFONE
Questo E-book appartiene a ilariamuoio89 gmail.com 20122809-122
3-080
so. Ogni minaccia esterna è una forza centrifuga cui il nucleo familiare
deve, per perdurare, dimostrarsi impenetrabile. «The underlying assumption in the family novel is that families must somehow find a way to
preserve themselves, that the entirely liberated individual is not often better
off than he would have been had he been able to make his peace in the family»10. Il romanzo di famiglia come genere letterario è al contempo il
racconto di diversi drammi domestici e, soprattutto, del tentativo della
famiglia di resistervi, con tutte le ripercussioni che questa resistenza
comporta sui suoi singoli membri.
2.
La famiglia è uno dei più rilevanti temi del nostro immaginario sociale e letterario, perché ha un duplice volto: è una costante antropologica e, allo stesso tempo, uno spazio profondamente influenzato dalle
dinamiche storiche che ne determinano la configurazione. Si tratta di
un aspetto fondamentale da tenere presente perché il soggetto sociale
che i romanzi di cui parleremo eleggono a protagonista collettivo è un
preciso istituto storico: la famiglia nucleare moderna, sviluppatasi tra
Settecento e Ottocento a causa di radicali ridefinizioni di ordine politico-istituzionale11. Il genere si afferma e si consolida molti anni dopo
quando, durante la seconda metà dell’Ottocento, il romanzo familiare
registrerà il cambiamento facendo della famiglia l’orizzonte in cui esistono (e spesso collassano) tutte le relazioni interpersonali. Vale anche
qui la stessa logica che sorregge un altro sottogenere della tradizione
del novel: «se l’Ottocento è il secolo del romanzo d’adulterio, è perché
in esso si afferma l’istituzione della famiglia borghese e il privato individuale appare costantemente inserito e limitato in un ordine sociale e
in un contesto familiare»12.
10. R. Boyers, op. cit., p. 5.
11. Cfr. su questi aspetti almeno il volume di C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della
famiglia, Bologna, il Mulino, 2013.
12. R. Luperini, Un mutamento di paradigma: il romanzo d’adulterio e la trasformazione del
personaggio femminile fra Ottocento e Novecento, in Idem, Tramonto e resistenza della critica,
Macerata, Quodlibet, 2013, p. 196.
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
La nascita del romanzo familiare è dunque una risposta all’affermazione della società borghese, una risposta in un certo senso anacronistica e in controtendenza: là dove la società rivendica il diritto
del singolo e la libera autoaffermazione dell’individuo, il romanzo di
famiglia racconta le storie di soggetti che non esistono fuori dal nucleo domestico. «In the face of accelerating social change, disjunctions in
the familiar modalities within which ordinary men thought of time, succession, progress, the 19th century indulged a predictable thought almost
pathological nostalgia for the coziness of a family life that was often far
from cozy»13.
Veniamo così al secondo importante elemento che ha guidato le
nostre riflessioni e portato a questo lavoro: la volontà di delineare la
genealogia di un preciso genere letterario. Se pensiamo ai vari generi
letterari, soprattutto narrativi (Bildungsroman, romanzo storico, autobiografia, poliziesco, noir, ecc.), che in diverso modo sono stati oggetto
di ricerche approfondite da parte della critica, la scarsa attenzione dedicata al romanzo familiare sorprende in modo particolare. Si tratta
infatti di una categoria che applichiamo a certi testi in modo quasi intuitivo, a differenza di altre ben più analizzate e discusse; e tuttavia pochissimi sono stati sino a oggi gli studi sul tema, nonostante l’evidente
presenza di una serie numerosa di testi riconducibili al genere. Il pionieristico lavoro della studiosa Yi-Ling Ru (The Family Novel. Toward a
Generic Definition, 1992)14 è stato per anni l’unico punto di riferimento di rilievo nel panorama internazionale. A Marina Polacco e al suo
importante saggio (Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere,
2005)15 va invece il merito di aver portato l’argomento all’attenzione del
dibattito italiano, interrompendo un silenzio pressoché totale da parte
della critica.
D’altro lato, però, oggi sembra profilarsi un cambiamento di rotta,
anche grazie all’influenza degli studi culturali in ambito anglosassone.
Q
ue
s
to
13. R. Boyers, op. cit., p. 6.
14. Y.-L. Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992.
15. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, in «Comparatistica»,
13, 2005, pp. 95-125.
11
o
E
bo
pa
ka
p
b
o EQue
st
12
GLORIA SCARFONE
Ne è un notevole esempio Genealogical Fictions (2015) di Jobst Welge16,
di cui Ilaria Muoio offre qui per la prima volta la traduzione italiana
del terzo capitolo: Progress and Pessimist: The Sicilian Novel of Verismo
(Giovanni Verga and Federico De Roberto). Anche gli studi di Alessio Baldini, che da anni si occupa del tema, vanno oggi in questa direzione,
come il saggio che pubblichiamo viene eloquentemente a sintetizzare.
Dopo aver individuato nel ciclo zoliano dei Rougon-Macquart «il primo
tentativo di costruire una narrazione seriale che si regga sulla storia di
una famiglia» (infra, p. 269) e l’epicentro da cui il nuovo modello narrativo si diffonde, Baldini tenta di definire le caratteristiche distintive
di quel genere interartistico e intermediale che sceglie di chiamare saga
familiare. Si tratta di una proposta teorica innovativa, che ha il merito di
allargare lo spettro di indagine oltre l’ambito letterario, guardando tanto ai romanzi quanto ai film e alle serie televisive. L’idea di fondo è che,
una volta diffusasi nel mondo tramite il modello di Zola ed essersi resa
autonoma rispetto a quest’ultimo, la saga familiare sia divenuta un (se
non il) genere strutturalmente congeniale alla produzione e al consumo
seriale. Il recente successo dell’Amica geniale e di Gomorra – La serie
verrebbero così a confermare il ruolo focale di «uno dei generi narrativi più importanti e popolari non solo nella letteratura italiana, ma
anche nella letteratura mondiale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento» (infra, p. 268).
Infine, va detto che anche in Italia l’interesse per l’argomento appare sempre crescente; a dimostrarlo è stato in particolare un recente
convegno tenutosi a Napoli nel 2016, i cui risultati sono poi confluiti
nel numero speciale della rivista «Enthymema»: Il romanzo di famiglia
oggi, 201717. Il monografico, che raccoglie soprattutto saggi dedicati alla
contemporaneità, è curato da Emanuele Canzaniello ed Elisabetta Abignente, che firma qui un nuovo contributo, preludio di un volume in
preparazione per Donzelli.
16. J. Welge, Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern
Novel, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015.
17. E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017.
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
3.
Ma perché ragionare per generi? Dietro questa scelta risiede la convinzione del significativo potenziale ermeneutico della categoria, il cui
scopo «non è tanto quello di classificare, quanto quello di chiarire tradizioni e affinità, e quindi di portare in luce una grande quantità di rapporti letterari che non si sarebbero altrimenti notati, nell’assenza di un
contesto riconosciuto in cui inserirli»18. Una volta sgombrato il campo
da una concezione tassonomica, sostanzialistica o tanto meno normativa della categoria, essa si presenta come uno degli strumenti più intelligenti per studiare un testo letterario. Ogni teoria dei generi parte
dal presupposto che la forma primitiva in cui il genere inizialmente si
manifesta non può rimanere invariata, ma subisce un’evoluzione proprio perché strettamente legata e influenzata dai cambiamenti storici;
d’altro lato, però, c’è anche qualcosa che permane di questa forma al
di là delle trasformazioni. Non bisogna vedere, cioè, nel forte ancoraggio a un determinato periodo storico un limite della categoria, una
dipendenza cronologica che la renderebbe troppo poco flessibile19. Al
contrario, proprio perché non è né un a priori con funzione regolativa
né la risposta meccanica a un evento della storia, il genere acquista un
forte valore storiografico. Offre cioè la possibilità di istituire un confronto tra un prima e un dopo, guardando ai problemi in un’ottica di
lunga durata che prova a comprenderli e spiegarli senza disconoscerne
la complessità. Di qui deriva l’impostazione cronologica che abbiamo
scelto nell’allestire il volume. Indagare il romanzo familiare attraverso
una prospettiva genealogica significa individuare le costanti e le varianti del genere, comprendendo meglio non solo come si è evoluto il novel
dall’Ottocento a oggi, ma anche come è cambiata la famiglia che questi
romanzi rappresentano.
18. N. Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi, 1969, p. 329.
19. È la critica che viene mossa per esempio da Federico Bertoni nel suo recente
volume Letteratura. Teorie. Metodi. Strumenti, Roma, Carocci, 2018. Bertoni insiste soprattutto sui limiti della categoria, cui preferisce quella di modo, più flessibile rispetto
al genere proprio perché meno compromessa con il periodo storico in cui si sviluppa
(pp. 211-230).
13
Q
14
GLORIA SCARFONE
Che cos’è, dunque, ciò che in italiano viene chiamato romanzo familiare, in inglese Family Novel, in francese roman de famille e in tedesco
Generationenroman (anche per evitare sovrapposizioni con il concetto
freudiano di Familienroman)?20 «La narrazione di una storia familiare lungo più generazioni»21, secondo la definizione di Polacco, che ci pone subito
di fronte a uno dei nodi centrali della questione: la necessità di individuare dei criteri il più possibile rigorosi in base ai quali determinare i testi
che possono essere ricondotti a questo genere. Se infatti è vero che l’ovvia conditio sine qua non di inclusione è la presenza della famiglia «come
protagonista collettivo del racconto» e la conseguente «subordinazione
dell’individuo all’identità familiare collettiva»22, d’altra parte questo non
può essere considerato l’unico criterio discriminante.
Inoltre, a complicare ulteriormente il problema contribuisce la «natura sostanzialmente ibrida e indefinibile» del romanzo familiare, genere
«costituzionalmente “ambiguo”»23, che si contraddistingue proprio per
la sua continua compromissione con generi e modalità narrative diverse.
Lo mostrano bene molti saggi di questo volume, a partire da quello di taglio teorico di Lorenzo Mecozzi, che rilegge la triade di romanzi definiti
da Vittorio Spinazzola antistorici24 (I Viceré, I vecchi e i giovani e Il Gattopardo) alla luce della nozione di romanzo familiare, a sua volta interpretata come forma simbolica speculare e complementare al romanzo di
formazione. Ancora, la compromissione di lunga durata con il romanzo
storico è il filo conduttore che lega molti contributi: da Cento anni (1859)
di Giuseppe Rovani25 preso in esame da Francesca Puliafito, si arriva al
o E-b
Quest
20. S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura di), Opere. 19051908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, Torino, Boringhieri, 1972, pp. 487-474. Cfr. sull’argomento anche lo studio della psicologa J.K. Tabin, The Family Romance. Attention to the Unconscious Basis for a Conscious Fantasy, in «Psychoanalytic Psychology», 15, 2, 1998, pp. 287-293.
21. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., p. 96 (corsivi nel testo).
22. Ibid., pp. 116 e 119.
23. Ibid., p. 115.
24. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990.
25. Già letto come romanzo familiare da M. Polacco, Tra storia e romance: «Cent’anni»
di Giuseppe Rovani, in A. Matucci, S. Micali (a cura di), I colori della narrativa. Studi offerti a
Roberto Bigazzi, Roma, Aracne, 2010, pp. 181-194.
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
15
caso della Gemella H (2014) di Giorgio Falco proposto da Giacomo Tinelli, passando per Piazza d’Italia (1975) e Il piccolo naviglio (1978) di Antonio
Tabucchi messi a confronto da Veronica Frigeni e il Premio Strega Canale
Mussolini (2010) di Antonio Pennacchi esaminato da Simona Di Martino.
L’analisi di Paolo il caldo (1955) di Vitaliano Brancati proposta da Luca
Danti, mentre dimostra l’importanza dei Buddenbrook e dei Viceré come
fonti dell’opera, mette in luce la mistione tra romanzo familiare e Bildungsroman; o meglio, tra romanzo familiare e anti-Bildungsroman. Che questa
sia la forma più tipica assunta dal genere nel Novecento è noto26. Ciò che
però non è affatto scontato – e che costituisce la singolarità di Paolo il caldo – è il modo in cui viene decostruito il modello della Bildung: la logica del
romanzo familiare prevarica su quella di formazione (la coazione a ripetere, cioè, frena ogni tentativo di crescita). Nessun esempio lo mostra meglio
del caso di studio scelto da Ivan Pupo: Emanuele, il protagonista di Aracoeli
(1982) di Morante, è un quarantatreenne solo, fallito e abbrutito, condannato a replicare il vissuto traumatico che ha contrassegnato il rapporto con
i genitori durante l’infanzia e l’adolescenza. Nell’Eden familiare che la diade
madre-figlio si fa carico di simbolizzare «non si cresce»27. Giustapponendo
momenti diversi del vissuto del protagonista, il romanzo di Morante ricostruisce attraverso il montaggio il funzionamento di dinamiche generazionali che si rivelano decisive nell’economia dell’opera.
È un elemento che ci dice una cosa importante su quelli che prima
ho chiamato criteri discriminanti per l’attribuzione di genere: come
Q
mostra Rossana Chianura nel suo saggio sui Viceré, in un romanzo fa- ues
to
miliare i significati genealogici si propagano e, soprattutto, organizzano
la struttura stessa dell’opera. La tripartizione dei Divoratori (1911) di
Annie Vivanti analizzato da Chiara Tognarelli è, nella sua voluta schematicità, un esempio emblematico di come l’alternarsi delle generazioni determini la scansione del testo. Nella vicenda familiare tutta al fem-
26. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, pp. 257-273. Nel momento
storico in cui «la gioventù comincia a disprezzare la maturità e ad autodefinirsi in opposizione ad
essa», non può che emergere «una tradizione di veri e propri anti-Bildungsromane» (pp. 259-260).
27. E. Morante, Aracoeli, in C. Cecchi, C. Garboli (a cura di), Opere, vol. II, Milano, Mondadori, 1990, p. 1193.
E-b
o
rtie
a
p
ap
GLORIA SCARFONE
k
-boo
E
to
s
minile raccontata nei Divoratori ci sono tre madri e ci sono tre «Libri»;
ogni libro narra la storia di un conflitto tra abnegazione materna e
autodeterminazione femminile: una dialettica abortita all’origine a
causa della legge «eterna» e «inesorabile» inscritta nel determinismo
generazionale su cui si regge il libro.
Que
16
4.
La natura polimorfa di questo genere è un problema fondamentale
e una delle principali ragioni cui va addebitata la sua difficile codificazione e canonizzazione:
Since the term came into usage in the nineteenth century, there has been notable
slippage between generic categories of the novel, with family novel sometimes
overlapping with or being included within the novel of manners, society novel,
domestic novel, genealogical novel, family saga, or family chronicle. The fluidity and overlap of these generic categorizations may have facilitated the loss of
the term family novel, as it could be subsumed by other classifications28.
Come si vede, quello che oggi è il più recente contributo sul tema
insiste a ragione sulla fluidità del genere e sul suo conseguente e inevitabile sconfinamento in altre categorie. Proprio per rispondere
a questo rischio di «overlap» diviene allora necessario tracciare una
prima possibile classificazione che, lungi dal voler essere una griglia
tipologica, aiuti a delimitare e delineare il territorio dei testi con cui ci
confrontiamo. Prendo dunque le mosse dalla tripartizione proposta da
Raffaele Donnarumma durante il suo intervento al convegno pisano29:
1. Romanzo a temi familiari. È l’accezione più lasca e debole, con la
quale possono essere designati testi molto diversi: le opere che trattano del conflitto padri e figli (Padri e figli); il romanzo matrimonia-
28. A.A. Berman, The Family Novel (and Its Curious Disappearance), in «Comparative Literature», 71, 1, 2020, p. 5.
29. Cfr. la Premessa. L’intervento era intitolato Coazione a ripetere e declino. Menzogna e
sortilegio come romanzo familiare.
a ilaria
muoio
89 gm
ail.com
20122
809-12
2
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
ok app
artiene
le o d’adulterio (Felicità familiare, Madame Bovary30 e Anna Karenina)31; il romanzo polistorico, che mette contemporaneamente in
gioco le vicende di diverse famiglie (Guerra e pace e Middlemarch);
il romanzo generazionale32, in cui viene scelto un protagonista in
quanto portavoce di una determinata generazione, la quale si definisce in contrasto a quella che la precede (L’amica geniale).
2. Romanzo familiare (in senso ampio). Si tratta di un modello orizzontale ed intensivo in cui i diversi piani generazionali sono
messi sullo stesso livello e il fulcro narrativo è la compresenza
stretta e intima delle relazioni familiari. Non c’è uno sviluppo
diacronico esteso, ma la famiglia riesce comunque a divenire il
protagonista collettivo del racconto grazie alla forza centripeta
attraverso la quale invischia i singoli individui. Alle diverse generazioni invocate sulla scena non è riservato lo stesso spazio
sul piano narrativo; eppure, nonostante questo dislivello, all’interno del nucleo domestico viene a instaurarsi una dialettica tra
generazioni che rende evidente uno scarto temporale e assiologico. Tra i grandi esempi del genere rientrano testi come I fratelli Karamazov33, I Malavoglia34, Gli indifferenti e Il Gattopardo35.
Quest
o E-bo
30. «That Flaubert’s book is in no literal sense a family novel does not diminish for us its
importance in pointing the way to developments in the view of the family which may be followed
in countless novels written since 1850» (R. Boyers, op. cit., p. 7).
31. «Slavists frequently quote the Russian formalist Boris Eikhenbaum’s claim that Anna Karenina is “a combination of the English family novel and the French ‘adultery’ novel”» (A.A. Berman, op. cit., p. 1).
32. Cfr. su questo R. Donnarumma, Hors de la posthistoire. Du roman historique au roman
générationnel, in P. Ouellet (a cura di), L’acte littéraire à l’ère de la posthistoire, Ville de Québec,
Presses de l’Université de Laval, 2017, pp. 89-104.
33. Nel 1985, «the Handbook of Russian Literature entry for family novel unequivocally
listed The Brothers Karamazov as an exemplar of the genre. Russian literature scholars regularly
discuss it as a family novel today» (A.A. Berman, op. cit., p. 4).
34. «L’idea di raccontare una storia di una famiglia attraverso il succedersi delle generazioni è il tratto distintivo del romanzo familiare. Che I Malavoglia siano un romanzo familiare ambientato in una piccola comunità paesana, lo indica soprattutto il fatto che a questa
differenza generazionale si intende dare un significato narrativo» (A. Baldini, Dipingere coi
colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno, Macerata, Quodlibet, 2012, p. 83).
35. A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed
erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 70/71, 2016, pp. 24-66.
17
p
p
ka
o
18
to
GLORIA SCARFONE
s
ue
bo
E
Q
3. Romanzo genealogico36 (ovvero, il romanzo familiare in senso stretto). È un modello verticale ed estensivo, in cui le diverse generazioni sono rappresentate di volta in volta lungo un arco temporale molto vasto. Più che la compresenza conta la successione
delle generazioni, che, secondo Polacco, dovrebbero essere «almeno tre»37. L’estensione temporale controbilancia la chiusura
spaziale sull’orizzonte domestico e il tema dello scorrere del
tempo diventa in sé un elemento significativo: è ciò che permette di misurare lo scarto e il cambiamento – tendenzialmente in
negativo – tra le generazioni. I Buddenbrook, il cui sottotitolo è
non a caso Decadenza di una famiglia, è forse l’esempio più rappresentativo della categoria. Nell’ambito italiano, vi rientrano
almeno Cento anni, I Viceré e Menzogna e sortilegio.
Una suddivisione simile è stata proposta da Kerstin Dell, che ne rende conto parlando rispettivamente di family fiction (1), family novel (2) e
family saga/family chronicle (3)38. Ma il problema della denominazione
è in fondo secondario. L’importante è comprendere che ci sono almeno tre modi diversi in cui possiamo parlare di romanzo familiare. Il
primo è il meno proprio, perché troppo inclusivo. Gli altri due sono i
più pertinenti e spesso finiscono per convergere, sebbene siano in potenza differenti, poiché impostano i rapporti familiari in una relazione
diversa rispetto al tempo e alla trasmissione dell’eredità. Il modo in cui
convergono è chiaro: il romanzo genealogico (3) è anche un romanzo
familiare (2) – il quale è a sua volta, ovviamente, un romanzo a temi
familiari (1). Insomma, proprio perché in grado di abbracciare tanto la
seconda quanto la prima accezione del genere, il modello verticale è il
più rappresentativo.
36. L’espressione «romanzo genealogico» è usata anche da S. Calabrese, Cicli, genealogie e
altre forme di romanzo totale del XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino,
Einaudi, 2003, p. 638. Tuttavia, l’impiego che ne fa il critico è meno circoscritto di quello
proposto qui, perché molto più compromesso con i concetti di ciclo e saga.
37. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., p. 111.
38. K. Dell, The Family Novel in North America from Post-War to Post-Millennium. A Study
in Genre, Saarbrücken, Verlag Dr. Müller, 2007.
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
The family novel is developed along a line through the evolution of several generations. The chronology constructs a long, forward-moving vertical structure.
At the same time, all kinds of conflicts among family members, including those
between fathers and sons, mothers and children, husbands and wives, and between brothers, form what might be described as the horizontal structure. The
plot of the family novel, therefore, is weaved by these two intersected narrative
structures39.
5.
Per i motivi già discussi, va da sé che il modello verticale indicato
da Ru come prototipico contraddistingue soprattutto i primi e più canonici esempi del genere. Castle Rackrent di Maria Edgeworth del 1800
(primo pionieristico romanzo familiare secondo Polacco e Welge)40 e I
Buddenbrook del 1901 segnano in quest’ottica due soglie simboliche: l’emergere del genere e la sua canonizzazione. Una volta avvenuta, «Buddenbrooks serves as an orthodoxy that generates heterodoxy within the
logic of the novel’s form»41.
Quest’eterodossia rispetto alla forma originaria determina anche
la progressiva perdita di identificabilità del genere che, per di più, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento viene sempre
meno praticato: il periodo delle neoavanguardie, del postmoderno e
dell’anti-romanzo non può che guardare con sospetto a un genere così
profondamente compromesso con la tradizione del grande realismo.
«Non esiste romanzo familiare che non sia una narrazione che si possa
ascrivere pienamente alla tradizione del “realismo” per come questa è
nota alla cultura letteraria occidentale dal XVIII secolo»42. Di qui la sua
temporanea eclissi dalla letteratura alta nel Novecento inoltrato, ovve-
39. Y.-L. Ru, op. cit., pp. 36-37.
40. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., p. 96; J. Welge, op.
cit., p. 16 ss.
41. P.D. Tobin, Time and the Novel. The genealogical imperative, Princeton, Princeton University Press, 1978, p. 55.
42. E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente,
E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., p. 93.
19
e
Qu
0
28
12
20
.co
m
GLORIA SCARFONE
20
Qu
es
to
E-
bo
ok
ap
pa
rti
en
e
a
ila
r
iam
uo
io8
9
gm
ail
ro nel momento storico in cui quella tradizione è rifiutata con forza.
Si pensi soltanto ai casi di Menzogna e sortilegio e del Gattopardo: due
romanzi familiari tacciati di anacronismo proprio a causa della loro
presunta aderenza ai paradigmi ottocenteschi43.
Ma «nella storia delle forme letterarie nessuna fine è davvero
definitiva. Tanto è vero che, dopo quasi mezzo secolo di sopravvivenza
carsica e poco significativa, il genere della saga familiare torna a
imporsi sulla scena (questa volta “globale”), soprattutto a partire dallo
straordinario successo di Cien años de soledad (1967) di Gabriel García
Márquez»44. Con quella che ormai oggi possiamo a giusto titolo chiamare ipermodernità si assiste a un crescente interesse per il romanzo
familiare45. Tra le principali ipotesi di questa riemersione c’è probabilmente una ragione sociologica, per certi aspetti speculare a quella che
determinò nell’Ottocento la nascita del genere: la crisi della famiglia
nucleare – di cui oggi tendenzialmente sentiamo parlare nei termini
di una “crisi della famiglia tradizionale”. La letteratura simbolizza così
un nuovo modo di concepire la vita domestica e le relazioni familiari,
e lo fa cercando «una forma simbolica adatta a potenziare e sfruttare
il nuovo dispositivo del realismo»46. Ecco dunque una seconda ragione, più strettamente formale, cui la rinata centralità del genere può
essere ricondotta. È un aspetto che emerge benissimo dal contributo
di Abignente, che prende in esame soprattutto testi usciti durante gli
anni Zero. Il genere ibrido che la studiosa chiama memorie di famiglia trova la sua ragione in un’indagine genealogica compiuta in prima
persona da chi scrive la storia e portata avanti tramite un recupero
43. Sulle critiche mosse al «romanzo inspiegabile» di Morante cfr. la Fortuna critica di
C. Cecchi e C. Garboli posta in appendice ai Meridiani (Opere, vol. II, cit., pp. 1658-1678).
Sul caso editoriale del romanzo di Lampedusa e sul rifiuto da parte di Elio Vittorini cfr.
E. Esposito, Il caso «Gattopardo», in Idem, Elio Vittorini. Scrittura e utopia, Roma, Donzelli,
2011, pp. 169-178.
44. M. Polacco, La costruzione della memoria: il racconto delle generazioni e la «fine dell’esperienza», in «Compar(a)ison», 1-2, 2005, p. 46.
45. Cfr. S.J. Burn, “Family”, in D. O’Gorman, R. Eaglestone (a cura di), The Routledge Companion to Twenty-First Century Literary Fiction, London and New York, Routledge, 2019,
pp. 147-158.
46. E. Canzaniello, op. cit., p. 109.
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
di fonti materiali determinante: diari, lettere, fotografie e documenti
ufficiali diventano il filtro attraverso cui recuperare la continuità della
memoria familiare individuale e collettiva. La storia che questo filtro
permette di narrare aspira a una pretesa di verità proprio perché soggettiva e parziale, e cioè fondata sullo scrupolo documentario dell’io.
Come si vede, ci troviamo di fronte ad alcuni contrassegni tipici del
nuovo realismo47.
Così, il romanzo familiare ipercontemporaneo sembra recuperare una delle più importanti dimensioni da cui sono emerse le prime
scritture genealogiche: l’attitudine archivistica e documentaria dei trecenteschi libri di famiglia48. Solo che ciò che lì aveva una finalità eminentemente pratica viene ora piegato a uno scopo conoscitivo: la testimonianza autoriale di Giorgio van Straten che chiude questo volume
ne è la riprova. Attraverso un singolare e involontario gioco di specchi,
lo scrittore conferma l’ipotesi di Abignente, che non a caso si sofferma
a sua volta sul romanzo familiare di van Straten, Il mio nome a memoria
(2000). Qui è l’interesse per l’indagine genealogica a innescare il tentativo di recupero memoriale: il «romanzo famigliare/genealogico» è per
lo scrittore lo «strumento della ricerca e della ricostruzione di un’identità» attraverso «la ricostruzione di un’appartenenza» (infra, pp. 295296) che implica una fortissima «responsabilità morale nei confronti
dei propri personaggi» (infra, p. 298).
«Io sono le storie che ho raccontato, il lento cammino di un nome»49,
scrive l’autore-narratore del Mio nome a memoria. In un modo diverso
rispetto agli esempi canonici del genere50, ma nondimeno in continuità
con esso, l’identità viene concepita come profondamente relazionale51;
ok app
o E-bo
Quest
47. Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, il Mulino, 2014.
48. Sui quali cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., pp. 98102.
49. G. van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000, p. 294.
50. «In Buddenbrooks, characterization is never individual, but familial; recurrence, rather
than occurrence, governs the selection and arrangement of the character’s physical, social, and
mental qualities» (P.D. Tobin, op. cit., p. 65)
51. «Family relations come more and more to be treated as a function of individual psychology» (R. Boyers, op. cit., p. 8).
21
a
to
Ques
GLORIA SCARFONE
22
o
E-bo
è quella in parte già scritta da «coloro che ci hanno preceduti e ci hanno
indicato la strada»52:
ne a
artie
k app
Ma è possibile appartenere solo a sé stessi? È possibile un’identità che non
nasca anche dalle relazioni con gli altri, con una comunità di persone? Quel
nome che mi portavo dietro [van Straaten] come ultimo discendente di
Emanuel, figlio di Hartog, poteva essere un tramite per aiutarmi anche a
definire me stesso? (infra, pp. 295-296)
io8
muo
ilaria
52.
T. Mann, op. cit., p. 134 (cfr. il brano citato all’inizio).
RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE
Bibliografia
ok
st
o
E
-bo
ien
appa
rt
Abignente E., Canzaniello E. (a cura di), (2017), Il romanzo di famiglia oggi/ Le
roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Baldini A., (2012), Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno,
Macerata, Quodlibet.
Que
Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo
modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria»,
70/71.
Berman A.A., (2020), The Family Novel (and Its Curious Disappearance), in «Comparative Literature», 71, 1.
Bertoni F., (2018), Letteratura. Teorie. Metodi. Strumenti, Roma, Carocci.
Boyers R., (1974), The Family Novel, in «Salmagundi», 26.
Burn S.J., (2019), “Family”, in D. O’Gorman, R. Eaglestone (a cura di), The
Routledge Companion to Twenty-First Century Literary Fiction, London-New
York, Routledge.
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale del XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV., Torino, Einaudi.
Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit.
De Roberto F., (1990), I Viceré, Torino, Einaudi.
Dell K., (2007), The Family Novel in North America from Post-War to Post-Millennium. A Study in Genre, Saarbrücken, Verlag Dr. Müller.
Donnarumma R., (2017), Hors de la posthistoire. Du roman historique au roman
générationnel, in P. Ouellet (a cura di), L’acte littéraire à l’ère de la posthistoire,
Ville de Québec, Presses de l’Université de Laval.
Donnarumma R., (2014), Ipermodernità, Bologna, il Mulino.
Esposito E., (2011), Elio Vittorini. Scrittura e utopia, Roma, Donzelli.
Freud S., (1972), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura
di), Opere. 1905-1908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, Torino, Boringhieri.
Frye N., (1969), Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi.
Luperini R., (2013), Tramonto e resistenza della critica, Macerata, Quodlibet.
23
GLORIA SCARFONE
24
Mann T., (2014), I Buddenbrook, Torino, Einaudi.
Morante E., (1964), Una duplicità senza soluzione, in «l’Europa letteraria», V, 27.
Morante E., (1988), Menzogna e sortilegio, in C. Cecchi, C. Garboli (a cura di),
Opere, vol. I, Milano, Mondadori.
Morante E., (1990), Aracoeli, in C. Cecchi, C. Garboli (a cura di), Opere, vol. II,
Milano, Mondadori.
Moretti F., (1999), Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi.
Pellini P., (2004), In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier.
Polacco M., (1999), Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni,
D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano (1881-1923), Bologna, Pendragon.
Polacco M., (2005), La costruzione della memoria: il racconto delle generazioni e la
«fine dell’esperienza», in «Compar(a)ison», 1/2.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Polacco M., (2010), Tra storia e romance: «Cent’anni» di Giuseppe Rovani, in
A. Matucci, S. Micali (a cura di), I colori della narrativa. Studi offerti a Roberto
Bigazzi, Roma, Aracne.
o
oE
-b
st
Qu
e
Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter
Lang.
Saraceno C., Naldini M., (2013), Sociologia della famiglia, Bologna, il Mulino.
Spinazzola V., (1990), Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti.
van Straten G., (2000), Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori.
Tabin J.K., (1998), The Family Romance. Attention to the Unconscious Basis for a
Conscious Fantasy, in «Psychoanalytic Psychology», 15, 2.
Thibaudet A., (1925), Le liseur de romans, Paris, G. Cres.
Tobin P.D., (1978), Time and the Novel. The genealogical imperative, Princeton,
Princeton University Press.
Welge J., (2015), Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change
in the Modern Novel, Baltimore, John Hopkins University Press.
Coscienza genealogica e utopia
del matrimonio nei Cento anni
di Giuseppe Rovani
Francesca Puliafito
I Cento anni di Giuseppe Rovani, pubblicati in edizione definitiva
in due volumi nel biennio 1868-18691, nascono notoriamente come
un poliedrico romanzo dal genere composito, un’opera definita solitamente dalla critica in modo piuttosto sfuggente. Come preliminare
riflessione per verificare un innesto del romanzo rovaniano all’interno
del filone del romanzo familiare, ci si domanda innanzitutto a quale
tipologia di romanzo possano ascriversi i Cento anni.
Sicuramente la componente del romanzo storico diventa a tratti
preponderante: l’uso delle fonti e dei documenti d’archivio intesse costantemente la trama, creando una sottile dialettica tra due poli di manzoniana memoria, storia e invenzione. Nelle esplicite intenzioni espresse
dall’autore nel Preludio già emerge una particolare figura di romanziere
che potremmo definire archivista, compulsatore delle testimonianze semidimenticate e rievocatore di «[…] fatti e costumi e accidenti caratteristici che non ottennero ancora posto in libri divulgati, e di cui la notizia
rimase o nella tradizione orale che ancora si può interrogare, o in carte
manoscritte, […]» (CA, vol. I, pp. 13-14): non si eccede forse affermando
che l’essenza stessa dell’intero romanzo sia racchiusa in questa mai ap-
to
ue
s
Q
1. G. Rovani, Cento anni. Romanzo ciclico, Milano, Stabilimento Redaelli dei fratelli Rechiedei, 1868 (vol. I), 1869 (vol. II) (d’ora in avanti abbreviato CA). La prima edizione, in
cinque volumi, uscì invece tra il 1859 e il 1864: Cento anni. Libri XX, Milano, a spese dell’autore, tipografia Wilmant, 1859 (voll. I-II-III); Milano, G. Daelli e C., tipografia Bozza, 1864
(voll. IV-V). Il romanzo venne pubblicato anche in puntate nelle appendici della «Gazzetta
di Ufficiale Milano» (poi «Gazzetta di Milano»), con discontinuità, dal 31 dicembre 1856 al
31 dicembre 1863. In mancanza di un’edizione critica, per le citazioni si farà riferimento
all’edizione del 1868-1869, che attesta l’ultima volontà dell’autore.
E-
b
oo
k
a
ail.com
20122
809-12
23-080
9-84
FRANCESCA PULIAFITO
ok app
artiene
a ilaria
muoio
89 gm
pagata ansia di nascosta e inedita verità. Attraverso una narrazione che
copre un arco cronologico di circa un secolo, dal 1750 al 1850, i Cento
anni iniziano così a intrecciare un rapporto con alcuni elementi tipici
del romanzo di famiglia: nel suo carattere altrettanto ibrido e ambiguo,
sintesi di una mescolanza di generi, il romanzo di famiglia infatti «è
sempre, almeno in parte, un romanzo storico: parte da un tempo remoto, lontano dal presente, per arrivare alla contemporaneità ‒ e alla
coincidenza tra tempo della storia e tempo della scrittura»2. Le vicende
delle generazioni protagoniste dei Cento anni, un po’ come accadeva
nell’antico genere medievale dei libri di famiglia, si sviluppano «nello
spazio di confine tra documento e rielaborazione fantastica»3: a questo
proposito si potrà citare, tra possibili e numerosi esempi, il caso emblematico di donna Paola Pietra, monaca del convento milanese di Santa
Radegonda, le cui romanzesche vicissitudini si mescolano alle informazioni tramandate da una cronaca manoscritta (attualmente conservata
presso la Biblioteca Nazionale Braidense) compilata da un frate francescano vissuto nel XVIII secolo, Benvenuto Silvola4.
Ma a questo aspetto andranno aggiunti altri punti di tangenza con
il genere del romanzo familiare. La personale ricerca storica da compiersi nella sua opera, scrive ancora Rovani nel Preludio, attraverserà il
secolo «[…] scegliendo i punti salienti dove le prospettive si trasmutano
allo sguardo, e dove si presenta qualche elemento nuovo di progresso
o di regresso, di bene o di male, che dalla vita pubblica s’infiltri nella privata» (CA, vol. I, p. 13): proprio in questa dichiarata selezione di
sintomatici avvenimenti, e nella conseguente evidenziazione dei punti
nodali cha scandiscono un’epoca, si rintraccia una ulteriore comune ca-
2. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica»,
13, 2005, pp. 114-116.
3. Ibid., p. 102.
4. Padre Benvenuto Silvola da Milano, Miscellanea, proveniente dal convento di
Sant’Ambrogio ad Nemus, rilegata nel 1766, tomo XIII, cc. 22-26 (Succinto Rapporto degli
avvenimenti della Signora Donna Paola Pietra, uscita dal Monastero di S. Radegonda di Milano
nell’anno 1730). Per una trattazione dell’argomento ci si permette di rimandare al nostro
recente studio Un mosaico di fonti. Cento anni, la Storia secondo Rovani, Novara, Interlinea,
2020, pp. 23-86.
Quest
o E-bo
26
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
27
ratteristica del romanzo di famiglia, un genere che aspira a una visione
totalizzante ed enciclopedica dove «tutta la realtà è compendiata nella rappresentazione di un segmento particolare, investito però di una
straordinaria capacità significativa»5.
Da questo punto di vista, al genere letterario del romanzo ciclico
appartengono sicuramente anche i Cento anni, come testimonia il sottotitolo che compare però soltanto nell’edizione definitiva. La continuità tematica non va ricercata tanto in romanzi successivi (come La Libia
d’oro, pubblicata in volume nel 1868, dove pure attraverso la tecnica
balzachiana del système des personnages reparaissants ritornano in modo
molto sbiadito e superficiale alcuni personaggi: Andrea Suardi, figlio del
Galantino, e Mauro Bichinkommer, il falsificatore di grafie), ma piuttosto nello stesso romanzo, concepibile come frutto di un accostamento
all’interno di un’unica grande opera di diversi racconti collegati attraverso il binario genealogico percorso dai personaggi, ossia mediante la
riapparizione di alcuni identici e ben definiti caratteri ereditari.
Nell’esigenza di interpretare e rimodellare gli eventi storici, Rovani
crea un ponte tra vita pubblica e vita privata del personaggio, muovendosi sulla scia balzachiana tracciata dalla Comédie humaine e resa
esplicita nell’Avant-propos dell’opera6. Si tratta sostanzialmente di un
argomento che trova le sue radici nel panorama letterario europeo dei
primi decenni del secolo e nello specifico nelle pagine del romanzo
scottiano, dove il romanziere storico si trova di fronte a ostacoli che
Stefano Calabrese definisce «[…] di natura eminentemente sintattica,
come conseguenza del fatto che gli intrecci cominciano a evidenziare un equilibrio tra individuo e contesto storico, collocando l’impulso
ad agire nello spazio interstiziale tra l’uno e l’altro». Una questione di
natura sintattica perché «il problema dell’integrazione dell’individuo
Questo
nell’insieme sociale consiste infatti nel connettere l’azione del singolo
5. M. Polacco, op. cit., p. 108.
6. Cfr. H. de Balzac, Avant-propos, in Idem, La Comédie Humaine, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1951, vol. I, pp. 12-13: «En saisissant bien le sens de cette composition,
on reconnaîtra que j’accorde aux faits constants, quotidiens, secrets ou patents, aux actes de la vie
individuelle, à leurs causes et à leurs principes autant d’importance que jusqu’alors les historiens
en ont attaché aux événements de la vie publique des nations».
E-b
FRANCESCA PULIAFITO
28
agli eventi collettivi». Proprio a questo contesto è strettamente legata
l’ottocentesca diffusione delle strutture romanzesche cicliche di ascendenza realista francese, «galassie testuali sistemiche in cui le vicissitudini di un individuo risultano sovradeterminate dal contesto storico»7.
Ma se da un lato i Cento anni guardano al modello realista balzachiano affascinati da un sommo esempio di étude de mœurs, dall’altro lato è
chiaro che le intenzioni e le ambizioni rovaniane superano ampiamente
i concreti risultati letterari, non arrivando pienamente a innestarsi
all’interno del filone del genere del romanzo contemporaneo sociale. Le
fragilità del romanzo di Rovani sono riconducibili anche al retaggio del
roman-feuilleton, un genere che coerentemente rispondeva all’esigenza
di ciclizzazione imposta dal mercato editoriale8. Una lunga e irregolare vicenda redazionale accompagna l’uscita dei Cento anni in puntate
nella «Gazzetta di Milano», dal 1856 al 1863: le caratteristiche del romanzo d’appendice ben si conformano a un’intricata trama di episodi
che coinvolge quattro generazioni, ma al tempo stesso contribuiscono
alla mancata profondità d’analisi dei rapporti tra individuo e società e
incidono sulla caratterizzazione del profilo dei personaggi rendendolo
tendenzialmente stereotipato.
Il tema della memoria è un elemento strutturale del romanzo di famiglia, perché conservare il ricordo delle generazioni passate significa
stabilire una continuità con quelle attuali e consentire all’identità familiare di sopravvivere contro il potere usurante del tempo9. Nei Cento
anni vi è un personaggio d’invenzione che possiede la precisa funzione
di mantenere in vita la memoria delle quattro generazioni attraverso
una prospettiva unificante: Giocondo Bruni, figlio della ballerina Margherita Gaudenzi e del violinista Lorenzo Bruni, un narratore di secondo grado «che non avrebbe mai dovuto morire; quella storia animata ed
ambulante che il lettore conosce, e che ci raccontò tante e tante cose che
lar
n
ea
i
art
ie
pp
o
ok
a
Qu
e
st
oE
-b
io8
9
o
iam
u
7. Cfr. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in
F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-614.
8. Cfr. ibid., pp. 614 ss.
9. Cfr. M. Polacco, op. cit., p. 120.
g
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
non stanno nei libri, perché i libri troppo spesso sdegnano di raccogliere gli sparsi minuzzoli del vero, senza dei quali il vero non è però mai
completo» (CA, vol. I, p. 10). Il tipico intercalare scelto per caratterizzare questo curioso e longevo testimone oculare è infatti «La mia memoria
è una valle di Giosafat tutta affollata di maschere» (CA, vol. I, p. 23), dove
le maschere simboleggiano gli innumerevoli volti che si avvicendano nel
romanzo, bisognosi di essere riportati alla luce, mentre la valle biblica
metaforicamente rappresenta la volontà di dare un giudizio di fronte al
compimento dei più salienti eventi storici. Giocondo Bruni è inoltre al
centro di una topica scena del romanzo che vale la pena di ricordare,
nel primo capitolo del Libro decimottavo, ambientata nella sua casa:
«come in un consulto di famiglia», si trovano riuniti inaspettatamente
«vivi e morti», ossia, oltre all’anziano Bruni, i giovani Andrea Suardi e
Giunio Baroggi, insieme ai ritratti della ballerina Margherita Gaudenzi, della contessa Clelia e del conte colonnello V. suo marito, di donna
Paolina, ai quali si aggiunge infine la maschera-ritratto raffigurante il
tenore Angelo Amorevoli che il violinista Lorenzo Bruni aveva fatto
realizzare per ingannare la contessa. Si tratta forse dell’unico momento
in cui quasi tutti i principali personaggi si incontrano e, anche se soltanto per un istante, improvvisamente prendono coscienza delle proprie linee genealogiche e percepiscono di conseguenza una perturbante
sensazione di disorientamento.
Q
ue
st
o
E-
bo
Il filo rosso del testamento sottratto al defunto marchese F.10 da
parte del Galantino, un furto in realtà commissionato dal fratello del
marchese, il conte Lodovico F., è il pretesto grazie al quale è possibile
giungere fino all’epilogo della vicenda narrata nei Cento anni. Due linee genealogiche verticali e distinte, infatti, rispettivamente femminile
e maschile, convergono verso il personaggio di Giunio Baroggi, ultimo legittimo erede della discendenza del marchese, nonché alter ego
dell’autore. D’altronde viene esplicitata già nel Preludio la volontà di
10. Verosimilmente l’abbreviazione si riferisce al nome di un’antica famiglia di ricchi
commercianti milanesi, i Fagnani. Cfr. G. Rovani, Cento anni, B. Gutierrez (a cura di), Milano, Rizzoli, 1934-1935, vol. I, p. 343 (note 1 e 3).
29
ok
ap
pa
rt
30
FRANCESCA PULIAFITO
rendere attori del romanzo le famiglie che compongono le generazioni,
«cogliendo da ciò occasione di tener dietro agli svolgimenti graduali di
tutte le parti che costituiscono la civiltà di un paese» (CA, vol. I, p. 14).
Questo in sintesi il quadro genealogico. La linea maschile ha origine con la figura del marchese F., dalla cui unione con Celestina Baroggi nasce Giulio Baroggi, padre di Geremia e nonno di Giunio; la linea
femminile invece ha origine con la contessa Clelia, sposata con il conte
V. ma amante del tenore Amorevoli, dalla cui unione nasce Ada, moglie del conte Achille S., madre di Paolina e nonna di Giunio Baroggi.
A questi anelli genealogici ne va aggiunto un altro collaterale, quello
del conte Alberico B., sposato con la giovane contessa Stefania Gentili
e appartenente al ramo del marchese F. in qualità di nipote del conte
Lodovico.
Ogni personaggio principale dei due rami maschile e femminile viene scelto come protagonista di un’epoca: all’anno 1750 (Libro primo Libro quinto) appartengono il marchese F., la contessa Clelia e il tenore
Amorevoli; all’anno 1766 (Libro sesto - Libro nono) donna Ada e Giulio
Baroggi; al periodo 1797-1814 (Libro decimo - Libro decimosettimo)
donna Paolina e Geremia Baroggi; agli anni 1820-1849 (Libro decimot-
Que
sto
E-b
ook
ap
Questo E-book appartiene a ilariamu
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
tavo - Conclusione, ultimo capitolo ambientato nel 1862) Giunio Baroggi, insieme a Stefania Gentili e al conte Alberico B.
In alcuni passi eloquenti del romanzo, come la scena del «consulto di famiglia» nel Libro decimottavo, l’autore crea un epifanico momento d’incontro tra le diverse genealogie. Ciò avviene in particolare
nel caso delle tre donne protagoniste del ramo femminile: per esempio, nel sesto capitolo del Libro undecimo, sullo sfondo della casa del
conte Achille S. si avvicendano le minute descrizioni della contessa
Clelia, della contessina Ada e di donna Paolina, rispettivamente di settantadue, quarantasei e diciassette anni. Ada, intenta nell’esecuzione al
cembalo della Marsigliese, nonostante il tempo ormai trascorso, conserva ancora alcuni tratti della bellezza giovanile che la accomunano
alla figlia Paolina, nel cui nome rivive non casualmente la memoria
della benefattrice donna Paola Pietra. Per quanto riguarda la nonna,
invece, sembra che la «rigida opacità della cartapecora» abbia preso
il sopravvento, rispecchiando il suo autentico carattere da «vegliarda
severa» e assommando nei tratti fisici tutta la sua esperienza vissuta:
«Tutto quel complesso poi di disegno, di colore, d’espressione, d’atteggiamento era tale, che imponeva altrui un rispetto, il quale sarebbe
stato disgustoso e pesante, se dopo il primo urto, non vi si fosse letto
il riassunto di un’intera vita di pensieri, di sventure e d’affanni» (CA,
vol. II, pp. 70-77). Questo quadro d’unione che si sofferma sul ramo
femminile della discendenza di Giunio Baroggi è significativo: come
teorizza Yi-Ling Ru nel suo pionieristico studio per una definizione
del canone del romanzo familiare, accanto al realismo e all’ordinata
scansione cronologica della narrazione come strumento di verosimiglianza, l’attenzione per la rappresentazione dei rituali e degli incontri della comunità familiare ha la conseguenza di riflettere le origini
di una famiglia di modello tradizionale e rafforzarne il consapevole
senso di appartenenza a una precisa generazione11.
11. Cfr. la ricostruzione del pensiero di Ru in E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/
Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, pp. 93-95.
31
FRANCESCA PULIAFITO
32
12.
13.
Ibid.
Ibid.
ien
ppart
ook a
to E-b
Ques
La figura dell’anziana contessa Clelia incarna nei confronti della
giovane nipote Paolina il tipico ruolo del pater familias. Molto più severa della madre, la nonna si sdegna innanzitutto per i comportamenti eversivi della nipote (anticipati nella descrizione delle insolite pose
maschili assunte durante la scena del raduno familiare delle tre donne),
che, in qualità di allieva emerita dotata di «un talento drammatico assai distinto», accetta di essere protagonista della commedia Il dragone
benefico del professor Mirocleto Ghedini: non appena scorge «quel diabolico angelo di diciassette anni in quel costume provocatore», donna
Clelia pronuncia risoluta il suo veto. Ancora secondo la teorizzazione
di Yi-Ling Ru, affinché si possa parlare di romanzo familiare è necessario che i conflitti generazionali siano vera e propria materia del racconto, trasformandosi in un movente che genera lo sviluppo della trama e
orienta le azioni dei personaggi12. Inoltre, come esattamente esemplifica il caso della contessa Clelia e della nipote Paolina, a livello formale
nel romanzo familiare si verificano un movimento verticale, sulla linea
delle discendenze, e un movimento orizzontale, sulla linea dei conflitti
tra membri appartenenti allo stesso clan, dove la dimensione che conta
non è individuale ma collettiva13.
Tuttavia il disaccordo per il costume da dragone indossato da Paolina è solamente un iniziale sintomo della relazione familiare avversa
tra due generazioni troppo distanti. Lo spirito emancipato della nipote
si manifesta apertamente nel momento in cui si tratta di scegliere un
compagno: Paolina si innamora di un uomo di condizione non nobile,
Geremia Baroggi, capitano di un reggimento di dragoni. La contessa
Clelia, dopo aver concesso il matrimonio con un assenso momentaneo,
ben presto converte il proprio sentimento pietoso in tenace orgoglio
di sangue e volontà di vendetta contro chi ha saputo soggiogarla. La
contessa, immemore del suo passato, è un personaggio ormai inaridito
negli affetti, reso crudele dall’età avanzata e insterilito dai suoi studi
scientifici, mentre Rovani si schiera convintamente dalla parte delle ge-
Qu
e
s
t
o
E-bo
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
o
k
a
p
parti
nerazioni successive: «[…], non ci par vero che dovesse venir il tempo
d’odiarla; di odiarla, sì, perchè noi odiamo con tutta l’enfasi di un odio
implacabile tutti coloro che vogliono distruggere, colla violenza di una
falsa legge, l’unica legge legittima della natura che suscita gli affetti, e
li riscalda e s’affanna perchè trovino il loro adempimento. Ah! vecchia
contessa scellerata, […]» (CA, vol. II, pp. 215-216). Sciaguratamente il
Baroggi dovrà lasciare Milano per Piacenza. La nonna, figura dominante della casa, avvia così una lenta tortura psicologica ai danni della
nipote, pretendendo di leggere preventivamente e censurare tutta la
corrispondenza scambiata tra i due amanti, sprofondati nella frustrazione e nel dolore, oltre che nel falso sospetto di essere stati vicendevolmente traditi (CA, vol. II, pp. 217-220). Paolina, simbolo della donna
indipendente ed emancipata dall’opprimente autorità della famiglia,
arriva a una soluzione estrema: fuggire e ricongiungersi con l’amante,
dopo essere riuscita a consegnare un breve messaggio di avviso in cui si
chiarificano i ruoli dei personaggi e si riconosce il pensiero dell’autore:
ene a
89
il
a
r
i
a
m
uoio
gmail.
c
o
m
20122
8
0
9
12230
8
0
9
8423
Per Dio, vorrò ben vedere sino a che punto saprà giungere la crudeltà di
una vecchia testa piena di pregiudizj. Che nobiltà, che ricchezze, che leggi,
che autorità! Soltanto il mio cuore ha la autorità legittima di comandarmi
di amarti e di seguirti e di distruggersi per te. Degli altri tutti respingo ogni
comando. Sfiderei Dio stesso, se m’ingiungesse di dimenticarti e di fuggirti.
Ma Dio è buono; così lo fossero i padri e le madri, che, pur troppo, credono
di fare il nostro bene col farci morire, per piangerci poi quando non si può
più risuscitare. (CA, vol. II, p. 221)
Al messaggio segue una seconda lettera dove si accenna all’indispensabile condizione del matrimonio, possibile anche senza il consenso dei genitori. La giovane, fortemente determinata, trae questa curiosa
ed erronea informazione da alcuni volumi consultati in biblioteca14,
14. «[donna Paolina] andò a squadernar il catalogo dei libri della biblioteca ricca e scelta,
raccolta dalla dottissima contessa Clelia, l’ex lettrice di matematica nell’archiginnasio bolognese, per vedere se mai vi fossero delle opere che trattassero del matrimonio. Squadernò dunque,
e ne trovò più d’una, e di recenti: tra l’altre, le Considerazioni attribuite a don Giovanni Bovara sopra l’imperial regia costituzione del giorno 16 di gennajo 1783, risguardante matrimonj,
33
-rdh
FRANCESCA PULIAFITO
34
interpretando però un passo delle sentenze del concilio di Trento non
contestualizzato:
[…] quel passo che per lei era davvero un passo d’oro: ‒ Ognuno sa che il
concilio di Trento volle stabilire che valido sia il matrimonio de’ figli anche senza
il consenso de’ genitori. ‒ Ciò le bastò; chiuse il libro; ripose tutti gli altri nella
libreria, e non ne volle saper altro; e su quel passo solitario e sgranato, come
praticano molti dotti che vogliono fondare un sistema nuovo a qualunque
costo, e storpiano i fatti per farli stare sul loro letto di Procuste, fondò la
sicurezza del suo matrimonio col bel capitano. (CA, vol. II, p. 92)
Questa estesa riflessione sul tema della patria potestas non costituisce un unico caso isolato nelle opere di Giuseppe Rovani. In una lettera
autografa datata 2 dicembre 1870 l’autore definiva il generoso avvocato milanese e amico Enrico Rosmini (1828-1898) un «Padre ma non di
quei di Roma antica»15, proprio per sottolineare per contrasto il pesante
ruolo dell’autorità degli antichi padri romani, sostanzialmente una reale
«tirannia» domestica, come recita un altro brevissimo biglietto autografo
conservato presso la Biblioteca Ambrosiana16. Nel tardo romanzo La giovinezza di Giulio Cesare l’intero capitolo dodicesimo è dedicato al tema
della patria potestas romana, un potere che, esercitato con egoismo, ansia
di dominio e gelosia, avrebbe intrappolato nascostamente i figli nelle case
paterne, nell’unica speranza di potersi allontanare e liberare grazie alle
chiamate in guerra e all’ottenimento di un personale e inalienabile peculio
castrense: «La quarta legge delle dodici tavole spettante alla patria potestà
è la ferocia belvina convertita in scienza e consolidata nel diritto civile. I
figli in Roma erano cittadini, in faccia agli altri uomini persone, al cospetto del padre schiavi e cose; né mai diventavano maggiorenni»17.
stampate a Milano dal Motta nel 1794; i due opuscoli dell’abate segretario Giudici, Sulla civile
potestà nel matrimonio, stampati pure a Milano in quel medesimo anno 1797; e un altro sul
medesimo soggetto, d’ignoto autore, stampato a Brescia nell’anno stesso». CA, vol. II, p. 91.
15. La lettera è conservata a Brescia, presso l’Archivio Lechi, nel Fondo Rosmini-Valotti.
16. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, segnatura Casati 6 (cartella 5, n. 1).
17. Cfr. G. Rovani, La giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane, Milano, Legros Felice
editore, 1873, vol. I, pp. 263-274.
Que
sto
E-b
ook
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
35
Questo
E-book
I rapporti conflittuali tra padri e figli non si esauriscono nel contrasto tra la contessa Clelia e donna Paolina. La nipote, infatti, si ritrova a dover conoscere per la prima volta suo padre, il conte Achille S.,
un uomo libertino di grande fascino, che dopo aver sposato l’ingenua
contessa Ada aveva presto abbandonato la famiglia per altri talami. Il
conte Achille, che non aveva mai visto sua figlia, inizialmente se ne innamora, ma il potenziale incesto è impedito dal coraggio di Paolina, che
non solo decide di rivelare la propria identità ma osa anche chiedere il
permesso di unirsi in matrimonio con il capitano Baroggi (CA, vol. II,
pp. 238-246). In questo contesto il conte rivela la sua vera indole, non
dissimile da quella della contessa Clelia, manifestando il suo orgoglio
nobiliare, sfidato da un uomo senza titoli: per risolvere la situazione
che minaccia il suo casato, il padre di Paolina sceglie di non cedere al
disonore e di affrontare il giovane soldato in un tradizionale duello a
morte. La figlia, invece, non rinuncia a difendere la propria posizione
e afferma in modo anticonformista di voler combattere contro il padre
se l’amante restasse ucciso. Per quanto riguarda l’opinione di Geremia
Baroggi, naturalmente diversa e contraria rispetto a quella del conte,
non vi è alcun disonore nel matrimonio con donna Paolina, ma soltanto
una pacifica e doverosa conciliazione che supera gli «infesti pregiudizj
di casta» (CA, vol. II, pp. 251-254).
apparti
ene a i
lariamu
oio89 g
mail.co
Al tema della patria potestas si collega il tema dell’adulterio: osservando gli anelli di discendenza nel ramo genealogico femminile, si noterà la
costante presenza di una relazione frustrata, moralmente negata o socialmente rifiutata. Questo elemento non fa altro che rafforzare la prospettiva dell’autore, secondo il quale i personaggi vincenti sono coloro che
trovano il coraggio di superare le convenzioni sociali e gli astratti schemi
accettati dalla morale condivisa. Così una ancora giovane contessa Clelia
tradisce il conte V. suo marito per un cantante d’opera lirica, il tenore
Amorevoli; la figlia che nasce dalla loro unione, la contessa Ada, si sposa con il conte Achille S. ma non rinuncia all’amore per lord Guglielmo
Crall, protagonista insieme al Galantino durante il periodo della milanese Ferma del tabacco, figlio del misterioso cavaliere inglese che aveva
liberato donna Paola Pietra dalla monacazione forzata nel convento di
m2
36
FRANCESCA PULIAFITO
Santa Radegonda; donna Paolina si avvicina quindi al vertice di questa
piramide rovesciata; infine Giunio Baroggi, ultimo discendente e punto d’incontro tra i due rami genealogici, si innamora di Stefania Gentili,
donna infelicemente sposata con il disumano conte Alberico B.
Nel Libro decimonono e nel Libro ventesimo dei Cento anni la ciclicità strutturale del romanzo è evidente nella narrazione della vicenda
che coinvolge il protagonista Giunio Baroggi e nella conseguente creazione di un racconto nel racconto. Questo personaggio inoltre può
essere considerato, come si accennava, un alter ego dell’autore, che si
fa portavoce delle sue tesi su eventi storici e fenomeni di costume (i discorsi diretti del personaggio sono infatti spesso una trascrizione di alcuni passi rovaniani ripresi da altre opere saggistiche già pubblicate)18.
Ancora una volta si assiste a uno scontro tra classi sociali diverse, ossia
tra un nobile conte, Alberico B., e un semplice dilettante di viola, Giunio Baroggi. Al centro della contesa vi è la giovane contessa e talentuosa
cantante Stefania Gentili, sposata contro la sua volontà con il perfido
conte, una sorta di Barbablù che nascostamente sottopone la consorte a
un estenuante e letale tormento fisico e psicologico. In questo contesto
emerge il peso determinante del potere coercitivo della Chiesa in materia di matrimonio: monsignor Opizzoni, dipinto come sacerdote bigotto, misogino e inesorabilmente ottuso, conduce la Gentili alla rovina
argomentando alcune sue tesi che, dopo vari ripensamenti, convincono
i genitori della giovane a farle abbandonare per sempre gli studi musicali per consegnarla invece nelle mani dell’astuto Alberico. Abbracciare
una carriera teatrale sarebbe stata infatti una scelta riprovevole, mentre
il matrimonio, nelle astratte teorie dell’Opizzoni, avrebbe purificato e
addomesticato l’animo del conte peccatore. Non casualmente in questo
racconto incastonato nel romanzo la casa diventa l’ambientazione spaziale dove si consuma la tragedia di Stefania Gentili, un luogo chiuso e
18. Ci si riferisce in particolare ai passi su Daniele Manin, nella Conclusione, ripresi dal
saggio Di Daniele Manin presidente e dittatore della Repubblica di Venezia. Memoria storica, Capolago, Tipografia Elvetica, 1850, e alle sequenze su Gioachino Rossini, nel Libro ventesimo,
tratte dal profilo dell’operista pubblicato nella Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le
reciproche loro rispondenze, ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII
fino ai nostri giorni, Milano, Sanvito, 1858, vol. IV.
Qu
est
o
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
to
Qu
es
terribilmente claustrofobico, dal quale è impossibile evadere19; al contrario, Giunio Baroggi si muove in uno spazio esterno e non soggetto
al dominio del conte.
Nel suo vano e disperato tentativo di sottrarre l’amante al conte
Alberico, Giunio cerca conforto nelle parole dell’avvocato Montanara,
suo amico: si tratta di una sequenza che occupa l’intero settimo capitolo del Libro ventesimo, un passo che lo scrittore aggiunse soltanto dopo aver consegnato il manoscritto in tipografia (CA, vol. II, pp.
634-639). Dal momento che la pressante preoccupazione del Baroggi
consiste nel trovare nel più breve tempo possibile un espediente che
possa liberare la Gentili dal folle vincolo coniugale che è stato stretto,
la discussione cade sul tema dell’impossibilità del divorzio. Alla base
di questa digressione saggistica vi è un testo ben preciso, ovvero il
trattato Teoria civile e penale del divorzio di Melchiorre Gioja (17671829)20: Rovani usa una tecnica già collaudata all’interno del romanzo
e decide di estrarre e trascrivere alcuni passi principali della sua fonte
giustapponendoli tra loro e innestandoli nei dialoghi dei personaggi21.
Il Baroggi chiede allora un parere sulla necessità del divorzio all’esperto giurista, che risponde dando voce alla tenace sentenza dell’autore:
il matrimonio indissolubile è sostanzialmente un’utopia. In questo
contesto un ruolo fondamentale è giocato dall’irragionevolezza dei
teologi, inconsapevolmente responsabili di spingere le donne infelici
della propria unione coniugale verso l’adulterio, dal momento che la
semplice separazione a mensa et thoro, sostenuta dagli ecclesiastici a
discapito del divorzio, non tiene conto della debole e passionale natura
umana, costretta così a soffocare la propria necessità di avviare una
nuova e più felice relazione; inoltre, attraverso la manipolazione delle
E-b
oo
k
app
art
i
e
n
ea
riam
u
ila
19. Cfr. anche M. Polacco, op. cit., p. 111.
20. M. Gioja, Teoria civile e penale del divorzio ossia necessità, cause, nuova maniera d’organizzarlo, Milano, presso Pirotta e Maspero stampatori librai, 1803.
21. Per un esame delle corrispondenze tra il capitolo del romanzo e i passi del trattato
è possibile consultare il nostro contributo Gli autografi dei Cento anni. Appunti sulla prassi scrittoria di Giuseppe Rovani, Atti del XXI Congresso Associazione degli Italianisti (ADI)
(Università degli Studi di Firenze 6-9 settembre 2017), Firenze, Società Editrice Fiorentina,
2019, pp. 703-704.
37
oi
ma
o89
g
FRANCESCA PULIAFITO
coscienze femminili, i sacerdoti incrementano le monacazioni forzate,
con il vero obiettivo di nascondere lo scandalo di una separazione agli
occhi della società. L’ultima breve questione della discussione riguarda
il celibato, sempre più diffuso proprio perché il timore di vivere «una
guerra domestica, crudele e perpetua» incentiva il rifiuto del matrimonio stesso22.
Non molte pagine separano il capitolo dedicato alle riflessioni sul divorzio dal tragico epilogo della vicenda. Nel caso del giovane Baroggi la
sorte si rivela infatti beffarda. Dopo aver finalmente riconquistato l’ormai insperata eredità, Giunio organizza con l’aiuto del dottor Broussais
un inganno, ossia compra un biglietto vincente della lotteria per poi
donarlo alla Gentili, che in questo modo potrebbe emanciparsi dalla sua
schiavitù. Ma il risultato non viene raggiunto, perché, alla notizia della
vincita, le violenze del conte Alberico si fanno sempre più insostenibili,
al punto che la giovane, non trovando il coraggio immediato di fuggire,
segue il triste destino delle mogli che l’hanno preceduta.
Lo scontro tra i due diversi mondi della nobiltà dei titoli e della nobiltà d’animo si risolve, almeno apparentemente, con l’insuccesso del
secondo termine. Tuttavia, all’iscrizione che si legge sulla lapide della
sventurata Stefania Gentili, nell’ultimo capitolo della Conclusione, Rovani non dimentica di affiancare le ultime parole del Baroggi morente,
tratte dal quarto canto dell’Eneide virgiliana, in cui Didone prima del
suicidio invoca la vendetta23, lasciando presagire una sconfitta parziale
e ancora piena di speranze per le generazioni che seguiranno.
es
u
Q
to
oo
b
E
k
38
22. A proposito delle argomentazioni rovaniane sul tema del matrimonio indissolubile,
può essere interessante ricordare il sermone in versi Sul matrimonio, probabilmente risalente agli anni Quaranta (cfr. «L’Italia Musicale», 12 marzo 1853: «Passò così molto tempo senza
ch’egli desse segno di vita e fu solo nel 1847 che i suoi dodici amici lessero un suo sermone
poetico intitolato, Il Matrimonio, che fu stampato per nozze illustri»), dove era già realisticamente contemplato il caso del «matrimonio infelice»: «[...] Ma in altra parte / Vedi rimpetto
alla turbata moglie / L’iracondo marito; [...] / [...] / [...] ed or sul fronte / A lei la sorba livida
tu vedi / Delle percosse maritali. Oh infido / Amor bugiardo chi lo avria predetto?» («L’Italia
Musicale», 12 marzo 1853); il testo è trascritto anche nella Rovaniana di Carlo Dossi (cfr.
C. Dossi, Rovaniana, Milano, Libreria Vinciana, 1946, vol. II, pp. 551-558).
23. Cfr. v. 625, Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor.
ne
a
il
ie
pa
rt
p
COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI
ok
a
o
st
o
E
-b
Qu
e
Bibliografia
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de
famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
de Balzac H., (1951), Avant-propos, in H. de Balzac, La Comédie Humaine, vol. I,
Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade).
Dossi C., (1946), Rovaniana, vol. II, Milano, Libreria Vinciana.
Gioja M., (1803), Teoria civile e penale del divorzio ossia necessità, cause, nuova
maniera d’organizzarlo, Milano, presso Pirotta e Maspero stampatori librai.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Puliafito F., (2019), Gli autografi dei Cento anni. Appunti sulla prassi scrittoria di
Giuseppe Rovani, Atti del XXI Congresso Associazione degli Italianisti (ADI)
(Università degli Studi di Firenze 6-9 settembre 2017), Firenze, Società Editrice Fiorentina.
Puliafito F., (2020), Un mosaico di fonti. Cento anni, la Storia secondo Rovani, Novara, Interlinea.
Rovani G., (1850), Di Daniele Manin presidente e dittatore della Repubblica di Venezia. Memoria storica, Capolago, Tipografia Elvetica.
Rovani G., (1858), Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le reciproche loro
rispondenze, ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII
fino ai nostri giorni, vol. IV, Milano, Sanvito.
Rovani G., (1868-69), Cento anni. Romanzo ciclico, Milano, Stabilimento Redaelli dei fratelli Rechiedei, voll. I-II.
Rovani G., (1873), La giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane, vol. I, Milano,
Legros Felice editore.
Rovani G., (1934-35), Cento anni, B. Gutierrez (a cura di), vol. I, Milano, Rizzoli.
39
ne
-
k
boo
Qu
oE
t
s
e
ap
tie
par
Progresso e pessimismo:
il romanzo verista
(Verga e De Roberto)
Jobst Welge
(traduzione di Ilaria Muoio)
Dopo il 1861, la produzione romanzesca italiana s’irradia da un singolo epicentro settentrionale a una molteplicità di centri disposti nelle
diverse regioni del Paese, in primo luogo Meridione e Sicilia1. Il rinascimento letterario della Sicilia nell’ultimo trentennio del diciannovesimo
secolo – dopo il ruolo antesignano svolto, nel corso del Duecento, come
polo propulsore della cultura poetica italiana – deve essere ricondotto
al risveglio dell’autocoscienza regionale scaturito dallo sbarco dei Mille
(1860), così come dal conseguente processo di unificazione nazionale.
In principio fermamente a favore dell’unione politica con il “continente”, gli scrittori siciliani si ritrovarono ben presto a constatare il fal-
*
Nota della traduttrice: viene qui presentata la traduzione di Jobst Welge. Genealogical
Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern Novel, pp. 38-60. © Johns
Hopkins University Press. Reprinted with permission of Johns Hopkins University Press. La
capacità espositiva e il registro linguistico chiaro e centrato di Jobst Welge non hanno richiesto, in fase di traduzione, eccessivi allontanamenti dallo stile dell’autore. Moderate modifiche
nella costruzione dei periodi sono state apportate solo ed esclusivamente nei casi in cui la
sintassi anglosassone sia risultata tendente alla fraseologia. In rari casi sono intervenuta per
revisionare, integrare o cassare – previa approvazione dell’autore – piccole inesattezze nelle
citazioni tratte da testi italiani o sparuti riferimenti bibliografici. Per quanto concerne le citazioni da autori non italiani, ho tradotto per mia cura, con il conforto del collega Filippo Gobbo
per la lingua tedesca, tutti i brani non ancora tradotti in italiano, riproducendo tuttavia in nota
a piè di pagina e tra parentesi quadre la versione in lingua originale. Un sentito ringraziamento
va a Filippo Gobbo e Gloria Scarfone, attenti revisori del lavoro di traduzione nelle sue diverse
fasi. A Jobst Welge, in questa circostanza lettore del sé come un altro, esprimo sincera riconoscenza: per i puntuali confronti, per i preziosi suggerimenti.
1. G. Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Mondadori, 1998, pp. 120121.
to
Q
ue
s
42
JOBST WELGE
limento comunicazionale fra Stato centrale e Sud del Paese2. Per quanto
fondati su presupposti del tutto differenti, potremmo allora mettere a
confronto il romanzo siciliano di questo periodo con i primi romanzi
ambientati nelle regioni celtiche delle isole britanniche3: entrambi tenQu
tano di rappresentare
topico in cui uno Stato-nazione
est queldimomento
centralizzato si appropria
un
territorio
posto ai margini, da un punto
oE
di vista sia culturale sia geografico.
boo
k aall’area verista, intenzionati a ritrarre,
Gli autori siciliani riconducibili
ppa sociali della propria regione,
alla maniera dei naturalisti, le condizioni
rtieborghesia – del resto, sorivolsero spontaneamente l’attenzione non alla
ne
a ilsocietà (Verga, I
stanzialmente inesistente – ma alle classi inferiori della
a ia i procesMalavoglia) o al ceto aristocratico (De Roberto, I Viceré). Piùrche
mu
si storico-sociali, furono pertanto la biologia e il mito a determinare
oiole
strutture narrative della loro produzione4. Non è certo una coincidenza89
che la “scuola” siciliana sia collimata con la versione italiana del naturalismo romanzesco. La Sicilia rappresentava, a quel tempo, il paradigma
della periferia geografica rispetto alla neonata nazione: reduce dalla dominazione borbonica, essa fu poi via via associata agli archetipi dell’arretratezza socioeconomica e della persistenza delle tradizioni arcaiche.
Nel corso degli anni Settanta dell’Ottocento, l’insorgere della cosiddetta
“questione meridionale” determinò una messa a fuoco progressiva della
corruzione locale così come del fallimento dei tentativi di centralizzazione, gettando in parallelo una nuova luce critica sulle dinamiche attraverso cui l’unificazione fu di fatto imposta a partire dal 18605. Come
recentemente rilevato da Roberto Maria Dainotto, la Sicilia è stata a lungo intesa quale luogo prototipico del Meridione, vale a dire una periferia
2. A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, 3 voll., Torino, Einaudi, 2009,
vol. III, p. 82.
3. Come, per esempio, Castle Rackrent (1800) di Maria Edgeworth. Per approfondimenti
rimando al capitolo II del mio Genealogical Fictions.
4. H. Meter, Figur und Erzählauffassung im veristischen Roman: Studien zu Verga, De Roberto und Capuana vor dem Hintergrund der französischen Realisten und Naturalisten, Frankfurt
am Main, Vittorio Klostermann, 1986, pp. 248-249.
5. Sulla questione meridionale si veda anche C. Duggan, The Force of Destiny: A History of
Italy since 1796, London, Penguin, 2007, pp. 265-273.
gm
ail
muoio89
Questo E-book appartiene a ilaria
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
paradigmatica e cruciale per la definizione e per l’autocoscienza non solo
dell’Italia unita ma anche dell’Europa tutta6.
Ora, il “trend” dell’arretratezza siciliana poteva affermarsi solo attraverso l’istituzione di una precisa dialettica di mediazione, distanziamento e alterità, cioè attraverso un posizionamento strategico nei confronti
dell’epicentro letterario del Paese, rappresentato in quel periodo soprattutto da Milano – città eminentemente influenzata dalla cultura francese.
In effetti, è ben noto che le tecniche narrative della scuola verista siano a
un tempo un adattamento e una conversione del modello del naturalismo francese. Gli scrittori siciliani miravano a rivolgersi in prima istanza
a un pubblico non siciliano, anzi pan-italiano, o meglio, propriamente
europeo: non era di certo in Sicilia – in Italia a malapena – che si poteva trovare un pubblico borghese7. Se la Sicilia, dunque, si configurava
come l’archetipo dell’alterità per il lettore borghese dell’Italia centro-settentrionale, il peso specifico delle rappresentazioni culturali della realtà
siciliana derivava dal loro potenziale di disvelamento di una verità più
profonda, non solo rispetto all’emarginazione geografica, ma anche – e
soprattutto – rispetto alla nazione in sé per sé: con ogni probabilità, il fulcro problematico del processo di unificazione fu proprio (e lo è tutt’ora)
la relazione tra centro e periferia. All’epoca del verismo, la comprensione
di questa “verità più profonda” venne appunto raggiunta tramite l’adozione di una tattica di distanziamento – e dunque di arginamento – di
una serie di problemi tutt’altro che marginali8.
1. I Malavoglia: famiglia, comunità, modernità. Giovanni
Verga, il verismo, le “varianti” del naturalismo
Originariamente associato alla nuova maniera della pittura impressionista, il movimento verista italiano fu in seguito correlato soprattut-
6. R.M. Dainotto, Europe (In Theory), Durham, Duke University Press, 2007; in particolare le pp. 198-217.
7. Cfr. H. Meter, op. cit., pp. 9-12. Verga, ad esempio, prese parte attiva al lavoro di traduzione e poi di promozione dei Malavoglia in Francia, collaborando a stretto contatto con
il suo traduttore.
8. H. Meter, op. cit., p. 7; p. 228.
43
ap
pa
rti
en
e
a
ila
ria
m
uo
io
89
gm
ai
l.c
12
20
om
to alle figure degli scrittori siciliani Luigi Capuana e Giovanni Verga,
nonché a quella di Federico De Roberto9. I romanzi veristi possono essere intesi come una versione italiana del naturalismo, il quale rappresenta, in senso lato, un utile termine di raffronto per la comprensione
di molti dei romanzi europei di fine Ottocento. In questa prospettiva,
il naturalismo romanzesco si distingue per l’adozione di una voce narrante impersonale, oggettiva, per la tecnica della polifonia, per una costruzione circolare – per converso allo sviluppo lineare – del racconto,
per l’apertura a nuove tematiche sociali10. Più nello specifico, il naturalismo è l’approccio esplicitamente “scientifico” adottato dai romanzieri
francesi come Flaubert e, primo fra tutti, Zola. L’interesse di Verga per
questi autori viene fatto risalire al 1874; nelle lettere redatte intorno al
1880 e indirizzate all’amico Capuana, egli pone con una certa assiduità
quesiti sugli ideali naturalistici dell’impersonalità e della documentazione oggettiva. Nella loro corrispondenza entrambi concordano sul
principio secondo cui un nuovo “contenuto” letterario dovrebbe essere
rappresentato attraverso una altrettanto nuova e appropriata “forma”
letteraria. Di questo periodo è poi il processo di ammodernamento del
romanzo italiano, un processo mediato dalla ricezione del naturalismo
francese, in particolare dell’Assommoir di Zola (1877), testo emblematico sulla vita proletaria della lavandaia Gervaise e sulla sua parabola discendente verso la desolazione e la morte, accelerata dalla morsa
dell’alcolismo11.
Questo romanzo rientra nel ciclo zoliano dei Rougon-Macquart, che
annovera in tutto venti titoli (1871-93). Il progetto, di enorme portata, è ordito su un’innovativa combinazione di strategie organizzative
diacroniche e sincroniche, da intendersi come una risposta precisa alla
temperie epistemica fin de siècle. Le implicazioni positivistico-scienti-
28
JOBST WELGE
ue
st
o
E-
bo
ok
9. P. Pellini, Naturalismo e verismo. Zola, Verga e la poetica del romanzo, Firenze, Le Monnier Univerità, 2010, p. 10.
10. Ibid., p. 9. Ma si vedano anche G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011,
pp. 291-292 e B. Nelson, Émile Zola (1840-1902): Naturalism, in M. Bell (a cura di), The Cambridge
Companion to European Novelists, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 291-292.
11. G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, Liguori, 1980, p. 112; p. 119.
Q
44
u
ria
m
la
e
a
i
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
n
art
ie
p
ka
p
fiche del progetto – in particolare l’assunzione di un determinismo sia
sociale sia biologico – sono esplicitate nel testo programmatico Le roman expérimental (1880)12.
Da un lato, i romanzi del ciclo rendono un ritratto sincronico dei
diversi ambienti sociali e lavorativi della Francia del Secondo Impero
(1852-70), di cui la famiglia dei Rougon-Macquart è rappresentativa,
secondo quanto del resto esplicitato nel titolo completo dell’opera: Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire (Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero). Dall’altro, questo
ampio ritratto sincronico è correlato a precisi presupposti metafisici e
biologici circa lo sviluppo diacronico della suddetta famiglia paradigmatica, oltre che, per implicito, della stessa storia del Secondo Impero
e del genere umano in sé per sé. Il legame tra la descrizione sincronica
e le leggi dello sviluppo diacronico, così come stabilito nei pronunciamenti programmatici di Zola, è in realtà reso esplicito solo in alcuni
dei singoli romanzi. Un ottimo esempio è rappresentato dal simbolo
dell’albero (La faute de l’abbé Mouret, 1875), che incarna con precisione
la doppia prospettiva di un organismo sincronicamente strutturato e
di un contesto di trasmissione ereditaria diacronicamente “radicato”13.
Uno dei paradossi più affascinanti dello schema complessivo è senz’altro la curiosa concezione zoliana della Storia, una concezione di tipo filosofico che guarda al Secondo Impero come a un periodo di decadenza
ma, al tempo stesso, di rigenerazione e di nuova vita, approdando così
a una visione in fin dei conti ottimistica del progresso storico, in cui i
processi di proletarizzazione e di modernizzazione capitalistica sono
parti della stessa ideologia progressista. I singoli romanzi sono dedicati
ai percorsi biografici di singoli membri della famiglia, tutti tipicamente
concepiti come il risultato della duplice influenza del contesto sociale e
dei fattori ereditari. Tuttavia, come ha sottolineato Hans Ulrich Gumbrecht – con la parziale eccezione delle soglie di apertura e di chiu-
o
to
ue
s
E
bo
Q
12. Nella stesura di questo paragrafo molto ha influito la lettura del prezioso contributo di H.U. Gumbrecht, Zola im historischen Kontext: Für eine neue Lektüre des
Rougon-Macquart-Zyklus, München, Wilhelm Fink Verlag, 1978, pp. 57-62.
13. Cfr. ibid., p. 59.
45
to E-b
ook a
ppart
i
Ques
46
JOBST WELGE
sura del ciclo (La fortune des Rougon e Le docteur Pascal) – l’elemento
diacronico resta significativamente in secondo piano, a livello sia delle
biografie individuali sia della struttura del ciclo romanzesco nel suo insieme – «per questa ragione il ciclo viene a costituire più un panorama
di diverse situazioni sociali che un continuum in cui la decadenza di una
famiglia è rappresentata per fasi di sviluppo successive»14.
Ora, gli scrittori siciliani si rifecero senz’altro al modello francese,
eppure, al tempo stesso, se ne differenziarono. Più precisamente, l’attenzione pressoché esclusiva di Zola per i milieux sociali del contesto
urbano e cittadino (con importanti eccezioni quali La terre, 1887) viene
trasposta dagli scrittori italiani in un ambiente prettamente provinciale. In Italia, il realismo sociale del verismo si concentra sulla relazione tra le diverse realtà regionali e il nuovo Stato-nazione. E ancora,
in opposizione alla compresenza insoluta, in Zola, tra degenerazione
familiare e ottimismo storico, questi scrittori risultano essere generalmente molto più pessimisti e conservatori rispetto alla questione del
progresso della Storia15. Un’altra differenza significativa concerne poi
proprio il ruolo sostanziale attribuito alla famiglia. Mentre in Zola – alquanto in contraddizione con il sottotitolo del ciclo – l’idea di famiglia
evolve in ultima analisi verso l’isolamento romanzesco dei membri del
nucleo familiare – concettualmente legati tra loro solo per via genealogico-biologica – gli scrittori veristi compongono romanzi di famiglia
stricto sensu. Qui, l’individuo è anzi unicamente concepibile come parte
di un’entità collettiva. L’unità della famiglia, resistente alle forze disgregatrici del progresso sociale, è e resta sempre il modello di riferimento
per la caratterizzazione dei personaggi – anche quando il plot narrativo è incentrato su storie di famiglie decadenti o altrimenti problematiche16. I romanzi di Verga e De Roberto sono naturalisti nella misura
14. [(…) weshalb sich der Zyklus eher zu einem Panorama verschiedener sozialer Situationen
zusammenfügt als zur Kontinuität der in sukzessiven Entwicklungsstufen dargestellten Dekadenz
einer Familie] Ibid., p. 62, ma anche p. 33.
15. P. Pellini, op. cit., p. 10.
16. H. Meter, op. cit., p. 10. La fioritura di questi cicli genealogici nella Sicilia di fine Ottocento è un dato indubbiamente rilevante; tuttavia i romanzieri qui trattati non sono né i primi
né gli unici a cimentarsi con la pratica genealogica. Come ha dimostrato Stefano Calabrese, nel
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
momento in cui la Sicilia cessa di esistere in quanto entità geo-culturale autonoma – intorno
al 1870 – si apre la strada a tutta una serie di lavori di carattere folclorico, linguistico e storiografico, che istituiscono una dinamica d’analisi dialettica tra la nuova realtà storico-sociale e la
pregressa demarcazione dei confini culturali siciliani, puntando a ricostruirne la genesi in «termini genealogico-tassonomici». Cfr. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 634-635.
17. F. Veglia, Il ‘maestro’ e il ‘discepolo’: su alcune immagini di Zola nell’epistolario di Verga,
in R. Luperini (a cura di), Il verismo italiano fra naturalismo francese e cultura europea, Lecce,
Manni, 2007, pp. 23-53. Ma cfr. anche J. Küpper, Zum italienischen Roman des neunzehnten
Jahrhunderts: Foscolo, Manzoni, Verga, D’Annunzio, Stuttgart, Steiner, 2002, pp. 90-92.
Questo E-book appartiene a ila
in cui sono contraddistinti da tecniche di rappresentazione oggettiva,
da un’attenzione all’elemento corale e collettivo che privilegia pattern e
forme di comportamento transindividuale. Nondimeno, sin dal principio, nelle sue lettere a Capuana, Verga prende le distanze dagli intenti
scientifici zoliani, radicalizzando a un tempo l’ideale dell’osservazione
oggettiva – l’eclissi del narratore – al punto che solo pochi lettori contemporanei furono di fatto capaci di apprezzarlo17. In effetti, il nodo
veramente decisivo qui non è tanto la questione dell’ereditarietà e della
discendenza, quanto il modo attraverso cui alcune strutture profonde
della periferia culturale riescono a resistere a tutto ciò che si configura
come cambiamento in superficie. In tal senso, questi testi possono essere letti come un esame autocritico della modernità, incentrato sullo
scontro tra la continuità transgenerazionale della tradizione e le nuove
forze del progresso, dunque sulle ripercussioni di quest’ultimo in uno
spazio strettamente circoscritto.
Nel novembre del 1887, Verga si trasferisce a Milano: qui prende
avvio un nuovo orientamento estetico, che segna un distacco radicale
dalla precedente maniera letteraria, più vicina alla narrativa cittadina e
melodrammatica. È proprio questo distanziamento geografico – così
sembra – a metterlo nella condizione di ritrarre quel mondo siciliano,
ormai lasciato alle spalle, e di scrivere del microcosmo di Aci Trezza,
un paesino di pescatori ubicato nei pressi di Catania. Questo sguardo
distanziato sulla realtà siciliana – dalla città più moderna d’Italia su uno
dei suoi apparati sociali più arretrati – fa eco a tutti gli altri tentativi
coevi di rappresentazione della società siciliana, ad esempio un fondamentale lavoro sociologico del 1876, I contadini in Sicilia di Sidney
47
48
JOBST WELGE
Sonnino, o ancora le Condizioni amministrative e politiche della Sicilia
(1877) di Leopoldo Franchetti. Alla stregua di queste due opere sociologiche sulla questione meridionale, Verga assunse una posizione fortemente critica verso l’azione industrializzatrice e capitalistica incarnata
dall’egemonia economica settentrionale. Proprio attraverso tali lavori,
egli si convinse che uno studio delle strutture familiari avrebbe potuto
rivelare alcune delle verità più significative della società meridionale e,
di conseguenza, del Paese intero18.
Pochi sono i contributi teorici di Verga sulla poetica del romanzo
naturalista. La celebre prefazione ai Malavoglia, dove si parla di uno
«studio sincero e spassionato» (MV, p. 3), è in linea con la postura di
oggettività scientifica analogamente adottata nei casi di studio sociologici19. In effetti, mai prima d’ora un romanzo italiano aveva dedicato
così tanta attenzione a una rappresentazione seria dei dettagli più minuti della vita quotidiana; un qualcosa, questo, che deve essere apparso
senz’altro come rivoluzionario agli occhi di una tradizione letteraria
ampiamente dominata dal concetto di nobilitazione retorica20. In una
ben nota lettera a Capuana, Verga esprime la propria intenzione di doo
cumentare il più fedelmente possibile una data realtà sociale; eppure st
e
u
questa prospettiva interna è compendiata e corretta da una consapevoQ
le presa di distanza:
[…] avrei desiderato andarmi a rintanare in campagna, sulla riva del mare,
fra quei pescatori e coglierli vivi come Dio li ha fatti. Ma forse non sarà male
dall’altro canto che io li consideri da una certa distanza in mezzo all’attività
di una città come Milano o Firenze. Non ti pare che per noi l’aspetto di
18. C.A. Augieri, La struttura della parentela come codice narrativo in Vita dei campi, in
R. Luperini (a cura di), Verga: l’ideologia, le strutture narrative, il «caso» critico, Lecce, Milella,
1982, pp. 13-59; si veda inoltre S. Baglio, I Malavoglia: la «famigliuola» e il paese, in N. Cacciaglia, A. Neiger, R. Pavese (a cura di), Famiglia e società nell’opera di G. Verga: atti del convegno nazionale, Perugia, 25-26-27 ottobre 1989, Firenze, Leo S. Olschki, 1991, pp. 313-324.
19. G. Verga, I Malavoglia, F. Cecco (a cura di), Torino, Einaudi, 1995 (d’ora in poi MV). In
un primo momento, Verga aveva programmato di pubblicare il romanzo sulle colonne della
«Rassegna settimanale» di Franchetti e Sonnino.
20. R. Luperini, «I Malavoglia» e la modernità, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. V,
Torino, Einaudi, 2003, pp. 333-334.
o
E
o
-b
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? e che mai
riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la
nostra mente ai nostri occhi?21
La “ricostruzione intellettuale” verghiana presuppone di per sé un
distanziamento geografico che è occultato ed esibito al tempo stesso.
Per certi versi, il sostrato documentario e l’assunzione di un punto di vista distanziato rendono I Malavoglia paragonabili al genere del romanzo storico. Analogo è infatti l’effetto intenzionale di verosimiglianza
antropologica e dell’esotismo. Tuttavia, rispetto all’estensione spaziale
e alla soggettività in evoluzione, tipiche delle narrazioni storico-generazionali come Le confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo, la
saga familiare verghiana, con la sua ambizione epico-oggettiva di rappresentare una realtà più ampia, transindividuale e al contempo precisamente situata, si contraddistingue per una decisa contrazione tanto
degli spazi quanto dell’estensione cronologica22. Mentre il romanzo
storico è centrato sull’individuo, il romanzo familiare è all’opposto corale e privo di un centro specifico.
Se da un lato la modernità è intesa come la causa diretta della disgregazione delle strutture tradizionali, dall’altro questi romanzi mettono
in discussione il concetto stesso di mutamento storico. È proprio l’idea
che la natura arcaica e primitiva della Sicilia possa in qualche modo
favorire il risveglio di una sensibilità artistica fiaccata dagli agi borghesi
della modernità e del progresso a spingere Verga a rivolgere la propria
attenzione agli umili, per secoli dimenticati e sfruttati dai vari padroni
dell’isola e ora vittime del governo italiano. Questa scelta sarà replicata
in seguito anche da D.H. Lawrence, che guardò alla Sicilia e a Verga
(nelle vesti di traduttore) per individuare il genius loci di una terra caratteristica e autentica, il luogo mitico delle origini, la nostalgia di una so-
to
Que
s
21. Verga a Capuana, 14 marzo 1879, in Idem, Lettere a Luigi Capuana, G. Raya (a cura di),
Firenze, Le Monnier, 1975, p. 114.
22. Si rimanda a F. Moretti, Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di
solitudine, Torino, Einaudi, 1994, p. 223.
49
50
JOBST WELGE
cietà ancestrale e di natura immutabile23. Nel testo di apertura della sua
nota raccolta di novelle Vita dei campi (1880), intitolato Fantasticheria,
presentando al lettore la realtà di Aci Trezza, Verga scrive: «Parmi che
le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione»24. I Malavoglia
portano a compimento e ampliano questo concetto di continuità senza
tempo, rendendo oltretutto il ritratto di una realtà che non funge solo
da contrappeso al nuovo mondo, anzi è da quest’ultimo già investita e
attraversata.
2. Comunità e continuità
Il celebre incipit del romanzo pone in contrapposizione il tempo
mitico delle origini e un tempo altro già marcato dai primi segni della
disgregazione. L’attuale nucleo familiare dei Malavoglia è di per sé esiguo rispetto a quello di una volta: «un tempo i Malavoglia erano stati
numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino
ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare» (MV,
p. 9). Lo scarto tra la continuità generazionale del passato («li avevano
sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio», MV, p. 9) e il tempo presente è sottolineato dall’uso degli avverbi «sempre» e «adesso»
(«Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni,
quelli della casa del nespolo», MV, p. 10).
La famiglia dei Malavoglia è metonimicamente associata alla casa («la
casa del nespolo») – e difatti, in area anglofona, il romanzo è meglio noto
con il titolo The House by the Medlar Tree. Questa immagine metonimica
è di solito evocata come simbolo della continuità temporale – e in tal
senso, si oppone all’altra immagine metonimica della famiglia, vale a dire
il peschereccio denominato Provvidenza. Il passaggio che segue sancisce
il legame tra i due simboli e produce un contrasto efficace tra il moti-
Qu
23. R.M. Dainotto, Place in Literature: Regions, Cultures, Communities, Ithaca, Cornell
University Press, 2000, p. 104; p. 112.
24. G. Verga, Tutte le novelle, G. Zaccaria (a cura di), Torino, Einaudi, 2011, p. 123.
es
to
E-
bo
o
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
51
to
es
Qu
vo della stabilità e quello della crisi economico-esistenziale: «La casa dei
Malavoglia era sempre stata una delle prime a Trezza; ma adesso colla
morte di Bastianazzo, e ’Ntoni soldato, e Mena da maritare, […] era una
casa che faceva acqua da tutte le parti» (MV, p. 73). Ora, il fatto che Bastianazzo muoia piuttosto presto nel romanzo (capitolo 3) e rimanga del
tutto indefinito come personaggio contribuisce a consolidare la funzione
paterna esercitata dal nonno ’Ntoni e quindi a caratterizzare i Malavoglia
come una sorta di clan patriarcale che supera i legami ristretti della struttura familiare borghese. Nel primo capitolo, una mareggiata già annuncia
la distruzione di quella che viene ironicamente chiamata Provvidenza e al
contempo sottende la minaccia della dispersione dei membri della famiglia. E ancora, se padron ’Ntoni qui richiama la forte similitudine del pugno come corrispettivo del principio patriarcale del sostegno reciproco
fra le singole dita della mano, è lo stesso narratore a ribadire prontamente questo principio attraverso la medesima immagine: «E la famigliuola
di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano» (MV,
p. 11). Nel romanzo di Verga, l’individuo è in effetti inglobato dal sovraindividuale, sia esso la famiglia, la comunità o la natura. Così la voce del
singolo non è che il riflesso e l’eco della voce della comunità.
Al dispositivo dell’eclissi radicale dell’autore (e del narratore) Verga
si avvicinò piuttosto gradualmente. Come si sa, già in un passaggio metaletterario della novella L’amante di Gramigna (inclusa nella raccolta
Vita dei campi, 1880), Verga – o per meglio dire, il narratore – delinea
un preciso ideale stilistico in base al quale colui che racconta resta invisibile e l’opera d’arte e il suo stesso ambiente devono sembrare essersi
fatti da sé25. Ciò nonostante, le novelle composte prima dei Malavoglia
(Nedda, Fantasticheria e L’amante di Gramigna stessa), sia pure notevoli
sul piano dello spostamento d’attenzione verso la realtà rurale siciliana,
si fondano su un’opposizione molto forte tra l’ambiente rappresentato
e la prospettiva distanziata della Lebenswelt borghese, condivisa tanto
a
ok
bo
E-
ea
ien
art
pp
25. «Che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta
dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto reale, senza serbare alcun punto di contatto con su autore». Così
nell’Amante di Gramigna; cfr. G. Verga, Tutte le novelle, cit., p. 187.
r
ila
to
es
Qu
52
JOBST WELGE
rt
pa
ap
ok
bo
E-
ea
ien
dal narratore quanto dal lettore implicito, oltretutto con diversi retaggi
d’ascendenza romantica26.
Per converso, nei Malavoglia il narratore si astiene da commenti e
spiegazioni espliciti, limitandosi a sfruttare il potenziale metaforico delle
immagini. La ripetizione anaforica sull’essere «sempre» e «da sempre»
dei Malavoglia, provenga essa dalla loro stessa voce o da quella degli altri,
definisce con precisione il crollo di questa condizione perpetua. Tuttavia, il focus su un’unica famiglia in crisi è parte integrante del ben più
esteso ritratto della comunità del borgo di Aci Trezza. In tal senso, I Malavoglia non costituiscono un romanzo di famiglia del tipo tradizionale.
Per quanto la famiglia sia ovviamente al centro del racconto, il romanzo
presenta in realtà una molteplicità di punti di vista e di storie individuali
che investono la collettività tutta, accludendo una vasta gamma di ruoli
e tipi. I più “ampi” conflitti sociali di Aci Trezza penetrano il cuore della
famiglia, che, dal canto suo – all’opposto delle rappresentazioni dell’ideale familiare borghese – non è di certo un’«isola protetta contro la lotta
per l’esistenza e per la sopravvivenza esterna»27. Tipicamente, la resa di
questa pluralità di punti di vista non è affidata a un narratore onnisciente
(che è in ogni caso ridotto al ruolo di testimone anonimo); al contrario: la
tecnica del discorso indiretto libero pone il lettore in costante confronto con ogni genere di pettegolezzo, riferimento inspiegabile e giudizio,
imponendogli, di volta in volta, di decifrarli da sé – senza, tuttavia, mai
raggiungere un livello di comprensione profondo e completo. In altre
parole, le diverse voci, compresi i commenti cinici o interessati sui Malavoglia, sono parte sostanziale e integrante del milieu rappresentato così
come dei suoi limiti caratteristici28.
Come ha rilevato Romano Luperini, la disseminazione del punto di
vista narrativo, che prevede un’attenzione costante da parte del lettore,
m
ria
ila
om
il.c
ma
9g
io8
uo
20
28
12
23
-12
09
09
-08
h
-rd
23
-84
26. Ibid., pp. 90-114; 117-24, 186-93. Si veda G. Baldi, op. cit., p. 112.
27. [ein Rückzugsgebiet vor dem Existenz- und Überlebenskampf draußen] A. Koschorke,
N. Ghanbari, E. Eßlinger, S. Susteck, M.T. Taylor, Vor der Familie. Grenzbedingungen einer
modernen Institution, Konstanz, Konstanz University Press, 2010, p. 21.
28. Sulla situazione narrativa, rimando a G. Tellini, op. cit., p. 197; a G. Baldi, op. cit., 1045; infine a G. Mazzoni, op. cit., pp. 301-302.
iene a
Questo E-book appart
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
è piuttosto insolita nella seconda metà del diciannovesimo secolo29. A
ogni modo, se si considera che i molteplici punti di vista non solo non
confliggono tra di loro, ma si configurano, all’opposto, come diverse
espressioni di un’unica e sola visione del mondo, con tutti i personaggi
– narratore compreso – intenti a parlare allo stesso modo e nella stessa
lingua, ne consegue che questa pluralità di voci si avvicina molto di più
alla “plurivocità” che alla polifonia narrativa30. Nel corso del romanzo,
si apre una certa spaccatura tra comunità in senso largo e famiglia in
senso stretto: le nuove iniziative commerciali e l’impresa del carico di
lupini rendono i Malavoglia sempre più sospetti e invisi agli occhi degli
altri. E se il tentativo di svolta della famiglia è recepito come un’infrazione dell’ordine sociale, le successive catastrofi naturali danno l’impressione che a essere stato violato è lo stesso ordine naturale.
È tramite gli artifici retorici che Verga ottiene l’effetto di rappresentazione oggettiva del mondo naturale. Una delle tecniche più sorprendenti per assicurare la massima distanza dell’autore consiste nell’uso
frequente di proverbi popolari e di metafore naturali, tutti magistralmente impiegati ai fini della resa di una realtà statica/circolare e della
raffigurazione di un microcosmo chiuso su se stesso31. Pur non essendo
l’unico a impiegarli, è di certo padron ’Ntoni la figura maggiormente avvezza al ricorso costante a proverbi («motti antichi», MV, p. 13),
deputati a confermare una visione conservatrice del mondo. Per esempio, molte delle sue «sentenze giudiziose» (ibid.) evocano immagini del
mondo animale o naturale, giustificando lo status quo proprio come ontico e appunto naturale: «ad ogni uccello il suo nido è bello» (cap. 10;
MV, p. 231). La dimensione del “vero” antropologico è così integrata
dall’uso cospicuo di proverbi, attraverso cui i personaggi analizzano e
commentano i singoli eventi, che sottendono sempre una verità sovratemporale e imperitura, una specie di saggezza popolare che classifica
ogni fatto nuovo come la conferma di un sistema di valori e credenze
29. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Bologna, il Mulino, 1989, p. 39.
30. R. Luperini, «I Malavoglia» e la modernità, cit., p. 333; H. Meter, op. cit., p. 24.
31. Si rimanda all’ormai canonico contributo di L. Spitzer, L’originalità della narrazione
nei Malavoglia, in «Belfagor» 11, 1, 31 gennaio 1956, pp. 37-53.
53
54
JOBST WELGE
preesistente. Questo prontuario proverbiale, che Verga ricavava dai volumi redatti e compilati da intellettuali come Giuseppe Pitrè o Salvatore
Salomone Marino, attingeva non solo al contesto siciliano ma anche a
quello di molte altre regioni italiane32. Inoltre, diversi personaggi sono
caratterizzati da tic linguistici ricorrenti e particolarità che assolvono
la funzione di rimarcare la fissità della propria posizione nel piccolo
cosmo oggetto della rappresentazione. A livello stilistico e retorico, il
romanzo di Verga sfoggia una molteplicità di strumenti diversi – proQue modi di dire – con l’intento di trasmettere un
verbi, epiteti, ripetizioni,
sto
E-b sociale chiuso, dando l’impressione
ritratto dall’interno di un
ambiente
ook
di autenticità pur rimanendo comprensibile
a pal lettore.magistrale del roCome ha scritto Antonio Candido inpun’analisi
artie
nilecontesto
manzo, in opposizione al naturalismo tradizionale,
sociale
a a dettagli
di riferimento non è qui rappresentato mediante l’accumuloildi
riam
e minuzie descrittive, quanto piuttosto tramite l’astrazione e la conuoi
densazione simbolica; ciò consente, conseguentemente, di enfatizzare o89
la prospettiva interna, quella stessa che autorizza a eludere la funzione
chiarificatrice e illusionistica tipica della descrizione: «La vaghezza e la
scarsità di elementi descrittivi contribuiscono a dissolvere gli ambienti
nel loro significato sociale. La casa non è una realtà fisica marcata e definita, è […] l’espressione della famiglia»33. Così scrive lo stesso Verga,
in una lettera a Capuana, a proposito della tecnica dello straniamento:
«[…] tutti quei personaggi messivi faccia a faccia senza nessuna presentazione, come li aveste conosciuti sempre, e foste nato e vissuto in
mezzo a loro»34. Gli effetti di familiarità e straniamento sono allora due
facce della stessa medaglia. È evidente che le certosine invenzioni lin-
32. Romano Luperini interpreta questo processo come un caso di astrazione e generalizzazione: «A Verga non interessava tanto rappresentare un preciso paese di mare quanto un
ambiente sociale che fosse il più possibile “tipico” della condizione siciliana». Cfr. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, cit., p. 22.
33. [A indeterminação e a parcimônia dos traços descritivos contribuem para dissolver os ambientes no seu significado social. A casa não é uma realidade física marcante e impositiva, (…) é
expressão da família.] A. Candido, O Mundo-provérbio, in Idem, O Discurso e a Cidade, Rio de
Janeiro, Ouro sobre Azul, 2010, p. 84.
34. G. Verga, Lettere a Luigi Capuana, cit., p. 110.
gm
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
55
guistiche verghiane e la mimesi del parlato siano fondamentali ai fini
della resa dell’effetto di realtà, giacché ci inducono a credere che sono
la lingua e l’immaginario stessi del popolo siciliano a fornire il materiale con cui questo verrà rappresentato. Il connubio tra un villaggio di
pescatori e il mondo contadino potrebbe di primo acchito risultare un
po’ incoerente; tuttavia, occorre precisare che a Verga non interessava
una mimesi realistica di quello specifico borgo di fatto esistente, quanto
piuttosto il ritratto di una località siciliana nella sua espressione più
tipica e generale, una località in cui la cultura del mare e quella dell’entroterra si intersecano a creare ciò che è stato non a caso definito un
«modello deliberatamente artificioso»35.
Il romanzo presenta padron ’Ntoni come l’archetipo del piccolo
proprietario, i cui interessi sono ostacolati da una serie di personaggi
che vivono di varie e differenziate
Ques forme di lavoro parassitario: in prito E- di Zio Crocifisso, le pratiche
mo luogo, l’attività creditizia predatoria
boo
illecite dell’amministratore pubblico don
Silvestro,
k appl’abuso nell’eserciartien tra i
zio del potere di Fortunato Cipolla. Malgrado le contrapposizioni
e a il
personaggi, essi non cessano mai di essere parte integrante dello stesso
ariam
uoio8
ambiente sociale e naturale; così, anche quando esprimono opinioni
diverse, ricorrono alla stessa lingua indistinta, proverbi, luoghi comuni et alia inclusi. Come osserva Candido, questi mezzi espressivi sono
propriamente distintivi del discorso non individualista, ma transgenerazionale, collettivo e resistente al mutamento diacronico. Più precisamente, i proverbi sono espressione di «una norma ideologica eternizzata»36. La novità del romanzo di Verga consiste nel modo attraverso
cui questo universo statico assorbe e al tempo stesso contrasta i flussi
del cambiamento.
35. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Giovanni Verga, cit., pp. 22-23.
36. [uma norma ideológica eternizada] A. Candido, op. cit., p. 106. Si tratta di: «metodi
di pietrificazione del linguaggio, di confinamento del suo dinamismo a un codice immutabile, il cui ruolo principale è quello di eliminare l’effetto di sorpresa e, quindi, l’apertura
a nuove esperienze». [modos de petrificar a língua, de confinar o seu dinamismo a um código
imutável, cujo principal papel é eliminar a surpresa e, portanto, a abertura para novas experiências.] Ibid., p. 96.
56
JOBST WELGE
3. Mutamento, tempo, modernità
La prefazione del romanzo enuncia non solo il programma oggettivista-positivista dell’autore, ma ne collega i presupposti a quella che
viene riconosciuta essere l’origine quasi mitica della tendenza umana
– apparentemente innata – a perseguire il cambiamento e il miglioramento del proprio stato:
Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente
devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola
vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. (MV, p. 3)
È da questa attività antropologica primordiale, scandagliata nelle
sue più umili condizioni, che si origina la cosiddetta «fiumana del progresso» (MV, p. 3), concepita da Verga come un flusso ininterrotto, di
grado in grado più forte e più complesso: dopo la lotta del genere umano per i beni primari ed essenziali, essa coinvolgerà, in ultimo, anche
la borghesia e l’aristocrazia. E difatti, questo «moto ascendente nelle
classi sociali» (MV, p. 4) in rapporto al progresso è ripreso nel seguito programmatico del ciclo romanzesco: dalla famiglia di pescatori dei
Malavoglia all’eponimo arrampicatore sociale borghese del Mastro-don
Gesualdo (1888/1889), sino all’aristocrazia della Duchessa di Leyra (che
Qu mai a compimento)37. Nella prefazione, tale moto è
Verga non portò
es come la rete d’accesso a un’individualizzazione
inoltre rappresentato
to
sempre più profonda, che
E- include un “arricchimento” linguistico. Lo
sviluppo in direzione di unbmaggiore
benessere materiale e di una aloo
trettanto maggiore complessità k
spirituale
ap è inquadrato, da una parte,
pa come una marcia che dà
come «cammino fatale, incessante», dall’altra,
rtie (MV, p. 5), se osservata
vita a un affresco «glorioso nel suo risultato»
ne apparentemente
a debita distanza e nel suo insieme. Questo scenario
a
ila
ria
mu
oio
37. Sulla natura “arrampicatrice” e composita della posizione sociale del Mastro-Don Gesualdo, come testimoniato già dal nome del protagonista, si veda F. Moretti, The Bourgeois.
Between History and Literature, London, Verso, 2013, pp. 149-155.
89
gm
ail
.c
38. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, cit., p. 49.
39. Per un esame dettagliato dei riferimenti storici, impliciti ed espliciti, il rimando va a
ibid., pp. 15-19.
E
sto
sereno, tuttavia, non impedisce all’autore di calarsi nel dramma della
“lotta per la vita” e di concentrare la propria attenzione sui singoli individui, cioè su tutti quei «vinti che la corrente ha depositati sulla riva»
(MV, p. 6).
Ora, per quanto l’arco di tempo descritto sia relativamente ampio
– gli anni che vanno dal 1863 al 1878 – I Malavoglia sono un romanzo storico solo in una prospettiva molto ristretta. L’universo malavogliesco resiste anzi al modello del romanzo storico: lo Stato e la storia
nazionale entrano nel microcosmo di Aci Trezza in maniera estremamente attenuata. Nella realtà entropica delineata da Verga, il tempo è
sostanzialmente indeterminato e perlopiù caratterizzato da eventi rituali, religiosi, ciclici, agricoli o naturali (si pensi all’«anno del terremoto», MV, p. 40). Mentre la prima parte dell’opera (capp. 1-4) ricopre
un arco di tempo piuttosto breve – solo quattro giorni consecutivi –,
la sezione centrale (capp. 5-9) occupa un periodo molto più vasto e di
svariati mesi, lungo il biennio 1865-66, laddove l’ultimo capitolo interessa diversi anni, fino alla data limite del 187438. Questa variazione nell’estensione temporale si accompagna a un passaggio graduale
dall’uso dell’imperfetto a quello del passato remoto. L’ultima porzione
del romanzo – che segna un allontanamento dall’abituale e dal rituale,
spostando all’opposto l’attenzione sul temperamento «bighellone» di
’Ntoni (MV, p. 12), tramite una concentrazione progressiva su una serie
di eventi concreti – diventa di natura meno etnologica e più storica.
Se il mondo dei Malavoglia si contraddistingue generalmente per
un tempo etnologico fondato sul ciclo delle stagioni, diversi sono i rimandi significativi al tempo e allo spazio della Nazione: il 1862, l’anno
della coscrizione militare di ’Ntoni, con allusioni più generali, oltretutto, al progetto e all’istituzione del servizio di leva obbligatorio; l’allusione alla Battaglia di Lissa del 1866; o, ancora, lo scoppio dell’epidemia di
colera nel 1867 (causa di morte della Longa)39. Svariati sono anche gli
accenni al problema dell’unificazione e i rinvii alla Guardia Nazionale e
57
Qu
e
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
58
JOBST WELGE
alla figura di Garibaldi. Tali riferimenti storici sono integrati ai molteplici rimandi alla modernità tecnologica, che fungono da mediatori tra
lo spazio ristretto e l’ampiezza del tempo cronologico: si pensi alla costruzione della linea ferroviaria a sud di Catania (MV, p. 46), alla foggia
dei nuovi battelli a vapore sulla costa (MV, p. 122) e all’inaugurazione
della linea telegrafica (MV, p. 72). Ora, se questi mezzi di comunicazione servono a trasmettere oggetti e messaggi, la sensazione di incomprensione e di straniamento che investe gli abitanti del villaggio rivela
quanto essi siano in realtà incapaci di conferire senso alle cose e agli
eventi che li raggiungono da lontano.
Inoltre, è senz’altro significativo che questi importanti eventi storico-nazionali siano filtrati, in via esclusiva, dal punto di vista del tutto
limitato e spesso deformante dei personaggi. Ad esempio, la battaglia
di Lissa raggiunge Aci Trezza solo sotto forma di diceria piuttosto confusa: «Il giorno dopo cominciò a correre la voce che nel mare verso
Trieste ci era stato un combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei
nemici, che nessuno sapeva nemmeno chi fossero, ed era morta molta
gente; chi raccontava la cosa in un modo e chi in un altro, a pezzi e bocconi, masticando le parole» (MV, pp. 174-175; cfr. p. 170). E si noti che
questo passo è tipicamente ibrido sul piano prospettico, dal momento
che il punto di vista della terza persona è intercalato all’uso inclusivo del pronome “noi”. Tutti questi riferimenti più o meno indiretti alla
nascita del Paese, inoltre, ben riproducono il senso di incomprensione
degli abitanti del villaggio, rivelando l’intento del narratore di eclissarsi
nella prospettiva interiore della gente di Aci Trezza.
In effetti, se la lotta per il progresso materiale e il surplus economico
è presentata come una sorta di peccato originale, è rilevante che perfino l’apparentemente immutabile padron ’Ntoni sia tentato di cedere
agli interessi commerciali, come dimostra la decisione d’immettersi nel
fatidico affare dei lupini, acquistandoli a credito dall’usuraio Crocifisso,
per consentire al figlio Bastianazzo di venderli a una nave attraccata in
Sicilia. Chiaramente, la risoluzione di padron ’Ntoni non mira affatto a
mettere in discussione l’ordine naturale; essa è semplicemente l’effetto
di circostanze economiche esterne – più nel concreto, la necessità di
far quadrare i conti dopo la coscrizione militare del giovane ’Ntoni. Al
to
Qu
es
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
contrario, le figure negative del romanzo sono sempre associate all’abuso delle nuove forme di potere statale ai fini del proprio tornaconto
personale; si pensi a don Michele, che rappresenta uno degli aspetti più
invisi (al popolo) del nuovo Stato, il fisco (le entrate riscosse dalle varie
regioni); o, ancora, a don Silvestro, che usa il Diritto a proprio esclusivo
vantaggio.
Il passaggio dal tempo etnologico a quello storico è incarnato dalla successione generazionale nonno-nipote. Mentre la prima parte del
romanzo è perlopiù focalizzata sulla figura di padron ’Ntoni, quella
conclusiva si concentra sul dramma individuale del nipote ’Ntoni (gli
ultimi cinque capitoli, 11-15). ’Ntoni è in assoluto il personaggio più attratto dalla modernità e dalle sue promesse di benessere materiale – con
le quali è entrato in contatto durante il servizio militare in città (MV,
p. 100, pp. 242-246). In seguito, si rifiuta di ritornare alla dura vita da
pescatore di Aci Trezza: anzi, cerca di trarre profitti dal contrabbando e
finisce in prigione. A differenza dei sentimenti familiari di un tempo, il
giovane ’Ntoni si fa portavoce del nuovo egotismo tipico dell’incipiente
società borghese. Nell’ambito del conflitto simbolico/generazionale tra
nonno e nipote, quest’ultimo incarna cioè il punto di rottura dell’eterno
ciclo ereditario della continuità e della trasmissione.
Rispetto alla rigida, monologica ed epica figura di padron ’Ntoni,
il giovane ’Ntoni può essere inquadrato come l’eroe problematico per
antonomasia del romanzo moderno, un eroe che mette in discussione il
proprio status e che subisce una certa evoluzione40. Si tratta di un personaggio sospeso tra due mondi: dapprima sogna la città, la raggiunge;
poi, fa ritorno al villaggio, carico dell’esperienza conoscitiva urbana e
con una disapprovazione della vita paesana ancor più rinvigorita. Questo salto nell’ignoto è ben lungi dall’essere rappresentato come una liberazione da vincoli di sorta alcuna; i membri del consorzio familiare
lo rimproverano anzi per il suo egotismo e per la sua retorica pseudorivoluzionaria. Tuttavia, da un punto di vista esterno, la denuncia di
’Ntoni circa l’accettazione acritica del principio d’immutabilità appare
a
9
o
i
o
8
gm
u
iam
r
ien
e
a
ila
t
pa
r
p
o
k
a
o
to
Eb
2
m
il.c
o
ue
s
Q
40.
R. Luperini, «I Malavoglia» e la modernità, cit., p. 337.
59
20
1
60
JOBST WELGE
in effetti una critica sociale fondata: «Ma voi altri ve la passate forse
meglio di me a lavorare, e ad affannarvi per nulla? […] Sapete per chi
lavorate, dal lunedì al sabato, e vi siete ridotto a quel modo che non vi
vorrebbero neanche all’ospedale?» (MV, p. 298).
Sebbene ’Ntoni divenga il personaggio cruciale del romanzo, è importante sottolineare che la sua attitudine alla rivolta non lo conduce
ad alcuna vera alternativa, semmai a una semplice vita di vizi e piaceri,
che lo rendono assimilabile a un personaggio marginale come l’ubriacone Rocco Spatu – al quale è dedicato l’explicit dell’opera. Dopo essere
stato separato dall’oggetto dei suoi desideri, Santuzza, la perdizione di
’Ntoni è sancita nel momento in cui questi aggredisce con violenza il
brigadiere Don Michele (cap. 13), venendo dunque condannato al carcere. E questa non è di certo l’unica tragedia che coinvolge la famiglia:
il fratello Luca muore nella battaglia di Lissa, mentre la sorella Lia finisce per prostituirsi. Opponendosi a tutti questi eventi drammatici, il
figlio più giovane dei Malavoglia, Alessi, riacquista in ultimo la casa di
famiglia e ha così la possibilità di riprendere il ciclo dal principio. Tuttavia, il ripristino del consorzio domestico – tramite l’unione di Alessi
e Nunziata – diverge completamente dal modello ancora tradizionale
di famiglia presentato all’inizio del romanzo. Difatti, questa giovane
coppia, che incarna un nuovo prototipo di famiglia mononucleare, si
distingue ora dal vecchio mondo patriarcale già a partire dalle trattative matrimoniali – in precedenza spesso farsesche. Indipendentemente
da ciò, il principio di ciclicità è smentito dal fatto che la riacquisizione
della casa – una casa che è costata ai Malavoglia tanto lavoro e tanta sofferenza – riveste a questo punto un’importanza relativamente minore.
La tendenza diametralmente opposta, ovvero la dispersione familiare,
appare in effetti molto più significativa. Il segnale lampante che un’era
è ormai giunta al termine è dato dalla morte di padron ’Ntoni. Non è
un caso che la sua dipartita sia descritta attraverso la metafora convenzionale dell’ultimo viaggio: «padron ’Ntoni aveva fatto quel viaggio
lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria d’Egitto, dal quale non
siQ
ritorna più» (MV, p. 366). E non è di certo solo questo passaggio a
ues con altri momenti che segnano in ordine gli eventi di parconnettersi
to E
tenza, la dispersione
-b dei Malavoglia, infine l’impossibilità del ritorno
ook
app
artie
ne a
ilari
a
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
(MV, p. 346, p. 360), ma è il romanzo nella sua interezza a esprimere la
distanza spaziale tramite il mutamento temporale.
Significativamente, nel capitolo finale, all’atto di rifiutare l’offerta di
Alessi e di pronunciare il suo ultimo addio al mondo di Aci Trezza, il
giovane ’Ntoni invoca con nostalgia la cerchia familiare come un tutt’uno con la comunità del paese:
No! rispose ’Ntoni. Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che
lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le
belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe?
e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al
chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo
tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci,
ma ora che so ogni cosa devo andarmene. (MV, p. 371)
41.
Ibid., pp. 327-345.
Qu
e
s
to
E
b
o
ok appartie
n
’Ntoni professa cioè, con enfasi retorica, quella religione della famiglia che lui stesso ha desacralizzato: il suo esilio volontario apre ora la
strada a una potenziale rigenerazione. Perfino il linguaggio si tinge di
sfumature nostalgiche: il discorso di ’Ntoni è tutto all’imperfetto; ciò
conferisce al tempo una connotazione durativa, filtrata dalla reminiscenza mnesica del protagonista. L’intero ultimo capitolo si distingue
infatti per un’atmosfera elegiaca che, tramite la rievocazione ossessiva del tempo che fu (l’«allora»), contrappone il momento presente alla
memoria del passato; qui, l’imperfetto indica abitudini e tradizioni
ricorsive («Allora ognuno si conosceva»), ma anche tutto ciò che
«allora» era ancora sconosciuto: «Allora la gente non si sbandava di
qua e di là, e non andava a morire all’ospedale» (MV, p. 363). D’altronde,
per paradosso, solo dopo aver lasciato il nido familiare per inseguire le
chimere della modernità, il giovane ’Ntoni può riscoprire il senso della
vita, e lo fa proprio guardandosi indietro, volgendo cioè gli occhi a quel
mondo periferico che si era lasciato alle spalle – il suo ragionamento
rivela a un tempo l’insorgere di una nuova contraddizione tra pensiero
e azione41. Significativamente, con la massima pronunciata da ’Ntoni,
61
e a ilar
JOBST WELGE
62
«Ora è tempo d’andarmene» (MV, p. 373), la chiosa del romanzo mostra
come la coralità della voce e del pensiero sia stata in ultimo sostituita
da un tipo di discorso più individuale. Questa cesura nell’approccio interpretativo del mondo punta nella direzione di un futuro42, sia pure
“aperto”, comunque decadente. Quando, infine, una sera, ’Ntoni torna
a far visita alla casa di Alessi, è ormai a tal punto cambiato che perfino
il cane non lo riconosce (MV, p. 368). Di fronte all’impossibilità del ritorno e al paradosso dell’innocenza perduta, le famose ultime parole di
’Ntoni sono allora dicotomizzate tra la rievocazione durativa dell’imperfetto e il presente dell’hic et nunc, del momento in cui, cioè, egli si
lascia consciamente alle spalle “questo mondo” per sempre. Lo sguardo
dei Malavoglia è perciò quello retrospettivo tipico della scuola verista:
il lettore borghese è posto a confronto diretto con il proprio passato
e con l’alterità esotica; così, esperisce e sperimenta una comprensione
malinconica, eppure mai idealizzante, della possibile genesi della modernità.
ia
ne
art
ie
a
i
lar
p
ka
p
o
sto
E-b
o
m
Qu
e
89
g
io
mu
o
4. Federico De Roberto, I Viceré: genealogia e decadenza
Analogamente, I Viceré (1894), romanzo di Federico De Roberto,
collocano l’aristocrazia siciliana agli antipodi della modernità. Tuttavia,
rispetto alla dispersione tragica e fatalistica dei Malavoglia, l’affresco derobertiano del declino, senz’altro meno empatico, è più esplicitamente
incardinato sui fattori biologici, storici e politico-sociali. Così scrive
De Roberto, in una lettera a un amico, a proposito del piano dell’opera:
«il primo titolo era Vecchia razza: ciò ti dimostri l’intenzione ultima
che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale di una stirpe esausta»43. Il cambiamento del titolo dimostra quanto De Roberto intendesse spostare l’enfasi dal motivo naturalistico dell’ereditarietà a quello
42. Questo implicito moto decadente sembra spingersi in una direzione diametralmente
opposta a quella tracciata da Zola, concepita come una genesi graduale della comunità popolare, una comunità che cerca di emergere dalle ceneri del Secondo Impero al tramonto.
Cfr. H. Meter, op. cit., p. 56.
43. Federico De Roberto a Ferdinando Di Giorgi, 16 luglio 1891; la lettera è citata da
G. Borri, in Come leggere I Viceré di Federico De Roberto, Milano, Mursia, 1995, p. 34.
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
delle dinamiche del potere sociale. Il romanzo costituisce il secondo e
più robusto capitolo di una progettata (ma mai conclusa) trilogia tesa a
tracciare la storia della famiglia Uzeda lungo l’arco di tre generazioni. I
protagonisti, i Viceré del titolo, sono membri dell’antica casata feudale
degli Uzeda di Francalanza, di sangue siculo-ispanico, che per secoli ha
dominato a Catania. La classe sociale di appartenenza della famiglia,
di origine aristocratica, equivale simbolicamente alla funzione della Sicilia come “luogo altro” rispetto alla modernità – e, in quanto tale, è
dunque paragonabile all’universo sociale, sia pure del tutto differente,
dei Malavoglia.
L’arco storico-cronologico dell’opera ricopre l’intervallo che va dal
governo borbonico al periodo dello Stato post-unitario, dal 1854 al
1882. Questo intervallo è marcato dall’incipit e dalla scena finale dell’opera. Mentre il primo mette in scena i funerali della vecchia principessa e capofamiglia Teresa, con tutti gli annessi fasti del vecchio regime,
l’explicit rappresenta l’elezione al nuovo Parlamento nazionale a Roma
del giovane principe Consalvo. Tuttavia, questa parvenza di transizione
storica – dalla fine dell’assolutismo monarchico al nuovo sistema parlamentare – cela un più profondo senso di continuità, che mostra la
rivoluzione borghese come un vero e proprio fallimento. Con il suo
trasgredire a tutto ciò che è “misura” e con la sua tendenza all’eccesso, la famiglia Uzeda si fa paradossalmente simbolo sia del declino sia
della persistenza. I tratti comuni dei suoi componenti – l’ambizione
e la brama di potere – funzionano proprio come agente di discordia,
mettendoli gli uni contro gli altri, costantemente assediati dall’invidia
reciproca, dall’avarizia e dalla corruzione. Per la gran parte, questi intrighi familiari prendono avvio dai raggiri di Teresa rispetto alla legge
della primogenitura, cioè a partire dalla decisione di lasciare tutte le
ricchezze di famiglia al suo preferito, Raimondo, e non al primogenito, Giacomo. L’impulso iniziale verso la decadenza, dunque, è di marca
economica, ed è legato all’annullamento dell’istituto del “fedecommesso” (datato 1812, in VR, p. 94; p. 425), per l’appunto una costruzione
giuridica volta a garantire l’“eterna” continuità nella trasmissione dei
diritti di proprietà familiari sulla base di una legge ereditaria rigorosa-
63
Qu
est
oE
-bo
ok
ap
pa
rtie
ne
a il
ari
am
uo
io8
9
n
rtie
pa
ap
bo
ok
JOBST WELGE
es
to
E-
mente definita e resistente al tempo44. Tuttavia, di pari passo, i membri
della famiglia mostrano capacità di adattamento a questa e a tutte le
altre trasformazioni storiche successive, garantendosi ruoli e posizioni
di potere sia politico sia economico, consentendo alla continuità genealogica di prevalere sulle cesure della Storia.
Ma in cosa consiste, in concreto, l’identità familiare, la particolarità
specifica di essere un Uzeda? Chiaramente non si tratta né di religione,
né della famiglia intesa come centro delle relazioni affettive (così importanti per l’autocoscienza dei Malavoglia), né tantomeno semplicemente del determinismo meccanico della fêlure, come accade nel ciclo
di Zola; si tratta piuttosto di un fattore intrinseco e pseudobiologico,
che li rende divisi all’interno – l’uno contro l’altro – convogliandoli
verso una caratteristica biforcazione dei tipi:
Qu
64
I due fratelli, quantunque avessero la stess’aria di famiglia, non si rassomigliavano neppure fisicamente: Raimondo era più che bello, Giacomo quasi
brutto. Nella Galleria dei ritratti si potevano riscontrare i due tipi. Tra i progenitori più lontani c’era quella mescolanza di forza e di grazia che formava
la bellezza del contino; a poco a poco, col passare dei secoli, i lineamenti
cominciavano ad alterarsi, i volti s’allungavano, i nasi sporgevano, il colorito diveniva più oscuro; un’estrema pinguedine come quella di don Blasco, o
un’estrema magrezza come quella di don Eugenio, deturpava i personaggi.
(VR, pp. 93-94)45
Raimondo, dunque, rappresenta un’eccezione rispetto al generale declino fisiologico degli Uzeda; in lui si realizza «una specie di reviviscenza
delle vecchie cellule del nobile sangue» (VR, p. 94). Molte pagine e una
generazione dopo, il caso della straordinariamente bella Teresa conferma
questo modello per cui il processo di degenerazione biologica è contraddetto dalla sopravvivenza residuale di un’essenza della “razza” originaria:
44. Sulla critica postrivoluzionaria dell’istituto giuridico cfr. O. Parnes, U. Vedder,
S. Willer, Das Konzept der Generation. Eine Wissenschafts-und Kulturgeschichte, Frankfurt am
Main, Suhrkamp, 2008, pp. 105-107.
45. F. De Roberto, I Viceré, Torino, Einaudi, 1990 (d’ora in poi VR).
ia
lar
i
a
65
In realtà, in riferimento agli Uzeda, il termine “razza” è più utilizzato rispetto a quello di famiglia, fatto che testimonia quanto alla fine del
XIX secolo l’idea di famiglia decaduta fosse al centro di diversi discorsi
scientifici, di natura sia sociologica sia biologica46. Queste considerazioni pseudo-genetiche, nel solco della teoria della degenerazione, sono
evidentemente un’eredità zoliana e del naturalismo francese – più nel
dettaglio, delle tesi biologico-ereditarie di Bernard e Taine47. In tal senso, il legame razziale tra gli Uzeda si differenzia in maniera netta dalla
continuità familiare dei Malavoglia, all’opposto marcata da connotazioni esclusivamente positive oltre che da una concezione del nucleo
identitario in senso più spirituale che biologico – si pensi a quando padron ’Ntoni loda Luca o Mena per essere dei “veri”, o nati in quanto
tali, Malavoglia (MV, p. 89, p. 121). La commistione tra la concezione
positivista e quella decadente dell’eredità trovò terreno fertile nell’Italia
degli anni Novanta, quando, ovvero, dopo un periodo di speculazione
febbrile e ottimismo generale, nel corso degli anni Ottanta, la crisi del
sistema parlamentare e lo scandalo della Banca di Roma sfociarono in
un perturbamento generale, in un pessimismo e in una sfiducia diffusa nelle istituzioni, in accese discussioni sul trasformismo politico, in
un crescente disordine sociale, sino all’insorgere dell’emergenza tutta
46. Cfr. U. Link-Heer, Über den Anteil der Fiktionalität an der Psychopathologie des 19.
Jahrhunderts, in «Zeitschrift für Literaturwissenschaft und Linguistik», 51/52, 1983,
pp. 294-295.
47. F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori, 1984, p. 1725. Cfr. altresì O. Parnes, U. Vedder, S. Willer, op. cit., pp. 174-187.
sto
e
Qu
La vecchia razza spagnuola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi
isolani, mezzo greci, mezzo saracini, era venuta a poco a poco perdendo di
purezza e di nobiltà corporea: chi avrebbe potuto distinguere, per esempio,
don Blasco da un fratacchione uscito da lavoratori della gleba, o donna Ferdinanda da una vecchia tessitrice? Ma come, nella generazione precedente,
s’era vista l’eccezione del conte Raimondo, così adesso anche Teresa pareva
fosse venuta fuori da una vecchia cellula intatta del puro sangue castigliano.
(VR, p. 503)
E
ne
e
i
art
p
ap
k
o
-bo
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
JOBST WELGE
66
iene
Quest
o E-b
o
o
k
a
ppart
siciliana dei Fasci48. Nel romanzo, la tara della degenerazione fisiologica raggiunge la sua acme con la scena bizzarra dell’aborto spontaneo
della Marchesa Chiara: il feto nato morto, deforme e mostruoso viene
conservato sotto spirito in un barattolo di vetro: «il prodotto più fresco
della razza dei Viceré» (VR, p. 286). Nondimeno, per quanto il testo attinga in misura varia al discorso della decadenza biologica, a prevalere
è dopotutto l’intento esplorativo del potere aristocratico inteso come
strumento di distinzione sociale.
Proviamo allora ad analizzare il modo in cui l’albero genealogico
degli Uzeda viene esplicitato e rappresentato nell’arco dell’intero racconto. Anzitutto, le nozioni di continuità genealogica ed elitarismo
aristocratico, di cui la vecchia e ipereazionaria donna Ferdinanda, avida lettrice del «Teatro genologico di Sicilia» (VR, p. 105), si nutre fino
a diventarne «ammalata» (VR, p. 104), sono esibiti di per sé come un
rudere del passato. Al contempo, l’ossessione di Ferdinanda testimonia
quanto l’abbarbicamento all’albero genealogico sia effettivamente tipico di quei periodi storici contraddistinti dall’esperienza della dissoluzione o della ricostituzione transitoria delle istituzioni sociali. Mentre
il Teatro genologico di Sicilia è un vero e proprio documento storico
(redatto dallo storico seicentesco Filadelfo Mugnòs), un altro Uzeda,
don Eugenio, si fa autore di un suo corrispettivo o sorta di continuazione, intitolato L’araldo sicolo, la cui sottoscrizione è reclamizzata con
la garanzia che all’acquirente sarà garantita una stampa del proprio
albero genealogico: «Chi procura sei soscrizioni avrà diritto a pubblicare il proprio albero genealogico. Chi ne procura dodici avrà tuttosì
lo stemma colorato» (VR, p. 490). Per finanziare e commercializzare il
suo libello, Eugenio tormenta ogni singolo membro della famiglia; ma
tutti declinano l’invito, considerando l’operazione un’idea ridicola, alla
luce soprattutto dei nuovi tempi, borghesi e avversi a ogni gerarchia di
classe: «Per esser considerati, bisogna venire dal niente!» (VR, p. 500).
Eppure, malgrado le perplessità dei consanguinei, l’opera, in più volumi, vende anche bene, soprattutto perché l’autore banalizza di molto
a ilaria
muo
48.
C. Duggan, op. cit., pp. 318-319; 340-342.
io89 g
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
67
la rappresentazione dei legami interni all’aristocrazia medesima: così
Qufacendo, quelle famiglie che recano lo stesso patronimico sono indote
te satcredere
rientrare nel medesimo albero/ramo genealogico (VR,
o In undiulteriore
p. 548).E
colpo di scena, poi, stimolato dal successo edi-bo
toriale, Eugenio
decide
di apprestare una seconda edizione dell’opeok
ra, stavolta inclusiva
anche
dei «nuovi nobili» (VR, p. 564). La satira è
ap
p
palese: il marketing capitalistico
del pedigree aristocratico dimostra
ar
ien
quanto la neo-retorica del tliberalismo
e dell’uguaglianza sociale finisca
in realtà per favorire l’orgoglio e
della
discendenza
genealogica, sia essa
ai
lar
reale o immaginaria.
iam Ferdinanda legge il
Se in una delle sequenze iniziali del romanzo,
Teatro genologico come se fosse un «romanzo»,uun
oio«vangelo», «l’unico
pascolo della sua immaginazione», compiaciuta di 8
quella
9 g «ortografia
fantastica» (VR, p. 105), nel volume di Eugenio, appena rilegato,
ma si parla
il.c più
per converso della nuova nobiltà come di un ceto dotato di «stemmi
om
o meno fantastici» (VR, p. 564). Le due scene distano centinaia di pagine
l’una dall’altra, eppure entrambe rimarcano la componente immaginifica, fantastica e teatralizzata del compiacimento connesso all’elucubrazione genealogica. L’ironia si estrinseca: i lettori dell’opera di Eugenio
sono quegli stessi falsi aristocratici disprezzati da Ferdinanda, a questo
punto, a loro volta desiderosi di distinguersi dalla massa. Ora, tenuto
conto che le sequenze che descrivono l’approccio commercial-editoriale di Eugenio sono simultanee al celere percorso di formazione politico-letteraria di Consalvo – una formazione intesa come strumento
necessario per la promozione della sua carriera diplomatica – si può
dedurre che il romanzo enfatizzi di fatto l’uso strumentale della Storia.
Tale componente ironica racchiude così non solo una riflessione sulla
trasformazione sociale e sulla distinzione, ma sottolinea anche quanto lo studio dell’albero genealogico rappresenti di fatto per il soggetto aristocratico un baluardo immaginifico di difesa rispetto alle forze
omogeneizzanti della modernità. In tal senso, l’opera derobertiana non
si limita a offrire il ritratto di una vecchia e folle famiglia per il mero ludibrio del lettore. Come ha dimostrato la ricerca archivistica condotta
da Giovanni Grana, De Roberto potrebbe infatti aver esperito in prima
linea la sensazione di uno stravolgimento sociale; per quanto cresciuto
20
12
28
09
-
o
Ebo
o
st
ue
JOBST WELGE
Q
68
nel contesto e nelle condizioni tipiche della bassa borghesia, i suoi antenati risultano essere stati imparentanti con gli Uzeda del romanzo49.
5. Adattamento e pessimismo storico
Nonostante l’ambizione corale e policentrica del racconto, è Consalvo a esplicare la funzione di personaggio esemplificativo della coscienza storico-collettiva degli Uzeda. Il suo ritratto psicologico e il suo
volontarismo ideologico si pongono oltretutto in netta contraddizione
rispetto alla dottrina naturalistica del determinismo oggettivo, specie
nell’ultimo quarto dell’opera. Consalvo è un rappresentante paradigmatico di quei membri dell’aristocrazia che, per prevenire e cooptare
le tendenze liberalizzatrici del nuovo Stato, anziché opporsi ad esse,
apparentemente vi collaborano. L’aristocrazia tenta di arrestare e contrastare il proprio inevitabile declino sociale adattandosi alla nuova
emergente alta borghesia, dunque soggiacendo alle condizioni del cosiddetto «nuovo ordine» (VR, p. 459). Questa strategia opportunistica
di acclimatamento è diametralmente opposta all’idea di progresso senza limiti, caldamente sostenuta dai liberali del Nord industrializzato.
Lo dimostra, ad esempio, l’arguta osservazione del duca d’Oragua – zio
“liberale” di Consalvo – che racchiude un’ovvia caricatura della celebre
sentenza di Massimo d’Azeglio:
e certuni bene informati assicuravano che una volta, nei primi tempi del
nuovo governo, egli aveva pronunziato una frase molto significativa, rivelatrice dell’ereditaria cupidigia viceregale, della rapacità degli antichi Uzeda:
“Ora che l’Italia è fatta dobbiamo fare i fatti nostri…”. Se non aveva pronunziato le parole, aveva certo messo in atto l’idea: per ciò vantava l’eccellenza
del nuovo regime, i benefici effetti del nuovo ordine di cose! (VR, p. 459)
Questa osservazione è incanalata nel contesto della più lunga rappresentazione del trasformismo dello zio. Ciò che è particolarmente
rilevante, in questo punto specifico, è proprio il modo attraverso cui il
49. G. Grana, I Viceré e la patologia del reale. Discussione e analisi storica delle strutture del
romanzo, Milano, Marzorati, 1982, pp. 175-177.
io 8
iam
uo
ea
ilar
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
Qu
es
to
E-b
oo
ka
pp
art
ien
narratore trasmette al lettore una sottile denuncia sociopolitica, senza ricorrere direttamente alla voce dell’autore. L’auto-condanna dello
zio è filtrata dalla trasposizione dei «bene informati»; a questo punto
potremmo chiederci: sono sempre i «bene informati» a pensare che
questa frase sia “rivelatoria” di un tratto tipicamente uzediano? E chi ci
dice, ammesso che queste parole siano state effettivamente pronunciate
dal duca d’Oragua, che esse rispecchiavano il suo comportamento?
Questo è solo il primo di una serie di passaggi in cui lo stile radicalmente
oggettivo di De Roberto, per lunghe sequenze del romanzo basato
unicamente sul dialogo e sul discorso indiretto libero, scivola in
maniera sottile verso qualcosa di somigliante a una prospettiva
autoriale. L’esempio è da ritenersi paradigmatico nella misura in cui
tali interferenze autoriali, quasi impercettibili, riguardano di frequente
proprio il riconoscimento di un’identità familiare comune. In una scena
in cui il padre del giovane Consalvo rimprovera rabbiosamente il figlio
per alcune spese folli, il narratore non riesce a esimersi dall’esprimere un
commento sul proprio rapporto con il denaro: «meglio che tutti gli altri
Uzeda, egli era il rappresentante degli ingordi Spagnuoli unicamente
intenti ad arricchirsi, incapaci di comprendere una potenza, un valore,
una virtù più grande di quella dei quattrini» (VR, p. 463). Soprattutto
verso la sua conclusione, il romanzo affronta la questione del rapporto
tra l’identità personale degli Uzeda e la più ampia dimensione collettiva
della Storia e della politica. La Storia stessa sembra ormai a un punto di
dissoluzione in cui ogni cambiamento è di fatto solo apparente, come
Consalvo spiega a sua zia Fernanda in una delle ultime pagine del libro:
La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia
di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un
abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi
universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono
io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non
è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è
il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche
volta per i miei studi? L’Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria.
(VR, p. 697)
69
70
JOBST WELGE
Queste sono fuor di dubbio le frasi del romanzo più spesso citate e di solito deputate a esemplificare la “morale” generale dell’opera
nonché la visione del suo autore; è inoltre senz’altro possibile che in
questa sede De Roberto affidi a un personaggio il proprio punto di
vista. Tuttavia, in una narrazione così rigorosamente oggettiva, un
siffatto pronunciamento resta ancora e in prevalenza l’espressione diretta della visione di colui che parla, ovvero Consalvo. Di conseguenza, i presupposti antistoricistici e fatalistici dell’immobilismo storico e della fissità antropologica potrebbero anche rientrare in quella
razionalizzazione auto-illusoria tipica della nobiltà circa il tramonto
della propria classe, con ricorso, dunque, a una torsione ironica, che
sarà poi del resto riccamente sfruttata da Tomasi di Lampedusa nel
Gattopardo.
Tale visione scettica del progresso storico è intimamente connessa
anche alla sede da cui parte l’enunciazione, al luogo da cui si propaga la
voce del narratore: mi riferisco alla diversità del Sud, del Mezzogiorno,
terra “disallineata” rispetto allo sviluppo economico del Nord, ancorata alla tradizione e alla famiglia come istituzione50. Da una parte, la
famiglia è demandata a rappresentare un processo di declino morale e
biologico; dall’altra, si presuppone che tutto “resti com’era”, giacché il
cambiamento – solo apparente – lascia il posto a nuove ma sostanzialmente identiche formazioni di potere. Consalvo, l’ultimo ramo dell’albero genealogico, sia pure fermamente antidemocratico, partecipa alle
elezioni parlamentari come candidato della Sinistra, chiarendo alla zia
ipereazionaria che si tratta in realtà di un espediente per garantire e
preservare la stessa continuità: «No, la nostra razza non è degenerata: è
sempre la stessa» (VR, p. 700).
-bo
Quest
oE
50. R. Contarino, Il Mezzogiorno e la Sicilia, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana: storia e geografia, vol. III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, p. 733: «De Roberto
offriva, nel quadro del dominante ottimismo della cultura umbertina, la risposta più lucida
dell’“opposizione meridionale” al cammino del Risorgimento e all’ufficialità continentale.
Facendo dell’arretratezza della società siciliana una sorta di lungimiranza visuale, De Roberto poneva il suo romanzo fuori dalle coordinate del progresso a tutti i costi e anticipava
la linea di tanti letterati siciliani (da Pirandello a Sciascia), che rifiuteranno i conforti del
provvidenzialismo storico».
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
Mentre la storia sembra procedere sulla base di una legge meccanicistica del “progresso”, quest’ultimo non è più l’esito di azioni individuali e intenzionali, come avveniva invece – ad esempio – nelle Confessioni di un italiano di Nievo51. Le patologie distintive della famiglia
Uzeda caratterizzano l’intero ambiente circostante e incarnano quella
tendenza all’individualismo esasperato che fu tipica dell’Italia postunitaria nel suo complesso. In altre parole, la storia degli Uzeda è destinata
a riflettere la più ampia storia non solo siciliana, ma altresì dell’intero
neonato Stato-nazione italiano. Aderendo in maniera rigorosa alla dottrina naturalista dell’oggettività, De Roberto rifiuta di ordire il racconto, anche solo a sprazzi, sulla prospettiva particolare del singolo individuo; così facendo, lo sguardo del narratore può coincidere, di volta in
volta, con quello di ciascun personaggio. Raramente il lettore è posto in
condizione d’identificarsi con questo o quell’altro protagonista; inoltre,
la continua variabilità caleidoscopica di cui si sostanzia l’opera nel suo
insieme fa sì che la narrazione sia radicalmente policentrica. Se il testo
è disseminato di eventi storici e allusioni alla realtà contingente, il focus
della narrazione è e resta, con poche eccezioni, rigorosamente centrato
sulla sfera privata. La reclusione volontaria degli Uzeda nel Palazzo (o
nelle altre dimore di famiglia) conferma di fatto il loro sentirsi arroccati
in una rete di potere che pone a riparo da qualsiasi forma di evoluzione
temporale e spaziale. In tal senso, se intesa come una ripresa postunitaria del genere del romanzo storico, l’opera potrebbe essere interpreta-9
o8
ta come un rovesciamento ironico di quell’ottimismo prevalente inella
o
u
tradizione del romanzo storico italiano, per lo meno nelle m
forme e nei
modi in cui esso fiorì nel periodo risorgimentale52. aria
il
A conti fatti, i romanzi di Verga e De Roberto testimoniano
non solo
a
ne
la componente fortemente regionale della e
letteratura
siciliana di fine
i
rt
pa
ap
k
51. Cfr. H. Meter, op. cit., pp. 107-113
oo e M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito
b
critico dalle origini al post-moderno,
Lecce, Manni, 1999.
E
52. Per contro alle precedenti
dei Viceré, secondo cui il romanzo sarebbe
to interpretazioni
s
più di tipo sociale, con
riferimenti
a un ambiente ben specifico e ristretto, Margherita Ganeri,
e
pone l’accento sulugenere del romanzo storico, rilevando la componente polemica verso lo
Q del periodo romantico. Cfr. M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia, cit.,
storicismo teleologico
pp. 65-80, in particolare p. 70.
71
m
gm
co
.
l
i
a
JOBST WELGE
72
to
ue
s
Q
Ottocento, ma anche quanto uno spazio periferico come quello siciliano si dimostri essere in realtà il centro più vitale – a livello letterario –
di tutto il Paese, con una rappresentazione dell’identità locale deputata
all’esame critico e all’accompagnamento stesso del processo di unificazione nazionale53. Per quanto la problematizzazione storico-politica
sia molto più prominente in De Roberto, anche il romanzo di Verga
mostra come l’insularità dello spazio rappresentato miri a disvelare,
essendone al contempo l’esito, l’autocoscienza storica della nuova Nazione nata nel solco del Risorgimento, sulle macerie delle speranze di
integrazione democratica. Per questo motivo, i due romanzi sono ad
oggi ritenuti due modelli fra i più rappresentativi del romanzo italiano di fine secolo. In entrambi i testi, è l’istituzione – decisamente poco
borghese – della famiglia a rappresentare un fronte di resistenza contro il processo di modernizzazione associato al Nord, così fungendo da
principio di ciclicità temporale. Tuttavia, se la famiglia dei Malavoglia
verghiani offre il ritratto dei vinti, degli sconfitti, di un progresso e di
una storia ai margini, gli Uzeda di De Roberto resistono al progresso
medesimo fingendo di aderirvi.
E-
k
bo
o
a
ap
p
e
tr ie
n
a
ila
ria
m
u
9
oio
8
gm
om
ail
.c
53. Cfr. D. O’Connell, Degenerative Genre: Federico De Roberto and his Sicilian Legacy, in
J.R. Dashwood, M. Ganeri (a cura di), The Risorgimento of Federico De Roberto, Oxford, Peter
Lang, 2009, pp. 137-163.
2
20
1
PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA
73
Bibliografia
Asor Rosa A., (2009), Storia europea della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 3 voll.
Augieri C.A., (1982), La struttura della parentela come codice narrativo in Vita dei
campi, in R. Luperini (a cura di), Verga: l’ideologia, le strutture narrative, il
«caso» critico, Lecce, Milella.
Baglio S., (1991), I Malavoglia: la «famigliuola» e il paese, in N. Cacciaglia, A. Neiger, R. Pavese (a cura di), Famiglia e società nell’opera di G. Verga, Atti del convegno nazionale, Perugia, 25-26-27 ottobre 1989, Firenze, Leo S. Olschki.
Baldi G., (1980), L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga
verista, Napoli, Liguori.
Qu
es
to
Borri G., (1995), Come leggere I Viceré di Federico De Roberto, Milano, Mursia.
E-
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
bo
ok
ap
Candido A., (2010), O Mundo-provérbio, in A. Candido, O Discurso e a Cidade,
Rio de Janeiro, Ouro sobre Azul.
Contarino R., (1989), Il Mezzogiorno e la Sicilia, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana: storia e geografia, L’età contemporanea, vol. III, Torino, Einaudi.
Dainotto R.M., (2000), Place in Literature: Regions, Cultures, Communities, Ithaca, Cornell University Press.
Dainotto R.M., (2007), Europe (In Theory), Durham, Duke University Press.
De Roberto F., (1984), Romanzi, novelle e saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori.
De Roberto F., (1990), I Viceré, Torino, Einaudi.
Edgeworth M., (1800), Castle Rackrent, London, J. Johnson.
Ganeri M., (1999), Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al
post-moderno, Lecce, Manni.
Grana G., (1982), I Viceré e la patologia del reale. Discussione e analisi storica delle
strutture del romanzo, Milano, Marzorati.
Gumbrecht H.U., (1978), Zola im historischen Kontext: Für eine neue Lektüre des
Rougon-Macquart-Zyklus, München, Wilhelm Fink.
Küpper J., (2002), Zum italienischen Roman des neunzehnten Jahrhunderts: Foscolo, Manzoni, Verga, D’Annunzio, Stuttgart, Steiner.
pa
rti
en
e
a
ila
JOBST WELGE
74
Link-Heer U., (1983), Über den Anteil der Fiktionalität an der Psychopathologie des
19. Jahrhunderts, in «Zeitschrift für Literaturwissenschaft und Linguistik»,
51/52.
Luperini R., (1989), Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Bologna, il Mulino.
Luperini R., (2003), «I Malavoglia» e la modernità, in F. Moretti (a cura di), Il
romanzo, vol. V, Torino, Einaudi.
Mazzoni G., (2011), Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino.
Meter H., (1986), Figur und Erzählauffassung im veristischen Roman: Studien zu
Verga, De Roberto und Capuana vor dem Hintergrund der französischen Realisten und Naturalisten, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann.
Qu
Moretti F., (1994), Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di
solitudine, Torino, Einaudi.
es
to
E-b
Moretti F., (2013), The Bourgeois. Between History and Literature, London, Verso.
oo
Nelson B., (2012), Émile Zola (1840-1902): Naturalism, in M. Bell (a cura di), The
Cambridge Companion to European Novelists, Cambridge, Cambridge University Press.
ka
pp
art
ien
O’Connell D., (2009), Degenerative Genre: Federico De Roberto and his Sicilian
Legacy, in J.R. Dashwood, M. Ganeri (a cura di), The Risorgimento of Federico
De Roberto, Oxford, Peter Lang.
ea
ilar
iam
Parnes O., Vedder U., Willer S., (2008), Das Konzept der Generation. Eine Wissenschafts-und Kulturgeschichte, Frankfurt am Main, Suhrkamp.
uo
io8
9g
Pellini P., (2010), Naturalismo e verismo. Zola, Verga e la poetica del romanzo, Firenze, Le Monnier.
Spitzer L., (1956), L’originalità della narrazione nei Malavoglia, in «Belfagor»,
11, 1.
Tellini G., (1998), Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Mondadori.
Veglia F., (2007), Il ‘maestro’ e il ‘discepolo’: su alcune immagini di Zola nell’epistolario di Verga, in R. Luperini (a cura di), Il verismo italiano fra naturalismo
francese e cultura europea, Lecce, Manni.
Verga G., (1975), Lettere a Luigi Capuana, G. Raya (a cura di), Firenze, Le Monnier.
Verga G., (1995), I Malavoglia, F. Cecco (a cura di), Torino, Einaudi.
Verga G., (2011), Tutte le novelle, G. Zaccaria (a cura di), Torino, Einaudi.
ma
il.c
o
Un romanzo in costruzione:
I Viceré e il tema dell’improduttività
Rossana Chianura
Qu
1.
es
to
Una parte non trascurabile del dibattito critico sul romanzo I Viceré
ha sempre, grossomodo, gravitato attorno a tre aspetti: il genere letterario d’appartenenza, il rapporto con il verismo e le tecniche narrative
per certi versi eccentriche (dall’estrema impersonalità alla deformazione in senso espressionistico della realtà). Tutti questi aspetti contribuiscono a complicare qualsiasi analisi tenti di inquadrare il testo in una
cornice sicura, e sono in parte strettamente legati alle circostanze in cui
il romanzo ha visto la luce. Gli anni a cavallo dell’esperienza autoriale di
De Roberto sono segnati, infatti, da un lato dalla pervasività del modello
melodrammatico proprio dei romanzi d’appendice francesi; dall’altro
dalla concezione antirealistica dannunziana1 e dalla frequentazione di
teorie irrazionalistiche, come l’ipnotismo e lo spiritismo2. Nel 1894,
anno in cui I Viceré viene pubblicato, e per tutti gli anni Novanta, il
E-
bo
ok
ap
pa
rti
en
e
a
ila
ria
m
uo
io8
9
gm
ail
.c
1. In un recente contributo Giancarlo Alfano prende in considerazione l’anno 1889
come quello in cui emergono le due “linee” della prosa fin de siècle: è il momento in cui vengono pubblicati, infatti, Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga e Il piacere di D’Annunzio,
due romanzi praticamente agli antipodi per scelta del punto di vista e idea di mondo. (cfr.
G. Alfano, L’anno 1889, in Idem, F. De Cristofaro (a cura di), Il romanzo in Italia. II. L’Ottocento, Roma, Carocci, 2018, pp. 319-321).
2. Già nel 1881 Antonio Fogazzaro con Malombra associa l’impianto onnisciente della narrazione all’esplorazione degli abissi di una mente morbosa; il romanzo testimonia
un «intreccio tra l’eziologia delle patologie nervose e la ricezione della moda spiritista»,
quest’ultima in quanto parte della reazione idealistica fin de siècle al positivismo. Per un’agile panoramica sull’argomento cfr. il recente U.M. Olivieri, Le culture dell’irrazionalismo, in
G. Alfano, F. De Cristofaro (a cura di), op. cit., in particolare pp. 387-389.
23
- 84
09
ROSSANA CHIANURA
23
- 08
76
Qu
est
o
E-b
oo
ka
pp
art
ien
e
a il
ari
am
uo
io8
9g
ma
il.c
om
20
12
28
09
-12
campo letterario si caratterizza, dunque, per la compresenza di diverse
idee di romanzo, la cui inconciliabilità dipende dal rispettivo atteggiamento nei confronti del punto di vista narrativo e della rappresentazione della realtà sociale e psichica dei personaggi. Entrambi gli aspetti
possono essere visti come il riflesso di un rapporto ormai mutato tra i
destini privati e la Storia, che in Italia prende la forma di una progressiva sfiducia nelle possibilità offerte dall’unificazione nazionale, dello
sbiadire del racconto del Risorgimento presso le nuove generazioni e,
non meno importante, della repressione delle lotte sociali durante la
dura depressione economica (1888-1893).
Per quanto riguarda la narrativa, gli ultimi dieci anni dell’Ottocento
rappresentano agli occhi di alcuni critici una «lunga zona grigia»3, la
cui vischiosità è data dalla sovrapposizione di tradizionalismo e sperimentalismo, sullo sfondo di una generale crisi (o trasformazione) delle
applicazioni del positivismo in letteratura4.
L’opera di Federico De Roberto fotografa piuttosto da vicino questa fase di metamorfosi della forma romanzo: vent’anni più giovane del
suo maestro Giovanni Verga, l’autore dei Viceré è scrittore fin «troppo
europeo» e «intriso di succhi apocalittici fin de siècle»5 perché la sua
opera venga semplicemente liquidata come una delle prove della disgregazione degli ideali risorgimentali. Allievo di Zola e di Maupassant,
De Roberto riesce a conciliare una visione estremamente soggettiva
della realtà – la quale gli appare come un caos privo di valori e di tragedia – con la necessità di una rappresentazione comunque obiettiva,
«che non si commove e non si appassiona di nulla»6, che con una «tersa
3. G. Petronio, La narrativa in Italia nel secondo Ottocento. Tra romanticismo e decadentismo, in Naturalismo e verismo: generi, poetiche e tecniche, Atti del Congresso Internazionale di
Studi, Catania 10-13 febbraio, vol. I, Catania, Fondazione Verga, 1986, p. 86.
4. Ci troviamo, infatti, nel pieno della cosiddetta «seconda» fase di smantellamento del
«paradigma ottocentesco», quella che va dal 1850 al 1900, secondo la scansione per ampie
stazioni storiche delineata da Guido Mazzoni (Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011,
p. 307 ss.).
5. G. Maffei, L’amnesia della storia ne «L’Imperio» di Federico De Roberto, in «Sinestesie»,
IX, 2011, p. 425.
6. L. Capuana, Novelle, in Idem, Libri e teatro, Catania, Giannotta, 1892, p. 149.
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
lucidità di specchio riflette» il reale meglio dell’«obbiettivo fotografico»7, portando all’estremo un aspetto cruciale della concezione verista:
l’idea che «la verità» dei personaggi si risolva «nella loro visualizzazione»8 oggettiva. Con De Roberto si affaccia, forse per la prima volta verso la fine del secolo, il problema della relatività del giudizio soggettivo
di fronte agli aspetti contraddittori della realtà «visualizzata»: la verità
non è più (solo) quella che emerge dalle condizioni materiali in cui vivono gli uomini, ma è anche – e sicuramente nei Viceré – quella fragile
e intermittente della psiche alle prese con il problema del dominio sulla
realtà e sugli altri.
Venendo al dibattito critico e limitandoci al problema del genere
letterario, lo studio di Vittorio Spinazzola9 considera il romanzo di De
Roberto come il fondatore di una triade di «romanzi antistorici» che si
reggono su un’idea negativa e contestataria della storia risorgimentale: I Viceré testimoniano, in quest’ottica, una sostanziale continuità fra
primo e secondo Ottocento nella frequentazione del genere del romanzo storico, che a fine secolo muta, dando nuovi esiti «prevalentemente parodici e polemici»10. Poiché privo di un’intenzione propriamente
storiografica, il romanzo derobertiano si mantiene decisamente alla
larga da qualsiasi chiarimento di ordine generale a proposito dei grandi
eventi storici, che vengono piuttosto inoculati nell’universo finzionale
come «tempeste»11 improvvise, rispetto alle quali i personaggi dovranno modificare i loro piani di dominio.
Naturalmente risulta significativo che le vicende dei Viceré si
sviluppino lungo due decenni densissimi dal punto di vista dell’adeguamento al nuovo assetto politico. A dare conto di questo sono in
particolare le zone conclusive delle tre parti in cui è diviso il roman-
e a ilari
sto E-book
appartien
Que
7. Ibid., p. 153.
8. C.A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Roma, Quodlibet, 2007,
p. 64.
9. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Milano, CUEM, 2009. Lo studioso ha inoltre il
merito di aver contribuito, assieme a Natale Tedesco, a riaprire il dibattito sul romanzo all’inizio degli anni Sessanta, col saggio Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli, 1961.
10. M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia, Lecce, Manni, 1999, p. 7.
11. V. Spinazzola, op. cit., p. 139.
77
ROSSANA CHIANURA
zo, che realizzano, infatti, una sovrapposizione, tramite montaggio,
di scene familiari e avvenimenti politici epocali, quali sono le prime
elezioni al parlamento del Regno d’Italia (1861), la presa di Roma
(1870) e le prime elezioni a suffragio universale maschile (1882). In
queste zone del testo convivono due intenzioni praticamente opposte: da un lato, da un punto di vista di pura organizzazione dei contenuti, abbiamo la messa in evidenza di un avvenimento in quanto
“finale” di un blocco narrativo più ampio; dall’altro assistiamo, da un
punto di vista formale, alla messa in sordina del dato storico stesso,
in quanto scisso dalle sue motivazioni causali, tagliuzzato ad hoc e
ben posizionato nel montaggio a effetto. La Storia nei Viceré è uno
strumento da adoperare a proprio vantaggio o svantaggio, e risulta
definitivamente ridotta a puro ingranaggio. Per capire il modo in cui
si muove la «macchina»12 di cui questo ingranaggio fa parte può risultare vantaggioso concentrarsi sulle caratteristiche specifiche della
vicenda romanzesca, che è fondamentalmente una storia familiare, le
cui dinamiche sono tali da attrarre a sé e modificare di conseguenza
tutti i motivi a essa potenzialmente estranei. A differenza, infatti, di
ciò che accade nei Malavoglia, un romanzo che «non è affatto riducibile alla storia della famiglia»13 Toscano, il contesto familiare degli
Uzeda si presenta come l’unico luogo di fondazione dei significati del
testo; fabula e intreccio non presentano scarti significativi e organizzano i propri segmenti elaborando incessantemente il problema
dell’incomunicabilità, della tradizione, e del «discorso […] quale unico tramite delle relazioni»14 tra personaggi appartenenti allo stesso
nucleo familiare.
12. Il termine chiama direttamente in causa una celebre definizione di Giovanni Verga, il
quale in una lettera a De Roberto (21 ottobre 1894) definisce I Viceré una «machine poderosa», invitando l’amico a operare dei tagli. Si veda A. Ciavarella (a cura di), Verga, De Roberto,
Capuana. Celebrazioni bicentenarie, Biblioteca universitaria, Catania 1755-1955, Catania,
Giannotta, 1955, p. 129.
13. R. Luperini, Simbolo e «ricostruzione intellettuale» nei Malavoglia, in Idem, Giovanni
Verga, Roma, Carocci, 2019, p. 135. Questo volume raccoglie quasi tutti i saggi dello studioso
su Verga, usciti fra il 1976 e il 2018.
14. E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2015, p. 69.
Qu
est
oE
-bo
ok
app
art
78
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
79
L’adozione di una categoria allo stesso tempo precisa e ampia, onnicomprensiva15, come quella del romanzo di famiglia viene in soccorso
nel momento in cui si debba considerare il romanzo come un unico
sistema, formale ed espressivo; in quest’ottica, il tentativo di questo intervento è almeno triplice: indagare in che modo i significati genealogici si propagano nel testo e lo organizzano; far emergere il particolare
policentrismo della narrazione derobertiana a livello della struttura e
di alcune scene singole; dimostrare in che modo l’ambiguo policentrismo di questo romanzo venga tematizzato sul piano dell’inventio, in
particolare sul piano delle azioni dei personaggi, tutte in qualche modo
legate al tema dell’improduttività.
2.
Una prima osservazione riguarda l’impiego della genealogia, che
nel romanzo assume una funzione paradossale: invece di presentarsi
come uno schema in grado di evocare e realizzare alcuni significati ad
essa sottesi, come quelli di tradizione, trasmissibilità del sapere, meQusembra
estoincamerare
moria, l’albero genealogico degli Uzeda
alcuni di
E boo
questi nodi tematici al puro scopo di negarli. La linea -delle
generazioni
k app
artien
agisce piuttosto come un sistema di controllo del materiale narrativo,
e
in quanto sfrutta la sequenza ereditaria come una formula narrativa
sempre replicabile e di sicura efficacia. Questa sequenza rappresenta
l’unica struttura di senso possibile in un romanzo in cui un notevole
indebolimento del principio di realtà agisce sui personaggi, sullo stile e
sull’idea di mondo a cui quest’ultimo rimanda. L’abbondanza di scene
in cui domina «la confusione dei discorsi e dei valori»16 non solo delinea un quadro abbastanza fosco di continua autocontraddizione dei
15. Con questo termine si intende fare riferimento in particolare ad una delle caratteristiche di genere individuate da Marina Polacco, quella del romanzo di famiglia come «forma
informe» in grado di «mescolare generi e modalità narrative diverse»; Bildungsroman, romanzo storico, romanzo matrimoniale possono essere visti come diversi modi tutti compresenti e significativi per il loro «implicarsi reciprocamente». (cfr. Romanzi di famiglia. Per una
definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, p. 115).
16. P. Pellini, Naturalismo e verismo, Scandicci, La Nuova Italia, 1998, p. 75.
a ila
80
ROSSANA CHIANURA
personaggi, ma limita le uniche occasioni veramente comunicative allo
scambio utilitaristico di informazioni in vista di una spartizione ereditaria. In assenza di quest’ultima condizione serpeggia piuttosto, all’interno della cerchia familiare, una coesione dispersiva, in cui si impone,
tramite la strategia dell’evitamento reciproco, una placida – e temporanea – assenza di scontro. Questi elementi convergono e si organizzano
formalmente soprattutto nelle scene che descrivono la famiglia riunita,
come la seguente:
[…] don Blasco continuava a fiottare contro i rivoluzionari e i quarantottisti che minacciavano di alzar la coda. […] Il Priore […] nel gruppo delle
tonache nere, dolorava anch’egli, a bassa voce, l’iniquità dei tempi per via
della legge piemontese contro le corporazioni religiose; […] la principessa
se ne stava in un angolo, un po’ alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d’affari:
del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano
raccontava alla baronessa Cùrcuma un suo sogno […] Le ragazze Mortara e
Costante, amiche di Lucrezia, parlavano d’abiti a quest’ultima, per divagarla,
quantunque ella non desse loro ascolto e rispondesse a sproposito, com’era
sua abitudine; ma la cugina Graziella teneva da sola animata la conversazione,
rivolgendosi a tutti ed a ciascuno, passando da una sala all’altra, chiacchierando d’abiti, di sarte, della Crimea, del Piemonte, della guerra, del colera.
Stanca del viaggio, la contessa Matilde parlava poco, aspettando di ritirarsi
nelle sue camere; […]. E il cavaliere don Eugenio giudicava povertà il lusso
dei moderni funerali a paragone di quello di un tempo […]17.
to
es
Qu
Tutti i membri della famiglia Uzeda sono alle prese con interlocutori ogni volta diversi, esterni alla cerchia familiare e giunti a palazzo
principalmente per curiosità (il testamento della principessa Teresa
sta per essere letto) o opportunismo; i «discorsi di politica, di moda,
di viaggi» (V, p. 451) vengono riportati in modo contrappuntistico con
17. F. De Roberto, I Viceré, in Idem, Romanzi, novelle, saggi, C.A. Madrignani (a cura di),
Milano, Mondadori, 1984, pp. 449-450, d’ora in poi V seguito dal numero di pagina nel corpo del testo. I corsivi sono miei e evidenziano l’abbondanza di verbi dichiarativi puri o di
loro sostituti più dinamici.
k
oo
b
E
ai
89 gm
o
i
o
u
ilariam
a
e
artien
p
p
a
k
E-boo
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
Ques
to
l’effetto di un sostanziale pareggiamento valoriale. Dopo aver indugiato
brevemente sugli atteggiamenti comunicativi o non comunicativi dei
singoli membri, dall’ipertrofia chiacchierona della cugina Graziella, che
si rivolge «a tutti ed a ciascuno», alla quasi totale assenza di contatto
(la principessa Margherita, Lucrezia, la contessa Matilde), la sequenza
termina significativamente su don Eugenio, il cui monologo sulle virtù
di un tempo non sembra interessare nessuno dei presenti: tra coloro
che parlano, infatti, il cavaliere è l’unico a non avere un interlocutore
esplicito. L’intera sequenza, e in particolare quest’ultimo medaglione,
finalizza una dinamica costantemente attiva nel testo: l’esasperazione,
attraverso alcuni accorgimenti formali, della condizione di isolamento
in cui si trovano i personaggi. È proprio nei luoghi che evocano l’appartenenza al clan che il tempo vissuto assieme, sincronicamente, risulta
parcellizzato e inconsistente. Il moltiplicarsi dei discorsi, il ritmo con
cui il narratore «resocontista»18 si sposta da un angolo all’altro del salotto di rappresentanza per cogliere l’insieme delle pose e degli atteggiamenti, l’abuso che in queste sequenze si fa dei verbi dichiarativi: se nel
romanzo di famiglia, in generale, è «la trasmissione della memoria»19 a
determinare l’appartenenza di un membro al clan, in questo particolare
caso sono l’uso della parola, l’impianto adialettico dei discorsi e l’isolamento degli individui in se stessi a costituire il tratto ereditario primario. Dovendo estendere questo tratto alla storia secolare della famiglia,
essa apparirà, nel suo complesso, come un brusio di discorsi vuoti e
mal articolati, su cui, di tanto in tanto, si impongono i soli avvenimenti in grado di determinare una convergenza degli interessi: episodi di
violenza e, soprattutto, spartizioni patrimoniali. Il nesso morte-eredità
non solo dà avvio agli eventi, ma scandisce significativamente l’intera
cronaca privata, dunque la narrazione. Si potrebbe dire che al di fuori di questo nesso non c’è racconto. Quest’ultimo, allora, si configura
come uno spazio allegorico, continuamente attraversato dal motivo
della distruzione e ricostruzione del mondo a seguito di conflitti in cui
18.
19.
V. Spinazzola, op. cit., p. 69.
M. Polacco, op. cit., p. 120.
81
ROSSANA CHIANURA
82
l’energia vitale dei personaggi si rigenera e si spreca senza fine. Distruzione e ricostruzioni, se trasferiti sul piano formale di organizzazione
del testo, danno origine a una struttura segmentale la cui principale
caratteristica è la ripetizione variata degli eventi e delle situazioni, e
in cui si fa fatica a individuare un principio gerarchico. L’«apparente
“pienezza” romanzesca»20 del testo, dunque, si sgonfia proprio a causa
della «ridondanza»21 – e minima variazione – delle vicende che la compongono. Per far emergere tali segmenti può tornare utile osservare da
vicino l’asse ereditario principale (quello madre-figlio e padre-figlio).
Consideriamo, dunque, i personaggi di Teresa Risà, del figlio primogenito di Teresa, Giacomo, e del figlio di questi, Consalvo, e costruiamo
uno schema che mostri lo sviluppo delle loro traiettorie in relazione
alla struttura del romanzo:
Prima parte
Seconda parte
Terza parte
1855-1861
1861-1870
1870-1882
GIACOMO-FIGLIO
GIACOMO-PADRE
Azioni demolitrici
Romanzo di Teresa
1
2
3
4
5
6
7
Romanzo di Consalvo
8
9
1
2
3
4
5
6
Q
boo
E
o
uest
8
9
1
2
3
4
5
6
7
8
9
SECONDO MOVIMENTO
PRIMO MOVIMENTO
Morte di Teresa
7
cadavere
20. M. Polacco, Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni, D. Giglioli (a
cura di), Quindici episodi del romanzo italiano: 1881-1923, Bologna, Pendragon, 1999, p. 153.
21. Ibid. In corsivo nel testo.
om
201
228
ail.c
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
Qu
est
oE
-bo
ok
app
arti
ene
a ila
riam
uoi
o89
gm
L’avvio del primo movimento del romanzo coincide con l’esaurimento della storia di Teresa Risà (Romanzo di Teresa), l’anziana principessa
madre, del cui decesso si dà notizia nella prima pagina. La morte della
principessa Teresa, figlia di un «barone contadino» (V, p. 473) e data in
sposa al rampollo di una famiglia nobile in rovina, Consalvo VII Uzeda,
chiude simbolicamente un’epoca che aveva assistito da poco all’arricchimento della piccola nobiltà tramite il commercio. Se consideriamo la storia plurisecolare degli Uzeda diventa evidente che le vicende
raccontate nel testo sono tutte da inserire in un secondo tempo della
cronaca privata, un tempo che si pone abbondantemente al di là di un
punto di svolta decisivo, anche storicamente: la borghesizzazione della
nobiltà e l’immissione di nuovi patrimoni nei forzieri dell’aristocrazia
in crisi, che non sono più fenomeni nuovi e non rappresentano più un
momento di rottura nell’economia complessiva della cronologia familiare. La traiettoria esistenziale di Teresa rappresenta, allora, il collante
tra vecchio feudalesimo e modernità, ed è per questo il centro virtuale
della storia familiare. I Viceré, però, non racconta queste vicende, che
rimangono pertanto escluse dall’orizzonte del testo e si trovano tutte
alle spalle dei personaggi; lungo la sua prima metà il romanzo non fa che
svolgere, dilatandolo, l’epilogo della storia di Teresa, dal suo decesso
alla contemplazione del cadavere da parte della famiglia il giorno dei
defunti:
La vigilia dei Defunti, tutti gli anni, la famiglia recavasi nelle catacombe dei
Cappuccini, a visitare gli avanzi della principessa Teresa […] La bambina
tremava da capo a piedi […] la nonna, tutta nera in viso, nella bara di vetro,
vestita da monaca, con la testa sopra una tegola e le mani aggrappate disperatamente a un crocefisso d’avorio!… (V, pp. 804-805)
Il corpo imbalsamato della principessa defunta non viene mai mostrato prima del capitolo quinto della seconda parte. La scena è descritta, quasi interamente, dal punto di vista della nipote Teresina che,
turbata alla vista della nonna morta, ci regala un’ultima, calzante descrizione del carattere della defunta: il suo aggrapparsi «disperatamente» al prezioso crocefisso, quasi fosse ancora viva e senziente, rimanda
83
ROSSANA CHIANURA
84
Q
ad un attaccamento alla «roba» patologico, che sfida i limiti naturali
dell’esistenza e divora, ugualmente, i vivi e i morti.
In quanto documento che «stabilisce […] la sopravvivenza d’un
se stesso identificato coi propri beni materiali»22, il testamento della
principessa madre è concepito come un surrogato della sua personalità:
l’ossessione per il controllo delle vite degli altri e l’accentramento delle
decisioni che contano in una sola persona sono aspetti che promanano
dalle disposizioni ereditarie, ne costituiscono, anzi, la sostanza vera e
propria. Lungo tutto il primo movimento (dal primo capitolo della prima parte al quinto capitolo della seconda parte), il figlio primogenito
di Teresa, Giacomo, non farà altro che accentrare su di sé le decisioni
che riguardano il patrimonio, defraudando i parenti dei rispettivi lasciti
e manipolando a proprio vantaggio le ultime volontà della genitrice;
queste, anzi, rimangono di fatto lettera morta, vengono corrose dall’interno e rese improduttive.
Che il quinto capitolo determini, in un testo «decentralizzato»23
come quello dei Viceré, un momento di svolta, o di travaso, per le
energie compositive del romanzo è dimostrato anche dal fatto che,
una volta ultimato – anche simbolicamente, con l’ostensione del corpo della principessa – il processo di annullamento delle sue volontà,
vengono poste immediatamente le basi per un nuovo scontro generazionale, che avrà lo stesso esito del primo. Nel sesto capitolo immediatamente successivo, infatti, il figlio primogenito di Giacomo,
Consalvo, viene finalmente liberato dal convento dei benedettini e
ricondotto in famiglia. Qui lo vediamo per la prima volta «a cassetta», mentre brandisce «trionfalmente la frusta» (V, p. 816) e «lasciata
finalmente la tonaca per gli abiti di tutti gli altri cristiani, […] se ne
andava […] a sterminar conigli, lepri, pernici ed anche passeri, se non
trovava altro; poi faceva attaccare ogni giorno, per imparare a guidare, e il suo calessino divenne in breve il terrore di chi girava per le vie
di campagna […]» (V, p. 817).
ues
to
E-
p
b
o
o
ka
e
par
tien
9
a
i
l
a
riam
u
o
io8
gm
a
i
l.co
m
2
012
22. F.I. Caldarone, Federico De Roberto continuatore dell’opera verghiana: il tema del «testamento», in «Italica», 64, 2, Summer 1987, p. 266.
23. M. Ganeri, op. cit., p. 76.
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
85
Da figlio che vuole rifarsi dell’oppressione materna, Giacomo si trasforma, nel giro di poche pagine, in padre esasperato: la “scarcerazione” di Consalvo coincide con il suo ingresso ufficiale nei ranghi della
famiglia; e ciò vuol dire, secondo la logica uzediana dell’appartenenza
al clan, ereditare una facoltà di potenza illimitata (rappresentata, qui
come in altre scene della stessa zona del romanzo, dal principino sempre “alla guida” del calesse o a capo di altre attività, come la caccia) e
una facoltà di distruzione che si esercita col terrore sul prossimo. All’altezza di questo capitolo della seconda parte ha inizio quel Romanzo di
Consalvo, il cui tratto conclusivo si trova al di là del testo, nel romanzo
incompiuto L’Imperio24.
Nel secondo movimento della storia dei Viceré vediamo susseguirsi
l’esclusione di Consalvo dall’eredità paterna – per il rifiuto di contrarre matrimonio – e l’annullamento di questa volontà di esclusione: la sorella minore, Teresa, unica legataria delle fortune accumulate
dal padre, deciderà, con gesto magnanimo, di includere di nuovo il
fratello nella spartizione. Ancora una volta, la nuova generazione
demolisce il disegno dettato dalle precedenti: sono quelle azioni demolitrici che accompagnano e caratterizzano la cronologia del romanzo, che si presenta come un mero e inoperoso andare avanti in
cui il rapporto dei personaggi col passato è concepito solo in termini
di distruzione.
m
a
i
l
.
co
m
89
g
io
mu
o
ia
e
a
r
t
ien
a
i
l
ar
pp
o
ok
a
oE
-b
3.
st
L’incipit del sesto capitolo della seconda parte realizza sul piano
formale ciò che l’uscita dal convento del principino Consalvo realizza,
simultaneamente e su un piano prettamente contenutistico, di avanzamento della trama familiare. Il sesto capitolo, infatti, si apre con una
Qu
e
24. Le vicende di alcuni componenti della famiglia Uzeda, infatti, sono al centro di altri
due romanzi: L’Illusione (1891), uscito prima de I Viceré, in cui si racconta la storia di una
nipote di Giacomo, Teresina, adulta e sognatrice destinata al disincanto; e L’Imperio (1929),
uscito postumo e incompiuto, in cui seguiamo la carriera politica romana di Consalvo, oltre
a quella dell’idealista Federico Ranaldi. Insieme i tre volumi costituiscono il “ciclo degli Uzeda”, oltre a imperniarsi, in modalità molto diverse, sul tema della Bildung, impossibile per i
personaggi de I Viceré o condannata alla disillusione.
22
20
1
ROSSANA CHIANURA
86
descrizione d’ambiente che ci porta nel pieno di una nuova epidemia di
colera, la terza – e la più feroce – del romanzo:
Per la via polverosa, sotto il cielo di fuoco, un’interminabile fila di carri colmi di masserizie: stridevano le ruote, tintinnavano i sonagli, e i carrettieri
seduti sulle stanghe o appollaiati in cima al carico, voltavano tratto tratto
il capo, se uno scalpitar più frequente e un più vivace scampanellìo di sonagliere annunziava il passaggio di qualche carrozza. Allora la fila dei carri
serravasi sulla destra della via, e il legno passava, tra una nugola di polvere e
lo schioccar delle fruste, mentre le facce spaventate di fuggenti mostravansi
un istante agli sportelli. (V, p. 813)
Prima ancora di analizzare questo passo per ciò che rappresenta,
ci si dovrà soffermare innanzitutto sugli elementi di stile. Emerge innanzitutto l’assenza del verbo nella prima frase, seguita dall’insistenza
sugli aspetti sonori («stridevano», «tintinnavano», «scampanellìo di sonagliere,» «schioccar delle fruste») e di descrizione della lenta e muta
gestualità dei presenti (i carrettieri «appollaiati» che voltano «tratto tratto il capo», «le facce spaventate di fuggenti» che appaiono per
pochi istanti). Tutti questi elementi, e in particolare il lungo momento
descrittivo in cui sono inseriti, sono insoliti nella prosa derobertiana:
I Viceré, infatti, si contraddistinguono per la quasi totale assenza di descrizioni, e in particolare di descrizioni d’ambiente; non solo: anche la
stilizzazione della scrittura – che qui e nel resto della scena è particolarmente densa – è qualcosa che si verifica molto raramente, poiché il
narratore aderisce completamente al modo di pensare dei personaggi, e
a questa adesione spesso mescola un giudizio che significa disprezzo e
assenza di partecipazione.
Queste righe rappresentano la fuga degli abitanti da Catania, una
città in cui il colera fa «trecento morti il giorno», dove persino la legge è sospesa poiché non esiste «più consorzio civile, nessuna autorità,
né deputati, né consiglieri, né niente» (V, p. 833), ma in cui rimangono
ben saldi i diritti dei potenti, le cui carrozze “hanno la precedenza” sui
carri dei contadini. L’evacuazione della città reinterpreta sul piano del
contenuto ciò che sta accadendo al romanzo proprio a partire da queste
Qu
est
o
E-b
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
pagine, sarebbe a dire la sparizione dal testo di alcuni personaggi, che
per morte naturale oppure allontanamento fisico da casa Uzeda danno
avvio ad un meccanismo di svuotamento della scena narrativa25. Questa strategia di liberazione del testo dai rami secchi della trama (secchi
perché già ampiamente sfruttati o ininfluenti per il secondo movimento
che si sta per aprire) prende le fattezze di una strage collettiva: i catanesi
– come i personaggi – diventano «cadaveri insepolti, cotti dal torrido
sole estivo», che dopo essere caduti «lungo gli stradali» infestano l’aria
coi loro «pestiferi miasmi» (V, p. 833).
L’epidemia mette in scena una vera e propria apocalisse; la sua collocazione al centro esatto del romanzo, però, getta un’ombra di provvisorietà sui suoi effetti. Innanzitutto, l’epidemia è un evento che attraversa
periodicamente almeno la prima metà del testo, non è un unicum; inoltre, il mondo, benché impestato, continua a marciare allo stesso modo
e a riproporre invariati i rapporti di forza tra le classi; infine, ed è l’aspetto più importante, dopo di essa il lettore assiste alla ripetizione con
variazione della stessa vicenda che si è svolta lungo il primo movimento,
ossia lo scontro tra l’erede e il capocasata della famiglia. Dunque, l’epidemia come momento di sospensione e sanificazione della trama è
paragonabile a una fine del mondo transitoria e non ad un crollo definitivo, poiché non determina una trasformazione radicale dei significati
alla base del vissuto degli uomini, che anzi si rapportano all’esistente
come a qualcosa che per loro era ed è eternamente familiare. Il colera
assume il ruolo di un finto fulcro della narrazione: la sua sola Q
forza
ue sta
nel posto che occupa, il centro matematico del testo, e nel determinare
sto
un avvicendamento inerziale di nuovi personaggi.
Se riprendiamo in considerazione gli aspetti che abbiamo attribuito
alla genealogia uzediana – distruzione e ricostruzione, ripetizione variata delle vicende – ne consegue che in questo romanzo di famiglia la
25. Secondo Spinazzola, infatti, la seconda metà del testo, e in particolare la Parte terza,
si caratterizzano per un «gioco al massacro» con «declinazione catastrofica», che prevede
l’espulsione dal testo e la mancata sostituzione dei personaggi. Questa dinamica consente
una «graduale semplificazione dell’intreccio», che negli ultimi capitoli converge, disegnando una «struttura a estuario», sui fratelli della terza generazione, Consalvo e Teresina. (cfr.
V. Spinazzola, op. cit., pp. 141-142).
87
E-
bo
ok
ap
p
88
ROSSANA CHIANURA
narrazione è sì policentrica, cioè modulata sulle vicende che riguardano
un soggetto collettivo, ma in un senso piuttosto ambiguo. I molteplici
fuochi della narrazione, dai due grandi movimenti alle micro-storie che
questi contengono, non fanno che riproporre sempre la stessa situazione narrativa, quella del conflitto tra due o più soggetti determinato
dalla volontà di autoaffermazione. Le numerose occasioni di scontro
tra i personaggi vengono protratte, portate all’esasperazione, e tuttavia
e
artien
p
non oltrepassano mai il punto di non ritorno, oltre il quale
le
uniche
p
a
okrapporti, della
bodei
-fine
soluzioni disponibili sono quelle definitive,to
della
E
diseredazione, dell’omicidio. Il policentrismo
Ques del testo, allora, assume
i contorni di un circuito di svolte narrative a bassa intensità, e l’unica
legge che ne permette il funzionamento è che i personaggi continuino
a incontrarsi e scontrarsi all’infinito, alimentando il circuito. Non solo:
alla luce dell’esclusione del Romanzo di Teresa dal testo, che equivale
all’esclusione del momento di massima criticità e decadenza mai attraversato dal tessuto familiare, il tetro policentrismo dei Viceré ha l’aria
di mimare, nella forma, il destino di riattraversamento periodico di un
momento traumatico. Il romanzo, cioè, moltiplicando all’infinito le occasioni di conflitto tra i familiari, ricrea puntualmente quelle condizioni critiche che un tempo hanno reso urgente il salvataggio da parte di
un agente esterno: sperpero di denaro, litigi, fraintendimenti, dispetti,
che si traducono in una cattiva custodia dei beni di famiglia e in una
nuova necessità di intervento.
La specificità compositiva del romanzo sta dunque in questi due elementi, nell’assenza di un punto di svolta significativo, attorno al quale si
moltiplicano, quasi per gemmazione, centri narrativi tutti uguali e dunque inessenziali. Tale specificità compositiva, la sua logica, non intacca
solo la struttura complessiva del romanzo, ma agisce in profondità, e
ci permette di leggere sotto una lente diversa due scene in cui protagonista è una collettività senza volto. Il funerale della principessa Teresa
e il discorso elettorale di Consalvo, rispettivamente l’incipit e l’explicit
del romanzo, fanno da cornice al mondo vicereale e inscenano, estremizzandolo, il problema dell’inafferrabilità di un centro propulsore di
senso; queste due scene possono essere viste come due grandi allegorie
metatestuali, in cui la disposizione degli oggetti nello spazio, i movi-
a ila
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
89
menti dei personaggi – sempre antitetici e da «bolgia» (V, p. 441) – e
le relazioni tra questi rimandano a qualcos’altro, cioè alle modalità di
composizione del romanzo stesso che, come abbiamo detto, si frantuma in una serie di conflitti periferici organizzati attorno ad un centro
debole.
In queste scene, l’effetto ricercato è sempre quello di una schiacciante crisi della partecipazione dei presenti al momento rappresentato,
con un significativo «slittamento dell’attenzione»26 dal centro ai margini dell’esperienza che si sta tentando di comunicare. Quel «gioco di
estraneità reciproche e incrociate»27 tipicamente naturalista, che Verga
ad esempio imprime agli ultimi momenti di vita di Gesualdo, nell’ultimo capitolo del romanzo, in De Roberto è una modalità costantemente attiva, come abbiamo visto nel brano sulla famiglia riunita; tuttavia
raggiunge dei picchi con l’aumentare del numero di personaggi coinvolti, come durante le sontuose esequie della principessa all’inizio del
romanzo, in cui la messa in sordina del momento solenne degenera in
un grottesco corpo a corpo:
Ma la gente incalzava alle spalle e i discorsi s’interrompevano, i primi arrivati dovevano cedere il posto, se ne andavano sotto il palco dell’orchestra
eretto addosso all’organo, con quattro ordini di panche e manichi dei contrabbassi che spuntavano dal più alto, ma ancora vuoto; o giravano dalla parte opposta, verso la cappella della Beata Uzeda […]; e si fermavano, una volta
fuor della ressa, a guardarne l’altare scavato dove si vedeva, attraverso un
vetro, la cassa antica rivestita di cuoio […]; poi, tentavano di tornare verso il
centro della chiesa per leggere le iscrizioni attaccate intorno agli altari, ma la
folla era adesso compatta come un muro. (V, p. 435)
26. P. Pellini, L’ultima parola al becchino. Sulla rappresentazione della morte nella narrativa
naturalista e verista, in Idem, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier, 2004, p. 49. In questo saggio Pellini si riferisce in particolare al topos naturalista della messa a distanza della morte, una strategia motivata, più in generale, dall’istanza
antiretorica che attraversa questa categoria storico-letteraria e che colpisce soprattutto gli
stereotipi del romanticismo.
27. R. Luperini, L’allegoria di Gesualdo, in Idem, Giovanni Verga, cit., p. 180.
Qu
20
12
28
09
-12
23
-08
09
-84
ROSSANA CHIANURA
ap
pa
rtie
ne
ai
lar
iam
uo
io8
9g
ma
il.c
om
Ben lontana dall’immagine di una comunità umana in raccoglimento, questa scena rappresenta in realtà un’efficace riformulazione della
serie di conflitti a bassa intensità che popolano il romanzo. I catanesi,
come i personaggi, si abbandonano a una serie di movimenti contrapposti per guadagnare una maggiore visibilità sul catafalco vuoto della
principessa, mentre si alza «un vasto sussurro» (V. p. 437) di chiacchiere
e pettegolezzi, tra chi cerca di calcolare, a occhio, il costo delle centinaia
di ceri accesi per la funzione e chi, per ingannare il tempo, dice «vita,
morte e miracoli della principessa» (V, p. 436). Gli spostamenti febbrili
dei presenti attorno ad un centro vuoto mimano una lotta spregiudicata e senza senso per un primato effimero, lo stesso per cui in fondo
combattono gli appartenenti al clan, visto che ogni volta la loro azione
è demolita e relativizzata dalle generazioni successive. La figura dello
scontro pretestuoso diventa allora la cifra distintiva di tutto il mondo
rappresentato.
Allo stesso modo, durante il discorso elettorale di Consalvo nel finale del romanzo, il rapporto visivo tra pubblico e centro catalizzatore
dell’attenzione risulta indebolito, scoraggiato, disturbato, e suggerisce
un rapporto diretto tra un centro il cui primato è solo posticcio (l’assenza del corpo della principessa, il catafalco di marmo «finto», «le urne
di cartone», le «lacrime di carta argentate», ma anche il discorso «da
istrione» di Consalvo, che commuove e fa ridere la platea «per vendere
la sua pomata»; V, p. 1091) e l’ottusa tumultuosità della folla accorsa, la
cui indole si fa prima capricciosa, poi indifferente e infine solo violenta:
es
to
E-
bo
ok
[…] chiacchiere eleganti, profezie sull’esito delle elezioni, battibecchi politici, ma specialmente esclamazioni d’impazienza, tentativi d’applausi di chiamata, come al teatro, che facevano voltare il capo a tutti e cavare gli orologi.
(V, p. 1079)
[…] A un tratto alcune seggiole rovesciate dalla gente che scappava fecero
un gran fracasso. Tutti si voltarono, temendo un incidente spiacevole, una
rissa; l’oratore fu costretto a tacere un momento. Riprendendo a parlare,
la voce gli uscì rauca e fioca dalla strozza; non ne poteva più, ma era alla
perorazione. (V, p. 1090)
Qu
90
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
4.
Qu
e
sto
La ricorsività delle vicende, affiancata alla circolarità di una struttura
che si apre e si chiude sul motivo dell’inavvicinabilità di un centro di senso,
è una strategia testuale che portata a un livello tematico evoca lo spettro
della parola e dell’azione prive di senso. In questi termini vorrei fare riferimento, per I Viceré, alla categoria dell’improduttività: lo scorrere di vicende
ricorsive lungo il rassicurante asso cronologico implica che il tempo così
rappresentato, proprio in virtù della stereotipia che lo caratterizza, risulti
come continua negazione del tempo concretamente vissuto.
L’azione che al livello dei personaggi simula con più efficacia il meccanismo di negazione del tempo è quella del gioco, attività gratuita e
improduttiva per eccellenza, intrinsecamente rituale. Essa si esercita,
nel romanzo, in almeno due ambiti: in quello della gestione collettiva
degli edifici familiari, che subiscono continue distruzioni e riprogettazioni, e in quello del rapporto tra i singoli personaggi e alcuni aspetti
dell’esperienza. Per quanto riguarda il primo aspetto, la modifica degli
spazi abitativi si presenta sempre come un’attività controproducente,
che invece di apportare migliorie agli edifici, tende piuttosto ad assecondare le manie dei personaggi: come fossero regni infinitamente
estesi e sempre disponibili ai propri sovrani assoluti, i palazzi di famiglia subiscono l’azione dei capicasata, e di questi riflettono l’insopprimibile desiderio di cancellare, ogni volta, qualsiasi traccia delle modifiche fatte dalle generazioni precedenti. Col tempo tutti gli edifici di
famiglia finiscono per assomigliare a mastodontiche strutture mutanti
e inutilizzabili, costituite da «parecchie fette di fabbriche accozzate a
casaccio», in cui non ci sono «due finestre dello stesso disegno né due
facciate dello stesso colore» (V, p. 559).
L’idea del mondo come stanza dei balocchi, in cui si può eternamente fare e disfare la realtà, combinando le diverse componenti che questa
mette a disposizione per trarne una soddisfazione passeggera, è un’idea
che attraversa tutto il testo, dalla rappresentazione della politica a quella della finanza e del rapporto col denaro, dalla cultura alla rappresentazione della guerra.
La discesa in politica del duca d’Oragua è quella di un uomo che è
convinto di «[aggiustare] l’Europa in quattro e quattr’otto, le finanze
91
E
-bo
o
k
ap
p
art
ien
e
a
ia
ila
r
io
mu
o
89
g
m
ail
.c
om
1
20
0
22
8
2
9-1
2
3
0
8
4
09
-8
ROSSANA CHIANURA
92
italiane in men che non si dice» (V, p. 797), come fossero giocattoli difettosi a cui basta qualche giro di chiave; sia il gioco in borsa sia quello
della speculazione sulle rendite costituiscono, inoltre, una vera e propria sottotrama della seconda parte del romanzo e si presentano come
occasioni di riscatto per chi li sa sfruttare, come ad esempio succede per
quei membri della famiglia che sono stati tassativamente esclusi dalla
fetta di eredità maggiore, per via della legge del maggiorascato. Da questo punto di vista, politica e denaro si possono vedere come rosei – e
unici – passatempi, destinati, tuttavia, a determinare una definitiva mutazione nella gestione economica delle fortune di famiglia. Pensiamo
a don Blasco: da frate frustrato privo di vocazione, egli si trasforma in
sofisticato amministratore delle rendite di famiglia, e poi in capitalista
senza scrupoli. Il gioco d’azzardo, invece, è praticato dal fratello minore
di Giacomo, Raimondo, vanesio e donnaiolo, e da un monaco benedettino, Padre Agatino Renda, che passa tutte le sue serate al tavolo da
gioco della vedova Roccasciano.
Se il duca e don Blasco si calano da dilettanti nel gioco del denaro e
partecipano per vincere, altri membri cadetti della famiglia non riescono a trarre gli stessi vantaggi, e anzi esprimono al massimo grado quel
gusto per il dilettantismo e per il gioco fine a se stesso che si trasforma
in pratica del nonsense. Su un altro versante, infatti, don Eugenio gioca
col sapere: il cavaliere intraprenderà diverse carriere, tutte fallimentari
e particolarmente funamboliche. Da maestro precettore di Consalvo
a ideatore di assurde riforme grammaticali, da fondatore dell’«Academia dei quattro Poeti» a commerciante di zolfo in erba: don Eugenio
finirà i suoi giorni completamente pazzo, elemosinando finanziamenti per un’ultima impresa, questa volta sia culturale sia economica. La
scrittura dell’«Araldo Sicolo», un’opera il cui intento è assegnare alle
nuove famiglie borghesi titoli nobiliari inventati di sana pianta, incarna al massimo l’idea che dal gioco con le parole si possa passare molto
facilmente alla reinvenzione del vissuto collettivo. Figlia di una frustrazione altrettanto priva di sbocco e lontana dal riscatto è anche la storia
del nipote di don Eugenio, Ferdinando, uno scapolo eremita che rifiuta quasi del tutto il contatto con i membri della famiglia, e si dedica,
nel suo podere delle Ghiande, a «esperimenti agricoli e meccanici» (V,
m
a
il.c
o
89
u
oi
o
ri
am
e
ne
p
ar
ti
b
o
o
k
o
Q
u
es
t
E-
ap
a
ila
gm
2
-1
2
9
28
0
2
20
1
8
30
ilari
book app
artiene a
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
Questo E
-
p. 796). Già da bambino vediamo Ferdinando «sfasciar scatole di legno
o di cartone per farne teatrini o altarini o casucce» (V, p. 488); egli non
si è mai liberato delle fantasie dell’infanzia, che anzi monopolizzano i
suoi ragionamenti, soprattutto durante la malattia, che egli attribuisce
a «cause fantastiche», cioè «alla poca cottura del pane, allo spirare dello
scirocco, al fresco della sera» (V, p. 878):
Per lunghe e lunghe giornate non diceva una parola, non vedeva anima viva:
chiuso nella sua camera, buttato sul letto, se ne stava immobile a seguire il
volo delle mosche […] egli minacciò di chiudersi in camera e di non ricevere
più nessuno. Ma il suo polso scottava dalla febbre. Per vincere quell’ostinazione, dovettero ricorrere a un artifizio, come con un fanciullo o con un
pazzo: finsero che un ingegnere dovesse rilevar la pianta della casa e introdussero così un dottore in camera sua. (V, p. 878)
Il suo ultimo passatempo di «fanciullo» è il gioco della guerra: nei
giorni precedenti la sua morte, infatti, si farà portare «dozzine e dozzine di scatolini di spilloni e risme di carta e pacchi di matite» (V, p. 883)
per ricostruire, sulla carta geografica, i movimenti delle truppe francesi
e prussiane. Dai «teatrini» dell’infanzia ai «teatri della guerra» (V, p. 881,
in corsivo nel testo): nella parabola di Ferdinando detto – dai suoi stessi
familiari – “il Babbeo”, si congiungono progettazione e insensatezza,
l’azione che cade nel vuoto e le scale che «non porta[va]no a nessuna
parte» (V, p. 501) del palazzo cittadino degli Uzeda.
93
ROSSANA CHIANURA
94
Bibliografia
Alfano G., (2019), L’anno 1889, in G. Alfano, F. De Cristofaro (a cura di), Il romanzo in Italia, vol. II, L’Ottocento, Roma, Carocci.
Caldarone F.I., (1987), Federico De Roberto continuatore dell’opera verghiana: il
tema del «testamento», in «Italica», 64, 2.
Capuana L., (1892), Novelle, in L. Capuana, Libri e teatro, Catania, Giannotta.
Ciavarella A. (a cura di), (1955), Verga, De Roberto, Capuana. Celebrazioni bicentenarie, Biblioteca universitaria, Catania 1755-1955, Catania, Giannotta.
De Roberto F., (1984), I Viceré, in F. De Roberto, Romanzi, novelle, saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori.
Ganeri M., (1999), Il romanzo storico in Italia, Lecce, Manni.
Luperini R., (2019), Simbolo e «ricostruzione intellettuale» nei Malavoglia, in
R. Luperini, Giovanni Verga, Roma, Carocci.
Luperini R., (2019), L’allegoria di Gesualdo, in R. Luperini, Giovanni Verga, cit.
Madrignani C.A., (2007), Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Roma,
Quodlibet.
Qu
Maffei G., (2011), L’amnesia della storia ne «L’Imperio» di Federico De Roberto, in
«Sinestesie», IX.
Mazzoni G., (2011), Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino.
Olivieri U.M., (2019), Le culture dell’irrazionalismo, in G. Alfano, F. De Cristofaro (a cura di), Il romanzo in Italia, vol. II, L’Ottocento, Roma, Carocci.
Pellini P., (1998), Naturalismo e verismo, Scandicci, La Nuova Italia.
Pellini P., (2004), L’ultima parola al becchino. Sulla rappresentazione della morte
nella narrativa naturalista e verista, in P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e
temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier.
Polacco M., (1999), Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni,
D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano: 1881-1923, Bologna, Pendragon.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Petronio G., (1986), La narrativa in Italia nel secondo Ottocento. Tra romanticismo
e decadentismo, in Naturalismo e verismo: generi, poetiche e tecniche, Atti del
es
to
E-
bo
309122
228
UN ROMANZO IN COSTRUZIONE
om
Spinazzola V., (1961), Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli.
201
Congresso Internazionale di Studi, Catania 10-13 febbraio, vol. I, Catania,
Fondazione Verga.
ail.c
Spinazzola V., (2009), Il romanzo antistorico, Milano, CUEM.
Que
sto
E
-bo
ok a
ppa
rtien
ea
ilari
amu
oio8
9 gm
Testa E., (2015), Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi.
95
28
o
9
io8
u
iam
ne
p
ie
art
o
p
ka
e
Qu
sto
o
E-b
lar
i
a
g
m
co
.
l
i
ma
12
20
«Nell’ombra dove seggono le madri».
Una lettura dei Divoratori
di Annie Vivanti
Chiara Tognarelli
Questo E-book appartiene a il
Il panorama critico internazionale si è arricchito, in anni recenti,
di studi dedicati alle forme narrative che tematizzano la famiglia; una
particolare attenzione è stata riservata ai romanzi moderni e contemporanei incentrati su saghe familiari. Questi ultimi sono stati oggetto di
analisi diverse per prospettiva e metodo, alcune di taglio storiografico,
altre di caratura teorica: a letture approfondite di singole opere si sono
affiancati studi catalogatori, indagini comparatistiche e saggi tassonomici volti, in ultima istanza, a conferire al “romanzo familiare” lo status
di genere letterario – normato da leggi sue proprie e contraddistinto da
costanti strutturali e topoi – e a darne una definizione esaustiva, preludio a una sistematica mappatura testuale in chiave genealogica1.
In questo quadro, tentare una lettura dei Divoratori di Annie Vivanti
può avere una doppia funzione: può offrire un’interpretazione globale
dell’opera ricorrendo allo strumentario messo a punto da questa nuova
ed eterogenea messe di studi e, specularmente, può invitare a riflettere
1. Pionieristico il lavoro di Y.-L. Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New
York, Peter Lang, 1992. Ad alto tasso teorico i contributi di Polacco (mi limito, qui, a ricordare M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13,
2005, pp. 95-125), J. Welge, Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in
the Modern Novel, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015 e A. Baldini, Il Gattopardo
di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia
patriarcale, in «Allegoria», 70/71, 2016, pp. 24-66. Ben rendono la complessità e la varietà
della materia S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in
F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640 e le miscellanee
I. De Seta (a cura di), Armonia e conflitti. Dinamiche familiari nella narrativa italiana moderna
e contemporanea, Bruxelles, Peter Lang, 2014 e E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il
romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017.
98
CHIARA TOGNARELLI
sull’utilità ermeneutica che il romanzo familiare, inteso come categoria
critica e storiografica, rivela alla prova pratica.
Il caso dei Divoratori è oltretutto singolare. Le caratteristiche macroscopiche del testo – per gli aspetti formali, la dimensione corale e l’architettura diegetica, che segue e riproduce il succedersi di più generazioni;
per gli aspetti contenutistici, la centralità dell’identità familiare e del vincolo madre-figlia – permettono di definirlo un romanzo familiare, stando
ai parametri proposti dai teorici: può pertanto essere inserito in una prima mappatura del genere. A una lettura di profondità, questa classificazione appare, però, riduttiva. Le oppongono resistenza i tratti che determinano l’unicità di questo testo: l’etichetta “romanzo familiare” nomina
le strutture di superficie, ma non restituisce le ragioni prime dell’opera,
che di fatto incrocia e si ibrida con altri generi e altri temi – l’autobiografia, il romanzo di costume, il romanzo psicologico, da un lato; il ruolo
della donna nella società e il senso stesso del fare letteratura, dall’altro –,
acquisendo, così, una fisionomia eccentrica, indocile, di cui si fatica ad
individuare modelli antecedenti e successive imitazioni. Come un reagente a spettro limitato, il genere “romanzo familiare” rende ben visibili,
dei Divoratori, alcuni aspetti, ma non i più significativi: in quanto scarta
dal canonico e in quanto sfugge alle maglie del genere sembra risiedere,
almeno per questo specifico testo, ciò che più è importante.
1.
Il suo destino fu di lanciare all’aria i suoi trilli durante qualche anno di vivacità e di buona disposizione giovanile; e presto tacere. Carmen aveva finito
di recitare la sua parte e rientrava nelle quinte2.
Trasfigurandola nella più sfrontata delle eroine operistiche, nel
1906 Croce liquidava Annie Vivanti e ne dichiarava conclusa la parabola artistica. Del resto, la chanteuse che aveva conquistato le cronache
2. B. Croce, La contessa Lara - Annie Vivanti, in Idem, La letteratura della nuova Italia.
Saggi critici, Bari, Laterza, 1914, vol. II, p. 333.
Ques
to E-
book
ap
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
letterarie e mondane grazie ai «versi scapigliati e monelli»3 di Lirica
(1890), prefata da Carducci, e grazie al «romanzo di costume»4 Marion
artista di caffè-concerto (1891), si era sposata con un patriota irlandese,
John Chartres, aveva messo al mondo una figlia, Vivien, e si era involata negli Stati Uniti; qualche anno dopo, il tentativo di riguadagnare la
scena italiana si era risolto in un fallimento: il dramma La Rosa Azzurra
era stato disprezzato dal pubblico e stroncato dalla critica; la prima,
rappresentata all’Arena del Sole di Bologna il 15 luglio 1898, sarebbe
stata ricordata soprattutto per il «Vigliacchi! Vigliacchi!» gridato da
Carducci, a pugni alzati, contro la galleria da cui diluviavano fischi5. A
quell’insuccesso era seguìto un nuovo allontanamento dall’Italia.
All’altezza del 1906 nulla lasciava presagire la possibilità di una rivalsa. Eppure, nel marzo del 1911 Vivanti dà alle stampe un nuovo romanzo: I divoratori. A pubblicarlo è Treves, già editore, ventuno anni
prima, di Lirica, suo libro d’esordio. L’inattesa rentrée ha successo. Dopo
un ventennio di eclissamento, Vivanti riacquista centralità nel panorama letterario italiano. L’avrebbe mantenuta fino alla fine degli anni
3. Lettera di Annie Vivanti a Emilio Treves, 22 dicembre 1889. Si legge in G. Carducci,
A. Vivanti, Addio caro Orco. Lettere e ricordi (1889-1906), A. Folli (a cura di), Milano, Feltrinelli, 2004, p. 25.
4. La definizione è di Carducci e si legge nella lettera del 6 ottobre 1890 a Cesare Zanichelli,
G. Carducci, Edizione Nazionale delle Lettere, Bologna, Zanichelli, 1954, vol. XVII, p. 232.
5. A pubblicare Lirica fu Treves (Lirica di Annie Vivanti (George Marion), Milano, Fratelli
Treves Editori, 1890), mentre Marion artista di caffè-concerto uscì per la Libreria editrice
Galli di C. Chiesa e F. Guindani di Milano nel 1891. Lirica si può leggere oggi in A. Vivanti,
Tutte le poesie, edizione critica con antologia di testi tradotti, C. Caporossi (a cura di), Firenze,
Leo S. Olschki, 2006, pp. 147-232; Marion è stato ripubblicato nel 2006 da Sellerio, sempre
per le cure di Caporossi e con una nota di Anna Folli. Il dramma La rosa azzurra non fu pubblicato e ad oggi risulta perduto; sulla sua composizione e messa in scena rimando a quanto
ricostruito da Anna Folli in G. Carducci, A. Vivanti, Addio caro Orco, cit., pp. 54-59. Segnalo,
infine, che in Tutte le poesie Caporossi ha inserito una preziosa mappatura della bibliografia
d’argomento vivantiano (A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 407-456); ai titoli lì ricordati si
aggiungano almeno le nuove edizioni di A. Vivanti, Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska,
C. Caporossi (a cura di), Milano, Otto/Novecento, 2011, Eadem, Naja tripudians, R. Reim (a
cura di), Milano, Otto/Novecento, 2014 e Eadem, Vae victis!, Roma, Edizioni Croce, 2018; sul
fronte degli studi, C. Tognarelli, Ego di Annie Vivanti, in A. Andreoni, C. Giunta, M. Tavoni
(a cura di), Esercizi di lettura per Marco Santagata, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 297-312, e
S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and
Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 2016.
99
Qu
est
oE
-bo
ok
app
art
ien
ea
100
CHIARA TOGNARELLI
e
Qu
sto
E
-bo
ok
Trenta, pubblicando e ripubblicando romanzi, drammi, racconti, favole, reportages di viaggio: tutte prose che incontrano gli interessi e il
gusto del pubblico, in particolare di quello femminile6.
I divoratori sono la prima opera della maturità vivantiana. Sulla scia
dell’autobiografismo – forse più millantato che reale – di Marion, nei
Divoratori Vivanti cannibalizza la propria biografia straripante di cosmopolitismo ed incontri, sottoponendo a un intenso processo di ricreazione letteraria le esperienze degli anni in cui aveva seguito la carriera
di Vivien, enfant prodige del violino. Avrebbe abbandonato ogni velleità autobiografica già in Circe (1912), un romanzo d’inchiesta nel quale
ricostruisce un noto episodio di cronaca nera indagando il movente
e la psicologia di un’assassina d’eccezione, la conturbante Maria Tarnowska7. Alla politica contemporanea avrebbe guardato nel dramma
L’invasore (1915) e nel romanzo Vae victis! (1917): in entrambi racconta
le atrocità commesse dai tedeschi in Belgio attraverso la parabola di
due donne che reagiscono in modo opposto alle violenze subìte. Un
binomio simile sarebbe ritornato nel romanzo Naja Tripudians (1920),
dove si descrive la vita di due sorelle di provincia che finiscono nelle
spire della Londra viziosa e depravata del Dopoguerra: l’una saprà liberarsi, l’altra soccomberà8. Il carnet de voyage Terra di Cleopatra (1925) e
il romanzo Mea culpa (1927) avrebbero affrontato il tema del colonialismo e dei rapporti tra Oriente ed Occidente; le due opere sono intrise
di sentimenti antibritannici, peraltro già presenti nelle poesie giovanili di Lirica9. Avrebbero arricchito questa parabola numerosi racconti,
6. L’elenco completo delle opere vivantiane, delle loro edizioni e delle loro numerose
ristampe in A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 407-430.
7. Già un personaggio dei Divoratori, l’attrice Nunziata Villari, incarnava il prototipo
della femme fatale vivantiana, lì alle prese col declino della propria bellezza. A personaggi
femminili di questo tipo sono riconducibili altri due romanzi: …Sorella di Messalina, Torino,
Letteraria Casa Editrice Italiana, 1922, e la sua continuazione, Fosca, sorella di Messalina,
Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1931. Ne ha trattato J. Dashwood, From Circe to Fosca.
Annie Vivanti and the Femme Fatale, in S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti:
Transnational Politics, Identity and Culture, cit., pp. 31-47.
8. Rimando a C. Gragnani, War Rape and Hybrid Birth, in S. Wood, E. Moretti (a cura di),
Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and Culture, cit., pp. 49-61.
9. Basti pensare ad Ave, Albion!, in A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 160-161.
che mescidano memorie ed invenzione, come le novelle di Zingaresca
(1918), di Gioia (1921) e di Perdonate Elegantina (1926). A questa produzione si sarebbero aggiunte alcune prove di scrittura per l’infanzia:
le favole di Sua altezza (1924) e il romanzo Il viaggio incantato (1933),
ultima opera data alle stampe.
Solo alla fine degli anni Trenta Vivanti sarebbe rientrata nelle «quinte» evocate da Croce. Allora, nonostante la sua vicinanza al
regime, è duramente colpita per la sua nazionalità inglese – era nata a
Londra nel 1866 – e per le sue origini ebraiche10. Nel 1941, a luglio, è
costretta al domicilio coatto ad Arezzo. Per intervento di Mussolini le
viene concesso di fare ritorno nella città che aveva scelto come propria
alla fine della Grande Guerra, Torino. Lì sarebbe morta il 20 febbraio
1942. A rendere più tormentati i suoi ultimi mesi era stata la morte di
Vivien, suicidatasi il 9 settembre 1941 nella sua casa di Brighton, a sud
di Londra; a darle conforto, la conversione al cattolicesimo, che – così
scrisse – aveva desiderato «fin dalla sua lontana fanciullezza»11.
a
p
ap
2.
n
tr ie
e
a
ila
m
ria
u
8
oio
9
gm
a
m
o
c
il.
2
2
01
2
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
Q
s
ue
to
E-
o
bo
k
Quando escono I divoratori, Vivanti è reduce da vent’anni trascorsi
soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Il pubblico italiano ignora
la sua produzione in lingua inglese – romanzi, racconti, drammi per il
teatro, prose giornalistiche –; quel che sa, è che la poetessa di Lirica ha
una figlia, Vivien Chartes, e che questa figlia è stata un’acclamata bambina prodigio del violino: ha vissuto il suo periodo d’oro tra il 1905 e
il 1907, in tournée nelle maggiori città europee con la madre, che l’ha
sostenuta più e meglio di un impresario. All’altezza del 1911, l’astro di
Vivien si è oramai offuscato12.
10. La madre, la scrittrice tedesca Anna Lindau (1828?-Milano, 1880), era protestante,
ma di origine ebraica; il padre Anselmo (Mantova, 1827-Milano, 1890), acceso mazziniano,
proveniva da un’antica famiglia ebrea mantovana.
11. Annie Vivanti nella Chiesa Cattolica, in «L’Osservatore Romano», 10, 24 gennaio
1942, p. 3, in G. Carducci, A. Vivanti, Addio caro Orco, cit., p. 80.
12. Del resto, Vivien era nata il 25 giugno del 1893: all’uscita dei Divoratori ha già compiuto
diciotto anni. Su questo periodo rimando a Caporossi in A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 50-62.
101
102
CHIARA TOGNARELLI
I divoratori sono la riscrittura di un romanzo in lingua inglese che
Vivanti ha pubblicato nel 1910, The Devourers, e di cui doveva avere
iniziato la stesura attorno al 190713. Il processo d’avvicinamento ai
Divoratori risale, però, più addietro: già il racconto The true Story of a
Wunderkind told by its Mother, Annie Vivanti, edito nel 1905 ed incentrato sull’infanzia di Vivien e sulla scoperta del suo precoce talento di
violinista, costituisce l’incunabulo del tema che, sebbene diversamente declinato, sarebbe stato il fulcro del romanzo14. Nel novembre del
1906, sulla scia dei concerti tenuti dalla figlia nelle principali città d’Italia, Vivanti pubblica su «Il Secolo XX» il racconto La storia di Vivien,
ulteriore prova di manipolazione e ricreazione delle proprie memorie
più recenti. Qui, ribaltando quello che nel romanzo sarà il motore degli
avvenimenti, l’autrice si augura che la propria figlia non sia un genio:
Questo
Arrivata a casa, andai in punta de’ piedi alla culla dove dormiva la mia piccola bambina, tutta rosea, coi biondi capelli arruffati sulla fronte. E dissi
piano alla sua anima dormente: “Oh, tu bambina felice, che crescerai nel
E-tenero
braccia materne, tu non conoscerai lo strazio del genio
boocerchio
k apdelle
p
a
rtiegloria
precoce, le angosce della
prematura. No! Tu non devi essere, tu non
ne a
ilariamu
sarai mai un enfant prodige!”15.
o
io89 gm
ail.com
13. La prima edizione inglese di The Devourers fu stampata dall’editore londinese Heinemann nel 1910. Lo stesso anno uscì anche un’altra edizione per G.P. Putnam’s Sons di
New York-London. Notevole la fortuna editoriale della versione italiana: I divoratori, oltre
che da Treves, ebbero sette edizioni con Quintieri (1911-1920), otto con Bemporad (19221932) e otto con Mondadori (1930-1949). Caporossi ripubblica l’edizione Treves del 1911 in
A. Vivanti, I divoratori, C. Caporossi (a cura di), Palermo, Sellerio, 2008 (da qui in avanti, D).
Per un confronto tra la versione in inglese e quella in italiano rimando a A.L. Lepschy, Annie
Vivanti as self-translator: the case of The Devourers and Circe, in «The Italianist», 3, 2010,
pp. 182-190, e M. Deganutti, A “Mistaken” Choice of Language? A Case of Self-Transaltion,
in S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and
Culture, cit., pp. 81-95.
14. Edito sulla rivista londinese «Pall Mall Magazine», vol. XXXV, gennaio-giugno 1905,
pp. 55-59 e sulla rivista statunitense «The Saturday Evening Post», 3 giungo 1905, pp. 1314. Il racconto è stato tradotto da Caporossi e pubblicato in A. Vivanti, Racconti americani,
C. Caporossi (a cura di), Palermo, Sellerio, 2005, pp. 138-157.
15. Poi confluito in Eadem, Zingaresca, Milano, Dott. Riccardo Quintieri Editore,
1918, pp. 119-120. Questo attacco è simile a quello di The true Story of a Wunderkind told
by its Mother, Annie Vivanti; più delle convergenze, sono però interessanti le divergenze
fra i due racconti – più dettagliato e cupo quello in inglese, più sbrigativo e solare quello
2012
Q
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
Il racconto procede poi narrando in che modo la piccola Vivien
avrebbe seguito e pienamente realizzato la propria vocazione musicale, «inconsapevole delle emozioni che suscita, ignara della Fama che le
cinge di luce la bionda testa d’arcangioletto»16.
3.
Ad una meravigliosa bambina
ch’io amo
dedico questo libro
perché lo legga
quando avrà dei meravigliosi bambini
suoi.
(D, p. 27)
Nella dedica dei Divoratori, Vivanti si raffigura nell’atto di offrire il
frutto della propria fatica, il libro, alla figlia, augurandosi che un giorno,
divenuta anch’ella madre, possa leggerlo. L’autrice si presenta come una
donna realizzata, risolta, appagata: dà di sé un’immagine rassicurante,
che farà cortocircuito con quella delle “divorate” del romanzo. Ma la de-
in italiano –, che meriterebbero uno studio comparativo. Qui basti notare che The true
Story of a Wunderkind told by its Mother, Annie Vivanti anticipa I divoratori assai più del
breve e riassuntivo La storia di Vivien: è nel “racconto americano” che, ad esempio, fa
la sua comparsa il personaggio della governante Fräulein Müller, una delle “divorate”
del romanzo; è nel “racconto americano” che la narratrice si dice infelice e incompresa
(«Nessuno potrebbe credere come sia difficile essere la madre di un enfant prodige […].
No, tutto sommato non sono felice», A. Vivanti, Racconti americani, cit., pp. 153-154) e
lamenta di sentirsi esclusa dalla vita della figlia prodigiosa («Ma poi penso… è davvero
mia? La sua anima non se n’è forse volata via dietro il suono della musica, quando i suoi
occhi profondi e solenni contemplavano cose che io non so, non riesco a vedere? […] vorrei lasciare ancora che le sue tenere foglioline si aprissero alla luce e ai dolori della Fama,
ai fuochi e alla febbre della Gloria? …Chissà…», ibid., pp. 156-157), mentre quello italiano
si conclude con l’immagine della madre felice e in piena sintonia con la figlia («Subito il
suo sorriso mi cerca. Poi, alzando il violino, ella suona – per me! E la musica incantata ci
trasporta entrambe lontano dalla folla, lontane dalla vita. Ci porta nei paesi felici dove le
fate passeggiano per giardini risplendenti; dove le bambole non si rompono, dove i fiori
non appassiscono, dove i bambini restano sempre piccini – e le mamme non piangono
mai», A. Vivanti, Zingaresca, cit., p. 131).
16. Ibid.
103
CHIARA TOGNARELLI
104
dica, oltre a parlare dell’autrice, parla del libro, poiché prepara il lettore
alla sua dimensione genealogica: essa allude a tre generazioni – in primo
piano, la madre e la sua «meravigliosa bambina»; sfocati, ma in un futuro
prossimo e dato per certo, altri «meravigliosi bambini», i nipoti –, così
come su tre generazioni – madre, figlia, nipote – è costruito I divoratori.
Una breve Prefazione fa da cuscinetto fra la dedica e il libro, fra l’augurio – piccolo congegno autobiografico – e l’invenzione romanzesca:
C’era un uomo che aveva un canarino; e disse: “Che caro canarino! Se potesse diventare un’aquila!”. Iddio disse: “Nutrilo del tuo cuore, e diverrà un’aquila”. Allora l’uomo lo nutrì del suo cuore.
E il canarino divenne un’aquila, e gli strappò gli occhi.
Questo
C’era una donna che aveva un gatto; e disse: “Che caro gattino! Se potesse
diventare una tigre!”. Iddio disse: “Dagli a bere il tuo sangue, e diverrà una
Allora la donna gli diede a bere il suo sangue.
Etigre”.
-boo
k appauna tigre, e la sbranò.
Ed il gatto divenne
rti
ene a i
lariamu
oio8
9 gm“Che
C’era un uomo e una donna che avevano un bambino. E dissero:
ailcaro
.com
bambino!… Se potesse diventare un genio!”…
(D, p. 29)
Il messaggio sotteso alla dedica contrasta con la morale della Prefazione, la cui conclusione, sebbene non scritta, è chiara. A completare
questo apologo in tre movimenti, di cui l’ultimo solo accennato, è il romanzo. Il lettore è avvertito e ben guidato; le sue aspettative, indirizzate:
la storia romperà il tabù e mostrerà che cosa accada a chi desideri che il
proprio figlio diventi un genio; mostrerà, cioè, che finirà “divorato”.
Mentre nella Prefazione a volere una prole geniale sono un uomo
e una donna, nel romanzo la dinamica che innesca la catastrofe non è
determinata da un desiderio condiviso. Tutto accade a partire da una
madre rimasta sola, vedova di un uomo di valore, come Valeria, o abbandonata da un marito inetto, come Nancy.
2012
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
to E
b
o
o
k
a
ppar
Ques
Nella sua articolazione in tre exempla e nell’incompletezza dell’ultimo, la Prefazione rispecchia la struttura del romanzo. Anche I divoratori, infatti, è suddiviso in tre parti, indicate come «Libri»; ogni libro
è a sua volta suddiviso in capitoli: ventuno il primo, trenta il secondo
e uno soltanto il terzo. Il primo libro racconta la storia di Valeria e di
sua figlia Nancy, piccola poetessa; il secondo, quella di Nancy e di sua
figlia Anne-Marie, violinista prodigiosamente precoce; il terzo, che
consiste di sole due pagine, si limita a descrivere Anne-Marie e la sua
«creaturina» appena nata e ancora senza nome (D, p. 524).
La narrazione è scandita dalla reiterazione della “scena primaria”
all’origine del romanzo: la nascita delle madri. L’impressione che se ne
ricava è che tutte le vicende siano preordinate da un fato immodificabile e che ogni esistenza si compia aderendo, ora docilmente, ora recalcitrante, al proprio destino. L’impianto diegetico si regge su una «eterna
legge» (D, p. 512) che, di pagina in pagina, di episodio in episodio, minore o maggiore che sia, si fa sempre più evidente.
tiene a
Nancy si mosse, sospirò!… Poi lenta aprì gli occhi. Era sveglia.
Nella camera attigua Valeria singhiozzava tra le braccia dello zio Giacomo, e
la zia Carlotta baciava Adele, e baciava Aldo, che, pallido con gli occhi rossi,
stringeva la mano a tutti.
Attraverso la porta socchiusa Nancy udiva le loro voci sommesse e bisbiglianti; e ne sentì un vago e languido piacere. Ma ecco che un altro suono le
colpì l’orecchio: un suono dolce, staccato, regolare – che pareva il lento battito d’una pendola. Quel suono le dava un senso di calma profonda e soave.
Volse il capo sui guanciali e guardò. Era una culla! […]
Nancy sorrise e richiuse gli occhi. Quel battito regolare la sopiva, e la riconduceva verso il sonno. Ella si sentiva ineffabilmente tranquilla, illimitatamente felice.
Era finita l’attesa; erano passati i timori. Ora la vita si apriva più vasta sopra
più vasti orizzonti. L’anima sua era placata, appagata e senza desiderio.
Ed ora, con un sommesso tremito di gioia, le tornò nella memoria il suo
Libro; il suo Libro che la aspettava, fermo dove ella lo aveva lasciato
quella sera in cui l’avvenire aveva pulsato entro il suo seno. L’opera che
doveva vivere la chiamò con voce piana, e le ripiegate ali dell’aquila
fremettero…
105
ail.com
ilariamuo
io89 gm
106
CHIARA TOGNARELLI
Nel crepuscolo oscillante della culla la creatura aprì gli occhi e pianse: – Ho
fame.
(D, pp. 205-206)
È l’ultimo capitolo del Libro primo. Nancy si risveglia dal sonno che
segue le sofferenze del parto. Vicino al suo letto, la culla oscilla nella penombra: quel rumore ritmato la calma. In quel momento di pace estatica, il pensiero della puerpera corre al «Libro» di cui deve terminare
la stesura: l’ispirazione finalmente riprende vigore («le ripiegate ali
dell’aquila fremettero…»). Eppure, il bisogno di un altro subito si
impone: il neonato si sveglia e piange; ha fame.
Con parole ed immagini simili, nel Libro terzo è descritta AnneMarie al suo risveglio dopo il parto:
Anne-Marie si mosse, sospirò, ed aprì gli occhi. La camera era buia e silenziosa. Ma in breve un piccolo suono ritmico e sommesso le giunse all’orecchio, e le parve assai dolce. Era un suono regolare e pacato, come il battito
d’un orologio, come il pulsar d’un cuore. Era l’oscillare d’una culla!
Anne-Marie, nel dormiveglia, sorrise; ed una immensa pace le invase lo
spirito. Il dolce battito ritmico la ricondusse verso il sonno. Essa si sentiva
ineffabilmente calma e felice. La vita apriva più vasti portali sopra orizzonti
più immensi.
Con un fremito di gioia essa pensò che il breve silenzio del trascorso anno
era ormai terminato. Di nuovo la musica fluirebbe dalle sue mani, come
un’incantata fontana, sopra il mondo in ascolto.
Il suo violino!… Sotto le chiuse ciglia Anne-Marie lo rivedeva nel pensiero.
Rivedeva le curve bruno-dorate della voluta; l’alacre slancio degli “S” nella
tavola armonica; e le sensitive corde tese sopra l’agile ponticello: tutto quel
perfetto istrumento silenzioso, aspettante il tocco delle sue ardenti dita giovanili, per ridestarsi di nuovo alla vita ed al canto! […]
Essa vide la vita come un paesaggio di luce steso innanzi ai suoi giovani passi: ella ascenderebbe la bianca via dell’Immortalità, sorretta da un immutabile amore; il Genio le cingerebbe la fronte d’un serto d’astri fiammeggianti;
– e la Musica, la divina Musica che le cantava come una fontana perenne nel
cuore inonderebbe d’armonia il mondo…
Qu
e
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
La creaturina nella culla aprì gli occhi e pianse: – Ho fame.
(D, pp. 523-524)
La storia si ripete, inesorabile. Dopo il parto, sia Nancy che Anne-Marie sono avviluppate in pensieri di gloria: entrambe desiderano
restituirsi alla loro arte – il libro incompiuto per Nancy, la musica da
comporre e suonare per Anne-Marie. Ma il neonato scoppia a piangere
e interrompe questo slancio: bisogna nutrirlo. Del resto, così era stato
anche per Valeria.
Nel primo capitolo del romanzo si descrive l’arrivo di Valeria, novella vedova, in Inghilterra, nell’Hertfordshire, dove vivono quanti restano della famiglia di suo marito Tom, falcidiata dalla tisi. La frase con
cui si apre la storia di Valeria, e quindi il romanzo intero, si rivelerà la
più emblematica: «La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: – Ho
fame» (D, p. 33). Solo nel terzo capitolo «la creaturina», o il «béby», sarà
battezzato “Nancy”.
Valeria è la prima delle madri “divorate”: con lei inizia il «sacrificio
a catena delle generazioni»17. Per proteggere Nancy, ella rinuncia ad
ogni altro affetto: tutta la sua vita si riduce all’accudimento della figlia,
che rivela doti poetiche straordinarie. Tanto Valeria si vota a Nancy,
quanto Nancy si vota alla propria arte, in un crescendo parossistico di
inconsapevoli atti d’egoismo, molti dei quali dagli esiti tragici. Ne stila
un elenco Antonio, cugino di Valeria, uomo – come quasi ogni altro,
in questo romanzo – irresoluto e di scarso carisma, col «naso fatto di
pasta frolla cruda, che ognuno può prendere e far girare in qua e in
là» (D, pp. 69-70) – così lo etichetta la sua amante, la cantante d’opera
nonché femme fatale Nunzia Villari. Eppure, è ad Antonio che si deve
un ritratto spietatamente lucido di Nancy e una riflessione sul rapporto
tra lei e sua madre, oltre che sugli effetti devastanti di quel legame su
tutta la famiglia:
17. C. Garboli, Naja Tripudians di Annie Vivanti, prefazione all’edizione per gli «Oscar»
Mondadori (Milano, 1970, pp. 3-16), ora riprodotta in Idem, La gioia della partita. Scritti
1950-1977, L. Desideri, D. Scarpa (a cura di), Milano, Adelphi, 2016, p. 108.
Qu
est
oE
-bo
ok
ap
pa
107
CHIARA TOGNARELLI
– Cuginetta mia! – diss’egli.
Ella gli sorrise di un sorriso triste. Poi gli domandò:
– A che cosa pensi?
Vi fu una pausa.
– Pensavo a Nancy ed al passato, – rispose Nino. – Pensavo a suo padre, al
povero Tom! Morto così improvvisamente, così miseramente, in viaggio fra
estranei…
– Già, – sospirò Valeria; e aggiunse a bassa voce, seguendo il filo dei ricordi:
– Ma bisognava salvare Nancy.
– E pensavo anche al vecchio nonno, morto solo, nella notte, sulla collina…
– Bisognava salvare Nancy, – disse Valeria.
– E pensavo alla piccola Edith ed alla sua povera madre, che dovettero partir
sole… abbandonate da quelli che amavano, nell’ora più fosca della loro vita…
– Ma bisognava pur proteggere Nancy, – disse Valeria, con grandi occhi stupiti.
Udendola, egli comprese tutta l’inesorabile, la spietata forza dell’amore
materno. Per Valeria nulla contava, nulla esisteva all’infuori di Nancy, – di
Nancy che pure con dolce mano incosciente le aveva tutto rapito. Anche lui,
non si era staccato da lei, preso ed avvinto da Nancy?
– E penso a te, Valeria, – seguitò Nino, con voce bassa e tremante, – a te, di
cui io ho calpestato il povero cuore…
– Non importa, non era colpa tua, – disse Valeria con un piccolo singhiozzo.
– Amavi Nancy; come potevi non amarla? – I pietosi occhi le si empirono
di lagrime. – Ed ora anche le tue speranze sono naufragate, anche tu hai il
cuore spezzato.
Ed ancora una volta egli comprese come essa, nella sua innocenza di tortorella, avesse assorbito e sommerso l’esistenza di tutti quelli che le stavano
d’intorno. Nella sua soave debilità, nella sua fralezza puerile, ella aveva infranto, distrutto e devastato. Le esistenze di tutti quelli che l’avevano amata
erano state necessarie a nutrire la chiara fiamma del suo genio, il bianco
fuoco del suo genio, il bianco fuoco della sua gioventù.
Nino fissò gli occhi sul rosso tappeto nuziale che stendeva la sua striscia
scarlatta fino all’orlo della strada. E gli parve un sentiero di sangue.
– Ecco – diss’egli – la traccia del Divoratore!… Ecco il passaggio della colombella di preda!
(D, pp. 186-188)
Qu
108
es
to
E-b
oo
k
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
Il matrimonio con un affascinante poseur, Aldo della Rocca, stravolge e ridefinisce gli equilibri. L’ineluttabilità di questa infausta unione è
rimarcata a più riprese («Poi il pensiero alato volò fuori dalla finestra
della sua mente. La porta si aprì ed il Destino entrò nella sua vita. Era
Aldo della Rocca», D, p. 151): al solito, le Parche intessono e recidono
fili18. Nancy non riesce più a scrivere: da sposata, le manca quel silenzio
che sua madre era riuscita a farle attorno, per difenderla da quanto e
quanti potevano distrarla dalla ricerca della gloria. Quando con fatica, imponendosi di essere egoista, riesce a riprendere la stesura della
propria opera, Nancy scopre di essere incinta. Nasce una bambina: Anne-Marie. E così, da “divoratrice” Nancy si trasforma in “divorata”.
Maggio portò alla bambina un dente. Giugno gliene portò un altro, e le gettò
uno sprazzo di luce dorata sui capelli. Agosto le mise sulle labbra una parola
o due. Settembre la mise ritta e titubante sui piedini. E Ottobre la spinse a
correre con passi vacillanti, attonita ed estasiata, nelle braccia della mamma.
I suoi nomi erano Liliana, Astrid, Rosalynda, Anne-Marie.
– Ora che béby sa camminare, – disse Valeria a sua figlia, – tu dovresti riprendere il tuo lavoro.
– Sicuro che devo, – disse Nancy, sollevando tra le braccia la bambina e
ponendosela in grembo. – Hai visto, mamma, che braccialetti che ha?
(D, p. 218)
Quest
Con una prosa ricercata e suggestiva, l’autrice scandisce i primi
mesi di vita della bambina, condensandoli in una manciata di righe
evocative19. Anne-Marie cresce, mentre Nancy non ha modo di tener
fede ai propri propositi. Il tracollo finanziario causato dalla scempiaggine di Aldo condanna la famigliola a fuggire rocambolescamente negli Stati Uniti, a New York. Dall’agio piombano nella povertà. Non
appena viene a conoscenza delle condizioni in cui versano, Valeria
decide di mandare dei danari a Nancy. Per la frenesia di far tutto alla
18. Così nell’episodio della morte del bisnonno di Nancy, D, pp. 86, 95 e 98.
19. Anche questi intervalli lirici sono piuttosto ricorrenti, soprattutto laddove occorra
concentrare anni e fatti. Un altro bozzetto di questo genere si legge in D, p. 41.
109
o E-bo
110
CHIARA TOGNARELLI
svelta e di soccorrere la figlia, Valeria attraversa distrattamente la
strada e viene investita da un tram. La sua è una morte tragica: un’agonia descritta in ogni dettaglio, una fine all’altezza dei molti sacrifici
fatti per la sua “divoratrice”.
La vita di Nancy va avanti:
Quando Nancy ricevette a New York la notizia della morte di sua madre,
mise un abito nero invece di quello color marrone; e pianse, e pianse, e pianse, come piangono i figli per le loro madri. Poi rimise l’abito color marrone,
ed andò avanti a vivere per Anne-Marie, come vivono le madri per i loro figli.
(D, p. 313)
Vorrebbe scrivere il libro, ma non riesce. Si consuma in rimpianti
e rimorsi. Il bassofondo newyorkese dove hanno preso in affitto una
stanza fatiscente e lugubre diventa il palcoscenico sul quale esibisce la
propria disperazione; unico spettatore, il ritratto di uno sconosciuto
defunto appeso alla parete:
sentì che la vita passava, che passava rapida e irrichiamabile, e che lei, Nancy, non viveva! Lei era qui, chiusa col morto signor Johnson, ed era morta
come lui. […] Tutto il rimpianto per il suo ingegno sciupato, tutto lo sdegno
contro l’avvilente esistenza, tutto l’odio per la povertà che la mutilava, la
amuoio
i
r
a
l
i
schiacciava, l’annichiliva, proruppe in quel lamento, tosto soffocato
per
non
a
partiene
p
svegliare Anne-Marie che dormiva nellaostanza
vicina.
a
k
o
-b
(D, pp. 338-339) Questo E
Della propria infelicità non incolpa il marito, che ai suoi occhi è
ormai poco più che un miserabile al quale nulla può essere imputato
(«Povero Aldo! Così decorativo, così estetico, così inetto alla lotta per
l’esistenza!», D, p. 343)20. Si manifestano, intanto, i primi segni della
genialità musicale della piccola Anne-Marie. Nancy non li comprende, aspettandosi che la bambina sviluppi come lei una spiccata sensi-
20. Già Nancy aveva sentenziato, seppur con amorevole leggerezza: «Che strano ragazzo
sei tu! – disse. – Io credo che il tuo Giardino Chiuso, il tuo hortus conclusus, non è che un
campicello di patate… E ciò nonostante quante ore felici vi ho passato!», D, p. 217.
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
111
bilità letteraria. Una peripezia sblocca questa impasse. Ricompare uno
dei personaggi determinanti nella formazione di Nancy, negli anni
89
per lei felici trascorsi nella campagna inglese: la governante tedesca,
o
i
Fräulein Müller. È grazie a lei che prende vigore la caccia alla vocauo
m
zione:
a
ri
ila
– Ma la educherò io, – disse. – Certo sarà un genio anche lei.
– Ho paura di no, – sospirò Nancy. – Ma quanto l’avrei desiderato!
Le due donne tacquero. Ed allora per l’aperta finestra s’udì una voce limpida
e chiara come una cascatella d’acqua montanina. Era la voce di Anne-Marie
nella cameretta sopra.
– Senti che canta, – disse Fräulein Müller.
– Oh, sì. Canta sempre così, per addormentarsi – disse Nancy – da che ha
sentito una volta un violino. La musica le piace.
(D, p. 358)
e
ien
a
rt
k
oo
a
pp
a
b
to
s
e
E-
u
Q
Le due donne finiscono col recitare la parte assegnata loro dal Desti-
no. Anche Anne-Marie è una Wunderkind. Mentre le ambizioni artistiche di Nancy si spengono assieme al suo desiderio di essere amata dal
«Selvaggio» – l’uomo «baluardo» (D, p. 428), il solo che avrebbe saputo
sottrarla al mondo per restituirla al Libro –, Anne-Marie rivela il proprio talento di violinista. La sua ascesa divora chi le sta vicino: la madre,
Fräulein Müller e Bemolle, l’assistente del Maestro che le impartisce le
lezioni:
Fräulein aveva nei suoi atteggiamenti tutta la stupefazione d’una divorata.
– Quella bambina è un Genio, – continuava a ripetere. – Sarà come Wagner.
Ma molto più grande.
Poi parve risvegliarsi e ricordare le cose di minore importanza, le piccole
realtà della vita.
(D, p. 418)
Bemolle, che era soprattutto compositore, ora non componeva più. Egli fu
ben presto uno dei Divorati.
(D, p. 427)
gm
CHIARA TOGNARELLI
112
om
io8
9
g
o
iam
u
Caro Selvaggio, io sono una delle “divorate”. Non esisto più. La mia piccola
Anne-Marie mi ha divorata. Ed è giusto, ed è bello, ed è santo che sia così.
Essa mi ha consumata, ed io ne sono lieta. Essa mi ha annichilita e io ne sono
riconoscente.
Poiché questa è l’eterna legge, inesorabile e magnifica: che a queste vite date
a noi, la nostra vita deve essere data.
Ed io – come tutte le madri – estasiata ed a ginocchi, do la mia vita alla creatura inconscia che la esige.
Ecco: io ricado nell’ombra: la mia corsa non finita, la mia meta non raggiunta, la mia missione non compiuta. Che importa? Ciò che a me fu negato, sarà
dato ad Anne-Marie. Mia figlia raggiungerà le vette ch’io non ascesi. Per lei
sarà la Gloria ch’io non acquistai.
(D, p. 512)
r
ne
ai
la
art
ie
p
ka
p
o
to
Nancy riconosce alla figlia di diritto di divorarla. Poche pagine oltre
e molti fatti dopo, la narratrice le dedica una sorta di requiem:
Il chiuso fiore del tempo svolse i suoi petali.
Ed i giorni lucenti e le notti stellate spinsero la piccola Anne-Marie di trionfo in trionfo. E le versarono flutti di mare negli occhi e flutti di sole sui capelli. Ed ella assurse fulgida come un giglio alla virginea e radiosa gioventù.
Il chiuso fiore del tempo svolse i suoi petali.
Ed i giorni e le notti versarono il lor crepuscolo su Nancy, e la spinsero indietro nell’ombra dove seggono le madri, con miti labbra che nessuno bacia,
con dolci occhi di cui nessuno conta le lagrime.
Ella imparò a scordare. Scordò di essere stata giovane; scordò di essere stata
poeta. Scordò di aver saputo un giorno la storia del Giardino azzurro:
La belle qui veut
La belle qui n’ose
Q
ue
s
Ebo
01
2
2
.c
ma
il
0
9
-1
28
Nancy comprende di non poter più scrivere. Se Valeria non era mai
stata consapevole di ciò a cui aveva rinunciato per la figlia, Nancy ne
ha invece piena coscienza, tant’è che in una lettera d’addio all’amato
Selvaggio descrive la propria condizione di sacrificata, «come tutte le
madri»:
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
o
il.
c
a
Cueillir les roses
Du jardin bleu21.
89
oi
o
Il Giardino azzurro della gioventù chiuse pianamente le sue porte dietro di
lei; ed i fiori che Nancy non vi aveva colti, ora per lei non fiorirebbero più.
[…] Ormai era tardi. La sua creatura era partita. Il suo Libro era morto. Il
Giardino azzurro era chiuso.
(D, pp. 514-519)
u
am
ri
ne
a
ila
e
ar
ti
La gloria di Anne-Marie spinge Nancy «nell’ombra dove seggono
le madri». Non diversamente, anni addietro, la gloria di Nancy aveva
sospinto Valeria nella stessa ombra:
p
k
ap
Valeria sedeva sempre un po’ in disparte, nell’ombra; e se qualcuno le parlava, essa rispondeva piano, con breve dolcezza, e col sorriso spento. Le sue
fossette si erano nascoste in due piccole linee che le solcavano le guance. Valeria non era più Valeria. Era la madre di Nancy. Essa si era ritratta nell’ombra dove seggono le madri, dagli occhi miti che nessuno guarda, dalle bocche
dolci che nessuno bacia, dalle mani bianche che benedicono e rinunziano.
Era la creaturina, era il béby che l’aveva spinta colà. Inesorabilmente, col
primo gesto delle minuscole mani, col primo tocco delle fragili dita premute sul seno materno, la bambina aveva discacciato la madre dal suo posto al
sole: l’aveva dolcemente, inesorabilmente, sospinta fuori dalla gioia, fuori
dall’amore, fuori dalla vita – verso l’ombra dove seggono le madri con mini
occhi di cui nessuno conta le lagrime, con dolci bocche di cui nessuno chiede i baci. Nancy prima d’altri aveva preso il suo posto al sole; ché, se quasi
sempre i figli, simili ai pettirossi, sono gli inconsci ed istintivi carnefici dei
loro vecchi, il giovane Genio è un’aquila, che balza inatteso dal nido d’una
colomba; e, sbattendo le ali noncuranti e devastatrici, per vivere distrugge,
per nutrirsi divora, per creare annienta.
(D, pp. 139-140)
b
o
o
to
E-
ue
s
Q
21. Questa poesiola in francese ritorna in più punti del romanzo, a scandire le tappe della
progressiva presa di coscienza di Nancy.
113
gm
CHIARA TOGNARELLI
114
Eppure, Nancy non riesce a rassegnarsi, a darsi pace. I suoi tormenti si ripresentano in tutta la loro straziante virulenza quando
Anne-Marie, all’apice della gloria, s’innamora, quando «l’Amore le
toglie di mano il violino» (D, p. 515). Seguono pagine rapide, in cui gli
eventi sono tracciati con tratti veloci. Nulla si dice di quell’incontro
fatale, nulla si sa del marito: del resto, il romanzo ha già insegnato
che sono aspetti marginali, di poca importanza. Senza la figlia, Nancy
contempla la vacuità della propria esistenza («Ormai era tardi. La sua
creatura era partita. Il suo Libro era morto. Il giardino azzurro era
chiuso», D, p. 519). Su questa disperazione, si chiude il Libro secondo.
Il Libro terzo condurrà il lettore nella camera della nuova puerpera:
i pensieri luminosi di Anne-Marie saranno interrotti dal pianto del
neonato affamato.
4.
to
es
Qu
Il conflitto fra istinto materno e vocazione artistica è il tema portante dei Divoratori. Il romanzo è infatti imperniato sull’annichilimento al
quale il giovane di genio – il divoratore – riduce chi più lo ama: la madre. Questa legge immutabile, questa sorta di vampirismo fra consanguinei, può riguardare anche un padre e le sue figlie: è quanto mostra
il caso del divoratore per eccellenza, «il grande Cantore della Rivolta,
il Poeta pagano della nuova Roma» (D, p. 415)22, che Nancy incontra
nella sua giovinezza:
ok
bo
E-
Lo spirito del Silenzio regnava sulla fredda e buia scala.
La porta le era stata aperta da una pallida serva trasognata, di cui l’unica
missione al mondo pareva essere quella di non fare rumore. Tre tacite donne, figlie forse del Poeta, le avevano detto con voci sommesse di prendere
posto. Tutte avevano un’aria dolce e soggiogata come se vivessero giorno
per giorno con qualche cosa che le struggesse, che le divorasse. E pareva
che ne fossero contente. Esse esistevano unicamente per badare a ciò, che il
Genio non fosse disturbato.
e
en
rti
pa
ap
a
Fin troppo facile riconoscere in questi tratti il profilo di Carducci.
uo
m
ria
ila
22.
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
Ed ecco che la porta si aprì bruscamente ed il Genio entrò. Era un fiero
uomo, colla testa grigia e leonina e gli occhi impazienti. E Nancy vedendolo
comprese che si potesse volentieri traversare la vita in punta di piedi per
non disturbarlo. Comprese che si abbassasse la voce e si frenasse il gesto
davanti a lui. Comprese che egli aveva il diritto di divorare.
Egli teneva tra le mani il piccolo libro di Liriche. Poi parlò in accenti brevi
e staccati. Disse:
– Tre sole donne furono poeti: Saffo; Desbordes Valmore; Elisabetta Browning. Ed ora, voi, Andate, e lavorate.
Pronunciò poche altre parole; e tutte colla voce austera e gli occhi foschi
sotto le ciglia aggrottate. Ma Nancy gli aveva detto addio tremante ed abbagliata di felicità. Le Divorate le avevano silenziosamente aperta la porta,
ed ella già scendeva, vacillante e col cuore inondato d’emozione, la scala –
quando udì un greve passo sopra a lei; si fermò e si guardò indietro.
(D, pp. 416-417)
La dinamica divoratore-divorato può estendersi anche a persone
estranee alla famiglia: persone sole, che, gravitando attorno al genio,
come una governante o un istitutore, rimangono abbacinate dal suo
prodigioso talento e si mettono al suo esclusivo servizio, accantonando ogni altra aspirazione. Certo è, però, che I divoratori mette a fuoco
soprattutto la declinazione al femminile di questo meccanismo, costituendo così un’inedita riflessione sulla maternità e sulle sue ripercussioni sulle donne dotate di capacità intellettuali ed artistiche fuori dal
comune23. Così Vivanti rompe più di un tabù, suggerendo anzitutto che
nell’animo umano – anche in quello di una madre – sempre si agitano
forze che, sebbene occultate in profondità, vorrebbero impedire all’individuo di immolarsi totalmente per il bene di un altro; se ciò accade, è
una rinuncia a vivere.
A questo tema di caratura sociale e psicologica corrisponde una
struttura romanzesca centrifuga, vorticosamente mossa da fatalità, casi
23. Su questo tema rimando a L. Benedetti, The Tigress in the Snow. Motherhood and Literature in Twentieth-Century Italy, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press,
2007; alle pp. 23-25 tratta dei Divoratori.
115
to
Q
u
es
CHIARA TOGNARELLI
116
o
C. Garboli, La gioia della partita, cit., p. 111.
bo
24.
E-
– Allora a che cosa servono [i poeti non proprio veri]? – chiese Anne-Marie.
Nancy non seppe risponderle. Nancy non sapeva a che cosa servissero i poeti non proprio veri. E d’altronde anche quelli veri, a cosa servivano?
Tutto, nella vita, a cosa serve? I pensieri di Nancy tornarono in dolente fila
al suo Libro non terminato. A che cosa sarebbe servito scrivere quel libro?
Tanto valeva non averlo scritto.
Ed a che cosa serve questo racconto ch’io vi faccio?…
È una storia che potevo tralasciar di narrare.
sto
e
Qu
stupefacenti e coups de théâtre. I rovesci più repentini, le agnizioni meno
plausibili, le improvvise accelerazioni e le soste narrative rendono godibile la disamina di un argomento difficile e scabroso, di cui il lettore è
peraltro incoraggiato a immaginare la matrice autobiografica.
Vivanti è maestra di peripezie. Come le Parche, intesse e recide fili
a proprio piacimento. Vuole «spadroneggiare: ammazzare e far nascere le persone, sposarle, dividerle, spargerle da una parte all’altra
del globo»24. E, di fatto, il romanzo corre da un continente all’altro:
l’Hertfordshire della bucolica Inghilterra vittoriana, la Davos dei sanatori, la Milano della belle époque, la Montecarlo internazionale dei casinò, i quartieri più poveri di New York, e poi di nuovo l’Europa – Praga, Parigi –, e ancora l’Italia mediterranea, le città assolate, gli azzurri
assoluti delle località di mare. Abile nel tratteggiare quadri d’ambiente
e scene di costume, Vivanti, forte del proprio cosmopolitismo, fa continui reportages delle realtà a lei note.
L’inquietudine stilistica, il continuo precipitare da un tono all’altro
– ora drammatico, ora leggero, ora tragico, ora ironico – si legano a una
voce narrante impalpabile, che racconta in presa diretta, senza alcun
filtro moralistico, lo spazio coercitivo della famiglia. Divagazione dopo
divagazione, quello spazio si dilata fino quasi a inglobare la scena del
mondo. In un unico passo del romanzo l’autrice, come già nella dedica,
ritaglia uno spazio per sé. Succede alla fine del nono capitolo del Libro
secondo, quando Nancy si trova a dover spiegare alla piccola Anne-Marie a che cosa servano i poeti:
Quest
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
Forse così dirà anche Iddio quando spenti ai Suoi piedi ripiomberanno i
mondi morti, alla fine dell’Eternità.
(D, p. 330)
È la crepa da cui filtra il senso primigenio dei Divoratori. Per un
istante, il congegno romanzesco si inceppa. Il dialogo fra madre e figlia sul perché esistano i poeti, soprattutto quelli «non proprio veri»,
blocca la macchina narrativa. L’autrice compare al centro della scena:
del resto, è di lei che si parla. E allora Vivanti si interroga, assieme ai
propri personaggi, sulla necessità e sul significato del raccontare storie:
ma la riflessione rimane sospesa; il parallelismo conclusivo è un’impennata azzardata, poco illuminante. Intanto, però, la storia riprende
e prosegue, perché non raccontarla significherebbe rinunciare a sé,
condannarsi «all’ombra» funerea in cui si spengono le divorate. Ogni
incertezza scompare: torna a scorrere rapinosa e straripevole la piena
del romanzo e, con essa, la vita. Sarà poi la fine di Nancy, straziata dal
vuoto della propria esistenza, afflitta dall’aver perso, col Libro, se stessa,
a dare un’ultima risposta inequivocabile.
117
118
CHIARA TOGNARELLI
Bibliografia
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia
oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo
modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria»,
71/72.
Benedetti L., (2007),Q
The
and Literature in TwenuTigress
est in the Snow. Motherhood
tieth-Century Italy, Toronto-Buffalo-London,
University of Toronto Press.
oE
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie-ebaltre forme di romanzo totale nel XIX secolo,
ookIV, Torino, Einaudi.
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol.
ap
pavol.
Carducci G., (1954), Edizione Nazionale delle Lettere,
rtieXVII, Bologna, Zanichelli.
ne
a (1889-1906),
Carducci G., Vivanti A., (2004), Addio caro Orco. Lettere e ricordi
ilar
A. Folli (a cura di), Milano, Feltrinelli.
ia
m
Croce B., (1914), La contessa Lara - Annie Vivanti, in B. Croce, La letteratura dellauoi
o89
nuova Italia. Saggi critici, vol. II, Bari, Laterza.
Dashwood J., (2016), From Circe to Fosca. Annie Vivanti and the Femme Fatale, in
S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics,
Identity and Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press.
Deganutti M., (2016), A “Mistaken” Choice of Language? A Case of Self-Transaltion, in S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational
Politics, Identity and Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press.
De Seta I. (a cura di), (2014), Armonia e conflitti. Dinamiche familiari nella narrativa italiana moderna e contemporanea, Bruxelles, Peter Lang.
Garboli C., (2016), Naja Tripudians di Annie Vivanti, in C. Garboli, La gioia della
partita. Scritti 1950-1977, L. Desideri, D. Scarpa (a cura di), Milano, Adelphi.
Gragnani C., (2016), War Rape and Hybrid Birth, in S. Wood, E. Moretti (a cura
di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press.
Lepschy A.L., (2010), Annie Vivanti as self-translator: the case of The Devourers
and Circe, in «The Italianist», 3.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
gm
2
om
9g
ma
il. c
«NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI»
i o8
Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter
Lang.
ilar
iam
uo
Tognarelli C., (2017), Ego di Annie Vivanti, in A. Andreoni, C. Giunta, M. Tavoni
(a cura di), Esercizi di lettura per Marco Santagata, Bologna, il Mulino.
Vivanti A., (1918), Zingaresca, Milano, Dott. Riccardo Quintieri Editore.
ea
Vivanti A., (1922), …Sorella di Messalina, Torino, Letteraria Casa Editrice Italiana.
art
ien
Vivanti A., (1931), Fosca, sorella di Messalina, Milano, Mondadori.
Vivanti A., (2005), Racconti americani, C. Caporossi (a cura di), Palermo, Sellerio.
pp
Vivanti A., (2006), Tutte le poesie, edizione critica con antologia di testi tradotti,
C. Caporossi (a cura di), Firenze, Leo S. Olschki.
ka
Vivanti A., (2008), I divoratori, C. Caporossi (a cura di), Palermo, Sellerio.
E-b
oo
Vivanti A., (2011), Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska, C. Caporossi (a cura di),
Milano, Otto/Novecento.
Vivanti A., (2014), Naja tripudians, R. Reim (a cura di), Milano, Otto/Novecento.
es
to
Vivanti A., (2018), Vae victis!, Roma, Edizioni Croce.
Qu
Welge J., (2015), Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change
in the Modern Novel, Baltimora, Johns Hopkins University Press.
Wood S., Moretti E. (a cura di), (2016), Annie Chartres Vivanti: Transnational
Politics, Identity and Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press.
119
Q
ue
st
o
E-
bo
ok
ap
pa
rti
en
e
a
ila
ria
m
uo
io
89
gm
ai
l.c
Il genere cadetto.
Il romanzo di famiglia
come forma simbolica
Lorenzo Mecozzi
Il romanzo di famiglia è un genere che vive nella contraddizione.
Se si considerano i testi individualmente, tra i romanzi di famiglia è
possibile annoverare alcuni tra i maggiori capolavori della letteratura
occidentale, da I Malavoglia a Gli anni, da I Buddenbrook a Cent’anni di
solitudine: opere tanto iconiche da poter essere definite, in alcuni casi,
rappresentative dell’intera produzione dei loro autori; se lo si considera
in quanto genere, invece, il romanzo di famiglia non ha ancora ricevuto
una attenzione adeguata: le singole opere hanno da sempre goduto di
una critica attenta e puntuale, ma solo negli ultimi anni i family novels1
sono diventati oggetto di un dibattito che cerca di comprendere le dinamiche interne all’intero genere, invece di analizzare i testi nella loro
singolarità.
A questa contraddizione che riguarda la fortuna critica se ne deve aggiungere una seconda, che della prima è forse la causa. I romanzi di famiglia sono spesso accusati di essere opere formalmente “conservatrici”. O,
per meglio dire, i romanzi di famiglia, innanzitutto e per lo più, sembrano
non abbracciare con convinzione le possibilità sperimentali che il campo
letterario ha da offrire, presentandosi, come scrive Marina Polacco, come
Q
ok
o
b
Eo
t
ues
a
rt
ppa
ien
il
a
e
a
1. Una premessa metodologica
1. In questo saggio userò indistintamente le espressioni «romanzo di famiglia» e «family
novel». Questo perché, da una parte, family novel è la categoria critica che ha permesso, in
ambito anglosassone, una nuova attenzione “di genere”; dall’altra, nel corso del saggio, specialmente nella parte riguardante i libri di famiglia, poter usare l’espressione inglese aiuterà
nella chiarezza dell’esposizione.
122
LORENZO MECOZZI
una forma narrativa «spesso apertamente anacronistica nel panorama
letterario coevo»2. A questo si deve aggiungere, poi, che in più di un caso,
da un punto di vista ideologico, i family novels possono essere tacciati, a
torto o a ragione, di conservatorismo politico. Questa “arretratezza” ideologico-formale risulta tanto più significativa se si considera il fatto che
il romanzo di famiglia è sempre interessato alle svolte fondamentali della
modernità ed è attratto dalle antinomie del presente3.
Come è possibile, dunque, sciogliere queste contraddizioni? Fino
ad ora, i saggi più importanti sul romanzo di famiglia hanno cercato
di definire il genere mostrandone le caratteristiche tipologiche principali4. Per comprendere la contraddittorietà del family novel, però,
Q
ue
stonecessario
può
essere
di famiglia come forma
E-bookconsiderare
appartilieromanzo
ne che
a ila
riamda
simbolica: formulare un’ipotesi genealogica
permetta,
uouna
ioparte,
89 gmail.co
di comprendere le ragioni dell’emergenza del family novel in quanto
genere, e, dall’altra, la sua funzione simbolica; un’ipotesi che permetta di comprendere quale sia il «contenuto spirituale» che acquista una
forma «sensibile» nel romanzo di famiglia5. Per far questo, mi riferirò
2. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13,
2005, p. 115.
3. Oltre al già citato saggio di Marina Polacco, si pensi a Spinazzola, che, nel Romanzo antistorico, spiega il successo del Gattopardo come il risultato dell’esaurirsi della forza d’urto che
caratterizzava lo sperimentalismo modernista (cfr. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma,
Editori Riuniti, 1990); o a quanto scrive Franco Moretti a proposito di Cent’anni di solitudine,
ossia che il romanzo di García Márquez «rimette il modernismo con i piedi per terra. E poi,
sana “la grande frattura” (Adorno) tra modernismo e cultura di massa […] un’opera d’avanguardia, capace però di raccontare una storia avvincente» (cfr. F. Moretti, Opere mondo: saggio sulla
forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994); o, infine, a quanto scrive
Baldini riguardo a Virginia Woolf, che «non era conosciuta per la sua narrativa più sperimentale, ma proprio per Gli anni, che era il suo libro più venduto» (A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale,
in «Allegoria», 71-72, 2016, p. 45). Nello stesso saggio, Baldini ricorda come la ricezione del
Gattopardo fosse stata caratterizzata dal sospetto del suo impianto ideologico reazionario.
4. Da questo punto di vista, il saggio di Marina Polacco rappresenta una risorsa indispensabile per chiunque voglia affrontare criticamente il romanzo di famiglia in quanto genere.
Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., e Y.-L. Ru, The Family Novel: Toward a Generic
Definition, New York, Peter Lang, 1992.
5. La definizione di «forma simbolica» si deve a E. Panofsky, La prospettiva come «forma
simbolica», Milano, Feltrinelli, 1979. L’uso che se ne fa in questo articolo è debitore agli studi
di Franco Moretti, in particolare a F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999.
a ila
ene
arti
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
Que
sto
E-b
ook
app
al contesto italiano considerando I Malavoglia di Verga, I Viceré di De
Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello e Il Gattopardo di Tomasi di
Lampedusa; ma, nella convinzione che questa ipotesi possa dire qualcosa anche al di là della tradizione italiana, non rinuncerò a qualche
riferimento incrociato con testi appartenenti ad altre letterature.
E proprio perché si tratta di un’ipotesi genealogica, vorrei parlare
del romanzo di famiglia come di un genere cadetto: un genere destinato,
per il proprio prestigio, ad essere parte dell’élite letteraria, ma contemporaneamente, in quanto cadetto, condannato ad avere un ruolo secondario nel gioco delle parti della tradizione. Ma se il romanzo di famiglia
è il “genere cadetto” del romanzo moderno, di chi considerarlo l’erede?
Gli indizi conducono tutti ad un’unica conclusione: considerare il romanzo di famiglia come la forma simbolica che eredita il ruolo avuto
durante il diciannovesimo secolo dal Bildungsroman.
2. Un ipotetico albero genealogico
Romanzo di famiglia come erede del Bildungsroman. È per questo
motivo, quindi, che guardando alla lista di romanzi che appaiono ciclicamente nei saggi sul romanzo di famiglia europeo (I Malavoglia,
I Buddenbrook, I vecchi e i giovani, Gli anni, La marcia Radetzky, solo
per menzionarne alcuni), si può ritrovare una significativa concentrazione di opere a ridosso della stagione modernista. A cavallo tra
il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, nel momento in cui il romanzo di formazione in Europa esaurisce la propria forza e il campo
letterario sembra guardarsi intorno alla ricerca di una nuova forma
letteraria capace di farsi carico delle questioni aperte dalla modernità,
il romanzo di famiglia sembra proporsi come la forma simbolica in
grado di offrire una rappresentazione sensibile delle contraddizioni
del presente6.
6. Ovviamente, la storia del romanzo di formazione è una storia plurale. Così come la
storia del romanzo di famiglia. Ciò che accomuna Bildungsroman e family novel è l’attenzione per ciò che Bachtin definisce, come vedremo più avanti, il «divenire del mondo». Cfr.
S. Graham (a cura di), A History of the Bildungsroman, Cambridge, Cambridge University
Press, 2019.
123
124
LORENZO MECOZZI
In questo contesto, varie forme letterarie si contendono il compito di rappresentare la crisi della modernità che ha “esaurito” il Bildungsroman ottocentesco. Se ne possono nominare innanzitutto tre: il
Bildungsroman modernista, il novel-essay, e le opere mondo: il primo,
«while failing to measure up to the generic conventions it inherits from the
classical tradition, […] succeeds to varying degrees in recuperating a classical notion of Bildung that incorporates the crucial elements of individual
freedom and aesthetic education»7; il secondo, «symbolic form of the crisis
of modernity», tenta di restituire «a picture of a world on the brink of
a precipice; a world whose complexity was experienced as being so overwhelming as to request a synthetic and totalizing narrative form in order
to relate it»8; le ultime cercano di rappresentare, in un unico testo, «la
fondazione delle civiltà, il loro senso d’insieme, il loro destino»9, così
come la frammentazione di un mondo che non ha più al centro l’essere
umano.
In che modo, allora, il romanzo di famiglia eredita la funzione simbolica del Bildungsroman? Mentre il Bildungsroman modernista, il novel-essay e le opere mondo cercano di governare un presente che “sfugge” ai limiti imposti al romanzo di formazione10, il romanzo di famiglia
7. G. Castle, Reading the Modernist Bildungsroman, Gainesville, FL, University Press of
Florida, 2006, p. 27.
8. S. Ercolino, The Novel-Essay: 1884-1947, New York, NY, Palgrave Macmillan, 2014.
9. F. Moretti, Opere mondo, cit., pp. 30-35.
10. Sulla non appartenenza del romanzo di famiglia alla categoria di opere mondo mi trovo d’accordo con quanto scrive Franco Moretti. E, per quanto possa sembrare paradossale, le
ragioni le spiega bene Marina Polacco, che al contrario ritiene i family novels opere mondo a
tutti gli effetti. Credo che queste due forme rispondano in modo opposto allo stesso problema:
l’erosione del Bildungsroman come forma simbolica. Il romanzo di formazione entra in crisi
quando la complessità del reale, con le infinite possibilità che la modernità ha da offrire, finisce
col rendere impossibile l’idea stessa di una soggettività in grado di contenere il mondo intero.
Le opere mondo, così come il romanzo saggio, cercano di creare dispositivi formali che possano tenere testa a una modernità non più antropocentrica. I romanzi di famiglia, privilegiando
una sinteticità cronologica invece che spaziale, scegliendo «la lunghezza e non la larghezza»,
come dice Polacco, e soprattutto scegliendo uno sguardo retrospettivo e sempre critico verso
il presente, si pongono in diretta opposizione alla modernità, invece che cercare di “gestirla”
come fanno le opere mondo. In questo senso si tratta di un genere “cadetto”, che pur ereditando
le criticità del presente non ha la possibilità di risolverle. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia,
cit., p. 122 e F. Moretti, Opere mondo, cit., pp. 222-223.
-bo
Q
oE
t
s
e
u
rt
ppa
a
k
o
u
ene
a
lari
am
i
ti
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
k
E
b
oo
a
p
p
ar
tenta di fare qualcosa di diverso: rifugiandosi nel passato, guardando
ad un’istituzione ormai in via di dissoluzione come la famiglia tradizionale, cerca un impossibile compromesso tra le forze centrifughe (o
percepite tali) della modernità e l’azione centripeta della tradizione.
In quanto appartenente al ramo cadetto della genealogia delle forme,
al romanzo di famiglia non spetta il compito di traghettare “l’eredità”
del romanzo di formazione nel presente. Al contrario, sembra dover
condividere il destino di molti figli “cadetti” degli stessi family novels.
Come Tony nei Buddenbrook, come Mena nei Malavoglia, Concetta nel
Gattopardo, il romanzo di famiglia sembra dover rimanere attaccato alla
tradizione, riproponendo l’utopia del Bildungsroman nel tentativo di rilanciare, nel presente, l’impossibilità di una socializzazione armoniosa
offerta dal romanzo di formazione inglese e tedesco all’inizio del diciannovesimo secolo. Come scrive Franco Moretti:
to
Qu
es
In una frase: il Bildungsroman racconta “come si sarebbe potuta evitare la
rivoluzione francese”. Non per nulla è un genere letterario che si dispiega in
Germania – dove la rivoluzione non ebbe mai alcuna possibilità di riuscita – e in Inghilterra – dove, compiutasi da oltre un secolo, aveva aperto la
via ad una simbiosi sociale rinnovatasi con particolare ampiezza tra Sette e
Ottocento. In Francia, il modello socio-culturale del Bildungsroman sarebbe
apparso irreale: e infatti non vi mise radici. Perché la socializzazione del
giovane occupi il centro della grande narrativa francese bisognerò attendere Stendhal e Balzac: e quella, naturalmente, sarà tutta un’altra storia11.
Il romanzo di famiglia come ulteriore tentativo di evitare la rivoluzione francese, dunque. Ed infatti il family novel europeo assume una
posizione periferica nell’albero genealogico dei generi letterari, ed acquista un senso – ed una centralità all’interno del canone – laddove
il Bildungsroman era rimasto cristallizzato nella sua fase classica, ad
esempio in Inghilterra o in Germania, o dove non aveva mai avuto uno
sviluppo compiuto, come in Italia; o, in termini extraletterari, «in those
countries or regions that come to be associated with a peripheral, “belated”
11.
F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., pp. 71-72.
125
LORENZO MECOZZI
ilariam
a
e
n
e
i
t
appar
status in the context of (European) modernity»12. E di questa modernità
tarda che irrompe, da fuori, nella vita di queste comunità periferiche,
il family novel, con la sua natura compromissoria, è la forma simbolica.
Dopotutto, secondo Polacco, il romanzo di famiglia è un genere intimamente connesso al divenire storico:
E-book
o
t
s
e
u
Q
126
Il romanzo di famiglia affronta un discorso storico anche senza parlare
di fatti storici, o magari parlandone solo incidentalmente: ma la vicenda
narrata costituisce di per sé una proposta di interpretzione di fenomeni e
processi storici di portata epocale (la fine dell’ancien régime e il trionfo della borghesia, lacolonizzazione e la decolonizzazione, l’odissea del popolo
ebraico durante la diaspora, le sorti della civiltà post-industriale, e così via);
la storia della famiglia diventa allegoria della storia di una comunità – di una
nazione, di un popolo, di una civiltà13.
Ma perché il romanzo di famiglia emerge come forma simbolica
“antirivoluzionaria”? Un’ipotesi è che il family novel, proprio per il
suo legame inscindibile con l’istituzione familiare, sia la forma migliore per mostrare i “pericoli” della modernità democratica post-rivoluzionaria, dal momento che, come genere, si sviluppa proprio nel
momento in cui si assiste al dissolvimento di ciò che dovrebbe essere
al centro del racconto, con il passaggio dalla «famiglia tradizionale
alla famiglia nucleare moderna» che ha fatto seguito allo sviluppo
della borghesia14. Per questo motivo, il romanzo di famiglia è la forma migliore per mostrare i pericoli della tendenza della modernità ad
organizzarsi intorno a quello che Simmel definisce il principio quantitativo, un principio che trasforma legami qualitativi in relazioni numeriche:
Finally, despite all appearances to the contrary and all justified criticism, modern
times as a whole are characterized throughout by a trend towards empiricism
12. J. Welge, Genealogical fictions: cultural periphery and historical change in the modern
novel, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 2015, p. 6.
13. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 121-122.
14. Ibid., p. 103.
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
127
and hence display their innermost relationship to modern democracy in terms of
form and sentiment. It would be easy to multiply the examples that illustrate the
growing preponderance of the category of quantity over that of quality, or more
precisely the tendency to dissolve quality into quantity, to remove the elements
more and more from quality, to grant them only specific forms of motion and to
interpret everything that is specifically, individually and qualitatively determined
as the more or less, the bigger or smaller, the wider or narrower, the more or less
frequent of those colourless elements and awarenesses that are only accessible to
numerical determination – even though this tendency may never absolutely attain its goal by mortal means15.
Il romanzo di famiglia può essere letto, dunque, come un genere
che si sviluppa in opposizione all’avvento della modernità “democratica”, fondata su un principio quantitativo che ha nella propria natura la
sussunzione di ogni legame qualitativo – e quindi di ogni valore e identità “familiare” – sotto l’egida del calcolo e del numero. Nel romanzo
di famiglia, come nel Bildungsroman classico, si tenta, al contrario, un
matrimonio tra le categorie della quantità e della qualità, tra individuo
e comunità, tra modernità e tradizione.
3. Le nuove forme di un matrimonio impossibile
G. Simmel, The Philosophy of Money, New York, Routledge, 1990, p. 300.
book
15.
to EQues
Per comprendere in che modo il romanzo di famiglia eredita la funzione simbolica del Bildungsroman – il suo tentativo di evitare la rivoluzione francese – può essere utile soffermarsi su quei tratti formali che
possono mostrare la somiglianza di famiglia tra i due generi romanzeschi. Si tratta di tre aspetti del romanzo di famiglia sottolineati da Marina Polacco (i libri di famiglia, quasi sempre presenti nei family novels;
la geografia dei romanzi di famiglia; il policentrismo della narrazione)
che, oltre ad essere, almeno in parte, eredità del Bildungroman, rappresentano i segni attraverso i quali prende forma l’idea, impossibile, di un
compromesso con la modernità.
LORENZO MECOZZI
128
3.1. I libri di famiglia
Innanzitutto il ruolo e l’importanza dei libri di famiglia all’interno
dei family novels. Come sostiene Marina Polacco, nei libri di famiglia, e
quindi nei romanzi di famiglia, «l’individualità è trattata come espressione del gruppo»16. I libri di famiglia hanno la funzione di collocare il
soggetto dentro un orizzonte di senso più ampio, di conferire valore
all’individualità proprio attraverso la sua appartenenza alla collettività.
Ora una citazione dal Romanzo di formazione di Franco Moretti, a proposito del Wilhelm Meister di Goethe:
Nell’ultima pagina del settimo libro, Wilhelm scopre che Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister sono una pergamena conservata nella Sala del
Passato […] In altri termini, il romanzo che stiamo leggendo è stato scritto
dalla Torre per Wilhelm, ed è solo venendone a conoscenza che egli può
alfine assumere il pieno possesso della sua vita17.
sto
Que
Dalla pergamena della Società della Torre alle pergamene di Melquíades che raccontano la storia della famiglia Buendia in Cent’anni di
solitudine; dal libro di famiglia dei Buddenbrook tanto amato da Tony
fino alle storie del Mugnòs di cui Consalvo e Donna Ferdinanda discutono nelle pagine finali dei Viceré: la funzione di questi “dispositivi di senso” è creare una comunità che si fondi su un riconoscimento
qualitativo dell’individuo. L’individualità del singolo dipenderà soltanto dall’appartenenza ad una comunità in cui riconoscersi. Eppure, da
Goethe a Garcia Márquez qualcosa è cambiato. Mentre le pergamene
della Società della Torre, sussumendo l’individualità all’interno di una
soggettività più allargata, potevano garantire a Wilhelm il «pieno possesso della sua vita», nei family novels, come ha mostrato Polacco, ciò
non è più possibile. Le cronache del Mugnòs, nei Viceré, se lette attentamente, non fanno che mostrare la falsità di ogni pretesa di eccezionalità
aristocratica; la linea tracciata da Hanno sul libro di famiglia dei Bud-
E-b
M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 101.
F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. 24.
ook
16.
17.
art
app
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
129
denbrook sancisce l’ultimo stadio della «decadenza» della sua famiglia;
le pergamene di Melquíades altro non sono che la profezia della fine
della famiglia Buendia.
Nei family novel, i libri di famiglia segnano l’esaurirsi di quella possibilità di senso garantita dall’integrazione tra l’individuo e la società.
Le pergamene della società della Torre, che rappresentavano l’happy ending nel Bildungsroman goethiano, nei romanzi di famiglia acquistano
il senso opposto. E lo stesso si può dire dell’altra forma di “pergamene”,
caratteristiche del Bildungsroman classico: quei patti matrimoniali che
nei romanzi di Austen, come ha mostrato Moretti, sanciscono l’happy ending, e che nel corso dell’Ottocento, specialmente nel romanzo di
formazione francese, perdono la loro centralità e il loro valore simbolico18. Se in Goethe e in Austen il matrimonio sancisce la pace sociale
fra differenti classi, nei romanzi di famiglia i matrimoni rappresentano
un tentativo di pacificazione destinato a fallire, trasformandosi nella
certificazione della fine di una società in via di dissoluzione.
Ma se nei romanzi di famiglia ritorna l’utopia di una perfetta integrazione tra società ed individuo, quali sono gli individui incaricati di
ridurre le distanze tra il singolo e la comunità? Prima di rispondere a
questa domanda, è necessario parlare della geografia dei nostri romanzi.
3.2. Geografie familiari
Nei romanzi di famiglia, scrive Polacco, «all’estensione cronologica corrisponde […] la concentrazione spaziale»19. I romanzi di famiglia
possono essere claustrofobici, geograficamente asfissianti. La narrazione si sviluppa quasi per intero all’interno dell’abitazione familiare, luogo simbolico che serve a rappresentare l’ascesa e la caduta della famiglia. Chiunque esca da questi confini spaziali, prosegue Polacco, «esce
18. Se così non fosse, Il rosso e il nero finirebbe con un happy ending dopo il matrimonio di
Julien. Ma il romanzo, nonostante il matrimonio, continua, e come ha mostrato Franco Moretti, l’importanza de Il rosso e il nero sta in gran parte in quel «nonostante». Cfr. F. Moretti,
Il romanzo di formazione, cit., p. 131.
19. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 111.
Q
to
ue
s
E-
ppar
ti
LORENZO MECOZZI
Que
sto E
-boo
ka
130
di scena, scompare»20, condannato ad un errare senza meta e senza
possibilità di successo. Questa concentrazione spaziale, inoltre, è a sua
volta geograficamente situata. Secondo Welge, esiste una precisa correlazione tra narrazioni genealogiche e periferia della modernità:
the “peripheral” novels here discussed anticipate not only our current concern
with processes of globalization but also our present sense that the “homogenizing
force of modernity” is an illusion that has faded in the light of a “plurality of
paths toward modernization” and a plurality of temporal worlds21.
Nel caso dei romanzi di famiglia italiani, la prima affermazione è più
vera della seconda. Uscire dal cronotopo idillico dell’abitazione familiare significa avventurarsi proprio in quelle forze della modernità che
cancellano le differenze, annichiliscono l’identità individuale e comunitaria e, molto spesso, impediscono la possibilità del ritorno. Ma dove
vanno i personaggi che scelgono di partire? Nei romanzi di famiglia
italiani, sembra accadere qualcosa di simile a quanto accadeva nel Bildungsroman. Scrive Franco Moretti:
Nello sviluppo del Bildungsroman da Goethe a Flaubert, per contro, la strada piano piano scompare, e il proscenio viene occupato dalle grandi città
capitali […] il romanzo di formazione […] sa bene che la grande città è davvero quasi un altro mondo, rispetto al resto del paese, ma al tempo stesso la
“lega” una volta per tutte alla provincia, facendone la meta naturale di ogni
giovane di talento22.
Come nel romanzo di formazione, anche nel romanzo di famiglia
«ogni giovane di talento» ha nel proprio destino la capitale23. Ma la sta20. Ibid., p. 114.
21. J. Welge, op. cit., p. 9.
22. F. Moretti, Atlante del romanzo europeo, 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, p. 68.
23. O quanto meno, se non necessariamente la capitale, una di quelle “grandi” città che
svolgono la funzione accentratrice che hanno le capitali, uno di quei centri di aggregazione
della vita sociale che contribuiscono a creare il senso di appartenenza tipico di quelle «imagined communities» che sono i moderni stati-nazione. Cfr. B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, New York, Verso, 2006.
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
gione francese del romanzo di formazione non è passata invano, e il
romanzo di famiglia ne ha ereditato la sfiducia nella possibilità che le
grandi città possano offrire una Bildung. Eppure le capitali restano, e
allora ha senso chiedersi chi siano questi giovani di talento che ne sono
attratti e quale sia l’influenza che le capitali esercitano su di loro. In una
parola: le capitali deterritorializzano i soggetti che vi si recano. I giovani
che abbandonano la casa paterna per raggiungere la capitale tornano
sempre, ma tornano in qualche modo cambiati, e questo cambiamento ha la forma dell’alienazione, dell’impossibilità di reinserimento nella
società che hanno lasciato. Questo è quanto avviene ad esempio a Consalvo:
Una volta lasciata Catania, Consalvo scopre l’immensità e la molteplicità del mondo moderno attraverso i suoi viaggi nelle varie capitali
europee e comprende che tornare in Sicilia non è più possibile («come
rassegnarsi a tornare laggiù») e che per vivere altrove è necessario cambiare («essere il primo tra i primi»). Lo stesso accade a Tancredi, che
arruolandosi nelle milizie garibaldine dà il via a quel processo di trasformazione che, nelle parole dello “zione”, lo condurrà «a Vienna o a
Pietroburgo», dove non ci sarà spazio per il vecchio mondo (sua cugina
Concetta) ma dovrà essere affiancato dal nuovo (la giovane Angelica). E
che dire del povero ’Ntoni, che lascia Aci Trezza per fare il soldato («il
e
Qu
sto
o
E-b
ok
Il principino passò all’estero più presto del tempo stabilito. In paesi stranieri, la maggior ricchezza e autorità della gente della sua casta non lo feriva tanto, ma un altro impaccio lo aspettava: col suo povero e mal digerito
francese, si sentì come fuori del mondo a Vienna, a Berlino, a Londra: a
Parigi fece sorridere, come in Italia Baldassarre. Ma frattanto la Sicilia, il suo
paese nativo, la sua casa dove la considerazione ed il primato d’un tempo lo
aspettavano, erano divenuti per lui sempre più piccoli e meschini. Come
rassegnarsi a tornare laggiù, dopo aver visto la gran vita nelle grandi città?
E come tenere un posto mediocre in una capitale? Bisognava dunque essere
il primo tra i primi!24
24.
F. De Roberto, I Viceré, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 501.
131
LORENZO MECOZZI
132
frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile»25, come commenta il vicario
don Giammaria) e dopo l’esperienza napoletana la modernità sembra
portarsela addosso come una maledizione, al punto che una sua lettera
da Napoli «mise in rivoluzione tutto il vicinato»?26.
3.3. Narrazioni policentriche
Prendendo in mano qualsiasi romanzo di famiglia, si devono fare
i conti con la proliferazione di storie e di vite che si consuma al suo
interno. Come scrive Welge, «the family novel is choral and without a
clear center»27: ogni romanzo di famiglia si caratterizza per la apparente
mancanza di un centro gravitazionale di senso che non sia, nelle parole
di Spinazzola, il «super-personaggio familiare»28. Eppure, dire che un
centro non esiste, non è del tutto corretto.
All’interno dei romanzi di famiglia ci sono personaggi che, con più
forza degli altri, spingono avanti l’azione. Questi, per ovvie ragioni storico-sociologiche, sono spesso proprio i personaggi maschili: i Consalvo, i Lando, i Tancredi. Sono quei giovani che prendono «the way of the
world»29. Una volta individuati, il legame con il romanzo di formazione
sarà più evidente, come già intuito da Spinazzola:
rtie
ne
a
a
o
k
a
pp
-bo
esto
E
Qu
ma
io89
g
uo
ilari
am
i personaggi giovanili, pur nel loro attivismo, celano un’inquietudine che ne
rende problematica l’immagine. […] Per questo aspetto, I Viceré e I vecchi e i
giovani assumono l’aspetto del Bildungsroman, nella cura dedicata a seguire
[…] la formazione […] di Consalvo e Teresina Uzeda come di Lando Laurentano30.
25. G. Verga, I Malavoglia, Torino, Einaudi, 1995, p. 15.
26. Ibid., p. 19.
27. J. Welge, op. cit., p. 43.
28. V. Spinazzola, op. cit., p. 118.
29. Come recita significativamente l’edizione inglese del Romanzo di formazione di Franco Moretti, cfr. F. Moretti, The Way of the World: the Bildungsroman in European Culture,
Londra, Verso, 1987.
30. V. Spinazzola, op. cit., p. 13.
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
133
o
st
ue
Q
I Viceré e I vecchi e i giovani assumono l’aspetto del Bildungsroman.
È più esatto per De Roberto che per Pirandello, forse, ma vale lo stesso anche per tanti altri family novels. Il Gattopardo, ad esempio, da una
parte è il romanzo di Fabrizio, ma dall’altra è la storia di Tancredi. Fabrizio domina il piano del discorso, o dell’intreccio, mentre il piano della
narrazione, o della fabula, ruota intorno alle vicende di suo nipote. In
questo senso, inteso nella sua intelaiatura di eventi, il Gattopardo è soprattutto la storia del matrimonio tra Tancredi e Angelica. O, che è lo
stesso, la storia del tentativo di Tancredi di trovare un posto all’interno dell’Italia postunitaria. Se il Bildungsroman, come sostiene Bachtin,
è il genere in cui «l’uomo diviene insieme col mondo, riflette in sé il
divenire storico dello stesso mondo»31, le vicende di Consalvo e di Lando rappresentano a loro volta il tentativo degli eredi degli Uzeda e dei
Laurentano di essere parte del «divenire del mondo» che caratterizza
l’Italia postunitaria. Ciò che differenzia i family novels, però, è che questi tentativi non si esauriscono nell’aspirazione individuale, ma sono
sussunti dal desiderio di far divenire, insieme col mondo, il buon nome
della famiglia. È in questa dialettica tra individuo e collettività che si
gioca il destino del romanzo di famiglia.
Nei romanzi di famiglia, questo tentativo di formazione degli eredi
maschili si scontra dialetticamente con le vicende della famiglia. Il super-personaggio familiare, che come sostiene Spinazzola, sul piano del
discorso, «porta al culmine la tecnica dell’ambivalenza ritrattistica»32,
sul piano della fabula ha il ruolo di far emergere le differenti linee di desiderio presenti, innanzitutto, nella famiglia e, se si allarga lo sguardo,
nella società nel suo complesso, costringendo i protagonisti maschili
a trovare una mediazione, una sintesi. In questo senso, il super-personaggio familiare è una mise en abyme della società stessa, in cui i singoli
desideri individuali non possono che portare, se seguiti con devozione,
alla rottura del patto sociale. Affinché la famiglia possa divenire insie-
ok
bo
E-
e
en
rti
pa
ap
a
io
uo
m
ria
ila
89
31. M. Bachtin, Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo, in
Idem, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi, 1988, pp. 210-211, citato in F. Moretti, Il romanzo di
formazione, cit., p. XII.
32. V. Spinazzola, op. cit., p. 118.
om
l.c
ai
gm
2
134
LORENZO MECOZZI
me col mondo, è necessario che i protagonisti maschili possano mediare tra le spinte verso la conservazione delle tradizioni e la società
moderna. Così accade nei Viceré, dove Consalvo è costretto ad opporsi
al desiderio di donna Ferdinanda nelle ultime pagine del romanzo; così
accade nei Vecchi e i giovani, dove Lando deve decidere quale ramo della
propria famiglia tradire, e pure nel Gattopardo, che ci presenta Tancredi
costretto a deludere sua cugina Concetta, nel tentativo di realizzarsi
individualmente e di far sopravvivere la nobiltà nella modernità democratica.
Spesso questa dialettica assume proprio i contorni di genere: mentre i personaggi maschili diventano immagine del delicato equilibrio
fra «i vecchi tempi ed i nuovi», i personaggi femminili interni alla famiglia come Concetta, donna Ferdinanda, Ursula in Cent’anni di solitudine
o la giovane Tony, nei Buddenbrook, sono quelli ai quali è demandata
la più alta fedeltà verso il passato e la tradizione. Una fedeltà messa in
pericolo dai personaggi femminili esterni alla famiglia, come Angelica
nel Gattopardo, Amaranta Ursula in Cent’anni di solitudine o Gerda nei
Buddenbrook, figure cariche di una differenza perturbante, il cui ruolo to
all’interno del testo è proprio l’essere portatrici di mobilità e cambiaQues
mento33. In mezzo, gli eredi maschili, costretti a districarsi tra la forza
della tradizione e l’attrattiva della trasformazione.
4. Il trasformismo ontologico della modernità
È questa dialettica tra individuo e società, tradizione e trasformazione,
la specificità del romanzo di famiglia come forma alternativa a quella
del Bildungsroman. Ma in cosa consiste il romanzo di formazione di
questi giovani? Nel caso di Consalvo, non ci sono dubbi:
Fin quel momento era stato borbonico nell’anima e clericale per conseguenza, quantunque non credente, anzi scettico sulle cose della religione
al punto di non andare a sentire la messa: altro capo d’accusa mossogli da
33. Sul tema dell’alterità femminile nel Gattopardo, cfr. D. Duncan, Lifting the Veil: Metaphors of Exclusion in Il Gattopardo, in «Forum for modern language studies», 29, IV, 1993,
pp. 323-334.
E-b
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
quel bigotto di suo padre. Adesso, per mettersi e riuscire nella nuova via,
egli doveva essere liberale e mangiapreti come Mazzarini. Andò tuttavia a
visitare lo zio Lodovico34.
È la via del trasformismo. Consalvo, dopo aver viaggiato fuori dalla
Sicilia scopre i limiti della tradizione in cui ha vissuto, si rende conto
delle infinite possibilità che la modernità ha da offrire ed inizia a studiare.
Ciò che persegue, però, non è una Bildung, quanto piuttosto l’«essere il
primo tra i primi», una forma di sapere mobile in grado di farlo prevalere
in qualsiasi contesto, senza costringerlo a credere in nulla. Una forma di
sapere che trova la sua manifestazione più alta nelle parole che il giovane
erede Uzeda pronuncia al cospetto di donna Ferdinanda:
est
Qu
“Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs? […] Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza
li giudica degeneri! Scusi, perché?” La vecchia non rispose. “Fisicamente, sì;
il nostro sangue è impoverito; eppure ciò non impedisce a molti dei nostri
di arrivare sani e vegeti all’invidiabile età di Vostra Eccellenza! […] Ma Vostra Eccellenza pensi al passato! Si rammenti quel Blasco Uzeda, ‘cognominato nella lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo’; si
rammenti di quell’altro Artale Uzeda, cognominato Sconza, cioè Guasta!…
Io e mio padre non siamo andati d’accordo, ed egli mi diseredò; ma il Viceré Ximenes imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte… Vostra
Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati!
[…] Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per
prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili
conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male… Io farei
veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe
subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata:
è sempre la stessa”35.
ok
-bo
oE
arti
app
ene
o89
uoi
riam
F. De Roberto, op. cit., p. 504.
Ibid., p. 663.
a ila
34.
35.
135
LORENZO MECOZZI
136
Questo
Le letture del Mugnòs. Il cerchio si chiude: il “libro di famiglia” dei
Viceré, invece di sancire il principio qualitativo del mondo premoderno
della nobiltà siciliana, diventa una forma di sapere capace di giustificare
l’adesione alla logica “quantitativa” della modernità democratica. Studiando, Consalvo scopre la menzogna alla base di ogni idea di nobiltà,
smaschera l’accumulazione primitiva di potere che è la vera origine del
prestigio feudale e proprio in virtù di questo moderno scollamento tra le
parole e le cose, tra il sangue e la nobiltà, si sente legittimato nella propria
impresa individuale. Lo stesso accade a Tancredi, la cui qualità maggiore
è la capacità di farsi maschera dei desideri altrui e che è il vero e proprio
eroe della simpatia, intesa come capacità mimetica («A me raccontano
tutto; sanno che io compatisco»36, dice Tancredi riferendosi ai popolani di Donnafugata). Tancredi è l’eroe della modernità perché è individuo
di pura forma, privo di contenuto. Se Fabrizio è la figura dell’ironia che
osserva senza illusioni il disfarsi del presente, Tancredi vive nel tentativo
di assecondare il proprio desiderio mimetico verso la realtà, una realtà
sempre in movimento e priva di stelle fisse, che lo renderà, alla fine, un
essere vuoto. Solo Lando sembra riuscire a non farsi travolgere dalla mutevolezza del reale, ma ciononostante non potrà che apparire agli altri
come un «Amleto al cimitero»37, simbolo della crisi metafisica del presente, dell’indecisione, dell’individuo scisso, incapace di agire.
E la via del trasformismo, ci insegna Moretti, era stata la via intrapresa dai grandi eroi del Bildungsroman francese – dai Julien, dai Lucien, dai Frédéric. Inizialmente mossi da alti ideali, una volta giunti nel
cuore della modernità i protagonisti dei romanzi di formazione moderni cadono vittima della natura continuamente cangiante della modernità e finiscono con il soccombere, lungo la strada verso il successo, a quella soggettività priva di contenuto ideale che è la soggettività
del trasformista. In questo senso, il trasformismo politico dei Viceré e
del Gattopardo non è da intendersi soltanto nella sua realtà storica. Al
contrario, è esattamente l’elemento sensibile che dà forma, appunto, al
E-book
riamuoi
ne a ila
appartie
G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 89.
L. Pirandello, I vecchi e i giovani, Milano, Garzanti, 2008, p. 434.
a
o89 gm
36.
37.
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
Qu
e
sto
trasformismo ontologico che è l’essenza stessa della modernità. Inteso
come mancanza di una dimensione ideale o valoriale in grado di dare
senso alla Bildung dell’individuo, il trasformismo è l’epifenomeno di
una più generale impossibilità di un orizzonte di senso38. Così, sebbene
Consalvo e Tancredi, almeno, abbiano un happy ending – l’elezione, il
matrimonio – questo happy ending è tale solo sul piano formale. Sul
piano della sostanza, il romanzo di famiglia italiano, rappresenta il tentativo impossibile di tenere in vita l’eredità del romanzo di formazione:
sembra sancire l’impossibilità di una Bildung all’interno dell’eterno «divenire del mondo» moderno.
5. Un genere in bilico tra stasi e trasformazione
e
rtie
n
pa
ka
p
o
-bo
E
Qual è la ragione ultima di questi tentativi di Bildung? Lo spiega
Tancredi, il più moderno dei nostri eroi: trovare un posto nel mondo e
agire affinché tutto cambi perché tutto possa restare com’è. Il romanzo
di famiglia come opposizione di stasi e trasformazione. O meglio, opposizione di classificazione e trasformazione, i due aspetti che distinguono il Bildungsroman classico dal romanzo di formazione francese.
Ancora Moretti:
Sotto il dominio della classificazione [che comprende secondo Moretti il
romanzo familiare “della tradizione inglese” ed il Bildungsroman classico]
un racconto ha tanto più senso quanto più radicalmente riesce a sopprimersi
in quanto racconto. Sotto il segno della trasformazione – come nel filone
Stendhal-Puskin, e in quello che porta da Balzac a Flaubert – è vero il contrario: ciò che conferisce senso al racconto è la sua “narratività”, il suo essere
un processo open-ended39.
Il romanzo di famiglia si presenta come tentativo di una dialettica
tra il principio di classificazione ed il principio di trasformazione. Sotto
38. La stessa mancanza di senso che caratterizza la «fine dell’esperienza» della Bildung
di Thomas nei Buddenbrook. Cfr. M. Polacco, La costruzione della memoria: il racconto delle
generazioni e la «fine dell’esperienza», in «Compar(a)ison», 1-2, 2005, p. 41-48.
39. F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. 8.
137
138
LORENZO MECOZZI
il dominio della classificazione, ricadono le candidature politiche ed i
matrimoni dei protagonisti maschili, sotto il dominio della trasformazione, la Bildung necessaria affinché quelle ipotesi di senso siano possibili nel nuovo mondo. Ma questa Bildung – che dovrebbe preparare, attraverso la trasformazione, al momento classificatorio finale – è sempre
destinata a fallire. Da una parte, morto Tancredi, nelle ultime pagine del
Gattopardo troviamo l’una di fronte all’altra Concetta ed Angelica, stasi
e trasformazione, incapaci, come è prevedibile, di comunicare. Dall’altra parte, Lando e Consalvo diventano emblemi del trasformismo politico, ed il testo si chiude senza che il loro successo garantisca loro la
possibilità dell’azione o il potere. In questo modo, il romanzo di famiglia si presenta come il genere della sintesi impossibile di due principi
tra loro contraddittori.
Se ciò accade, è perché, in quanto forma, il romanzo di famiglia
si sviluppa alla periferia della modernità, laddove la rivoluzione borghese e la modernità sono percepite come forze estranee, distruttrici
dell’ordine sociale. Il romanzo di famiglia come genere profondamente
antiborghese, quindi, che di norma guarda alla realtà dai due estremi
del continuum sociale, le classi popolari e l’aristocrazia, e che cerca di
frenare l’avanzare delle forze omologanti della modernità. Un genere
in bilico tra classificazione e trasformazione, o meglio, un genere che
cerca di inglobare la trasformazione del presente all’interno del proprio
anelito fuori tempo alla classificazione.
Un tentativo, però, destinato a fallire, e che sembra suggerire che
sotto la spinta omogeneizzante della modernità tutte le famiglie infelici, in fondo, sono infelici allo stesso modo.
Ques
IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA
139
Anderson B., (2006), Imagined Communities: Reflections on the Origin
and Spread of Nationalism, New York, Verso.
sto
e
Qu
Bibliografia
E-
ok
bo
Bachtin M., (1988), Il romanzo di educazione e il suo significato nella
storia del realismo, in M. Bachtin, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi.
rtie
pa
ap
Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare:
realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in
«Allegoria», 71/72.
ne
Castle G., (2006), Reading the Modernist Bildungsroman, Gainesville,
University Press of Florida.
lar
ai
De Roberto F., (2011), I Viceré, Milano, Feltrinelli.
uo
iam
Duncan D., (1993), Lifting the Veil: Metaphors of Exclusion in Il Gattopardo, in «Forum for modern language studies», 29, 4.
9g
io8
Ercolino S., (2014), The Novel-Essay: 1884-1947, New York, Palgrave
Macmillan.
il.c
ma
Graham S. (a cura di), (2019), A History of the Bildungsroman,
Cambridge, Cambridge University Press.
om
Moretti F., (1994), Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a
Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi.
28
12
20
Moretti F., (1997), Atlante del romanzo europeo, 1800-1900, Torino,
Einaudi.
Moretti F., (1999), Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi.
09
22
-1
Pirandello L., (2008), I vecchi e i giovani, Milano, Garzanti.
08
3-
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere,
in «Comparatistica», 13.
-8
09
Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New
York, Peter Lang.
6jd
j7
h9
rd
3-
42
Simmel G., (1990), The Philosophy of Money, New York, Routledge.
140
LORENZO MECOZZI
Spinazzola V., (1990), Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti.
Tomasi di Lampedusa G., (2013), Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli.
Verga G., (1995), I Malavoglia, Torino, Einaudi.
Welge J., (2015), Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical
Change in the Modern Novel, Baltimora, Johns Hopkins University Press.
o
m
c
ail.
io
g
89
ia
o
mu
e
a
n
rtie
k
Qu
to
es
E
o
-bo
p
ap
lar
i
a
e
Qu
I Buddenbrook nelle terre
dei Viceré. Sul romanzo di famiglia
a partire da Paolo il caldo
sto
E-b
Luca Danti
pp
ka
oo
ien
art
1. Le forme dell’incompiutezza
ea
Il 7 giugno ’53, su «Epoca lettere», Brancati annotava: «Scrivo I Castorini. Ho cominciato con un programma di felicità, e mi sembra che
stia riuscendo il mio libro più triste»1.
Doveva essere Il gallo non ha cantato ed è stato Il bell’Antonio (1949)2;
doveva essere I Castorini ed è stato Paolo il caldo (1955). Mentre il primo cambio di titolo fu suggerito da Longanesi, il secondo, Brancati
sembra l’abbia deciso da solo, quasi a voler rendere omogeneo l’ultimo atto della «trilogia del gallismo»3 ai primi due, Don Giovanni in
Sicilia (1941) e il citato Bell’Antonio, entrambi intitolati al personaggio
principale. In realtà, Paolo il caldo, pubblicato incompiuto e postumo,
non avrebbe dovuto concludere nulla, anzi avrebbe dovuto inaugurare un ciclo, dalla fisionomia quanto meno composita, dedicato ai
Siciliani. Composita perché, oltre al romanzo che conosciamo, dove-
il.c
ma
9g
io8
uo
iam
ilar
om
20
23
-12
09
28
12
1. V. Brancati, Diario romano, in Idem, Opere 1947-1954, L. Sciascia (a cura di), Milano,
Bompiani, 1992, p. 611. La lezione del Diario romano – «Scrivo Castorini» ‒ va emendata
– «Scrivo I Castorini» ‒ sulla base dell’articolo originale, cfr. R.M. Monastra, Al di là del
gallismo: temi e forme in Paolo il caldo, in Eadem, L’isola e l’immaginario. Sicilie e siciliani del
Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, p. 199, nota 17. Si veda anche M. Schilirò,
Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell’opera di Vitaliano Brancati, Napoli, Liguori,
2001, p. 210.
2. Cfr. R.M. Monastra, Il romanzo come «cronaca»: a proposito del Bell’Antonio, in Eadem,
L’isola e l’immaginario, cit., p. 189.
3. Cfr. P.M. Sipala, Vitaliano Brancati. Introduzione e guida allo studio dell’opera brancatiana, Firenze, Le Monnier, 1978, pp. 67-81.
-08
09
23
-84
LUCA DANTI
va comprendere, secondo il progetto descritto a Bompiani, i ricordi
dell’adolescenza dell’autore, la «storia di alcuni egoisti» e «la Fine di
un dongiovanni»4.
Il passaggio dal primo titolo a quello definitivo illustra la tensione
che informa l’opera: quella tra “i Castorini”, cioè i retaggi familiari, e
Paolo, cioè il singolo che da quei retaggi cerca disperatamente di affrancarsi. Il tentativo naufragherà nella nevrosi e tale scacco dell’affrancamento dalla famiglia fa di Paolo il caldo, almeno nelle premesse,
un Familienroman, giusta la definizione di Freud5. L’ultimo romanzo
di Brancati ha un indiscusso protagonista e il titolo prescelto dà conto
di questo elemento, ma quello scartato testimonia di un originario romanzo di famiglia che sopravvive all’interno del testo licenziato, ancorché mancante di due capitoli e di una revisione complessiva.
La storia dei Castorini si “riduce” alla storia di Paolo e la presenza
di un protagonista eponimo attenua la coralità dell’opera, anche per
il fatto che tale protagonista è “centrifugo” rispetto alla famiglia. Nel
Family novel, come scrive Polacco, «allo spazio chiuso del mondo familiare non c’è scampo», «fuori [dal “mondo familiare”] non c’è storia,
o per lo meno non c’è romanzo»6: delle peregrinazioni di Raimondo
e del Grand Tour di Consalvo nei Viceré (1894), così come dei “viaggi
d’affari” di Christian nei Buddenbrook (1901), non si sa niente e, in
ogni caso, non sono mai raccontati “in presa diretta”, ma attraverso
le lettere spedite a casa o i ricordi dei personaggi. La permanenza di
Paolo a Roma, che esclude dal racconto le vicende dei Castorini a Catania, è al centro dei primi tre capitoli della seconda parte e degli unici
due capitoli della terza, e si configura come la riedizione del viaggio
Que
142
sto
E-b
ook
app
arti
ene
a ila
riam
uoio
89
gm
ail.c
om
4. La lettera del 2 agosto ’52 si legge in G. D’Ina, G. Zaccaria (a cura di), Caro Bompiani.
Lettere con l’editore, Milano, Bompiani, 1988, p. 361. Cfr. M. Schilirò, Narciso in Sicilia, cit.,
pp. 4-5.
5. «L’emancipazione dall’autorità dei genitori dell’individuo che cresce è uno degli esiti
più necessari, ma anche più dolorosi, dello sviluppo. […] Vi è una sorta di nevrotici la cui
condizione è chiaramente determinata dal fatto di essere falliti in questo compito», S. Freud,
Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in in C.L. Musatti (a cura di), Opere. 1905-1908. Il
motto di spirito e altri scritti, vol. V, 1972, p. 471.
6. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13,
2005, p. 114.
201
228
0
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
143
del provinciale nella metropoli, topos indiscusso della narrativa di formazione7.
Una spiccata mobilità del punto di vista si impone là dove l’Ur-Paolo
il caldo ha resistito, ovvero durante il pranzo in famiglia, nel colloquio
tra Paolo e il padre Michele, nell’agonia di Michele e nel ritorno di Paolo da Roma a Catania per la malattia della madre. Nella prima parte
– dal secondo al quinto capitolo – e nel quarto capitolo della seconda
parte, i vari componenti della famiglia occupano la scena e prendono la
parola subissando Paolo, confermando il nesso, evidenziato da Baldini,
tra romanzo di famiglia e «narrazione multiprospettica»8.
Paolo il caldo, però, non è solo un romanzo: il primo capitolo della
prima parte è un’introduzione che, nella forma della pagina di diario9, avrebbe dovuto anticipare il récit d’enfance destinato al secondo
volume dei Siciliani; inoltre, Brancati dà corpo in Paolo a «qualche
[sua] vergognosa immaginazione»10, rendendo il romanzo lo «sfogo
per liberare i mostri dell’inconscio, ma anche, proprio per la riflessione che lo contraddistingue, la cura»11. L’introduzione è legata al
resto della narrazione, poiché essa presenta alcuni dei motivi, volendo Leitmotiv12, sviluppati nel romanzo: il dibattito sull’engagement, la
degenerazione della sensualità in lussuria, l’apprensione e l’ossessione
per la morte.
Anche il romanzo “vero e proprio” non è ascrivibile a un unico sottogenere; ha osservato Monastra: «Irraggiando verso le “confessione”
e la saga familiare, il saggio e la forma negativa del romanzo di forma-
7. Cfr. F. Moretti, Atlante del romanzo europeo 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, pp. 68-74.
8. A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 26, 70/71, 2016, p. 51.
9. Si tratta della rielaborazione di una lettera del 23 giugno ’52 di Brancati alla moglie,
utile per datare l’inizio della gestazione del romanzo, cfr. V. Brancati, A. Proclemer, Lettere
da un matrimonio, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 190-191.
10. V. Brancati, Paolo il caldo, A. Di Grado (a cura di), Milano, Mondadori, 2001, p. 22.
Nelle prossime citazioni, mi limiterò a indicare a testo il numero di pagina tra parentesi.
11. F. Spera, Vitaliano Brancati, Milano, Mursia, 1981, p. 177.
12. Cfr. A. Guarnieri Corazzol, Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il caso Wagner,
Bologna, il Mulino, 1988, pp. 321-329.
e
Qu
-1
09
ea
ilar
iam
uo
io8
9g
ma
il.c
om
zione, Paolo il caldo […] ci appare un’ardimentosa summa»13. La componente saggistica è soprattutto riflessione sull’arte e la letteratura: Paolo
è anche uno scrittore mancato e Paolo il caldo è anche un Künstlerroman
mancato, ovvero l’aborto di una vocazione letteraria.
Non è da escludere che questo profilo ibrido sia da attribuire all’intenzione primigenia di scrivere I Castorini, dal momento che cifra formale del romanzo di famiglia è proprio la «capacità di mescolare generi
e modalità narrative diverse», di essere «un romanzo-saggio, un saggio
sulla forma-romanzo»14. Un siffatto statuto, riconoscibile e fluido, agevola fenomeni di ibridismo, come accade nelle memorie familiari15; la
possibilità di contaminazione tra scritture dell’Io e romanzo di famiglia
fu intuita dallo stesso Brancati, che ne ha lasciato traccia nel primo capitolo di Paolo il caldo.
20
12
28
LUCA DANTI
ien
2. La «famiglia marcia»16 dei Buddenbrook
oE
-bo
ok
a
pp
art
I precedenti riferimenti ai Viceré e ai Buddenbrook sono giustificati
alla luce del rinnovato interesse di Brancati per De Roberto nel secondo dopoguerra17, e dalla lettura dell’opera di esordio di Mann all’inizio
della composizione di Paolo il caldo18.
L’influenza dei Buddenbrook è ammessa da Brancati, il quale, avendo aperto il cantiere della sua ultima opera all’inizio dell’estate del
est
13. R.M. Monastra, Al di là del gallismo, cit., p. 203.
14. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., pp. 115-116.
15. Cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in
Eadem, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia / Le roman de famille aujourd’hui, in
«Enthymema», 20, 2017, pp. 7-17.
16. T. Mann, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, Milano, Mondadori, 2016, p. 699.
17. Quando Brancati, nell’incipit dell’articolo su «Epoca lettere», definisce I Castorini «il
mio libro più triste» riecheggia la nota lettera di De Roberto a Di Giorgi del 7 marzo 1891,
sui Viceré: «È un libro così triste che, dopo avere scritto metà del primo capitolo, la paura mi
ha arrestato», cit. in A. Navarria, Federico De Roberto. La vita e l’opera, Catania, Giannotta,
1974, p. 264.
18. La manifestazione della stima intellettuale per il Mann degli scritti politici è in sostanza coeva alla rivalutazione di De Roberto, come dimostra un pezzo inserito nel Diario
romano e datato marzo 1947, cfr. V. Brancati, Diario romano, cit., pp. 361-363. A tal proposito
si veda F. Spera, op. cit., pp. 159-160, 178, nota 10.
Qu
144
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
’52, lesse quello che definì «il più bel romanzo di Mann», entro la fine
di settembre dello stesso anno19. Il 29 settembre Brancati scrive alla
moglie:
Ieri, finendo di leggere le mille pagine dei Buddenbrook […] ho avuto un dispiacere. Non so se ti ricordi che di un mio personaggio ho scritto che si liberava della sua sensualità prima quasi di averla avvertita ecc. ecc. con molte
altre minuzie. Ebbene, proprio sulla fine dei Buddenbrook (poteva davvero
risparmiarselo), Mann aggiunge su un personaggio, che aveva già abbondantemente descritto, la notazione che nella vita non aveva mai molto sofferto
perché non aveva tenuto nulla dentro ecc.
Pazienza! I grandi sono fatti per disturbare i piccoli20.
Il personaggio di Brancati, cui si allude, è Marietta, la madre
di Paolo: «da questi gesti ella liquidava fulmineamente tutti i suoi
possibili peccati […]. Ella si liberava delle passioni prima di averle
sentite» (p. 50). Per quanto riguarda la cronologia di composizione,
dalla lettera ricaviamo che, alla fine di settembre, Brancati aveva già
scritto almeno l’inizio del terzo capitolo della prima parte, che lo
aveva condiviso con la moglie e che stesura del nuovo romanzo e lettura di Mann hanno proceduto per un periodo in parallelo. Il titolo
I Castorini, in fondo, ricalca I Buddenbrook21, e anche quella narrata
da Brancati è la storia della «decadenza di una famiglia». Non a caso
quando lo scrittore di Lubecca fa la sua comparsa come personaggio
nel salotto letterario di casa Ippolito22, assistiamo al trionfo di un
critico supponente: «fece ritorno il professor Della Rovere stupidamente felice perché Mann aveva ammesso di essere un decadente»
(p. 167). È chiaro che ad essere «stupidamente felice» è la reazione
Quest
o
19. V. Brancati, A. Proclemer, op. cit., pp. 198, 199.
20. Ibid., p. 199.
21. Cfr. R.M. Monastra, Al di là del gallismo, cit., p. 199, nota 17.
22. Thomas Mann soggiornò a Roma nell’aprile del ’53 anche per ricevere il premio “Antonio Feltrinelli” all’Accademia dei Lincei, cfr. I.B. Jonas, Thomas Mann and Italy (1969), Alabama, The University of Alabama Press, 1979, pp. 6-8. Fra gli autori italiani che risentirono
dell’influenza di Mann, Jonas non nomina Brancati, cfr. ibid., pp. 115-130.
145
E-bo
LUCA DANTI
del professore, non il tono né la sostanza dell’autodefinizione dello
scrittore23.
Marietta viene affiancata a Tony Buddenbrook24, tuttavia la sensualità debordante e sempre sublimata di Marietta ha poco a che fare
con gli sfoghi, dovuti all’orgoglio mortificato, di Tony; quella tra i due
personaggi, accomunati da una discreta dose di civetteria ed edonismo
spicciolo, è una somiglianza che non giunge in profondità.
Dietro la facciata del paradosso – «I grandi sono fatti per disturbare
i piccoli» –, Brancati riconosce che la lettura di Mann lo ha condizionato fino all’imitazione involontaria; è possibile pertanto che il «braccialetto tintinnante sul polso della figlia di un terriero» (p. 7), che compare
nel primo capitolo di Paolo il caldo, sia il monile di Elizabeth, la mamma
di Tony, discendente di una famiglia dalle «tendenze feudali»: «tendeva
verso il marito la bella mano al cui polso tintinnava piano anche ora un
braccialetto d’oro»25.
Il confronto tra Tony e la mamma di Paolo offre un’altra indicazione indiretta, dal momento che il terzo capitolo della prima parte, quello del pranzo in casa Castorini, si rifà alla prima parte dei
Buddenbrook, dove si narra il pranzo in casa del vecchio Johann II. Il
pranzo in famiglia è una delle costanti tematiche del Family novel26 e
delle memorie familiari27, senza contare che è in questa sequenza che
si accenna al “lessico familiare” dei Castorini28, essenzialmente legato
al personaggio di Marietta: «era ormai nel vocabolario della famiglia,
era il chiodo di Venezia, in una frase indissolubile come una parola
sola» (p. 51).
23. Sull’intero capitolo si veda W. Sahlfeld, Già un siciliano complicato… La sfera pubblica
letteraria nel romanzo italiano del primo Novecento (Pirandello, Rosso di San Secondo, Brancati,
Patti), Bern, Lang, 2001, pp. 271-287.
24. Cfr. T. Mann, op. cit., p. 631.
25. Ibid., pp. 54, 56. Il Leitmotiv del braccialetto che tintinna sempre più piano, man a
mano che Elizabeth invecchia, ritorna alle pp. 7, 91, 169, 496.
26. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., pp. 117-118.
27. Cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo,
cit., pp. 11-15.
28. Cfr. ibid., p. 11.
Qu
es
146
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
147
Il pranzo con ospiti dei Buddenbrook è amplificato fino al grottesco
in quello di Paolo il caldo: in casa di Johann II si mangiano «cibi buoni
e pesanti» accompagnati da «vini altrettanto buoni e pesanti»29, ma dai
Castorini all’iperbole gastronomica delle portate si associa l’esagerazione dell’appetito – non solo alimentare –, cosicché l’inappetenza (di
Michele) o la sazietà (del marchese Carandola) risultano inconcepibili,
sulla falsariga della novella pirandelliana Un invito a tavola (1902). Anche per quanto riguarda l’intrattenimento postprandiale, si passa dalla
«piccola melodia, limpida, aggraziata» del flauto di Johann II30, relitto
dell’eleganza rococò, alla canzone d’operetta, accompagnata alla chitarra dal nonno di Paolo: «Il canto divenne ancora una volta un urlo
generale» (p. 66).
La tavola è il «luogo del conflitto tra le generazioni, fisiologico e
necessario allo sviluppo della personalità dei figli»31: nei Buddenbrook,
tutt’al più si può parlare di una divergenza di opinioni tra Johann II, che
difende gli studi umanistici, e Johann III, che approva l’impulso dato
agli studi tecnici dalla monarchia di Luigi Filippo; in Paolo il caldo, invece, l’attualità politica, ovvero il “pericolo comunista” alla vigilia della
marcia su Roma, offre lo spunto per un’accesa discussione tra il vecchio
barone Paolo, collerico alfiere dei privilegi aristocratici, e il figlio Michele, mansueto, razionale e inesorabile contraddittore delle certezze
paterne.
Nel corso del pranzo dai Buddenbrook, il secondogenito di Johann
III ed Elizabeth, Christian, vittima di una piccola indigestione, affermartiene
ppa
a
che
preconizza
ripetutamente di accusare «una nausea dannata»32, il o
k
o
-b
l’ipocondria che lo consumerà una volta
Uomo d’affari inetto,
sto E
ueadulto.
Q
amante della vita agiata e delle attricette, Christian è il personaggio che
più ha influenzato Brancati, poiché in esso la rovina fisica, psichica e
morale si fa esplicita. Di fronte ai primi comportamenti da viveur di
Christian, il padre reagisce prendendosela con la famiglia della moglie
29. T. Mann, op. cit., p. 25.
30. Ibid., p. 32.
31. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, cit., p. 14.
32. T. Mann, op. cit., p. 30.
a ila
33.
34.
Ibid., p. 77.
Ibid., p. 661.
st
ue
Q
e la passione per i lussi: «Sarà felice [il padre di Elizabeth] che il suo
sangue sconsiderato e le sue empie inclinazioni non sopravvivano solo
in Justus [fratello di Elizabeth], il… suitier, ma a quanto pare anche in
uno dei suoi nipoti… […] Non se ne rende conto, no; ma l’inclinazione
viene fuori! L’inclinazione è quella!…»33.
Il motivo del sangue tarato che trasmette comportamenti devianti
e (auto)distruttivi, è una delle ossessioni su cui è costruito Paolo il caldo
che, sotto questo aspetto, come vedremo, si rivela debitore non tanto
dei Buddenbrook quanto dei Viceré.
Dopo il ricovero per reumatismi, Christian si fissa sui processi del
proprio corpo: «si passava la mano sul fianco sinistro, sembrava che
rivolgesse l’orecchio dentro di sé, dove succedeva qualcosa di strano»
(p. 424); l’auscultazione ossessiva del fisico caratterizzerà anche lo zio
di Paolo, Edmondo, nel corso di una vecchiaia ossessionata dal pensiero
della morte: «Non ero più in grado di percepire il piccolo sventolio di
una veste che passava giù in strada, ma sentii ben altro. […] Sentii l’interno del mio corpo» (p. 211).
Il rovello di Christian ha un epilogo prevedibile: «Idee fisse e ossessioni inquietanti si erano ripetute sempre più spesso e per iniziativa della
moglie e di un medico era stato ricoverato in una casa di cura»34. Anche
i Castorini – il vecchio barone, Edmondo e Luigi, il fratello di Paolo –,
dopo una vita consacrata ai piaceri della carne, quando la carne comincia a imputridire, sono attanagliati da una paura incontrollabile che li
conduce all’ebetudine. A questa condanna all’alienazione mentale cerca
di sottrarsi il protagonista: «Paolo promise a se stesso di estirpare quella
smorfia [vista sul volto dello zio] dalle proprie labbra, sperando con ciò
di bruciare alla radice una sua possibile incipiente idiozia» (p. 209).
In un altro appunto del ’53, Brancati scrive: «Riletto alcuni racconti
di Thomas Mann. Mirabile e pomposa arte funeraria. Il periodo è una
tomba trasparente attraverso la quale vediamo scolorarsi e decomporsi
la potenza terrena, la bellezza, la ricchezza ecc. L’opulenza, il barocco
o
LUCA DANTI
148
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
e il diabolico, connaturali al gusto sepolcrale, trionfano già nel primo
romanzo del venticinquenne Mann»35. Potrebbero essere le parole di
un critico su Paolo il caldo36: Brancati, non solo si è ispirato al primo
romanzo di Mann, ma, affiancando la lettura alla composizione, ha proiettato sull’opera del «venticinquenne Mann» alcuni dei tratti di quella
che sarebbe stata la sua ultima fatica.
Nei Buddenbrook, con la malattia di Antoinette, la moglie di Johann II,
la morte entra nella casa come «qualcosa di nuovo, di estraneo, di straordinario»37, come se la sua presenza fino a quel momento fosse stata volutamente ignorata. In Paolo il caldo, leggiamo qualcosa di simile quando il protagonista si trova di fronte il telegramma che gli annuncia che
la madre è malata terminale: «La morte di nuovo a casa sua, dopo tanti
anni!» (p. 200): dopo il suicidio di Michele, il pensiero della morte era stato
rimosso dai personaggi. In realtà, il tema ferale accompagna tutta la narrazione ‒ come la serie delle agonie e dei decessi in casa Buddenbrook a partire dalla scomparsa di Antoinette – e s’insinua nelle pagine dove dovrebbe trionfare la pienezza vitale: nel secondo capitolo, nel bel mezzo di una
gara di masturbazione fra adolescenti, si colloca la prolessi sul trapasso per
infarto di uno dei partecipanti; nel terzo capitolo, durante il banchetto, di
un pesce della frittura si dice che giace nel piatto «col silenzio dei cadaveri
che hanno trascorso in silenzio anche la vita» (p. 62). Dopo la descrizione
della triglia, il taboo della morte viene infranto per due volte dal cavalier
Mazzaglia, il quale è redarguito da Marietta: «Lei ha sempre codesta brutta parola sulle labbra […] come tutti i longevi, del resto» (p. 65). Il vecchio
barone, dal canto suo, spera di morire all’improvviso, magari «a letto con
una donna» (p. 66), invece finirà per rinchiudersi in soffitta «per farsi dimenticare dalla morte» (p. 227) e di lui non si saprà più nulla.
o
es
t
u
Q
35. V. Brancati, Diario romano, cit., p. 612.
36. Ciò vale, ad esempio, per il «barocco»: il modo di ragionare di Paolo viene definito
«barocco», la sua stessa mente appare «barocca» (p. 275). Senza contare che sul barocchismo
dello stile, Brancati riflette a proposito degli scritti di Borgese, nel pezzo, datato settembre
1954, che conclude il Diario romano, cfr. V. Brancati, Diario romano, cit., p. 632. Sul «diabolico» in Paolo il caldo, mi permetto di rinviare al mio Le migliori gioventù. I periferici e la
sessualità nella narrativa italiana del secondo dopoguerra, Firenze, Cesati, 2018, pp. 158-161.
37. T. Mann, op. cit., p. 64.
149
E-
k
bo
o
a
ap
p
150
LUCA DANTI
Il terrore della morte diventa fobia in Edmondo, il quale, avendo
trascorso la vita cercando unicamente di soddisfare le proprie voglie,
crede di non aver vissuto a sufficienza: «I pensieri sono con me, li
devo ancora sviluppare… E così i sentimenti, e i desideri: li devo ancora appagare! Io non sono affatto sazio di vita, comincio appena ora
ad assaporarla!» (p. 212). In Edmondo vengono ripresi alcuni tratti di
Elizabeth, la quale, anziana e ammalata di polmonite, amava ancora
muo
e a ilaria
mangiare
bene,E-bo
vestirsiok
lussuosamente,
ostentare
il proprio
bonio89
ton,
appartien
Questo
compiacersi della carriera del figlio Thomas: «No, l’anziana vedova del
console sentiva che in realtà, nonostante la vita cristiana degli ultimi
anni, non era pronta a morire»38. L’attaccamento di Elizabeth all’esistenza si rivela nella «sconcertante espressione di invidia» con la quale
osserva i familiari sani al suo capezzale39; in Edmondo, il panico dovuto
a un male probabile ma non reale, si combina con un esasperato egoismo e viene esternato in parole deliranti: «Il malato sono io, qui! Il vero
malato, qui, sono io! Hai capito?… Gli altri stanno tutti bene, anche se
hanno un tumore, perché un tumore è come una sveglia che ci si legge
sopra quando suonerà, mentre io, con la mia stanchezza, posso morire
ora, subito, mentre ti parlo» (p. 208).
3. La «razza putrida e schifosa»40 degli Uzeda
Nel 1929 Brancati aveva discusso una tesi su De Roberto, nella
quale riconosceva il primato della produzione novellistica su quella
del romanziere; circa vent’anni dopo, questa gerarchia viene ripensata, come testimoniano due articoli spesso citati: Un letterato d’altri
tempi e Scrupoli d’altri tempi, pubblicati sul «Tempo» il 18 dicembre
1947 e il 2 agosto 194841. In questi articoli, non solo Brancati prende
le distanze dal sé giovane che esultava dei pretesi fallimenti del la-
38. Ibid., p. 529.
39. Ibid., p. 533.
40. F. De Roberto, I Viceré, L. Lunari (a cura di), Milano, Feltrinelli, 2018, p. 287.
41. Un letterato d’altri tempi era già apparso, col titolo La caramella di De Roberto, su
«Oggi» il 20 luglio 1940.
gmail.
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
voro certosino di De Roberto nella narrativa lunga42, ma ricorda De
Roberto come «lo scrittore dei Viceré»43, tralasciando le altre opere44.
Sull’influenza dei Viceré e dell’Imperio (1929) sul Bell’Antonio e su Paolo il caldo ‒ scandito in tre parti che avrebbero avuto un numero uguale di capitoli come I Viceré ‒, ha scritto pagine fondamentali Perrone,
la quale evidenzia, fra l’altro, che la saga degli Uzeda è stata determinante nella scelta dei personaggi dell’ultimo romanzo di Brancati,
ossia nel propiziare «il passaggio dai piccolo-borghesi catanesi agli
aristocratici Castorini, dagli insignificanti uomini comuni agli eccessivi e sanguigni parenti di Paolo e poi all’eterogenea folla […] degli
ambienti romani»45.
Riallacciamoci all’ossessione mortuaria di Edmondo, che provoca
la declinazione in chiave esorcizzante di un altro topos del romanzo di
famiglia, quello della galleria dei ritratti46: «Dopo aver attraversato due
grandi stanze, affollate di immagini sacre e di morti, davanti alle quali gli occhi di Edmondo gonfi e lucidi come quelli di un imbavagliato,
esprimevano la sofferenza di non poter lanciare i soliti baci propiziatori, zio e nipote giunsero nello studio» (p. 205). Il topos è accennato
en passant, non serve né a celebrare il passato, né a rappresentare la
decadenza della stirpe ‒ come invece accade nei Viceré47 ‒, ma anticipa
l’ossessione a sfondo religioso di Maria, la sorella di Paolo, che, immobilizzata dal suo quintale e mezzo, vive in una stanza rivestita di immaginette sacre. Anche Luigi, il fratello di Paolo, quasi prigioniero del
42. Cfr. V. Brancati, Un letterato d’altri tempi, in Idem, Il borghese e l’immensità. Scritti
1930-1954, S. De Feo, G.A. Cibotto (a cura di), Milano, Bompiani, 1973, p. 224.
43. V. Brancati, Scrupoli d’altri tempi, in Idem, Il borghese e l’immensità, cit., p. 269.
44. Nella tesi, invece, si leggeva: «Un primo grande malinteso balza dalla frase corrente,
colla quale De Roberto è chiamato “l’autore dei Viceré”, che dovrebbe essere sostituita dall’altra, “l’autore dei Processi verbali”», V. Brancati, De Roberto e dintorni, R. Verdirame (a cura di),
Catania, Tringale, 1988, pp. 13-14.
45. D. Perrone, Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i ʻpiaceriʼ della scrittura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2003, p. 158. Su De Roberto negli ultimi due romanzi di Brancati, cfr.
ibid., pp. 131-132, 154-159.
46. Per altri accenni ai ritratti dei Castorini, cfr. V. Brancati, Paolo il caldo, cit., pp. 30, 52.
47. Cfr. F. De Roberto, I Viceré, cit., pp. 126-127.
151
p
Questo E-book a
ne a i
o E-bo
suo palazzotto fatiscente, consuma i giorni identici l’uno all’altro in una
routine da ebete. Il ritorno a Catania serve a Paolo per specchiarsi nel
suo futuro, vale da monito per cambiare vita: «Io rischio di diventare
un idiota, e non voglio diventare un idiota!» (p. 223). Non dissimili erano stati i timori di Consalvo, alla vigilia della sua ascesa politica, dopo
la morte prematura del padre: «Pensava impaurito a quel male terribile
che un giorno avrebbe potuto rodere, distruggere il suo proprio corpo
in quel momento pieno di vita»48; un male che poteva essere accompagnato dalla demenza, l’«oscuro pericolo che pesava su tutta la gente
della sua razza»49.
Se Paolo pensa alla conversione per sottrarsi al destino della race,
Consalvo sa di assomigliare agli Uzeda per quanto riguarda l’arrogante
spirito di casta, ma sa di essere diverso da loro perché capace di disporre lucidamente della propria versatile intelligenza; ciò gli consente,
dopo il trionfo elettorale, di superare i comportamenti misofobici, senza smarrirsi nella monomania: «si stringeva addosso a tutte le persone,
guarito interamente, come per incanto, dalla manìa dell’isolamento e
dei contagi»50.
Gli altri Uzeda sono tutti dei fissati: la superstizione del principe
Giacomo, la stravaganza di Ferdinando il Babbeo51, il «misticismo isterico» di Teresa52, prefigurano le derive mentali di Edmondo, Luigi e
Maria. Esiste, dunque, una seconda matrice letteraria della pazzia che
incombe sui Castorini: essa non discende solo dal côté più “aristocratico” di casa Buddenbrook e, in particolare, da Christian, ma dalla stirpe
degli Uzeda, concittadina della famiglia di Paolo53.
ok ap
partie
LUCA DANTI
Quest
152
48. Ibid., p. 608.
49. Ibid.
50. Ibid., p. 656.
51. Ferdinando attraversa anche una breve parentesi ipocondriaca, di ascolto ossessivo
della propria fisiologia: «egli si teneva l’altra [mano] sul cuore per verificarne il numero dei
battiti, o si palpava dappertutto con lo spavento di scoprire i tumori, gli incordamenti, le
infiammazioni di cui parlavano i medici», ibid., p. 370.
52. Ibid., p. 638.
53. Cfr. A. Di Grado, Il viaggiatore in fondo alla notte era forse Dio?, introd. a Brancati, Paolo il caldo, cit., p. X. Ciò non significa escludere altri modelli letterari: Schilirò ha dimostrato
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
Nella casa dei Viceré, nota Polacco, «la pazzia […] non ha nulla a che
vedere con la patologia: è, in sintesi, desiderio sfrenato e prepotente di
dominare e di godere»; e più avanti: «Marginali sono le spie a prima vista più appariscenti e, in primo luogo, le continue allusioni alla “razza”,
alla teoria dell’ereditarietà e alla “pazzia” considerata come una degenerazione di famiglia»54. Se da una parte bisogna concordare sul fatto
che spesso gli Uzeda risultano pazzi, l’uno agli occhi dell’altro, se con
ostinazione cercano di far valere una consuetudine vecchia di secoli,
oppure, se con identica cocciutaggine, violano una tradizione dell’Ancien regime55, dall’altra non si può trascurare il fatto che alcuni membri
della famiglia finiscono come alienati mentali ‒ Ferdinando, fra’ Carmelo, Eugenio, la Badessa, lo stesso principe Giacomo… per tacere del
ramo dei Radalì ‒ e che, proprio le «spie […] più appariscenti», possano
aver influenzato la ricezione brancatiana.
Il nesso tra sangue malato e trasmissione ereditaria di comportamenti maniacali che sfociano nella follia, è derobertiano56 e di ma-
ea
n
rtie
a
pp
a
ok
-bo
oE
est
Qu
che il ritorno in famiglia di Paolo è esemplato anche sul ritorno a Guardiagrele di Giorgio
nel Trionfo della morte (1894) di d’Annunzio, un altro soggiorno nella città natale che diventa
confronto con «le tare di una famiglia che vive di una sensualità incontrollata», M. Schilirò,
L’“infinito vaniloquio”. La satira dannunziana in Singolare avventura di Francesco Maria di
Brancati, in «Siculorum Gymnasium», 48, 1/2, 1995, p. 493.
54. M. Polacco, I Viceré (1894), in F. Bertoni, D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del
romanzo italiano (1881-1923), Bologna, Pendragon, 1999, pp. 164, 168 nota 6.
55. Si veda, ad esempio, ciò che osserva G. Pedullà a proposito di donna Teresa Uzeda
e di don Blasco, cfr. G. Pedullà, Uzeda! La politica spiegata da Federico De Roberto, introd. a
Federico De Roberto, L’imperio, Milano, Garzanti, 2019, pp. 55, 96-97.
56. Come risulta dal confronto delle seguenti occorrenze: nei Viceré, a proposito della bellezza di Raimondo, si accenna alla «reviviscenza delle vecchie cellule del nobile sangue», in Paolo il
caldo, Edmondo dice al nipote che «su tutto il [suo] sangue galleggiano cellule morte» (p. 211); nei
Viceré, durante l’intervento del principe Giacomo, «una goccia del putrido sangue [cade] sulla mano
scalfita dell’assistente», in Paolo il caldo, Michele morente ribadisce a Paolo che «il [suo] sangue è
stato scelto goccia a goccia nella parte infetta del suo [del vecchio barone] organismo» (p. 100); nei
Viceré, nel corso dell’agonia del principe, si nota che «il sangue avvelenato incancreniva a poco a
poco tutto il suo corpo», in Paolo il caldo, a proposito della circolazione di Maria si legge: «quel
cuore che mandava […] rivoli di sangue […] ricevendolo poi di ritorno da punti lontanissimi asfissiato da veleni di ogni sorta» (p. 224). In entrambi i romanzi, poi, compaiono case chiazzate del
sangue di due suicidi: quello di Giovannino nei Viceré ‒ «nella casa macchiata dal sangue del
fratello» ‒, quello di Michele in Paolo il caldo ‒ «sulla soglia, ancora un’altra macchia» (p. 92). Le
citazioni dai Viceré sono tratte da F. De Roberto, I Viceré, cit., pp. 127, 598, 602, 616 (corsivi miei).
153
ia
ilar
il
89
154
io
uo
a
gm
iam
LUCA DANTI
e
en
ar
a il
i
trice naturalistica57, e opera
arlat riunificazione dell’albero genealogico
p
dei Rougon-Macquart,
ap«una famiglia a due rami, […] il primo votato
k
58
alla degenerazione
oo morale e il secondo alla degenerazione fisica» .
b
Nel secondo
capitolo della prima parte, secondo le convenzioni del
o Edi famiglia, abbiamo una «presentazione di “gruppo”»59
t
romanzo
s
ue tre generazioni maschili dei Castorini – il barone Paolo, lo zio
Qdelle
Edmondo, Paolo e Luigi – accomunate dalla stessa eccessiva sensualità, che si snatura in lussuria e li predispone alla pazzia. L’ingresso
di Michele, l’anello che non tiene, è ritardato al terzo capitolo: la sottomissione dantesca della ragione al talento, e cioè il deterioramento delle facoltà più elevate dell’essere umano60, salta un componente
della generazione di mezzo e si ripresenta in Paolo, anche in forza
del temperamento materno. Tuttavia il sangue malato non risparmia
nemmeno Michele, il quale resta intrappolato in una sorta di double
bind: a causa della sifilide che affliggeva il padre quando lo concepì,
Michele si vede debole, frigido e perciò gli viene precluso il godimento delle gioie razionali; d’altra parte, però, proprio la lue paterna
sembra avergli evitato la condanna alla lussuria: «Io sono come quei
portatori di microbi che non hanno la malattia che trasmettono»
(p. 72).
La via alla felicità è interdetta: la conversione di Paolo, accelerata
dalla lettura del diario del padre, che rimpiazza il libro di famiglia, non
poteva risolversi positivamente, dal momento che anche l’ultimo dei
Castorini sottostà a «un destino preconfigurato dagli avi»61.
57. Cfr. P.M. Sipala, op. cit., p. 76. Per l’influenza naturalistica legata al tema della pazzia
anche nel Bell’Antonio, cfr. M. Schilirò, Tempo del privato e tempo della storia. Il XII capitolo
del Bell’Antonio, in M. Tropea (a cura di), La Letteratura la Storia il Romanzo, Caltanissetta,
Lussografica, 1998, pp. 255-256.
58. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, p. 629.
59. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 118.
60. Cfr. S. Zarcone, La carne e la noia. La narrativa di Vitaliano Brancati, Palermo, Novecento, 1991, pp. 131-133.
61. S. Calabrese, op. cit., p. 627.
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
155
4. Le forme della decadenza
Qu
Le tre generazioni dei Castorini ‒ tre come quelle dei Viceré – agiscono in un arco di tempo che va dal 1914, con temporanei arretramenti al 1902 e al 1903, ai primi anni Cinquanta. Il tempo della storia
è caratterizzato dall’avanzamento “rapsodico” tipico del romanzo di
famiglia; infatti, in Paolo il caldo si susseguono episodi slegati (anche
brevissimi) del ’14, del ’21, del ’22, del ’35, del ’36, del ’39, del ’48, del ’50
e così via62. Nonostante siano anni cruciali per l’Italia e l’Europa, i fatti
che occupano la narrazione riguardano la quotidianità e il privato di
Paolo e dei Castorini.
Anche nelle opere di De Roberto e Mann, gli eventi storici vengono raccontati sub specie familiae e ciò comporta una rappresentazione
scorciata della storia ufficiale: si pensi all’Unità d’Italia o alla presa di
Roma come vengono narrate nei Viceré oppure ai moti del ʼ48 a Lubecca
come vengono narrati nei Buddenbrook. Questo abbassamento di tono
si radicalizza in Paolo il caldo, dove gli accenni alla Storia si rarefanno:
sono pochi e cursori i riferimenti al comunismo nell’entre deux guerres,
a Mussolini, alla Seconda Guerra Mondiale e ai bombardamenti di Catania, liquidati in neanche mezzo paragrafo. Più di metà romanzo è dedicata alla maturità di Paolo e agli anni del secondo dopoguerra, non
solo perché l’erotomania isola il protagonista dalla Storia e funziona da
filtro/distorsore di ciò che lo circonda, ma perché è l’attualità che interessa Brancati63. Anche in questo Paolo il caldo è allineato con il genere
del Family novel che «attraverso le vicende della famiglia protagonista
[…] rappresenta e giudica un’intera epoca storica» e «affronta un discorso storico anche senza parlare di fatti storici»64.
In quest’ottica, il tema della malattia altro non è se non la mise en
abyme di una necrosi che trascende i confini della singola famiglia e si
-bo
oE
est
ok
ene
arti
app
uoi
riam
a ila
m2
il.co
a
gm
o89
012
62. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 110.
63. Mi permetto di rinviare al mio Semantica della torre d’avorio nelle opere di Vitaliano
Brancati, in «Le forme e la storia», 10, 1, 2017, pp. 169-184; 181-183.
64. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 121.
280
22
9-1
LUCA DANTI
fa «dissoluzione di un mondo»65, di quella provincia siciliana che, per
quanto ambiguamente raffigurata, almeno in Don Giovanni in Sicilia,
aveva costituito l’alternativa alla metropoli attivistica e fascista: in Paolo
il caldo, «il mito prediletto da Brancati, quello di una provincia a misura
umana, […] si sfalda del tutto, e irrimediabilmente. La provincia è luogo
di sopraffazione e abbrutimento»66. La corruzione fisiologica fa tutt’uno con Catania: lì vivono e muoiono tutti i Castorini, e la tara, seguendo
le vie del sangue, perseguita chi si è allontanato.
Il legame non rescindibile tra i personaggi di Brancati e la terra dei
padri è ripreso anche da Schilirò che osserva: «gli eterni adolescenti
brancatiani possono soltanto abitare lo spazio della provincia, cioè della famiglia e della immutabilità dei destini […]. A loro non è toccato,
come ai personaggi del romanzo ottocentesco […], di perdere la loro
condizione filiale in favore dell’autonomia e del dinamismo dei giovani»67, nonostante l’esperienza della metropoli. Ritorniamo alle radici
del Familienroman, alla mancata «emancipazione dall’autorità dei genitori», che è contemporaneamente fra i presupposti delle anti-educazioni à la manière de Flaubert68, del Bildungsroman fallimentare, dal momento che il romanzo di famiglia funziona da “negativo” del romanzo
di formazione.
La grande città è uno spazio mitizzato dai provinciali, ma non è
mai rappresentata da Brancati come un’opzione positiva rispetto alla
65. Ibid., p. 122.
66. R.M. Monastra, Immagini di provincia nella narrativa di Brancati, in Eadem, L’isola e
l’immaginario, cit., p. 179. Sulle trasformazioni e le ambivalenze della provincia brancatiana,
si può vedere anche il mio Le migliori gioventù, cit., pp. 164-167.
67. M. Schilirò, Narciso in Sicilia, cit., p. 151.
68. Mentre sta scrivendo con grande fatica Paolo il caldo, Brancati legge anche L’Éducation
sentimentale (1869) e la lettura acuisce la crisi creativa: «Il male è che al mondo esistano genî
come Flaubert», V. Brancati, A. Proclemer, op. cit., pp. 195-196. Sulla difficile gestazione di
Paolo il caldo si vedano anche le lettere del 4 e 11 ottobre ’52 e del 19 giugno ’53, cfr. ibid.,
pp. 200-201, 205, 209. Nella lettera del 4 ottobre, inoltre, si trova un’interessante conferma
di ciò che si è osservato sulla provincia siciliana in Brancati: «Al tempo del fascismo, vedevo
questa terra come la patria del buonsenso e della ragione. […] Ma oggi le cose sono cambiate,
e al confronto di una vera civiltà, la mia povera Isola diventa sede di una calma e leggermente
paurosa follia senile», ibid., p. 201. La «follia senile» di cui sono vittime i Castorini.
Qu
es
to
E-
bo
ok
ap
pa
rtie
ne
ai
lar
iam
156
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
provincia; meno che mai in Paolo il caldo, dove la capitale si riduce al
demi-monde intellettualoide e vizioso di casa Ippolito e ai baraccati
delle borgate, entrambi “riserve di caccia” della lussuria del baroncino
Paolo69. È più corretto sostenere che, nell’ultimo romanzo di Brancati,
l’ombra della grande città si allunga sulla provincia e la omologa alla
propria corruzione, delineando un nichilistico livellamento, portato
del pessimismo metastorico derobertiano70.
In Paolo il caldo l’interferenza tra sottogeneri letterari ‒ romanzo di
famiglia e romanzo di formazione ‒ è anche interferenza tra gli spazi
caratterizzanti quei sottogeneri letterari ‒ la provincia e la grande città: ne risulta perciò che, assimilandosi alla metropoli, lo spazio della
comunità viene sacrificato allo spazio dell’individualismo; al contempo, però, il retaggio della provincia/famiglia, alla stregua di un cordone ombelicale mal reciso, impedisce a Paolo la crescita personale nella
grande città, e così il Bildungsroman viene sacrificato alla logica della
coazione a ripetere fino al declino tipica del family novel.
Questo E-book
69. La lussuria interclassista di Paolo permette un ultimo parallelismo tra il baroncino
Castorini e Consalvo Uzeda, il quale, per bieco opportunismo, pur restando intimamente un
borbonico reazionario, «era divenuto democratico e progressista, promettendo di sedere a
sinistra, di dare perfino una mano ai socialisti», F. De Roberto, L’imperio, cit., p. 234. Anche
Paolo ammanta l’indole del prevaricatore libertino usurpando il credo progressista: «non
aveva avuto ritegno a regalarsi la qualifica di socialista [...] per questa sua inclinazione verso
le donne povere e malvestite, quasi si trattasse di solidarietà con gli umili, e non invece di
un antico morbo contratto forse dai suoi antenati nell’esercizio di un privilegio verso le loro
contadine» (p. 268).
70. Sulla lezione di Leopardi e Schopenhauer nei Viceré, cfr. M. Polacco, I Viceré, cit.,
pp. 169-174.
157
158
LUCA DANTI
Bibliografia
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in Eadem, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le
roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo moQ
udernista
est ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 26,
70/71.o E
-bo
Brancati V., (1947), Unoletterato
k a d’altri tempi, in «Tempo», 18 dicembre.
ppatempi, in «Tempo», 2 agosto.
Brancati V., (1948), Scrupoli d’altri
rtie
eV.aBrancati, Il borghese e l’immensità.
Brancati V., (1973), Un letterato d’altri tempi,nin
ila
Scritti 1930-1954, S. De Feo, G.A. Gibotto (a cura
di),r Milano, Bompiani.
iam
uoi Rizzoli.
Brancati V., Proclemer A., (1978), Lettere da un matrimonio, Milano,
o8
Brancati V., (1988), De Roberto e dintorni, R. Verdirame (a cura di), Catania,9
Tringale.
gm
Brancati V., (1992), Diario romano, in V. Brancati, Opere 1947-1954, L. Sciascia (aail.c
cura di), Milano, Bompiani.
Brancati V., (2001), Paolo il caldo, A. Di Grado (a cura di), Milano, Mondadori.
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
Danti L., (2017), Semantica della torre d’avorio nelle opere di Vitaliano Brancati, in
«Le forme e la storia», 10, 1.
Danti L., (2018), Le migliori gioventù. I periferici e la sessualità nella narrativa
italiana del secondo dopoguerra, Firenze, Cesati.
De Roberto F., (2018), I Viceré, L. Lunari (a cura di), Milano, Feltrinelli.
De Roberto F., (2019), L’imperio, G. Pedullà (a cura di), Milano, Garzanti.
Di Grado A., (2001), Il viaggiatore in fondo alla notte era forse Dio?, introduzione
a V. Brancati, Paolo il caldo, cit.
D’Ina G., Zaccaria G. (a cura di), (1988), Caro Bompiani. Lettere con l’editore, Milano, Bompiani.
Freud S., (1972), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura di),
Opere. 1905-1908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, Torino, Boringhieri.
Guarnieri Corazzol A., (1988), Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il caso
Wagner, Bologna, il Mulino.
om
2
I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ
159
Jonas I.B., (1979), Thomas Mann and Italy (1969), Alabama, The University of
Alabama Press.
Mann T., (2016), I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, Milano, Mondadori.
Monastra R.M., (1998), Al di là del gallismo: temi e forme in Paolo il caldo, in
R.M. Monastra, L’isola e l’immaginario. Sicilie e siciliani del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Monastra R.M., (1998), Il romanzo come «cronaca»: a proposito del Bell’Antonio,
in R.M. Monastra, L’isola e l’immaginario. Sicilie e siciliani del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Monastra R.M., (1998), Immagini di provincia nella narrativa di Brancati, in
R.M. Monastra, L’isola e l’immaginario. Sicilie e siciliani del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino.
Navarria A., (1974), Federico De Roberto. La vita e l’opera, Catania, Giannotta.
Pedullà G., (2019), Uzeda! La politica spiegata da Federico De Roberto, introduzione a F. De Roberto, L’imperio, Milano, Garzanti.
Perrone D., (2003), Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i ʻpiaceriʼ della scrittura, Caltanissetta-Roma, Sciascia.
Polacco M., (1999), I Viceré (1894), in F. Bertoni, D. Giglioli (a cura di), Quindici
episodi del romanzo italiano (1881-1923), Bologna, Pendragon.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Sahlfeld W., (2001), Già un siciliano complicato… La sfera pubblica letteraria nel
romanzo italiano del primo Novecento (Pirandello, Rosso di San Secondo, Brancati, Patti), Bern, Lang.
Schilirò M., (1995), L’“infinito vaniloquio”. La satira dannunziana in Singolare
ail.com
gm48,
9
8
io
o
u
m
a
avventura di Francesco Maria dinBrancati,
in
«Siculorum
Gymnasium»,
ri
a
ie e a il
1/2.
E-book appart
Questo
Schilirò M., (1998), Tempo del privato e tempo della storia. Il XII capitolo del
Bell’Antonio, in M. Tropea (a cura di), La Letteratura la Storia il Romanzo,
Caltanissetta, Lussografica.
Schilirò M., (2001), Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell’opera di Vitaliano Brancati, Napoli, Liguori.
Sipala P.M., (1978), Vitaliano Brancati. Introduzione e guida allo studio dell’opera
brancatiana, Firenze, Le Monnier.
201
160
LUCA DANTI
Spera F., (1981), Vitaliano Brancati, Milano, Mursia.
Zarcone S., (1991), La carne e la noia. La narrativa di Vitaliano Brancati, Palermo,
Novecento.
Questo E-b
o
22
o
k
a
p
p
a
r
ti
e
ne a ilariam
u
o
io
8
9
g
m
ail.com 201
Uno scheletro nell’armadio
dei Muñoz Muñoz.
Traumi, segreti di famiglia
e dinamiche generazionali in Aracoeli
Ivan Pupo
Qu
es
to
E
k
b
oo
C’è un dato di cui un lettore non superficiale di Aracoeli non può
non tener conto: nel suo Familienroman Morante, con una scelta decisamente freudiana, dà spazio soprattutto ai vissuti traumatici dell’infanzia e dell’adolescenza del protagonista. Sono ricordi che riaffiorano alla sua memoria dopo tanti anni di oblio, in concomitanza con il
nostos alle origini familiari, al viaggio verso l’Andalusia, la patria materna (il «ritorno indietro nello spazio» è anche un «ritorno indietro
nel tempo»; A, p. 362)1. La matrice teorica freudiana entro cui essi sono
stati concepiti e devono essere interpretati si può dedurre dalle metafore di cui talora l’io narrante si avvale per descriverne la dinamica.
Un solo esempio. A proposito della sua «impresa “partigiana”», definita «comica» con il senno del poi, ma vissuta in modo drammatico
quando aveva solo dodici anni, un episodio che improvvisamente gli
è tornato alla memoria, Manuele commenta: «Per più di trent’anni,
essa è rimasta sotterrata nella piccola, brumosa necropoli di certe
mie esperienze infantili» (A, p. 193). Più volte Freud era ricorso alla
similitudine tra l’apparato psichico e una città sepolta2. Ma si badi che
Morante, per bocca del suo «alibi» canuto, parla qui precisamente di
a
ap
p
e
rti
en
a
i
m
l
a
r
ia
uo
i
o
89
a
gm
m
il.c
o
0
-0
8
1
2
23
8
0
9-
2
2
0
12
1. E. Morante, Aracoeli, Torino, Einaudi, 2015 (d’ora in poi A). A proposito di Aracoeli,
Giovanna Rosa parla dell’antagonismo tra «due tipologie narrative forti: il racconto di viaggio, in una Bildung all’inverso, e il Familienroman modellato sul paradigma centripeto delle
relazioni parentali». Cfr. G. Rosa, Cattedrali di carta, Milano, Net, 1995, p. 309.
2. Si veda ad esempio questo brano di Costruzione nell’analisi: «Il suo [dell’analista] lavoro di costruzione o, se si preferisce, di ricostruzione, rivela un’ampia concordanza con
162
IVAN PUPO
«necropoli», di una città sotterranea abitata da morti, larve e fantasmi,
e che coerentemente ci presenta i «ritorni inaspettati» delle «memorie
perdute» attraverso l’immagine di un abbeveramento nelle acque della
«Restituzione», il fiume gemello dell’Oblio (cfr. A, p. 193), parente stretto, si potrebbe aggiungere, dell’Acheronte virgiliano citato da Freud
nell’epigrafe all’Interpretazione dei sogni. La conferma che abbiamo a che
fare con un viaggio-catabasi ci viene dal manoscritto, nelle note in cui
si parla del romanzo andaluso come della «discesa di Orfeo agli inferi»
(non per nulla ad un certo punto Manuele raccomanda a se stesso di
non «voltarsi indietro»)3. Si capisce forse meglio, alla luce di queste premesse, la terribile immagine che perseguita Manuele nelle sue visioni e
che fa da cornice al libro (ci si imbatte in essa sulle soglie del viaggio, e
poi, alla fine, nel racconto della vecchia grassa): le bombe che cadono sul
Verano, il cimitero del quartiere di S. Lorenzo a Roma, a mezzogiorno
del 19 luglio 1943, scoperchiando molti sepolcri, tra cui quello di Aracoeli, e la fuga terrorizzata di quest’ultima, sporca di sangue, tra una
foresta di fumo e d’incendio. È una scena uscita dalla storia tragica del
Novecento, ma che pure ha un suo versante spettrale. È proprio in relazione a quest’ultimo che se ne coglie appieno il significato simbolico:
Manuele quarantatreenne non ha ancora messo una pietra sopra la sua
sanguinosa infanzia, il suo inconscio vi rimane ossessivamente fissato;
il fantasma della madre uccisa non ancora trentenne da un male incurabile esce dalla tomba, perché il figlio sopravvissuto non ha ancora
elaborato il lutto (cfr. A, pp. 7 e 379). Si aggiungano altre due considerazioni: l’immagine dei «sepolcri scoperchiati» nel cimitero del Verano fa
quella dell’archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio». Cfr.
S. Freud, Opere, vol. XI. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino,
Bollati Boringhieri, 2016, p. 543. Per una ricognizione di tutte le occorrenze di questa similitudine archeologica nell’opera di Freud cfr. M. Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Torino,
Einaudi, 1985, pp. 181-191.
3. «Perché la promessa finale si adempia, io “non devo più voltarmi indietro”» (A, p. 146).
Nel manoscritto di Aracoeli, custodito presso la Biblioteca nazionale di Roma, si leggono
alcuni riferimenti al mito di Orfeo: «N. B. Orfeo e nelle favole non voltarsi. Non lasciarsi
tentare […] Devo arrivare a El Almendral senza badare ai vivi – non lasciarmi tentare più»
(Vitt. Em. 1621/B1, c. 141v); «Significati – La discesa di Orfeo agli inferi» (Vitt. Em. 1621/
B3, c. 83).
Questo E-book a
ppartiene a ilaria
muoio89 gmail.c
om
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
163
pensare alla nozione di «cripta» elaborata da Nicolas Abraham e Maria
Török, vera e propria tomba nella psiche, dove sono custoditi, come dei
Qu
fantasmi, i segreti (e i traumi) di famiglia4; c’è un “prima” e un “dopo”
est
nella storia collettiva della nazione e nel vissuto esistenziale di Manuele
o
che tendono a coincidere5.
Manuele recupera ricordi traumatici collocabili nel «breve corso
della sua vita in famiglia» (A, p. 4), sino alla soglia dei sette anni, cioè fino
all’«ultima estate della sua infanzia» (A, p. 28), quando muore sua madre
Aracoeli. Significative sono però anche le incursioni nella prima adolescenza, pure essa costellata di episodi traumatici. Si tengano presenti
le “villeggiature”, prima e dopo la morte di Aracoeli, a casa dei nonni
paterni, le «Statue Parlanti» che con il metro di una rigida disciplina
giudicano il ragazzo loro ospite un “barbaro” degno di sua madre e
per di più lo fanno sentire una «femminella», un povero animaluccio
spaurito, agli antipodi rispetto all’«idealità virile» e all’onore militare
incarnati dal figlio Eugenio, il padre di Manuele, ufficiale della Regia
marina italiana (cfr. A, p. 356). Né si trascurino le fughe dal collegio
piemontese, a 12 e a 13 anni, quando ha ormai perso anche i nonni:
l’avventura pseudo-partigiana di cui si è già detto e che solo a ricordarla
lo ferisce ancora, a distanza di decenni; l’ultimo incontro con il padre
gonfio di sbronze nel suo fetente domicilio, un’ultima volta che lo fa
«rivoltare di schifo» (A, p. 382), salvo poi rivelargli un amore inaspettato, una struggente tenerezza filiale che capovolge l’augurio di morte in
guerra formulato qualche anno prima6.
È certo comunque che le ferite adolescenziali non incidono profondamente quanto quelle dell’infanzia. Nella storia di Manuele, soggetto
4. Per la psicogenealogia, analisi transgenerazionale delle vicende familiari, i fatti traumatici che hanno segnato la storia familiare rischiano di ossessionare i discendenti se non
escono dalla «cripta» in cui sono stati rinchiusi. Cfr. N. Abraham, M. Török, L’écorce et le
noyau, Paris, Flammarion, 1987.
5. Secondo Sergio Zatti i «traumi epocali della guerra radicalizzano le cesure nella percezione delle storie individuali». Cfr. S. Zatti, Morfologia del racconto d’infanzia, in S. Brugnolo
(a cura di), Il ricordo d’infanzia nelle letterature del Novecento, Pisa, Pacini, 2012, p. 31.
6. «Di mio padre, non provavo nessuna pietà, anzi rancore e antipatia. Mi sorpresi addirittura a desiderare che una prossima guerra lo uccidesse» (A, p. 351).
E-b
o
art
p
ap
k
oo
b
E
IVAN PUPO
to
«disturbato di nervi» (A, p. 123), contano innanzitutto i traumi legati alla
figura materna, rinnovanti di volta in volta quella «prima separazione»
che Otto Rank ha identificato con il trauma della nascita7. Non l’Edipo
dunque – più di una volta Manuele dichiara di non aver mai sofferto di
gelosia per il padre – ma l’angoscia preedipica del distacco dal ventre
materno, la separazione originaria, si porrebbe come il nocciolo duro
del male che affligge l’ultimo protagonista morantiano. Nel singolare
processo che si celebra nello spazio interno alla sua psiche, a proposito
del legame con la madre, la Difesa mette in guardia l’Uditorio dal
ricascare nel «comune schema edipico», aggiungendo che il caso in
questione «non si adatta a nessuno schema prefisso» (A, p. 134), ma in
verità avrebbe dovuto concedere la deroga almeno per la tesi di Rank
(chiaramente implicata, se non allusa).
Mettiamo ora tra parentesi la questione della rivalità edipica negata8, e inseguiamo per un po’ l’ombra lunga della separazione originaria. Dopo la simbiosi paradisiaca delle 1400 giornate “clandestine” di Totetaco – una «congiunzione inseparabile» e pienamente
paga di sé, a tal punto che il bambino non sente affatto il bisogno di
un padre, né si pone in alcun modo la questione della paternità – il
piccolo Manuele deve affrontare, fin dal primo approdo ai Quartieri
Alti, l’ardua prova del dormire da solo, la camera matrimoniale essendo
riservata ad Aracoeli e al suo sposo. La madre gli spiega che lo impone
la «legge della famiglia» voluta da Dio. Da quel momento la «religione
adulta delle nozze» lo tiene riguardosamente a distanza dalla camera
dei genitori (cfr. A, pp. 158 e 279)9. La connotazione sacrilega della
es
u
Q
164
7. «…E indietro, ancora più indietro nel tempo. Il 4 novembre di 43 anni fa, ore tre pomeridiane. È il giorno e l’ora della mia nascita, mia prima separazione da lei, quando mani
estranee mi strappano dalla sua vagina per espormi alla loro offesa […] Vivere significa: l’esperienza della separazione: e io devo averlo imparato fino da quel 4 novembre, col primo
gesto delle mie mani, che fu di annaspare in cerca di lei» (A, p. 20). L’esperienza di cui qui
Manuele si fa portavoce va letta con gli strumenti offerti in O. Rank, Il trauma della nascita,
Carnago, Sugarco, 1990.
8. Questa negazione è sospetta perché Manuele, come si è già detto, almeno in un punto
del suo racconto, arriva a confessare un suo desiderio parricida.
9. Per l’efficacia sul piccolo Manuele degli ammonimenti materni, si veda il seguente brano:
«Perfino in assenza di mio padre, io non potevo passarne la soglia [della camera matrimoniale]
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
catastrofe familiare nell’estate del 1939 acquista risalto anche dal fatto
che la “scena primaria” (in senso freudiano) cui assiste Manuele, successiva all’esplosione della ninfomania materna, si svolge fuori dalla «sacra clausura nuziale», in qualche profana «stanza di passaggio» dove il
ragazzo sorprende per caso la coppia allacciata nel «ballo angelico» (A,
p. 279). Manuele porterà sempre nelle orecchie il ritmo di una sessualità coniugale blasfema, irrispettosa della legge sacra della famiglia voluta
da Dio (oltre che del pudore della prima Aracoeli).
Di assoluto rilievo è poi l’episodio della visita oculistica e dell’acquisto delle prime lenti da miope. Siamo al secondo anno nella nuova
casa, Manuele ha cinque anni. È in questa occasione che per la prima
volta la genitrice lo vede brutto. Più che brutto, addirittura deforme,
se il narratore parla di «pollice oscuro e maligno» che cominciava a
«deformare senza rimedio» lo «stampo primitivo del suo viso» (A,
p. 203). Trauma del rifiuto materno, “figura” in senso auerbachiano del
destino di Manuele, ma anche brutto colpo per Aracoeli, inizio del suo
invecchiamento (si potrebbe persino dire che già a quest’altezza risale l’incubazione della malattia)10. Tante le tracce del corpo mostruoso
disseminate nel romanzo. Ecco un elenco di quelle che si lasciano ricondurre a Manuele: gli «scherzi ottici» cui all’aeroporto madrileno
devono sottostare i suoi occhi affetti da forte miopia, sprovvisti di lenti
(le «immagini storpie» di un «film dell’orrore»: una «signora obesa con
due teste», «individui che al posto della faccia hanno una proboscide»;
A, p. 26); la battuta sprezzante al processo dei finti partigiani secondo
se non con un riguardo speciale, misto d’insicurezza e di ardimento, alla maniera di uno che
avanza verso un trono» (A, p. 159).
10. Acuta quest’osservazione di Stefano Brugnolo: «Il protagonista ce lo presenta come
un ricordo originario ma non c’è dubbio che la scrittrice ce lo presenta come un ricordo di
copertura», nel senso che l’episodio in sé insignificante «“copre” l’esperienza fondamentale
della perdita dell’amor materno». D’altra parte la «sensazione di essere rifiutati a causa della
propria bruttezza copre a sua volta la sensazione di essere rifiutati perché non si è più infanti,
perché si sta crescendo e questo risulta insopportabile (brutto) alla madre». Nello stesso saggio da cui si sta citando si legge l’intelligente assunto: il «ricordo d’infanzia […] si costituisce
come la “figura” del destino individuale». Cfr. S. Brugnolo, Alcuni influssi freudiani sul tema
letterario del ricordo infantile, in S. Brugnolo (a cura di), Il ricordo d’infanzia del Novecento, cit.,
pp. 368 e 355.
165
-b
Qu
e
E
o
t
s
11. «I soli suoi beneficati conosciuti da lei di persona erano gli ospiti di una Casa della
Beata Fratellanza o simile, che ricoverava i nati di donna più abnormi e scempi, da sembrare
prodotti di una follia cosmica» (A, p. 355).
12. «Segnato da Dio, non accostarti»: queste le parole che Anna Massia rivolge in Menzogna e sortilegio al marito Francesco De Salvi, riferendosi agli sfregi del vaiolo che ne deturpano il viso, stigma del suo destino di uomo «solo in un mondo ostile». Per questa condizione
di disadattamento alla vita, il «butterato» del primo romanzo morantiano prefigura senz’altro l’antieroe di Aracoeli.
es
cui egli sarebbe un «vecchio nano travestito» da «pischello» (A, p. 183);
il risalto concesso, nel disegno andaluso della Crocifissione, al ladrone
buono con il quale il viaggiatore si identica (un «difforme omiciattolo
contorto, coi piedi e le mani simili a zampe d’anitra»; A, p. 147); il pipistrello, «sorta di mostriciattolo» (A, p. 251), nel cartone animato che lo
fa piangere fortissimo perché parla di lui; infine l’invito inequivocabile
rivolto alla madre di accogliere la sua «deformità», di rimangiarselo,
come le «gatte coi loro piccoli nati male» (A, p. 127). Insomma, sono le
stigmate del freak, dei «nati di donna più abnormi e scempi» – simili a
quelli beneficati dalla nonna paterna11 – del “segnato da Dio” (quindi
della stessa razza di Francesco De Salvi)12, del fenomeno da baraccone
(il protagonista dichiara ad un certo punto di essere una «sagoma da
tiro a segno»; A, p. 127) che, facendolo sentire in colpa, gli alienano precocemente l’affetto materno, per poi rendere ridicola ogni sua pretesa
di ricostruirsi, da orfano, di là dal perduto amore, un «nido normale»
(A, p. 29). Le circostanze in cui gli è permesso di godersi la gioia di un
«figlietto suo» (A, p. 110) – il sogno ad occhi aperti in età scolare e poi
l’imprevisto di una notte al collegio durante l’adolescenza – ribadiscono
il complesso di inferiorità del «paria» e la sua condanna all’esclusione
dal modello di famiglia che la società borghese, al tempo del fascismo,
riteneva fosse normale.
Sulla scena dell’immaginazione, al tempo della prima pubertà, il
«figlietto» è un «sosia gnomo», quindi a ben guardare ancora una volta
un nano travestito da pischello, chiamato a riprodurre la deformità del
genitore, con il vantaggio per quest’ultimo che almeno il suo doppio
in miniatura «non lo tratterebbe da brutto» (A, p. 75). Al collegio il «figlietto» si chiama Pennati e fin dal cognome contribuisce a rafforzare
t
IVAN PUPO
Qu
166
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
167
la posizione centrale che il mondo animale occupa nel romanzo (faccio
mia una giusta osservazione di Concetta D’Angeli)13: «il suo fiatino e
i miei respiri» – si legge ad un certo punto – «scaldavano insieme la
nostra cuccia» (A, p. 107); e non molte righe dopo:
Maternità, non c’era altro nome per quella mia stranezza. Io ero una madre
col proprio figlio piccolo. Però la nostra appartenenza alla specie umana
non era necessaria. Piuttosto, io mi ero trasformato in una animalessa (pecora, mucca, rondine, cagna) che proteggeva il suo cucciolo dall’orrore della
società umana. (A, p. 107)
o
st
ue
Q
L’influenza di Saba su questa metamorfosi mi sembra fuori discussione, come pure la possibilità di leggerla in chiave queer, partendo dal
presupposto dell’androginia di Manuele ai tempi di Totetaco. Ma qui
si vuole sottolineare un altro aspetto dell’episodio: il fatto che Pennati
scelga quella “madre” avventizia e si fissi su di essa, reagendo ad una situazione di stimolo della durata di pochi attimi (un incrocio di sguardi
e un saluto reciproco a cena). Alla strana intimità della notte collegiale
presiede la dinamica dell’imprinting, Lorenz avendo qui la meglio su
Freud. D’altra parte, l’etologia, forse ancor meglio della psicoanalisi, delle «scienze positive dell’anima» (A, p. 117), potrebbe spiegare la
«pulsione disperata» che spinge l’orfano a inseguire Aracoeli, la staffetta
celeste che verso El Almendral lo precede «in volo ma pure immobile»
(cfr. A, pp. 7 e 23). Ed è d’altra parte sempre l’imprinting della reazione
di inseguimento che consente a Manuele di mettere a fuoco per contrasto il suo «corpo disorientato», non solo in campo amoroso (il che
equivale a riconoscersi come creatura troppo presto scacciata dal «paradiso […] della ninna»)14. Dopo aver evocato l’«istinto primario» che
porta un rondinotto a «seguire il volo collettivo verso l’Africa» o una
«giovane anguilla a risalire con le altre […] il corso dei fiumi», Manuele
ok
bo
E-
e
en
rti
pa
ap
a
ila
13. Cfr. C. D’Angeli, Leggere Elsa Morante. “Aracoeli”, “La Storia” e “Il mondo salvato dai
ragazzini”, Roma, Carocci, 2003, pp. 39-42.
14. El Almendral è l’unica stazione terrestre capace di indicare una direzione al «corpo
disorientato» (A, p. 10) di Manuele. Per quest’ultimo Aracoeli-Manuel costituisce il «paradiso serrano della ninna e della gloria» (A, p. 195).
168
IVAN PUPO
si paragona ad un cucciolo che «brancola dietro allo stormo già distante
da lui: dibattendosi agli incroci e incapace di leggere i segnali» (A, p. 75).
Il linguaggio metaforico si mantiene coerente lungo tutto il romanzo.
Si tratta dello stesso «animale bastardo» che «appena cucciolo portarono via dal suo covo», sicché non gli resta che rifare «tutto il cammino
all’indietro» (A, p. 10), affidandosi ai «suoi sensi acuti», ovvero all’«istinto della stalla» (A, p. 323).
Nella storia familiare che si racconta in Aracoeli i segreti non contano meno dei traumi. In alcuni casi gli uni si intrecciano agli altri, perché è il codice della reticenza a fare, per così dire, da filtro al trauma, a
e
mediarlo agli occhi di Manuele e di sua madre. D’altra parte il segreto
tien
r
a
di famiglia ha sempre avuto un ruolo molto importante nei a
romanzi
pp di
k
o qui a due
Morante. Il discorso da farsi sarebbe molto lungo, b
olimito
- mimorte
E
soli esempi: in Menzogna e sortilegio Elisa parla
della
dei genitori
to
s
e
come di un «enigma» da questi lasciatole
Qu in eredità; nell’Isola di Arturo
il misterioso Wilhelm relega la fotografia della propria madre in un cassetto, e poi in un «nascondiglio ancora più nero», facendo in tal modo
della nonna tedesca di Arturo una figura del rimosso familiare.
Nell’ultimo romanzo morantiano il segreto si accampa fin dalle prime pagine. Sull’esistenza prenuziale di Aracoeli vige una sorta di «onorabile segreto di stato» (A, p. 4) gelosamente custodito dal marito e da
zia Monda. Manuele intuisce, sulla base di pettegolezzi della servitù,
che quanto gli si presenta come un «grande Arcano» è in realtà un «piccolo scheletro nell’armadio» (A, p. 30): la notevole disparità di classe fra
i suoi genitori, ovvero le umili origini della madre, povera contadinella
andalusa di cui si era innamorato nientemeno che un ufficiale della Regia Marina. I pregiudizi borghesi portano zia Monda a evitare l’argomento, quasi si trattasse di una vergognosa «malattia ereditaria» (A, p.
31). Lo sprezzo snobistico con cui zia Monda guarda al passato andaluso della cognata – un atteggiamento che condiziona pesantemente il
comportamento di quest’ultima dopo il matrimonio – getta luce sulla
funzione metaforica della malattia che la fa da padrona nell’ultima parte del romanzo: è come se, ostentandone i sintomi, la madre di Manuele rivendicasse le proprie origini barbare, non ne avesse più vergogna,
manifestando tutto il suo disagio della civiltà borghese (oltre a vendicar-
r
a ila
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
si dei «delitti collettivi», la guerra e la Shoah, secondo la spiegazione
autoriale)15.
Assecondando l’inclinazione naturale a circonfondere di splendore
il segreto, più che ad indagarlo, il piccolo Manuele rinuncia alla verità
sulle ascendenze materne e lascia viaggiare la fantasia. Una leggenda
viene a collocarsi nella zona degli antefatti, tra i rami alti dell’albero
genealogico: Aracoeli «poteva discendere da una stirpe di gitani o di
mendicanti o di toreri o di banditi o di Grandi Idalghi» (A, p. 30). L’ambientazione spagnola e qualche “demone donchisciottesco” – particolarmente caro a Morante – giustificano l’invenzione di una «madre
hidalga e castellana» (A, p. 223). Si ha qui a che fare con un romanzo
familiare eterodosso rispetto al modello freudiano, perché qui non si
tratta di sostituire, nei sogni ad occhi aperti, genitori indegni, dai quali ci si sente messi in disparte, bensì di abbellire un passato familiare
avvolto in un’aura di mistero. Anche il nume degno di culto in cui Manuele, sempre da piccolo, trasfigura, secondo strategie tipiche del modo
“epico-tragico”, il proprio padre quasi sempre assente, rientra in questo
tipo di attività fantastica.
Del suo passato la stessa Aracoeli parla al figlio di rado, con il contagocce, facendo affidamento sulla di lui congenita precognizione, sul
fatto cioè che Manuele, sia pure inconsapevolmente, saprebbe tutto di
lei, attraverso un «messaggio cifrato» trasmessogli fin dai tempi della
sua esistenza intrauterina16. Questa precognizione è solo una delle
tantissime tracce del mondo magico e primitivo che è dato riscontrare
in Aracoeli, secondo quanto di recente ha mostrato, utilizzando soprattutto chiavi di lettura demartiniane, un suggestivo libro di Angela Di
Fazio17. Già Fortini se ne era accorto, ponendo l’accento, sia pure en
15. Ci si riferisce ad un appunto del manoscritto: «(Aracoeli) creatura che si vendica (inconsapevolmente) dei delitti collettivi con la propria degradazione e distruzione» (Vitt. Em.
1621/B3, c. 83).
16. «La sua storia mi era stata trasmessa, fino da quando io le crescevo nell’utero, attraverso lo stesso messaggio cifrato che aveva trasmesso dalla sua pelle alla mia il colore
moreno» (A, p. 5).
17. Cfr. A. Di Fazio, Tra crisi e riscatto. Elsa Morante legge Ernesto De Martino, Bologna,
Pendragon, 2017, in part. pp. 195-229.
169
mu
Questo E-book appartiene a ilaria
170
IVAN PUPO
Qu
passant, su un «universo di relazioni sovrannaturali» ricco di «colori induisti e taoisti»18. Al lettore che si imbatte in riapparizioni inaspettate
di oggetti e paesaggi, cui apertamente si riconosce un «valore magico»
ed un effetto «conturbante», possono venire in mente le ricerche di
Jung intorno ai fenomeni sincronistici e ai nessi acausali19.
Aracoeli è un romanzo della precognizione e del destino già scritto.
La storiella del «sarto immortale» (cfr. A, pp. 52-54), suggestivamente
incastonata nelle memorie familiari di Manuele, ripropone sotto altra
veste il racconto delle Moire, le dee, figlie della Necessità, che secondo
gli antichi filano il destino di ciascun uomo. Nessuno può «dirottare un
mortale dal corso del suo adempimento» (A, p. 18). Vi sono dei momenti
nella vita delle persone, dei parenti stretti di Manuele nella fattispecie,
in cui si fanno sentire «con un fragore assordante» (A, p. 19) i segnali
dell’agonia, della morte imminente. Istanti decisivi che hanno un valore
doppiamente prolettico, preparando il terreno all’epilogo di certi destini
ed insieme anticipando quello che Manuele dirà più avanti, distesamente,
con dovizia di dettagli. Esemplifichiamo con il «lampo all’indietro» su uno
snodo importante del passato paterno, perché dovremo tornarci:
to
es
bo
E-
ok
ap
pa
rtie
ne
uo
iam
lar
ai
om
il.c
ma
9g
io8
Estate 1945. Mio padre, alla mia prima e ultima visita in quella sua casa del
Tiburtino mezzo bombardata, con le finestre tutte chiuse e quel fetore dolciastro. Lui, con la pelle di una bianchezza sordida sotto la barba non fatta.
La sua bocca che mastica a vuoto. Il sudore freddo della sua mano che si
ritrae… lui fa quella specie di sorrisino miserabile… (A, p. 20)
18. F. Fortini, «Aracoeli», in Idem, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 244.
19. La «conturbante» riapparizione del talismano andaluso (cfr. A, p. 199) può essere
interpretata alla luce di C.G. Jung, La sincronicità, Torino, Bollati Boringhieri, 2018.
-rd
3
42
9-8
80
-0
23
-12
09
28
12
20
L’inesorabilità del destino trova conferma nelle voci oracolari. Due
profezie sembrano chiamate ad enfatizzare la specularità tra Manuele
e il parente che egli ha eletto fin da piccolo a proprio eroe, il suo quasi
omonimo zio materno Manuel.
La prima profezia nell’ordine della storia è quella messa in bocca a
Tia Patrocinio, l’ultracentenaria, vicina di casa di Aracoeli nel villaggio
muoio89 gmail.c
om 201228
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
Questo E-book a
ppartiene a ilaria
di El Almendral, cui una nonna gitana ha svelato i destini di tutti i compaesani. Conoscendo i segreti del futuro, ella mette in guardia Manuel
nel modo enigmatico tipico dell’oracolo: un toro di immani proporzioni si profila minaccioso al suo orizzonte. Nel tempo del lutto, messa
alle strette dal figlio, Aracoeli si ricorda di questa predizione: Manuel
– gli svela – è stato incornato da un toro. La bestia assassina è immagine del Nemico che nella guerra civile spagnola fa scempio dei guerriglieri anarchici. La brutta fine di Manuel sarebbe dovuta passare sotto
silenzio nella famiglia dei leali franchisti, «perché il parente era morto
combattendo dalla parte sbagliata» (A, p. 371). Il pudore del silenzio ha
precise motivazioni politiche, non si spiega solo con un riguardo verso
Aracoeli incinta. Il segreto sulla morte di Manuel, come nella Storia il
segreto razziale di Nora Almagià e poi di sua figlia Ida Ramundo, mette
in corto circuito la sfera personale-familiare e quella storico-collettiva.
Il nome dello zio andaluso è messo al bando, perpetuando a livello di
microcosmo familiare l’alleanza tra potere ed oblio. Il racconto-ricordo
di Manuele svolge allora una funzione contro-fattuale, perché in qualche modo fa rivivere il passato dal punto di vista dei vinti20.
L’altra profezia fa tutt’uno con la maledizione della zingara: Manuele sarebbe «morto d’amore prima dei quindici anni d’età» (A, p. 27). L’oroscopo si compie nel momento in cui, davanti alla Quinta dove Aracoeli si prostituisce, il predestinato, che ha ancora sette anni, si sente
abbandonato dalla madre, cioè si sente morire dentro, e consuma in
quel punto «tutte le sue esperienze future» di esclusione e di disamore. L’oggetto magico, l’amuleto che avrebbe dovuto proteggerlo, finisce
proprio allora nell’immondezzaio (cfr. A, p. 331). La precoce morte spirituale è confermata dal modo in cui, nel manoscritto del romanzo, si
definisce la Quinta, il bordello di lusso gestito dalla donna-cammello,
che nel suo mistero attrae e respinge insieme il piccolo: essa deve apparire – si legge in un prezioso promemoria – come «l’antimaterno»
contrapposto a Totetaco, un «affascinante, ma funebre […] regno della
20. Sulla morte tabuizzata in questo episodio del romanzo ha richiamato l’attenzione
Concetta D’Angeli nel suo op. cit., pp. 51-52.
171
172
IVAN PUPO
morte»21. Manuele-Orfeo non riesce a salvare Aracoeli-Euridice, e
per di più si consegna egli stesso a Plutone, sicché anche l’oroscopo
domestico, apparentemente innocuo, letto poco tempo prima da zia
Monda, ha un che di inquietante: «MANUELE – segno dello Scorpione
[…] Pianeti Plutone in domicilio, Venere in esilio […]» (A, p. 235).
Le suddette profezie, in un libro ricco di non casuali rimandi interni,
corrispondenze ed equivalenze, pongono in un rapporto di simmetria
il destino di Manuele e quello dello zio materno attraverso la mediazione di Aracoeli, la quale «credeva alle zingare profetesse non meno che
alle statue delle chiese» (A, p. 27). Ma al di là dei presagi luttuosi espressi
in un codice cifrato, è il miraggio della morte eroica che Manuele, sulle
orme di Manuel, cerca nel bosco piemontese, ad evidenziare le strutture di genere sulla scena parentale: Manuele sente di appartenere al
gruppo della madre, piuttosto che a quello del padre biologico (al quale
significativamente non si rivolge mai con il nome di papà e di cui, nelle
vesti di narratore, omette sempre il cognome), antepone cioè al rapporto reale con il padre quello virtuale con lo zio materno. Basandosi
sulle letture etno-antropologiche di Morante, prestando attenzione alla
«cultura originaria» del villaggio di Aracoeli, Di Fazio chiama in causa
le regole di parentela delle tribù selvagge di Malinowski, di quei popoli
primitivi cui non si adatta lo schema edipico freudiano, l’incasellamento
nei complessi della famiglia patriarcale22.
La malattia di Aracoeli costituisce senz’altro il più grande mistero
ne
e
nella narrazione di Manuele. La necessità di tenergliela nascosta trende
r i la
a
grottesca la conversazione familiare. Con la sua febbrile logorrea
p
nonna mette a nudo, suo malgrado, la ferita del disonore,
ap salvo poi
k stravagante
censurarsi per un riguardo al nipote. Ne vien fuori ouno
o
soliloquio, costellato di buchi neri, in cui è facile riconoscere
la logica
b
delle formazioni di compromesso: lo scandalo
E- della condotta di
to senza che si facciano
Aracoeli vi è sempre e soltanto alluso e sottinteso,
s
i nomi di responsabili e vittime. Nonostante
ue sospetti che quel fiume
Q
21. «Attenzione. Qui […] la quinta deve apparirmi in qualche modo come l’“antimaterno”
[…] Affascinante, ma funebre e mineraria ossia regno della morte» (Vitt. Em. 1621, A XI, c. 15v).
22. Cfr. A. Di Fazio, op. cit., pp. 223-225.
u
ri
am
a
ila
2
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
173
om
.c
ail
di parole possa condurlo alla verità, Manuele, che ha paura di soffrire,
gm
preferisce non sapere.
8sul9 cano
Quando poi, alla fine della guerra, zia Monda solleva il velo
i
uo Manuele
cro per scagionare Aracoeli dall’accusa di oscena immoralità,
m
rifiuta la spiegazione fisiologica, convinto che quello
iadella zia sia solo
li ar (A, p. 371). Comun «pretesto per salvaguardare l’onore della famiglia»
a
menta Fortini nella sua recensione: reagendo
Manuele
e in tal modo,
n
dimostra di volere una «tragedia non iuna
disgrazia»23, una colpa da
e
rt
far scontare, non una malattia da commiserare.
sente cioè il
a
pil più possibileL’orfano
p
bisogno di squalificare e degradare
la
defunta,
per facia
k
litarsi il distacco, di «calunniarla
e maledirla e rinnegarla», pur di non
oosuo ultimo segreto» (cfr. A, p. 337).
riconoscere la «miseria b
del
E- la madre «per difendersi dalla sua morte», a
Quella di sfregiare
to nel tempo del discorso, non sarebbe stata una
«ripensarci» da sadulti,
e
«furbizia» diuManuele, ma della stessa Aracoeli. Nel romanzo terapeutico
Q
di Manuele, come nelle storie cliniche di Freud, si rende necessario
tornare tante volte sugli stessi snodi, da angolature diverse. Nella
fattispecie si assiste ad un vero e proprio ribaltamento grazie al quale
la defunta si conquista la riconoscenza filiale. Con le «sue bruttezze di
vecchia puttana», con il suo «spettacolo osceno» allestito alla Quinta (lo
strano nome non a caso richiama le quinte di un teatro, lo spazio dell’istrione, del gioco segreto), Aracoeli riesce ad allontanare Manuele dall’immagine della sua «povera materia in dissoluzione», dalla «piccola cassa
inchiodata» in cui sono sepolti i suoi resti. Con i suoi ditini di morta si
fabbrica una «brutta sosia contraffatta», una «sosia dall’anima nera», per
difenderlo dal «contagio funebre» (cfr. A, p. 353)24. Torna utile ancora la
lezione di Rank: il sosia ha rappresentato in origine un baluardo contro
la scomparsa dell’Io25. Nella sua funzione protettiva, segnatamente apotropaica, il teatro della perversione che Manuele attribuisce alla madre
23. F. Fortini, op. cit., p. 244.
24. Per la “strategica” malattia di Aracoeli nei nuovi pensieri di Manuele si veda sempre
A, p. 353.
25. Cfr. O. Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Carnago,
Sugarco, 1994.
1
20
174
IVAN PUPO
e
Qu
sto
può ricordare, mutatis mutandis, l’episodio più famoso di Menzogna e sortilegio, il click che, secondo le dichiarazioni dell’autrice, aveva presieduto
all’ispirazione del libro. Qui le «compiacenti invenzioni della figlia pietosa» Augusta, e poi le finte lettere di Anna, che della famiglia Cerentano da
sempre avrebbe voluto far parte, sono destinate a far credere ad una madre, donna Concetta, che il figlio adorato non sia morto26. Nel «povero,
ultimo romanzo andaluso» Manuele narratore ipotizza non solo che la
cartolina postuma dello zio gli sia stata fatta pervenire per «dargli smentita della sua morte» (A, p. 232), ma anche che Aracoeli abbia finto, nei
panni di una novella Traviata, una parte odiosa e scandalosa, quella della
«vecchia puttana», per proteggerlo dal «vero scandalo», il più odioso di
tutti, quello della morte, e non lasciarsi guardare e nemmeno intravedere
nella sua «frana d’ombra» (A, p. 353).
Senonché, nel finale di un romanzo in cui la fisiologia svolge un
ruolo decisivo, si ricostruisce dettagliatamente la scena in cui Manuele,
venuto al contatto con il corpo andato a male del padre, non può fare
a meno di presentirne con ribrezzo la morte. L’addio del fantasma materno – «Ma, niño mio chiquito, non c’è niente da capire» (A, p. 359) –
avrebbe potuto costituire una chiusa altrettanto efficace? Forse sì, ma
Morante avrà certo avuto le sue buone ragioni per non fermare la penna. Innanzitutto, quelle relative alla circolarità della trama. La scrittrice
ha voluto fare di Eugenio, incanutito semicieco e ubriaco, un doppio
di Manuele adulto, imponendo a quest’ultimo di ereditare, oltre al colore degli occhi del padre, anche il suo triste destino di uomo solo. A
riproporsi in tal modo è il rapporto di simmetria tra le generazioni già
sperimentato in Menzogna e sortilegio, nel cui manoscritto ad un certo
punto si legge: «Accennare in qualche luogo come nella nostra famiglia
oltre al fisico e ai caratteri si tramandano anche i destini (per questo voglio raccontarvela – serpe che si morde la coda)»27. Altre ragioni forse
ea
ien
art
pp
ka
oo
E-b
il.c
ma
9g
io8
uo
iam
ilar
om
-08
23
-12
09
28
12
20
23
-84
09
26. Va precisato però con Garboli che in Menzogna e sortilegio lo «spunto edificante» (il
«bisogno di carità») presto si stravolge in un «rito blasfemo». Cfr. C. Garboli, Il gioco segreto,
Milano, Adelphi, 1995, pp. 35-36.
27. Si cita dal manoscritto custodito presso la Biblioteca Nazionale di Roma: cfr. Vitt.
Em. 1619, Q. I, c. II.
-rd
h
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
iene a
ppart
28. C’è come una pulsione profonda che detta a Manuele comportamenti e spostamenti.
Nell’episodio delle fughe alla Quinta la coazione interiore è tradotta con un’immagine fantastica: «Come si legge di certi erranti maledetti, forse in quei giorni la mia piccola persona
occhialuta era soggetta a un servo d’ombra, comandato da chi sa dove a portarmi in giro per
qualche ambiguo disegno a me nascosto» (A, p. 327, corsivo mio).
ook a
to E-b
Ques
possono venir fuori scavando nella cornice dell’episodio (per il quale si
rinvia ad A, pp. 373-382). Appena finita l’imbarazzante visita durante la
quale gli esce di bocca solo qualche monosillabo e mai la parola «papà»,
Manuele, a quel tempo ragazzo di 13 anni, seguita a gironzolare nel
quartiere di San Lorenzo, apparentemente senza ragioni (in verità
«comandato» dal suo inconscio)28. Si reca in un caffè e all’uscita sente
come un pungiglione di vespa, una trafittura fino in fondo alla gola che
lo fa «piangere in pubblico senza ritegno né conforto». Parte di qui il
«gioco ozioso» di Manuele adulto sul «seme» di quel pianto, sulle cause
plurime del suo scatenamento. Sembra che il monito del fantasma
materno – «non c’è niente da capire» – sia caduto nel vuoto. Tutt’al
più l’io narrante è disposto a riconoscere che ogni «risposta possibile»,
«anche se verace», è «sempre insufficiente e approssimativa». Un invito
a non fermarsi alle risposte che esplicitamente si danno nel testo, a
non accettare per oro colato l’ultima spiegazione, quella basata sulla
scoperta dell’amore nei confronti di Eugenio? L’ammissione che tale
spiegazione sia arrivata «con troppo ritardo» legittima nel lettore una
certa diffidenza, perlomeno la preoccupazione di non cadere nella
trappola dei «ricordi di copertura», di quei ricordi che non emergono
dalla nostra infanzia, ma che sono piuttosto costruiti sulla nostra infanzia.
Mi sembra ad ogni modo utile ricostruire l’itinerario «comandato»
di Manuele in tutte le sue tappe, alla ricerca di altri preziosi indizi. Uscito
dall’alloggio paterno, prima di entrare nel caffè, il ragazzo fa sosta nei pressi
del Verano e qui, vicino alle tombe, capisce quel che poco prima aveva
voluto dire la zia Monda con la frase: «Tuo padre vuol tenersi vicino a lei».
Proprio in quel momento avverte come una «zampata di tigre» alla gola,
qualcosa di più penetrante di un pungiglione di vespa, per quanto gigante.
Correlando le due sensazioni psicosomatiche si ha modo di capire che,
nell’epilogo del Familienroman di Manuele, non è solo questione di ambi-
175
ilaria
176
IVAN PUPO
Ques
valenza o «duplicità senza soluzione» del sentimento filiale, né del solo «bisogno appassionato» dell’«affetto paterno, troppo a lungo negato»29. A ben
guardare la commozione finale investe anche Aracoeli, in quanto oggetto
di una passione coniugale «definitiva», che non arretra neppure dinanzi
alla morte30. Trovo psicologicamente convincente – e sappiamo quanto
contasse per Morante la psicologia in un romanzo – che Manuele si sciolga
in lacrime non solo perché scopre in sé il figlio che fino a quel momento
non ha saputo o potuto essere, ma anche per l’irresistibile forza d’urto del
«romanzo sentimentale dei suoi genitori» (A, p. 31), perché arriva ad apprezzare fino in fondo la dedizione estrema di Eugenio alla sposa.
C’è una luce, sia pur fievole, di speranza che in qualche modo riscatta
queste pagine del romanzo, altrimenti solo cupe e deprimenti. L’amore
coniugale è un valore che regge alle prove estreme: alla guerra, alla miseria materiale e morale di un Paese distrutto, all’abbrutimento personale di
Eugenio (con una capacità di ragionamento ridotta ormai ad un «impasto
di suoni disarticolati e inservibili», ulteriore avvilente depotenziamento
rispetto al «bisbiglio» dell’uomo nella camera d’ospedale dell’agonizzante
Aracoeli; A, pp. 377 e 347). È proprio la scoperta di questa resilienza che
riscatta Eugenio agli occhi del figlio. Senza questa scoperta la reazione di
Manuele sarebbe stata solo di ribrezzo. L’amore che resiste, nonostante
tutto, ascrivibile ad un ubriacone per una morta, non è inutile, come potrebbe sembrare, nella misura in cui colui che ne è testimone, Manuele,
è spinto a rivedere il rapporto con il genitore. Nel finale del romanzo un
amore ne accende inaspettatamente un altro: l’amore di Eugenio per la
defunta Aracoeli accende l’amore di Manuele per Eugenio.
Pur di restituire alla fedeltà amorosa il suo «valore primigenio»31,
c’è chi, adattandosi a fare da «guardiano di un faro isolato sugli abis-
ien
ppart
ook a
to E-b
29. G. Rosa, op. cit., p. 352.
30. A proposito della specularità che unisce fin dal principio i suoi genitori, Manuele
afferma: «Fu, anche, quella di lei, come quella di lui, una passione ardita e improvvisa, ma
coniugale e definitiva» (A, p. 51).
31. Adattiamo all’orizzonte vedovile la resilienza di cui aveva già dato prova Eugenio:
«[…] “Amore mio!” / Sempre, nel corso della nostra comune estate, lui ridiceva a mia madre
queste due parole. Era la sola risposta che sapeva darle […] Ma, dette da lui a lei, le due comuni scadute parole riprendevano integro il loro valore primigenio» (A, p. 278).
UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ
si» (A, p. 374), accetta persino che l’ala dell’idiozia gli sfiori il cervello.
Proiettata sullo sfondo di questa «fiaba estrema»32, il degrado di Eugenio, indubbiamente una spietata parodia dell’eroismo virile, non può
che apparire agli occhi di Manuele come un «fiore di pazienza»33 da
onorare con il pianto.
32. Espressione tratta dalla poesia di Morante Alibi, datata 1955 ed edita nel 1957.
33. Ci si riferisce all’ultima poesia di Miklòs Radnóti che Morante cita in Pro o contro la
bomba atomica (1965).
177
Ques
to E-
book
appa
rti
IVAN PUPO
178
9
80
-
Bibliografia
Brugnolo S., (2012), Alcuni influssi freudiani sul tema letterario del ricordo infantile, in S. Brugnolo (a cura di), Il ricordo d’infanzia nelle letterature del Novecento, Pisa, Pacini.
1
9-
2
23
0
Abraham N., Török M., (1987), L’écorce et le noyau, Paris, Flammarion.
2
0
8
2
D’Angeli C., (2003), Leggere Elsa Morante. “Aracoeli”, “La Storia” e “Il mondo salvato dai ragazzini”, Roma, Carocci.
m
1
20
Di Fazio A., (2107), Tra crisi e riscatto. Elsa Morante legge Ernesto De Martino,
Bologna, Pendragon.
co
il.
Fortini F., (1987), Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti.
a
gm
Freud S., (2016), Opere. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 19301938, vol. XI, Torino, Bollati Boringhieri.
8
io
9
Garboli C., (1995), Il gioco segreto, Milano, Adelphi.
uo
Jung C.G., (2018), La sincronicità, Torino, Bollati Boringhieri.
m
Lavagetto M., (1985), Freud la letteratura e altro, Torino, Einaudi.
ia
ar
Morante E., (2015), Aracoeli, Torino, Einaudi.
a
il
Rank O., (1990), Il trauma della nascita, Carnago, Sugarco.
ne
e
ti
ar
Rank O., (1994), Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore,
Carnago, Sugarco.
p
p
a
Rosa G., (1995), Cattedrali di carta, Milano, Net.
Q
s
ue
to
ok
o
b
E-
Zatti S., (2012), Morfologia del racconto d’infanzia, in S. Brugnolo (a cura di), Il
ricordo d’infanzia nelle letterature del Novecento, cit.
muo
a
i
r
a ila
io
ail
m
g
89
rtie
ppa
ne
Romanzo (non) familiare:
la famiglia quale inconscio
collettivo in Piazza d’Italia
e Il piccolo naviglio
ka
Veronica Frigeni
boo
o E-
1. Introduzione: Tabucchi, l’inquietudine e il romanzo di
famiglia
Que
st
L’ipotesi che mi propongo di esplorare è la seguente: il romanzo di famiglia, analizzato nelle sue componenti distintive, costituisce
un modello narrativo privilegiato per la narrazione dell’inquietudine
tabucchiana, attraverso un tentativo di dare voce al familiare nel suo
venir meno, e nello specifico all’inconscio collettivo. In Tabucchi, questo identifica, infatti, il rovescio di un famigliare inteso in un’accezione ampia come l’insieme di tutte quelle ideologie, narrazioni, eventi e
memorie che legittimano la grande Storia ufficiale. Un tentativo, quello
dello scrittore, che si misura proprio a partire da un uso straniante, improprio, non famigliare dei principali meccanismi formali e dei topoi
tematici del romanzo di famiglia.
La lettura dell’opera di Tabucchi, in questo caso dei due romanzi
genealogici e di famiglia Piazza d’Italia (1975) e Il piccolo naviglio (1978),
non può prescindere da una riflessione preliminare sul motivo e sul
modo dell’inquietudine. Di fronte alla sfida postmoderna alla possibilità di articolare un discorso di verità e di costruire una trama di senso,
l’inquietudine costituisce, infatti, la cifra essenziale dell’esperienza narrativa tabucchiana e della visione stessa che l’autore ha della letteratura,
cui demanda il duplice compito di inquietare – così aprendo lo spazio
dell’altro, dell’improprio, del non famigliare – e di interrogare – così
architettando una costellazione critica nella quale i due poli io-altro,
180
VERONICA FRIGENI
proprio-improprio, famigliare-non famigliare sono visti non come opposizioni irrelate, ma come diversi momenti di un continuum, che va
da un minimo ad un massimo di perturbante spaesamento. In un’ottica di reciproca compenetrazione, per Tabucchi, l’uno è da sempre
presente nell’altro quale condizione di possibilità e rovescio, e richiede
perciò allo scrittore – e, con lui, al lettore – di cambiare posizione, di
abbracciare una nuova prospettiva per poterne cogliere la simultaneità.
Nell’universo narrativo di Tabucchi, ogni cosa è sia famigliare che spaesante ed è, allo stesso tempo, famigliare e spaesante. Entro un’economia
poetica fondata sull’inquietare e l’interrogare, la famiglia si circoscrive,
pertanto, come spazio di inquietante alterità e straniamento: paradossalmente è nell’intimità del domestico e delle relazioni famigliari che il
famigliare si rivela come rovescio del non famigliare. Perché è qui che
l’inquietudine si affaccia come ritorno dell’inconscio, individuale e collettivo. Cosa s’intende, dunque, con inconscio collettivo? Rifacendosi
alla teoria freudiana della letteratura di Orlando, inconscio collettivo
designa tutto ciò che è stato escluso dalle narrazioni dominanti del passato – e del presente – ovverosia quanto attiene alla dimensione del
possibile rispetto all’attualità storica, ciò che avrebbe potuto accadere
diversamente, ma che fu oggetto di repressione culturale sociale e politica, e ciò che accadde ma fu poi taciuto, negato, rimosso1.
L’analisi dei due romanzi di famiglia di Tabucchi, Piazza d’Italia e Il
piccolo naviglio, si propone di rispondere a tre quesiti principali: anzisto
e
tutto perché Tabucchi sceglie, per i suoi due testi di esordio, euquindi
Q del
in un momento decisivo della sua produzione letteraria, il genere
romanzo di famiglia? Ovverosia, come si situa quest’ultimo rispetto alla
1. Avremo pertanto un ritorno del represso che si configura in quattro possibili situazioni: al solo livello inconscio, nel quale «represso sarà diventato sinonimo di rimosso»;
conscio ma non accettato, nel quale si registra una scissione o contraddizione tutta interna
al singolo personaggio; «accettato dal singolo personaggio ma non propugnato», dove il singolo si pone in diretto contrasto con la società, ma con una sorta di inimitabilità, unita alla
rassegnazione che «il mondo, storicamente e metafisicamente, resti com’è»; «propugnato
ma non autorizzato», ovverosia condiviso da una minoranza, ma non dall’ordine costituito.
F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1992, p. 81.
E-
b
k
oo
a
ROMANZO (NON) FAMILIARE
181
poetica dell’inquietudine dell’autore? In secondo luogo, quali sono le
cifre essenziali del romanzo di famiglia che lo rendono una forma privilegiata per la narrazione, in Tabucchi, ma potenzialmente anche oltre
il singolo autore, del cosiddetto inconscio collettivo? Infine, a quali esiti
narrativi e retorici conduce un uso straniato e straniante del romanzo
di famiglia?
Rispondere alla prima questione significa sottolineare fin da subito
come, in Tabucchi, l’inquietudine includa e combini tra loro una precisa dimensione storica – è al perturbante novecentesco che l’autore
guarda, coniugando l’Unheimliche freudiano al desassossego di Pessoa,
sino all’angoscia esistenzialista – ma anche, oltre a quella storica, una
dimensione trascendentale, metafisica – poiché per Tabucchi la letteraQu tura in quanto possibilità di creazione di senso, un senso sempre provest visorio, spaesante e interrogativo, risponde laicamente alle necessità
oreligiose
E-b dell’essere umano2. Questo doppio livello dell’inquietudine
tabucchiana
oo trova un riscontro privilegiato nel romanzo di famiglia,
k a come sottolinea Polacco, si apre similmente a tre posladdove questo,
pp «Un piano letterale (storia della famiglia) […] un
sibili livelli di lettura:
art
piano anagogico (storiaiedinun’epoca) […] e un piano metafisico (condie a senso, è lecito sostenere che Tabucchi
zione dell’umanità)»3. In un certo
ilarun modo della narrazione quanto
trovi nel romanzo di famiglia tanto
iam
una sorta di narrazione modale, vale a dire
in un modo difuconiugata
oio scrittore
ferente da quello della realtà, e che fornisce allo
una serie di
89
strumenti per sottoporre ad una sorta di revisione del
gpossibile
ma la storia
medesima.
il
.co
m
20
Al fine di sciogliere i successivi interrogativi, prenderò invece in
1
esame, per ogni testo, i quattro elementi narrativi caratterizzanti il 22
80
2. Sul perturbante in Tabucchi mi permetto di rinviare a: V. Frigeni, L’inconscio ottico
della storia. Per una retorica della visione perturbante in Tabucchi, in «Between», 4, 7, 2014,
pp. 1-19.
3. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13,
2005, p. 123.
9-1
182
VERONICA FRIGENI
romanzo di famiglia: tempo, spazio, famiglia e scrittura memoriale.
Queste quattro dimensioni verranno incrociate e fatte interagire con il
motivo dell’inquietudine, e per questo interrogate alla luce della dinamica topologica (e non antinomica) tra famigliare-non famigliare. Seguendo Canzaniello, in una possibile tassonomia di questa «intersezione di genere» come egli definisce il romanzo di famiglia4, è doveroso
includere: la concentrazione spaziale, giacché tutto ruota attorno
alla casa e più in generale ad uno spazio domestico, contrapposto a
quanto è fuori, estraneo; una diacronia estesa, controbilanciata dalla
narrazione sincronica di scene, come strumento di verosimiglianza e di
prossimità al reale; il protagonismo corale, rispetto al quale viene meno
l’indipendenza del singolo personaggio e, al tempo stesso, si registra
una centralità dei conflitti familiari, che esauriscono il ventaglio
delle possibili posizioni di un dato orizzonte temporale; infine, la
trasmissione memoriale come principio formale strutturante.
Nei due testi in esame, nell’ottica di una scrittura dell’inquietudine,
Tabucchi sottopone ad un procedimento straniante questi stessi meccanismi narrativi. I quattro elementi tassonomici vengono pertanto rovesciati, in una narrazione del famigliare nel momento in cui questi viene
meno, tanto a livello diegetico quanto a livello formale. Nello specifico
si vedrà come: in primo luogo, il fatto che il romanzo di famiglia si
strutturi lungo uno svolgimento diacronico esteso diventa, in Tabucchi,
l’occasione di disturbare la linearità della continuità storica, attraverso
.com
l
i
a
una mescidazione di temporalità plurime e paradossali, che
da un lato
gm
9
8
o
attualizzano il represso come ritorno e, dall’altro,
spostano
l’orizzonte
i
muo
dalla Storia alla microstoria. Lo spazio rdiviene,
in secondo luogo, rota
i
a contribuisce a delineare il
a eilquindi
tura del confine pubblico/privato
e
n
ruolo della famigliapcome
artiepunto intermedio tra inconscio individuale
p
a
e collettivo:
gli ambienti domestici sono diffusi, permeabili
oink Tabucchi
-bo
oE
uest
Q
4. E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Canzaniello, Il
romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, Idem, Il romanzo di famiglia
oggi/Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 88-111.
22
201
ROMANZO (NON) FAMILIARE
all’esterno, in ciò stesso minando la dicotomia pubblico-privato; inoltre essi sono già, da subito, abitati da quanto è estraneo, inquietante;
infine, le case nei romanzi di famiglia di Tabucchi si antropomorfizzano, assumendo i caratteri fondamentali dei propri abitanti. Quanto al
protagonismo corale e alla centralità dei conflitti familiari, essi danno
origine, in Tabucchi, ad una genealogia che più che arborea pare rizomatica, fatta di nomi che si ripetono, che si perdono e riguadagnano; di
discendenze sbarrate o a fondo chiuso (i figli mai avuti o dati in adozione); di maternità raddoppiate, ecc. Un tale modello rizomatico aderisce
alla struttura dell’inquietudine, giacché i diversi membri della famiglia
incarnano diversi gradi di ritorno del represso (inconscio, conscio, accettato, propugnato) e fanno della famiglia tutta il principale soggetto
dell’inconscio collettivo. Infine, il fatto che il romanzo di famiglia per
definizione si strutturi come narrazione memoriale diventa pretesto, in
Tabucchi, per una narrazione fortemente autoriflessiva e straniata, che
interroga i principi stessi del fare e del farsi metastorico.
2. Piazza d’Italia: rizoma, inquietudine, microstoria
Si tratta di un romanzo di famiglia genealogico: si seguono tre generazioni, le morti del nonno, del figlio e del nipote sono i veri momenti
di svolta che strutturano narrativamente il libro in termini di eredità
e passaggio di testimone: in questo senso la dialettica generazionale
non è però di antagonismo, anzi di continuità. Un aspetto testimoniato
anche dalla continuità onomastica (ci si tramanda il nome Garibaldo),
fisica (padre e figlio soffrono tutti di dolori al piede, come il nonno cui
fu amputato durante la Breccia di Porta Pia) e persino dall’anacronismo
finale dell’ultimo nipote.
Il libro è diviso in tre tempi, come un film. Il primo tempo segue le
vicende di Plinio e del figlio Garibaldo. Plinio, il capostipite, partecipa
alla Spedizione dei Mille con Garibaldi, perde un piede durante Porta
Pia, viene ferito a morte da un guardacaccia regio a trent’anni. Crede
nell’ideale dell’uguaglianza ed il suo bracconaggio nasce da una situazione socioeconomica disperata. Plinio ha quattro figli, due coppie di
gemelli: Quarto, Volturno, Anita e Garibaldo. Quarto e Volturno trovano la morte durante la guerra d’Africa del 1887, Garibaldo è inve-
183
e
Qu
VERONICA FRIGENI
184
ce disertore, sparandosi a un piede. Come il padre è bracconiere, ma
a differenza del genitore riesce a ferire il guardiacaccia per primo. A
tale episodio fa seguito la sua fuga a Parigi e in America. Al suo ritorno
sposa Esperia e ha un figlio, Volturno, rinominato Garibaldo dopo la
sua morte durante l’assalto al granaio municipale nel 1899. Nel secondo
Q lo spazio maggiore al secondo e
e nel terzo tempo, il romanzo dedica
u
ultimo Garibaldo. Egli è un ribelle eesovversivo
sotto molteplici aspetti:
st
o Cuore, il maestro santifica
smette di andare a scuola quando, leggendo
E- mondiale scrive alla fila carezza del re; dal fronte della Prima guerra
b
danzata Asmara che lì gli uomini sono ridotti aotopi
ok nelle fogne; compie
atti anarchici per vendicare i soprusi subiti dagli a
indifesi, come l’ambulante Apostolo Zeno; abbraccia la Resistenza e in p
seguito
pa rinuncia al
proprio individualismo anarchico tesserandosi col PC; infine
r i si accorge
di come, anche nel dopoguerra democratico, i soprusi deitpadroni
en non
siano terminati e quando la polizia massacra l’amico Guidoneedurante
a di
una riunione di lavoratori egli si arrampica sulla statua della piazza
ila
Borgo per denunciare le nuove violenze, dove viene colpito a morte
ri
per ordine del questore. Il romanzo si apre proprio con le sue ultimeam
parole, «Abbasso il re»5, un anacronismo straniante che in realtà da un uo
io
lato sancisce il vincolo con la figura del nonno e del padre (di cui pare
89
un doppio o simulacro) in quanto soggetti portatori di una possibilità
g
differente ed inconscia rispetto alla storia ufficiale, e dall’altro smaschera come nella Storia l’oppressione dei padroni sopravviva al mutare
delle contingenze. In questo senso esso si propone di inquietare anche
il lettore, invitandolo implicitamente a considerare in che modo ciò
sia ancora vero nella realtà attuale, e come l’autore e il lettore (almeno
quello implicito), si pongano come nuovi eredi, una sorta di Garibaldo
postumi.
Rispetto al modello del romanzo di famiglia i conflitti famigliari
paiono assenti in Piazza d’Italia, poiché, pur nel variare di volta in volta delle contingenze storiche, la famiglia nelle sue diverse generazioni
5.
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, Milano Feltrinelli, 1996, p. 11.
iene a ilariamuoio8
Questo E-book appart
ROMANZO (NON) FAMILIARE
è compatta nel sostenere i medesimi ideali di uguaglianza e giustizia
sociale. In tal senso è la famiglia tutta a opporsi a quanto vi è di esterno, ad assumere le funzioni di una «minoranza etica»6. Se si volesse
rintracciare l’unico spiraglio di dissonanza e conflittualità entro la famiglia di Plinio bisognerebbe risalire l’albero genealogico fino a quel
ramo spezzato, ovvero il figlio che Anita ha da adolescente e che rifiuta
dandolo in adozione al fattore del paese per farsi monaca di clausura.
Melchiorre, nipote rinnegato di Plinio e di Garibaldo aderisce, infatti,
al fascismo e trova la morte nella notte dell’incendio fascista di Borgo.
Più in generale è significativo osservare come, se la famiglia si pone
come soggetto dell’inconscio collettivo nel suo antagonismo corale alla
storia ufficiale, al suo interno i diversi personaggi che compongono il
microcosmo famigliare appartengano ai diversi livelli di represso seguendo la scala di Orlando: e così, per esempio, Volturno muove da un
ritorno del represso ancora esclusivamente inconscio e perciò inaccessibile al simbolico quando da bambino, in un mutismo ostinato, non è
ancora in grado di interpretare e dare senso ai propri timori, per arrivare ad un ritorno del represso conscio ma non accettato, quando da
adolescente «rifiutando il mondo, disegnando figure sulla cenere con
un bastoncino o riempiendo fogli di minuscoli e illeggibili scarabocchi» cerca di simbolizzare la propria inquietante malinconia, il proprio
saper leggere e prevedere, quasi da poeta, gli aspetti più oscuri e negati
della storia tutta7.
Quanto a Plinio e al figlio Garibaldo, essi sono indubbiamente
portatori di un ritorno del represso accettato ma non propugnato: il loro
solipsismo anarchico, pur nell’interesse della collettività, li condanna
ad agire quali oppositori inimitabili e solitari in un antagonismo storico
e metafisico con i padroni. Solo con l’ultimo Garibaldo, nel momento
in cui egli capisce che il tempo dell’anarchia è finito e che «oggigiorno
bisogna essere uniti, bisogna organizzarsi e che l’unione fa la forza»8,
6.
7.
8.
Cfr. G. Fofi, La vocazione minoritaria: Intervista sulle minoranze, Bari, Laterza, 2009.
A. Tabucchi, Piazza d’Italia, cit., p. 26.
Ibid., p. 134.
185
a
iene
t
r
a
p
VERONICA FRIGENI
k ap
o
o
E-b
186
sto
e
u
Q
si ha finalmente accesso ad un ritorno del represso propugnato ma non
autorizzato: la posizione dell’ultimo Garibaldo è infatti condivisa da
una minoranza collettiva, che si organizza e agisce coralmente – e il
partito pare quasi sostituirsi al microcosmo famigliare – ma che non
trova però legittimazione nell’ordine politico precostituito.
In Piazza d’Italia anche lo spazio, in particolare la casa, ovverosia
il luogo privilegiato del romanzo di famiglia, subisce un trattamento
assolutamente peculiare: il focolare, che ne definisce il nucleo più intimo, domestico, e privato, si rivela, infatti, essere un luogo chiave, una
sorgente ed un ricettacolo di inquietudine. Si confronti, di seguito, la
prima descrizione dell’ambiente domestico con lo stravolgimento dello
stesso che determina la presenza di Volturno, figlio di Plinio:
La casa dove abitavano Plinio si ricordava di averla vista costruire a suo
padre […] Quando vi era nato era quasi una capanna, con un pavimento di
terra battuta e una cucina che confinava col pollaio. Poi suo padre aveva fatto un pavimento di granito e un focolare enorme di mattoni, sotto cui indugiavano le sere di inverno, senza trovare il coraggio di andare nelle camere
fredde. […] Volturno cresceva nell’immobilità e nel silenzio […] passava le
giornate in un angolo che si era formato in fondo al focolare con delle assi
di legno, quasi un recinto. Di lì non voleva uscire. […] Anche da ragazzo la
sera tornava alla sua placenta di cenere, per scrivere segreti9.
Si noti l’espressione «placenta di cenere»: la casa pare un essere
antropomorfo, e incarna, per l’inquieto Volturno, il materno, un
possibile ritorno alla protezione dell’ambiente uterino. Eppure essa è,
allo stesso tempo, il climax dell’estraneo, laddove, proprio nel focolare,
con il personaggio di Volturno si materializzano tutte le paure, i sogni,
e le ansie della storia. Così, è nel focolare, cuore dell’abitazione, che il
represso, individuale e collettivo, ritorna. Più in generale, l’ambiente
domestico in Piazza d’Italia è diffuso e collettivo. Ogni casa è legata
all’altra, a Borgo. E vi è tra tutte una naturale benché incredibile sinergia: esemplare è il caso delle finestre, che si comportano all’unisono.
9.
Ibid., p. 19 e p. 22.
ROMANZO (NON) FAMILIARE
Questo E-book appartiene a ilariam
Queste restano cieche nell’anno delle febbri, spiccano il volo e scompaiono la notte dell’incendio fascista di Borgo; tremano nei cardini a
mo’ di presagio la notte della morte dell’ultimo Garibaldo. Sono case
anonime e metonimiche. Un po’ come il paese medesimo, che sta per
un qualsiasi altro borgo italiano. Tale anonimità collettiva dell’interno
domestico rovescia, di fatto, un tratto costante nella caratterizzazione
spaziale dei romanzi di famiglia: viene, infatti, meno l’opposizione tra
casa di famiglia, polo del famigliare, del domestico, di quanto è noto e
usuale, e tutto quanto vi è di esterno, polo dell’estraneo, dell’improprio,
dell’ignoto. Allo stesso tempo Borgo appare un paese spaesato e spaesante, che nella nominazione comune e imprecisata nega già la possibilità di un radicamento nel famigliare.
Anche la temporalità del romanzo è assolutamente peculiare: si inizia con l’epilogo, ovvero con la morte dell’ultimo Garibaldo. Il montaggio narrativo lo affianca alla morte del primo Garibaldo. Per poi tornare
indietro. Si procede, infatti, a ritroso, per recuperare le gesta garibaldine di Plinio. Nel testo il tempo si condensa, si anticipa, si biforca, pare
quasi tornare indietro, si annulla. Volturno soffre del «mal del tempo:
rispondeva all’improvviso a una domanda che gli avevano fatto il giorno prima, si ricordava fatti non ancora successi, soffriva due volte la
stessa delusione»10. Atina esce dal tempo: rifiuta il figlio Melchiorre
e diventa suora di clausura in un convento dove «morì prosciugata
dal tempo, senza aver mai saputo che c’erano state due guerre, la
sera in cui gli americani entravano rumorosamente in Borgo»11. E
Asmara aspetta la sterilità per sposarsi con l’ultimo Garibaldo, poiché
un oroscopo le aveva predetto che avrebbe avuto un figlio morto a
trent’anni: in realtà l’oroscopo pare compiersi indirettamente, giacché
Garibaldo muore a sessant’anni (ovvero 30 più 30). L’aspetto principale
e caratterizzante del romanzo di famiglia, coprire una diacronia estesa,
è fortemente straniato e diventa veicolo di inquietudine. Come dice il
narratore, «nella famiglia di Garibaldo il tempo era sempre corso su
10.
11.
Ibid., p. 25.
Ibid., p. 39.
187
VERONICA FRIGENI
188
fili speciali»12. L’imperativo genealogico è stravolto, straniato e negato.
La struttura temporale è, infatti, quella del rimosso che ritorna sotto
forma di antieroismo, anarchismo, desiderio di giustizia e uguaglianza.
Tuttavia, pur essendo improntata alla struttura del ritorno del
represso, nonostante la ciclicità apparente che deriva anche dall’epicità
della narrazione – inizia e si chiude con la morte, e due dei tre
protagonisti condividono il nome (Garibaldo padre e figlio), il tempo
è scandito da nascite matrimoni e morti –, questo non deve essere
considerato come un mero ritorno dell’identico – l’albero genealogico
si fa solo in apparenza frattale: giacché se pure gli ideali sono i medesimi,
e la dicotomia tra oppositori e oppressi giace al cuore della storia e come
tale, quasi per inerzia, si ripropone costantemente, in realtà è proprio
alla possibilità di riconoscere e dare voce all’alterità, al represso ciò che
– a livello diegetico con Garibaldo, che si fa cantore en-abyme di alcuni dei principali avvenimenti accaduti alla sua famiglia per racimolare
spicci a matrimoni, feste di paese, persino una festa dell’unità, e a livello
testuale con il narratore – introduce il principale elemento di rottura e
di novità. Alla memoria e alla scrittura della stessa spetta il compito di
restituire il futuro negato al passato mostrando al lettore il presente ed
il futuro che sono a lui negati, ovverosia esortandolo a prendere consapevolezza di come le cose potrebbero e dovrebbero andare.
In effetti, l’inconscio collettivo ritorna non solo a livello di contenuto ma anche a livello di forma. La struttura memoriale costituisce, come
detto, lo scheletro narrativo del romanzo di famiglia. In Piazza d’Italia
tale impianto formale è fortemente straniato, sia rispetto alle temporalità che propone a livello diegetico e extradiegetico, sia rispetto al farsi
medesimo della narrazione. Il romanzo presenta una struttura fortemente ibrida e di intersezione, combinando registri diversi (epica, fiaba)
e media differenti (scrittura, cinema). In un’intervista del ’91 ai Cahiers
du Cinema Tabucchi lo definisce come una «narrazione epica alla maniera brechtiana e montata alla maniera di Eisenstein»13. Il riferimento a
Q
ue
st
o
E-
bo
ok
ap
pa
rti
en
e
a
ila
ria
m
uo
io
89
gm
ai
l.c
om
20
12. Ibid., p. 12.
13. A. Tabucchi, Écrire le cinéma, in A. de Baecque (a cura di), Le cinéma des ecrivains,
Parigi, Éditions de l’Etoile, 1995, pp. 11-18.
12
28
09
-1
22
ROMANZO (NON) FAMILIARE
189
Brecht fornisce una genesi addizionale rispetto ad una pratica narrativa
straniante con un focus specifico sulla dimensione delle condizioni
socio-politiche rispetto al singolo personaggio. Tuttavia è il montaggio
filmico, con le sue cesure, ripetizioni, sincronie e distorsioni temporali
a risultare decisivo nella creazione di una narrazione montata in tre
tempi, che inizia con il proprio epilogo e si conclude oltre i limiti della
vicenda narrata. Significativamente, la componente filmica non solo
rompe la linearità temporale ma consente di radicare, almeno per il
lettore, il piano del possibile, e di una possibile contro-storia, a partire
da quello dell’evenemenzialità. Come sottolinea Agamben nelle sue
riflessioni sul montaggio filmico, del resto, «la ripetizione altro non è
che il ritorno in possibilità di ciò che è stato. La ripetizione restituisce
la possibilità di ciò che è stato, lo rende nuovamente possibile. Ripetere
una cosa è renderla di nuovo possibile»14. Come si relaziona dunque
questa intersezione di generi, registri e codici differenti con il romanzo
famigliare e con l’emersione di un inconscio storico collettivo? La
risposta risiede nel fatto che ricostruendo la memoria collettiva di
una famiglia e di un paese toscano durante un secolo di Storia italiana,
rispetto alla quale la storia ufficiale è un brusio di fondo che il narratore
mai chiarisce, Piazza d’Italia utilizza il genere del romanzo di famiglia
per tentare una narrazione microstorica. Vale a dire, di una narrazione
che cerca di dare voce alle classi marginali e periferiche, di riportare
ne
e
«alla luce l’esperienza dell’individuo, di ricreare dalle evidenze una ceri
rt
ta mentalità […] credenze, valori, comportamenti, ovvero la storia cula
turale»15. Il microstorico è lo storiografo di quanto la storia ha represso pp
a
nel suo inconscio.
k
oo
b
3. Il piccolo naviglio: ritorno del represso e metastoria
Etoristretta di
Anche Il piccolo naviglio appartiene ad una definizione
s
e romanzo
romanzo di famiglia. La forma memoriale sostiene ul’intero
Q
14. G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, in E. Ghezzi, R. Turigliatto (a cura di), Guy
Debord (contro) il cinema, Milano, Il Castoro, 2001, p 103.
15. F. Brizio-Skov, Antonio Tabucchi. Navigazioni in un arcipelago narrativo, Cosenza, Pellegrini, 2002, p. 31.
a
i
VERONICA FRIGENI
190
allorché un narratore onnisciente racconta di come, alla fine degli anni
’60, nel tentativo di ricostruire la genesi e navigare la rotta della propria
esistenza, Capitano Sesto ripercorra a ritroso le vicende della propria
famiglia, risalendo per quattro generazioni, sino al trisavolo Leonida,
passando per il primo Sesto, figlio di Leonida, e Sesto Marianna, nipote
di Leonida e papà di Capitano Sesto. Similmente al romanzo di esordio,
anche nel Piccolo naviglio carattere testimoniale privato e valore storiografico collettivo si fondono e si confondono, laddove uno costituisce il
necessario rovescio dell’altro. L’eredità generazionale è, in questo caso,
triplice: quella degli ideali, come in Piazza d’Italia, di uguaglianza e giustizia sociale; quella del nome: si succedono tre Sesti: Sesto, il nipote
Sesto Marianna, figlio delle due sorelle del primo Sesto, e da ultimo Capitano Sesto, chiamato durante l’infanzia Alcide dal patrigno acquisito,
Anselmo Zanardelli, per poi ritornare Sesto alla nascita di un fratellino
Alcide. Infine vi è l’eredità del capello rosso, un segno distintivo, non
familiare e quantomeno improprio d’insofferenza ai soprusi, che caratterizzava anche i Garibaldi di Piazza d’Italia.
L’eredità triplice conferma il motivo del ritorno come struttura
temporale fondamentale, con il suo valore di apertura del fattuale al
possibile. Nel romanzo l’estensione diacronica è bilanciata da numerose scene che mettono in pausa il racconto: anzi il narratore insiste ripetutamente sull’incommensurabilità di un tempo che corre velocissimo
e ogni volta si rimette a correre con rinnovato slancio, e un tempo che
pare annullarsi, pietrificarsi come il marmo nella cava.
In un certo senso questo doppia temporalità (tempo della storia,
tempo della quotidianità) riflette l’equilibrio tra la dimensione diacronica entro cui si muove il racconto di Capitano Sesto e del narratore, e
di dimensione sincronica, che appartiene invece a tutti i personaggi del
romanzo.
Rispetto a Piazza d’Italia, nel Piccolo naviglio ci troviamo di fronte
a tre differenti ambienti domestici: la casa di Leonida e di tutti i suoi
eredi, «una casa ocra e piena di crepe in un paese pieno di sassi»16, che
-b
est
oE
Qu
ea
arti
en
pp
ook
a
16.
A. Tabucchi, Il piccolo naviglio, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 29.
ROMANZO (NON) FAMILIARE
ha almeno due dettagli inquietanti: il lampadario e il solaio. Il primo, un
lampadario orrendo fatto di tante palline, e regalo di nozze di Leonida
e Argia, diviene veicolo della follia di quest’ultimo quando accoccolato
davanti alla finestrella osserva le biglie cadere dalla finestra. Nella sua
follia, Leonida crede che la gravità, rappresentata dalla caduta delle palline, sia il peggior destino dell’uomo, a cui ci si deve pertanto ribellare.
Quanto al solaio, oltre ad essere il luogo degli esperimenti di Leonida, esso diviene anche l’archivio improbabile dei reperti famigliari. In
tale ottica il solaio funziona come una sorta di doppiofondo inconscio
dell’ambiente domestico, dove si chiude, si abbandona – si nega e si rimuove – tutto quanto non deve essere mostrato, neppure in famiglia.
L’immagine ricorrente delle crepe pare invece antropomorfizzare la
casa, laddove esse possono essere considerate l’equivalente delle rughe
cha solcano i volti di Argia, la capostipite, e di Zia Addolorata, mancata
sposa di Quinto, prozia di Capitano Sesto, e unica superstite, pur ridotta a una cozza. Tuttavia, il colore ocra e la presenza di crepe è in realtà
comune a tutte le case del paese, contribuendo ancora una volta ad una
sorta di domestico collettivo ancor più significativo considerando che il
narratore definisce una «maceria polverosa» l’Italia tutta: come in Piazza d’Italia, l’ambiente domestico diviene un’allegoria dell’intero paese17.
Vi è, in contrasto, la casa borghese, la villa a Fiesole di Zanardelli dove il piccolo Capitano Sesto trascorre la propria infanzia con la
madre Amelia. Essa viene descritta in alcuni tratti distintivi e familiari nel contenuto, ma in modo assolutamente straniato, attraverso
la prospettiva di un piccolissimo capitano Sesto-Alcide. E così il corrimano della scala che conduce alle camere da letto pare un «lungo
serpente dal capo mostruoso»18; i tre busti della sacra famiglia appesi
sopra il letto matrimoniale appaiono sordi alle richieste del bimbo
di capire perché la mamma talvolta pianga; e un arazzo diviene una
sorta di mondo parallelo, dove il piccolo immagina di parlare con un
cane cui ha dato il nome di Sesto. La casa di Zanardelli è la più segnata
191
oio
ne a
ook
Q
ue
s
t
o
E-b
appa
rtie
Ibid., p. 109.
Ibid., p. 111.
ilaria
mu
il.com
89 g
ma
17.
18.
192
VERONICA FRIGENI
da una «endogamica ricorsività di alcuni riti famigliari»19. Centrale,
nella realtà domestica borghese, è il momento della cena, sempre a
base di pesce, per conferire un tono aristocratico ai membri della
famiglia, e ai loro corpi. Proprio l’occasione del pasto segna però la
massima esplosione del conflitto tra padroni e oppressi, tra Anselmo
e Amelia, la quale rivendica al marito la possibilità di far conoscere al
figlio i parenti paterni (nello specifico la zia Addolorata, che le manda
numerose lettere che paiono scivolare, miste alle lacrime della donna,
nel brodo di nasello). Nella villa di Fiesole i riti diventano spesso rituali
o celebrazioni sacre della famiglia: e così accogliendo gli ospiti si
dispongono a imitazione della sacra famiglia; mentre dopo la morte di
Amelia la casa viene riempita di ritratti della defunta cui ci si accosta
come a degli altari. Infine, merita di essere menzionata la casa, ancora
in costruzione, dove Zanardelli trova la propria morte, imprenditore
edile sommerso da una colata del suo stesso calcestruzzo. Essa è in
realtà una non casa, solo uno scheletro di abitazione, e l’imprenditore si
diverte ad affacciarsi dalle numerose finestre in fase di realizzazione sui
diversi piani. Che il re del calcestruzzo, padrone di un impero di vani
abitabili, trovi la propria morte in un mucchio conico a pronta presa
costituisce l’ennesimo rovescio dello spazio famigliare, oltre che una
sorta di climax dell’osmosi tra spazio e personaggio tipica dei romanzi
di famiglia tabucchiani.
Chiaramente una tale topografia di ambienti domestici riflette
un microcosmo famigliare più composito e articolato al suo interno
rispetto a Piazza d’Italia, per cui la metafora rizomatica diviene ancor
più pregnante. Ciò introduce anche ad una ulteriore differenza rispetto
al romanzo d’esordio, vale a dire, in modo apparentemente più consono
al romanzo di famiglia, la presenza di visioni e posizioni contrastanti
all’interno di una medesima famiglia. In realtà si tratta di un dissidio
dell’intera famiglia con Anselmo Zanardelli, educato da bravo italiano
durante il fascismo, complice nella cattura del secondo Sesto, padrone
Qu
es
to
19. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in
Eadem, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., pp. 6-17.
E
-b
o
ok
ROMANZO (NON) FAMILIARE
della cava, esponente DC, sposo di Amelia e patrigno di Capitano Sesto. Un dissidio complicato dal duplice intreccio della famiglia dei sesti
con quella Zanardelli, perché Corradino Zanardelli, padre di Anselmo,
aveva ingravidato una delle due sorelle del primo Sesto, Maria o Anna,
le quali, a seguito però di un parto assolutamente sincrono, mettono
alla luce Sesto Marianna. Sesto è, di fatto, fratellastro, prima ancora che
amico di infanzia, di Anselmo Zanardelli, che diventerà decisivo nella sua cattura e spedizione ad Auschwitz, e che diventerà patrigno del
figlio di Sesto Marianna (o secondo Sesto), vale a dire Capitano Sesto.
Chiariti tali intrecci si spiega la netta dicotomia tra la posizione di
Anselmo, padrone del tempo e della storia, membro della storia ufficiale e promotore dello status quo, e l’animo sovversivo, di promotori
di una possibilità differente, di una possibile differenza, che accomuna
tutti i Sesti e Leonida medesimo.
Ques
to
rtiene
ook a
ppa
E-b
Leonida ed i suoi discendenti si muovono lungo il continuum di progressivo straniamento sociale e emersione dell’inconscio. Leonida in
un certo senso compie un percorso a ritroso: dalla fuga dalle guardie
regie, che ne denotano la condizione di uomo ribelle rispetto all’ordine costituito, egli scivola dapprima in un conflitto tra coscienza e
inconscio nel momento in cui si rende conto dell’ineluttabilità metafisica della condanna all’oppressione, sino a sprofondare, incapace di
approdare più ad un processo di simbolizzazione e di organizzazione di senso, nella follia del rimosso inconscio. Il primo Sesto, uomo
acquatico e rabdomante, che scopre un pozzo sotterraneo in grado di
risolvere la siccità del paese, sente fin da adolescente «la vocazione al
vagabondaggio, lo struggimento per l’ignoto, per le vie del possibile»20.
La sua malinconia, non diversamente da quella di Volturno, lo rende
protagonista di un dissidio esclusivamente interiore. Sesto Marianna,
pur nella sua capacità di ispirare e guidare un gruppo di dissidenti del
proprio paese, rimane una figura eroica inimitabile – si pensi al suo
accettare di scontare anni di carcere solo per aver organizzato proteste
20.
A. Tabucchi, Il piccolo naviglio, cit., p. 43.
193
VERONICA FRIGENI
194
dopo una rappresaglia fascista, al fatto che egli convinca gli anarchici
del paese a non colpire l’amico di infanzia e fratellastro Anselmo,
o al tentativo di sostituirsi a un bambino per salvarlo dalle camere
a gas di Auschwitz –, impossibilitata a farsi davvero portatore di un
inconscio collettivo. Capitano Sesto, infine, compie tutto l’itinerario
passando da un rimosso interamente inconscio, nel quale sono sepolti
gli anni di un’infanzia senza cronaca né cronologia, ad una discrasia
tra inconscio e coscienza, ovvero quando inizia la fase dell’archivio
dei cosiddetti ricordi ricordabili; dalla scoperta di un mondo fatto di
voci per domandare, per comandare o per proibire, ad un ostinato
mutismo, conseguente alla morte della madre; egli approda ad una fase
di accettazione solipsistica, quando, subito dopo la morte di Anselmo,
abbandona la casa del patrigno, rifugge il nome di Alcide ed esce dal
proprio prolungato mutismo, per trasferirsi a Firenze; sino al momento
del ritorno del rimosso propugnato ma non autorizzato quando non
solo confluisce nel PC grazie all’amore dell’Ivana detta Rosa, ma, in un
livello più sottile, si fa poeta e scrittore, di se stesso, e del romanzo della
propria famiglia.
Nata dal bisogno «di sillabare un nodo che lo ingombrava»21, e
quindi con un preciso, aggiuntivo valore terapeutico di scioglimento
del rimosso individuale e di emersione del represso sociale e storico,
la narrazione memoriale di Capitan Sesto produce un ironico, e
amaro, rovescio della narrazione ufficiale dello storico e chierico
Paolo Fozio, i cui annali sono una fedele cronaca dei principali
accadimenti nella storia italiana di fine ’800, e dove i personaggi del
romanzo o sono ridotti a numeri incolonnati in quadratini oppure
completamente taciuti: egli «faceva storia e non delle storie», nota
il narratore22. Ciò che Tabucchi intende smascherare è chiaramente
l’arbitrarietà di ogni rappresentazione storica, che organizza eventi
selezionati a partire da una data prospettiva e conferendo loro una
Qu
es
21.
22.
Ibid., p. 161.
Ibid., p. 55.
to
E-
b
ROMANZO (NON) FAMILIARE
Qu
est
precisa intelligibilità. Una prospettiva ed un senso che sono, di fatto,
sempre quelli della classe dominante, dei padroni, degli oppressori.
In questo senso, il romanzo produce un ritorno del represso a livello
di forma da un lato ponendo l’attenzione sulla letterarietà di ogni
narrativa storica e dall’altro mostrando come ogni narrazione storica
familiare si basi sulla rimozione di un inconscio collettivo. Piegando
la natura ibrida del romanzo di famiglia dal polo documentale
verso quello del fantastico, Capitano Sesto fa dell’immaginazione
– e non della memoria – il principale organo del proprio racconto
genealogico. Sul sagrato polveroso di una chiesa, con un quaderno ed
una penna, produce infatti congetture, colma vuoti di informazione,
istituisce legami tra avvenimenti diversi, adoperando come fonti
dei reperti improbabili, ritrovati nel solaio della casa di famiglia,
quali il ritratto di Leonida, una vecchia raccolta di ricette mediche,
uccelli impagliati, pacchi di giornali, un lampadario ed il racconto
della prozia Addolorata. E nel fare ciò, procedendo per metonimie
mnemoniche, egli stravolge l’idea stessa di verità e verosimiglianza
storica. Sesto, immaginando la propria storia, «provava quel vago
senso di eccitazione e di meraviglia che viene dallo sconosciuto, e
insieme un senso di ebbrezza e turbamento per la libertà che si prendeva, perché si rendeva conto che tutto ciò che era stato dipendeva
unicamente da lui»23.
In conclusione, Sesto, e con lui Tabucchi, non esita a interrogare, a
prestare ascolto e a dar voce al rovescio di ogni posizione e narrazione.
In Tabucchi, l’inconscio collettivo è fatto di tutte quelle tracce di una
realtà passata che sopravvivono nella memoria conscia e inconscia,
desideri e aspirazioni collettive, elementi latenti e disparati del passato,
il futuro negato nel passato, i suoi detriti simbolici ancora non detti
e non scritti. In questo senso, riconducendolo a quel perimetro pur
sempre poroso che è il romanzo di famiglia, l’inconscio collettivo
costituisce il rovescio di un famigliare inteso in un’accezione ampia
23.
Ibid., p. 17.
195
oE
-bo
o
Q
VERONICA FRIGENI
s
ue
to
bo
E
196
come l’insieme di tutte quelle ideologie, narrazioni, eventi e memorie
che appartengono a e legittimano la grande Storia ufficiale. Il romanzo
di famiglia è per Tabucchi necessariamente e sin dal principio non
familiare, straniante e straniato. Per questo esso converge, in origine e
da ultimo, con la visione autoriale della letteratura, giacché come scrive
Tabucchi nel suo Elogio della letteratura:
La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente
da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al
potere, qualsiasi esso sia. È il dubbio che ciò che l’istituzione vigente vuole
sia così, non sia esattamente così. Il dubbio, come la letteratura, non è monoteista, è politeista. Peraltro le conseguenze dei pensieri monoteisti, che
non nutrono alcun dubbio, sono sotto gli occhi di tutti24.
24. A. Tabucchi, Elogio della letteratura, in A. Dolfi (a cura di), Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 12.
ROMANZO (NON) FAMILIARE
Quest
o E-bo
ok ap
Bibliografia
partie
ne a i
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia
oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Agamben G., (2001), Il cinema di Guy Debord, in E. Ghezzi, R. Turigliatto (a cura
di), Guy Debord (contro) il cinema, Milano, Il Castoro.
Brizio-Skov F., (2002), Antonio Tabucchi. Navigazioni in un arcipelago narrativo,
Cosenza, Pellegrini.
Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit.
Fofi G., (2009), La vocazione minoritaria: Intervista sulle minoranze, Bari, Laterza.
Frigeni V., (2014), L’inconscio ottico della storia. Per una retorica della visione perturbante in Tabucchi, in «Between», 4, 7.
Orlando F., (1992), Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Tabucchi A., (1996), Piazza d’Italia, Milano, Feltrinelli.
Tabucchi A., (1995), Écrire le cinéma, in A. de Baecque (a cura di), Le cinéma des
ecrivains, Parigi, Éditions de l’Etoile.
Tabucchi A., (2011), Il piccolo naviglio, Milano, Feltrinelli.
Tabucchi A., (2013), Elogio della letteratura, in A. Dolfi (a cura di), Di tutto resta un
poco. Letteratura e cinema, Milano, Feltrinelli.
197
laria
o
Quest
«Questo è il libro per cui sono
venuto al mondo».
L’epopea storico-familiare
in Canale Mussolini
di Antonio Pennacchi
Simona Di Martino
Il presente intervento mira a esaminare il romanzo Canale Mussolini, vincitore del Premio Strega 2010, inquadrandolo all’interno di
quell’“intersezione di generi” che è stata definita il romanzo familiare
italiano, per cogliere la ricorrenza di alcune costanti tematiche che possano inscriverlo nel sopracitato genere di recente definizione1. Dopo
aver affrontato il discorso del genere, l’analisi intende prendere in esame alcuni temi chiave – nello specifico la figura della casa, l’uso del dialetto e del discorso diretto e il rapporto di conflittualità tra i personaggi – ascrivibili al genere in questione.
1. Questione di genere. Romanzo storico, epico e familiare
Già Emanuele Canzaniello ha definito il romanzo familiare un crocevia di generi, una particolare commistione di romanzo e memoria
familiare, ma anche autobiografia e auto-fiction2. Quest’idea trova conferma nella prefazione di Canale Mussolini, dove Antonio Pennacchi
scrive «Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al
mondo» dichiarando nelle righe successive il suo impegno a raccontare
una storia che sentiva il dovere di fermare prima che svanisse3. In que-
-b
esto
E
1. L’espressione “intersezione di generi” è usata da Emanuele Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in «Enthymema», 20, 2017, p. 89.
2. Ibid.
3. A. Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010, p. 7. D’ora in avanti l’opera
sarà citata con l’abbreviazione CM a testo.
Qu
200
SIMONA DI MARTINO
sto modo l’autore afferma di essere parte della storia e implicitamente indica la presenza di un certo grado di autobiografismo. Allo stesso
tempo, il genere del romanzo familiare è stato definito come un incrocio tra un documento storico e un’opera di fantasia4. Canale Mussolini
confermerebbe questo connubio, come indica il resto della prefazione:
Non esiste naturalmente nessuna famiglia Peruzzi in Agro Pontino a cui
siano capitate tutte le cose narrate qui. Sia la famiglia Peruzzi che la successione di cose che le capitano […] non sono che frutto di invenzione: non è
vero niente ed è tutta un’opera di fantasia. Non esiste però nessuna famiglia
di coloni veneti, friulani o ferraresi in Agro Pontino – e anche questo è un
fatto – a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che qui capitano
ai Peruzzi.
In questo senso e solo in questo, tutti i fatti qui narrati sono da considerarsi
rigorosamente veri. (CM, p. 7)
Il romanzo racconta le vicende accadute alla famiglia Peruzzi
prima, durante e dopo l’epoca fascista, in un continuo susseguirsi
di flashback che narrano tanto le vicende familiari quanto l’ascesa
di Mussolini, la marcia su Roma, l’omicidio Matteotti, la fondazione di nuove città e molto altro, arricchendo la vicenda familiare con
una
di eventi storicamente e innegabilmente accaduti
Qucostellazione
esto
che attribuiscono
alla famiglia un valore tanto più eroico quanto più
drammatica E
si -fabo
la sequenza di accadimenti. Partendo quindi dalla
ok al’autore sviluppa la storia inventata, ma veveridicità dei fatti storici
ppa Peruzzi, i cui membri portano nomi
rosimile, della numerosa famiglia
rtien
di importanti personaggi dell’antichità,
può essere consideefatto
a lche
rato come prima spia di contaminazione di igeneri
arialetterari. Di epico
non ci sono solo i nomi dei personaggi ma anche lem
imprese
uoioche questi compiono in un costante intreccio di leggenda familiare
e8storica;
9 gm
imprese che se ai personaggi valgono il titolo di eroi, al romanzo valail.c
om
gono il titolo di poema, come recita la quarta di copertina. L’epopea
4. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica»,
XIII, 2005, pp. 95-125.
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
inizia con la cacciata e l’emigrazione di intere famiglie dalle zone del
Veneto, del Friuli e dell’Emilia Romagna verso il Lazio. Il racconto di
questa discesa procede per tappe, ognuna delle quali è chiaramente
indicata come “epica”, di grande portata. Le tappe principali si possono riassumere in cinque momenti: la cacciata dal Nord; la ricerca di
una raccomandazione, che implica un viaggio a Roma; l’esodo in treno; l’insediamento nella nuova realtà e, infine, l’impresa della bonifica
delle Paludi Pontine. Per poter dare conto dell’epos, procederò con
una breve disamina degli eventi appena elencati.
Le motivazioni dell’esodo della famiglia Peruzzi sono affrontate nella prima pagina del romanzo. Il narratore, di cui parlerò più approfonditamente in seguito, afferma: «Ci hanno cacciato. Il conte Zorzi Vila»,
(CM, p. 9). Derubati delle proprie bestie, i Peruzzi ricevono lo sfratto,
a seguito dell’imposizione della quota novanta in politica agraria del
1926, e i due figli maggiori dei Peruzzi, Pericle e Temistocle, si recano a
Roma per cercare riparo al danno subito nella figura del Rossoni, vecchio amico del padre, che nel frattempo ha aderito al fascismo5. Il racconto del viaggio dei due fratelli, dal carattere meraviglioso, è straordinario se lo si misura prima di tutto in termini di mezzi di locomozione.
L’intero percorso infatti è affrontato in bicicletta. Il narratore, incalzato
da proposizioni interrogative indirette, ribadisce l’epicità dell’impresa:
«Come dice? Perché non hanno preso il treno? Ma se avessimo avuto i
soldi per pagare il treno, li avremmo avuti anche per pagare il padrone
[…]» e incalza «Ci hanno messo cinque o sei giorni […] avranno fatto un
centinaio di chilometri al giorno, mica era come al Giro d’Italia adesso
[…] Le biciclette erano pesanti, i copertoni consumati. Ogni tanto bucavi e ti dovevi fermare a riparare col mastice la camera d’aria» e ancora
«Dormivano dove capitava, nelle stalle e nei fienili di qualche povera
gente […]» (CM, pp. 15-16). Successivamente, anche il faticoso viaggio
verso le terre dell’Agro Pontino viene descritto con termini degni di
pa
ka
p
o
to
ue
s
Ebo
ri
e
rtie
n
Q
5. Gli eventi storici narrati sono documentati dall’autore a seguito di ricerche archivistiche, alcune delle quali trovano spazio a fine libro in un lungo elenco di fonti; cfr. A. Pennacchi, op. cit., pp. 458-460. Per una bibliografia dettagliata lo stesso autore rimanda a: A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Bari, Laterza, 2008.
201
ai
la
SIMONA DI MARTINO
202
un poema, arricchito della reazione di disprezzo verso gli emigranti da
parte della popolazione locale:
Fu un esodo. Trentamila persone nello spazio di tre anni – diecimila all’anno – venimmo portati quaggiù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli dal Ferrarese. Portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua. Ci chiamavano “polentoni” o peggio ancora “cispadani”. Ci guardavano
storto. E pregavano che ci facesse fuori la malaria. (CM, p. 137)
o
ue
st
Q
Ancora, l’eccezionalità del viaggio è resa dalla ripetizione dei numeri, dalla grande quantità di persone trasferite, dalla sintassi spezzata,
e dall’anaforico “ci”, quasi deresponsabilizzante, come se l’esodo fosse
stato imposto ai coloni. Lo stesso termine “esodo”, appartenente alla
sfera semantica sociologico-religiosa – accompagnato dal parallelismo
che vede associate la zona dell’Agro Pontino alla Terra Promessa – delinea la grandiosità dell’impresa, nuovamente tingendo il fatto storico
con toni epici:
rti
e
n
ea
k
a
pp
a
o
E-b
o
Fu un esodo però, le ho detto.
In trentamila in quasi tre anni ci caricarono sui treni e ci portarono qui.
Sulle tradotte. A scaglioni. Un treno al giorno. Diecimila all’anno. Facendoci attraversare tutta Italia. Ci concentravano nelle stazioni di partenza – a
Ferrara, Rovigo, Vicenza, Udine, Treviso, Padova – e poi la sera partivamo.
Le case e i paesi li avevamo salutati la mattina; ci erano venuti a prendere
con gli autocarri della milizia, ci avevano aiutato a caricare le nostre robe, i
pochi mobili, gli attrezzi, le bestie chi le aveva. […] Tutti – nei giorni dell’attesa – non avevamo fatto altro che costruire gabbie per i nostri animali da
portare nella Terra Promessa […]. (CM, p. 148)
ila
r
i
am
u
com
m
a
il.
9g
oio
8
L’insediamento del nucleo familiare, composto dai vecchi genitori, dai figli e dalle nuore, nella terra vergine laziale pronta per essere
conquistata e bonificata è lungamente descritto insieme alla fondazione
delle nuove città, prima fra tutte Littoria/Latina. Una volta giunti a destinazione, tuttavia, la metafora biblica continua:
L’esodo era terminato. La Terra Promessa raggiunta e le guardie del Faraone
– schierate coi fez e le camicie nere sul marciapiede del binario Uno – erano
2
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
lì a proteggerci nello sbarco ed a guidarci nel prendere possesso del nostro
Mar Rosso prosciugato. Mosè le aveva solo divise le sue acque temporaneamente: giusto il tempo di far passare la sua gente e poi richiuderle. Il Duce
e il Rossoni le hanno prosciugate invece per sempre queste terre dalle acque
loro. […] E ci hanno portati qui – “Littoria Stazioneee!” – e scaricati tutti alle
sette e mezza del mattino […]. (CM, p. 154)
rtie
oE
b
o
o
k
appa
Quest
L’epicità del romanzo familiare è stata inoltre discussa da Canzaniello, che individua l’elemento epico nella resa romanzesca dell’identità di una nazione o di una civiltà tramite o all’interno della stessa saga
familiare, argomentazione che, oltre a rispecchiare quanto accade in
Canale Mussolini, ben si sposa con i tre livelli di lettura descritti da Marina Polacco, i quali trovano la loro realizzazione nel romanzo in esame6. Se il piano letterale dà conto della storia della famiglia, esplorando
il nucleo dei Peruzzi, quello anagogico permette al lettore di interpretare un’epoca, quella dell’Italia pre- e post-fascista, e infine, il piano
metafisico consente l’indagine della condizione dell’umanità, soggetta
a grandi stravolgimenti7.
La peculiarità dell’epopea è esemplificata dalla voce narrante cui la
trattazione è affidata, su cui occorre soffermarsi per meglio inquadrare le singolarità del genere in questione. Questa, infatti, ha un’identità
ignota fino alle ultime pagine del romanzo, ma si definisce chiaramente
da subito interna alla famiglia per due ragioni. Innanzitutto, epiteta i
vari personaggi familiarmente come “zio/a” e “nonno/a”; inoltre, sin
dalla prima pagina del romanzo la storia narrata è definita con netta coralità, caratteristica testimoniata dall’uso di verbi e aggettivi possessivi
plurali. Si veda l’incipit del romanzo (corsivo mio): «Per la fame. Siamo
venuti giù per la fame. E perché sennò? Se non era per la fame restavamo
là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui?». Il narratore
fa dunque parte della famiglia, e, pur dichiarando di non essere ancora
nato all’epoca dei fatti narrati, li racconta in quanto questi costituiscono
E. Canzaniello, op. cit., p. 90.
M. Polacco, op. cit., p. 123.
io89 gm
ne a ila
riamuo
6.
7.
203
204
SIMONA DI MARTINO
una sorta di patrimonio familiare orale. Si tratta di fatti tramandati da
tutti i membri della famiglia, nonni, zii, genitori, cugini, che a loro volta
ne sono protagonisti. La storia è narrata direttamente a un anonimo
interlocutore cui il narratore si rivolge di tanto in tanto, rispondendo
piccatamente alle domande che questi gli pone, domande che però non
vengono mai direttamente riportate nel testo dall’interlocutore stesso,
venendo riproposte piuttosto dal narratore in una continua mimesi del
parlato che rende l’intera narrazione un monologo di quest’ultimo. Si
veda ad esempio: «Cosa fa, ride? Non ci crede? Glielo avrei voluto far
vedere. E i buoi? Avevamo certi buoi che tiravano gli aratri a due a due
peggio di un caterpillar. Che fa, ride di nuovo?»; oppure più avanti nel
racconto: «Come dice? Che era stato però lui ad incendiarla? Ho capito,
lo abbiamo già detto, è inutile stare a rimestare» (CM, pp. 9; 173).
Tenendo presente quanto detto sulla voce narrante, si potrebbe pensare di definire il romanzo in questione una sorta di memoria di famiglia,
parzialmente autobiografica, genere discusso in un recente articolo di Elisabetta Abignente. La studiosa definisce le memorie di famiglia delle narrazioni di vicende familiari filtrate attraverso il punto di vista di uno dei
membri della famiglia stessa8. Nel caso di Canale Mussolini, tuttavia, il narratore riporta i fatti così come sono narrati dai suoi familiari, restituendone
persino la mimesi del parlato. Questa si traduce con una resa dialettale di
esclamazioni e interi discorsi che indicano la stretta dipendenza della storia
ai fatti raccontati dalla coralità della famiglia, imponendosi come verità, ma
anche come testimonianza di cui il narratore si fa solo portavoce, astenendosi dal dare giudizi di valore sulle imprese compiute dai vari personaggi.
La volontà di mantenere una posizione neutrale è dichiarata dallo stesso
narratore; si veda ad esempio la seguente asserzione:
Io naturalmente adesso non è che le stia a dire che avessero ragione loro o
avessero ragione gli altri. Io le sto a dire solo come sono andati i fatti e come
– volta per volta – l’ha pensata la mia famiglia. Poi chi avesse ragione non lo
so, si faccia lei il giudizio suo sul torto o la ragione. (CM, p. 37)
8. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 6-17.
Questo
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
205
Allo stesso tempo, il romanzo può essere considerato un memoir
familiare, a patto che ci si ricordi di quanto dichiarato nella prefazione prima esaminata. Questa considera il romanzo una rassegna di fatti
verosimili, pur tuttavia dichiaratamente inventati, rendendo possibile
una sua inscrizione in una categoria che può essere definita una narrazione autentica9.
Per poter definire Canale Mussolini pienamente un romanzo di famiglia occorre fare riferimento a quegli elementi che sono stati definiti
come caratteristiche indispensabili per la definizione del genere10. Tra
questi, l’ampiezza temporale e la concentrazione spaziale sono certamente i primi due elementi che collocano il romanzo in linea con tali
caratteristiche. Infatti, il periodo cronologico è ampio e comprende più
generazioni, partendo dai nonni per arrivare ai nipoti, mentre lo spazio
della narrazione – sebbene ampio e vario poiché sotteso alle vicende
di guerra che vedono i protagonisti viaggiare all’interno e all’esterno
della penisola italiana – si basa sulla centralità della casa patriarcale.
Ancora in accordo con le caratteristiche del genere è il rapporto tra la
microstoria familiare e la macrostoria, in questo caso quella dell’ascesa
di Mussolini e più ampiamente dell’Italia. Nonostante questa aderenza
al canone tradizionale, Canale Mussolini spiccatamente dipinge il volto
di un’Italia, e di una famiglia, dichiaratamente non antifascista11. La
famiglia Peruzzi infatti, è convintamente fascista e organica al regime.
L’autore testimonia la sfacciata onestà dei membri della famiglia che
incarnano l’esempio della popolazione dell’epoca, nell’acclamare il fascismo e il Duce, con l’eccezione ironica del capofamiglia, il quale mal-
9 gmail.com
k
Questo E-boo
appa
rt
ie
n
e
a
il
a
ri
a
muoio8
9. Per maggiori dettagli sulle differenze tra narrazioni autentiche e inautentiche, si veda
Á. Heller, La memoria autobiografica, Roma, Castelvecchi, 2017.
10. Tra i pochi studi condotti sul genere, oltre al già citato contributo di Polacco del 2005,
si ricordano: Y.-L. Ru, The Family Novel: Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang,
1992; S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti
(a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640; K. Dell, The Family Novel in
North America from Post-War to Post-Millennium. A Study in Genre, Saarbrücken, VDM, 2007.
11. Molti romanzi autobiografici novecenteschi ritraggono preferibilmente famiglie
antifasciste, si veda Lessico familiare di Natalia Ginzburg, come anche Il giardino dei Finzi
Contini di Giorgio Bassani, oppure si pensi alle scritture autobiografiche di Carlo Levi, di
Piero Gobetti, dei fratelli Rosselli.
206
SIMONA DI MARTINO
parti
12. Si veda ad esempio il lavoro di Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce, Torino, Einaudi,
2011, nel quale l’autore ritrae atteggiamenti tipici delle masse facilmente riscontrabili nel
romanzo di Pennacchi, che, tuttavia, non trovano in questa trattazione lo spazio adeguato
per essere esaminati.
13. E. Canzaniello, op. cit., p. 108.
14. Y.-L. Ru, op. cit., p. 12.
k ap
Come già anticipato, Canale Mussolini non rispetta pienamente la
limitata concentrazione spaziale della vicenda familiare, cui invece ten-
-boo
2. Primo tema chiave: la casa, il podere 517
sto E
Al di là del realismo, dato dalla cronologia del racconto, il canone
del romanzo familiare include almeno altre tre fondamentali caratteristiche da riscontrare tra le pagine di Canale Mussolini: la presenza
di rituali e cerimonie, l’accadere di conflitti familiari e la coralità delle
voci14. Questi tre elementi si prestano a essere discussi all’interno di
una più ampia disquisizione sui temi chiave del romanzo, che verranno
affrontati nei paragrafi successivi. Alla luce di questa analisi, il romanzo
in questione potrà trovare una collocazione rispetto al genere qui discusso del romanzo familiare italiano.
Que
vede l’affetto e la confidenza di Mussolini verso la moglie12. Infatti, il 23
marzo 1919 a piazza San Sepolcro a fondare il fascio con Mussolini «e
un altro po’ di bella gente» c’era anche lo zio Pericle «e a lui il programma che aveva illustrato il Mussolini piaceva proprio perché difendeva
l’onore dei soldati, e la patria era ora che cominciasse ad essere riconoscente e soprattutto a dare la terra ai contadini, perché erano i contadini che la lavoravano e che avevano vinto la guerra» (CM, p. 69). Più
avanti nella narrazione, il Duce è descritto da un altro membro della famiglia nei seguenti termini: «Quello era un Uomo Speciale che ne nasce
solo uno per secoli e secoli» (CM, p. 69). Per dirla con Canzaniello, la
generazione che recupera la memoria del trauma privato della Seconda
guerra mondiale trova nel romanzo familiare la forma che favorisce un
recupero memoriale misto di privato e collettivo, dove spesso, come
accade in Canale Mussolini, le due prospettive coincidono13.
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
dono i romanzi familiari. Il motivo di tale deviazione dalla tipicità del
genere, che fotografa una realtà dilatata cronologicamente ma ristretta
spazialmente, è dovuto all’interesse dell’autore per il racconto del viaggio, tanto per quanto riguarda l’emigrazione dal nord al sud Italia, che
per i numerosi viaggi compiuti all’interno della macro-vicenda, spesso,
ma non solo, relativi alla guerra in corso. Il proposito dell’autore, infatti, non è solo narrare la storia della famiglia Peruzzi, e, fuori di metafora, della propria famiglia, ma anche raccontare l’Italia da un punto
di vista interno e personale, mediato appunto dai racconti tramandati
in famiglia, e in particolare di quella nuova realtà laziale nata sotto il
ventennio fascista. Il racconto, seppur ironicamente e soggettivamente, dà conto di accadimenti precedenti all’ascesa del Duce e successivi
all’intervento americano, dando l’idea di una complessità e una continuità che troveranno seguito nel romanzo successivo. La presenza di
un seguito, rappresenta un altro elemento di incontro con le caratteristiche del romanzo familiare, ossia, la necessità di una continuazione e
l’esistenza di una vera e propria saga familiare. Quest’ultima consente al
romanzo di rappresentare una sorta di totalità narrativa enciclopedica
e insiste su legami di sangue, eredità, lotte tra rami diversi della stessa
famiglia15. Alcuni di questi aspetti sono riscontrabili nell’atteggiamento della famiglia Peruzzi, specialmente per quanto riguarda il rapporto
con gli altri rami della famiglia, sebbene non si possa apertamente parlare di lotte. Il narratore pare tuttavia sottolineare il distacco della sua
famiglia dal ramo meno eroico, quello che non ha voluto affrontare il
viaggio. Dell’arrivo dei Peruzzi nell’Agro Pontino, il narratore racconta:
Qu
est
oE
-bo
ok
ap
pa
rtie
ne
Ci avevano portato i nostri cugini Peruzzi, quelli che erano sempre stati
assieme a noi anche a Codigoro e poi ci eravamo divisi, ma divisi sul lavoro,
sulle terre e sulla politica. La parentela era rimasta però, e l’affetto pure, anche se un po’ guardingo. […]
I nostri cugini però non vennero in Agro Pontino. Anche loro erano stati cacciati dai conti Zorzi Vila e pure a loro mio zio Pericle aveva offerto di venire.
Ma non avevano voluto: “Restiamo qua. Qualche cosa troveremo”. (CM, p. 169)
15.
E. Canzaniello, op. cit., p. 107.
207
a il
ari
a
a
k
-bo
o
SIMONA DI MARTINO
sto
E
e
Qu
ap
p
208
Tuttavia, non sarebbe veritiero dichiarare che, anche in Canale Mussolini, uno degli spazi fondamentali della narrazione non sia la casa.
L’elemento domestico è infatti fondamentale per il genere familiare, in
quanto mette in luce i legami ed esprime il livello di intimità e quotidianità dei membri della famiglia. Infatti, verso la metà del libro, dopo la
narrazione del viaggio e dell’insediamento, il narratore si dilunga nella presentazione del nuovo nucleo abitativo, il podere numero 517. La
prima disquisizione dell’autore è linguistica:
I poderi erano tutti uguali. O meglio, in realtà la parola podere significherebbe l’intero terreno assegnato ad ogni famiglia di coloni, che variava da
dieci a quindici o anche venti ettari di terra, a seconda della fertilità e della
possibilità di irrigazione. Ma noi da subito abbiamo cominciato a chiamare
il “podere” il casale dove abitavamo; neanche la stalla – che pure era attaccata – o i fienili o i magazzini, ma proprio la casa. Quello era il podere perché
sopra – sul fronte che dà verso la strada – su di un angolo al secondo piano,
scritto a lettere alte di pietra, c’era: “O.N.C. – Podere N. 517 – Anno X E.F.”.
(CM, p. 205)
Questo stralcio anticipa inoltre l’importanza del linguaggio familiare, composto da un lessico personalizzato ma preciso, che investe diversi campi semantici, a cominciare da quello particolarissimo, perché
più genuinamente vicino alla famiglia, della casa. È importante notare
inoltre che, sebbene siano due i poderi assegnati alla famiglia Peruzzi –
in quanto, come spiegato nel testo «due erano, nella nostra famiglia, i
combattenti della Prima guerra mondiale, zio Temistocle e zio Pericle»
(CM, p. 206) –, è attorno al 517, quello dove vivono i nonni, che l’intera
storia si sviluppa. La casa è descritta nei dettagli, esternamente e internamente, piano per piano, quasi a voler fare sfoggio dell’organizzazione
ingegneristica impeccabile, in contrasto con la descrizione del viaggio
in treno pesante e scomodo. A titolo esemplificativo, riporto qui uno
stralcio:
I poderi – ossia i casali – erano tutti celesti. A due piani. Col tetto a due falde
e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell’acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso – tondo – in
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
209
Ques
to E-b
ook a
cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano
verniciate di verde e non avevano persiane ma, all’esterno, zanzariere […]
poi i vetri e dietro, all’interno, gli “scuri” di legno verniciati chiari, pannelli
che richiusi non lasciavano filtrare la luce.
Al piano terra, sulla corte, davanti all’ingresso del podere c’era un tirabasso
– bow-window si dice adesso, o anche veranda – una tettoia coperta anch’essa con le tegole e tutta richiusa da zanzariere, con un sistema interno di
filo, carrucola e contrappeso che faceva richiudere al volo la porta, appena
veniva aperta. Dopo questo antingresso c’era il portoncino vero e serviva
appunto – l’antingresso – a tenere lontane le zanzare e non farle entrare in
casa. (CM, pp. 206-207)
ppart
iene a
ilariam
uoio8
9 gm
ail.co
Si può notare in questa parte di testo la presenza della voce narrante
che interviene per modernizzare il lessico, segnale tuttavia anche della
modernità della domotica dell’epoca fascista. Questo tipo di descrizioni, infatti, più che essere funzionale all’intreccio o delimitare lo spazio
delle azioni familiari, è testimonianza dell’epoca storica che l’autore tiene a evidenziare16. L’enfasi su questo aspetto è evidente nella descrizione del bagno dell’abitazione, che può essere letta come vero e proprio
documento storico. Questo l’estratto:
Dietro la casa invece, sul retro – a circa trenta o quaranta metri dal podere –
c’era il gabinetto, la latrina, una specie di garitta in muratura, un parallelepipedo con poco più di un metro quadro di base, alto più o meno un paio di
metri, con tetto a due falde e tegole di laterizio anche lui. […]
Il gabinetto era dietro, staccato dalla casa, e gli americani poi – quelli del
New Deal, non quelli della guerra e del Ddt – dissero che si chiamava
“prìvy” e che ce lo avevano anche loro fuori, nelle campagne loro, staccato
dalle case come si vede ancora adesso nei film western, tipo Gli spietati, che
16. Per approfondire lo studio della casa e degli ambienti domestici in epoca fascista, si
veda ad esempio M. Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista,
Torino, Bollati Boringhieri, 1993. Lo studio si sofferma principalmente sulla figura del salotto, una stanza curiosamente assente dal romanzo dei Peruzzi, ma dà conto della struttura
della casa fascista, similarmente alle descrizioni riscontrabili in Canale Mussolini, pur marcando chiaramente i confini tra la famiglia piccolo borghese e quella contadina, un’evoluzione che varrebbe la pena di analizzare alla luce di quanto narrato nel romanzo preso in esame.
m 20
210
SIMONA DI MARTINO
quando debbono ammazzare uno lo vanno ad aspettare proprio fuori del
prìvy. (CM, p. 271)
Lo stesso lessico utilizzato per indicare questo luogo è un marchio della
famiglia Peruzzi: «E tutti noi della famiglia Peruzzi […] lo abbiamo sempre
chiamato prìvy». Il narratore insiste sulla ricostruzione storica, sul cambiamento che la casa subì nel corso degli anni, con il susseguirsi delle generazioni, in un continuo oscillare tra la storia familiare e la grande storia17.
L’importanza della testimonianza è ribadita dall’insistenza sulla storia del
bagno nelle case dell’Agro Pontino, che continua per le pagine a seguire,
fino all’introduzione dell’ambiente all’interno della casa, testimonianza che
assume dunque il valore di vero e proprio documento storico:
Il prìvy, bagno o quel che sia, ad ogni modo viene portato in Agro Pontino
dentro l’abitazione – in ogni abitazione, sia di città che di sperduta campagna –
solo dopo il 1960, quando è arrivato il benessere e l’elettrificazione anche da
noi. Allora sì, giù acqua a volontà, perché oramai c’erano le pompe elettriche, i
serbatoi e le condutture per portare subito i nostri rifiuti lontani da noi, senza
più bisogno di andirivieni e pesantissimi secchi. (CM, p. 221)
Elemento fondamentale della descrizione dello spazio domestico è
la rappresentazione della vastità di tale spazio annullata dalla grandezza
fisica della famiglia. Più volte il narratore insiste su quanto i Peruzzi siano numerosi, su quante braccia lavorino i campi, su quanto poco senso
del privato ci fosseQ
trauiemembri
stessa famiglia, su quanto facilsto Edi-buna
ook a18.pLapcoralità del romanzo,
mente gli spazi disponibili venissero
saturati
artiene a
ilariamuoio
17. Approfondimenti sulla stanza da bagno si possono trovare in L. Wright, La civiltà in
bagno. Storia del bagno e di numerosi accessori, abitudini e mode riguardanti l’igiene personale,
Milano, Garzanti, 1960. Sul cosiddetto “Prìvy” si vedano: D. Booth, Nature Calls: The History, Lore, and Charm of Outhouses, California, Berkeley, Ten Speed Press, 1998; “Jackpine”
Bob Cary, The All-American Outhouse-Stories, Design & Construction, Cambridge, Adventure
Publications, 2003; P.J. Harrison, Garden Houses and Privies, Authentic Details for Design and
Restoration, New York, John Wiley & Sons, 2002; M.E. Gregory, S. James, Toilets of the World,
London, Merrell Publishers Ltd, 2006.
18. Si veda a questo proposito G. Chiaretti, Interni familiari. Relazioni e legami d’amore,
Milano, FrancoAngeli, 2002.
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
spesso esemplificata da espressioni ricorrenti, dal protagonismo vario
dei diversi personaggi, nonché dal palesamento dei pensieri di questi
ultimi, si riflette anche nella narrazione dell’intimità domestica. Al lettore è talvolta trasmesso un senso di oppressione e soffocamento, dato
dalla sintassi rapida e spezzata e dalle anafore che evidenziano la pienezza degli ambienti, il contatto costante tra i membri della famiglia. Si
veda ad esempio il seguente passaggio:
Era un podere nuovo di zecca. Un sacco di camere. I muri odoravano ancora
di calce, le porte di vernice e un podere così bello e spazioso non lo avevamo
mai visto prima. Ma noi eravamo tanti – troppi, le ho detto – e troppo spazio non c’era mai stato per nessuno. Come ti muovevi sbattevi in qualcun
altro. La gente, a quei tempi, stava sicuramente più comoda nella cassa da
morto quando moriva, che nella casa di famiglia insieme ai suoi parenti.
(CM, p. 214)
sto E
Que
La ripetizione anaforica di “troppo” insieme all’intervento del narratore, che ribadisce di aver già dato conto della grandezza della famiglia,
annulla la spaziosità prima descritta, evidenziando la sproporzione del
nucleo familiare. La visione antitetica della cassa da morto che viene
ironicamente rappresentata come dimora più comoda rispetto alla casa
di famiglia, iperbolizza il concetto di spazialità ridotta nel podere dei
Peruzzi. All’interno dell’ambiente casalingo, si possono inoltre trovare
delle aree più spiccatamente dedicate all’incontro familiare, dove il narratore può accentuare la grande concentrazione umana della casa. Tipicamente nei romanzi familiari, un ruolo preminente lo assume la tavola
da pranzo, come dimostrato da Abignente19. In realtà Canale Mussolini
part
k ap
-boo
19. Nel saggio di Abignente, il modello preso come riferimento per l’analisi del genere delle
memorie di famiglia è Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg, che viene confrontato con
uno snello corpus di testi con simili caratteristiche contenutistiche e formali: Le Labyrinthe du
monde (1974-88) di Marguerite Yourcenar, Harmonia Caelestis (2000) di Péter Estrházy, Die Box.
Dunkelkammergeschichten (2008) di Günter Grass e Les Années (2008) di Annie Ernaux. Un’analisi particolare viene riservata alle scene che vedono la famiglia riunita a tavola. L’autrice infatti
asserisce che «il rituale del pasto domestico, quotidiano o festivo, si presenta come significativo
terreno di incontro e di scontro tra le generazioni e come momento privilegiato della vita comunitaria nel quale ogni lessico familiare prende forma», cfr. E. Abignente, op. cit., pp. 11-15.
211
iene
a
212
SIMONA DI MARTINO
inscena poche rappresentazioni di pranzi e cene, più adatti alla rappresentazione dell’aristocrazia, come accade tra le pagine del Gattopardo,
dove vengono fotografati i pasti sontuosi della famiglia Salina, che non
adempirebbero allo stesso proposito dell’autore del romanzo in queom
c
.
stione, interessato alla rappresentazione dell’ambiente contadino dei il
a
Peruzzi20. Uno degli ambienti meglio descritti in Canale Mussolinimè
g
non a caso la cucina, area della casa più congeniale alla rappresentazio9
8
ne di una famiglia di contadini e cacciatori, descritta con tutto
il
o
i calore
familiare possibile, seppur insistendo sulla scomoda densità
uo umana:
m
ia
lar
A sinistra, subito dopo l’ingresso, la porta sempre aperta della cucina. Un
cucinone enorme col focolare in fondo in cui entrava – nel cucinone, non
nel focolare – tutta la famiglia patriarcale. Era questo il cuore del podere in
cui tutti assieme si mangiava – chi in piedi e chi assiso – e si discuteva pure,
se e quando era il caso. (CM, p. 212)
e
n
tr ie
a
i
a
p
ap
Che si tratti dell’ambientekfamiliare per eccellenza è facilmente dioo della porta sempre aperta, chiaro segnale
mostrato dalla caratteristica
b
di condivisione e spazio
E- comune21. Come tutte le cucine di famiglia,
o
t Peruzzi non solo si mangia ma si discute, e, come
anche in quella discasa
e
si vedrà più avanti
u nella trattazione, si discute parecchio. La stanza è
Ql’accrescitivo
indicata con
“cucinone”, grande abbastanza per accogliere l’intera famiglia, che comunque, non poteva trovare collettivamente
posto a sedere. La cucina appare tuttavia come una sorta di ambiente
diffuso nell’intera casa, a sottolineare nuovamente l’estensione della famiglia e l’intimità ugualmente diffusa, in aggiunta alla testimonianza
storica, sempre da tenere a mente. La diffusione della cucina negli altri
ambienti domestici è ben resa dalla seguente descrizione, riguardante
il forno per il pane:
20. Per uno studio sull’immagine del banchetto nel Gattopardo cfr.: M.T. Simeti, La tavola
del Gattopardo: la cucina siciliana tra letteratura e memoria, Palermo, Parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 2001.
21. Per una psicologia degli spazi interni si veda: G. Giordano, La casa vissuta: percorsi e
dinamiche dell’abitare, Milano, Giuffrè, 1997.
20
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
Qu
es
to
Ebo
ok
ap
pa
rtie
ne
a
ila
ria
muoio89 gmail.com 2012
Dall’altro lato della casa invece – sul lato corto opposto a quello della stalla –
c’era il forno per il pane. […]
Mia nonna cominciava la sera prima – e tutte le altre femmine insieme a lei
a impastare e rimestare – finché a notte la cucina era piena di forme di pasta
cruda messa a lievitare. E gli uomini ad accatastare la legna. E il giorno dopo
vai con il fuoco al forno, a cuocere il pane per tutta la mattinata. […]
C’erano tutte le stanze piene – da qualche parte dovevamo pure metterli, e
noi eravamo una marea e ci volevano maree di salami e cotechini per darci
da mangiare – e per tutto novembre-dicembre e anche gennaio-febbraio,
c’erano tutti questi soffitti con la roba che pendeva e tu dormivi e la notte,
ogni tanto, ti cadeva una goccia di grasso sulla faccia. (CM, pp. 222-224)
I ruoli domestici sono, come ci si aspetterebbe, ben definiti22. Le
donne impastano mentre gli uomini preparano la legna. L’insistenza
sulla poca disponibilità di spazio dovuta all’estensione familiare è nuovamente palesata nella descrizione della cucina diffusa, che vede cibi e
membri della famiglia mescolarsi in un unico grande ambiente condiviso.
3. Secondo tema chiave: il linguaggio dei Peruzzi
Al termine del romanzo, nella nota filologica si legge che il dialetto
veneto-pontino che si parla in Canale Mussolini non è rintracciabile nel
veneto antico e nemmeno in quello contemporaneo. L’autore chiarisce che la lingua parlata dalla sua famiglia è un impasto di più dialetti
– rovigotto, ferrarese, trevigiano, friulano e altri – privo di strutturazione grammaticale fissa e con cambiamenti riscontrabili spostandosi
da podere a podere e dipendenti dalla situazione, spesso anche nello
stesso parlante23. Il dialetto dei Peruzzi, è dunque tratto caratteristico
dei coloni dell’Agro Pontino, segno distintivo di personaggi che hanno
intrapreso l’epica discesa verso il Lazio, protagonisti dell’epopea fami22. Uno studio su spazi domestici e ruolo femminile nelle immagini letterarie si veda:
C. Cretella, S. Lorenzetti (a cura di), Architetture interiori: immagini domestiche nella letteratura femminile del Novecento italiano, Firenze, Franco Cesati Editore, 2008.
23. Cfr. Nota filologica, in A. Pennacchi, op. cit., p. 457.
213
214
SIMONA DI MARTINO
Quest
oE
liare che si sta qui analizzando. Tratto tipico delle famiglie è un particolare lessico, una sorta di gergo decifrabile quasi unicamente dai membri
della famiglia, che non manca di comparire in Canale Mussolini, anzi
sottolineando maggiormente la provenienza straniera della famiglia
nel nuovo territorio. Tuttavia, l’impiego del dialetto nella maggioranza
dei discorsi diretti che si trovano nel romanzo ha una valenza di testimonianza storica, ancora una volta, in quanto scelta consapevole del
narratore di soggettivare il racconto stesso. Tale decisione è ad esempio
ben rappresentata dai dialoghi che vedono protagonisti i personaggi
storici, anche Mussolini e lo stesso Hitler, impegnati in immaginarie
e semplicistiche, ma per questo dirette ed efficaci, conversazioni in
dialetto veneto-emiliano. Il lettore è dunque chiamato a immagine un
narratore in carne e ossa intento a riportare la sua narrazione come se
fosse stata appena raccontata da uno dei tanti zii dai nomi altisonanti.
Le parole di Hitler ad esempio, sono filtrate dal punto di vista del personaggio che le riferisce e la soggettività della storia, che pur sempre
rimane testimonianza di eventi storici innegabili, si fa allo stesso tempo
portavoce della coralità della famiglia. Si ricordi infatti l’uso dei possessivi plurali da parte della voce narrante. Quanto raccontato è condiviso
e tramandato dall’intera famiglia, che ha contribuito alla completezza
dell’intera storia confezionata per il lettore.
Il lessico familiare impiegato non è molto vasto, ma piuttosto ripetitivo. Motti e modi di dire si impongono ironicamente tra le pagine
della narrazione, ora a rimarcare la firma familiare, ora a sottolineare la
rusticità genuina dei protagonisti. Particolarmente significativa a questo proposito è l’esclamazione «Maladeti i Zorzi Vila», nata nel contesto della cacciata da parte dei padroni dal nord Italia e riproposta ogni
volta che qualche membro della famiglia si trova a dover fronteggiare
un problema o una disgrazia, necessariamente – s’intende – legata alla
maledizione abbattutasi sulla famiglia a seguito della suddetta cacciata.
Si veda un esempio in cui la maledizione verso i vecchi padroni è legata
invece a un evento positivo. Si ripropone qui la scena in cui i Peruzzi,
arrivati in Agro Pontino vanno a impossessarsi di alcuni capi di bestiame a loro disposizione. Tutta la famiglia festeggia felice l’inizio della
nuova vita all’interno della stalla nuova di zecca popolata da nuove be-
-b
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
Q
u
e
sto
stie, finché la nonna esclama: «In malora i Zorzi Vila e tuta l’Altitalia»
(CM, p. 184). L’espressione diventa talmente significativa e pregnante
per la famiglia, che anche i membri acquisiti, e più avanti i loro discendenti, maledicono i vecchi padroni mai conosciuti. Quando Armida, la
donna più bella, andata in sposa al coraggioso Pericle, saluta il nipote
Paride, consapevole di essere colpevole di un tradimento che sarà la sua
rovina, dice: «Grassie a ti, amore mio benedeto, grazie per sempre…
e siano benedetti anche i dolori che potranno venire dalla mia colpa,
maladeta tuta la rasa d’i Zorzi Vila» (CM, p. 425).
Ancora, espressioni dialettali ricorrenti sono «Come te sì bea»,
frase detta dal nonno alla nonna all’inizio del romanzo e poi in punto
di morte, nonché reiterata nella fase di corteggiamento dello zio Pericle verso la bella Armida, e anche «Dove sì ch’at copo?»; la prima a
dimostrazione della passione amorosa e della dolcezza che scorre nelle
vene dei Peruzzi e la seconda, esempio dell’impulsività sanguigna degli
stessi. L’invettiva dialettale è ugualmente spesso parte di un ritornello
che accomuna i vari membri della famiglia, senza distinzione di genere,
come l’espressione «Ch’at vegna un càncher», diretta in segno di protesta o indignazione intercambiabilmente a membri e non membri della
famiglia. Quando i figli dei capostipiti della famiglia si preparano per
partecipare alla marcia su Roma, la nonna si lamenta per il tempismo
dell’impresa, decisamente in disaccordo con la tabella di marcia della semina, ed esclama: «A Roma? E perché non più in là? Qui c’è da
seminare, desgrasià. Chi è che semina, ch’av vegna un càncher?» (CM,
p. 113). Piuttosto frequente anche l’insulto dialettale verso la popolazione locale, che, come ribadito precedentemente, appare agli occhi dei
coloni nordici talmente differente da sembrare straniera. Motivo per
cui l’appellativo dato dai Peruzzi a chiunque provenga da una certa latitudine in giù è «marucassi» alternato a «maruchin».
Tra le espressioni più chiaramente appartenenti al lessico familiare
si annovera l’iconica «firmato Peruzzi». Questa deriva dalla chiosa del
bollettino della vittoria della battaglia a Vittorio Veneto prima dell’armistizio del 4 novembre 1918, che appunto si concludeva con «Firmato
Diaz». Differentemente dalla maggior parte degli italiani, che fieramente avevano dato nome “Firmato” ai propri figli, i Peruzzi firmavano ver-
215
ok
E-b
o
tien
app
ar
216
SIMONA DI MARTINO
balmente le loro esclamazioni importanti con l’espressione «Firmato
Peruzzi», a indicare anche una decisione perentoria e inamovibile, e per
questo accompagnata spesso da «un bel pugno sul tavolo» (CM, p. 112).
In proposito, il narratore aggiunge: «ma anche quando calavano l’asso.
Specie mio nonno: “Firmato Peruzzi!”» (CM, p. 112).
4. Terzo tema chiave: la conflittualità familiare
La conflittualità tra i membri della famiglia, è l’ultimo tratto chiave
che questo saggio prende in considerazione. In Canale Mussolini, molte sono le scene che ritraggono conflitti, essendo la famiglia Peruzzi
particolarmente e fieramente irruenta e sanguigna, come anche precedentemente dimostrato. L’autorità matriarcale è quella più fortemente
temuta tra i Peruzzi, che si impone sia nel legame con il marito che in
quello madre-figli. I motivi dei conflitti sono vari e talvolta costituiscono le parti ironiche della storia narrata, pur sempre mettendo in luce
la gerarchia della famiglia, dove la nonna, matriarca, detiene il potere
decisionale. Si veda ad esempio la scena del ritorno del capofamiglia a
casa dopo aver registrato il nome delle nuove nate all’anagrafe.
E così dal 1904 al 1908 – che mio nonno aveva messo al mondo altri quattro
figli – ritenendo di fare cosa giusta, a uno aveva messo nome Treves, all’altro
Turati e le due femmine, le gemelline che adesso dormivano già un po’ strette […] le aveva chiamate una Modigliana mentre l’altra, per non fare torto a
nessuno, Bissolata.
[…] appena il nonno era tornato dall’averle registrate, mia nonna andò su
tutte le furie: “Bissolata? Ma che t’ha detto quella testa? Chi se la prende da
sposare? Non lo capisci che tutti la chiameranno Bìssola tua figlia?”. (CM,
p. 38)
L’episodio, che aprirebbe un’ampia parentesi riguardo l’onomastica
durante l’epoca fascista tuttavia sfociando in una digressione non consentita in questa trattazione, ha un forte sapore familiare e il dialetto
dei coloni gioca nuovamente un ruolo importante. Infatti, “bìssola” ha il
significato di biscia in italiano, e, nomen omen, il narratore assicura che
la zia in questione era una biscia di nome e di fatto, una serpe velenosa.
Questo
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
217
Al di là del disappunto della moglie verso il marito, l’episodio torna ad
affermare quell’ibridismo di generi che intreccia al documento storico
– il fatto che tra i nomi più registrati all’anagrafe ci fossero i cognomi dei personaggi politici più influenti dell’epoca – l’elemento epico e
leggendario, secondo cui i membri della famiglia Peruzzi presagiscono la personalità dei loro discendenti attribuendo loro i perfetti nomi
evocativi. Inoltre, la capacità quasi magica di avere delle premonizioni
rimane un tratto fondamentale della figura materna, tanto che il sogno
ricorrente della nonna che rappresenta la caduta di un “velo nero” è
effettivo presagio di morte nella realtà24.
Ancora, la figura matriarcale emerge prepotentemente in un altro
episodio, mettendo in evidenza, come spesso accade nel corso della
narrazione, la gerarchia familiare. Questo l’episodio accaduto dopo
l’uccisione involontaria di un prete da parte di Pericle:
Mio nonno invece non diceva niente. Capirai, se la moglie era arrabbiata col
figlio e decideva di starlo a rimproverare tutto il santo giorno, lui che faceva,
si metteva in mezzo? A dire cosa? A difenderlo? […]
Come dice? Che poteva intervenire anche lui a rimproverare il figlio? Sì,
peggio ancora. Ma allora non ha capito com’era fatta quella. “Di che ti impicci tu?” avrebbe detto. E pur di contrariarlo avrebbe cambiato idea lei, e si
sarebbe messa a dare ragione al figlio e torto a lui. Meglio farsi i fatti propri
quando quella partiva, e mettersi ad aspettare che le passasse. (CM, p. 54)
La dinamica familiare è qui lucidamente spiegata dalla voce narrante mediante la presentazione di una serie di domande retoriche, che
mette in risalto la testardaggine della nonna. L’episodio fa parte di una
costellazione di eventi propedeutici al grande scontro
finale, il conflitto
Qu
sto E
definitivo, che spiazza il lettore e che non lascia apertaealcuna
via-b
al-oo
k
ternativa. Ancora una volta, la decisione matriarcale è quella decisiva,
a cui nessuno può opporsi e che nessuno può attenuare. L’evento fonte
del conflitto, che stravolge per sempre le vite della famiglia Peruzzi, è
24. Si veda a questo proposito E. de Martino, Morte e pianto rituale: dal lamento funebre
antico al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 2000.
appart
ap
ok
bo
E-
l’unione incestuosa della bella Armida, moglie del valoroso Pericle partito per la guerra, con il nipote Paride Peruzzi, figlio di un altro membro
della famiglia. Parte della famiglia, scoprendo l’accaduto, si fa complice
dei due innamorati fino a quando la verità viene scoperta dalla nonna
e l’evento raccontato dal narratore con toni epici e drammatici assume
quasi la portata di una guerra fratricida.
pa
SIMONA DI MARTINO
es
to
Il dramma vero comunque fu quando vennero a saperlo da mia nonna, che
doveva arrivare questo bambino. Fu il finimondo. Una tragedia greca.
[…] Lei non ha idea di quello che è successo.
Erano ripresi ancora più forti i rumori dei bombardamenti dalle parti di
Cassino […] Ma niente in confronto a quello che è successo al podere 517
dei Peruzzi.
[…] Mio zio Adelchi sfasciava tutte le sedie per terra in cucina […] e sbatteva
piangendo la testa al muro. “Che vergogna, che vergogna” strillava mentre
sbatteva la testa – ‘Tòum, tòum, tòum’ – Che vergòògnaaaa!” e piangeva e
piangeva.
“Chi xè stà! Chi xè stà!” facevano tutti gli altri intorno […]
Mia nonna come l’ha avuta tra le mani l’ha sgrullata due o tre volte per le
braccia e tutto il corpo […] poi l’ha lasciata e le ha dato uno schiaffone forte
in faccia, e l’Armida ferma immobile, e mia nonna ha detto: “Chi xè stà? Chi
xè stà bruta putana?”
[…] “Deve essere stato qualche figlio del Temistocle, confessa!” hanno detto
a una voce zia Bìssola e zio Adelchi.
“Lasciate stare i miei fiòi!” ha detto come una bestia zio Temistocle, impugnando dal tavolo uno dei coltellacci del maiale. (CM, p. 432)
Qu
218
La drammaticità della scena è esacerbata dalla rapidità della descrizione, dall’uso del discorso diretto libero e del dialetto, che conferisce ancora una volta spontaneità ai personaggi. La violenza dei
gesti dei personaggi in contrasto con la staticità rassegnata di Armida
esaspera il conflitto familiare facendo risaltare la gravità della colpa
dei due peccatori. La nonna, alla pari di un dio punitore, esercita il
suo potere su Armida, sancendo per sempre il suo allontanamento
dalla famiglia.
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
La sentenza […] era pronunciata. Bando assoluto. Mia nonna mandò subito
il carretto da zio Temistocle a prendere le robe dell’Armida e dei suoi figli.
[…] Solo Menego – il piccolo – le lasciarono […] ma gli altri glieli tolsero
tutti e li dispersero uno ad uno per ogni famiglia dei Peruzzi. (CM, p. 433)
La crudeltà della punizione inflitta ad Armida, evocativa di un castigo degno di un tragico racconto epico, si ripercuote anche sulle generazioni a venire, in linea con i toni biblici manifestati nell’epopea dei Peruzzi sin dall’inizio. La donna viene allontanata dal podere e le vengono
tolti i figli, affidati alle cure dei Peruzzi del nucleo familiare originario
cui Armida non può opporsi:
All’Armida comunque oramai mancava solo la lettera scarlatta sulla fronte.
Non poteva più uscire o andare al borgo. Né a novene né a messe la domenica e neanche a Natale. Chiusa in casa se arrivava qualcuno. Non si doveva
proprio vedere. […] E il senso di vergogna ci riempiva tutti quanti. (CM,
p. 433)
L’ostracismo del personaggio di Armida è straziante, ma ancora una
volta, è occasione di manifestazione della coralità del romanzo. L’accumulo di negazioni che appesantisce l’elenco dei divieti imposti alla
donna è mozzato alla fine dell’estratto dalla congiunzione coordinante
“e”, quasi ad aggiungere l’ultima pena alla montagna precedentemente
costruita. La vergona e il disonore sono caduti come un velo sull’intera
famiglia Peruzzi, coralmente unanime nella decisione presa. L’epopea
familiare si interrompe qui, con l’esclusione di un membro dalla stessa
famiglia, quasi a ricordare che la famiglia segue un preciso codice d’onore, disatteso il quale è impossibile continuare a farne parte.
219
uoio
pparti
ene a i
lariam
Qu
est
o
E
b
o
ok a
Q
220
SIMONA DI MARTINO
Bibliografia
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia
oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Booth D., (1998), Nature Calls: The History, Lore, and Charm of Outhouses, California, Berkeley, Ten Speed Press.
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit.
Cary “Jackpine” B., (2003), The All-American Outhouse-Stories, Design & Construction, Cambridge, Adventure Publications.
Chiaretti G., (2002), Interni familiari. Relazioni e legami d’amore, Milano, FrancoAngeli.
Cretella C., Lorenzetti S. (a cura di), (2008), Architetture interiori: immagini domestiche nella letteratura femminile del Novecento italiano, Firenze, Franco
Cesati Editore.
Dell K., (2007), The Family Novel in North America from Post-War to Post-Millennium. A Study in Genre, Saarbrücken, VDM.
Giordano G., (1997), La casa vissuta: percorsi e dinamiche dell’abitare, Milano,
Giuffrè.
Gregory M.E., Sian J., (2006), Toilets of the World, London, Merrell Publishers Ltd.
Harrison P.J., (2002), Garden Houses and Privies, Authentic Details for Design and
Restoration, New York, John Wiley & Sons.
Heller Á., (2017), La memoria autobiografica, Roma, Castelvecchi.
Luzzatto S., (2011), Il corpo del Duce, Torino, Einaudi.
de Martino E., (2000), Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto
di Maria, Torino, Bollati Boringhieri.
Pennacchi A., (2008), Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Bari, Laterza.
Pennacchi A., (2010), Canale Mussolini, Milano, Mondadori.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
«QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO»
Ru Y.-L., (1992), The Family Novel: Toward a Generic Definition, New York, Peter
Lang.
Salvati M., (1993), L’inutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista,
Torino, Bollati Boringhieri.
Simeti M.T., (2001), La tavola del Gattopardo: la cucina siciliana tra letteratura e
memoria, Palermo, Parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa.
Wright L., (1960), La civiltà in bagno. Storia del bagno e di numerosi accessori,
abitudini e mode riguardanti l’igiene personale, Milano, Garzanti.
221
io
ia
mu
o
ien
e
p
p
a
rt
ok
a
to
Q
ue
s
E
bo
a
ila
r
Qu
ok ap
o
b
E
o
est
partie
La Gemella H:
ideologia e materialismo
nel romanzo familiare
Giacomo Tinelli
Questo
1. L’ipotesi
ria
m
u
o
io
8
9
gmail.c
e a ila
E-book ap
partien
La gemella H1 è un romanzo di Giorgio Falco che esce nel 2014
per Einaudi. La vicenda è ambientata tra la Baviera, Milano e la costa
romagnola, in un arco temporale che abbraccia tutto il XX secolo e
i primi anni del nuovo millennio. Al centro della narrazione ci sono
due gemelle nate nel 1933, Hilde e Helga, e loro padre, Hans Hinner,
un giornalista che più per opportunismo che per adesione ideologica
diventa direttore di un rotocalco di provincia trasformato in un organo
del partito nazionalsocialista tedesco. La madre, Maria Zemmgrund,
proveniene da una famiglia di nazisti della prima ora: suo padre trova nel
partito degli anni Venti l’unica entità pronta a difendere e rivendicare
orgogliosamente la sua mutilazione di guerra. Le prime pagine del
romanzo sono dedicate proprio alla descrizione della durissima vita
economica, sociale e politica nel primo dopoguerra a Bockburg, una
cittadina di fantasia pochi chilometri a sud di Monaco. La famiglia
approfitta poi delle leggi anti-ebraiche del 1935 per strappare ai propri
vicini ebrei, i Kaumann, la casa e l’automobile, ma ben presto Maria si
ammala di tubercolosi, ed è costretta a recarsi in un luogo dal clima
più favorevole alla cura, ossia Merano, in Alto Adige. Siamo alla fine
degli anni Trenta, e la città sta vivendo una profonda crisi del mercato
immobiliare a causa delle “opzioni” in Alto Adige, il sistema stabilito
1. G. Falco, La gemella H, Torino, Einaudi, 2014, di seguito nel testo indicato con l’abbreviazione GH.
om 20
GIACOMO TINELLI
224
da Italia e Germania nel 1939 per risolvere il contenzioso sui territori
della regione. Molti alto atesini di cultura tedesca svendono casa per
traslocare nel terzo Reich, il prezzo degli immobili crolla e la famiglia
Hinner ne approfitta per un’ulteriore, vantaggiosissima, acquisizione
patrimoniale. La famiglia vive separata mentre infuriano gli anni della
guerra: la madre con le gemelle a Merano, Hans a Bockburg, a capo
del giornale. Quest’ultimo, concluso il periodo bellico e fuggito dalla
Germania, riesce a raggiungere a Merano le figlie e la moglie, che però
muore l’anno seguente di tubercolosi. Abbandonata per sempre la Germania, Hans, Hilde e Helga ricominciano da Milano, la città-simbolo
della ricostruzione postbellica. E infine, all’alba degli anni Cinquanta, la
famiglia si trasferisce a Milano Marittima, sul litorale romagnolo, dove
avvia un’attività alberghiera (l’hotel Sand) e partecipa alla ricostruzione
e ai benefici del cosiddetto “miracolo” economico.
Il testo ha una stretta relazione con il genere del romanzo storico
dunque, specialmente nella prima parte, che racconta gli antefatti degli
Hinner e degli Zemmgrund in uno stretto rapporto con la storia. E ciò
è evidente poiché, come afferma Lukács, in effetti «il particolare modo
di agire degli uomini [deriva] dalle caratteristiche storiche dell’epoca
loro»2. Qui le vicende, le emozioni, le parole, i destini e insomma l’intera caratterizzazione e la funzione dei personaggi è legata in modo
indissolubile alle vicende storiche e politiche della Germania degli anni
Venti e Trenta. Eccone un esempio nella reazione della madre di Hans
alla notizia del fidanzamento del figlio con Maria:
Impugna la forchetta, che sembra pesare dieci chili, prima di precipitare nel
piatto. Ascolta tua madre. […] Maria Zemmgrund è figlia di un invalido!
Invalido di guerra, ma sempre invalido. Suo padre è nazista, Hans, sono bifolchi, noi siamo nazionalisti, non nazisti, la monarchia è tradizione e classe,
perché legarsi alla figlia di Zemmgrund, lo zoppo? (GH, p. 16)
Qudella madre, nel
A questo indiretto libero che focalizza il punto di vista
esstoricamente
quale già di per sé compaiono in nuce una serie di questioni
t
oE
-bo
2.
G. Lukács, Il romanzo storico, Torino, Einaudi, 1965, p. 9.
ok
ap
pa
rt
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
determinate che influiscono sul suo giudizio personale rispetto all’opportunità del matrimonio (le relazioni iniziali tra partito nazionalista e partito
nazista, lo snobismo piccolo borghese di una famiglia artigiana della provincia bavarese, la contrapposta composizione di classe che caratterizza
le due compagini politiche a inizio novecento), segue un brano che contestualizza storicamente il problema degli invalidi di guerra a Bockburg
e della disoccupazione e che rafforza dunque la relazione tra i destini di
questa particolare cittadina immaginaria e la Storia del Novecento.
Tuttavia, i problemi che La gemella H pone sul piano storico sono costantemente passati attraverso il filtro sociale e affettivo della famiglia.
Le azioni, i desideri e i destini individuali dei personaggi, che esibiscono una relazione cogente con la storia, sono cioè interamente concepiti
all’interno delle relazioni affettive e di interesse familiari. D’altra parte
già Marina Polacco aveva individuato il rapporto vincolante che lega i
due generi, avanzando l’ipotesi che il romanzo familiare possa essere
considerato una sorta di romanzo storico, in cui paradossalmente si
e
tr ie
n
a
i
a
k
bo
o
to
ap
p
i
E-
ue
s
Q
uo
m
lar
ia
affronta un discorso storico anche senza parlare di fatti storici, o magari
parlandone solo incidentalmente: ma la vicenda narrata costituisce di per
sé una proposta di interpretazione di fenomeni e processi storici di portata
epocale […]. La storia della famiglia diventa allegoria della storia di una comunità […]3.
La Gemella H fornisce allora l’occasione per tentare di comprendere
quale tipo di rapporto possa instaurarsi tra i due generi. L’ipotesi principale di queste pagine è che Falco abbia realizzato una sorta di romanzo che osserva la storia da un punto di vista materiale, mettendo in luce
il carattere ideologico della famiglia e delle narrazioni politiche che ne
accompagnano il passaggio dall’epoca nazifascista a quella del capitalismo dei consumi e della democrazia liberale4. La famiglia si confi-
3. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13,
2005, pp. 121-122. Cfr. anche ibid., p. 115.
4. Cfr. R. Saviano, Un nazista piccolo piccolo dal Terzo Reich a Rimini, in «La Repubblica»,
20 febbraio 2014; E. Trevi, I frutti laboriosi di un piccolo peccato, in «Corriere della Sera», 2
marzo 2014; A. Cortellessa, Giorgio Falco. La gemella H, in «Doppiozero», 15 marzo 2014;
225
GIACOMO TINELLI
gurerebbe allora come un sintomo difensivo rispetto alla continuità
materiale della storia, tramandata attraverso la catena patrimoniale che
ha radici nell’atto infame dell’acquisizione ad un prezzo irrisorio della
villa dei Kaumann e che di fatto, dopo una serie di passaggi territoriali,
consente l’investimento nell’hotel Sand. Il puro e semplice furto nazista
si trasforma allora, e solo retrospettivamente, in una sorta di accumulazione originaria, poiché permette di raccogliere il capitale necessario
all’avvio dell’attività imprenditoriale5.
Althusser colloca la famiglia nell’ambito dei cosiddetti «apparati
ideologici di stato», che occorrono a garantire la riproduzione delle
condizioni di produzione. In quanto tale, la famiglia partecipa dunque
alla costruzione ideologica, che
A proposito delle qualità che un romanzo di famiglia deve mostrare
per essere ritenuto e interpretato come tale vi è una sostanziale con-
G. Fofi, Aggrappati ai consumi, in «Internazionale», 26 marzo 2014. Queste e altre recensioni
sono raccolte in A. Cortellessa (a cura di), La terra della prosa. Narratori italiani degli anni
Zero (1999-2014), Roma, L’Orma, 2014, pp. 461-465.
5. Sull’accumulazione originaria cfr., naturalmente, K. Marx, Il Capitale. Libro I, Torino,
UTET, 1996, pp. 743-775. Il concetto è qui utilizzato in maniera abbastanza fedele all’idea
marxista: un furto originario che si trasforma in capitale di investimento.
6. L. Althusser, Sull’ideologia, Bari, Dedalo libri, 1976, p. 59.
a ilariam
partiene
2. Il romanzo di famiglia
-book ap
Da questo punto di vista, la famiglia e le sue relazioni interne, allora, non sono che un filtro immaginario che plasma la percezione rappresentativa della posizione dell’individuo rispetto al ruolo economico-sociale che riveste nella società.
uoio
rappresenta non i rapporti di produzione esistenti (e gli altri rapporti che
ne derivano), ma prima di tutto il rapporto (immaginario) degli individui ai
rapporti di produzione e ai rapporti che ne derivano. Nell’ideologia è dunque rappresentato non il sistema dei rapporti reali che governano l’esistenza
degli individui, ma il rapporto immaginario di questi individui con i rapporti reali nei quali vivono6.
Questo E
226
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
vergenza della critica attorno ad alcune caratteristiche fondamentali7.
Anzitutto, è universalmente riconosciuta la rilevanza discriminante
del cronotopo: una delle qualità del genere è una specifica articolazione tra le linee narrative spaziali e quelle temporali. L’arco temporale
ampio, che corrisponde ad almeno tre generazioni e mostra la dialettica dei rapporti tra esse, si abbina ad un’estensione spaziale ristretta,
claustrofobica, tesa a mettere in risalto l’intimità delle scene familiari
«endogamiche», «la ricorsività dei riti familiari»8. Sarà proprio questa prima e rilevante caratteristica ad essere posta in questione dal
caso di studio che abbiamo scelto, poiché se il requisito temporale
è tutto sommato soddisfatto, quello spaziale è tutt’altro che riconoscibile: il luogo di residenza e di attività della famiglia si sfrangia in
molteplici beni immobili tra la Baviera, l’Alto Adige, Milano e infine
la Romagna, occupati e utilizzati a seconda dell’opportunità del momento9. Come già osservato, l’elemento della casa è ciò che identifica
la catena patrimoniale della famiglia, indicandone le radici nell’atto
nazista. Per farlo deve necessariamente mobilizzarsi, poiché è proprio grazie a tale caratteristica che essa assume il ruolo di capitale
di investimento a partire da un ruolo esclusivamente patrimoniale. È
solo occultando il filo che riconduce la casa di Merano, poi quella di
Milano e infine l’Hotel Sand, alla villa di Bockburg che gli immobili
possono legittimamente trasformarsi in capitale di investimento per
la futura attività familiare.
Una conseguenza di tale organizzazione temporale, individuata da
Yi-Ling Ru, è l’articolazione tra dimensione diacronica (e, appunto, la
dinamica, i contrasti del rapporto tra generazioni) e dimensione sin7. Cfr. Y.-L. Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang,
1992; M. Polacco, op. cit.; S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX
secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640.
8. Ibid., p. 635. A proposito dei pasti come scene tipiche del romanzo familiare cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in «Enthymema»,
20, 2017, pp. 11-15.
9. L’elemento della casa come cronotopo significativo era già chiaramente apparso
nell’attività di Falco con L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi, 2009 e si confermerà centrale
in seguito con G. Falco, S. Ricucci, Condominio oltremare, Roma, L’Orma, 2014 e con G. Falco,
Ipotesi di una sconfitta, Torino, Einaudi, 2017.
227
Qu
es
to
E
ila
ria
a
ne
ar
tie
GIACOMO TINELLI
es
to
E-
bo
o
ka
pp
cronica della famiglia, che dipinge cioè le relazioni orizzontali, relative
a un particolare momento, tra le figure familiari10.
Il doppio sguardo, da un lato alla cronologia passata della famiglia,
dall’altro alla rappresentazione delle relazioni in una particolare sezione di tempo, determina a sua volta un’ulteriore caratteristica, ossia una
gestione del tempo narrativo che procede per
salti, discontinuità, accelerazioni e sospensioni, attraverso una successione di scene collocate in momenti cronologici a volte molto distanti l’uno
dall’altro. Lo sviluppo lineare della fabula, costruita da una progressione di
avvenimenti, non trova necessariamente riscontro nell’intreccio: la materia
deve essere selezionata, ridotta, riorganizzata11.
Qu
228
Nella Gemella H è proprio quest’ultima caratteristica a consentire
l’organizzazione del racconto secondo una disposizione e un modo
tale per cui gli avvenimenti storici emergono solamente in controluce
rispetto alla narrazione delle relazioni interfamiliari. La narrazione
della guerra è un esempio chiarissimo ed eloquente rispetto alle scelte
dell’autore in tal senso. I mesi bellici sono colti attraverso una scrittura
intimistica come quella epistolare (le brevi lettere che Hans e Maria si
scambiavano tra Bockburg e Merano) e in un’accelerazione vertiginosa
del racconto. Eccone un esempio:
Caro Hans,
[…] Quanto alla guerra, c’è bisogno di tutti, soprattutto dei giornali e della
radio. Se potessi sarei lì a dare il mio contributo. Come possono combattere
i soldati senza qualcuno che lavora in patria per assicurare loro armi e cibo?
10. «The family novel is developed along line through the evolution of several generations.
The cronology constructs a long, foward-moving vertical structure. At the same time, all kinds
of conflicts among family members, including those between brothers form what might be
described as the horizontal structure», in Y.-L. Ru, op. cit., pp. 36-37, citato in M. Polacco,
op. cit., p. 109.
11. Ibid., p. 110. A proposito già A. Sarchi ha notato che il testo «procede per accumulo e non per intreccio», La gemella H in «alfabeta2», 26 marzo 2014, in https://www.
alfabeta2.it/2014/03/26/gemella-h/, anch’esso raccolto in A. Cortellessa (a cura di), La terra della prosa, cit.
art
p
ap
k
o
bo
E
o
t
s
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
e
Qu
[…] L’Italia è in guerra e ora pensa ad altro. In molti dicono che i nostri soldati entreranno in Sudtirolo. Se Merano diventasse il Terzo Reich potresti
trasferirti subito!
Tua,
Maria
(GH, pp. 140-141)
La Storia rimane un cartonato scenografico sfocato in una pagina intimistica, sullo sfondo delle relazioni: ciò che importa qui è rassicurare
subito Hans della sua utilità per le sorti del Reich, anche se egli non vede
il fronte, cioè il luogo dove più evidentemente sta passando la Storia. La
questione propriamente storica della guerra resta in secondo piano, sotto
forma di un senso di colpa che la moglie sa consolare attraverso la scrittura. Tra l’altro, la scelta del tema dei lavoratori tedeschi che non hanno
vissuto direttamente la guerra ma che tuttavia hanno garantito la continuità produttiva necessaria allo sforzo bellico è significativa proprio in
relazione all’attitudine del romanzo familiare di occuparsi di Storia senza
perciò parlare direttamente di fatti storici: nessuna grande battaglia è citata (solo il generico “fronte orientale”), nessuna grande parata scenografica è rappresentata per denotare il nazismo12. La Storia, allora, produce
conseguenze prima di tutto familiari: l’operazione tedesca nel Sud Tirolo
è messa in luce dal punto di vista della famiglia e in particolare di Maria,
che la ritiene auspicabile per un ricongiungimento del nucleo.
3. Il rapporto con il romanzo storico
Il romanzo, segnatamente nell’accezione che la lingua inglese affida al termine novel, ha come terreno prediletto il campo della medietà,
dell’esistenza particolare immersa nell’inevitabile prosaicità del mondo13. In quanto tale, il romanzo che si occupa di storia è stato spesso col-
12. L’unica parata nazista che compare nel romanzo sembra, anche in questo caso, un’occasione per mettere in luce i rapporti sincronici tra personaggi più che la costruzione del
consenso nazista. Cfr. G. Falco, La gemella H, cit., pp. 33-34.
13. «Il romance serio sposta il baricentro della narrativa europea: introduce eroi che lottano per scopi individuali e non per scopi collettivi; si interessa al destino immanente delle
229
GIACOMO TINELLI
230
to nella sua relazione con alcune correnti storiografiche novecentesche,
come la storia sociale o la microstoria14. Il genere mette cioè al centro le
vicende della storia “dal basso”, mostrando come l’influsso delle vicende storiche agisca direttamente «sui destini privati degli uomini, sulla
trasformazione esteriore della vita e sull’intimo modificarsi del comportamento etico-sociale»15. Una caratteristica che offre la possibilità
di rappresentare la medietà nella storia. In fondo, Hans Hinner, la sua
attività di giornalista di un rotocalco provinciale progressivamente nazificato, l’azienda familiare del boom economico, sono tutti elementi
che tracciano i confini di quella zona grigia evocata per la prima volta
da Primo Levi16 e che conserva ancora uno scandaloso mistero etico e
storico. Gli Hinner incarnano cioè una vita popolare e piccolo borghese
che la storiografia ha molte difficoltà a cogliere proprio in virtù della
sua normalità, in un momento storico che è spesso dipinto come un
tempo che ha per definizione espunto la normalità dal suo orizzonte
di esistenza storico17. La Gemella H offre allora un punto di vista corale e complesso di una famiglia appartenente alla medietà, uno sguardo
che eccede l’identificazione con qualcosa di “totale”: ben al di sotto di
quel “male assoluto” rappresentato dal nazismo nei suoi meccanismi
più efferati; ma anche al di sopra della condizione di vittima inerme e
miserevole che rappresenta il contraltare ideologico di tale immagine
assolutistica18. La storia non ammette perfezione né purezza di stati ontologici o morali, e il romanzo storico, e ancor di più quello familiare,
Q
ue
st
o
E-
bo
ok
ap
pa
rti
en
e
a
ila
ria
m
uo
persone, e non ai significati universali di cui le persone sarebbero portatrici. Tuttavia […] la
transizione diventa vistosa solo col novel e con i suoi eroi ordinari», in G. Mazzoni, Teoria
del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, p. 162.
14. Cfr. E. Piga Bruni, La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo, Sesto San
Giovanni, Mimesis, 2018, p. 91.
15. G. Lukács, Il romanzo storico, cit., pp. 395-396.
16. P. Levi, La zona grigia, in Idem, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, pp. 24-52.
17. Ad Hans «si può imputare solo un’infamia minore, […]. Un gesto che il suo senso
degli affari e il suo amore per la famiglia provvede a salvaguardare da ogni scrupolo morale»,
in E. Trevi, op. cit.
18. Il senso della critica alla identificazione con la vittima come strumento di legittimazione è in D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Roma, nottetempo, 2014.
io
89
gm
ai
l.c
om
20
12
28
09
ien
t
r
a
pp
a
k
oo
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
e
Qu
-b
E
sto
è un luogo ideale per ospitare tale ambiguità: «Grigio è il colore-chiave
[…] de La gemella H. E grigia, con scelta precisa e coraggiosa, si è fatta
pure la scrittura di Falco […]. Nessuno aveva avuto sinora il coraggio di
far proprio il punto di vista della Zona Grigia»19.
Potremmo affermare, allora, che anche La gemella H dà forma a ciò
che Emanuela Piga Bruni ha descritto come il “negativo” della storia,
ossia ciò che fatica ad emergere, le ambiguità morali, le contraddizioni
interne alle varie fazioni sociali e politiche in lotta, i traumi non
simbolizzabili dal discorso della memoria collettiva e insomma il lato
osceno – nel senso etimologico di “escluso dalla scena” – della storia20.
Il testo non si limita ad indagare gli anni del nazismo, ma oltrepassa
l’evento storico della Seconda guerra mondiale, addentrandosi, più o
meno con lo stesso atteggiamento epistemologico e rappresentativo
riservato agli anni del Terzo Reich, nell’epoca della ricostruzione postbellica e poi del cosiddetto “miracolo” economico. Il fattore di maggior interesse risiede proprio nella continuità spietatamente prosastica
del grigiore della normalità, che prosegue in un mondo che la storiografia21 – e non solo l’immaginario del senso comune – contrappone
radicalmente, in termini assiologici e politici, al fascismo. La scrittura
de La gemella H conduce in fondo ad una esperienza di realismo come
straniamento, un’interruzione delle stereotipie ideologiche nella rappresentazione di un’epoca storica: è cioè la «sottrazione dell’oggetto [in
19. A. Cortellessa, Giorgio Falco. La gemella H, cit.
20. E. Piga Bruni, op. cit., pp.161-207.
21. Ho esitato sull’opportunità di utilizzare, in sostituzione di “storiografia”, il termine
“memoria”, connotando così la rappresentazione dei fatti in termini di narrazione epica, fondativa e assiologica, del presente sociale e politico. Scelgo invece di riferirmi alla storia poiché
mi sembra che, al netto di spesso distantissimi livelli di complessità e problematizzazione, vi
sia un universale consenso su una valutazione positiva del “boom” che, a partire da dati indubitabilmente significativi riguardanti i progressi economici e sociali, tracima, più o meno
consapevolmente, nel giudizio morale. Ne sono testimonianza le varie metafore utilizzate per
descrivere il periodo (“miracolo”, il “boom” economico, il periodo d’oro, ecc…). A proposito,
per una questione di sintesi, si rimanda a A. Villa, Il miracolo economico, in Enciclopedia Treccani,
2013, in http://www.treccani.it/enciclopedia/il-miracolo-economico-italiano_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Tecnica%29/, (consultato il 18/06/2020).
231
GIACOMO TINELLI
232
questo caso dell’oggetto storico] all’automatismo della percezione»22.
Il filo materialistico che annoda l’epoca nazista e il tanto celebrato periodo di sviluppo economico (un filo simboleggiato dal patrimonio
immobiliare che consente alla famiglia di costruire la propria fortuna
particolare nello sviluppo economico collettivo e che trova radici in un
atto di forza commerciale) è affidato a un doppio vettore: da un lato
tematico, dall’altro formale.
Il corrispettivo tematico è appunto la famiglia, che consente di mostrare i silenzi che provvedono alla rimozione sia della vita privata degli
individui, sia della storia. È la famiglia a rendere osceno il passato: quello
relativo alla dimensione psichica morale e individuale e quello relativo
alla vera e propria storia collettiva, svolgendo una doppia funzione di
rimozione ideologica e garanzia di continuità materialistica, solo apparentemente contraddittoria. Nel seguente brano vediamo risolto, attraverso una negazione perentoria, un potenziale conflitto (che avevamo
già incontrato) riguardante il fidanzamento di Hans con Maria:
la famiglia è un gruppo di persone eterogenee che passa la propria vita negando i conflitti esistenti, spesso causa di segreti imbarazzanti, e così anche
Rosie pensa, mettendo una patina infelice sullo sguardo: Hans, mai parlato
male di tuo suocero, a Bockburg esiste almeno una ventina di zoppi. (GH,
p. 32)
Questo E-book appartiene a ilariamuoio8
L’amore per la famiglia, allo stesso modo in cui ha garantito l’epoché
morale sull’acquisto della villa dei Kaumann, assicura una trasformazione del passato in termini di coerenza con il presente: in questo caso
sopendo un conflitto. Quando invece, anni dopo, non appena conclusa
la guerra e arrivato Hans nella casa di Merano, alla famiglia occorre
occultare il proprio passato, le vicende private si sovrappongono alla
storia, e quest’ultima si riduce a un elemento strettamente intimo, da
dimenticare, metaforizzato significativamente dalla vergogna e dall’oscenità della sessualità infantile:
22.
V. Šklovskij, Teoria della prosa, Torino, Einaudi, 1976, p. 12.
Qu
es
t
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
In giardino, solo quattro anni prima il nostro gioco preferito è: giochiamo
ai figli di Bormann. Nella primavera del 1945 quel momento non appartiene alla Storia, ma alla sfera intima, l’ambito di un sogno lontano, forse
mai avvenuto, come il reciproco spogliarsi infantile tra sorelle, alle due di
pomeriggio con il sole, per scoprire qualcosa di privatissimo e banale, da
dimenticare. (GH, p. 163)
È proprio attraverso tale sovrapposizione tra storia pubblica e
intimità che il romanzo familiare aggancia la storia, confermando la
tipica dimensione allegorica che istituisce il rapporto strutturale tra
i due generi. La famiglia si trasforma in una sorta di negativo della
storia, in un doppio senso: da un lato negandola, rimuovendola,
agendo da elemento di riciclaggio ideologico; dall’altro dandone
un’immagine negativa, ossia con valori tonali invertiti rispetto alla
consueta rappresentazione. La famiglia può allora garantire una
discontinuità ideologica e immaginaria, ma anche una continuità
materiale, la persistenza di un nodo di interessi fondamentalmente
economici. Ed è esattamente questa la forza della prospettiva ne La
gemella H. Del resto, Hans Hinner assomiglia molto ad un uomo di
affari degli anni Cinquanta e Sessanta già durante il terzo Reich. Egli
comprende bene come il mondo che si affaccia alla storia è quello del
mercato e della spregiudicatezza economica: la carriera nel giornale
è condotta più secondo una logica di opportunismo arrivistico che
per adesione ideologica23; l’acquisto della casa, sia quella a Bockburg,
strappata ai vicini ebrei ad un prezzo irrisorio, sia quella di Merano,
sono condotte secondo logiche di mercato, in cui la regola che più
condiziona gli acquisti è quella di domanda-offerta, per quanto possa
essere politicamente alterata. Ciò che evidenzia il romanzo è che se
queste alterazioni politiche passano nella storia, non passa invece, ma
rimane e al limite si trasforma, l’accumulazione del patrimonio: gli
Hinner sono stati in grado di occultarlo, mobilizzarlo e trasformarlo
in capitale economico.
23.
E. Trevi, op. cit.
233
GIACOMO TINELLI
234
Il benessere che la famiglia Hinner progressivamente acquista è interamente materialistico, descrive un orizzonte consumistico, è fatto di merci,
e la provenienza delle ricchezze si dipana già prima della fortuna imprenditoriale su una catena a proposito della quale a nessuno interessa l’origine:
I nostri soldi sono di Hans Hinner. I soldi di Hans Hinner sono i soldi di
“Mutter”. I soldi di “Mutter” sono i soldi del partito. Donazioni spontanee,
forzose, lasciti di vecchie vedove che muoiono e regalano i loro beni immobili al partito. E dal partito al giornale. E dal giornale a noi. […] Gli abitanti
di Bockburg non vedono, non vogliono vedere.
Abbiamo il frigorifero elettrico […]. Abbiamo l’aspirapolvere […]. Abbiamo
il ferro da stiro a vapore, l’asciugacapelli […]. Abbiamo la lavatrice e la lavastoviglie, il tostapane automatico […]. (GH, p. 74)
Qu
to
es
Il benessere tipico del boom economico e del passaggio al capitalismo
dei consumi è decisamente anticipato grazie al senso degli affari e all’opportunismo di Hans Hinner. È per questo motivo che il padre delle gemelle,
una volta scampato definitivamente dai processi ai nazisti e risistematosi
economicamente sulla riviera romagnola, può permettersi di affermare che
«non parliamo mai di politica, è una delle regole della nostra famiglia» (GH,
p. 276) e, senza contraddizione, osservando la zona industriale di Ravenna, uno degli esiti paesaggistici del mondo capitalistico postbellico, che «il
nostro mondo, pensa Hans Hinner, [è] quello che ha vinto» (GH, p. 322).
La politica, dunque, va esclusa assieme alla storia; mentre il dato economico assume una centralità sulla quale cala un ostinato silenzio. A proposito
de La gemella H si potrebbe affermare più o meno ciò che Engels ha detto
di Balzac, cioè che l’autentico romanzo realista (in un senso aristotelico di
mimesis al reale “oggettivo”) non ricostruisce anzitutto le idee (tanto meno
quelle dell’autore), né la politica di per sé, bensì segue in prima istanza la
“roba”, il filo materialistico che disegna gli equilibri e le trasformazioni della
lotta di classe in un determinato periodo24.
bo
E-
a
ne
ie
art
pp
a
ok
mu
ria
ila
24. «Balzac […] in “La Comédie humaine” gives us a most wonderfully realistic history of French “Society”, especially of le monde parisien [the Parisian social world], describing, chronicle-fash-
8
oio
Qu
es
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
4. Hilde e Helga
Se la famiglia è il nucleo tematico al quale si aggancia l’osservazione della discontinuità ideologica e della continuità materialistica della merce e dei rapporti economici, l’originalissima impostazione della
voce narrante ne offre il piano formale.
La struttura narratologica del romanzo è estremamente complessa25. Il libro è diviso in due parti da un intermezzo che rappresenta la
prolessi del suicidio di Hilde, nel 2013, alla quale è affidata la prima sezione del libro (che arriva cronologicamente fino agli anni Cinquanta).
La seconda sezione è intitolata invece a Helga. Ciascuna parte è caratterizzata da una focalizzazione narrativa che solo a tratti coincide con
la gemella che dà il nome al capitolo. Il punto di vista è infatti estremamente mobile e spesso conteso con un narratore esterno, talvolta con
altri personaggi. Ciò permette anzitutto di mettere in luce la radicale
alterità delle due sorelle, dai caratteri e dalle idee sostanzialmente contrapposte. Helga è la gemella che ha accettato più dolcilmente, ma anche, vedremo, meno ideologicamente, l’eredità del padre. È nell’attacco
della sezione a lei intitolata che si esplicita chiaramente la continuità
materiale offuscata dalla discontinuità ideologica:
Le nostre azioni passate svaniscono, seppellite dagli stereotipi. Il Grande
Male. La Belva Umana. Il Criminale Assoluto. […] Ridimensionata la visibi-
ion, almost year by year from 1816 to 1848 the progressive inroads of the rising bourgeoisie upon
the society of nobles, that reconstituted itself after 1815 and that set up again, as far as it could, the
standard of la viellie politesse française [French refinement]. […] Around this central picture he
groups a complete history of French Society from which, even in economic details (for instance the
rearrangement of real and personal property after the Revolution) I have learned more than from
all the professed historians, economists, and statisticians of the period together», in F. Engels, Letter to Margaret Harkness in London, in L. Baxandall, S. Morawski (a cura di), Marx and Engels
on Literature and Art, St. Louis, Telos Press, 1973 (in https://www.marxists.org/archive/marx/
works/1888/letters/88_04_15.htm) (consultato il 3 luglio 2020).
25. D’altra parte il racconto del “negativo” è spesso caratterizzato da contorsioni linguistiche o da particolari difficoltà discorsive: cfr. E. Piga Bruni, op. cit., pp. 161-162; il romanzo
familiare, invece, «si presenta come una sorta di macro-genere, una summa delle potenzialità
(formali e tematiche) di volta in volta esperibili. È sempre, tendenzialmente, una sintesi enciclopedica del “narrabile” in una data epoca», in M. Polacco, op. cit., pp. 115-116. In effetti nella Gemella H compaiono diversi tipi di scrittura: l’articolo di giornale (pp. 21, 298), la scrittura epistolare (pp. 133-135, 138-139, 140-141, 145-151, 153) e diaristica (pp. 274-280, 344).
235
236
GIACOMO TINELLI
lità dell’ideologia – ora diluita sotto ogni traccia – resta la volontà di vivere
secondo quelle stesse dinamiche totalitarie applicate ai rapporti lavorativi e
familiari. Possiamo fare e subire tutto, purché rimaniamo in una sfera economica, finanziaria. (GH, p. 215)
Helga sembra in qualche modo consapevole della nuova forma di famiglia dentro il miracolo economico e vede con lucidità come adattarla
ai nuovi contenitori ideologici ed economici del periodo:
La ditta è individuale. Hotel Sand, di Hans Hinner. Helga vorrebbe variare la
costituzione della società. Hans Hinner dice, noi siamo una famiglia. Helga
o8
ribatte, certo, adesso siamo anche un’azienda. Helga, ascolta tuo padre, non
i
abbiamo bisogno di una ditta per sentirci uniti. Papà non sto dicendo che
uo
daremmo più uniti come Srl o altro. Helga, da una Srl è possibile uscire, da
am
i
r
una famiglia no. (GH, p. 222)
la
a
i
Se Helga rappresenta l’erede che accoglie supinamente e senza
ne ree
sistenze la storia familiare, accettandone e riproducendone i silenzi
ei
rti di vista.
meccanismi profondi, Hilde invece è recalcitrante, da più punti
a
p
Anzitutto da un punto di vista ontogenetico: comincia ap parlare in ria
tardo rispetto a Helga e, nella retrospettiva paradossale
assume il
okcheche
punto di vista di Hilde ancora infante, si comprende
non lo fa per
o
-b
ritardi cognitivi o linguistici di sorta quantoEpiuttosto
per “protesta”:
«non voglio ancora rimanere prigioniera tdel
linguaggio»
(GH, p. 39).
o
s
Una protesta che si prolungherà nel tempo
e che si manifesterà in varie
udiepartecipare alle responsabilità
forme, tutte contraddistinte dal rifiuto
Q
di una realtà che la coinvolge in maniera troppo impegnativa, da un discreto ritiro della partecipazione26, che del resto trova una conclusione
coerente nella scelta finale di suicidarsi, molti anni dopo. Hilde è definita ironicamente – e con un po’ di disprezzo – da Franco (l’uomo che
Helga, appena diciottenne, sposa all’arrivo a Milano Marittima) «l’arti26. Ad esempio: «Detesto contare assieme agli altri ad alta voce. Suoniamo uno strumento,
cantiamo, mi unisco al resto del coro, fingo bene, apro la bocca e muovo la lingua, martello il
mio palato, simulo di fianco a mia sorella, che invece canta, sento dal suo piccolo petto la forza
sorgiva della sua voce» (GH, p. 64).
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
sta di famiglia» (GH, p. 313) e sembrerebbe dunque colei che, rifiutando
l’adesione al modello familiare (non si sposerà mai) e in generale opponendo diverse, benché minime, resistenze alla riproduzione delle condizioni di produzione familiari, contrasti dall’interno il progetto degli
Hinner di disciogliersi nell’economia del “miracolo economico”. In tal
senso, allora, dovremmo pensare che Hilde, che certamente blandisce
molto di più il lettore richiedendone una discreta identificazione, sia la
contestatrice della continuità materiale che stringe la storia del miracolo economico al terzo Reich? È lei la voce fuori dal coro che consente di
identificare il rapporto tra ideologia e materialismo che regola la tenuta
del nucleo familiare a cavallo della fine della guerra? Eppure, a Hilde
«Helga e Franco le sembrano più onesti dentro la recita imprenditoriale. Hilde è invischiata dentro qualcosa che non le appartiene, ma può
esserle davvero estranea un’attività iniziata con i soldi del Terzo Reich?
Ora è denaro rispettabile, sono soltanto soldi ripuliti dall’espiazione del
lavoro stagionale» (GH, p. 292).
Viene spontaneo domandarsi, allora, se la posizione di Hilde non
aderisca invece abbastanza fedelmente a quella rappresentazione immaginaria dei rapporti reali di un individuo che, un po’ come l’istituzione familiare, consente di fingere/mistificare in primis a sé stessi il
proprio ruolo materiale nella catena della produzione.
5. Le mele
Nonostante la verbosità velleitaria di Hilde, la realtà materiale dei
fatti non tarda a fare capolino. Il testo lo mostra con strumenti propriamente letterari, ossia per mezzo di un oggetto simbolico che attraversa
tutto il libro27.
Siamo all’inizio degli anni Cinquanta, l’hotel Sand è avviato per la
prima stagione balneare quando Helga incontra Franco, cuoco in una
rosticceria. I due si innamorano e si fidanzano. Coerentemente con la
lucidità pragmatica di Helga, ora «il problema è come presentare Franco a Hans Hinner e farlo assumere in cucina» (GH, p. 255): se Fran-
27.
La centralità del frutto è stata notata da A. Cortellessa, Giorgio Falco. La gemella H, cit.
237
-
Qu
e
E
o
t
s
GIACOMO TINELLI
238
co dev’essere il futuro marito, è bene che entri a far parte dell’azienda
familiare. Ma prima occorre trovare un modo di cacciare Margherita,
la cuoca romagnola che già lavora in cucina, sebbene impeccabile sul
lavoro. Dopo la conclusione del pranzo,
Qu
Helga infila tre mele nella borsa di Margherita, va dal padre e dice, papà.
Ripete spesso papà nella sua imminente rivelazione, per rinsaldare il legame
delle sue parole al vero. Non avrei mai voluto dirlo, papà, non ce la faccio
più: Margherita ruba, lo fa da quando sono arrivata. Uhm, davvero? E cosa?
[…] Ruba poco, ma ogni giorno, quattro fette di pane, un po’ di frutta e verdure, burro […] adesso ha tre mele nella borsa. (GH, p. 255)
est
o
E-abtale sopruso, l’aspetto più interessante è la bizzarra reaDi fronte
okha l’effetto di ricollocare il suo personaggio in una
zione di Hilde, o
che
a p
posizione di dominio, inpcompagnia
a ti con il resto della famiglia. Helga ha
eneMargherita davanti agli occhi del
appena concluso una filippicarcontro
a sii svolge l’episodio:
padre, sua sorella è appena arrivata dove
lari
am come una pallina da
Hilde prende la mela dalla mano della sorella, la rigira
uoi
o89 del futennis, quasi vi possa scorere nella traccia del passato la predizione
turo. Hilde accosta la mela alle labbra, sente il proprio respiro sullagbuccia,
ma
i denti affondano nella polpa da cui esce una leggera schiuma bianca. […] Ilil.c
om
rumore della sua masticazione riempe la reception, si alterna in un accordo
misterioso al suono degli spiccioli con cui Hans Hinner congeda Margherita. (GH, p. 256)
Ciascun componente della famiglia gioca un ruolo fondamentale:
Helga è la mente che, facendo leva in particolare sull’appellativo familiare “papà” come garanzia di veridicità, punta a determinare l’intervento di Hans. Hilde, semplicemente, non parla, non agisce, e tutto
il suo silenzio è magistralmente metaforizzato dallo scrocchiare della
mela sotto i suoi denti, «in accordo misterioso» con il tintinnio dei
soldi. L’accordo misterioso è l’armonia fatta di silenzi e omertà che
stringe i tre componenti familiari, è il grigio rumore ideologico – banale come quello di una mela masticata – che rimuove efficacemente
il rinnovato sopruso, legittimato legalmente dai rapporti di forza sul
20
lavoro e culturalmente dalla narrazione a proposito del “miracolo”
economico.
La mela, dunque, rappresenta il silenzio grazie al quale la famiglia
rimuove e perciò stesso riproduce le condizioni materiali in cui si genera un sopruso, che non è, come era stato nel caso dell’acquisizione
della villa dei Kaumann, un’accumulazione primaria di capitale, ma che
si manifesta bensì ora nei rapporti di forza sul lavoro che quell’accumulazione ha garantito una volta maturata ed evoluta in attività imprenditoriale. I due tipi di prevaricazione appartengono a due epoche
differenti, ma sono sostanzialmente vincolati da una consequenzialità
logica e cronologica dentro una struttura economica che sostanzialmente non muta.
La frase d’esordio che leggiamo ne La gemella H è «Noi mangiavamo
le mele solo nello strudel, prima» (GH, pp. 7, 38, 221). Le mele tengono
incardinati più sensi: un’intimità incancellabile, poiché nelle prime due
occorrenze il frutto compare in coincidenza con brani di descrizione
di una memoria familiare esclusiva e intima; ma anche il prima, quello
stesso riferimento temporale di cui si dice, non appena finita la guerra:
«il prima che dobbiamo dimenticare» (GH, p. 163), e necessitano di una
trasformazione che le legittimi.
Se allora le mele nello strudel metaforizzavano una certa intimità legata al periodo nazista, le mele che finiscono nella borsa di Margherita
simboleggiano il nuovo sodalizio intimo della famiglia, estremamente
più opaco e forse meno consapevole perfino anche da parte di chi agisce
il dominio. Due forme diverse (metaforizzate dal frutto nello strudel
oppure mangiato crudo) di esercitare un potere in un’unica struttura
economica, che attraversa tutta l’arco temporale che il romanzo copre.
6. Conclusioni
o
st
e
u
E
oo
b
-
k
ar
p
ap
ti
e
en
a
ila
ri
am
u
o
oi
89
gm
a
o
li .c
m
20
2
12
8
09
1
3
22
-
90
08
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
Q
È dunque la verbosità di Hilde, in misura maggiore, a garantire al
discorso ideologico familiare il suo funzionamento: è lei, non Helga,
a mistificare con strumenti immaginari il suo rapporto con la realtà, e
dunque ad adempiere alla funzione ideologica che avevamo ritrovato
in Althusser. La scena delle mele – e molti altri indizi – lasciano invece
intendere che la realtà materialistica è molto più costrittiva rispetto
239
GIACOMO TINELLI
240
o
Quest
a quella ideologica, che i comportamenti pesano, nella costruzione
della realtà, molto più che i semplici atteggiamenti (per quanto
anticonformisti possano apparire). La gemella H, cioè Hilde, l’unica che
parla, mostra suo malgrado quanto distanti procedano la storia politico-ideologica e la storia economica, quanto dietro a situazioni differenti si celino problemi e strutture analoghe.
Queste considerazioni, naturalmente, non riguardano in esclusiva
la famiglia Hinner, ma si proiettano su tutte le attività della riviera romagnola e, per sineddoche, all’intera narrazione fondativa del boom
economico, in particolare quando essa si rivolge alla tipica impresa italiana: quella familiare. Nel descrivere il gesto pacchiano attraverso cui
Franco chiede la mano di Helga (attraverso uno striscione agganciato a
un piccolo aereo), la voce narrante ha l’occasione di offrire una visione
aerea della costa:
k
E-boo
tiene
appar
ail.com
89 gm
muoio
a ilaria
Franco decolla a fianco del pilota di un aereo da turismo. Vola lungo il tratto
di mare, è la prima volta che si trova in cielo, la vertigine del movimento si
placa dopo pochi istanti, sembra di restare fermo lungo la costa adriatica,
ogni piccolo albergo è l’Hotel Sand, ogni stabilimento balneare potrebbe essere quello della felicità […]. (GH, p. 281)
0
23-08
2
809-1
20122
Le responsabilità storiche non riguardano esclusivamente la famiglia Hinner e il suo passato particolarmente problematico, bensì si manifestano in ogni piccola attività economica ora celebrata con entusiasmo in quanto rinascita sociale e civile.
A proposito di tale allargamento delle responsabilità e di quanto
dicevamo in apertura rispetto al valore allegorico della famiglia nei
confronti della storia, vi è un’ultima notazione da appuntare, che riguarda in buona sostanza la “direzione” dell’allegoria. Per lo studio
offerto in queste pagine, abbiamo postulato l’idea, reperita nei testi
critici sul romanzo di famiglia, che la famiglia sia l’allegoria della
Storia. Ciò significa che gli effetti che la storia produce nella famiglia
rappresentano metafore storiche: l’avversione della madre di Hans
verso la famiglia di “bifolchi” Zemmgrund è leggibile anche sul piano
astratto, che rimanda alle questioni storiche riguardo la composizio-
ila
r ia
rtie
ne
a
LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE
Qu
e
sto
Ebo
ok
ap
pa
ne di classe e ideologica che contrapponeva i Nazionalisti e i Nazisti
durante gli anni Venti.
Tuttavia, alcuni brani del romanzo consentono di sollevare qualche
dubbio rispetto ad una lettura unidirezionale dell’allegoria. Mi riferisco anzitutto al rapporto di causalità che regola la relazione tra famiglia e storia. Il dubbio interviene per la prima volta quando leggiamo
la descrizione di un personaggio secondario, il bagnino della piscina di
Merano:
I rimproveri veri gli riescono solo in italiano, quando il padre o la madre
riaffiorano dalla memoria involontaria, e le parole trovano un aiuto nella
postura del corpo, l’eredità più grande ricevuta dai genitori, prima ancora
che da Benito Mussolini. (GH, p. 137)
Il narratore rincara la dose allorché descrive Franco per la prima
volta nell’approccio a Helga:
L’uomo resta in piedi, le mani posate sui fianchi, come fanno gli italiani
senza rendersene conto, scimmiottano Mussolini e invece proseguono le
mosse e i gesti che lo stesso dittatore, nella celebrazione della sua parte femminile, aveva ereditato dai rimproveri materni. (GH, p. 229)
In queste ultime due descrizioni, è la famiglia che genera effetti nella
storia ed è legittimo domandarsi allora se non sia la seconda a diventare
una paradossale allegoria della prima.
La definizione di famiglia come “negativo” della storia assume dunque un’ulteriore sfumatura. Attraverso le descrizioni di alcuni personaggi secondari, il testo “inverte” la direzione allegorica, spostando
l’attenzione sui processi intimistici e familiari che generano la storia,
quantomeno nella sua dimensione estetico-espressiva dei personaggi
storici. Il rischio, come è evidente, è la negazione della storia tout court.
Un rischio che in fondo Helga, la gemella taciturna, ha non solo accolto
ma propugnato, nella sua idea onnivora di famiglia, e che probabilmente dà conto della funzione ideologica più profonda dello strumento familiare che il romanzo mette in scena.
241
242
GIACOMO TINELLI
Qu
Bibliografia
to
es
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia
oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
bo
E-
Althusser L., (1976), Sull’ideologia, Bari, Dedalo libri.
ok
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
ap
rti
pa
Cortellessa A. (a cura di), (2014), La terra della prosa. Narratori italiani degli anni
Zero (1999-2014), Roma, L’Orma.
e
en
Engels F., (1973), Letter to Margaret Harkness in London, in L. Baxandall, S. Morawski
(a cura di), Marx and Engels on Literature and Art, St. Louis, Telos Press.
Marx K., (1996), Il Capitale. Libro I, Torino, UTET.
Mazzoni G., (2011), Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino.
Piga Bruni E., (2018), La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo,
Sesto San Giovanni, Mimesis.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter
Lang.
Šklovskij V., (1976), Teoria della prosa, Torino, Einaudi.
Villa A., (2013), Il miracolo economico, in Enciclopedia Treccani, in http://www.
treccani.it/enciclopedia/il-miracolo-economico-italiano_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Tecnica%29/.
gm
Lukács G., (1965), Il romanzo storico, Torino, Einaudi.
9
Levi P., (1986), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi.
io8
Giglioli D., (2014), Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Roma, nottetempo.
uo
Falco G., Ricucci S., (2014), Condominio oltremare, Roma, L’Orma.
m
ria
Falco G., (2017), Ipotesi di una sconfitta, Torino, Einaudi.
ila
Falco G., (2014), La gemella H, Torino, Einaudi.
a
Falco G., (2009), L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi.
Q
to
s
ue
oo
b
E-
k
ap
rt
a
p
Una storia di ombre.
Immaginazione delle origini
e indagine genealogica
nel romanzo contemporaneo
Elisabetta Abignente
Prima di lasciar ripassare a quelle due ombre il fiume infernale,
vorrei porre loro qualche domanda su me stessa
Marguerite Yourcenar, Care memorie (1974)
L’obiettivo di questo contributo è riflettere sull’incidenza che l’«imperativo genealogico», così definito negli anni Settanta da Patricia Drechsel Tobin1, abbia ancora oggi, in un tempo segnato da un necessario
ripensamento dell’idea di famiglia, in uno spazio fluido che educa genitori e figli a radici sempre più mobili e flessibili. Se è vero, come osserva
Stefano Calabrese2, che attraverso il vincolo di consanguineità la saga
familiare ha sempre rappresentato uno strumento identitario, fondato
su un’idea di superiorità ontologica delle origini, e un coagulante simbolico entro cui “sanare” le contraddizioni di una realtà sempre più
centrifuga e sfuggente, non stupisce che l’interesse per la ricostruzione
del proprio passato familiare riemerga anche nel romanzo contemporaneo. Mentre gli intrecci familiari si confermano lo schema privilegiato di recenti successi editoriali – come I leoni di Sicilia di Stefania
Auci o La luce è là di Agata Bazzi, entrambi del 2019 e di ambientazione
siciliana – e della serialità televisiva – si pensi, limitandosi alla fiction
1. Cfr. P.D. Tobin, Time and the Novel. The Genealogical Imperative, Princeton, Princeton
University Press, 1978.
2. Cfr. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in
F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640.
RAI, a Romanzo famigliare (2018) di Francesca Archibugi o a Tutto può
succedere (2015-2018) di Lucio Pellegrini e Alessandro Casale – una
certa letteratura sembra arroccarsi in una forma di scrittura familiare
più intima e legata alle vicende biografiche di chi racconta.
Considerando la produzione romanzesca degli ultimi decenni, è
possibile infatti registrare il frequente desiderio degli autori di ripercorrere i rami del proprio albero genealogico per scandagliare, con
passione speleologica e documentaria, il sottosuolo delle dinamiche
parentali, delle relazioni orizzontali e verticali che hanno dato corpo
alla struttura familiare cui appartengono o che li ha preceduti, come
se proprio il ripensamento dell’istituzione familiare, sottratta all’automatismo, fosse in grado di generare un rinato interrogativo riguardo le
proprie radici. Senza voler semplificare eccessivamente, sembrerebbe
accadere quello che Franco Moretti osservava in Opere mondo, ovvero:
«l’idea che la letteratura segue i grandi mutamenti sociali: che arriva
sempre “dopo”. Venir dopo, però, non significa ripetere (“rispecchiare”)
quel che già esiste, ma l’esatto opposto: risolvere i problemi posti dalla
storia. […] [La letteratura] ha una vocazione problem-solving: rendere
l’esistente più comprensibile – più accettabile. E più accettabili, vedremo, i rapporti di potere, e persino la loro violenza»3. Se si guarda al
romanzo di famiglia anche come possibilità di rielaborare, attraverso la
scrittura, lacerazioni, traumi, lacune del proprio passato familiare, sarà
forse più facile comprendere le ragioni del successo quasi inalterato di
questo genere romanzesco.
Un’altra utile chiave di lettura proviene in questo senso dall’ambito
della psicanalisi: il riferimento è alla naturale attitudine del bambino a
fantasticare intorno alle proprie origini definita da Freud ne Il romanzo
familiare dei nevrotici (1908)4. L’intensa attività immaginativa intorno al
proprio passato familiare potrebbe essere considerata anche come uno
dei motivi profondi per i quali l’individuo rivolge il proprio sguardo
3. F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine,
Torino, Einaudi, 1994, p. 8.
4. Cfr. S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura di), Opere.
1905-1908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, Torino, Boringhieri, 1972, p. 472.
E-b
oo
ELISABETTA ABIGNENTE
Que
sto
244
UNA STORIA DI OMBRE
e
Qu
st
alla ricostruzione, vera o fittizia, della propria genealogia5. La necessità
di guardare all’indietro, decidendo di narrare quel che è stato e che non
è più, in un misto di precisione documentaria e inevitabile rielaborazione romanzesca, potrebbe essere letta come il tentativo di far rivivere
sulla pagina letteraria una dimensione comunitaria e una consapevolezza identitaria che rischiano di sbiadire con l’avanzare degli anni, la
vendita di case, la dispersione di oggetti, l’inevitabile diaspora a cui ogni
nucleo parentale è destinato. Lasciare traccia della propria storia familiare può diventare l’unico strumento in grado di ritrovare e immortalare un tempo perduto.
In quasi tutte le saghe familiari, dai Buddenbrook al Gattopardo a
Cent’anni di solitudine, si possono rintracciare elementi autobiografici
più o meno velati: i casi qui riuniti sono però quelli in cui il riferimento
al proprio vissuto e alla veridicità del narrato si fa esplicito e dichiarato a partire dal paratesto (avvertenze, postfazioni, alberi genealogici pubblicati in appendice)6. Quel che qui interessa osservare, infatti, è
quel genere ibrido posto al confine tra romanzo genealogico, romanzo
storico e scrittura del sé che altrove ho definito come “memoria di famiglia”, intesa come narrazione delle vicende di una famiglia lungo più
generazioni, filtrate attraverso il punto di vista di uno dei suoi membri
5. Ibid. Sul nesso tra rielaborazione fantastica delle proprie origini e origini del genere
romanzo, cfr. M. Robert, Roman des origines et origines du roman, Paris, Grasset, 1972. L’interesse per la genealogia nel romanzo contemporaneo si registra anche nei “récits de filiation”
dove la ricerca delle radici va intesa come ricerca dei “padri letterari” (D. Viart, Filiations
littéraires, in J. Baetens, D. Viart (a cura di), États du roman contemporain. «Écritures contemporaines», 2, 1999, pp. 115-139), che si rivela in alcuni casi vana dando vita a scrittori “orfani”
(L. Demanze, Encres orphelines. Pierre Bergounioux, Gérard Macé, Pierre Michon, Paris, José
Corti, 2008). Al romanzo familiare come possibilità di elaborazione del trauma, pubblico e
privato, guardano gli studi di Matteo Galli e Simone Costagli dedicati al successo del Familienroman nella Germania post ’89: S. Costagli, Autobiografia collettiva di una nazione. L’onda
lunga dei Familienromane tedeschi, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di
famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 64-74 e S. Costagli, M. Galli (a cura di), Deutsche Familienromane. Literarische Genealogien und internationaler Kontext, Paderborn, Fink, 2010.
6. Cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989. Sulla rilevanza delle
indicazioni paratestuali per «certificare la veridicità del narrato» si sofferma anche M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno, Lecce, Piero
Manni, 1999, p. 42.
245
ELISABETTA ABIGNENTE
Ques
to
246
tien
o
k
a
p
par
E-bo
o discendenti7. Questi ultimi possono porsi come testimoni diretti delle vicende narrate, come avviene in Lessico famigliare (1963) di Natalia
Ginzburg, o piuttosto come eredi intenti a ricostruire una storia familiare non vissuta in prima persona e quindi non testimoniabile, lontana
nel tempo anche di vari secoli e dei quali sono stati protagonisti i propri
avi. A questo secondo gruppo appartengono i testi che qui si prendono
in esame: Il labirinto del mondo (1974-88) di Marguerite Yourcenar, Harmonia caelestis (2000) e L’edizione corretta di Harmonia Caelestis (2002)
di Péter Esthérazy, Il gioco dei regni (1993) di Clara Sereni, Il mio nome
a memoria di Giorgio van Straten (2000) e Un cappello pieno di ciliegie
(2008) di Oriana Fallaci. Una sorta di vertigine genealogica conduce
gli scrittori nelle soffitte, nelle biblioteche e negli archivi alla ricerca di
prove in grado di riannodare i fili della propria storia familiare, finendo
per determinare un vero e proprio rovesciamento per cui è il discendente, colui che è stato generato, a porsi come il creatore, colui che genera i propri avi ridando loro vita sulla pagina. Se, come scrive Moretti,
«la storia di ogni famiglia, fatalmente, è una storia di ombre. Due, tre
generazioni, e i morti sono più numerosi dei vivi»8, l’elemento “negromantico” si fa ancora più tangibile nel caso delle memorie di famiglia,
che finiscono per assomigliare a un vero e proprio viaggio nell’Ade.
Altri romanzi italiani pubblicati negli ultimi anni condividono un
analogo movimento – il percorso a ritroso lungo i rami del proprio
albero genealogico – e una simile posizione accordata a chi narra – il
ricorso alla prima persona pur con una deliberata eclissi del sé: Il tempo
migliore della nostra vita (2015) di Antonio Scurati, che Riccardo Castellana ha definito «biofiction multipiano»9 individuando il suo elemento caratteristico «nell’intreccio di biografia, memoria famigliare
(finzionalizzata) e autobiografismo»10; Il romanzo della nazione (2015)
7. Cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in
E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., pp. 6-17.
8. F. Moretti, op. cit., p. 225.
9. R. Castellana, Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido, Roma, Carocci,
2019, p. 54.
10. Ibid., p. 183.
Qu
UNA STORIA DI OMBRE
di Maurizio Maggiani per la ricerca delle radici mediante il padre, il
desiderio di romanzo documentale e la cronaca familiare come nostalgia dell’epos11; La rancura (2016) di Romano Luperini che già nel titolo
montaliano richiama la necessità di fare i conti con quell’ambiguità tra
rancore e cura che connota il passaggio di testimone tra le generazioni.
Si tenterà qui di ragionare da un lato sul permanere di caratteristiche che accomunano questa categoria di testi narrativi ibridi al genere
del romanzo familiare vero e proprio (estensione cronologica del tempo narrato; presenza di almeno tre generazioni, ma quasi sempre molte
di più, sia in diacronia che in sincronia; centralità dei riti familiari e
conflitto intra- e inter-generazionale; senso della fine)12; dall’altro sulle
forze centrifughe che acuiscono la presenza, in questa forma autobiografica di romanzo di famiglia, di altri generi, primo tra tutti il romanzo storico (uso delle fonti materiali e immateriali; rapporto tra fatto e
finzione; ambiguità tra «vero, falso e finto»)13. Come afferma Marina
Polacco, ogni romanzo di famiglia «è sempre, almeno in parte, un romanzo storico»14: l’attenzione alla documentabilità delle vicende narrate è un dato che sembra però farsi ancora più esplicito nei romanzi
di famiglia di tipo autobiografico degli ultimi decenni. I testi qui riuniti
sembrano condividere in questo senso almeno due tratti caratteristici
del romanzo ipermoderno definiti da Raffaelle Donnarumma: l’oscillazione fra volontà di testimonianza e lo scrupolo documentario, e l’espansione delle scritture dell’io15.
Una delle domande centrali da porsi è cosa succede laddove non sia
possibile raccontare la propria storia di famiglia come testimone diret-
11. Di questi aspetti si è occupato F. de Cristofaro in Controcanto epico. Vie del romanzo di
famiglia tra postmoderno e ipermoderno, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo
di famiglia oggi, cit., p. 75-87.
12. Il riferimento è alle costanti individuate da M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una
definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 95-125 e Y.-L-Ru, The Family Novel.
Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992.
13. Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006.
14. M. Polacco, op. cit., p. 115.
15. Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il
Mulino, 2014.
247
Qu
e
s
to
ELISABETTA ABIGNENTE
248
k
bo
o
E-
to. Cosa avviene, cioè, quando l’elemento diacronico diventa centrale
e l’arco cronologico di riferimento si amplia, le generazioni diventano
molto più di tre e la famiglia che si intende narrare non è quella effettivamente vissuta, che dunque rientra nel proprio campo visivo ed
emotivo, ma quella composta da individui da cui si è ereditato sangue
e cromosomi pur non avendone mai ascoltata la voce. Alle fonti immateriali – racconti orali, ricordi personali – si aggiungeranno, o in alcuni
casi sostituiranno, fonti materiali, scritte o visive, come diari, lettere,
taccuini di appunti, fotografie e documenti ufficiali, conservati in archivi di famiglia o di Stato. La predilezione per l’uno o l’altro tipo di documenti nel processo di scrittura determina delle conseguenze rilevanti
tanto sul piano della affidabilità storica delle vicende narrate quanto sul
piano narrativo, finendo per incidere sullo stile, sul ritmo e sul registro
linguistico del romanzo.
Veniamo al caso di Marguerite Yourcenar e della trilogia Le Labyrinthe du monde, pubblicata tra il 1974 e il 1988, in cui la storia degli
avi materni e paterni della scrittrice, antica famiglia nobiliare delle
Fiandre, viene ricostruita attingendo a fonti storiche conservate in parte proprio negli Archivi del Nord che danno il titolo al secondo dei tre
volumi. L’intento di Yourcenar è di procedere a ritroso lungo le generazioni che la precedono, sempre più in alto lungo l’albero genealogico,
fino al punto lontano in cui le origini familiari si fondono e confondono
con le radici sfumate e collettive dell’umanità. La recente vita familiare
si rivela così il punto di approdo ultimo di una storia che non può che
dirsi universale16. La forma ibrida che ne consegue, sorta di ricostruzione storica “con beneficio di inventario”17, rende l’operazione labirintica
compiuta nella trilogia uno dei più interessati esperimenti di scrittura
contemporanea, sfuggente secondo Guido Mazzoni a qualsiasi tradizionale classificazione di genere, al pari dei racconti di Carver, dei romanzi di Houellebecq o alle Benevole di Jonathan Littell18.
a
ap
p
rt
i
e
ne
a
r
ila
io
ia
m
uo
89
gm
.c
ail
om
2
2
01
2
16. Cfr. V. Sperti, Écriture et mémoire. Le Labyrinthe du monde de Marguerite Yourcenar,
Napoli, Liguori, 1999.
17. Cfr. M. Yourcenar, Con beneficio d’inventario, Milano, Bompiani, 2013.
18. Cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, p. 361.
ene
parti
-boo
k ap
UNA STORIA DI OMBRE
Que
sto E
L’incipit del primo volume, Care memorie, coincide con la nascita di
Marguerite, richiamando un classico topos del genere autobiografico.
Ma già dal terzo rigo compare la parola “famiglia”, come a voler subito collocare «l’essere che chiamo “io”»19 dentro una precisa genealogia
che ne legittimi l’esistenza. Scorrendo le pagine, si nota subito come
l’attenzione ai documenti, prima di tutto anagrafici, sia uno dei marchi
tipici di questa ricostruzione genealogica. Ma la fiducia accordata alle
fonti ufficiali è immediatamente messa in discussione dall’inesattezza
dei documenti consultati. Ufficialità non è sempre sinonimo di verità
ma in alcuni casi di più o meno involontaria falsificazione della storia20.
Colpiscono, della sua ricostruzione genealogica, alcuni elementi che
ricorrono come veri e propri topoi del genere qui indagato. Si pensi al
rovesciamento di prospettiva nei legami familiari quando si constata
che se i nostri avi sono esistiti a volte poco per noi, noi non siamo esistiti affatto per loro: che verità può esserci allora nei legami familiari?
Una verità biologico-patrimoniale e non di relazione, sembra suggerire l’autrice21; il senso della fine, la consapevolezza di essere l’ultimo
discendente di una lunga stirpe e la preghiera laica davanti alla tomba
degli antenati: «non restava che un unico discendente, che ero io. Toccava dunque a me fare qualcosa. Ma che cosa?» (la vera risposta alla
domanda sembra essere la scrittura di questo libro: cosa fare per loro?
raccontarne la storia)22; l’inversione dei ruoli madre-figlia nella relazione creativa autrice-personaggio: «Del resto col passare degli anni i
nostri rapporti s’invertono. Ho più del doppio dell’età che lei aveva quel
19 giugno 1903, e mi concentro su di lei come una figlia che tentassi in
tutti i modi di capire senza però riuscirci del tutto»23; le affinità elettive
che si avvertono con alcuni degli antenati-personaggi a dispetto di altri,
perché in loro emergono dei tratti che l’autrice riconosce come propri.
Tracciare la storia della propria famiglia significa scrivere la propria
19.
20.
21.
22.
23.
M. Yourcenar, Care memorie, Torino, Einaudi, 1981, p. 5.
Cfr. ibid., p. 27.
Cfr. ibid.
Ibid., p. 43.
Ibid., p. 49.
249
k
bo
o
to
E-
ap
ELISABETTA ABIGNENTE
250
ue
s
autobiografia attraverso la mediazione dei propri progenitori, ricostruire attraverso di loro la storia della propria personalità e della propria
formazione culturale: «Prima di lasciar ripassare a quelle due ombre
il fiume infernale, vorrei porre loro qualche domanda su me stessa»,
confessa infatti l’autrice in una frase che ben si presta a essere posta in
esergo a questa breve indagine24.
Uno degli aspetti più significativi è il montaggio delle fonti operato all’interno del testo. In alcuni passaggi metatestuali l’autrice-narratrice, già avvezza ai procedimenti tipici della biografia finzionale25,
commenta e giustifica le scelte compositive adottate e le loro conseguenze sul piano redazionale e tipografico, a partire dalla decisione di
utilizzare o meno le virgolette per il discorso riportato:
Q
Le pagine precedenti sono un montaggio. Per scrupolo di autenticità ho fatto monologare il più possibile Octave attingendo ai suoi libri. Anche nei
punti in cui non mi sono servita di virgolette, ho spesso riassunto le annotazioni del poeta, troppo prolisse per essere riportate tali e quali. Le frasi di
mia creazione sono tutt’al più dei riempitivi: ho cercato se mai di imprimere
ad esse qualcosa del suo ritmo personale. […] Mi rendo conto della stranezza di questa operazione quasi negromantica. A un secolo di distanza, più
che lo spettro di Octave sto evocando Octave in persona, il quale quel certo
23 ottobre 1875 va e viene, senza saperlo, in compagnia di una “pronipote”
che nascerà soltanto dopo la sua morte […] Tali sono i giochi di specchi del
tempo26.
Uno degli aspetti che colpisce particolarmente l’occhio indagatore di Yourcenar è il piccolo spazio occupato da una singola famiglia
nell’immensità del tempo. Le pagine iniziali di Archivi del Nord (1977)
sono animate da questa forte attrazione nei confronti dell’origine del
mondo27 e rivelano la particolare sensibilità della scrittrice belga per il
24.
25.
26.
27.
Cfr. ibid., p. 204.
Cfr. R. Castellana, op. cit., pp. 113-115.
M. Yourcenar, Care memorie, cit., p. 167.
Eadem, Archivi del Nord, Torino, Einaudi, 1982, p. 5.
53
20
12
28
09
-12
23
-08
09
-84
23
-rd
h9
j76
jdj
UNA STORIA DI OMBRE
bo
ok
ap
pa
rtie
ne
ai
lar
i
am
uo
io8
9g
ma
il.c
om
materico, il biologico-cellulare-genetico, fino al vegetale e al tellurico28.
L’idea di inabissarsi in lontananze inesplorate, di allungare lo sguardo
all’indietro giungendo a contemplare paesaggi incontaminati, precedenti alla comparsa dell’uomo, anima il prologo del secondo volume,
intitolato La notte dei tempi. La posizione incipitaria, il parallelismo tra
genealogia familiare e storia universale, l’attrazione per il primitivo e
l’autentico, l’esplorazione del paesaggio come metafora del viaggio nel
tempo sembrano richiamare alla memoria le parole con cui si apre il
Prologo delle Storie di Giacobbe (1933) di Thomas Mann, intitolato Discesa agli inferi: «Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo
dirlo imperscrutabile?»29. A confermare una possibile relazione intertestuale tra i due prologhi, che non stupisce se si pensa alla grande ammirazione e alla profonda conoscenza che la scrittrice belga aveva di
tutta l’opera manniana, interviene la ricorrente ed evocativa immagine
delle «dune», metafora dell’illusorietà di ogni ricerca delle radici ma
anche traccia di un comune immaginario legato alle ampie spiagge dei
mari del Nord.
Un secondo romanzo ibrido nel quale l’elemento diacronico e il
rapporto con le fonti si fanno particolarmente significativi è Harmonia
caelestis di Péter Esterházy (2000). Il titolo, che rimanda all’opera barocca di un compositore antenato dell’autore, è chiaramente antifrastico:
non c’è universo più disarmonico di quello raccontato. Lo scrittore ungherese, esponente di uno dei più antichi casati aristocratici dell’Europa orientale, dà vita ad una biografia volutamente romanzata della propria famiglia di origine, risalendo fino al sedicesimo secolo. Il volume,
che si estende per più di settecento pagine, si articola in due libri: nel
primo sono narrati cinquecento anni di storia, tra luci e ombre, dell’antica dinastia. Il secondo racconta un tempo più vicino e vissuto in prima
persona (lo scrittore nasce nel 1950 e muore nel 2016).
L’appellativo costante rivolto ai membri della famiglia delle diverse
generazioni è l’epiteto “il mio buon padre”, la cui ricorrenza all’interno
Qu
es
to
E-
28. Cfr. ibid., p. 42.
29. T. Mann, Le storie di Giacobbe, in Idem, Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943), Milano,
Mondadori, 2000, p. 5.
251
ppartiene
Questo E-boo
ka
252
ELISABETTA ABIGNENTE
del testo determina un’inevitabile confusione tra le generazioni, molto
simile a quella a cui ogni lettore di Cent’anni di solitudine finisce presto
per rassegnarsi. Lo stile del romanzo sembra sfuggire a ogni possibile
definizione: ora lirico e aforistico, ora piano, riproducendo i moduli
della cronaca, ora espressionistico, ricorrendo a una lingua estremamente concreta e materica e anche al turpiloquio. Molto poco canonica
è anche l’organizzazione interna e l’aspetto grafico del testo, che si articola in micro-paragrafi numerati, lunghi in alcuni casi poche righe, che
si aprono con un capolettera interno e si chiudono con un segno di interpunzione o di parentesi in grassetto (elementi grafici che ricordano il
Tristram Shandy di Laurence Sterne). Tra continui salti temporali e non
infrequenti anacronismi, prende forma una storia di famiglia impietosa
e irriverente che mostra tutte le debolezze, anche carnali, dei predecessori di chi scrive.
Come deve essere dunque letto questo libro? Come un romanzo,
una cronaca, un libro di frammenti, una biografia finzionale30? E come
si pone questa bizzarra ricostruzione genealogica rispetto al problema
della verità? Individuare possibili risposte all’interno del romanzo è
operazione ardua dal momento che ogni affermazione contenuta nel
testo è sottoposta al filtro deformante del citazionismo e dell’ironia. Il
ricco «Elenco dei “testi ospiti”» pubblicato in appendice, sorta di affastellato e incompleto indice dei nomi, riesce a colmare soltanto parzialmente il disorientamento del lettore di fronte a un testo insincero,
divertito nel prendersi gioco del limite tra verità e finzione.
È questo il caso del lungo autocommento in cui l’autore sembra finalmente offrire una chiave di lettura della prima poderosa parte del
volume che sta per concludersi: «I luoghi di questo libro, fianchi e cascate, gli eventi e i personaggi, sono reali, sono conformi alla realtà,
corrispondono alla realtà […]. Il figlio del mio buon padre non aveva inventato nulla e se, secondo la sua abitudine inveterata, volgendosi verso
30. Una possibile definizione di genere di Harmonia caelestis come «biografia romanzata» è proposta in L. Tassoni, La memoria familiare: due letture incrociate. Giuseppe Tomasi
di Lampedusa e Péter Esterházy, Roma, Carocci, 2007, che è anche uno dei pochi contributi
dedicati in Italia al romanzo dello scrittore ungherese.
Qu
e
UNA STORIA DI OMBRE
la scrittura narrativa si affidava all’immaginazione»31. Basterà leggere
queste righe per rendersi immediatamente conto che la presunta dichiarazione di intenti altro non è che una traduzione, in alcuni punti
letterale, in altri rielaborata e arricchita, dell’Avvertenza che apre Lessico
famigliare di Natalia Ginzburg: «Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce
del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito
spinta a distruggere quanto avevo inventato»32. Il gioco intertestuale
continua: «Non aveva una gran voglia di parlare di se stesso. Infatti non
ha scritto la storia di se stesso, quanto quella della famiglia del mio buon
padre, anche se non l’ha de(scritta)»33 dichiara il narratore di Harmonia
caelestis facendo slittare alla terza persona la limpida dichiarazione in
cui la scrittrice torinese si poneva volutamente ai margini della storia
narrata: «Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non
è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia
famiglia»34. Se il debito nei confronti di Lessico famigliare poteva essere
già colto nel titolo della prima parte del libro, Frasi numerate dalla vita
della famiglia Esterházy, che rimanda alla dimensione del dialogo domestico e del patrimonio linguistico che contraddistingue ogni storia
di famiglia, tutto il romanzo è fitto di citazioni e di riferimenti impliciti
a tanta letteratura ungherese ed europea – Kosztolányi, Márai, Goethe,
Kafka, Beckett, Kiš sono soltanto alcuni dei nomi che compaiono nel
promiscuo elenco. La poderosa genealogia finzionale va dunque letta
come una continua riscrittura.
«È di una difficoltà cane mentire senza conoscere la verità»35 recita l’incipit di Harmonia caelestis, in una sentenza che ha il sapore di
una profezia. Le rocambolesche vicende della famiglia Esterházy non si
concludono infatti con la fine del volume. Durante la preparazione del
romanzo lo scrittore aveva chiesto di consultare gli archivi dei servizi
31.
32.
33.
34.
35.
P. Esterházy, Harmonia Caelestis (2001), Milano, Feltrinelli, 2003, p. 329.
N. Ginzburg, Lessico famigliare (1963), Torino, Einaudi, 2010, Avvertenza.
P. Esterházy, op. cit., p. 329.
N. Ginzburg, Lessico famigliare, cit., Avvertenza.
P. Esterházy, op. cit., p. 11.
253
254
ELISABETTA ABIGNENTE
segreti ungheresi per sapere se fosse mai stato tenuto sotto controllo
e scopre così, soltanto dopo aver dato alle stampe la grandiosa epopea
della sua famiglia nella quale si stagliava la figura paterna, che proprio suo padre era stato una spia, un informatore del regime dal 1957
al 1980. Nell’Edizione corretta di Harmonia caelestis, pubblicata del
2002, verranno ripercorsi, quasi in forma di diario, i giorni drammatici
dell’inquietante scoperta, che costringe lo scrittore
Quaeuna
s sconvolgenE-èbperò
te rilettura ex post della sua intera infanzia e giovinezza.toNon
oo
prevista in questo caso nessuna riappacificazione, nessuna rielabora-k
zione del trauma: lo rivela la forma irrisolta, frammentaria, volutamente imperfetta di questo secondo libro, la sua veste grafica espressiva e
disomogenea, con ampi inserti in inchiostro rosso e il ricorso alle parentesi per indicare le varie aggiunte e stratificazioni intervenute nella
tormentata genesi.
Ricostruire le dinamiche di un nucleo familiare policentrico, multiforme e conflittuale, riuscire a penetrare nei pensieri di uomini e donne appartenenti a un mondo ormai sepolto doveva presentarsi come
un’operazione costosa e complessa anche agli occhi di Clara Sereni.
Nell’appendice de Il gioco dei regni (1993) intitolata Dopo la storia: perché si legge dell’iniziale resistenza ad addentrarsi in un passato che è
arduo riuscire a districare, della curiosità e dell’entusiasmo che anima
il percorso di ricerca, simile a un lento processo di disvelamento. Non
a caso, lo stimolo alla ricostruzione genealogica proviene dalla scoperta
del midrash, l’esegesi biblica dei testi sacri: «Midrash, che dalla radice
drsh deriva il senso del ricercare, dell’interrogare, dell’investigare: un
gioco intellettuale ricco di sorprese, e la chiamavo ginnastica mentale.
Annusavo la pista come un detective, senza chiedermi cosa stessi inseguendo e perché: […] con la sensazione di scoprire una vena sepolta, e
forse non solo dentro di me»36.
36. C. Sereni, Il gioco dei regni, Firenze, Giunti, 1993, p. 434. L’interesse per la ricostruzione del proprio passato familiare animava già le pagine di Casalinghitudine (1987), storia di
famiglia en travesti: cfr. E. Gambaro, Diventare autrice. Aleramo Morante De Céspedes Ginzburg
Zangrandi Sereni, Milano, Unicopli, 2018, pp. 241-267. Per un approfondimento sulle intense figure femminili del romanzo del 1993 cfr. M. Palumbo, Il gioco dei regni di Clara Sereni:
la Mater dolorosa e il lutto della storia, in «Notes per la psicanalisi», 11, 2018, pp. 103-109.
appa
rt
UNA STORIA DI OMBRE
L’idea di intraprendere il lento e avvincente processo di disvelamento delle proprie origini e di districamento dei rami è legata alla casualità di un incontro e continua con un viaggio in Israele, luogo carico
di significati il cui ricordo confuso risale agli anni dell’infanzia. Sono
proprio i racconti e la calda accoglienza di zii e cugini ebrei insieme
alla visita in un archivio nel quale entra in contatto con scatole piene
di lettere e documenti relativi alla nonna materna Xenia, a innescare
nella scrittrice una crescente curiosità per i suoi avi, e una sempre più
indomabile necessità di sapere mista a un inedito senso di appartenenza
familiare. A sostenerla nell’impresa c’è Stefano Rulli, compagno di vita
che, un decennio più tardi, avrebbe scritto insieme a Sandro Petraglia
una delle saghe familiari che hanno meglio saputo raccontare l’Italia del
secondo Novecento: La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana. Al ritorno a Roma, pur con una notevole ritrosia e non senza un certo scoraggiamento per la complessità della materia da dipanare, Clara
Sereni si immerge nelle ricerche d’archivio e nella raccolta di testimonianze orali di amici dei genitori, tra i quali Manlio Rossi Doria e Vittorio Foa. Ai colloqui privati e ai documenti ritrovati – fotografie, lettere,
verbali – si aggiungono i libri e gli articoli scritti dal padre Emilio, detto
Mimmo, e dalla madre Xenia, conosciuta con il “nome di battaglia” di
Marina adottato nell’attività politica all’interno del Partito Comunista.
L’ampiezza del materiale d’archivio a disposizione, la pluralità delle testimonianze raccolte, il ritorno del rimosso, a volte traumatico e irruento come un fiume in piena, innescano un meccanismo difficile da arginare. Non stupisce dunque che metafore alle quali la scrittrice ricorre
per descrivere il suo percorso di riappropriazione della memoria siano
l’immagine dell’uragano37 e quella del terremoto38. Ad intensificare il
senso di impotenza che si avverte di fronte alla portata inarrestabile di
una catastrofe naturale, interviene anche l’immagine della trappola, che
la costringe a fare i conti con il proprio passato impedendo ogni possibilità di sottrarvisi: «Mi sentii in trappola: da allora, e per lungo tempo,
37.
38.
C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 443.
Ibid., p. 444.
Qu255e
sto E
ELISABETTA ABIGNENTE
256
il libro si chiamò Samarcanda, per dire dell’impossibilità di sfuggire al
destino, una volta che il meccanismo sia innescato»39.
Del travaglio vissuto durante la sua preparazione restano tracce evidenti nel testo. La più significativa riguarda l’uso particolare che Clara
Sereni fa delle fonti alle quali ha attinto. Invece di camuffarle impastandole nella trama stessa del romanzo, sceglie di farle parlare direttamente nel testo, che si presenta come un mosaico di citazioni e di voci. Si
tratta della propria, personale risposta al caos, dell’unica strategia che
la scrittrice individua per trovare «un ordine» e per condividere la sua
responsabilità di autrice (perché ricordare significa sempre selezionare,
decidere cosa includere e escludere, scegliere cosa e come montare)40.
Il libro risulta così costruito sull’intreccio tra parti originali e ampie citazioni, inserite tra virgolette, le cui fonti bibliografiche sono riportate
nella nota iniziale. Nonostante il procedimento sia del tutto scoperto,
l’ampiezza e la frequenza delle citazioni, quasi sempre in prima persona
data la natura diaristica o epistolare delle relative fonti, e la mancanza
di didascalie, finisce per destabilizzare il lettore e allentare i confini netti tra la voce narrante e quelle dei singoli personaggi. La continua alternanza tra prima e terza persona si fa in questo senso particolarmente
significativa in quanto traccia del processo di riscrittura e stratificazione del senso che sottende ogni libro di famiglia e per la sua capacità di
mettere allo scoperto la fragilità del limite tra l’io autoriale e gli altri
familiari, ai quali viene ceduta la parola. L’intento è quello di dare vita a
una storia che si scriva da sola, in un continuo avvicendamento di voci.
Le scoperte e i fallimenti, le illuminazioni e i blocchi affrontati lungo
il percorso diventano materia narrativa nel romanzo di Giorgio van
Straten, costruito sull’alternanza tra tempo della storia e tempo della
scrittura. Il mio nome a memoria, che si apre con un albero genealogico
lungo sei generazioni, si articola in quattro parti, al cui interno l’andamento narrativo segue un ordine cronologico sparso, alternando la
ricostruzione lineare degli avvenimenti a salti spazio-temporali. Pro-
Ibid.
Ibid., p. 447.
Questo E
39.
40.
UNA STORIA DI OMBRE
Qu
e
sto
lessi e analessi abituano il lettore a muoversi con agilità all’interno di
una storia di famiglia che si sviluppa dipanandosi in numerosi rami,
disperdendosi in diversi paesi europei e extraeuropei. Se uno dei tratti
caratteristici della saga familiare risiede nella compensazione dell’ampio arco cronologico raccontato con un restringimento dello spazio
narrativo ai limiti del claustrofobico, la storia dei van Straten registra
al contrario una simbolica assenza di centro, o meglio un policentrismo mobile e dinamico, annunciato sin dal cognome («Straaten», nome
del piccolo paese fiammingo degli antenati, in olandese significa «strade»)41, solo parzialmente compensato dall’albero genealogico che funziona da possibile «approdo simbolico»42. Dopo l’incipit dedicato alla
figura di Hartog Alexander e alla sofferta scelta di un cognome, l’attenzione si sposta già nel secondo paragrafo sull’ultimo erede, colui che
dice io nel libro e si assume il compito di ricostruire e dare forma alla
storia di famiglia. Se il fondatore sentiva su di sé il peso di una decisione
che avrebbe inciso anche sulla vita dei posteri, l’ultimo Giorgio avverte
la responsabilità di far rivivere sulla pagina coloro che hanno portato quel cognome tra le strade del mondo. Si tratta di un compito che,
sebbene autoimposto, si rivela estremamente costoso in termini etici,
prima ancora che psicologici o letterari.
Il primo problema con il quale l’autore si trova a dover fare i conti
è la limitatezza, e in certi casi la vera e propria assenza, di tracce lasciata dalle generazioni che l’hanno preceduto. Se Marguerite Yourcenar
e Clara Sereni potevano contare su una molteplicità di fonti, sebbene
parziali e talvolta contraddittorie, dovuta anche al ruolo pubblico ricoperto da diversi membri delle loro famiglie, la storia dei van Straten
risulta di fatto potenzialmente anonima, una microstoria come tante
altre che potrebbe rischiare di confondersi e amalgamarsi con le diverse epoche che ha attraversato. L’autore si trova così a essere l’ultimo
depositario di una storia incompleta, costellata di vuoti, strappi, pagine
E
-bo
o
ka
p
pa
rt
i
e
ne
a
41. G. van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000, p. 19.
42. D. Budor, Il «romanzo genealogico», ovvero la memoria viva dei morti, in R. Speelman,
M. Jansen, S. Gaiga (a cura di), Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, in «Italianistica ultraiectina», 2, 2007, pp. 115-128.
257
am
ila
ri
9
u
o
io8
ELISABETTA ABIGNENTE
258
sbiadite e indecifrabili. L’aspetto più inquietante risiede nella constatazione che quest’assenza di tracce non si limita a generazioni lontane nel
tempo, dove sarebbe in qualche modo giustificata dai continui spostamenti, dalla povertà e dalla guerra, ma riguarda prima di tutto la figura
del padre: «Anche mio padre non ha lasciato un foglio scritto. Non parlo di un testamento, non è quello che mi manca. Intendo che di lui non
c’è una lettera, un appunto, tanto meno un diario»43. Da questa assenza
di fonti scritte, dolorosa, disorientante, si origina la scrittura stessa, che
si offre come unica possibile occasione di risarcimento, nel suo doppio
significato di riparazione e di indennizzo, del passato.
Alla domanda che tutti i nostri autori si pongono – come e quanto
sia giusto colmare con l’immaginazione i vuoti della storia – Van Straten trova una propria personale risposta ricorrendo alla metafora del
restauro, suggeritagli da Luciano Berio in Rendering44, che puntella il
testo come un Leitmotiv. L’accostamento della figura dell’autore a quella
di un restauratore non si limita all’analogia tra il tentativo di recupero
memoriale e la lenta operazione di ripristino di antichi colori sbiaditi
dal tempo ma indica anche la possibile strategia alla quale ricorrere nel
caso in cui ogni traccia sia andata perduta: «Come un restauratore posso recuperare i colori che il passare dei secoli ha offuscato, che cattivi
pittori hanno coperto. Ridare vita, respiro. Ma c’è un confine per me invalicabile: anche nei moderni restauri, nei punti in cui la pittura è completamente scomparsa, non si può inventare un disegno che è perduto.
Fra una zona recuperata e l’altra si dà una mano di intonaco bianco»45.
Il libro è puntellato di riflessioni sul proprio operare, di dichiarazioni di intenti, di verifiche in itinere, di autocommenti. La componente
autoriflessiva si arricchisce di volta in volta di ulteriori specifiche e distinzioni, come quella tra i casi in cui il colore è recuperabile perché si
è in possesso di oggetti-reliquia portatori di indizi – un quaderno, un
orologio, una fotografia – e gli altri in cui invece l’unica possibile via
G. van Straten, op. cit., pp. 21-22.
Ibid., p. 296.
Ibid., p. 22.
o
o E-bo
Quest
43.
44.
45.
UNA STORIA DI OMBRE
d’uscita sia quella di un rispettoso silenzio. Se in fase programmatica la
linea di confine tra il vero e il verosimile, tra l’accaduto e l’inventato, appare nitida e netta, una volta immersi nella scrittura questa distinzione
lentamente sfuma e tutto si confonde. I dubbi che tormentano l’autore-narratore prendono la forma di un esame di coscienza che offre una
chiave di lettura per comprendere non soltanto il suo personale processo creativo ma anche quello intrapreso da tutti gli autori qui indagati.
Negli stessi anni Novanta nei quali van Straten scrive la sua genealogia fatta di nomi, anche Oriana Fallaci si ferma, dopo il lungo e avventuroso peregrinare, per immergersi in un viaggio nel tempo. Alla vecchia passione per le storie di famiglia, testimoniata dalla grande mole di
appunti raccolti nel tempo, si aggiunge, dopo l’ultimo lavoro da inviata
nella Guerra del Golfo nel 1991, la scoperta della malattia che le mostra
improvvisamente la possibile brevità degli anni che le restano da vivere: «Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di
pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali
sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che
cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno
d’estate costituiva il mio Io»46.
Sin dal prologo di Un cappello pieno di ciliegie, il voluminoso romanzo incompiuto pubblicato postumo nel 2008, il percorso a ritroso lungo
le generazioni si connota per Oriana Fallaci come un’indagine interiore,
tale da rendere la storia della propria famiglia una forma di autobiografia
stratificata e plurale. Come l’albero genealogico che insieme alle fotografie del dattiloscritto e degli appunti autoriali compone il paratesto, anche
il libro si articola in quattro parti che ripercorrono i rami materni e paterni. All’ampio arco cronologico, compreso tra il 1773 e il 1889, corrisponde anche in questo caso uno spazio multiforme: il paese di Panzano
in Chianti è il simbolico epicentro di una storia di famiglia che, nel corso
delle sue circa ottocento pagine, tocca le città di Firenze, Torino, Cesena
e si spinge oltreoceano. Una storia di tradimenti e abbandoni, di amori e
o
oE
-b
st
Qu
e
ne
art
ie
pp
ok
a
46.
O. Fallaci, Un cappello pieno di ciliegie, Milano, Rizzoli, 2016, p. 7.
259
ELISABETTA ABIGNENTE
bugie, di ferite e ritrovamenti, di annegamenti e morti che per essere narrata richiede uno sguardo lucido in grado di arginare il rischio di dispersione costantemente all’orizzonte. Se il percorso memoriale è simile allo
«scoperchiare una scatola che contiene un’altra scatola che ne contiene
un’altra ancora all’infinito»47, anche in questo caso una metafora artistica viene in supporto: si tratta dell’immagine dell’io come mosaico, le cui
tessere corrispondono alle esistenze di coloro che ci hanno preceduto. Il
senso di questa immagine si rivela però di segno completamente opposto
a quello suggerito da van Straten: se in quel caso lo scrittore si poneva nei
panni di un restauratore che con pazienza e pudore si faceva strumento
di un lento e pur sempre parziale recupero del passato, qui la struttura
interna del mosaico viene associata alla personalità stessa della scrittrice,
abbattendo ogni confine tra io e manufatto.
L’aspetto più interessante della saga di Oriana Fallaci, per altri
versi non esente dai cliché propri di un genere di consumo, consiste
nell’idea di guardare alla storia di famiglia come un percorso di eterna reincarnazione lungo le generazioni. Lo strumento al quale la scrittrice ricorre per ricostruire le vicende dei propri progenitori consiste
infatti nell’immedesimazione, marcata dal passaggio, nei momenti di
maggiore intensità emotiva, dalla terza persona alla prima. Non si vive
soltanto dopo chi ci ha preceduto ma anche attraverso di loro. La figura del narratore finisce per somigliare allora da un lato a quella di un
acchiappa-fantasmi, che fa i conti con l’inafferrabilità di individualità
sfuggenti e lontane nel tempo, dall’altra a un fantasma stesso, che si diverte a incarnarsi di volta in volta nei corpi che tenta di riportare in
vita, tanto da poter dire: io sono coloro che racconto. Viene così portata
alla massima evidenza quella relazione ambigua tra io e noi, singolare
e plurale, che costituisce uno dei marchi caratteristici delle memorie
di famiglia48: l’interiorità del discendente è una sorta di palinsesto nel
quale permangono, incisi, i segni delle esistenze precedenti alla propria,
le tracce degli individui che l’hanno generato.
sto
e
Qu
E
k
oo
b
-
p
ap
a
n
rtie
e
260
47.
48.
Ibid., p. 8.
Cfr. ibid., pp. 463 e 470.
UNA STORIA DI OMBRE
«Che cosa ci sarebbe stato da scrivere in avvenire sotto il suo nome,
che le aveva imposto la nonna Antoniette?»49, si chiedeva Tony Buddenbrook all’epoca della fatidica e sofferta scelta del matrimonio con
Grünlich in una delle sequenze più intense del romanzo di Thomas
Mann, immaginando cosa avrebbero potuto leggere i suoi discendenti
sfogliando le pagine ingiallite di quel «libretto dalla copertina di pelle
sbalzata e dal taglio dorato»50 in cui erano narrate le vicende degli avi.
Alcuni anni dopo e qualche riga più sotto, il piccolo Hanno avrebbe
tracciato una doppia linea continua, lugubre anticipazione della fine
di un mondo. Nelle memorie di famiglia qui indagate, e in particolar
modo nelle loro soglie, sembrano rivivere questi due gesti speculari:
da un lato la consapevolezza di Tony di dover essere all’altezza di «coloro che ci hanno preceduti e ci hanno indicato la strada»51 attraverso
le proprie scelte e la trasmissione della memoria (non a caso è a lei che
Gerda affida le carte di famiglia alla fine del romanzo riconoscendola
come unica vera erede spirituale dei Buddenbrook); dall’altro il gesto
istintivo e definitivo di Hanno, l’ultimo discendente, presenza ormai
postuma, al quale non resta che mettere un punto a una storia lunga
generazioni. Alla luce di questo sia pur limitato percorso, si potrebbe
concludere osservando che se, come scrive Marina Polacco, «la conservazione della memoria è la condizione imprescindibile per la preservazione dell’identità familiare» e «la dissoluzione della coscienza storica
è l’anticamera della morte»52, la passione per l’indagine genealogica e
per il recupero memoriale che anima e struttura non pochi romanzi
contemporanei sembra confermare che il romanzo di famiglia sia un
genere ancora lontano dal proprio tramonto e che la scrittura continui
a rappresentare una potentissima strategia di sopravvivenza.
49.
50.
51.
52.
T. Mann, I Buddenbrook (1901), Torino, Einaudi, 1952, p. 144.
Ibid., p. 45.
Ibid., p. 134.
M. Polacco, op. cit., p. 120.
Q
ue
st
o
E-
bo
ok
261
262
ELISABETTA ABIGNENTE
Questo E-book appartiene a ilariamuoio89 gmail.com 201
Bibliografia
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia
oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Budor D., (2007), Il «romanzo genealogico», ovvero la memoria viva dei morti, in
R. Speelman, M. Jansen, S. Gaiga (a cura di), Scrittori italiani di origine ebrea
ieri e oggi: un approccio generazionale, in «Italianistica ultraiectina», 2.
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale del XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
Castellana R., (2019), Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido,
Roma, Carocci.
Costagli S., (2017), Autobiografia collettiva di una nazione. L’onda lunga dei Familienromane tedeschi, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo
di famiglia oggi, cit.
Costagli S., Galli M. (a cura di), (2010), Deutsche Familienromane. Literarische
Genealogien und internationaler Kontext, Paderborn, Fink.
de Cristofaro F., (2017), Controcanto epico. Vie del romanzo di famiglia tra postmoderno e ipermoderno, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo
di famiglia oggi, cit.
Demanze L., (2008), Encres orphelines. Pierre Bergounioux, Gérard Macé, Pierre
Michon, Paris, José Corti.
Donnarumma R., (2014), Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino.
Esterházy P., (2003), Harmonia Caelestis, Milano, Feltrinelli.
Fallaci O., (2016), Un cappello pieno di ciliegie, Milano, Rizzoli.
Freud S., (1972), Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura
di), Opere. 1905-1908. Il motto di spirito e altri saggi, vol. V, Torino, Boringhieri.
Gambaro E., (2018), Diventare autrice. Aleramo Morante De Céspedes Ginzburg
Zangrandi Sereni, Milano, Unicopli.
Ganeri M., (1999), Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al
postmoderno, Piero Manni, Lecce.
Genette G., (1989), Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi.
UNA STORIA DI OMBRE
Ginzburg C., (2006), Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli.
Ginzburg N., (2010), Lessico famigliare, Torino, Einaudi.
Mann T., (1952), I Buddenbrook, Torino, Einaudi.
Mann T., (2000), Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943), Milano, Mondadori.
Mazzoni G., (2011), Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino.
Moretti F., (1994), Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di
solitudine, Torino, Einaudi.
Palumbo M., (2018), Il gioco dei regni di Clara Sereni: la Mater dolorosa e il lutto
della storia, in «Notes per la psicanalisi», 11.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Robert M., (1972), Romans des origines et origines du roman, Paris, Grasset.
Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter
Lang.
Sereni C., (1993), Il gioco dei regni, Firenze, Giunti.
Sperti V., (1999), Écriture et mémoire. Le Labyrinthe du monde de Marguerite
Yourcenar, Napoli, Liguori.
van Straten G., (2000), Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori.
Tassoni L., (2007), La memoria familiare: due letture incrociate. Giuseppe Tomasi
di Lampedusa e Péter Esterházy, Roma, Carocci.
Tobin P.D., (1978), Time and the Novel. The genealogical imperative, Princeton,
Princeton University Press.
Viart D., (1999), Filiations littéraires, in J. Baetens, D. Viart (a cura di), États du
roman contemporain, «Écritures contemporaines», 2.
Yourcenar M., (1981), Care memorie, Torino, Einaudi.
Yourcenar M., (1982), Archivi del Nord, Torino, Einaudi.
Yourcenar M., (2013), Con beneficio d’inventario, Milano, Bompiani.
263
Q
o
Quest
Finzioni che legano:
la saga familiare come genere
interartistico e intermediale
Alessio Baldini
Introduzione: il successo dell’Amica geniale e di Gomorra
– La serie
Il ciclo romanzesco L’amica geniale (2011-14) di Elena Ferrante e
la serie televisiva Gomorra – La serie (2014–) di Stefano Sollima sono
le due opere d’arte narrativa italiane che hanno avuto il maggior successo di pubblico e la maggiore attenzione dalla critica a livello globale
nell’ultimo decennio. I diritti dei libri di Ferrante sono stati acquistati
in 48 paesi e la quadrilogia ha venduto più di 11 milioni di copie nel
mondo1. Gomorra di Sollima è la serie televisiva a pagamento più vista di sempre con una media di circa 885.000 spettatori a puntata nelle
prime tre stagioni2, i cui diritti sono stati venduti in più di 190 paesi3.
Le ragioni di questo successo sono molte. Una è l’ambientazione in una
Napoli dove povertà, disuguaglianze sociali e violenza sono ben visibili
e la vita dei personaggi è dominata o minacciata dalla presenza del crimine organizzato. E a preparare il terreno era stato il memoir finzionale
di Roberto Saviano Gomorra (2006), che non ha solo fornito il materiale
Questo E-book appartiene a ilariamu
1. Queste sono le cifre riportate da M. Reynolds (il direttore editoriale di Europa Editions)
in un’intervista rilasciata per il documentario Ferrante Fever uscito nel 2017: G. Durzi, Ferrante Fever, Roma, Malìa – Rai Cinema, 2017, 00:10:56-00:11:34.
2. I dati sono raccolti e pubblicati in D. Renga, Watching Sympathetic Perpetrators on Italian Television: Gomorrah and Beyond, Cham, Switzerland, Springer Nature - Palgrave Macmillan 2019, pp. 280-281.
3. Dichiarazione rilasciata da A. Cattelan per conto di Sky Atlantic nel 2017; accessibile
all’indirizzo: https://tg24.sky.it/spettacolo/serie-tv/2017/09/12/sky-upfront-2017-2018 (consultato il 5 luglio 2020).
ALESSIO BALDINI
266
2
012
om 2
il.c
to
Ques
narrativo per la serie TV, ma ha anche riportato l’attenzione
gmsuaNapoli e
9
8
o
i
sul crimine organizzato con 10 milioni dim
copie
uo vendute globalmente4.
a
i
r
la quadrilogia dell’Amica geniale e
La seconda ragione del successo
a idella
e
n
e
i
t
di Gomorra – Lap
serie
ar è il fatto che entrambe sono delle saghe familiari.
p
a
k
Le pagine
che
seguono
sono dedicate a questo genere narrativo. Il mio
o
-bo
E
obiettivo è proporre una definizione teorica della saga familiare basata
su prove documentarie che rendano conto delle pratiche di chi produce e consuma romanzi, film e serie televisive. Nel prossimo paragrafo
(1. La circolazione della saga familiare nella cultura moderna) ricostruisco
la genesi e la diffusione della saga familiare e nel secondo spiego perché
penso sia necessario adottare un approccio interartistico e intermediale
a questo genere (2. Finzione, arti e media, generi). Poi nel terzo paragrafo
propongo una definizione della saga familiare (3. La saga familiare come
genere narrativo middlebrow: personaggi, tempo, spazio e punti di vista)
e infine concludo parlando della sua funzione sociale (Conclusione: dalla poesia del Risorgimento alla prosa della vita nazionale). Anche se terrò presente l’orizzonte della letteratura, del cinema e della televisione
globali, mi concentrerò sull’Italia. La saga familiare è infatti un genere
«glocale (glocal)»5 e deve la sua circolazione e il suo successo globali alla
possibilità che offre a chi consuma queste opere d’arte di immaginare
storie e personaggi radicati in un luogo e in un momento specifici.
1. La circolazione della saga familiare nella cultura moderna
I ruoli e le relazioni familiari sono onnipresenti come oggetti o
temi di racconto nelle opere d’arte narrativa. Bisogna però distinguere le opere in cui la famiglia è la dominante tematica e strutturale del
racconto6: solo queste opere sono elementi di quel sottoinsieme che
chiamo saga familiare. Sorprende che questo genere narrativo diffuso
e longevo abbia ricevuto così poca attenzione da parte sia degli studi
letterari sia di quelli sul cinema o sulla televisione. Ci sono delle mo-
4. G. Benvenuti, Il brand Gomorra: dal romanzo alla serie tv, Bologna, il Mulino, 2018.
5. D. Damrosch, How to Read World Literature, Chichester (UK), Wiley-Blackwell, 2009, p. 192.
6. Y.-L. Ru, The Family Novel: Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992.
FINZIONI CHE LEGANO
i l .c
9 g ma
uoio8
lariam
ne a i
partie
ok ap
Quest
o E-bo
nografie di riferimento su molti generi letterari, tra cui il romanzo di
formazione, quello storico, quello domestico e quello di adulterio7. Nel
caso del cinema e della televisione sono stati studiati a fondo i generi
importanti, dal western alla commedia, al poliziesco, al noir e all’orrore;
e ci sono persino collane editoriali dedicate ai generi8. La saga familiare è menzionata invece solo di sfuggita all’interno della riflessione su
cinema e storia9. Fra i pochi studi esistenti su questo genere in ambito
letterario, vanno menzionati quelli di Stefano Calabrese e di Patricia
Tobin sui romanzi genealogici10; il saggio di Marina Polacco, che ha il
merito di porre le basi per la definizione del romanzo familiare11; c’è
poi la monografia di Jobst Welge, che è la prima a spiegare la funzione sociale di questo genere all’interno degli immaginari nazionali12; c’è
infine il numero speciale di Enthymema curato da Elisabetta Abignente ed Emanuele Canzaniello, dove si mette a fuoco la distinzione fra il
memoir familiare e la saga come genere di finzione13. In questo saggio
riprendo i risultati già acquisiti da queste ricerche, mettendoli però in
una cornice concettuale e su una base documentaria nuove.
Vorrei dunque ricostruire come è nata la saga familiare e come ha
iniziato a circolare. Prima di fare questo, vorrei però dire qualcosa sulla
scelta terminologica e vorrei tracciare la diffusione di questo genere
267
7. F. Moretti, The Way of the World: The Bildungsroman in European Culture, London, Verso, 1987; G. Lukács, The Historical Novel, Harmondsworthm, Penguin, 1969; N.
Armstrong, Desire and Domestic Fiction: A political History of the Novel, New York-Oxford,
Oxford University Press, 1987; T. Tanner, Adultery in the Novel: Contract and Transgression,
Baltimore (MD)-London, Johns Hopkins University Press, 1979.
8. Ad esempio Berry Keith Grant cura New Approaches to Film Genres per Wiley Blackwell.
9. R. Rosenstone, History on Film/Film on History, Harlow, Pearson, 2006.
10. S. Calabrese, Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti
(a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640; P.D. Tobin, Time and the
Novel, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1978.
11. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica»,
13, 2005, pp. 95-125.
12. J. Welge, Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern
Novel, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015.
13. E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017.
268
ALESSIO BALDINI
Q
u
es espresnella cultura globale. Ho scelto “saga familiare” perché questa
to tesione si può riferire non solo ai libri, ma anche ai film e alle serie
Elevisive. Usando “saga familiare” non voglio indicare alcun rapporto
b
con le saghe islandesi medievali o conferire un carattere epico a questeoo
opere. Al contrario, le opere d’arte centrali per le saghe familiari che ho k
in mente sono ambientate in società moderne e raccontano storie di
personaggi più o meno ordinari. Il mio uso di “saga familiare” è dunque
tecnico, ma rimanda al significato etimologico di “saga” come “detto”,
“storia” o “racconto” – la radice germanica è la stessa del verbo “dire” (to
say, sagen, zeggen, säga, seie, sige, segja).
La saga familiare è uno dei generi narrativi più importanti e popolari non solo nella letteratura italiana, ma anche nella letteratura mondiale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La saga familiare conta
molti noti capolavori e continua ad arricchirsi di opere che hanno una
grande diffusione presso il pubblico e ricevono un ampio consenso da
parte della critica. Alcuni esempi sono Les Rougon-Macquart (1871-93)
di Émile Zola, I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, I Maia (1888) di
José Maria Eça de Quirós, I Buddenbrook (1901) di Thomas Mann, Il
regno dei morti (1912-16) di Henrik Pontoppidan, Gli anni (1937) di Virginia Woolf, Famiglia (1933-40) di Ba Jin, La trilogia del Cairo (1956-57)
di Naguib Mahfouz, La serie di Stoccolma (1960-68) di Anders Fögelstrom, Cent’anni di solitudine (1967) di Gabriel Garcia Márquez, Il mare
della fertilità (1969-71) di Yukio Mishima, Radici (1976) di Alex Haley,
La casa degli spiriti (1982) di Isabelle Allende, L’albero della vita (1992)
di Maryse Condé, Grande seno e fianchi larghi (1996) di Mo Yan, Denti
bianchi (2000) di Zadie Smith, Le correzioni (2001) di Jonathan Franzen,
Middlesex (2002) di Jeffrey Eugenides, La saga dei Cazalet (1990-2013)
di Elizabeth Howard, L’amica geniale di Elena Ferrante, Non dimenticare chi sei (2016) di Yaa Gyasi, Pachinko (2017) di Min Jin Lee. Anche
questa lista parziale dà il senso della circolazione globale e dell’adattabilità di questo genere a diversi contesti nazionali; le opere ricordate
qui provengono infatti da quasi tutti i continenti e da letterature di paesi molto diversi per collocazione geopolitica, lingua e cultura. La saga
familiare è un genere adatto alla serialità e alla resa cinematografica e
televisiva. Così si trovano numerosi adattamenti di opere letterarie per
ap
pa
rt
FINZIONI CHE LEGANO
lo schermo, anche se ci sono opere originali. Si può pensare ai Buddenbrooks (1923) di Gerhard Lamprecht, Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il
Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, Il padrino (1972-90) di Francis
Ford Coppola, Karl e Cristina (1971) e La nuova terra (1972) di Vilhelm
Moberg, Radici (1977) di Marvin Chomsky et al., Novecento (1976) di
Bernardo Bertolucci, Heimat di Edgard Reitz (1984-2013), La casa degli spiriti (1993) di Bille August, Vivere! (1994) di Zhang Ymo, Sunshine
(1999) di István Szabó, La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, Gomorra di Sollima e So Long, My son (2019) di Wang Xiaoshuai.
L’ideatore del genere è Émile Zola, i cui Rougon-Macquart sono il
primo tentativo di costruire una narrazione seriale che si regga sulla
storia di una famiglia. Dopo il successo ottenuto con Thérèse Raquin
(1867), il giornalista e romanziere francese decide di lanciarsi in un’impresa letteraria più ambiziosa dal punto di vista sia artistico sia commerciale. Stanco del lavoro di giornalista, Zola tenta di diventare uno
scrittore di professione e per fare questo ha bisogno di un progetto che
gli permetta di scrivere una serie di romanzi di qualità per il grande
pubblico. E la saga familiare sarà per lui la soluzione, come Zola rivela
ai fratelli Gouncourt durante il loro primo incontro avvenuto a metà
dicembre del 186814. All’inizio del 1869 Zola firma un contratto con
l’editore Albert Lacroix per la pubblicazione di una serie di 10 romanzi;
il progetto dei Rougon-Macquart passerà poi con la pubblicazione di Le
Ventre de Paris (1873) all’editore Charpentier e crescerà fino a includere
20 romanzi. Fra l’autunno del 1867 e l’inizio del 1869 Zola stende una
serie di appunti preparatori al primo romanzo La Fortune des Rougon
(1871) e all’intera serie, che avrebbe dovuto rappresentare la società
francese sotto il Secondo Impero. Il modello è quello della Comédie
humaine di Balzac, che l’editore Michel Lévy stava ripubblicando proprio in quegli anni all’interno delle Œuvres Complètes. Zola deriva da
Balzac sia l’idea di raccontare la vita di diverse classi sociali in un ciclo
romanzesco sia l’uso di personaggi che ricorrono come strategia narrativa per legare i romanzi. Conscio del suo debito, Zola vuole marcare
Questo E-b
14. E.-J. de Goncourt, 14 décembre 1868, in R. Ricatte (a cura di), Journal. Mémoires de la
vie littéraire, Monaco, Flasquelle and Flammarion, 1956, pp. 154-156.
269
270
ALESSIO BALDINI
la sua originalità e intitola un gruppo di appunti Différences entre Balzac
et moi15. E nei primi appunti che stende, intitolati Notes générales sur la
marche de l’œuvre, Zola identifica proprio nel racconto di una storia di
famiglia l’elemento centrale del suo progetto; d’altra parte il sottotitolo
dei Rougon-Macquart è Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le
Second Empire. Zola vuole dunque scrivere un romanzo «simple (semplice)» con «une seule famille, avec quelques membres (una sola famiglia
con qualche membro)»16.
Se è Zola ad avere ideato la saga familiare, sono scrittori e scrittrici
che si sono riconosciuti nel naturalismo di cui è stato il promotore ad
averla trasformata in un genere. L’influenza della letteratura francese
ottocentesca su quella mondiale non può essere sottovalutata e Zola è
stato l’autore francese della seconda metà dell’Ottocento più venduto e
noto anche all’estero17. Grazie alla sua fama e alla sua capacità di promotore culturale e commerciale, Zola trasforma il naturalismo in una
koinè letteraria europea a cui si ispirano poi autrici anche nelle Americhe e in Asia; e anche quando il naturalismo declina come movimento letterario verso la fine del XIX secolo, la saga familiare continua a
circolare e poi si estende al cinema e alla televisione. Ma come inizia a
circolare l’idea che sta alla base di questo genere narrativo? Lo si capisce
se si guarda alla letteratura italiana, che è la prima – per quanto ne so –
a importare la saga familiare; e ciò non deve stupire vista la prossimità
geografia della Francia e dell’Italia e l’impatto della cultura francese su
quella italiana nella seconda metà dell’Ottocento.
io89
È vero che Zola era noto per il successondi
singoli
amuocome
ilariromanzi
a
e
ie
rt
a
p
p
ok aGerminal (1885) e La Débâcle (1892), che
L’Assomoire(1877),
Nana
-bo(1880),
sto E
u
Q
si potevano e venivano letti isolatamente; ed è inoltre vero che il ciclo
dei Rougon-Macquart nel suo complesso è stilisticamente disomogeneo,
15. É. Zola, Différences entre Balzac et moi (Bnf – f 15/2), in C. Becker (a cura di), La fabrique des Rougon-Macquart, Paris, Champion, 2003, pp. 40-48.
16. É. Zola, Notes sur ma marche générale de l’œuvre (Bnf – f 2/1, f 6/5), in C. Becker (a cura
di), La fabrique des Rougon-Macquart, cit., p. 33.
17. D. Sassoon, Zola: Money, Fame and Conscience, in The Culture of the Europeans: From
1800 to the Present, London, HarperCollins, 2006.
gmail
FINZIONI CHE LEGANO
e
Qu
st
disuguale per valore letterario e narrativamente incoerente. E tuttavia
Zola e i suoi editori non perdono l’occasione di presentare ai lettori
questa serie di romanzi come un’opera unica e questo per ragioni sia
artistiche sia commerciali. Così negli occhietti e nei frontespizi delle
edizioni in volume pubblicate da Lacroix prima e da Charpentier poi il
titolo di ogni romanzo è numerato progressivamente e compare sotto
il titolo della serie18. E nelle prefazioni Zola ribadisce sempre l’unità del
ciclo romanzesco, che dichiara essere basata sul racconto di una storia
familiare. Se le prefazioni ai primi due romanzi – La Fortune des Rougon
e La Curée (1872) – servono a introdurre e lanciare il ciclo sul mercato,
Zola usa la prefazione all’Assommoir (il settimo volume della serie) per
difendersi dalle accuse di avere scritto un romanzo pieno di violenza
e volgarità. Già dalla sua uscita sui periodici l’Assommoir aveva infatti
attirato l’attenzione di pubblico e di critica e l’uscita in volume avrà un
successo di vendite senza precedenti per Zola, la cui carriera e il cui
profilo pubblico ne usciranno trasformati.
In seguito al successo dell’Assommoir, Zola decide di far precedere
il testo del romanzo successivo, intitolato Une page d’amour (1878), da
una Note e dall’albero genealogico della famiglia dei Rougon-Macquart.
L’intento è quello di ravvivare l’interesse per i sette romanzi già pubblicati – che erano elencati nell’occhietto – e alimentare l’aspettativa per
l’uscita del prossimo. È importante notare però che non si tratta solo di
una trovata pubblicitaria. Una versione precedente dell’albero genealogico si trova infatti fra i primi documenti preparatori redatti e inviati a
Lacroix; inoltre Zola dichiara che avrebbe voluto pubblicarlo solo con
l’uscita dell’ultimo volume, perché nella finzione l’albero genealogico è
il risultato di una ricerca scientifica condotta da uno dei personaggi, il
medico Pascal – e infatti un’altra versione verrà allegata al ventesimo
romanzo intitolato proprio Le Docteur Pascal (1893)19.
18. Ad esempio si veda É. Zola, La Fortune des Rougon, Paris, Charpentier, 1871, accessibile all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k8577723?rk=42918;4 (consultato il 5
luglio 2020).
19. É. Zola, Note, in Idem, Une page d’amour, Paris, Charpentier, 1878, pp. v-vii, accessibile all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5839140d?rk=107296;4 (consultato il
5 luglio 2020).
271
ALESSIO BALDINI
Questo E-book appartiene a ilariamuoio89 gmail.com 2
272
La stampa dà grande risalto all’uscita della serie dei Rougon-Macquart.
In particolare, il domenicale del «Figaro» del 21 aprile 1878 è tutto dedicato a Zola. Philippe Gille recensisce infatti sia Une page d’amour sia
l’edizione illustrata dell’Assommoir in uscita per C. Marpon et E. Flammarion. Anche Gille segnala in apertura che il nuovo romanzo va letto
come un episodio all’interno della serie dei Rougon-Macquart, di cui
elenca tutti i romanzi già usciti20. Per diffusione e prestigio il domenicale del «Figaro» era una delle pubblicazioni letterarie più influenti
al mondo e il fatto che un intero numero fosse dedicato a Zola era una
cosa che non passava inosservata. Il domenicale del «Figaro» usciva il
sabato a Parigi e veniva spedito poi nei dipartimenti di provincia dove
era in vendita la domenica. È quindi probabile che copie del domenicale
arrivassero la domenica anche a Milano. Giovanni Verga era un lettore
del «Figaro» e in quel periodo si trovava proprio nella città lombarda: è
possibile quindi che abbia letto il domenicale al Biffi in Galleria o in uno
degli altri caffè letterari che frequentava21. A farlo pensare è la lettera
che Verga scrive proprio quel giorno a Salvatore Paola Verdura. In questa lettera Verga condivide con l’amico avvocato, che viveva a Catania,
l’idea di un ciclo composto da cinque romanzi intitolato La Marea. È
la prima volta che Verga parla di questo progetto e la coincidenza delle
date e l’entusiasmo dell’autore fanno pensare che sia stata proprio la
lettura della recensione di Une page d’amour ad averlo convinto a imitare Zola; è questa lettera che segna l’arrivo della saga familiare come genere narrativo in Italia22. Che Verga intendesse scrivere una saga familiare sul modello di Zola era chiaro anche ai critici letterari dell’epoca.
Nella sua recensione ai Malavoglia, la cui prefazione tornava a parlare
20. P. Gille, Revue bibliographique – Une page d’armour par Émile Zola, in «Le Figaro. Supplément littéraire du dimanche», 21 avril 1878, accessibile all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/
ark:/12148/bpt6k273783z.r=le%20figaro?rk=2060096;0 (consultato il 5 luglio 2020).
21. Su Verga e il Biffi si veda: R. Melis, Per una storia del giornalismo letterario milanese:
Giovanni Verga, Carlo Borghi e gli amici del “Biffi”, in «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», 171, 553, 1994, 553-576.
22. G. Verga, A Salvatore Paola Verdura, Milano, 21 aprile 1878, in Idem, Lettere sparse,
G. Finocchiaro Chimirri (a cura di), Roma, Bulzoni, 1979, pp. 79-80.
p
p
ka
o
bo
E-
toFINZIONI CHE LEGANO
s
ue
Q
del progetto di un ciclo di cinque romanzi che ora si intitolava I Vinti23,
Francesco Torraca non ha dubbi e scrive:
[I Malavoglia sono] un romanzo realista, anzi una serie di romanzi, qualcosa
di simile alla Storia naturale di una famiglia sotto il secondo impero! […] la
famiglia de’ Malavoglia è il pernio del racconto, […] Se non che i Malavoglia
sono appena la base di un grande edifizio. Chi ci assicura che, insieme con
l’avvocato Scipione, non ricompariranno Lena e ’Ntoni? La dimenticanza,
in tal caso, sarebbe semplice artifizio del romanziere. Lia, certo, ricomparirà
e ci dirà quali lotte segrete, quale sgomento, o qual fascino la spinse alla
fuga24.
2. Finzione, arti e media, generi
Fin qui non ho dato definizioni. Mi sono affidato a intuizioni che
spero siano condivise, alcune delle quali ho documentate rimandando a
ciò che autori e lettori professionisti hanno scritto. Sarei potuto partire
da una definizione puramente teorica o “normativa” di un genere – ad
esempio, il «romanzo massimalista» –, per poi applicarla all’insieme di
testi scelti per costruire la definizione, evitando di chiedermi se quella
categoria sia usata da chi produce e consuma opere d’arte25. Sarebbe
stata una scelta legittima, perché non c’è nulla che ci garantisca che le
nostre intuizioni e persino quelle dei romanzieri e dei critici letterari
non siano confuse. Le categorie dell’arte sono infatti «la posta in palio
(up for grabs)» della teoria: ogni teoria di un genere o di un altro tipo
d’arte è sempre una scommessa e una scoperta26. Facendo così avrei
però corso il rischio di costruire una definizione circolare della saga
familiare e di non considerare una dimensione importante della co-
23. G. Verga, Prefazione, in Idem, I Malavoglia, Torino, Einaudi, 1995, pp. 3-7.
24. F. Torraca, I Malavoglia (9 maggio 1881), in Idem, Scritti critici, Napoli, Perrella, 1907,
pp. 374-390.
25. S. Ercolino, Il romanzo massimalista: da L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon
a 2666 di Roberto Bolaño, Milano, Bompiani, 2015. Questo esempio è rilevante perché Ercolino classifica come “romanzi massimalisti” alcuni esempi centrali di romanzo familiare come
Le correzioni di Franzen e Denti bianchi di Zadie Smith.
26. D.M. Lopes, Beyond Art, Oxford, Oxford University Press, 2014, pp. 127-130.
273
boo
Questo
E-
274
ALESSIO BALDINI
struzione dei concetti che usiamo per parlare d’arte – inclusi quelli di
genere –, che è proprio quella dell’uso che ne fa chi produce e consuma opere d’arte. Credo infatti che la teoria dell’arte debba cercare un
«equilibrio riflessivo» fra le intuizioni di chi produce e consuma opere
d’arte e un resoconto «normativamente adeguato» dei concetti in uso
che ha l’obiettivo di migliorare le nostre intuizioni rendendole meno
confuse ed eliminando le fonti di errore27. Non che chi scrive o legge
romanzi abbia bisogno di una teoria per fare quello che fa; lo scopo della teoria è quello di cercare di mettere un po’ di ordine per consentire a
chi fa ricerca di gettare luce sui fenomeni che ci interessano e studiarli
in modo più sistematico. Il mio obiettivo qui è dunque quello di definire
i concetti centrali che ho usato nei paragrafi precedenti. Continuerò a
basarmi su esempi di singole opere d’arte, sia per testare concetti e intuizioni gli uni contro le altre, secondo il metodo dell’equilibrio riflessivo, sia per saggiare il potere «euristico» dei concetti che cercherò di
definire – una teoria è infatti adeguata solo se ci aiuta a capire e spiegare
meglio i fenomeni28. La mia più grande ambizione in questo saggio è
infatti quella di poter contribuire a gettare le basi per un programma di
ricerca su quello che credo sia uno dei generi narrativi più importanti
della cultura moderna.
Per come la definisco, la saga familiare è un genere di finzione. È importante notare che “finzione” non designa qui un insieme di testi e film
che costituirebbero un genere di cui la saga familiare sarebbe un sottogenere; con “finzione” mi riferisco piuttosto a un modo di enunciazione o
rappresentazione in cui parole, immagini e suoni non sono usati per asserire o rappresentare la realtà, ma veicolano una «postura fittizia (fictive
stance)» che induce chi legge o guarda e ascolta a immaginare un mondo
inventato29. Per far capire che cos’è il modo di enunciazione o rappresen27. B. Gaut, “Art” as a Cluster Concept, in N. Carroll (a cura di), Theories of Art Today,
Madison (WI), The University of Wisconsin Press, 2000, pp. 30-31.
28. Ibid.
29. P. Lamarque, S.H. Olsen (a cura di), Truth, Fiction, and Literature, Oxford, Clarendon Press, 1994, pp. 32-34. Per cinema e televisione si veda: C. Plantinga, Rhetoric and Representation in Nonfiction Film, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 15-25. Uso
l’espressione “mondo inventato” in senso metaforico per indicare qualcosa che è frutto della
FINZIONI CHE LEGANO
ook
Q
u
e
s
t
o
E-b
tazione fittizio su cui si basa la finzione, Kendall Walton è ricorso all’analogia con «i giochi di far finta (games of make-believe)» dei bambini:
a
p
p
a
r
t
i
ene a
Per capire i quadri, le opere teatrali, i film e i romanzi, bisogna prima osservare le bambole, i cavalli a dondolo, le macchinine, gli orsacchiotti. Le
attività in cui sono incastonate le opere d’arte mimetiche (representational)
e che costituiscono la loro ragion d’essere si capiscono meglio se pensate in
continuità con i giochi di far finta dei bambini (games of make-believe). Anzi,
propongo di considerare queste stesse attività come giochi di “far finta” e
cercherò di dimostrate che le opere d’arte mimetica funzionano come materiale scenico (props) in questi giochi, proprio come le bambole e gli orsacchiotti servono da materiale scenico nei giochi dei bambini30.
ilari
Delimitare la saga familiare al dominio della finzione mi permette
di distinguere questo genere da quello contiguo delle «memorie familiari»31. Se le memorie familiari condividono infatti molte proprietà
narrative con la saga familiare, il loro modo di enunciazione è però
quello della «postura assertiva (assertive stance)»32: chi scrive delle memorie familiari vuole «ricostruire […] la storia della propria famiglia»
e quanto racconta è valutabile in termini di vero o falso33. Si pensi a
Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg; un libro dove Ginzburg
dichiara di non avere inventato niente e di avere scritto con «profonda
intolleranza per ogni invenzione»34. Un esempio più recente è Leggen-
nostra immaginazione; ho deciso così di preservare quella che mi sembra un’intuizione importante, anche se è notoriamente difficile definire il concetto di “mondo inventato” o “mondo di finzione”; su questo si veda: R. Woodward, Truth in Fiction, in «Philosophy Compass»,
6, 3, 2011, pp. 158-167.
30. K.L. Walton, Mimesis as Make-Believe: on the Foundations of the Representational Arts,
Cambridge (MA)-London, Harvard University Press, 1990, p. 11 [la traduzione è mia].
31. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in
E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 6-17.
32. C. Plantinga, op. cit., p. 19.
33. E. Abignente, op. cit., p. 7.
34. N. Ginzburg, Avvertenza, in Eadem, Lessico famigliare, in Eadem, Opere, vol. I, Milano,
Mondadori, 1986, p. 899.
275
ALESSIO BALDINI
276
da privata (2017) di Michele Mari, che tenta di recuperare la sua storia
familiare attraverso ricordi d’infanzia e fotografie. E passando alla letteratura mondiale viene in mente Il labirinto del mondo (1974-1988), la
trilogia in cui Marguerite Yourcenar riesuma le vite dei suoi avi. Anche
le memorie familiari sono un genere interartistico e intermediale. Non
ci sono quindi solo libri, ma anche documentari come La scomparsa di
mia madre (2019) di Beniamino Barrese, che mette insieme frammenti
del passato e del presente della madre. Oppure si pensi a Stories We Tell
(2012), in cui Sarah Polley va alla ricerca della verità sulla sua nascita
illegittima indagando le personalità e le storie dei genitori e in particolare quella della madre.
Come si è già visto dagli esempi fatti, la saga familiare è un genere
interartistico e intermediale. I generi infatti non sono necessariamente
vincolati dal medium come invece lo sono le arti35. Si può considerare
una forma d’arte come un uso speciale di un medium – ad esempio il
linguaggio verbale, il cinema, la televisione – che «mira a produrre o
produce del valore artistico»36. E se le forme d’arte dipendono dai media, questi a loro volta sono costituiti da «quell’insieme di pratiche che
regolano l’uso del materiale»37 adatto a quel medium e che può essere
sia fisico (carta e inchiostro, un portatile, una macchina da presa, una
pellicola e dei reagenti chimici, un disco rigido) oppure simbolico (le
parole, le immagini e i suoni considerati come segni, le serie numeriche
di cui sono fatti i file di testo e le immagini digitali).
A differenza delle forme d’arte, i generi non sono vincolati a un
medium perché dipendono da rapporti sociali. Come i giochi, i generi
sono degli insiemi di convenzioni che chi produce e consuma un tipo di
opere d’arte riconosce, condivide e usa per interpretarle e valutarle38.
Q
ue
st
o
E-
bo
35. D.M. Lopes, op. cit., p. 133.
36. B. Gaut, A Philosophy of Cinematic Art, Cambridge, Cambridge University Press,
2010, p. 289.
37. Ibid., p. 288.
38. C. Abell, Comics and Genre, in A. Meskin, R.T. Cook (a cura di), The Art of Comics: a
Philosophical Approach, Oxford, Wiley-Blackwell, 2012, pp. 77-78. Ho sostituito le nozioni
di “produttore” e “consumatore” a quella di «comunità (community)» usata da Abell, con cui
intende comunque “gruppi di produttori e consumatori”.
ok
ap
pa
rti
en
e
a
ila
ria
FINZIONI CHE LEGANO
A queste convenzioni risponde l’intenzione autoriale di realizzarle in
un’opera, che quindi esibisce delle proprietà corrispondenti. Vorrei sottolineare che una singola opera non deve possedere tutte le proprietà
corrispondenti per essere assegnata a un particolare genere; ne deve
possedere però almeno una parte e deve essere il prodotto dell’intenzione di creare quel tipo di opera e orientare così le aspettative del pubblico. Infine è frequente che una singola opera esibisca proprietà che
definiscono più di un genere, anche perché questi possono avere delle
convenzioni in comune; e dato che l’assegnazione di un’opera a un genere risponde alle preoccupazioni e agli interessi dei produttori e dei
consumatori che le interpretano e le valutano, accade spesso che una
singola opera si possa assegnare a una pluralità di generi oppure che
questa assegnazione cambi col cambiare delle preoccupazioni e degli
interessi di chi produce e consuma storie di quel tipo. Quindi non solo
la definizione ma anche l’uso dei generi rimane «la posta in palio (up
for grabs)» per chi apprezza, valuta, interpreta e studia l’arte. Per come
la definisco qui, alle convenzioni che caratterizzano la saga familiare
corrisponde un «grappolo (cluster)»39 di proprietà che tendono a essere
co-presenti nella stessa opera e ne caratterizzano gli elementi narrativi
basilari, cioè (i) i personaggi, (ii) il tempo, (iii) lo spazio e (iv) il punto di
vista. Ed è sulle proprietà narrative basilari della saga familiare che mi
concentrerò nel prossimo paragrafo.
mu
Questo E-book appartiene a ilaria
3. La saga familiare come genere middlebrow: personaggi,
tempo, spazio e punti di vista
Le opere che si possono identificare come appartenenti alla saga familiare sono caratterizzate dal racconto di storie di (i) personaggi che
appartengono a una o due famiglie che hanno rapporti di consanguineità o alleanza e sono seguite attraverso due, tre o più generazioni40.
Così viene rappresentato l’intero ciclo della vita: la generazione cen39. Applico qui ai generi la definizione a grappolo di arte proposta da B. Gaut, “Art” as a
Cluster Concept, cit.
40. Nell’identificare le proprietà che definiscono la saga familiare mi sono basato su
M. Polacco, op. cit.
277
278
ALESSIO BALDINI
trale viene seguita dall’infanzia o dalla giovinezza alla vecchiaia, mentre della generazione precedente e di quella successiva si raccontano
rispettivamente l’invecchiamento seguito dalla morte e la nascita e la
crescita prima dell’entrata nella vita adulta. Il racconto per generazioni distingue la saga familiare da generi contigui come il romanzo domestico, il romanzo di formazione o quello di adulterio. Per rimanere
alla letteratura – ma si può pensare agli adattamenti per lo schermo di
alcune delle opere che elencherò –, ciò che hanno in comune Le ultime
lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo, Le confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo, Un matrimonio in provincia (1885) della
Marchesa Colombi e Teresa (1886) di Neera è la «trama del matrimonio
(marriage plot)»41, ovvero il racconto della storia di un personaggio che
ruota intorno a una storia d’amore, al desiderio di sposarsi, alla vita
coniugale o alla crisi di un’unione.
Per i Rougon-Macquart Zola parte dalla stesura di appunti sui personaggi distribuiti per generazioni e poi allega ai romanzi del ciclo l’albero genealogico della famiglia protagonista. Anche Verga nel preparare
I Malavoglia stende degli appunti sui personaggi che sono elencati per
appartenenza familiare e generazionale42. E la pubblicazione dell’albero genealogico della famiglia protagonista o delle informazioni di base
sui personaggi raggruppati per famiglie in apertura Q
o chiusura
ues del libro
o Eè tipica delle saghe familiari. Ciascuno dei quattro volumi tdell’Amica
book
geniale si apre con un Indice dei personaggi, dove questi sono suddivisi per famiglie a partire da quelle delle due protagoniste, «La famiglia
Cerullo (la famiglia dello scarparo)» e «La famiglia Greco (la famiglia
dell’uscire)»43. In una delle pagine di guardia di Acqua di sole (2020) di
Bianca Rita Cataldi sono pubblicati gli schemi dell’albero genealogico
41. È un concetto comune negli studi letterari in lingua inglese (si veda per esempio
L. O’Connell, The Orgins of the English Marriage Plot: Literature, Politics and Religion in the
Eighteenth Century, Cambridge, Cambridge Univesity Press, 2019), tanto da essere diventato il
titolo di un romanzo (J. Eugenides, The Marriage Plot: A Novel, London, Fourth Estate, 2012).
42. G. Verga, I Malavoglia; personaggi, carattere, fisico, e principali azioni, in Idem, I Malavoglia, cit., pp. 386-391.
43. E. Ferrante, L’amica geniale: infanzia, adolescenza, Roma, E/O, 2011, p. 9.
appa
FINZIONI CHE LEGANO
delle famiglie Gentile e Fiorenza44; mentre un albero genealogico più
dettagliato appare in chiusura del racconto e prima dell’indice nei Leoni
di Sicilia (2019), il primo volume dedicato alla saga dei Florio scritto da
Stefania Auci45.
E questo accade anche al cinema e in televisione attraverso media
sonori e visivi. La famiglia di Ettore Scola si apre con un lungo piano
sequenza di una seduta di posa dove sono schierate le generazioni per
una foto di famiglia in occasione del battesimo dell’ultimo nato Carlo,
di cui si sente la voce adulta sovraimpressa che commenta le circostanze ed elenca i membri della famiglia; e tutta la prima lunga sequenza è
dedicata alla meticolosa presentazione dei membri della famiglia46. Il
primo episodio della prima stagione di Gomorra è significativamente
intitolato Il clan dei Savastano. La prima volta che gli spettatori vedono
la casa-bunker dei Savastano è in occasione di una seduta clandestina
dove gli imprenditori e gli amministratori locali affiliati al clan sono
riuniti per discutere di una gara di appalto; l’inquadratura stringe in
campo medio su don Pietro, donna Imma e il figlio Gennaro, alle cui
spalle è appeso un quadro a olio di grandi dimensioni che ritrae lo stesso gruppo familiare47.
Il fatto che i personaggi siano raggruppati per famiglie e distribuiti
su più generazioni fa sì che (ii) il tempo raccontato sia misurabile in
decenni. E questo permette di raccontare come le vite ordinarie siano
esposte e trasformate dagli eventi e dai processi che costituiscono la
grande storia pubblica di una città, di una regione o di una nazione.
Già Les Rougon-Macquart di Zola raccontano la storia della Francia per
un quarto di secolo dall’ascesa alla caduta di Napoleone III (1851-74).
E nell’intenzione di Verga, l’incompiuto ciclo dei Vinti avrebbe dovuto
raccontare la storia d’Italia nell’Ottocento, almeno dalla rivoluzione del
1820 con cui inizia il Mastro-don Gesualdo (1889) fino forse agli anni
ne
art
ie
p
ka
p
o
sto
Ebo
i
Qu
e
mu
o
ria
ai
la
44. B. R. Cataldi, Acqua di sole, Milano, Harper Collins, 2020, p. 9.
45. S. Auci, I Leoni di Sicilia: la saga dei Florio – I, Milano, Editrice Nord, 2019, p. 431.
46. E. Scola, La Famiglia, Roma, Cinecittà – MassFilm, 1987, min. 00:00:26-00:06:20.
47. S. Sollima, Il clan dei Savastano, in Gomorra – La serie, stag. 1, ep. 1., 2014,
min. 00:11:15-00:11:19.
279
ALESSIO BALDINI
280
Ottanta e oltre, se si pensa che I Malavoglia si chiudono verso la fine
degli anni Settanta e Verga aveva progettato di scrivere altri tre romanzi. L’ambizione di raccontare la storia italiana attraverso i decenni è
evidente anche nei Sanssôssí (1929-25; 1963) di Augusto Monti e nel
Mulino del Po (1938-40; 1957) di Riccardo Bacchelli: entrambe le opere
raccontano la storia d’Italia dalle guerre napoleoniche fino alla Grande
Guerra e rispettivamente dal 1796 al 1918 la prima e dal 1812 al 1915
la seconda. A partire dall’ultimo quarto del Novecento l’interesse di chi
scrive libri e di chi dirige film si sposta più avanti sul Novecento o sul
periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, ma resta l’intento di
raccontare le trasformazioni di un’epoca attraverso una storia familiare. È il caso della Storia dei Rupe (1932-73) di Leonida Répaci, che inizia
nel 1900 e si chiude nel 1968, o dello Scialo (1960) di Vasco Pratolini che
racconta il periodo fra le due Guerre Mondiali. Emblematico è il titolo Novecento, il film in due episodi di Bernardo Bertolucci la cui storia
inizia all’inizio del secolo (1901) e si conclude con la fine della Guerra (1945). E nel ventunesimo secolo è la trasformazione avvenuta con
il miracolo economico a marcare spesso l’inizio della storia familiare,
come accade nel ciclo dell’Amica geniale – che parte dal 1958 per arrivare al 2010 –, nella Meglio Gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana
– che ripercorre la storia italiana dal 1966 al 2003 – e in Di padre in
figlia (2017) di Riccardo Milani (ma da un’idea di Cristina Comencini) –
la cui vicenda si snoda dal 1958 al 1981. Si noti qui la differenza rispetto
al genere del romanzo e del film storici, che si concentrano su un numero ristretto di anni e portano in primo piano gli eventi della storia
pubblica. Così accade nei Promessi sposi, che si concentrano su due anni
(1628-30) e dove il racconto della peste è centrale. Oppure si pensi ai
Vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello, la cui storia è racchiusa nei
due anni segnati dal movimento dei Fasci Siciliani (1892-94); e questo
è anche il caso del recente Vincere (2009) di Marco Bellocchio e di M: il
figlio del secolo (2018) di Antonio Scurati, che si concentrano entrambi
sull’ascesa al potere di Benito Mussolini.
A distinguere il romanzo e il film storici dalle saghe familiari non
è la presenza o l’assenza di una sola proprietà. Come dicevo nel paragrafo precedente, un genere è definito da un grappolo di proprietà
Quest
o E-bo
ok ap
partie
ne a i
l
o
ue
st
o
281
Q
che tendono a presentarsi insieme e quello che conta è la co-presenza
di più di una proprietà nella stessa opera. Le opere che appartengono
alla saga familiare sono caratterizzate anche dal fatto che le loro storie
(iii) gravitano intorno alla casa di famiglia o comunque a una località
precisa – un quartiere, un paesino, una città o una regione. E questi
luoghi perimetrano lo spazio raccontato e lo marcano con una soglia
che separa l’identità di un “noi” da quella di un “loro”. Si instaura così
una rete di relazioni complesse fra le proprietà co-presenti nell’opera
che riguardano i personaggi, il tempo e lo spazio. Un tipo di relazione
è per così dire orizzontale: il passaggio da un “al di qua” a un “al di là”
del confine spaziale innesca dinamiche di appartenenza ed esclusione
nei personaggi. C’è poi anche una relazione verticale per cui lo spazio abitato e attraversato per decenni da generazioni diverse compare
come un «luogo praticato (practiced place, lieu pratiqué)»48, cioè rivela
le tracce di usi e di modi di vivere passati mentre continua a essere rivisitato, riusato e rivissuto da altri personaggi. I materiali preparatori ai Rougon-Macquart sono pieni di fotografie di posti e di schizzi di
stanze, case, strade e spazi pubblici49. Il primo disegno che Zola fa per
il suo ciclo romanzesco è quello di uno spazio pubblico abbandonato
alle porte di Plassans, l’immaginaria Aix-en-Provence dove tutto inizia.
E le prime pagine della Fortune des Rougon sono un’estesa descrizione
di questo luogo. Quello che i lettori immaginano non è tanto lo sfondo
di una storia, ma una visione dello spazio che li fa sprofondare indietro
nel tempo attraverso generazioni di abitanti e di viaggiatori che hanno
usato quel luogo via via nei modi più disparati, trasformandolo da cimitero a frutteto, campo per le carovane di zigani, deposito, area di gioco
usata dai bambini50. In modo speculare I Malavoglia si chiudono con
la lunga descrizione del risveglio del paese di Aci Trezza, che il nipote
Ebo
FINZIONI CHE LEGANO
48. M. De Certeau, The Politics of Everyday Life, Berkeley (CA), University of California
Press, 1984, pp. 117-118.
49. É. Zola, L’Invention des lieux, in O. Lumbroso, H. Mitterand (a cura di), Les Manuscrits
et les dessins de Zola, Paris, Textuel, 2002, vol. III.
50. É. Zola, La Fortune des Rougon, in H. Mitterand (a cura di), Les Rougon-Macquart.
Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire, Paris, Gallimard, 1960, vol. I,
pp. 8-9.
282
ALESSIO BALDINI
Ques
t E-b
ook
’Ntoni guarda per l’ultima volta prima di andarsene e lasciare ancheo
«la casa del nespolo» da cui sarà escluso per sempre51. L’ingresso nel
mondo dei Viceré (1894) di Federico De Roberto coincide con l’arrivo al
palazzo catanese dei Francalanza di una carrozza di famiglia che porta
la notizia della morte della matriarca Teresa causando scompiglio in
casa e dando l’avvio a tutta la vicenda52. O ancora si può pensare all’inizio del Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa e a quello di Visconti,
che rivelano subito a chi legge o guarda e ascolta le stanze e il giardino
carichi di storia della villa dei Salina fuori Palermo. E Canale Mussolini (2010-15) di Antonio Pennacchi reca già nel titolo il toponimo che
segna la storia di una famiglia migrata dal Veneto nel Lazio durante il
Fascismo; e i due volumi dell’opera portano stampati nel risguardo i
disegni datati della trasformazione delle Paludi Pontine (1926) nell’Agro Pontino (1939) con la bonifica e quelli della città di Littoria (1941).
I titoli di apertura di Romanzo famigliare (2018) di Francesca Archibugi
sono sovraimpressi su una serie di inquadrature che percorrono il porto di Livorno e salgono in collina fino alla villa della famiglia Liegi, i cui
cancelli si chiudono di fronte alla telecamera53. Il caso più estremo di
confinamento dello spazio sullo schermo è quello della Famiglia, che
Scola gira interamente in uno studio dove ricostruisce l’interno dell’appartamento della famiglia situato nel quartiere Prati di Roma. Colpiscono poi le prime due stagioni dell’Amica geniale (2018-20) di Saverio
Costanzo, che rendono in modo vivido l’esperienza dei cambiamenti
che stanno avvenendo nel dopoguerra all’interno del rione napoletano
dove vivono le famiglie delle protagoniste.
Quando si verifica un’accelerazione dei cambiamenti sociali e culturali non è più possibile il lento e graduale adattamento delle concezioni
e dei modi di sentire e di fare esperienza; è allora che una nuova generazione emerge costituendosi come «un nuovo centro di configurazione
51. G. Verga, I Malavoglia, cit., pp. 371-373.
52. F. De Roberto, I Viceré, in Idem, Romanzi, novelle e saggi, C.A. Madrignani (a cura di),
Milano, Mondadori, 1984, pp. 413-426.
53. F. Archibugi, Romanzo famigliare, Roma, Wildside – Rai Fiction, 2018, ep. 1, min.
00:02:48-00:03:51.
FINZIONI CHE LEGANO
283
(a new centre of configuration)»54. Le saghe familiare cercano di rendere
l’alternarsi degli orizzonti di senso delle generazioni facendo assumere
al racconto (iv) i punti di vista dei personaggi che occupano a turno il
centro della scena: quello dei genitori, quello delle figlie e dei figli e così
via. In una saga familiare l’artista presenta ciò che succede non dall’esterno, ovvero dal suo punto di vista, ma dall’interno, ovvero dal punto
riamuoio89
a ila
partiene
apl’intenzione
book
di vista deiQu
personaggi.
Questa
era già
di Zola
che si proesto Eponeva di evitare di fare come Balzac e ancorare il racconto ai principi
della propria concezione morale e politica55 e voleva invece rendere «il
mischiarsi di tutte le ambizioni (la bousculade de toutes les ambitions)»,
«l’avvento di tutte le classi (l’avènement de toutes les classe)» e la «familiarità fra genitori e figli, la mescolanza e la frequentazione di tutti gli
individui (familiarité des pères et des fils, le mélange et le côtoiement de
tous les individus)» che vedeva come caratteristiche della modernità56.
È soprattutto grazie al grande successo ottenuto con l’Assommoir che
Zola svolge un ruolo fondamentale nel diffondersi di questa concezione
del modo di raccontare e della tecnica dello stile indiretto libero, con
cui si può raccontare una storia dal punto di vista di qualcun altro57.
Questo modo di raccontare immersivo e pluralistico lo si ritrova nei
Malavoglia di Verga, che iniziano assumendo il punto di vista del nonno padron ‘Ntoni e della comunità di pescatori per poi alternarlo con
quello individuale dei nipoti Mena e ’Ntoni58. E attraverso questi e altri
modelli il modo di raccontare dall’interno si ritrova usato sistematicamente nei Viceré di De Roberto, in Canne al vento (1912) di Grazia Deledda, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; e a conferma di quanto
abbia inciso questa tecnica c’è l’esempio di romanzi come Il mulino del
Po di Bacchelli, dove il punto di vista autoriale esterno, che è pur pre54. K. Mannheim, The Problem of Generations (1923), in Idem, Essays on the Sociology of
Knowledge, London, Routledge & Kegan, London 1952, p. 309.
55. É. Zola, Différences entre Balzac et moi, cit.
56. É. Zola, Notes sur ma marche générale de l’œuvre, cit.
57. P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier, 2004.
58. A. Baldini, Dipingere coi colori adatti: I Malavoglia come romanzo moderno, Macerata,
Quodlibet, 2012.
gm
284
ALESSIO BALDINI
k ap
p
a
rtien
e
a
ila
ues
to
E
-boo
Q
sente, si alterna comunque con quello interno. Ed è possibile adottare
il punto di vista dei personaggi anche nel medium audiovisivo attraverso la tecnica della «soggettiva indiretta libera»59, che è l’equivalente
cinematografico dello stile indiretto libero in letteratura. È quello che
succede ad esempio nel finale della prima stagione dell’Amica geniale di
Costanzo. L’ottavo e ultimo episodio si chiude con la lunga sequenza
del matrimonio fra Lila e Stefano Carracci. Quando Lila vede entrare
Marcello Solara – un potente e pericoloso criminale che la desidera –
nel ristorante dove si tiene il ricevimento, si rende conto con orrore che
l’uomo che ha appena sposato le ha mentito – Lila aveva infatti fatto
promettere a Stefano di interrompere ogni rapporto personale e commerciale con Marcello. L’inquadratura passa da Marcello che Lila ha
appena visto a un primo piano del viso di lei, la cui espressione svela un
misto di sgomento e rabbia perché sa che il legame col marito non ha futuro. È in questo momento che il volume dell’allegra musica d’orchestra
sulle cui note gli invitati continuano a ballare si abbassa fino a scomparire e si inizia a sentire sempre più distinta una melodia triste, continua
e insistente che non proviene da nessuna fonte sonora in scena; quello
che si sente è un brano non-diegetico tratto dalla colonna sonora di
Max Richter che il regista usa come equivalente dello stato mentale di
Lila. E la dissolvenza dal viso di Lila al nero prima della comparsa dei
titoli di coda è come una finestra aperta sulla sua disperazione60.
Come spero di avere mostrato con la discussione di questi
esempi, queste proprietà narrative basilari rendono la saga familiare un
genere che si presta alla scrittura di romanzi di buona o alta qualità
letteraria che possono trovare il favore del grande pubblico. La presenza di un numero considerevole di personaggi, l’ambizione inscritta
nell’ampio arco temporale coperto, l’attenzione riservata allo spazio e
l’uso dello stile indiretto libero per rendere punti di vista diversi sono
tutti elementi a cui si associa un alto valore letterario. Allo stesso tempo
queste storie familiari che si articolano su più anni segnati da eventi
9
am
u
o
io8
ri
59. P. P. Pasolini, Cinema di poesia (1965), in Idem, Empirismo eretico, Milano, Garzanti,
1977, p. 187.
60. S. Costanzo, L’amica geniale, st. 1, ep. 8, 2018, min. 00:56:00-00:57:11.
FINZIONI CHE LEGANO
61. D. Holmes, Middlebrow Matters: Women’s reading and the literary canon in France since
the Belle Époque, Liverpool, Liverpool University Press, 2018.
62. J. Gibson, Fiction and the Weave of Life, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 161.
63. L. Hunt, The Family Romance of the French Revolution, Berkley (CA), University of
California Press, 1992; A.M. Banti, La nazione del Risorgimento: parentela, santità e onore alle
origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000.
app
Fra Settecento e Ottocento la famiglia serve come metafora per immaginare la nazione e motivare le persone a combattere per la patria63.
Questa metafora circola in una varietà di generi di scritture, dal pamphlet politico alla poesia, al teatro tragico e all’opera. Nel Marzo 1821
(1848) Manzoni apostrofa direttamente la «Cara Italia» come se fosse
una donna dal cui «seno» sono «sbocciati» i «figli» pronti a prendere le
armi per lei. Se l’Italia è madre, i patrioti sono suoi «figli» e fra loro «fratelli», come scrive Alessandro Poerio in Il risorgimento (1943). Così nel
libretto composto da Temistocle Solera per l’Attila (1846) di Giuseppe
E-book
Conclusione: dalla poesia del Risorgimento alla prosa
della vita nazionale
Questo
significativi e carichi di emozioni – le nascite, i matrimoni, le morti –
sono fatte per coinvolgere i lettori e alimentarne il desiderio di continuare a leggere per sapere cosa succederà nella storia. Questa fusione
fra una cura stilistica che aumenta il valore letterario del testo, la serietà
dei temi affrontati e la godibilità di una storia che appassiona sono i
tratti tipici della letteratura middlebrow61, di cui la saga familiare è uno
dei generi più importanti. E sono poi queste stesse proprietà a fare della
saga familiare un genere interartistico e intermediale che ha un’ottima
resa sullo schermo e risulta particolarmente adatto al formato seriale
della televisione – e cinema e televisione sono media ancora più adatti
alla produzione e al consumo di opere d’arte middlebrow. Nel paragrafo
precedente ho ricordato come la teoria delle arti mimetiche come dei
giochi del far finta spieghi la finzione in termini sociali; ed è questo il
punto più importante62. Ma quale è la funzione sociale della saga familiare come genere? La conclusione del mio saggio sarà dedicata al
tentativo di rispondere a questa ultima domanda.
285
ALESSIO BALDINI
286
Verdi la patria è «madre» «di possenti e magnanimi figli». L’immagine
della patria come madre circola anche nelle arti visive. Nella Meditazione (1851) di Francesco Hayez – il cui primo titolo era L’Italia nel 1848 –
l’Italia compare come una giovane donna triste col seno scoperto, una
croce su cui sono incise le date delle Cinque Giornate di Milano e un
libro scuro dal titolo Storia d’Italia scritto in inchiostro rosso64.
Se la metafora della nazione come famiglia è centrale nella letteratura e nella cultura del Risorgimento, non esiste però un genere artistico identificabile che la faccia propria e permetta a lettrici e lettori
Questo
di seguire una storia attraverso cui immaginare la vita nazionale. Ed
è proprio questa invece la prima funzione della saga familiare nell’Italia postunitaria. La saga familiare segna il passaggio «dalla poesia»
del Risorgimento alla «prosa» della vita nazionale sia in senso letterale,
perché la metafora della nazione come famiglia diventa la base di un
genere narrativo, sia nel senso metaforico dato da Benedetto Croce a
questa espressione, con cui intendeva spiegare la forte delusione che
prese le classi dirigenti e le classi medie italiane nei decenni successivi
all’Unità65. Con I Malavoglia di Verga si inaugura infatti la tradizione
della saga familiare che lamenta la fine del Risorgimento e osserva con
preoccupazione l’emergere della “questione meridionale”. E uno dei
temi costanti della saga familiare italiana resta tuttora la divisione fra
Nord e Sud e le sue conseguenze.
Il lungo periodo fascista segna profondamente l’identità nazionale
italiana, così come la Liberazione e la nascita della Repubblica. E la letteratura e poi il cinema cercano di rendere conto di queste esperienze,
da Tutti i nostri ieri (1952) di Ginzburg passando per La storia dei Rupe di
Répaci e Novecento di Bertolucci, fino a Canale Mussolini di Pennacchi.
Alle trasformazioni dell’Italia del Novecento tornano a guardare artisti che hanno di fronte nuovi inizi. L’amica geniale di Ferrante esprime
il tentativo di reimmaginare la storia e l’identità nazionali italiane dal
punto di vista delle donne alla fine di un’epoca offuscata dalla misoginia
64.
65.
Gli esempi sono tutti tratti da A.M. Banti, op. cit., pp. 67-68.
B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Milano, Adelphi, 1991, p. 12.
E
FINZIONI CHE LEGANO
che caratterizzava la cultura e il potere berlusconiani. E in risposta alle
nuove migrazioni e ai cambiamenti demografici degli ultimi decenni è
emersa una prospettiva post-coloniale, che fa riemergere l’esperienza
coloniale che la nazione italiana ha rimosso. Su questo punto è esplicita
la Nota storica ad Adua (2015) di Igiaba Scego, che dichiara di avere voluto intrecciare nella sua saga familiare «il colonialismo italiano, la Somalia degli anni Settanta, e la nostra attualità che vede il Mediterraneo
trasformato in una tomba a cielo aperto per i migranti»66.
La saga familiare non funziona solo come metafora della nazione
– dove la storia di una singola famiglia serve a immaginare la storia
pubblica di un paese –, ma anche come metonimia della società: ogni
saga familiare rappresenta la parte per il tutto e il racconto della storia di una famiglia serve così a raccontare quella della società di cui
fa parte. La saga familiare è il genere artistico più adatto per rendere
conto di come si producono le trasformazioni sociali di un paese: la
famiglia è infatti una «società naturale» – come ricorda l’articolo 29
della Costituzione della Repubblica Italiana (1948) –, ovvero è la cellula di
base dell’organismo sociale. Ed è proprio all’interno della famiglia che
si producono e riproducono le identità sociali, da quelle generazionali
a quelle etniche, di classe e di genere (gender), che poi i membri della
società portano con sé nella sfera pubblica67. E uno dei cambiamenti
più importanti che hanno attraversato la famiglia e la società italiane
nell’ultimo secolo e mezzo è il tramonto della famiglia patriarcale come
orizzonte di senso e riferimento normativo dei modelli di famiglia. Le
saghe familiari sono state spesso interpretate come storie di declino
e della fine della famiglia e del mondo; ma questa interpretazione va
qualificata, perché il tramonto che le saghe familiari raccontano non è
quello della famiglia o del mondo sans phrases, ma è quello della famiglia patriarcale e della società che le corrispondeva. Come hanno sostenuto gli storici della famiglia e quelli del diritto, questo cambiamento
è segnato in Italia dall’approvazione della Costituzione della Repubblica
66.
67.
I. Scego, Nota storica, in Eadem, Adua, Firenze, Giunti, 2015, p. 175.
C. Saraceno, L’equivoco della famiglia, Laterza, Roma, 2017.
287
Qu
es
to
ALESSIO BALDINI
288
9
uoio8
lariam
ne a i
partie
ok ap
o E-bo
Quest
Italiana e della riforma della legge sulla famiglia (1975)68. La letteratura,
il cinema e la televisione dall’Arte della gioia (1976) di Goliarda Sapienza all’Amica geniale di Costanzo – per citare solo due opere – hanno
accompagnato questo cambiamento, raccontando la fine della famiglia
patriarcale come orizzonte di senso e incoraggiando i consumatori di
queste opere d’arte a immaginare nuovi inizi. Dopo più di un secolo
e mezzo di storia, la saga familiare continua ad affrontare seriamente
temi importanti usando tecniche artistiche sofisticate e intrattenendo
il grande pubblico che si vuole immergere in storie coinvolgenti. La
saga familiare è ancora capace di legare a sé il pubblico e di legare fra
loro chi produce e consuma queste opere d’arte in comunità effimere
che si formano attorno a romanzi, film e serie televisive di successo per
poi dissolversi quando queste opere d’arte diventano solo un oggetto
di studio accademico. Ma è anche in questo modo episodico che vive la
nazione come «comunità immaginata»69.
68. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto: mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo,
Bologna, il Mulino; P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna, il
Mulino, 2002; P. Passaniti, Diritto di famiglia e ordine sociale: il percorso storico della società
coniugale in Italia, Milano, Giuffrè, 2011.
69. B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London, Verso, 2006.
gma
90
28
2
1
20
om
c
.
l
ai
FINZIONI CHE LEGANO
Bibliografia
gm
9
io8
o
mu
a
i
r
ila
Abell C., (2012), Comics and Genre, in A. Meskin, R.T. Cook (a cura di), The Art of
Comics: a Philosophical Approach, Oxford, Wiley-Blackwell.
Abignente E., Canzaniello E. (a cura di), (2017), Il romanzo di famiglia oggi/ Le
roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20.
Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia
oggi, cit.
ea
n
rtie
Anderson B., (2006), Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread
of Nationalism, London, Verso.
Auci S., (2019), I Leoni di Sicilia: la saga dei Florio – I, Milano, Editrice Nord.
a
Armstrong N., (1987), Desire and Domestic Fiction: A Political History of the
Novel, New York-Oxford, Oxford University Press.
p
ap
Baldini A., (2012), Dipingere coi colori adatti: I Malavoglia come romanzo moderno, Macerata, Quodlibet.
o
-bo
k
Barbagli M., (2002), Sotto lo stesso tetto: mutamenti della famiglia in Italia dal XV
al XX secolo, Bologna, il Mulino.
sto
E
Banti A.M., (2000), La nazione del Risorgimento: parentela, santità e onore alle
origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi.
e
Benvenuti G., (2018), Il brand Gomorra: dal romanzo alla serie tv, Bologna, il Mulino.
Qu
Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo,
in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi.
Cataldi B.R., (2020), Acqua di sole, Milano, Harper Collins.
Croce B., (1991), Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Milano, Adelphi.
Damrosch D., (2009), How to Read World Literature, Chichester (UK), Wiley-Blackwell.
De Roberto F., (1984), I Viceré, in C.A. Madrignani (a cura di), Romanzi, novelle e
saggi, Milano, Mondadori.
De Certeau M., (1984), The Politics of Everyday Life, Berkeley (CA), University
of California Press.
Gaut B., (2000), “Art” as a Cluster Concept, in N. Carroll (a cura di), Theories of Art
Today, Madison (WI), The University of Wisconsin Press.
289
ALESSIO BALDINI
290
Gaut B., (2010), A Philosophy of Cinematic Art, Cambridge, Cambridge University Press.
Gibson J., (2007), Fiction and the Weave of Life, Oxford, Oxford University Press.
Gille P., (1878), Revue bibliographique – Une page d’armour par Émile Zola, in «Le
Figaro. Supplément littéraire du dimanche», 21 avril, in https://gallica.bnf.
fr/ark:/12148/bpt6k273783z.r=le%20figaro?rk=2060096;0.
Ginzburg N., (1986), Lessico famigliare, in N. Ginzburg, Opere, vol. I, Milano,
Mondadori.
Goncourt E.-J., (1956), 14 décembre 1868, in R. Ricatte (a cura di), Journal. Mémoires de la vie littéraire, Monaco, Flasquelle and Flammarion.
Holmes D., (2018), Middlebrow Matters: Women’s reading and the literary canon in
France since the Belle Époque, Liverpool, Liverpool University Press.
Hunt L., (1992), The Family Romance of the French Revolution, Berkley (CA), University of California Press.
Ercolino S., (2015), Il romanzo massimalista: da L’arcobaleno della gravità di
Thomas Pynchon a 2666 di Roberto Bolaño, Milano, Bompiani.
Ferrante E., (2011), L’amica geniale: infanzia, adolescenza, Roma, E/O.
Eugenides J., (2012), The Marriage Plot: A Novel, London, Fourth Estate.
Lamarque P., Olsen S.H. (a cura di), (1994), Truth, Fiction, and Literature, Oxford,
Clarendon Press.
Lopes D.M., (2014), Beyond Art, Oxford, Oxford University Press.
muoio
Questo E-book appartiene a ilaria
Lukács G., (1969), The Historical Novel, Harmondsworthm, Penguin.
Mannheim K., (1952), The Problem of Generations, in K. Mannheim, Essays on the
Sociology of Knowledge, London, Routledge & Kegan.
Melis R., (1994), Per una storia del giornalismo letterario milanese: Giovanni Verga, Carlo Borghi e gli amici del “Biffi”, in «Giornale Storico della Letteratura
Italiana», 171, 553.
Moretti F., (1987), The Way of the World: The Bildungsroman in European Culture,
London, Verso.
O’Connell L., (2019), The Orgins of the English Marriage Plot: Literature, Politics and
Religion in the Eighteenth Century, Cambridge, Cambridge Univesity Press.
Pasolini P.P., (1977), Cinema di poesia, in P.P. Pasolini, Empirismo eretico, Milano,
Garzanti.
FINZIONI CHE LEGANO
Passaniti P., (2011), Diritto di famiglia e ordine sociale: il percorso storico della società coniugale in Italia, Milano, Giuffrè.
Pellini P., (2004), In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier.
Plantinga C., (1997), Rhetoric and Representation in Nonfiction Film, Cambridge,
Cambridge University Press.
Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13.
Renga D., (2019), Watching Sympathetic Perpetrators on Italian Television: Gomorrah and Beyond, Cham, Switzerland, Springer Nature - Palgrave Macmillan.
Rosenstone R., (2006), History on Film/Film on History, Harlow, Pearson.
Ru Y.-L., (1992), The Family novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter
Lang.
Saraceno C., (2017), L’equivoco della famiglia, Roma, Laterza.
Sassoon D., (2006), Zola: Money, Fame and Conscience, in The Culture of the Europeans: From 1800 to the Present, London, HarperCollins.
Scego I., (2015), Adua, Firenze, Giunti.
Tanner T., (1979), Adultery in the Novel: Contract and Transgression, Baltimore
(MD)-London, Johns Hopkins University Press.
Tobin P.D., (1978), Time and the Novel, Princeton (NJ), Princeton University Press.
Torraca F., (1907), Scritti critici, Napoli, Perrella.
Ungari P., (2002), Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna, il
Mulino.
Verga G., (1979), Lettere sparse, G. Finocchiaro Chimirri (a cura di), Roma, Bulzoni.
Verga G., (1995), I Malavoglia, Torino, Einaudi.
Walton K.L., (1990), Mimesis as Make-Believe: on the Foundations of the Representational Arts, Cambridge (MA)-London, Harvard University Press.
Welge J., (2015), Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change
in the Modern novel, Baltimore (MD), John Hopkins University Press.
Woodward R., (2011), Truth in Fiction, in «Philosophy Compass», 6, 3.
Zola É., (1871), La Fortune des Rougon, Paris, Charpentier, in https://gallica.bnf.
fr/ark:/12148/bpt6k8577723?rk=42918;4.
291
Questo E-book a
ppartien
m2
uoio
89 g
mail
.co
ALESSIO BALDINI
Zola É., (1878), Une page d’amour, Paris, Charpentier, in https://gallica.bnf.fr/
ark:/12148/bpt6k5839140d?rk=107296;4.
eai
laria
m
Zola É., (1960-67), La Fortune des Rougon, in H. Mitterand (a cura di), Les Rougon-Macquart. Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire,
Paris, Gallimard.
Zola É., (2002), L’Invention des lieux, in O. Lumbroso, H. Mitterand (a cura di),
Les Manuscrits et les dessins de Zola, vol. III, Paris, Textuel.
Zola É., (2003), Différences entre Balzac et moi (Bnf – f 15/2), in C. Becker (a cura
di), La fabrique des Rougon-Macquart, Paris, Champion.
Filmografia
appa
rtien
Zola É., (2003), Notes sur ma marche générale de l’œuvre (Bnf – f 2/1, f 6/5), in
C. Becker (a cura di), La fabrique des Rougon-Macquart, cit.
book
Archibugi F., (2018), Romanzo famigliare, Roma, Wildside – Rai Fiction, ep. 1.
Costanzo S., (2018), L’amica geniale, st. 1, ep. 8.
Durzi G., (2017), Ferrante Fever, Roma, Malìa – Rai Cinema.
Que
sto E
-
292
Scola E., (1987), La Famiglia, Roma, Cinecittà – MassFilm.
Sollima S., (2014), Il clan dei Savastano, in Gomorra – La serie, st. 1, ep. 1.
Genealogia
di un romanzo genealogico
Giorgio van Straten
Molto di ciò che gli scrittori fanno non è determinato razionalmente a priori, non è frutto cioè di una scelta che preesiste all’atto dello
scrivere, e questa è una fortuna, perché un eccesso di consapevolezza va
spesso a detrimento della qualità narrativa. Ma ciò significa anche che
un testo può contenere elementi ignoti all’autore che possono essere
dedotti legittimamente a posteriori da chiunque lo legga, sia da chi lo
ha scritto come da un qualsiasi altro lettore.
Vi spiego meglio con un esempio cosa intendo.
Ricordo molto bene quando, in un’intervista, Romano Bilenchi,
che è stato lo scrittore che per primo ha fatto pubblicare un mio
testo, rispondendo alla domanda se La siccità1, un racconto lungo
che credo sia il suo capolavoro, potesse essere letto come una metafora del fascismo, rispose: quando l’ho scritto non ci ho pensato,
ma ora che lei me lo dice penso che in effetti sia un’interpretazione
legittima.
Questo E-book a
In che modo questo discorso riguarda Il mio nome a memoria2?
Quando l’ho scritto, l’ho fatto soprattutto pensando a mio padre che
era morto senza lasciare delle tracce marcate di sé, molto probabilmente per sua volontà o natura, e ho creduto che quel viaggio a ritroso nelle
mie origini fosse un modo per ritrovarlo.
1.
2.
R. Bilenchi, La siccità, Firenze, Edizioni di Rivoluzione, 1941.
G. van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000.
ppa
228
09122
3-0
GIORGIO VAN STRATEN
294
Qu
est
oE
-bo
ok
app
arti
ene
a il
aria
mu
oi
o89
gm
ail.
com
201
È curioso come vari scrittori della mia generazione (Sandro Veronesi con Profezia3, Valerio Magrelli con Geologia di un padre4, Edoardo
Albinati con Vita e morte di un ingegnere)5 abbiano scritto dei propri
padri nonostante che si trattasse sempre, come nel caso del mio, di genitori schivi, che dell’understatement avevano fatto una ragione di vita.
Mostrando in questo modo un grandissimo affetto nei loro confronti e
contravvenendo regolarmente alle loro volontà esplicite o implicite di
riservatezza.
Del resto per anni avevamo pensato, intendo gli appartenenti alla
mia generazione quella nata nella seconda metà degli anni Cinquanta,
che fra noi e chi ci aveva generato ci fosse una soluzione di continuità,
una rottura che avrebbe portato il mondo a essere diverso e quindi non
ci eravamo preoccupati di raccogliere notizie su di loro, di conoscerli
non come padri ma come persone. Poi la politica ci aveva tradito (o
forse noi avevamo tradito lei), le possibilità rivoluzionarie si erano dissolte, eppure le domande ai nostri padri, finché erano stati in vita, non
le avevamo fatte lo stesso.
Poco dopo la morte del mio, alla fine degli anni Ottanta, un lontano parente mi scrisse dall’Inghilterra per dirmi che del ramo della mia
famiglia che discendeva da Emanuel van Straaten (con due a), figlio di
Hartog, l’uomo che a Rotterdam all’inizio dell’Ottocento aveva scelto
quel cognome, io ero l’ultimo che lo portasse ancora.
Mi sembrò una storia davvero strana che un cognome si potesse
scegliere: qui in Italia i cognomi si sono stratificati nel tempo, frutto del
mestiere che si faceva, delle caratteristiche fisiche, dei luoghi di provenienza, del nome del proprio genitore e così via. Là in Olanda, invece,
gli ebrei ancora all’inizio dell’Ottocento i cognomi non ce li avevano.
I Francesi, arrivando a seguito delle conquiste napoleoniche, avevano
concesso loro l’emancipazione, ma avevano anche imposto l’obbligatorietà di averne uno. Del resto quando un mondo ristretto si allarga,
3.
4.
5.
S. Veronesi, Profezia, Milano, RCS Quotidiani, 2011.
V. Magrelli, Geologia di un padre, Torino, Einaudi, 2013.
E. Albinati, Vita e morte di un ingegnere, Milano, Mondadori, 2012.
GENEALOGIA DI UN ROMANZO GENEALOGICO
essere Emanuel figlio di Hartog non è più sufficiente a identificarti, il
cognome serve. Perché quell’Hartog scelse van Straaten non lo so, probabilmente si trattava dell’indicazione di una provenienza, del paese di
origine, ma il risultato è che lui ha scelto anche per me all’incirca 150
anni prima della mia nascita.
Pensai allora che raccontare quella storia, arrivare fino a mio padre,
ricostruire quello che si poteva ricostruire mi avrebbe aiutato a ritrovare quel genitore riservato e poco conosciuto. E così, armato di quel
cognome e di un orologio donatomi da mio nonno, di poco più recente
della scelta di Hartog (sulla cassa è incisa una data di un secolo esatto precedente la mia nascita), iniziai un viaggio e scrissi un romanzo
(famigliare, anzi per individuare una sottocategoria più volte citata in
questo volume, genealogico).
Fu solo dopo che il libro era stato pubblicato che un critico della mia
stessa età, acuto e intelligente, rovinato poi da mal riposte ambizioni
televisive, mi disse: «Ma tu lo sai che quello che hai scritto è un romanzo sulla ricerca dell’identità?» e, anche se fino a quel momento non lo
sapevo, pensai che avesse ragione.
Ecco di cosa vorrei occuparmi in questo intervento: del romanzo
famigliare, e di quello genealogico in particolare, come uno strumento
della ricerca e della ricostruzione di un’identità.
Per tutti gli anni Settanta ero stato convinto che l’identità di una
persona fosse parte di un’identità collettiva, che la mia felicità individuale dipendesse da qualcosa da costruire insieme a un gruppo grande
e potente proprio perché grande. Poi alla fine di quel decennio, nella
sostanza dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, tutti quanti facemmo retromarcia e ci dedicammo ad attività individuali, strumento, ci pareva, della nostra realizzazione come persone; per esempio a
scrivere libri. E l’appartenenza collettiva ci sembrò non potesse più far
parte dei nostri orizzonti che potevano al massimo prevedere l’aggregazione intorno a piccoli gruppi omogenei e amicali, gruppi che negli
anni si fecero sempre più piccoli.
Ma è possibile appartenere solo a sé stessi? È possibile un’identità
che non nasca anche dalle relazioni con gli altri, con una comunità di
295
Qu
GIORGIO VAN STRATEN
296
persone? Quel nome che mi portavo dietro come ultimo discendente di
Emanuel, figlio di Hartog, poteva essere un tramite per aiutarmi anche
a definire me stesso?
Io avevo perso un genitore, il partito a cui ero stato iscritto per un
ventennio aveva perso il proprio nome, forse ricostruire il percorso che
aveva fatto il cognome van Straten (alla fine con una sola a perché mio
nonno arrivando in Italia aveva provveduto a semplificare) poteva dirmi anche qualcosa di me.
Io credo che un romanzo famigliare/genalogico sia molto spesso
questo: la ricostruzione di un’appartenenza. E non al fine di nobilitare
le proprie origini (come nel caso dell’Eneide per Ottaviano Augusto o
dell’Orlando furioso per gli Estensi), perché anzi molto spesso chi arriva
per ultimo non è che una pallida immagine di coloro che l’hanno preceduto, quanto per definire una identità.
Quello che può rendere la mia esperienza di autore collegabile a una
vicenda più larga del mondo letterario italiano dagli anni Ottanta alla
fine del secolo, una vicenda quindi generazionale, è il fatto che, in un
quadro di perdita del senso di appartenenza politica, alcuni autori abbiano cercato quella identità nelle loro radici, anche se in molti casi attraverso una distanza che si chiudeva in un arco di anni non abbastanza
largo da costituire la base di un romanzo famigliare.
Nel mio caso, pur da battezzato cattolico come mia madre, l’appartenenza era, o almeno poteva essere, un’appartenenza ebraica: dato che
quella ebraica è una tradizione patrilineare (anche se si è ebrei solo per
discendenza materna: mater semper certa…), e quel nome che mi portavo dietro si collegava a generazioni di persone, alle loro vite, alle loro
storie, alle loro morti. Mi definiva, in qualche modo.
E, oltretutto, mi poteva definire anche come scrittore, in considerazione dell’importanza che la parola scritta ha nella trasmissione della cultura e dell’identità di quella tradizione ebraica. Se fossi stato un
pittore il processo sarebbe stato assai più complicato (come dimostra
quel capolavoro che è Il mio nome è Asher Lev6 di Chaim Potok, dove
es
to
E-
bo
ok
ap
pa
rtie
ne
ai
lar
iam
uo
io8
9g
ma
il.c
C. Potok, Il mio nome è Asher Lev, Milano, Garzanti, 1991.
Qu
om
6.
20
12
28
GENEALOGIA DI UN ROMANZO GENEALOGICO
297
la natura di artista del protagonista diventa il motivo della fuoriuscita
dal gruppo di appartenenza, proprio per la mancanza di una tradizione iconografica nel mondo ebraico e anzi per la prevenzione di quel
mondo nei confronti di un’attività artistica che si esprima attraverso le
immagini).
Qu
Nel mondo anglosassone esiste una differenza netta fra memoir e
novel, da noi memoir non ha nemmeno una traduzione e non viene considerato un genere (le memorie sono un’altra cosa). In questo caso credo che abbiamo ragione noi, perché il memoir (come l’autofiction) è un
genere di romanzo, non una cosa diversa dal romanzo. La differenza
costituita dal partire dalla realtà o da personaggi inventati, è più fittizia
che effettiva perché in entrambi i casi si finirà per ricostruire e trasformare dati provenienti dall’esperienza e dalla conoscenza dell’autore.
Nel caso del memoir modificando con l’invenzione, inevitabilmente e
magari involontariamente, la realtà dalla quale si parte, nel caso del romanzo aggiungendo realtà all’invenzione del mondo romanzesco.
Il mio, in ogni caso, è un romanzo con i nomi veri, molti oggetti
esistenti o esistiti (orologi, fotografie, mobili), le storie ricostruite ma
talvolta inventate, e i pensieri, ovviamente, immaginati.
Dunque non credo che partire dalla realtà o dalla fantasia porti a
produrre qualcosa di profondamente diverso, al contrario ritengo che
nel romanzo famigliare, che si tratti di una famiglia esistita o inventata,
si finirà sempre per ragionare di appartenenza e identità, sia che si parli
di quella dell’autore o di quella dei personaggi (in cui tendenzialmente
l’autore si identifica).
to
es
ok
bo
E-
ne
rtie
pa
ap
ai
il.
ma
9g
io8
uo
iam
lar
Un altro elemento costitutivo del romanzo genealogico, a mio modo
di vedere, a differenza del romanzo familiare più generalmente inteso,
è quello di assumere anche i connotati, se non di un vero e proprio romanzo storico, di un romanzo in cui le vicende famigliari interagiscono
con le vicende storiche, e sono spesso fortemente influenzate da quelle
vicende.
Forse la mia formazione (ho studiato storia all’Università) mi fa velo
nel fare questa affermazione, ma certo per me è sempre stata centrale
GIORGIO VAN STRATEN
298
l’idea che la letteratura sia un modo di riesumare i morti, di riportarli in
vita, e spesso anche un modo di raccontare le vicende umane e di interpretarle (non solo di essere una fonte per la ricerca storica quindi, ma
una parte di quella ricerca). Certo è che la relazione fra Storia e storie
è senza dubbio vera nel caso del mio romanzo, dove l’età napoleonica, le migrazioni, l’era staliniana, la Seconda guerra mondiale, la Shoà
incidono profondamente nelle vite dei miei personaggi, senza con ciò
annullare l’effetto delle interazioni interne al nucleo famigliare.
Questa relazione fra Storia e storie ha per certi versi accentuato il
mio senso di appartenenza a una vicenda famigliare. È senz’altro difficile stabilire un legame fra il desiderio di un trenino elettrico e la persecuzione nazista, ma posso garantirvi che c’è se il trenino è di fabbricazione tedesca e nella tua famiglia non si comprano prodotti di quel
paese per rispetto e ricordo dei propri parenti uccisi: quel tuo piccolo
sacrificio, quella tua rinuncia sono parte di una sorta di cerimonia di
iniziazione che cementerà il tuo senso di inclusione nella comunità. E
quando, percependo quest’appartenenza, ne scriverai, allora crescerà la
responsabilità di rappresentare la memoria di quella discendenza, anche se in modo del tutto immeritevole.
Forse qua passa probabilmente l’unica differenza sostanziale fra
partire dalla realtà o dalla finzione: un differente livello di responsabilità morale nei confronti dei propri personaggi, quello che ancora oggi
sento fortissimo nei confronti di ogni individuo che ho incluso nel mio
romanzo.
o
to
Q
ue
s
Ebo
GENEALOGIA DI UN ROMANZO GENEALOGICO
299
Bibliografia
Albinati E., (2012), Vita e morte di un ingegnere, Milano, Mondadori.
-boo
Potok C., (1991), Il mio nome è Asher Lev, Milano, Garzanti.
k ap
parti
van Straten G., (2000), Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori.
ene
a ila
Veronesi S., (2011), Profezia, Milano, RCS Quotidiani.
sto E
Magrelli V., (2013), Geologia di un padre, Torino, Einaudi.
Que
Bilenchi R., (1941), La siccità, Firenze, Edizioni di Rivoluzione.
riam
uoio
89 g
mail
.com
2012
il.
com
89
am
io
uo
ea
pa
n
rtie
p
ka
i
ilar
Finito di stam pare nel m ese di dicem bre 2020
da Im pressum Srl - Marina di Carrara (MS)
per conto di Pisa University Press
oo
e
Qu
st
-b
oE
a
gm
20
Questo E-book a
ppartiene a ilaria
muoio89 gm