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Questo «NON POTEVA STACCARSENE SENZA LACERARSI» Per una genealogia del romanzo familiare italiano E-book app a cura di Filippo Gobbo, Ilaria Muoio, Gloria Scarfone artiene a i l a r i a muoio8 9 g m a i l.com 201 “Non poteva staccarsene senza lacerarsi” : per una genealogia del romanzo familiare italiano / a cura di Filippo Gobbo, Ilaria Muoio, Gloria Scarfone. Pisa : Pisa university press, 2020. - (Saggi e studi) 853.909 (WD) I. Gobbo, Filippo II. Muoio, Ilaria III Scarfone, Gloria 1. Romanzi italiani – Analisi strutturale CIP a cura del Sistema bibliotecario dell’Università di Pisa Membro Coordinamento University Press Italiane In copertina: Foto di famiglia scattata da Ernesto Turchet (1943) © Copyright 2020 by Pisa University Press srl Società con socio unico Università di Pisa Capitale Sociale € 20.000,00 i.v. - Partita IVA 02047370503 Sede legale: Lungarno Pacinotti 43/44 - 56126 Pisa Tel. + 39 050 2212056 - Fax + 39 050 2212945 press@unipi.it www.pisauniversitypress.it sto Qu e ISBN 978-88-3339-454-1 E b oo Le fotocopie per uso personale del lettore possono essere effettuate nei limiti del 15% di ciascun volume/fascicolo di periodico dietro pagamento alla SIAE del compenso previsto dall’art. 68, commi 4 e 5, della legge 22 aprile 1941 n. 633. Le riproduzioni effettuate per finalità di carattere professionale, economico o commerciale o comunque per uso diverso da quello personale possono essere effettuate a seguito di specifica autorizzazione rilasciata da CLEARedi - Centro Licenze e Autorizzazione per le Riproduzioni Editoriali - Corso di Porta Romana, 108 - 20122 Milano - Tel. (+39) 02 89280804 - E-mail: info@ cleareadi.org - Sito web: www.cleareadi.org INDICE a es Qu k a pp oo to E -b Premessa 5 Introduzione Ricostruzioni di appartenenze: il romanzo familiare come categoria problematica e necessaria Gloria Scarfone 7 Coscienza genealogica e utopia del matrimonio nei Cento anni di Giuseppe Rovani Francesca Puliafito 25 Progresso e pessimismo: il romanzo verista (Verga e De Roberto) Jobst Welge [traduzione di Ilaria Muoio] 41 Un romanzo in costruzione: I Viceré e il tema dell’improduttività Rossana Chianura 75 «Nell’ombra dove seggono le madri». Una lettura dei Divoratori di Annie Vivanti Chiara Tognarelli 97 Il genere cadetto. Il romanzo di famiglia come forma simbolica Lorenzo Mecozzi 121 «NON POTEVA STACCARSENE SENZA LACERARSI» I Buddenbrook nelle terre dei Viceré. Sul romanzo di famiglia a partire da Paolo il caldo Luca Danti 141 Uno scheletro nell’armadio dei Muñoz Muñoz. Traumi, segreti di famiglia e dinamiche generazionali in Aracoeli Ivan Pupo 161 Romanzo (non) familiare: la famiglia quale inconscio collettivo in Piazza d’Italia e Il piccolo naviglio Veronica Frigeni 179 ppart iene ook a uesto E-b 4 «Questo è il libro per cui sono venuto al mondo». L’epopea storico-familiare in Canale Mussolini di Antonio Pennacchi Simona Di Martino 199 La Gemella H: ideologia e materialismo nel romanzo familiare Giacomo Tinelli 223 Una storia di ombre. Immaginazione delle origini e indagine genealogica nel romanzo contemporaneo Elisabetta Abignente 243 Finzioni che legano: la saga familiare come genere interartistico e intermediale Alessio Baldini 265 Genealogia di un romanzo genealogico Giorgio van Straten 293 Q a il Premessa «Non poteva staccarsene senza lacerarsi». Per una genealogia del romanzo familiare italiano nasce da un progetto comune dei tre curatori che il sostegno del Dipartimento di Filologia, Letteratura e Linguistica dell’Università di Pisa ha permesso di concretizzare, prima finanziando il convegno internazionale svoltosi presso l’Ateneo il 14 e il 15 novembre del 2019 e, successivamente, questo volume. Al Dipartimento, al suo direttore Rolando Ferri e, soprattutto, a Francesca Fedi che ci ha fatto da mediatrice va dunque il nostro primo e più sincero ringraziamento. Ma molte altre sono le persone che hanno contribuito in maniera determinante e che qui non possiamo non ricordare; su tutte: Alberto Casadei, Riccardo Castellana, Valeria Cavalloro, Raffaele Donnarumma e Sergio Zatti. Infine, un grazie speciale va a Marina Polacco, principale interlocutrice e importante punto di riferimento di questo nostro progetto. Filippo Gobbo Ilaria Muoio Gloria Scarfone Que sto E-b ook app artie ne a ilari amu oio8 9 gm ail.c om Que sto E -boo k ap part iene a ila riam u Introduzione Ricostruzioni di appartenenze: il romanzo familiare come categoria problematica e necessaria Gloria Scarfone Je me demande […] si, entre tant de sujets possibles de romans, tentés par de romanciers, le sujet-type ne serait pas précisément l’histoire d’une famille. Albert Thibaudet, Le roman domestique, 19241 1. es Qu Mia cara figlia, noi non siam nati per quella che con vista miope consideriamo la nostra piccola, personale felicità, perché non siamo esseri staccati, indipendenti e autonomi, ma anelli di una catena; e, così come siamo, non saremmo pensabili senza la serie di coloro che ci hanno preceduti e ci hanno indicato la strada, seguendo da parte loro rigidamente e senza guardare a destra o a sinistra, una tradizione provata e veneranda. La tua via, a mio parere, è già chiaramente e nettamente tracciata da parecchie settimane, e non saresti mia figlia, non saresti nipote di tuo nonno che riposa in Dio, non saresti addirittura un degno membro della nostra famiglia se pensassi sul serio, tu sola, di seguire con caparbietà e sventatezza una tua strada irregolare e arbitraria2. to ok bo E- In modo eloquente ed icastico, questo noto passo dei Buddenbrook (1901) riassume alcuni degli aspetti più importanti che contraddistinguono il romanzo familiare come genere letterario storicamente e socialmente connotato: l’idea di una logica superindividuale che trascende pa ap In A. Thibaudet, Le liseur de romans, Paris, G. Cres, 1925, pp. 180-181. T. Mann, I Buddenbrook, Torino, Einaudi, 2014, p. 134. ne rtie 1. 2. ai lar GLORIA SCARFONE 8 l’orizzonte del soggetto; la coazione a ripetere delle dinamiche familiari inscritte in un determinismo ereditario che frena la volontà del singolo; la difficoltà cui quest’ultimo va incontro nel suo tentativo di autoaffermarsi al di fuori del nucleo domestico. Ogni «strada» alternativa a quella di «coloro che ci hanno preceduti» è «irregolare e arbitraria»; intraprenderla significherebbe disconoscere «una tradizione provata e veneranda» in nome di una «piccola, personale felicità». L’indipendenza, rivendicata e cercata dal protagonista del Bildungsroman, pare negata a priori ai personaggi del romanzo familiare che, come «anelli di una catena», sembrano ineluttabilmente bloccati all’interno di un meccanismo da cui non possono uscire, perché senza di loro sarebbe mutilo. «Non siamo esseri staccati», scrive Johann Buddenbrook nella lettera alla figlia Tony. Ritroviamo anche qui l’immagine del distacco che dà il titolo a questo volume: «Non poteva staccarsene senza lacerarsi». L’espressione è tratta da un passo di Menzogna e sortilegio (1948) di Elsa Morante, forse il più rappresentativo esempio del genere nel Novecento italiano. Siamo nelle pagine dell’opera in cui viene ripercorsa, attraverso un’analessi che permette di recuperare le vicende di alcuni dei membri della prima generazione, la storia familiare di Francesco De Salvi (seconda generazione), il padre della narratrice Elisa (terza generazione). Qu es to E- [Francesco] odiava dunque la sua casa? Non amava più sua madre? ciò non si può affermare: allorquando, infatti, tornato l’autunno, e riaprendosi i corsi, egli doveva ripartire dal villaggio, ecco che, d’improvviso, si sentiva stringere il cuore dalla pena. Durante la breve vacanza, il suo desiderio sollecitava impaziente l’ora del ritorno in città; ma pure, col giungere di quest’ora, a un tratto la collina della noia e della tristezza si accendeva in una tardiva rivelazione. In guisa d’ami aguzzi, il terribile affetto, i rimorsi, le consolazioni mancate traevano lo studente verso quel monticello sassoso al quale era tornato con ripugnanza e di cui, per vergogna, usando diversi sotterfugi, mascherava ai suoi compagni di liceo perfino il nome vero. All’ultimo, invece, oh, gioco amaro e sorprendente!, egli non poteva staccarsene senza lacerarsi3. bo ok ap pa rtie ne ai lar iam uo io8 9g ma il.c om 3. E. Morante, Menzogna e sortilegio, in C. Cecchi, C. Garboli (a cura di), Opere, vol. I, Milano, Mondadori, 1988, pp. 487-488. 20 12 28 09 RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE o E - u e st Q C’è qui tutto il groviglio sentimentale che, in modo più o meno consapevole e manifesto, affligge i personaggi del romanzo di famiglia fino a minarne l’equilibrio psichico (basti pensare, sempre a proposito di Menzogna e sortilegio, al delirio finale della protagonista Anna Massia). «The family is unquestionably the source of much that is good, if also of much we should like to forget or cancel»4. Il nucleo domestico è oggetto di sentimenti ambivalenti, di una «duplicità senza soluzione: dove l’amore e l’odio, la ripulsa e la voglia, la colpa e l’innocenza, si intrecciano»5. L’orgoglio ostinato o la vergogna colpevole delle proprie origini si innestano su un legame originario irriducibile, caratterizzato tanto dall’affetto quanto dall’astio: oo k b Verso la propria famiglia ella [Lucrezia Uzeda] aveva ancora quel misto d’astio, d’invidia e di premura, secondo che il vanto di farne parte, il dolore d’averla lasciata o il sospetto d’esserne ripudiata predominavano nel suo cervello6. a pp a ien e rt Il passo citato è tratto dai Viceré (1894) di Federico De Roberto, altro importantissimo esempio del genere7. Come nei Buddenbrook, nel romanzo l’immagine della catena viene impiegata per designare un legame con la propria famiglia (qui, nello specifico, quello matrimoniale) che imprigiona il singolo come, appunto, una «catena al collo»8. Ogni tentativo di minare l’equilibrio claustrofobico garantito da questa catena dà origine a un «dramma domestico»9 potenzialmente pericolo- a ia ila r io mu o ail .c m 8 9 g 4. R. Boyers, The Family Novel, in «Salmagundi», 26, 1974, p. 5. 5. E. Morante, Una duplicità senza soluzione, in «l’Europa letteraria», V, 27, 1964, p. 126. 6. F. De Roberto, I Viceré, Torino, Einaudi, 1990, p. 500. 7. Cfr. almeno M. Polacco, Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni, D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano (1881-1923), Bologna, Pendragon, 1999, pp. 149-174. P. Pellini, De Roberto e la coazione di Malpelo. Narrazioni familiari dal verismo al modernismo, in Idem, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier, 2004, pp. 212-235. 8. De Roberto, op. cit., p. 98. La stessa espressione della «catena al collo» ritornerà verso la fine dell’opera (p. 543). Ancora, l’immagine compare almeno in altri due luoghi (pp. 315 e 481) in riferimento rispettivamente al primo e al secondo matrimonio di Raimondo Uzeda. 9. Ibid., p. 315. Il riferimento qui è alla decisione presa da Raimondo di lasciare la moglie Matilde per donna Isabella Fersa; decisione in potenza dannosa, perché l’abbandono di Raimondo avrebbe potuto rappresentare uno scandalo per la nobile famiglia Uzeda, ma che viene salvaguardata tramite l’annullamento del matrimonio. 9 om 1 20 0 22 8 22 91 10 GLORIA SCARFONE Questo E-book appartiene a ilariamuoio89 gmail.com 20122809-122 3-080 so. Ogni minaccia esterna è una forza centrifuga cui il nucleo familiare deve, per perdurare, dimostrarsi impenetrabile. «The underlying assumption in the family novel is that families must somehow find a way to preserve themselves, that the entirely liberated individual is not often better off than he would have been had he been able to make his peace in the family»10. Il romanzo di famiglia come genere letterario è al contempo il racconto di diversi drammi domestici e, soprattutto, del tentativo della famiglia di resistervi, con tutte le ripercussioni che questa resistenza comporta sui suoi singoli membri. 2. La famiglia è uno dei più rilevanti temi del nostro immaginario sociale e letterario, perché ha un duplice volto: è una costante antropologica e, allo stesso tempo, uno spazio profondamente influenzato dalle dinamiche storiche che ne determinano la configurazione. Si tratta di un aspetto fondamentale da tenere presente perché il soggetto sociale che i romanzi di cui parleremo eleggono a protagonista collettivo è un preciso istituto storico: la famiglia nucleare moderna, sviluppatasi tra Settecento e Ottocento a causa di radicali ridefinizioni di ordine politico-istituzionale11. Il genere si afferma e si consolida molti anni dopo quando, durante la seconda metà dell’Ottocento, il romanzo familiare registrerà il cambiamento facendo della famiglia l’orizzonte in cui esistono (e spesso collassano) tutte le relazioni interpersonali. Vale anche qui la stessa logica che sorregge un altro sottogenere della tradizione del novel: «se l’Ottocento è il secolo del romanzo d’adulterio, è perché in esso si afferma l’istituzione della famiglia borghese e il privato individuale appare costantemente inserito e limitato in un ordine sociale e in un contesto familiare»12. 10. R. Boyers, op. cit., p. 5. 11. Cfr. su questi aspetti almeno il volume di C. Saraceno, M. Naldini, Sociologia della famiglia, Bologna, il Mulino, 2013. 12. R. Luperini, Un mutamento di paradigma: il romanzo d’adulterio e la trasformazione del personaggio femminile fra Ottocento e Novecento, in Idem, Tramonto e resistenza della critica, Macerata, Quodlibet, 2013, p. 196. RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE La nascita del romanzo familiare è dunque una risposta all’affermazione della società borghese, una risposta in un certo senso anacronistica e in controtendenza: là dove la società rivendica il diritto del singolo e la libera autoaffermazione dell’individuo, il romanzo di famiglia racconta le storie di soggetti che non esistono fuori dal nucleo domestico. «In the face of accelerating social change, disjunctions in the familiar modalities within which ordinary men thought of time, succession, progress, the 19th century indulged a predictable thought almost pathological nostalgia for the coziness of a family life that was often far from cozy»13. Veniamo così al secondo importante elemento che ha guidato le nostre riflessioni e portato a questo lavoro: la volontà di delineare la genealogia di un preciso genere letterario. Se pensiamo ai vari generi letterari, soprattutto narrativi (Bildungsroman, romanzo storico, autobiografia, poliziesco, noir, ecc.), che in diverso modo sono stati oggetto di ricerche approfondite da parte della critica, la scarsa attenzione dedicata al romanzo familiare sorprende in modo particolare. Si tratta infatti di una categoria che applichiamo a certi testi in modo quasi intuitivo, a differenza di altre ben più analizzate e discusse; e tuttavia pochissimi sono stati sino a oggi gli studi sul tema, nonostante l’evidente presenza di una serie numerosa di testi riconducibili al genere. Il pionieristico lavoro della studiosa Yi-Ling Ru (The Family Novel. Toward a Generic Definition, 1992)14 è stato per anni l’unico punto di riferimento di rilievo nel panorama internazionale. A Marina Polacco e al suo importante saggio (Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, 2005)15 va invece il merito di aver portato l’argomento all’attenzione del dibattito italiano, interrompendo un silenzio pressoché totale da parte della critica. D’altro lato, però, oggi sembra profilarsi un cambiamento di rotta, anche grazie all’influenza degli studi culturali in ambito anglosassone. Q ue s to 13. R. Boyers, op. cit., p. 6. 14. Y.-L. Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992. 15. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 95-125. 11 o E bo pa ka p b o EQue st 12 GLORIA SCARFONE Ne è un notevole esempio Genealogical Fictions (2015) di Jobst Welge16, di cui Ilaria Muoio offre qui per la prima volta la traduzione italiana del terzo capitolo: Progress and Pessimist: The Sicilian Novel of Verismo (Giovanni Verga and Federico De Roberto). Anche gli studi di Alessio Baldini, che da anni si occupa del tema, vanno oggi in questa direzione, come il saggio che pubblichiamo viene eloquentemente a sintetizzare. Dopo aver individuato nel ciclo zoliano dei Rougon-Macquart «il primo tentativo di costruire una narrazione seriale che si regga sulla storia di una famiglia» (infra, p. 269) e l’epicentro da cui il nuovo modello narrativo si diffonde, Baldini tenta di definire le caratteristiche distintive di quel genere interartistico e intermediale che sceglie di chiamare saga familiare. Si tratta di una proposta teorica innovativa, che ha il merito di allargare lo spettro di indagine oltre l’ambito letterario, guardando tanto ai romanzi quanto ai film e alle serie televisive. L’idea di fondo è che, una volta diffusasi nel mondo tramite il modello di Zola ed essersi resa autonoma rispetto a quest’ultimo, la saga familiare sia divenuta un (se non il) genere strutturalmente congeniale alla produzione e al consumo seriale. Il recente successo dell’Amica geniale e di Gomorra – La serie verrebbero così a confermare il ruolo focale di «uno dei generi narrativi più importanti e popolari non solo nella letteratura italiana, ma anche nella letteratura mondiale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento» (infra, p. 268). Infine, va detto che anche in Italia l’interesse per l’argomento appare sempre crescente; a dimostrarlo è stato in particolare un recente convegno tenutosi a Napoli nel 2016, i cui risultati sono poi confluiti nel numero speciale della rivista «Enthymema»: Il romanzo di famiglia oggi, 201717. Il monografico, che raccoglie soprattutto saggi dedicati alla contemporaneità, è curato da Emanuele Canzaniello ed Elisabetta Abignente, che firma qui un nuovo contributo, preludio di un volume in preparazione per Donzelli. 16. J. Welge, Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern Novel, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015. 17. E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017. RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE 3. Ma perché ragionare per generi? Dietro questa scelta risiede la convinzione del significativo potenziale ermeneutico della categoria, il cui scopo «non è tanto quello di classificare, quanto quello di chiarire tradizioni e affinità, e quindi di portare in luce una grande quantità di rapporti letterari che non si sarebbero altrimenti notati, nell’assenza di un contesto riconosciuto in cui inserirli»18. Una volta sgombrato il campo da una concezione tassonomica, sostanzialistica o tanto meno normativa della categoria, essa si presenta come uno degli strumenti più intelligenti per studiare un testo letterario. Ogni teoria dei generi parte dal presupposto che la forma primitiva in cui il genere inizialmente si manifesta non può rimanere invariata, ma subisce un’evoluzione proprio perché strettamente legata e influenzata dai cambiamenti storici; d’altro lato, però, c’è anche qualcosa che permane di questa forma al di là delle trasformazioni. Non bisogna vedere, cioè, nel forte ancoraggio a un determinato periodo storico un limite della categoria, una dipendenza cronologica che la renderebbe troppo poco flessibile19. Al contrario, proprio perché non è né un a priori con funzione regolativa né la risposta meccanica a un evento della storia, il genere acquista un forte valore storiografico. Offre cioè la possibilità di istituire un confronto tra un prima e un dopo, guardando ai problemi in un’ottica di lunga durata che prova a comprenderli e spiegarli senza disconoscerne la complessità. Di qui deriva l’impostazione cronologica che abbiamo scelto nell’allestire il volume. Indagare il romanzo familiare attraverso una prospettiva genealogica significa individuare le costanti e le varianti del genere, comprendendo meglio non solo come si è evoluto il novel dall’Ottocento a oggi, ma anche come è cambiata la famiglia che questi romanzi rappresentano. 18. N. Frye, Anatomia della critica. Quattro saggi, Torino, Einaudi, 1969, p. 329. 19. È la critica che viene mossa per esempio da Federico Bertoni nel suo recente volume Letteratura. Teorie. Metodi. Strumenti, Roma, Carocci, 2018. Bertoni insiste soprattutto sui limiti della categoria, cui preferisce quella di modo, più flessibile rispetto al genere proprio perché meno compromessa con il periodo storico in cui si sviluppa (pp. 211-230). 13 Q 14 GLORIA SCARFONE Che cos’è, dunque, ciò che in italiano viene chiamato romanzo familiare, in inglese Family Novel, in francese roman de famille e in tedesco Generationenroman (anche per evitare sovrapposizioni con il concetto freudiano di Familienroman)?20 «La narrazione di una storia familiare lungo più generazioni»21, secondo la definizione di Polacco, che ci pone subito di fronte a uno dei nodi centrali della questione: la necessità di individuare dei criteri il più possibile rigorosi in base ai quali determinare i testi che possono essere ricondotti a questo genere. Se infatti è vero che l’ovvia conditio sine qua non di inclusione è la presenza della famiglia «come protagonista collettivo del racconto» e la conseguente «subordinazione dell’individuo all’identità familiare collettiva»22, d’altra parte questo non può essere considerato l’unico criterio discriminante. Inoltre, a complicare ulteriormente il problema contribuisce la «natura sostanzialmente ibrida e indefinibile» del romanzo familiare, genere «costituzionalmente “ambiguo”»23, che si contraddistingue proprio per la sua continua compromissione con generi e modalità narrative diverse. Lo mostrano bene molti saggi di questo volume, a partire da quello di taglio teorico di Lorenzo Mecozzi, che rilegge la triade di romanzi definiti da Vittorio Spinazzola antistorici24 (I Viceré, I vecchi e i giovani e Il Gattopardo) alla luce della nozione di romanzo familiare, a sua volta interpretata come forma simbolica speculare e complementare al romanzo di formazione. Ancora, la compromissione di lunga durata con il romanzo storico è il filo conduttore che lega molti contributi: da Cento anni (1859) di Giuseppe Rovani25 preso in esame da Francesca Puliafito, si arriva al o E-b Quest 20. S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura di), Opere. 19051908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, Torino, Boringhieri, 1972, pp. 487-474. Cfr. sull’argomento anche lo studio della psicologa J.K. Tabin, The Family Romance. Attention to the Unconscious Basis for a Conscious Fantasy, in «Psychoanalytic Psychology», 15, 2, 1998, pp. 287-293. 21. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., p. 96 (corsivi nel testo). 22. Ibid., pp. 116 e 119. 23. Ibid., p. 115. 24. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990. 25. Già letto come romanzo familiare da M. Polacco, Tra storia e romance: «Cent’anni» di Giuseppe Rovani, in A. Matucci, S. Micali (a cura di), I colori della narrativa. Studi offerti a Roberto Bigazzi, Roma, Aracne, 2010, pp. 181-194. RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE 15 caso della Gemella H (2014) di Giorgio Falco proposto da Giacomo Tinelli, passando per Piazza d’Italia (1975) e Il piccolo naviglio (1978) di Antonio Tabucchi messi a confronto da Veronica Frigeni e il Premio Strega Canale Mussolini (2010) di Antonio Pennacchi esaminato da Simona Di Martino. L’analisi di Paolo il caldo (1955) di Vitaliano Brancati proposta da Luca Danti, mentre dimostra l’importanza dei Buddenbrook e dei Viceré come fonti dell’opera, mette in luce la mistione tra romanzo familiare e Bildungsroman; o meglio, tra romanzo familiare e anti-Bildungsroman. Che questa sia la forma più tipica assunta dal genere nel Novecento è noto26. Ciò che però non è affatto scontato – e che costituisce la singolarità di Paolo il caldo – è il modo in cui viene decostruito il modello della Bildung: la logica del romanzo familiare prevarica su quella di formazione (la coazione a ripetere, cioè, frena ogni tentativo di crescita). Nessun esempio lo mostra meglio del caso di studio scelto da Ivan Pupo: Emanuele, il protagonista di Aracoeli (1982) di Morante, è un quarantatreenne solo, fallito e abbrutito, condannato a replicare il vissuto traumatico che ha contrassegnato il rapporto con i genitori durante l’infanzia e l’adolescenza. Nell’Eden familiare che la diade madre-figlio si fa carico di simbolizzare «non si cresce»27. Giustapponendo momenti diversi del vissuto del protagonista, il romanzo di Morante ricostruisce attraverso il montaggio il funzionamento di dinamiche generazionali che si rivelano decisive nell’economia dell’opera. È un elemento che ci dice una cosa importante su quelli che prima ho chiamato criteri discriminanti per l’attribuzione di genere: come Q mostra Rossana Chianura nel suo saggio sui Viceré, in un romanzo fa- ues to miliare i significati genealogici si propagano e, soprattutto, organizzano la struttura stessa dell’opera. La tripartizione dei Divoratori (1911) di Annie Vivanti analizzato da Chiara Tognarelli è, nella sua voluta schematicità, un esempio emblematico di come l’alternarsi delle generazioni determini la scansione del testo. Nella vicenda familiare tutta al fem- 26. F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999, pp. 257-273. Nel momento storico in cui «la gioventù comincia a disprezzare la maturità e ad autodefinirsi in opposizione ad essa», non può che emergere «una tradizione di veri e propri anti-Bildungsromane» (pp. 259-260). 27. E. Morante, Aracoeli, in C. Cecchi, C. Garboli (a cura di), Opere, vol. II, Milano, Mondadori, 1990, p. 1193. E-b o rtie a p ap GLORIA SCARFONE k -boo E to s minile raccontata nei Divoratori ci sono tre madri e ci sono tre «Libri»; ogni libro narra la storia di un conflitto tra abnegazione materna e autodeterminazione femminile: una dialettica abortita all’origine a causa della legge «eterna» e «inesorabile» inscritta nel determinismo generazionale su cui si regge il libro. Que 16 4. La natura polimorfa di questo genere è un problema fondamentale e una delle principali ragioni cui va addebitata la sua difficile codificazione e canonizzazione: Since the term came into usage in the nineteenth century, there has been notable slippage between generic categories of the novel, with family novel sometimes overlapping with or being included within the novel of manners, society novel, domestic novel, genealogical novel, family saga, or family chronicle. The fluidity and overlap of these generic categorizations may have facilitated the loss of the term family novel, as it could be subsumed by other classifications28. Come si vede, quello che oggi è il più recente contributo sul tema insiste a ragione sulla fluidità del genere e sul suo conseguente e inevitabile sconfinamento in altre categorie. Proprio per rispondere a questo rischio di «overlap» diviene allora necessario tracciare una prima possibile classificazione che, lungi dal voler essere una griglia tipologica, aiuti a delimitare e delineare il territorio dei testi con cui ci confrontiamo. Prendo dunque le mosse dalla tripartizione proposta da Raffaele Donnarumma durante il suo intervento al convegno pisano29: 1. Romanzo a temi familiari. È l’accezione più lasca e debole, con la quale possono essere designati testi molto diversi: le opere che trattano del conflitto padri e figli (Padri e figli); il romanzo matrimonia- 28. A.A. Berman, The Family Novel (and Its Curious Disappearance), in «Comparative Literature», 71, 1, 2020, p. 5. 29. Cfr. la Premessa. L’intervento era intitolato Coazione a ripetere e declino. Menzogna e sortilegio come romanzo familiare. a ilaria muoio 89 gm ail.com 20122 809-12 2 RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE ok app artiene le o d’adulterio (Felicità familiare, Madame Bovary30 e Anna Karenina)31; il romanzo polistorico, che mette contemporaneamente in gioco le vicende di diverse famiglie (Guerra e pace e Middlemarch); il romanzo generazionale32, in cui viene scelto un protagonista in quanto portavoce di una determinata generazione, la quale si definisce in contrasto a quella che la precede (L’amica geniale). 2. Romanzo familiare (in senso ampio). Si tratta di un modello orizzontale ed intensivo in cui i diversi piani generazionali sono messi sullo stesso livello e il fulcro narrativo è la compresenza stretta e intima delle relazioni familiari. Non c’è uno sviluppo diacronico esteso, ma la famiglia riesce comunque a divenire il protagonista collettivo del racconto grazie alla forza centripeta attraverso la quale invischia i singoli individui. Alle diverse generazioni invocate sulla scena non è riservato lo stesso spazio sul piano narrativo; eppure, nonostante questo dislivello, all’interno del nucleo domestico viene a instaurarsi una dialettica tra generazioni che rende evidente uno scarto temporale e assiologico. Tra i grandi esempi del genere rientrano testi come I fratelli Karamazov33, I Malavoglia34, Gli indifferenti e Il Gattopardo35. Quest o E-bo 30. «That Flaubert’s book is in no literal sense a family novel does not diminish for us its importance in pointing the way to developments in the view of the family which may be followed in countless novels written since 1850» (R. Boyers, op. cit., p. 7). 31. «Slavists frequently quote the Russian formalist Boris Eikhenbaum’s claim that Anna Karenina is “a combination of the English family novel and the French ‘adultery’ novel”» (A.A. Berman, op. cit., p. 1). 32. Cfr. su questo R. Donnarumma, Hors de la posthistoire. Du roman historique au roman générationnel, in P. Ouellet (a cura di), L’acte littéraire à l’ère de la posthistoire, Ville de Québec, Presses de l’Université de Laval, 2017, pp. 89-104. 33. Nel 1985, «the Handbook of Russian Literature entry for family novel unequivocally listed The Brothers Karamazov as an exemplar of the genre. Russian literature scholars regularly discuss it as a family novel today» (A.A. Berman, op. cit., p. 4). 34. «L’idea di raccontare una storia di una famiglia attraverso il succedersi delle generazioni è il tratto distintivo del romanzo familiare. Che I Malavoglia siano un romanzo familiare ambientato in una piccola comunità paesana, lo indica soprattutto il fatto che a questa differenza generazionale si intende dare un significato narrativo» (A. Baldini, Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno, Macerata, Quodlibet, 2012, p. 83). 35. A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 70/71, 2016, pp. 24-66. 17 p p ka o 18 to GLORIA SCARFONE s ue bo E Q 3. Romanzo genealogico36 (ovvero, il romanzo familiare in senso stretto). È un modello verticale ed estensivo, in cui le diverse generazioni sono rappresentate di volta in volta lungo un arco temporale molto vasto. Più che la compresenza conta la successione delle generazioni, che, secondo Polacco, dovrebbero essere «almeno tre»37. L’estensione temporale controbilancia la chiusura spaziale sull’orizzonte domestico e il tema dello scorrere del tempo diventa in sé un elemento significativo: è ciò che permette di misurare lo scarto e il cambiamento – tendenzialmente in negativo – tra le generazioni. I Buddenbrook, il cui sottotitolo è non a caso Decadenza di una famiglia, è forse l’esempio più rappresentativo della categoria. Nell’ambito italiano, vi rientrano almeno Cento anni, I Viceré e Menzogna e sortilegio. Una suddivisione simile è stata proposta da Kerstin Dell, che ne rende conto parlando rispettivamente di family fiction (1), family novel (2) e family saga/family chronicle (3)38. Ma il problema della denominazione è in fondo secondario. L’importante è comprendere che ci sono almeno tre modi diversi in cui possiamo parlare di romanzo familiare. Il primo è il meno proprio, perché troppo inclusivo. Gli altri due sono i più pertinenti e spesso finiscono per convergere, sebbene siano in potenza differenti, poiché impostano i rapporti familiari in una relazione diversa rispetto al tempo e alla trasmissione dell’eredità. Il modo in cui convergono è chiaro: il romanzo genealogico (3) è anche un romanzo familiare (2) – il quale è a sua volta, ovviamente, un romanzo a temi familiari (1). Insomma, proprio perché in grado di abbracciare tanto la seconda quanto la prima accezione del genere, il modello verticale è il più rappresentativo. 36. L’espressione «romanzo genealogico» è usata anche da S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale del XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, p. 638. Tuttavia, l’impiego che ne fa il critico è meno circoscritto di quello proposto qui, perché molto più compromesso con i concetti di ciclo e saga. 37. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., p. 111. 38. K. Dell, The Family Novel in North America from Post-War to Post-Millennium. A Study in Genre, Saarbrücken, Verlag Dr. Müller, 2007. RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE The family novel is developed along a line through the evolution of several generations. The chronology constructs a long, forward-moving vertical structure. At the same time, all kinds of conflicts among family members, including those between fathers and sons, mothers and children, husbands and wives, and between brothers, form what might be described as the horizontal structure. The plot of the family novel, therefore, is weaved by these two intersected narrative structures39. 5. Per i motivi già discussi, va da sé che il modello verticale indicato da Ru come prototipico contraddistingue soprattutto i primi e più canonici esempi del genere. Castle Rackrent di Maria Edgeworth del 1800 (primo pionieristico romanzo familiare secondo Polacco e Welge)40 e I Buddenbrook del 1901 segnano in quest’ottica due soglie simboliche: l’emergere del genere e la sua canonizzazione. Una volta avvenuta, «Buddenbrooks serves as an orthodoxy that generates heterodoxy within the logic of the novel’s form»41. Quest’eterodossia rispetto alla forma originaria determina anche la progressiva perdita di identificabilità del genere che, per di più, soprattutto tra gli anni Cinquanta e Ottanta del Novecento viene sempre meno praticato: il periodo delle neoavanguardie, del postmoderno e dell’anti-romanzo non può che guardare con sospetto a un genere così profondamente compromesso con la tradizione del grande realismo. «Non esiste romanzo familiare che non sia una narrazione che si possa ascrivere pienamente alla tradizione del “realismo” per come questa è nota alla cultura letteraria occidentale dal XVIII secolo»42. Di qui la sua temporanea eclissi dalla letteratura alta nel Novecento inoltrato, ovve- 39. Y.-L. Ru, op. cit., pp. 36-37. 40. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., p. 96; J. Welge, op. cit., p. 16 ss. 41. P.D. Tobin, Time and the Novel. The genealogical imperative, Princeton, Princeton University Press, 1978, p. 55. 42. E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., p. 93. 19 e Qu 0 28 12 20 .co m GLORIA SCARFONE 20 Qu es to E- bo ok ap pa rti en e a ila r iam uo io8 9 gm ail ro nel momento storico in cui quella tradizione è rifiutata con forza. Si pensi soltanto ai casi di Menzogna e sortilegio e del Gattopardo: due romanzi familiari tacciati di anacronismo proprio a causa della loro presunta aderenza ai paradigmi ottocenteschi43. Ma «nella storia delle forme letterarie nessuna fine è davvero definitiva. Tanto è vero che, dopo quasi mezzo secolo di sopravvivenza carsica e poco significativa, il genere della saga familiare torna a imporsi sulla scena (questa volta “globale”), soprattutto a partire dallo straordinario successo di Cien años de soledad (1967) di Gabriel García Márquez»44. Con quella che ormai oggi possiamo a giusto titolo chiamare ipermodernità si assiste a un crescente interesse per il romanzo familiare45. Tra le principali ipotesi di questa riemersione c’è probabilmente una ragione sociologica, per certi aspetti speculare a quella che determinò nell’Ottocento la nascita del genere: la crisi della famiglia nucleare – di cui oggi tendenzialmente sentiamo parlare nei termini di una “crisi della famiglia tradizionale”. La letteratura simbolizza così un nuovo modo di concepire la vita domestica e le relazioni familiari, e lo fa cercando «una forma simbolica adatta a potenziare e sfruttare il nuovo dispositivo del realismo»46. Ecco dunque una seconda ragione, più strettamente formale, cui la rinata centralità del genere può essere ricondotta. È un aspetto che emerge benissimo dal contributo di Abignente, che prende in esame soprattutto testi usciti durante gli anni Zero. Il genere ibrido che la studiosa chiama memorie di famiglia trova la sua ragione in un’indagine genealogica compiuta in prima persona da chi scrive la storia e portata avanti tramite un recupero 43. Sulle critiche mosse al «romanzo inspiegabile» di Morante cfr. la Fortuna critica di C. Cecchi e C. Garboli posta in appendice ai Meridiani (Opere, vol. II, cit., pp. 1658-1678). Sul caso editoriale del romanzo di Lampedusa e sul rifiuto da parte di Elio Vittorini cfr. E. Esposito, Il caso «Gattopardo», in Idem, Elio Vittorini. Scrittura e utopia, Roma, Donzelli, 2011, pp. 169-178. 44. M. Polacco, La costruzione della memoria: il racconto delle generazioni e la «fine dell’esperienza», in «Compar(a)ison», 1-2, 2005, p. 46. 45. Cfr. S.J. Burn, “Family”, in D. O’Gorman, R. Eaglestone (a cura di), The Routledge Companion to Twenty-First Century Literary Fiction, London and New York, Routledge, 2019, pp. 147-158. 46. E. Canzaniello, op. cit., p. 109. RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE di fonti materiali determinante: diari, lettere, fotografie e documenti ufficiali diventano il filtro attraverso cui recuperare la continuità della memoria familiare individuale e collettiva. La storia che questo filtro permette di narrare aspira a una pretesa di verità proprio perché soggettiva e parziale, e cioè fondata sullo scrupolo documentario dell’io. Come si vede, ci troviamo di fronte ad alcuni contrassegni tipici del nuovo realismo47. Così, il romanzo familiare ipercontemporaneo sembra recuperare una delle più importanti dimensioni da cui sono emerse le prime scritture genealogiche: l’attitudine archivistica e documentaria dei trecenteschi libri di famiglia48. Solo che ciò che lì aveva una finalità eminentemente pratica viene ora piegato a uno scopo conoscitivo: la testimonianza autoriale di Giorgio van Straten che chiude questo volume ne è la riprova. Attraverso un singolare e involontario gioco di specchi, lo scrittore conferma l’ipotesi di Abignente, che non a caso si sofferma a sua volta sul romanzo familiare di van Straten, Il mio nome a memoria (2000). Qui è l’interesse per l’indagine genealogica a innescare il tentativo di recupero memoriale: il «romanzo famigliare/genealogico» è per lo scrittore lo «strumento della ricerca e della ricostruzione di un’identità» attraverso «la ricostruzione di un’appartenenza» (infra, pp. 295296) che implica una fortissima «responsabilità morale nei confronti dei propri personaggi» (infra, p. 298). «Io sono le storie che ho raccontato, il lento cammino di un nome»49, scrive l’autore-narratore del Mio nome a memoria. In un modo diverso rispetto agli esempi canonici del genere50, ma nondimeno in continuità con esso, l’identità viene concepita come profondamente relazionale51; ok app o E-bo Quest 47. Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità, Bologna, il Mulino, 2014. 48. Sui quali cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, cit., pp. 98102. 49. G. van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000, p. 294. 50. «In Buddenbrooks, characterization is never individual, but familial; recurrence, rather than occurrence, governs the selection and arrangement of the character’s physical, social, and mental qualities» (P.D. Tobin, op. cit., p. 65) 51. «Family relations come more and more to be treated as a function of individual psychology» (R. Boyers, op. cit., p. 8). 21 a to Ques GLORIA SCARFONE 22 o E-bo è quella in parte già scritta da «coloro che ci hanno preceduti e ci hanno indicato la strada»52: ne a artie k app Ma è possibile appartenere solo a sé stessi? È possibile un’identità che non nasca anche dalle relazioni con gli altri, con una comunità di persone? Quel nome che mi portavo dietro [van Straaten] come ultimo discendente di Emanuel, figlio di Hartog, poteva essere un tramite per aiutarmi anche a definire me stesso? (infra, pp. 295-296) io8 muo ilaria 52. T. Mann, op. cit., p. 134 (cfr. il brano citato all’inizio). RICOSTRUZIONI DI APPARTENENZE Bibliografia ok st o E -bo ien appa rt Abignente E., Canzaniello E. (a cura di), (2017), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20. Baldini A., (2012), Dipingere coi colori adatti. I Malavoglia e il romanzo moderno, Macerata, Quodlibet. Que Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 70/71. Berman A.A., (2020), The Family Novel (and Its Curious Disappearance), in «Comparative Literature», 71, 1. Bertoni F., (2018), Letteratura. Teorie. 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Sicuramente la componente del romanzo storico diventa a tratti preponderante: l’uso delle fonti e dei documenti d’archivio intesse costantemente la trama, creando una sottile dialettica tra due poli di manzoniana memoria, storia e invenzione. Nelle esplicite intenzioni espresse dall’autore nel Preludio già emerge una particolare figura di romanziere che potremmo definire archivista, compulsatore delle testimonianze semidimenticate e rievocatore di «[…] fatti e costumi e accidenti caratteristici che non ottennero ancora posto in libri divulgati, e di cui la notizia rimase o nella tradizione orale che ancora si può interrogare, o in carte manoscritte, […]» (CA, vol. I, pp. 13-14): non si eccede forse affermando che l’essenza stessa dell’intero romanzo sia racchiusa in questa mai ap- to ue s Q 1. G. Rovani, Cento anni. Romanzo ciclico, Milano, Stabilimento Redaelli dei fratelli Rechiedei, 1868 (vol. I), 1869 (vol. II) (d’ora in avanti abbreviato CA). La prima edizione, in cinque volumi, uscì invece tra il 1859 e il 1864: Cento anni. Libri XX, Milano, a spese dell’autore, tipografia Wilmant, 1859 (voll. I-II-III); Milano, G. Daelli e C., tipografia Bozza, 1864 (voll. IV-V). Il romanzo venne pubblicato anche in puntate nelle appendici della «Gazzetta di Ufficiale Milano» (poi «Gazzetta di Milano»), con discontinuità, dal 31 dicembre 1856 al 31 dicembre 1863. In mancanza di un’edizione critica, per le citazioni si farà riferimento all’edizione del 1868-1869, che attesta l’ultima volontà dell’autore. E- b oo k a ail.com 20122 809-12 23-080 9-84 FRANCESCA PULIAFITO ok app artiene a ilaria muoio 89 gm pagata ansia di nascosta e inedita verità. Attraverso una narrazione che copre un arco cronologico di circa un secolo, dal 1750 al 1850, i Cento anni iniziano così a intrecciare un rapporto con alcuni elementi tipici del romanzo di famiglia: nel suo carattere altrettanto ibrido e ambiguo, sintesi di una mescolanza di generi, il romanzo di famiglia infatti «è sempre, almeno in parte, un romanzo storico: parte da un tempo remoto, lontano dal presente, per arrivare alla contemporaneità ‒ e alla coincidenza tra tempo della storia e tempo della scrittura»2. Le vicende delle generazioni protagoniste dei Cento anni, un po’ come accadeva nell’antico genere medievale dei libri di famiglia, si sviluppano «nello spazio di confine tra documento e rielaborazione fantastica»3: a questo proposito si potrà citare, tra possibili e numerosi esempi, il caso emblematico di donna Paola Pietra, monaca del convento milanese di Santa Radegonda, le cui romanzesche vicissitudini si mescolano alle informazioni tramandate da una cronaca manoscritta (attualmente conservata presso la Biblioteca Nazionale Braidense) compilata da un frate francescano vissuto nel XVIII secolo, Benvenuto Silvola4. Ma a questo aspetto andranno aggiunti altri punti di tangenza con il genere del romanzo familiare. La personale ricerca storica da compiersi nella sua opera, scrive ancora Rovani nel Preludio, attraverserà il secolo «[…] scegliendo i punti salienti dove le prospettive si trasmutano allo sguardo, e dove si presenta qualche elemento nuovo di progresso o di regresso, di bene o di male, che dalla vita pubblica s’infiltri nella privata» (CA, vol. I, p. 13): proprio in questa dichiarata selezione di sintomatici avvenimenti, e nella conseguente evidenziazione dei punti nodali cha scandiscono un’epoca, si rintraccia una ulteriore comune ca- 2. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 114-116. 3. Ibid., p. 102. 4. Padre Benvenuto Silvola da Milano, Miscellanea, proveniente dal convento di Sant’Ambrogio ad Nemus, rilegata nel 1766, tomo XIII, cc. 22-26 (Succinto Rapporto degli avvenimenti della Signora Donna Paola Pietra, uscita dal Monastero di S. Radegonda di Milano nell’anno 1730). Per una trattazione dell’argomento ci si permette di rimandare al nostro recente studio Un mosaico di fonti. Cento anni, la Storia secondo Rovani, Novara, Interlinea, 2020, pp. 23-86. Quest o E-bo 26 COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI 27 ratteristica del romanzo di famiglia, un genere che aspira a una visione totalizzante ed enciclopedica dove «tutta la realtà è compendiata nella rappresentazione di un segmento particolare, investito però di una straordinaria capacità significativa»5. Da questo punto di vista, al genere letterario del romanzo ciclico appartengono sicuramente anche i Cento anni, come testimonia il sottotitolo che compare però soltanto nell’edizione definitiva. La continuità tematica non va ricercata tanto in romanzi successivi (come La Libia d’oro, pubblicata in volume nel 1868, dove pure attraverso la tecnica balzachiana del système des personnages reparaissants ritornano in modo molto sbiadito e superficiale alcuni personaggi: Andrea Suardi, figlio del Galantino, e Mauro Bichinkommer, il falsificatore di grafie), ma piuttosto nello stesso romanzo, concepibile come frutto di un accostamento all’interno di un’unica grande opera di diversi racconti collegati attraverso il binario genealogico percorso dai personaggi, ossia mediante la riapparizione di alcuni identici e ben definiti caratteri ereditari. Nell’esigenza di interpretare e rimodellare gli eventi storici, Rovani crea un ponte tra vita pubblica e vita privata del personaggio, muovendosi sulla scia balzachiana tracciata dalla Comédie humaine e resa esplicita nell’Avant-propos dell’opera6. Si tratta sostanzialmente di un argomento che trova le sue radici nel panorama letterario europeo dei primi decenni del secolo e nello specifico nelle pagine del romanzo scottiano, dove il romanziere storico si trova di fronte a ostacoli che Stefano Calabrese definisce «[…] di natura eminentemente sintattica, come conseguenza del fatto che gli intrecci cominciano a evidenziare un equilibrio tra individuo e contesto storico, collocando l’impulso ad agire nello spazio interstiziale tra l’uno e l’altro». Una questione di natura sintattica perché «il problema dell’integrazione dell’individuo Questo nell’insieme sociale consiste infatti nel connettere l’azione del singolo 5. M. Polacco, op. cit., p. 108. 6. Cfr. H. de Balzac, Avant-propos, in Idem, La Comédie Humaine, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade), 1951, vol. I, pp. 12-13: «En saisissant bien le sens de cette composition, on reconnaîtra que j’accorde aux faits constants, quotidiens, secrets ou patents, aux actes de la vie individuelle, à leurs causes et à leurs principes autant d’importance que jusqu’alors les historiens en ont attaché aux événements de la vie publique des nations». E-b FRANCESCA PULIAFITO 28 agli eventi collettivi». Proprio a questo contesto è strettamente legata l’ottocentesca diffusione delle strutture romanzesche cicliche di ascendenza realista francese, «galassie testuali sistemiche in cui le vicissitudini di un individuo risultano sovradeterminate dal contesto storico»7. Ma se da un lato i Cento anni guardano al modello realista balzachiano affascinati da un sommo esempio di étude de mœurs, dall’altro lato è chiaro che le intenzioni e le ambizioni rovaniane superano ampiamente i concreti risultati letterari, non arrivando pienamente a innestarsi all’interno del filone del genere del romanzo contemporaneo sociale. Le fragilità del romanzo di Rovani sono riconducibili anche al retaggio del roman-feuilleton, un genere che coerentemente rispondeva all’esigenza di ciclizzazione imposta dal mercato editoriale8. Una lunga e irregolare vicenda redazionale accompagna l’uscita dei Cento anni in puntate nella «Gazzetta di Milano», dal 1856 al 1863: le caratteristiche del romanzo d’appendice ben si conformano a un’intricata trama di episodi che coinvolge quattro generazioni, ma al tempo stesso contribuiscono alla mancata profondità d’analisi dei rapporti tra individuo e società e incidono sulla caratterizzazione del profilo dei personaggi rendendolo tendenzialmente stereotipato. Il tema della memoria è un elemento strutturale del romanzo di famiglia, perché conservare il ricordo delle generazioni passate significa stabilire una continuità con quelle attuali e consentire all’identità familiare di sopravvivere contro il potere usurante del tempo9. Nei Cento anni vi è un personaggio d’invenzione che possiede la precisa funzione di mantenere in vita la memoria delle quattro generazioni attraverso una prospettiva unificante: Giocondo Bruni, figlio della ballerina Margherita Gaudenzi e del violinista Lorenzo Bruni, un narratore di secondo grado «che non avrebbe mai dovuto morire; quella storia animata ed ambulante che il lettore conosce, e che ci raccontò tante e tante cose che lar n ea i art ie pp o ok a Qu e st oE -b io8 9 o iam u 7. Cfr. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-614. 8. Cfr. ibid., pp. 614 ss. 9. Cfr. M. Polacco, op. cit., p. 120. g COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI non stanno nei libri, perché i libri troppo spesso sdegnano di raccogliere gli sparsi minuzzoli del vero, senza dei quali il vero non è però mai completo» (CA, vol. I, p. 10). Il tipico intercalare scelto per caratterizzare questo curioso e longevo testimone oculare è infatti «La mia memoria è una valle di Giosafat tutta affollata di maschere» (CA, vol. I, p. 23), dove le maschere simboleggiano gli innumerevoli volti che si avvicendano nel romanzo, bisognosi di essere riportati alla luce, mentre la valle biblica metaforicamente rappresenta la volontà di dare un giudizio di fronte al compimento dei più salienti eventi storici. Giocondo Bruni è inoltre al centro di una topica scena del romanzo che vale la pena di ricordare, nel primo capitolo del Libro decimottavo, ambientata nella sua casa: «come in un consulto di famiglia», si trovano riuniti inaspettatamente «vivi e morti», ossia, oltre all’anziano Bruni, i giovani Andrea Suardi e Giunio Baroggi, insieme ai ritratti della ballerina Margherita Gaudenzi, della contessa Clelia e del conte colonnello V. suo marito, di donna Paolina, ai quali si aggiunge infine la maschera-ritratto raffigurante il tenore Angelo Amorevoli che il violinista Lorenzo Bruni aveva fatto realizzare per ingannare la contessa. Si tratta forse dell’unico momento in cui quasi tutti i principali personaggi si incontrano e, anche se soltanto per un istante, improvvisamente prendono coscienza delle proprie linee genealogiche e percepiscono di conseguenza una perturbante sensazione di disorientamento. Q ue st o E- bo Il filo rosso del testamento sottratto al defunto marchese F.10 da parte del Galantino, un furto in realtà commissionato dal fratello del marchese, il conte Lodovico F., è il pretesto grazie al quale è possibile giungere fino all’epilogo della vicenda narrata nei Cento anni. Due linee genealogiche verticali e distinte, infatti, rispettivamente femminile e maschile, convergono verso il personaggio di Giunio Baroggi, ultimo legittimo erede della discendenza del marchese, nonché alter ego dell’autore. D’altronde viene esplicitata già nel Preludio la volontà di 10. Verosimilmente l’abbreviazione si riferisce al nome di un’antica famiglia di ricchi commercianti milanesi, i Fagnani. Cfr. G. Rovani, Cento anni, B. Gutierrez (a cura di), Milano, Rizzoli, 1934-1935, vol. I, p. 343 (note 1 e 3). 29 ok ap pa rt 30 FRANCESCA PULIAFITO rendere attori del romanzo le famiglie che compongono le generazioni, «cogliendo da ciò occasione di tener dietro agli svolgimenti graduali di tutte le parti che costituiscono la civiltà di un paese» (CA, vol. I, p. 14). Questo in sintesi il quadro genealogico. La linea maschile ha origine con la figura del marchese F., dalla cui unione con Celestina Baroggi nasce Giulio Baroggi, padre di Geremia e nonno di Giunio; la linea femminile invece ha origine con la contessa Clelia, sposata con il conte V. ma amante del tenore Amorevoli, dalla cui unione nasce Ada, moglie del conte Achille S., madre di Paolina e nonna di Giunio Baroggi. A questi anelli genealogici ne va aggiunto un altro collaterale, quello del conte Alberico B., sposato con la giovane contessa Stefania Gentili e appartenente al ramo del marchese F. in qualità di nipote del conte Lodovico. Ogni personaggio principale dei due rami maschile e femminile viene scelto come protagonista di un’epoca: all’anno 1750 (Libro primo Libro quinto) appartengono il marchese F., la contessa Clelia e il tenore Amorevoli; all’anno 1766 (Libro sesto - Libro nono) donna Ada e Giulio Baroggi; al periodo 1797-1814 (Libro decimo - Libro decimosettimo) donna Paolina e Geremia Baroggi; agli anni 1820-1849 (Libro decimot- Que sto E-b ook ap Questo E-book appartiene a ilariamu COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI tavo - Conclusione, ultimo capitolo ambientato nel 1862) Giunio Baroggi, insieme a Stefania Gentili e al conte Alberico B. In alcuni passi eloquenti del romanzo, come la scena del «consulto di famiglia» nel Libro decimottavo, l’autore crea un epifanico momento d’incontro tra le diverse genealogie. Ciò avviene in particolare nel caso delle tre donne protagoniste del ramo femminile: per esempio, nel sesto capitolo del Libro undecimo, sullo sfondo della casa del conte Achille S. si avvicendano le minute descrizioni della contessa Clelia, della contessina Ada e di donna Paolina, rispettivamente di settantadue, quarantasei e diciassette anni. Ada, intenta nell’esecuzione al cembalo della Marsigliese, nonostante il tempo ormai trascorso, conserva ancora alcuni tratti della bellezza giovanile che la accomunano alla figlia Paolina, nel cui nome rivive non casualmente la memoria della benefattrice donna Paola Pietra. Per quanto riguarda la nonna, invece, sembra che la «rigida opacità della cartapecora» abbia preso il sopravvento, rispecchiando il suo autentico carattere da «vegliarda severa» e assommando nei tratti fisici tutta la sua esperienza vissuta: «Tutto quel complesso poi di disegno, di colore, d’espressione, d’atteggiamento era tale, che imponeva altrui un rispetto, il quale sarebbe stato disgustoso e pesante, se dopo il primo urto, non vi si fosse letto il riassunto di un’intera vita di pensieri, di sventure e d’affanni» (CA, vol. II, pp. 70-77). Questo quadro d’unione che si sofferma sul ramo femminile della discendenza di Giunio Baroggi è significativo: come teorizza Yi-Ling Ru nel suo pionieristico studio per una definizione del canone del romanzo familiare, accanto al realismo e all’ordinata scansione cronologica della narrazione come strumento di verosimiglianza, l’attenzione per la rappresentazione dei rituali e degli incontri della comunità familiare ha la conseguenza di riflettere le origini di una famiglia di modello tradizionale e rafforzarne il consapevole senso di appartenenza a una precisa generazione11. 11. Cfr. la ricostruzione del pensiero di Ru in E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, pp. 93-95. 31 FRANCESCA PULIAFITO 32 12. 13. Ibid. Ibid. ien ppart ook a to E-b Ques La figura dell’anziana contessa Clelia incarna nei confronti della giovane nipote Paolina il tipico ruolo del pater familias. Molto più severa della madre, la nonna si sdegna innanzitutto per i comportamenti eversivi della nipote (anticipati nella descrizione delle insolite pose maschili assunte durante la scena del raduno familiare delle tre donne), che, in qualità di allieva emerita dotata di «un talento drammatico assai distinto», accetta di essere protagonista della commedia Il dragone benefico del professor Mirocleto Ghedini: non appena scorge «quel diabolico angelo di diciassette anni in quel costume provocatore», donna Clelia pronuncia risoluta il suo veto. Ancora secondo la teorizzazione di Yi-Ling Ru, affinché si possa parlare di romanzo familiare è necessario che i conflitti generazionali siano vera e propria materia del racconto, trasformandosi in un movente che genera lo sviluppo della trama e orienta le azioni dei personaggi12. Inoltre, come esattamente esemplifica il caso della contessa Clelia e della nipote Paolina, a livello formale nel romanzo familiare si verificano un movimento verticale, sulla linea delle discendenze, e un movimento orizzontale, sulla linea dei conflitti tra membri appartenenti allo stesso clan, dove la dimensione che conta non è individuale ma collettiva13. Tuttavia il disaccordo per il costume da dragone indossato da Paolina è solamente un iniziale sintomo della relazione familiare avversa tra due generazioni troppo distanti. Lo spirito emancipato della nipote si manifesta apertamente nel momento in cui si tratta di scegliere un compagno: Paolina si innamora di un uomo di condizione non nobile, Geremia Baroggi, capitano di un reggimento di dragoni. La contessa Clelia, dopo aver concesso il matrimonio con un assenso momentaneo, ben presto converte il proprio sentimento pietoso in tenace orgoglio di sangue e volontà di vendetta contro chi ha saputo soggiogarla. La contessa, immemore del suo passato, è un personaggio ormai inaridito negli affetti, reso crudele dall’età avanzata e insterilito dai suoi studi scientifici, mentre Rovani si schiera convintamente dalla parte delle ge- Qu e s t o E-bo COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI o k a p parti nerazioni successive: «[…], non ci par vero che dovesse venir il tempo d’odiarla; di odiarla, sì, perchè noi odiamo con tutta l’enfasi di un odio implacabile tutti coloro che vogliono distruggere, colla violenza di una falsa legge, l’unica legge legittima della natura che suscita gli affetti, e li riscalda e s’affanna perchè trovino il loro adempimento. Ah! vecchia contessa scellerata, […]» (CA, vol. II, pp. 215-216). Sciaguratamente il Baroggi dovrà lasciare Milano per Piacenza. La nonna, figura dominante della casa, avvia così una lenta tortura psicologica ai danni della nipote, pretendendo di leggere preventivamente e censurare tutta la corrispondenza scambiata tra i due amanti, sprofondati nella frustrazione e nel dolore, oltre che nel falso sospetto di essere stati vicendevolmente traditi (CA, vol. II, pp. 217-220). Paolina, simbolo della donna indipendente ed emancipata dall’opprimente autorità della famiglia, arriva a una soluzione estrema: fuggire e ricongiungersi con l’amante, dopo essere riuscita a consegnare un breve messaggio di avviso in cui si chiarificano i ruoli dei personaggi e si riconosce il pensiero dell’autore: ene a 89 il a r i a m uoio gmail. c o m 20122 8 0 9 12230 8 0 9 8423 Per Dio, vorrò ben vedere sino a che punto saprà giungere la crudeltà di una vecchia testa piena di pregiudizj. Che nobiltà, che ricchezze, che leggi, che autorità! Soltanto il mio cuore ha la autorità legittima di comandarmi di amarti e di seguirti e di distruggersi per te. Degli altri tutti respingo ogni comando. Sfiderei Dio stesso, se m’ingiungesse di dimenticarti e di fuggirti. Ma Dio è buono; così lo fossero i padri e le madri, che, pur troppo, credono di fare il nostro bene col farci morire, per piangerci poi quando non si può più risuscitare. (CA, vol. II, p. 221) Al messaggio segue una seconda lettera dove si accenna all’indispensabile condizione del matrimonio, possibile anche senza il consenso dei genitori. La giovane, fortemente determinata, trae questa curiosa ed erronea informazione da alcuni volumi consultati in biblioteca14, 14. «[donna Paolina] andò a squadernar il catalogo dei libri della biblioteca ricca e scelta, raccolta dalla dottissima contessa Clelia, l’ex lettrice di matematica nell’archiginnasio bolognese, per vedere se mai vi fossero delle opere che trattassero del matrimonio. Squadernò dunque, e ne trovò più d’una, e di recenti: tra l’altre, le Considerazioni attribuite a don Giovanni Bovara sopra l’imperial regia costituzione del giorno 16 di gennajo 1783, risguardante matrimonj, 33 -rdh FRANCESCA PULIAFITO 34 interpretando però un passo delle sentenze del concilio di Trento non contestualizzato: […] quel passo che per lei era davvero un passo d’oro: ‒ Ognuno sa che il concilio di Trento volle stabilire che valido sia il matrimonio de’ figli anche senza il consenso de’ genitori. ‒ Ciò le bastò; chiuse il libro; ripose tutti gli altri nella libreria, e non ne volle saper altro; e su quel passo solitario e sgranato, come praticano molti dotti che vogliono fondare un sistema nuovo a qualunque costo, e storpiano i fatti per farli stare sul loro letto di Procuste, fondò la sicurezza del suo matrimonio col bel capitano. (CA, vol. II, p. 92) Questa estesa riflessione sul tema della patria potestas non costituisce un unico caso isolato nelle opere di Giuseppe Rovani. In una lettera autografa datata 2 dicembre 1870 l’autore definiva il generoso avvocato milanese e amico Enrico Rosmini (1828-1898) un «Padre ma non di quei di Roma antica»15, proprio per sottolineare per contrasto il pesante ruolo dell’autorità degli antichi padri romani, sostanzialmente una reale «tirannia» domestica, come recita un altro brevissimo biglietto autografo conservato presso la Biblioteca Ambrosiana16. Nel tardo romanzo La giovinezza di Giulio Cesare l’intero capitolo dodicesimo è dedicato al tema della patria potestas romana, un potere che, esercitato con egoismo, ansia di dominio e gelosia, avrebbe intrappolato nascostamente i figli nelle case paterne, nell’unica speranza di potersi allontanare e liberare grazie alle chiamate in guerra e all’ottenimento di un personale e inalienabile peculio castrense: «La quarta legge delle dodici tavole spettante alla patria potestà è la ferocia belvina convertita in scienza e consolidata nel diritto civile. I figli in Roma erano cittadini, in faccia agli altri uomini persone, al cospetto del padre schiavi e cose; né mai diventavano maggiorenni»17. stampate a Milano dal Motta nel 1794; i due opuscoli dell’abate segretario Giudici, Sulla civile potestà nel matrimonio, stampati pure a Milano in quel medesimo anno 1797; e un altro sul medesimo soggetto, d’ignoto autore, stampato a Brescia nell’anno stesso». CA, vol. II, p. 91. 15. La lettera è conservata a Brescia, presso l’Archivio Lechi, nel Fondo Rosmini-Valotti. 16. Milano, Veneranda Biblioteca Ambrosiana, segnatura Casati 6 (cartella 5, n. 1). 17. Cfr. G. Rovani, La giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane, Milano, Legros Felice editore, 1873, vol. I, pp. 263-274. Que sto E-b ook COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI 35 Questo E-book I rapporti conflittuali tra padri e figli non si esauriscono nel contrasto tra la contessa Clelia e donna Paolina. La nipote, infatti, si ritrova a dover conoscere per la prima volta suo padre, il conte Achille S., un uomo libertino di grande fascino, che dopo aver sposato l’ingenua contessa Ada aveva presto abbandonato la famiglia per altri talami. Il conte Achille, che non aveva mai visto sua figlia, inizialmente se ne innamora, ma il potenziale incesto è impedito dal coraggio di Paolina, che non solo decide di rivelare la propria identità ma osa anche chiedere il permesso di unirsi in matrimonio con il capitano Baroggi (CA, vol. II, pp. 238-246). In questo contesto il conte rivela la sua vera indole, non dissimile da quella della contessa Clelia, manifestando il suo orgoglio nobiliare, sfidato da un uomo senza titoli: per risolvere la situazione che minaccia il suo casato, il padre di Paolina sceglie di non cedere al disonore e di affrontare il giovane soldato in un tradizionale duello a morte. La figlia, invece, non rinuncia a difendere la propria posizione e afferma in modo anticonformista di voler combattere contro il padre se l’amante restasse ucciso. Per quanto riguarda l’opinione di Geremia Baroggi, naturalmente diversa e contraria rispetto a quella del conte, non vi è alcun disonore nel matrimonio con donna Paolina, ma soltanto una pacifica e doverosa conciliazione che supera gli «infesti pregiudizj di casta» (CA, vol. II, pp. 251-254). apparti ene a i lariamu oio89 g mail.co Al tema della patria potestas si collega il tema dell’adulterio: osservando gli anelli di discendenza nel ramo genealogico femminile, si noterà la costante presenza di una relazione frustrata, moralmente negata o socialmente rifiutata. Questo elemento non fa altro che rafforzare la prospettiva dell’autore, secondo il quale i personaggi vincenti sono coloro che trovano il coraggio di superare le convenzioni sociali e gli astratti schemi accettati dalla morale condivisa. Così una ancora giovane contessa Clelia tradisce il conte V. suo marito per un cantante d’opera lirica, il tenore Amorevoli; la figlia che nasce dalla loro unione, la contessa Ada, si sposa con il conte Achille S. ma non rinuncia all’amore per lord Guglielmo Crall, protagonista insieme al Galantino durante il periodo della milanese Ferma del tabacco, figlio del misterioso cavaliere inglese che aveva liberato donna Paola Pietra dalla monacazione forzata nel convento di m2 36 FRANCESCA PULIAFITO Santa Radegonda; donna Paolina si avvicina quindi al vertice di questa piramide rovesciata; infine Giunio Baroggi, ultimo discendente e punto d’incontro tra i due rami genealogici, si innamora di Stefania Gentili, donna infelicemente sposata con il disumano conte Alberico B. Nel Libro decimonono e nel Libro ventesimo dei Cento anni la ciclicità strutturale del romanzo è evidente nella narrazione della vicenda che coinvolge il protagonista Giunio Baroggi e nella conseguente creazione di un racconto nel racconto. Questo personaggio inoltre può essere considerato, come si accennava, un alter ego dell’autore, che si fa portavoce delle sue tesi su eventi storici e fenomeni di costume (i discorsi diretti del personaggio sono infatti spesso una trascrizione di alcuni passi rovaniani ripresi da altre opere saggistiche già pubblicate)18. Ancora una volta si assiste a uno scontro tra classi sociali diverse, ossia tra un nobile conte, Alberico B., e un semplice dilettante di viola, Giunio Baroggi. Al centro della contesa vi è la giovane contessa e talentuosa cantante Stefania Gentili, sposata contro la sua volontà con il perfido conte, una sorta di Barbablù che nascostamente sottopone la consorte a un estenuante e letale tormento fisico e psicologico. In questo contesto emerge il peso determinante del potere coercitivo della Chiesa in materia di matrimonio: monsignor Opizzoni, dipinto come sacerdote bigotto, misogino e inesorabilmente ottuso, conduce la Gentili alla rovina argomentando alcune sue tesi che, dopo vari ripensamenti, convincono i genitori della giovane a farle abbandonare per sempre gli studi musicali per consegnarla invece nelle mani dell’astuto Alberico. Abbracciare una carriera teatrale sarebbe stata infatti una scelta riprovevole, mentre il matrimonio, nelle astratte teorie dell’Opizzoni, avrebbe purificato e addomesticato l’animo del conte peccatore. Non casualmente in questo racconto incastonato nel romanzo la casa diventa l’ambientazione spaziale dove si consuma la tragedia di Stefania Gentili, un luogo chiuso e 18. Ci si riferisce in particolare ai passi su Daniele Manin, nella Conclusione, ripresi dal saggio Di Daniele Manin presidente e dittatore della Repubblica di Venezia. Memoria storica, Capolago, Tipografia Elvetica, 1850, e alle sequenze su Gioachino Rossini, nel Libro ventesimo, tratte dal profilo dell’operista pubblicato nella Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le reciproche loro rispondenze, ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII fino ai nostri giorni, Milano, Sanvito, 1858, vol. IV. Qu est o COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI to Qu es terribilmente claustrofobico, dal quale è impossibile evadere19; al contrario, Giunio Baroggi si muove in uno spazio esterno e non soggetto al dominio del conte. Nel suo vano e disperato tentativo di sottrarre l’amante al conte Alberico, Giunio cerca conforto nelle parole dell’avvocato Montanara, suo amico: si tratta di una sequenza che occupa l’intero settimo capitolo del Libro ventesimo, un passo che lo scrittore aggiunse soltanto dopo aver consegnato il manoscritto in tipografia (CA, vol. II, pp. 634-639). Dal momento che la pressante preoccupazione del Baroggi consiste nel trovare nel più breve tempo possibile un espediente che possa liberare la Gentili dal folle vincolo coniugale che è stato stretto, la discussione cade sul tema dell’impossibilità del divorzio. Alla base di questa digressione saggistica vi è un testo ben preciso, ovvero il trattato Teoria civile e penale del divorzio di Melchiorre Gioja (17671829)20: Rovani usa una tecnica già collaudata all’interno del romanzo e decide di estrarre e trascrivere alcuni passi principali della sua fonte giustapponendoli tra loro e innestandoli nei dialoghi dei personaggi21. Il Baroggi chiede allora un parere sulla necessità del divorzio all’esperto giurista, che risponde dando voce alla tenace sentenza dell’autore: il matrimonio indissolubile è sostanzialmente un’utopia. In questo contesto un ruolo fondamentale è giocato dall’irragionevolezza dei teologi, inconsapevolmente responsabili di spingere le donne infelici della propria unione coniugale verso l’adulterio, dal momento che la semplice separazione a mensa et thoro, sostenuta dagli ecclesiastici a discapito del divorzio, non tiene conto della debole e passionale natura umana, costretta così a soffocare la propria necessità di avviare una nuova e più felice relazione; inoltre, attraverso la manipolazione delle E-b oo k app art i e n ea riam u ila 19. Cfr. anche M. Polacco, op. cit., p. 111. 20. M. Gioja, Teoria civile e penale del divorzio ossia necessità, cause, nuova maniera d’organizzarlo, Milano, presso Pirotta e Maspero stampatori librai, 1803. 21. Per un esame delle corrispondenze tra il capitolo del romanzo e i passi del trattato è possibile consultare il nostro contributo Gli autografi dei Cento anni. Appunti sulla prassi scrittoria di Giuseppe Rovani, Atti del XXI Congresso Associazione degli Italianisti (ADI) (Università degli Studi di Firenze 6-9 settembre 2017), Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2019, pp. 703-704. 37 oi ma o89 g FRANCESCA PULIAFITO coscienze femminili, i sacerdoti incrementano le monacazioni forzate, con il vero obiettivo di nascondere lo scandalo di una separazione agli occhi della società. L’ultima breve questione della discussione riguarda il celibato, sempre più diffuso proprio perché il timore di vivere «una guerra domestica, crudele e perpetua» incentiva il rifiuto del matrimonio stesso22. Non molte pagine separano il capitolo dedicato alle riflessioni sul divorzio dal tragico epilogo della vicenda. Nel caso del giovane Baroggi la sorte si rivela infatti beffarda. Dopo aver finalmente riconquistato l’ormai insperata eredità, Giunio organizza con l’aiuto del dottor Broussais un inganno, ossia compra un biglietto vincente della lotteria per poi donarlo alla Gentili, che in questo modo potrebbe emanciparsi dalla sua schiavitù. Ma il risultato non viene raggiunto, perché, alla notizia della vincita, le violenze del conte Alberico si fanno sempre più insostenibili, al punto che la giovane, non trovando il coraggio immediato di fuggire, segue il triste destino delle mogli che l’hanno preceduta. Lo scontro tra i due diversi mondi della nobiltà dei titoli e della nobiltà d’animo si risolve, almeno apparentemente, con l’insuccesso del secondo termine. Tuttavia, all’iscrizione che si legge sulla lapide della sventurata Stefania Gentili, nell’ultimo capitolo della Conclusione, Rovani non dimentica di affiancare le ultime parole del Baroggi morente, tratte dal quarto canto dell’Eneide virgiliana, in cui Didone prima del suicidio invoca la vendetta23, lasciando presagire una sconfitta parziale e ancora piena di speranze per le generazioni che seguiranno. es u Q to oo b E k 38 22. A proposito delle argomentazioni rovaniane sul tema del matrimonio indissolubile, può essere interessante ricordare il sermone in versi Sul matrimonio, probabilmente risalente agli anni Quaranta (cfr. «L’Italia Musicale», 12 marzo 1853: «Passò così molto tempo senza ch’egli desse segno di vita e fu solo nel 1847 che i suoi dodici amici lessero un suo sermone poetico intitolato, Il Matrimonio, che fu stampato per nozze illustri»), dove era già realisticamente contemplato il caso del «matrimonio infelice»: «[...] Ma in altra parte / Vedi rimpetto alla turbata moglie / L’iracondo marito; [...] / [...] / [...] ed or sul fronte / A lei la sorba livida tu vedi / Delle percosse maritali. Oh infido / Amor bugiardo chi lo avria predetto?» («L’Italia Musicale», 12 marzo 1853); il testo è trascritto anche nella Rovaniana di Carlo Dossi (cfr. C. Dossi, Rovaniana, Milano, Libreria Vinciana, 1946, vol. II, pp. 551-558). 23. Cfr. v. 625, Exoriare aliquis nostris ex ossibus ultor. ne a il ie pa rt p COSCIENZA GENEALOGICA E UTOPIA DEL MATRIMONIO NEI CENTO ANNI ok a o st o E -b Qu e Bibliografia Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi. Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20. de Balzac H., (1951), Avant-propos, in H. de Balzac, La Comédie Humaine, vol. I, Paris, Gallimard (Bibliothèque de la Pléiade). Dossi C., (1946), Rovaniana, vol. II, Milano, Libreria Vinciana. Gioja M., (1803), Teoria civile e penale del divorzio ossia necessità, cause, nuova maniera d’organizzarlo, Milano, presso Pirotta e Maspero stampatori librai. Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13. Puliafito F., (2019), Gli autografi dei Cento anni. Appunti sulla prassi scrittoria di Giuseppe Rovani, Atti del XXI Congresso Associazione degli Italianisti (ADI) (Università degli Studi di Firenze 6-9 settembre 2017), Firenze, Società Editrice Fiorentina. Puliafito F., (2020), Un mosaico di fonti. Cento anni, la Storia secondo Rovani, Novara, Interlinea. Rovani G., (1850), Di Daniele Manin presidente e dittatore della Repubblica di Venezia. Memoria storica, Capolago, Tipografia Elvetica. Rovani G., (1858), Storia delle lettere e delle arti in Italia giusta le reciproche loro rispondenze, ordinata nelle vite e nei ritratti degli uomini illustri dal secolo XIII fino ai nostri giorni, vol. IV, Milano, Sanvito. Rovani G., (1868-69), Cento anni. Romanzo ciclico, Milano, Stabilimento Redaelli dei fratelli Rechiedei, voll. I-II. Rovani G., (1873), La giovinezza di Giulio Cesare. Scene romane, vol. I, Milano, Legros Felice editore. Rovani G., (1934-35), Cento anni, B. Gutierrez (a cura di), vol. I, Milano, Rizzoli. 39 ne - k boo Qu oE t s e ap tie par Progresso e pessimismo: il romanzo verista (Verga e De Roberto) Jobst Welge (traduzione di Ilaria Muoio) Dopo il 1861, la produzione romanzesca italiana s’irradia da un singolo epicentro settentrionale a una molteplicità di centri disposti nelle diverse regioni del Paese, in primo luogo Meridione e Sicilia1. Il rinascimento letterario della Sicilia nell’ultimo trentennio del diciannovesimo secolo – dopo il ruolo antesignano svolto, nel corso del Duecento, come polo propulsore della cultura poetica italiana – deve essere ricondotto al risveglio dell’autocoscienza regionale scaturito dallo sbarco dei Mille (1860), così come dal conseguente processo di unificazione nazionale. In principio fermamente a favore dell’unione politica con il “continente”, gli scrittori siciliani si ritrovarono ben presto a constatare il fal- * Nota della traduttrice: viene qui presentata la traduzione di Jobst Welge. Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern Novel, pp. 38-60. © Johns Hopkins University Press. Reprinted with permission of Johns Hopkins University Press. La capacità espositiva e il registro linguistico chiaro e centrato di Jobst Welge non hanno richiesto, in fase di traduzione, eccessivi allontanamenti dallo stile dell’autore. Moderate modifiche nella costruzione dei periodi sono state apportate solo ed esclusivamente nei casi in cui la sintassi anglosassone sia risultata tendente alla fraseologia. In rari casi sono intervenuta per revisionare, integrare o cassare – previa approvazione dell’autore – piccole inesattezze nelle citazioni tratte da testi italiani o sparuti riferimenti bibliografici. Per quanto concerne le citazioni da autori non italiani, ho tradotto per mia cura, con il conforto del collega Filippo Gobbo per la lingua tedesca, tutti i brani non ancora tradotti in italiano, riproducendo tuttavia in nota a piè di pagina e tra parentesi quadre la versione in lingua originale. Un sentito ringraziamento va a Filippo Gobbo e Gloria Scarfone, attenti revisori del lavoro di traduzione nelle sue diverse fasi. A Jobst Welge, in questa circostanza lettore del sé come un altro, esprimo sincera riconoscenza: per i puntuali confronti, per i preziosi suggerimenti. 1. G. Tellini, Il romanzo italiano dell’Ottocento e Novecento, Milano, Mondadori, 1998, pp. 120121. to Q ue s 42 JOBST WELGE limento comunicazionale fra Stato centrale e Sud del Paese2. Per quanto fondati su presupposti del tutto differenti, potremmo allora mettere a confronto il romanzo siciliano di questo periodo con i primi romanzi ambientati nelle regioni celtiche delle isole britanniche3: entrambi tenQu tano di rappresentare topico in cui uno Stato-nazione est queldimomento centralizzato si appropria un territorio posto ai margini, da un punto oE di vista sia culturale sia geografico. boo k aall’area verista, intenzionati a ritrarre, Gli autori siciliani riconducibili ppa sociali della propria regione, alla maniera dei naturalisti, le condizioni rtieborghesia – del resto, sorivolsero spontaneamente l’attenzione non alla ne a ilsocietà (Verga, I stanzialmente inesistente – ma alle classi inferiori della a ia i procesMalavoglia) o al ceto aristocratico (De Roberto, I Viceré). Piùrche mu si storico-sociali, furono pertanto la biologia e il mito a determinare oiole strutture narrative della loro produzione4. Non è certo una coincidenza89 che la “scuola” siciliana sia collimata con la versione italiana del naturalismo romanzesco. La Sicilia rappresentava, a quel tempo, il paradigma della periferia geografica rispetto alla neonata nazione: reduce dalla dominazione borbonica, essa fu poi via via associata agli archetipi dell’arretratezza socioeconomica e della persistenza delle tradizioni arcaiche. Nel corso degli anni Settanta dell’Ottocento, l’insorgere della cosiddetta “questione meridionale” determinò una messa a fuoco progressiva della corruzione locale così come del fallimento dei tentativi di centralizzazione, gettando in parallelo una nuova luce critica sulle dinamiche attraverso cui l’unificazione fu di fatto imposta a partire dal 18605. Come recentemente rilevato da Roberto Maria Dainotto, la Sicilia è stata a lungo intesa quale luogo prototipico del Meridione, vale a dire una periferia 2. A. Asor Rosa, Storia europea della letteratura italiana, 3 voll., Torino, Einaudi, 2009, vol. III, p. 82. 3. Come, per esempio, Castle Rackrent (1800) di Maria Edgeworth. Per approfondimenti rimando al capitolo II del mio Genealogical Fictions. 4. H. Meter, Figur und Erzählauffassung im veristischen Roman: Studien zu Verga, De Roberto und Capuana vor dem Hintergrund der französischen Realisten und Naturalisten, Frankfurt am Main, Vittorio Klostermann, 1986, pp. 248-249. 5. Sulla questione meridionale si veda anche C. Duggan, The Force of Destiny: A History of Italy since 1796, London, Penguin, 2007, pp. 265-273. gm ail muoio89 Questo E-book appartiene a ilaria PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA paradigmatica e cruciale per la definizione e per l’autocoscienza non solo dell’Italia unita ma anche dell’Europa tutta6. Ora, il “trend” dell’arretratezza siciliana poteva affermarsi solo attraverso l’istituzione di una precisa dialettica di mediazione, distanziamento e alterità, cioè attraverso un posizionamento strategico nei confronti dell’epicentro letterario del Paese, rappresentato in quel periodo soprattutto da Milano – città eminentemente influenzata dalla cultura francese. In effetti, è ben noto che le tecniche narrative della scuola verista siano a un tempo un adattamento e una conversione del modello del naturalismo francese. Gli scrittori siciliani miravano a rivolgersi in prima istanza a un pubblico non siciliano, anzi pan-italiano, o meglio, propriamente europeo: non era di certo in Sicilia – in Italia a malapena – che si poteva trovare un pubblico borghese7. Se la Sicilia, dunque, si configurava come l’archetipo dell’alterità per il lettore borghese dell’Italia centro-settentrionale, il peso specifico delle rappresentazioni culturali della realtà siciliana derivava dal loro potenziale di disvelamento di una verità più profonda, non solo rispetto all’emarginazione geografica, ma anche – e soprattutto – rispetto alla nazione in sé per sé: con ogni probabilità, il fulcro problematico del processo di unificazione fu proprio (e lo è tutt’ora) la relazione tra centro e periferia. All’epoca del verismo, la comprensione di questa “verità più profonda” venne appunto raggiunta tramite l’adozione di una tattica di distanziamento – e dunque di arginamento – di una serie di problemi tutt’altro che marginali8. 1. I Malavoglia: famiglia, comunità, modernità. Giovanni Verga, il verismo, le “varianti” del naturalismo Originariamente associato alla nuova maniera della pittura impressionista, il movimento verista italiano fu in seguito correlato soprattut- 6. R.M. Dainotto, Europe (In Theory), Durham, Duke University Press, 2007; in particolare le pp. 198-217. 7. Cfr. H. Meter, op. cit., pp. 9-12. Verga, ad esempio, prese parte attiva al lavoro di traduzione e poi di promozione dei Malavoglia in Francia, collaborando a stretto contatto con il suo traduttore. 8. H. Meter, op. cit., p. 7; p. 228. 43 ap pa rti en e a ila ria m uo io 89 gm ai l.c 12 20 om to alle figure degli scrittori siciliani Luigi Capuana e Giovanni Verga, nonché a quella di Federico De Roberto9. I romanzi veristi possono essere intesi come una versione italiana del naturalismo, il quale rappresenta, in senso lato, un utile termine di raffronto per la comprensione di molti dei romanzi europei di fine Ottocento. In questa prospettiva, il naturalismo romanzesco si distingue per l’adozione di una voce narrante impersonale, oggettiva, per la tecnica della polifonia, per una costruzione circolare – per converso allo sviluppo lineare – del racconto, per l’apertura a nuove tematiche sociali10. Più nello specifico, il naturalismo è l’approccio esplicitamente “scientifico” adottato dai romanzieri francesi come Flaubert e, primo fra tutti, Zola. L’interesse di Verga per questi autori viene fatto risalire al 1874; nelle lettere redatte intorno al 1880 e indirizzate all’amico Capuana, egli pone con una certa assiduità quesiti sugli ideali naturalistici dell’impersonalità e della documentazione oggettiva. Nella loro corrispondenza entrambi concordano sul principio secondo cui un nuovo “contenuto” letterario dovrebbe essere rappresentato attraverso una altrettanto nuova e appropriata “forma” letteraria. Di questo periodo è poi il processo di ammodernamento del romanzo italiano, un processo mediato dalla ricezione del naturalismo francese, in particolare dell’Assommoir di Zola (1877), testo emblematico sulla vita proletaria della lavandaia Gervaise e sulla sua parabola discendente verso la desolazione e la morte, accelerata dalla morsa dell’alcolismo11. Questo romanzo rientra nel ciclo zoliano dei Rougon-Macquart, che annovera in tutto venti titoli (1871-93). Il progetto, di enorme portata, è ordito su un’innovativa combinazione di strategie organizzative diacroniche e sincroniche, da intendersi come una risposta precisa alla temperie epistemica fin de siècle. Le implicazioni positivistico-scienti- 28 JOBST WELGE ue st o E- bo ok 9. P. Pellini, Naturalismo e verismo. Zola, Verga e la poetica del romanzo, Firenze, Le Monnier Univerità, 2010, p. 10. 10. Ibid., p. 9. Ma si vedano anche G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, pp. 291-292 e B. Nelson, Émile Zola (1840-1902): Naturalism, in M. Bell (a cura di), The Cambridge Companion to European Novelists, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, pp. 291-292. 11. G. Baldi, L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, Liguori, 1980, p. 112; p. 119. Q 44 u ria m la e a i PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA n art ie p ka p fiche del progetto – in particolare l’assunzione di un determinismo sia sociale sia biologico – sono esplicitate nel testo programmatico Le roman expérimental (1880)12. Da un lato, i romanzi del ciclo rendono un ritratto sincronico dei diversi ambienti sociali e lavorativi della Francia del Secondo Impero (1852-70), di cui la famiglia dei Rougon-Macquart è rappresentativa, secondo quanto del resto esplicitato nel titolo completo dell’opera: Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire (Storia naturale e sociale di una famiglia sotto il Secondo Impero). Dall’altro, questo ampio ritratto sincronico è correlato a precisi presupposti metafisici e biologici circa lo sviluppo diacronico della suddetta famiglia paradigmatica, oltre che, per implicito, della stessa storia del Secondo Impero e del genere umano in sé per sé. Il legame tra la descrizione sincronica e le leggi dello sviluppo diacronico, così come stabilito nei pronunciamenti programmatici di Zola, è in realtà reso esplicito solo in alcuni dei singoli romanzi. Un ottimo esempio è rappresentato dal simbolo dell’albero (La faute de l’abbé Mouret, 1875), che incarna con precisione la doppia prospettiva di un organismo sincronicamente strutturato e di un contesto di trasmissione ereditaria diacronicamente “radicato”13. Uno dei paradossi più affascinanti dello schema complessivo è senz’altro la curiosa concezione zoliana della Storia, una concezione di tipo filosofico che guarda al Secondo Impero come a un periodo di decadenza ma, al tempo stesso, di rigenerazione e di nuova vita, approdando così a una visione in fin dei conti ottimistica del progresso storico, in cui i processi di proletarizzazione e di modernizzazione capitalistica sono parti della stessa ideologia progressista. I singoli romanzi sono dedicati ai percorsi biografici di singoli membri della famiglia, tutti tipicamente concepiti come il risultato della duplice influenza del contesto sociale e dei fattori ereditari. Tuttavia, come ha sottolineato Hans Ulrich Gumbrecht – con la parziale eccezione delle soglie di apertura e di chiu- o to ue s E bo Q 12. Nella stesura di questo paragrafo molto ha influito la lettura del prezioso contributo di H.U. Gumbrecht, Zola im historischen Kontext: Für eine neue Lektüre des Rougon-Macquart-Zyklus, München, Wilhelm Fink Verlag, 1978, pp. 57-62. 13. Cfr. ibid., p. 59. 45 to E-b ook a ppart i Ques 46 JOBST WELGE sura del ciclo (La fortune des Rougon e Le docteur Pascal) – l’elemento diacronico resta significativamente in secondo piano, a livello sia delle biografie individuali sia della struttura del ciclo romanzesco nel suo insieme – «per questa ragione il ciclo viene a costituire più un panorama di diverse situazioni sociali che un continuum in cui la decadenza di una famiglia è rappresentata per fasi di sviluppo successive»14. Ora, gli scrittori siciliani si rifecero senz’altro al modello francese, eppure, al tempo stesso, se ne differenziarono. Più precisamente, l’attenzione pressoché esclusiva di Zola per i milieux sociali del contesto urbano e cittadino (con importanti eccezioni quali La terre, 1887) viene trasposta dagli scrittori italiani in un ambiente prettamente provinciale. In Italia, il realismo sociale del verismo si concentra sulla relazione tra le diverse realtà regionali e il nuovo Stato-nazione. E ancora, in opposizione alla compresenza insoluta, in Zola, tra degenerazione familiare e ottimismo storico, questi scrittori risultano essere generalmente molto più pessimisti e conservatori rispetto alla questione del progresso della Storia15. Un’altra differenza significativa concerne poi proprio il ruolo sostanziale attribuito alla famiglia. Mentre in Zola – alquanto in contraddizione con il sottotitolo del ciclo – l’idea di famiglia evolve in ultima analisi verso l’isolamento romanzesco dei membri del nucleo familiare – concettualmente legati tra loro solo per via genealogico-biologica – gli scrittori veristi compongono romanzi di famiglia stricto sensu. Qui, l’individuo è anzi unicamente concepibile come parte di un’entità collettiva. L’unità della famiglia, resistente alle forze disgregatrici del progresso sociale, è e resta sempre il modello di riferimento per la caratterizzazione dei personaggi – anche quando il plot narrativo è incentrato su storie di famiglie decadenti o altrimenti problematiche16. I romanzi di Verga e De Roberto sono naturalisti nella misura 14. [(…) weshalb sich der Zyklus eher zu einem Panorama verschiedener sozialer Situationen zusammenfügt als zur Kontinuität der in sukzessiven Entwicklungsstufen dargestellten Dekadenz einer Familie] Ibid., p. 62, ma anche p. 33. 15. P. Pellini, op. cit., p. 10. 16. H. Meter, op. cit., p. 10. La fioritura di questi cicli genealogici nella Sicilia di fine Ottocento è un dato indubbiamente rilevante; tuttavia i romanzieri qui trattati non sono né i primi né gli unici a cimentarsi con la pratica genealogica. Come ha dimostrato Stefano Calabrese, nel PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA momento in cui la Sicilia cessa di esistere in quanto entità geo-culturale autonoma – intorno al 1870 – si apre la strada a tutta una serie di lavori di carattere folclorico, linguistico e storiografico, che istituiscono una dinamica d’analisi dialettica tra la nuova realtà storico-sociale e la pregressa demarcazione dei confini culturali siciliani, puntando a ricostruirne la genesi in «termini genealogico-tassonomici». Cfr. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 634-635. 17. F. Veglia, Il ‘maestro’ e il ‘discepolo’: su alcune immagini di Zola nell’epistolario di Verga, in R. Luperini (a cura di), Il verismo italiano fra naturalismo francese e cultura europea, Lecce, Manni, 2007, pp. 23-53. Ma cfr. anche J. Küpper, Zum italienischen Roman des neunzehnten Jahrhunderts: Foscolo, Manzoni, Verga, D’Annunzio, Stuttgart, Steiner, 2002, pp. 90-92. Questo E-book appartiene a ila in cui sono contraddistinti da tecniche di rappresentazione oggettiva, da un’attenzione all’elemento corale e collettivo che privilegia pattern e forme di comportamento transindividuale. Nondimeno, sin dal principio, nelle sue lettere a Capuana, Verga prende le distanze dagli intenti scientifici zoliani, radicalizzando a un tempo l’ideale dell’osservazione oggettiva – l’eclissi del narratore – al punto che solo pochi lettori contemporanei furono di fatto capaci di apprezzarlo17. In effetti, il nodo veramente decisivo qui non è tanto la questione dell’ereditarietà e della discendenza, quanto il modo attraverso cui alcune strutture profonde della periferia culturale riescono a resistere a tutto ciò che si configura come cambiamento in superficie. In tal senso, questi testi possono essere letti come un esame autocritico della modernità, incentrato sullo scontro tra la continuità transgenerazionale della tradizione e le nuove forze del progresso, dunque sulle ripercussioni di quest’ultimo in uno spazio strettamente circoscritto. Nel novembre del 1887, Verga si trasferisce a Milano: qui prende avvio un nuovo orientamento estetico, che segna un distacco radicale dalla precedente maniera letteraria, più vicina alla narrativa cittadina e melodrammatica. È proprio questo distanziamento geografico – così sembra – a metterlo nella condizione di ritrarre quel mondo siciliano, ormai lasciato alle spalle, e di scrivere del microcosmo di Aci Trezza, un paesino di pescatori ubicato nei pressi di Catania. Questo sguardo distanziato sulla realtà siciliana – dalla città più moderna d’Italia su uno dei suoi apparati sociali più arretrati – fa eco a tutti gli altri tentativi coevi di rappresentazione della società siciliana, ad esempio un fondamentale lavoro sociologico del 1876, I contadini in Sicilia di Sidney 47 48 JOBST WELGE Sonnino, o ancora le Condizioni amministrative e politiche della Sicilia (1877) di Leopoldo Franchetti. Alla stregua di queste due opere sociologiche sulla questione meridionale, Verga assunse una posizione fortemente critica verso l’azione industrializzatrice e capitalistica incarnata dall’egemonia economica settentrionale. Proprio attraverso tali lavori, egli si convinse che uno studio delle strutture familiari avrebbe potuto rivelare alcune delle verità più significative della società meridionale e, di conseguenza, del Paese intero18. Pochi sono i contributi teorici di Verga sulla poetica del romanzo naturalista. La celebre prefazione ai Malavoglia, dove si parla di uno «studio sincero e spassionato» (MV, p. 3), è in linea con la postura di oggettività scientifica analogamente adottata nei casi di studio sociologici19. In effetti, mai prima d’ora un romanzo italiano aveva dedicato così tanta attenzione a una rappresentazione seria dei dettagli più minuti della vita quotidiana; un qualcosa, questo, che deve essere apparso senz’altro come rivoluzionario agli occhi di una tradizione letteraria ampiamente dominata dal concetto di nobilitazione retorica20. In una ben nota lettera a Capuana, Verga esprime la propria intenzione di doo cumentare il più fedelmente possibile una data realtà sociale; eppure st e u questa prospettiva interna è compendiata e corretta da una consapevoQ le presa di distanza: […] avrei desiderato andarmi a rintanare in campagna, sulla riva del mare, fra quei pescatori e coglierli vivi come Dio li ha fatti. Ma forse non sarà male dall’altro canto che io li consideri da una certa distanza in mezzo all’attività di una città come Milano o Firenze. Non ti pare che per noi l’aspetto di 18. C.A. Augieri, La struttura della parentela come codice narrativo in Vita dei campi, in R. Luperini (a cura di), Verga: l’ideologia, le strutture narrative, il «caso» critico, Lecce, Milella, 1982, pp. 13-59; si veda inoltre S. Baglio, I Malavoglia: la «famigliuola» e il paese, in N. Cacciaglia, A. Neiger, R. Pavese (a cura di), Famiglia e società nell’opera di G. Verga: atti del convegno nazionale, Perugia, 25-26-27 ottobre 1989, Firenze, Leo S. Olschki, 1991, pp. 313-324. 19. G. Verga, I Malavoglia, F. Cecco (a cura di), Torino, Einaudi, 1995 (d’ora in poi MV). In un primo momento, Verga aveva programmato di pubblicare il romanzo sulle colonne della «Rassegna settimanale» di Franchetti e Sonnino. 20. R. Luperini, «I Malavoglia» e la modernità, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. V, Torino, Einaudi, 2003, pp. 333-334. o E o -b PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA certe cose non ha risalto che visto sotto un dato angolo visuale? e che mai riusciremo ad essere tanto schiettamente ed efficacemente veri che allorquando facciamo un lavoro di ricostruzione intellettuale e sostituiamo la nostra mente ai nostri occhi?21 La “ricostruzione intellettuale” verghiana presuppone di per sé un distanziamento geografico che è occultato ed esibito al tempo stesso. Per certi versi, il sostrato documentario e l’assunzione di un punto di vista distanziato rendono I Malavoglia paragonabili al genere del romanzo storico. Analogo è infatti l’effetto intenzionale di verosimiglianza antropologica e dell’esotismo. Tuttavia, rispetto all’estensione spaziale e alla soggettività in evoluzione, tipiche delle narrazioni storico-generazionali come Le confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo, la saga familiare verghiana, con la sua ambizione epico-oggettiva di rappresentare una realtà più ampia, transindividuale e al contempo precisamente situata, si contraddistingue per una decisa contrazione tanto degli spazi quanto dell’estensione cronologica22. Mentre il romanzo storico è centrato sull’individuo, il romanzo familiare è all’opposto corale e privo di un centro specifico. Se da un lato la modernità è intesa come la causa diretta della disgregazione delle strutture tradizionali, dall’altro questi romanzi mettono in discussione il concetto stesso di mutamento storico. È proprio l’idea che la natura arcaica e primitiva della Sicilia possa in qualche modo favorire il risveglio di una sensibilità artistica fiaccata dagli agi borghesi della modernità e del progresso a spingere Verga a rivolgere la propria attenzione agli umili, per secoli dimenticati e sfruttati dai vari padroni dell’isola e ora vittime del governo italiano. Questa scelta sarà replicata in seguito anche da D.H. Lawrence, che guardò alla Sicilia e a Verga (nelle vesti di traduttore) per individuare il genius loci di una terra caratteristica e autentica, il luogo mitico delle origini, la nostalgia di una so- to Que s 21. Verga a Capuana, 14 marzo 1879, in Idem, Lettere a Luigi Capuana, G. Raya (a cura di), Firenze, Le Monnier, 1975, p. 114. 22. Si rimanda a F. Moretti, Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994, p. 223. 49 50 JOBST WELGE cietà ancestrale e di natura immutabile23. Nel testo di apertura della sua nota raccolta di novelle Vita dei campi (1880), intitolato Fantasticheria, presentando al lettore la realtà di Aci Trezza, Verga scrive: «Parmi che le irrequietudini del pensiero vagabondo s’addormenterebbero dolcemente nella pace serena di quei sentimenti miti, semplici, che si succedono calmi e inalterati di generazione in generazione»24. I Malavoglia portano a compimento e ampliano questo concetto di continuità senza tempo, rendendo oltretutto il ritratto di una realtà che non funge solo da contrappeso al nuovo mondo, anzi è da quest’ultimo già investita e attraversata. 2. Comunità e continuità Il celebre incipit del romanzo pone in contrapposizione il tempo mitico delle origini e un tempo altro già marcato dai primi segni della disgregazione. L’attuale nucleo familiare dei Malavoglia è di per sé esiguo rispetto a quello di una volta: «un tempo i Malavoglia erano stati numerosi come i sassi della strada vecchia di Trezza; ce n’erano persino ad Ognina, e ad Aci Castello, tutti buona e brava gente di mare» (MV, p. 9). Lo scarto tra la continuità generazionale del passato («li avevano sempre conosciuti per Malavoglia, di padre in figlio», MV, p. 9) e il tempo presente è sottolineato dall’uso degli avverbi «sempre» e «adesso» («Adesso a Trezza non rimanevano che i Malavoglia di padron ’Ntoni, quelli della casa del nespolo», MV, p. 10). La famiglia dei Malavoglia è metonimicamente associata alla casa («la casa del nespolo») – e difatti, in area anglofona, il romanzo è meglio noto con il titolo The House by the Medlar Tree. Questa immagine metonimica è di solito evocata come simbolo della continuità temporale – e in tal senso, si oppone all’altra immagine metonimica della famiglia, vale a dire il peschereccio denominato Provvidenza. Il passaggio che segue sancisce il legame tra i due simboli e produce un contrasto efficace tra il moti- Qu 23. R.M. Dainotto, Place in Literature: Regions, Cultures, Communities, Ithaca, Cornell University Press, 2000, p. 104; p. 112. 24. G. Verga, Tutte le novelle, G. Zaccaria (a cura di), Torino, Einaudi, 2011, p. 123. es to E- bo o PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA 51 to es Qu vo della stabilità e quello della crisi economico-esistenziale: «La casa dei Malavoglia era sempre stata una delle prime a Trezza; ma adesso colla morte di Bastianazzo, e ’Ntoni soldato, e Mena da maritare, […] era una casa che faceva acqua da tutte le parti» (MV, p. 73). Ora, il fatto che Bastianazzo muoia piuttosto presto nel romanzo (capitolo 3) e rimanga del tutto indefinito come personaggio contribuisce a consolidare la funzione paterna esercitata dal nonno ’Ntoni e quindi a caratterizzare i Malavoglia come una sorta di clan patriarcale che supera i legami ristretti della struttura familiare borghese. Nel primo capitolo, una mareggiata già annuncia la distruzione di quella che viene ironicamente chiamata Provvidenza e al contempo sottende la minaccia della dispersione dei membri della famiglia. E ancora, se padron ’Ntoni qui richiama la forte similitudine del pugno come corrispettivo del principio patriarcale del sostegno reciproco fra le singole dita della mano, è lo stesso narratore a ribadire prontamente questo principio attraverso la medesima immagine: «E la famigliuola di padron ’Ntoni era realmente disposta come le dita della mano» (MV, p. 11). Nel romanzo di Verga, l’individuo è in effetti inglobato dal sovraindividuale, sia esso la famiglia, la comunità o la natura. Così la voce del singolo non è che il riflesso e l’eco della voce della comunità. Al dispositivo dell’eclissi radicale dell’autore (e del narratore) Verga si avvicinò piuttosto gradualmente. Come si sa, già in un passaggio metaletterario della novella L’amante di Gramigna (inclusa nella raccolta Vita dei campi, 1880), Verga – o per meglio dire, il narratore – delinea un preciso ideale stilistico in base al quale colui che racconta resta invisibile e l’opera d’arte e il suo stesso ambiente devono sembrare essersi fatti da sé25. Ciò nonostante, le novelle composte prima dei Malavoglia (Nedda, Fantasticheria e L’amante di Gramigna stessa), sia pure notevoli sul piano dello spostamento d’attenzione verso la realtà rurale siciliana, si fondano su un’opposizione molto forte tra l’ambiente rappresentato e la prospettiva distanziata della Lebenswelt borghese, condivisa tanto a ok bo E- ea ien art pp 25. «Che la mano dell’artista rimarrà assolutamente invisibile, e il romanzo avrà l’impronta dell’avvenimento reale, e l’opera d’arte sembrerà essersi fatta da sé, aver maturato ed esser sorta spontanea come un fatto reale, senza serbare alcun punto di contatto con su autore». Così nell’Amante di Gramigna; cfr. G. Verga, Tutte le novelle, cit., p. 187. r ila to es Qu 52 JOBST WELGE rt pa ap ok bo E- ea ien dal narratore quanto dal lettore implicito, oltretutto con diversi retaggi d’ascendenza romantica26. Per converso, nei Malavoglia il narratore si astiene da commenti e spiegazioni espliciti, limitandosi a sfruttare il potenziale metaforico delle immagini. La ripetizione anaforica sull’essere «sempre» e «da sempre» dei Malavoglia, provenga essa dalla loro stessa voce o da quella degli altri, definisce con precisione il crollo di questa condizione perpetua. Tuttavia, il focus su un’unica famiglia in crisi è parte integrante del ben più esteso ritratto della comunità del borgo di Aci Trezza. In tal senso, I Malavoglia non costituiscono un romanzo di famiglia del tipo tradizionale. Per quanto la famiglia sia ovviamente al centro del racconto, il romanzo presenta in realtà una molteplicità di punti di vista e di storie individuali che investono la collettività tutta, accludendo una vasta gamma di ruoli e tipi. I più “ampi” conflitti sociali di Aci Trezza penetrano il cuore della famiglia, che, dal canto suo – all’opposto delle rappresentazioni dell’ideale familiare borghese – non è di certo un’«isola protetta contro la lotta per l’esistenza e per la sopravvivenza esterna»27. Tipicamente, la resa di questa pluralità di punti di vista non è affidata a un narratore onnisciente (che è in ogni caso ridotto al ruolo di testimone anonimo); al contrario: la tecnica del discorso indiretto libero pone il lettore in costante confronto con ogni genere di pettegolezzo, riferimento inspiegabile e giudizio, imponendogli, di volta in volta, di decifrarli da sé – senza, tuttavia, mai raggiungere un livello di comprensione profondo e completo. In altre parole, le diverse voci, compresi i commenti cinici o interessati sui Malavoglia, sono parte sostanziale e integrante del milieu rappresentato così come dei suoi limiti caratteristici28. Come ha rilevato Romano Luperini, la disseminazione del punto di vista narrativo, che prevede un’attenzione costante da parte del lettore, m ria ila om il.c ma 9g io8 uo 20 28 12 23 -12 09 09 -08 h -rd 23 -84 26. Ibid., pp. 90-114; 117-24, 186-93. Si veda G. Baldi, op. cit., p. 112. 27. [ein Rückzugsgebiet vor dem Existenz- und Überlebenskampf draußen] A. Koschorke, N. Ghanbari, E. Eßlinger, S. Susteck, M.T. Taylor, Vor der Familie. Grenzbedingungen einer modernen Institution, Konstanz, Konstanz University Press, 2010, p. 21. 28. Sulla situazione narrativa, rimando a G. Tellini, op. cit., p. 197; a G. Baldi, op. cit., 1045; infine a G. Mazzoni, op. cit., pp. 301-302. iene a Questo E-book appart PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA è piuttosto insolita nella seconda metà del diciannovesimo secolo29. A ogni modo, se si considera che i molteplici punti di vista non solo non confliggono tra di loro, ma si configurano, all’opposto, come diverse espressioni di un’unica e sola visione del mondo, con tutti i personaggi – narratore compreso – intenti a parlare allo stesso modo e nella stessa lingua, ne consegue che questa pluralità di voci si avvicina molto di più alla “plurivocità” che alla polifonia narrativa30. Nel corso del romanzo, si apre una certa spaccatura tra comunità in senso largo e famiglia in senso stretto: le nuove iniziative commerciali e l’impresa del carico di lupini rendono i Malavoglia sempre più sospetti e invisi agli occhi degli altri. E se il tentativo di svolta della famiglia è recepito come un’infrazione dell’ordine sociale, le successive catastrofi naturali danno l’impressione che a essere stato violato è lo stesso ordine naturale. È tramite gli artifici retorici che Verga ottiene l’effetto di rappresentazione oggettiva del mondo naturale. Una delle tecniche più sorprendenti per assicurare la massima distanza dell’autore consiste nell’uso frequente di proverbi popolari e di metafore naturali, tutti magistralmente impiegati ai fini della resa di una realtà statica/circolare e della raffigurazione di un microcosmo chiuso su se stesso31. Pur non essendo l’unico a impiegarli, è di certo padron ’Ntoni la figura maggiormente avvezza al ricorso costante a proverbi («motti antichi», MV, p. 13), deputati a confermare una visione conservatrice del mondo. Per esempio, molte delle sue «sentenze giudiziose» (ibid.) evocano immagini del mondo animale o naturale, giustificando lo status quo proprio come ontico e appunto naturale: «ad ogni uccello il suo nido è bello» (cap. 10; MV, p. 231). La dimensione del “vero” antropologico è così integrata dall’uso cospicuo di proverbi, attraverso cui i personaggi analizzano e commentano i singoli eventi, che sottendono sempre una verità sovratemporale e imperitura, una specie di saggezza popolare che classifica ogni fatto nuovo come la conferma di un sistema di valori e credenze 29. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, Bologna, il Mulino, 1989, p. 39. 30. R. Luperini, «I Malavoglia» e la modernità, cit., p. 333; H. Meter, op. cit., p. 24. 31. Si rimanda all’ormai canonico contributo di L. Spitzer, L’originalità della narrazione nei Malavoglia, in «Belfagor» 11, 1, 31 gennaio 1956, pp. 37-53. 53 54 JOBST WELGE preesistente. Questo prontuario proverbiale, che Verga ricavava dai volumi redatti e compilati da intellettuali come Giuseppe Pitrè o Salvatore Salomone Marino, attingeva non solo al contesto siciliano ma anche a quello di molte altre regioni italiane32. Inoltre, diversi personaggi sono caratterizzati da tic linguistici ricorrenti e particolarità che assolvono la funzione di rimarcare la fissità della propria posizione nel piccolo cosmo oggetto della rappresentazione. A livello stilistico e retorico, il romanzo di Verga sfoggia una molteplicità di strumenti diversi – proQue modi di dire – con l’intento di trasmettere un verbi, epiteti, ripetizioni, sto E-b sociale chiuso, dando l’impressione ritratto dall’interno di un ambiente ook di autenticità pur rimanendo comprensibile a pal lettore.magistrale del roCome ha scritto Antonio Candido inpun’analisi artie nilecontesto manzo, in opposizione al naturalismo tradizionale, sociale a a dettagli di riferimento non è qui rappresentato mediante l’accumuloildi riam e minuzie descrittive, quanto piuttosto tramite l’astrazione e la conuoi densazione simbolica; ciò consente, conseguentemente, di enfatizzare o89 la prospettiva interna, quella stessa che autorizza a eludere la funzione chiarificatrice e illusionistica tipica della descrizione: «La vaghezza e la scarsità di elementi descrittivi contribuiscono a dissolvere gli ambienti nel loro significato sociale. La casa non è una realtà fisica marcata e definita, è […] l’espressione della famiglia»33. Così scrive lo stesso Verga, in una lettera a Capuana, a proposito della tecnica dello straniamento: «[…] tutti quei personaggi messivi faccia a faccia senza nessuna presentazione, come li aveste conosciuti sempre, e foste nato e vissuto in mezzo a loro»34. Gli effetti di familiarità e straniamento sono allora due facce della stessa medaglia. È evidente che le certosine invenzioni lin- 32. Romano Luperini interpreta questo processo come un caso di astrazione e generalizzazione: «A Verga non interessava tanto rappresentare un preciso paese di mare quanto un ambiente sociale che fosse il più possibile “tipico” della condizione siciliana». Cfr. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, cit., p. 22. 33. [A indeterminação e a parcimônia dos traços descritivos contribuem para dissolver os ambientes no seu significado social. A casa não é uma realidade física marcante e impositiva, (…) é expressão da família.] A. Candido, O Mundo-provérbio, in Idem, O Discurso e a Cidade, Rio de Janeiro, Ouro sobre Azul, 2010, p. 84. 34. G. Verga, Lettere a Luigi Capuana, cit., p. 110. gm PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA 55 guistiche verghiane e la mimesi del parlato siano fondamentali ai fini della resa dell’effetto di realtà, giacché ci inducono a credere che sono la lingua e l’immaginario stessi del popolo siciliano a fornire il materiale con cui questo verrà rappresentato. Il connubio tra un villaggio di pescatori e il mondo contadino potrebbe di primo acchito risultare un po’ incoerente; tuttavia, occorre precisare che a Verga non interessava una mimesi realistica di quello specifico borgo di fatto esistente, quanto piuttosto il ritratto di una località siciliana nella sua espressione più tipica e generale, una località in cui la cultura del mare e quella dell’entroterra si intersecano a creare ciò che è stato non a caso definito un «modello deliberatamente artificioso»35. Il romanzo presenta padron ’Ntoni come l’archetipo del piccolo proprietario, i cui interessi sono ostacolati da una serie di personaggi che vivono di varie e differenziate Ques forme di lavoro parassitario: in prito E- di Zio Crocifisso, le pratiche mo luogo, l’attività creditizia predatoria boo illecite dell’amministratore pubblico don Silvestro, k appl’abuso nell’eserciartien tra i zio del potere di Fortunato Cipolla. Malgrado le contrapposizioni e a il personaggi, essi non cessano mai di essere parte integrante dello stesso ariam uoio8 ambiente sociale e naturale; così, anche quando esprimono opinioni diverse, ricorrono alla stessa lingua indistinta, proverbi, luoghi comuni et alia inclusi. Come osserva Candido, questi mezzi espressivi sono propriamente distintivi del discorso non individualista, ma transgenerazionale, collettivo e resistente al mutamento diacronico. Più precisamente, i proverbi sono espressione di «una norma ideologica eternizzata»36. La novità del romanzo di Verga consiste nel modo attraverso cui questo universo statico assorbe e al tempo stesso contrasta i flussi del cambiamento. 35. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Giovanni Verga, cit., pp. 22-23. 36. [uma norma ideológica eternizada] A. Candido, op. cit., p. 106. Si tratta di: «metodi di pietrificazione del linguaggio, di confinamento del suo dinamismo a un codice immutabile, il cui ruolo principale è quello di eliminare l’effetto di sorpresa e, quindi, l’apertura a nuove esperienze». [modos de petrificar a língua, de confinar o seu dinamismo a um código imutável, cujo principal papel é eliminar a surpresa e, portanto, a abertura para novas experiências.] Ibid., p. 96. 56 JOBST WELGE 3. Mutamento, tempo, modernità La prefazione del romanzo enuncia non solo il programma oggettivista-positivista dell’autore, ma ne collega i presupposti a quella che viene riconosciuta essere l’origine quasi mitica della tendenza umana – apparentemente innata – a perseguire il cambiamento e il miglioramento del proprio stato: Questo racconto è lo studio sincero e spassionato del come probabilmente devono nascere e svilupparsi nelle più umili condizioni, le prime irrequietudini pel benessere; e quale perturbazione debba arrecare in una famigliuola vissuta sino allora relativamente felice, la vaga bramosìa dell’ignoto, l’accorgersi che non si sta bene, o che si potrebbe star meglio. (MV, p. 3) È da questa attività antropologica primordiale, scandagliata nelle sue più umili condizioni, che si origina la cosiddetta «fiumana del progresso» (MV, p. 3), concepita da Verga come un flusso ininterrotto, di grado in grado più forte e più complesso: dopo la lotta del genere umano per i beni primari ed essenziali, essa coinvolgerà, in ultimo, anche la borghesia e l’aristocrazia. E difatti, questo «moto ascendente nelle classi sociali» (MV, p. 4) in rapporto al progresso è ripreso nel seguito programmatico del ciclo romanzesco: dalla famiglia di pescatori dei Malavoglia all’eponimo arrampicatore sociale borghese del Mastro-don Gesualdo (1888/1889), sino all’aristocrazia della Duchessa di Leyra (che Qu mai a compimento)37. Nella prefazione, tale moto è Verga non portò es come la rete d’accesso a un’individualizzazione inoltre rappresentato to sempre più profonda, che E- include un “arricchimento” linguistico. Lo sviluppo in direzione di unbmaggiore benessere materiale e di una aloo trettanto maggiore complessità k spirituale ap è inquadrato, da una parte, pa come una marcia che dà come «cammino fatale, incessante», dall’altra, rtie (MV, p. 5), se osservata vita a un affresco «glorioso nel suo risultato» ne apparentemente a debita distanza e nel suo insieme. Questo scenario a ila ria mu oio 37. Sulla natura “arrampicatrice” e composita della posizione sociale del Mastro-Don Gesualdo, come testimoniato già dal nome del protagonista, si veda F. Moretti, The Bourgeois. Between History and Literature, London, Verso, 2013, pp. 149-155. 89 gm ail .c 38. R. Luperini, Simbolo e costruzione allegorica in Verga, cit., p. 49. 39. Per un esame dettagliato dei riferimenti storici, impliciti ed espliciti, il rimando va a ibid., pp. 15-19. E sto sereno, tuttavia, non impedisce all’autore di calarsi nel dramma della “lotta per la vita” e di concentrare la propria attenzione sui singoli individui, cioè su tutti quei «vinti che la corrente ha depositati sulla riva» (MV, p. 6). Ora, per quanto l’arco di tempo descritto sia relativamente ampio – gli anni che vanno dal 1863 al 1878 – I Malavoglia sono un romanzo storico solo in una prospettiva molto ristretta. L’universo malavogliesco resiste anzi al modello del romanzo storico: lo Stato e la storia nazionale entrano nel microcosmo di Aci Trezza in maniera estremamente attenuata. Nella realtà entropica delineata da Verga, il tempo è sostanzialmente indeterminato e perlopiù caratterizzato da eventi rituali, religiosi, ciclici, agricoli o naturali (si pensi all’«anno del terremoto», MV, p. 40). Mentre la prima parte dell’opera (capp. 1-4) ricopre un arco di tempo piuttosto breve – solo quattro giorni consecutivi –, la sezione centrale (capp. 5-9) occupa un periodo molto più vasto e di svariati mesi, lungo il biennio 1865-66, laddove l’ultimo capitolo interessa diversi anni, fino alla data limite del 187438. Questa variazione nell’estensione temporale si accompagna a un passaggio graduale dall’uso dell’imperfetto a quello del passato remoto. L’ultima porzione del romanzo – che segna un allontanamento dall’abituale e dal rituale, spostando all’opposto l’attenzione sul temperamento «bighellone» di ’Ntoni (MV, p. 12), tramite una concentrazione progressiva su una serie di eventi concreti – diventa di natura meno etnologica e più storica. Se il mondo dei Malavoglia si contraddistingue generalmente per un tempo etnologico fondato sul ciclo delle stagioni, diversi sono i rimandi significativi al tempo e allo spazio della Nazione: il 1862, l’anno della coscrizione militare di ’Ntoni, con allusioni più generali, oltretutto, al progetto e all’istituzione del servizio di leva obbligatorio; l’allusione alla Battaglia di Lissa del 1866; o, ancora, lo scoppio dell’epidemia di colera nel 1867 (causa di morte della Longa)39. Svariati sono anche gli accenni al problema dell’unificazione e i rinvii alla Guardia Nazionale e 57 Qu e PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA 58 JOBST WELGE alla figura di Garibaldi. Tali riferimenti storici sono integrati ai molteplici rimandi alla modernità tecnologica, che fungono da mediatori tra lo spazio ristretto e l’ampiezza del tempo cronologico: si pensi alla costruzione della linea ferroviaria a sud di Catania (MV, p. 46), alla foggia dei nuovi battelli a vapore sulla costa (MV, p. 122) e all’inaugurazione della linea telegrafica (MV, p. 72). Ora, se questi mezzi di comunicazione servono a trasmettere oggetti e messaggi, la sensazione di incomprensione e di straniamento che investe gli abitanti del villaggio rivela quanto essi siano in realtà incapaci di conferire senso alle cose e agli eventi che li raggiungono da lontano. Inoltre, è senz’altro significativo che questi importanti eventi storico-nazionali siano filtrati, in via esclusiva, dal punto di vista del tutto limitato e spesso deformante dei personaggi. Ad esempio, la battaglia di Lissa raggiunge Aci Trezza solo sotto forma di diceria piuttosto confusa: «Il giorno dopo cominciò a correre la voce che nel mare verso Trieste ci era stato un combattimento tra i bastimenti nostri e quelli dei nemici, che nessuno sapeva nemmeno chi fossero, ed era morta molta gente; chi raccontava la cosa in un modo e chi in un altro, a pezzi e bocconi, masticando le parole» (MV, pp. 174-175; cfr. p. 170). E si noti che questo passo è tipicamente ibrido sul piano prospettico, dal momento che il punto di vista della terza persona è intercalato all’uso inclusivo del pronome “noi”. Tutti questi riferimenti più o meno indiretti alla nascita del Paese, inoltre, ben riproducono il senso di incomprensione degli abitanti del villaggio, rivelando l’intento del narratore di eclissarsi nella prospettiva interiore della gente di Aci Trezza. In effetti, se la lotta per il progresso materiale e il surplus economico è presentata come una sorta di peccato originale, è rilevante che perfino l’apparentemente immutabile padron ’Ntoni sia tentato di cedere agli interessi commerciali, come dimostra la decisione d’immettersi nel fatidico affare dei lupini, acquistandoli a credito dall’usuraio Crocifisso, per consentire al figlio Bastianazzo di venderli a una nave attraccata in Sicilia. Chiaramente, la risoluzione di padron ’Ntoni non mira affatto a mettere in discussione l’ordine naturale; essa è semplicemente l’effetto di circostanze economiche esterne – più nel concreto, la necessità di far quadrare i conti dopo la coscrizione militare del giovane ’Ntoni. Al to Qu es PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA contrario, le figure negative del romanzo sono sempre associate all’abuso delle nuove forme di potere statale ai fini del proprio tornaconto personale; si pensi a don Michele, che rappresenta uno degli aspetti più invisi (al popolo) del nuovo Stato, il fisco (le entrate riscosse dalle varie regioni); o, ancora, a don Silvestro, che usa il Diritto a proprio esclusivo vantaggio. Il passaggio dal tempo etnologico a quello storico è incarnato dalla successione generazionale nonno-nipote. Mentre la prima parte del romanzo è perlopiù focalizzata sulla figura di padron ’Ntoni, quella conclusiva si concentra sul dramma individuale del nipote ’Ntoni (gli ultimi cinque capitoli, 11-15). ’Ntoni è in assoluto il personaggio più attratto dalla modernità e dalle sue promesse di benessere materiale – con le quali è entrato in contatto durante il servizio militare in città (MV, p. 100, pp. 242-246). In seguito, si rifiuta di ritornare alla dura vita da pescatore di Aci Trezza: anzi, cerca di trarre profitti dal contrabbando e finisce in prigione. A differenza dei sentimenti familiari di un tempo, il giovane ’Ntoni si fa portavoce del nuovo egotismo tipico dell’incipiente società borghese. Nell’ambito del conflitto simbolico/generazionale tra nonno e nipote, quest’ultimo incarna cioè il punto di rottura dell’eterno ciclo ereditario della continuità e della trasmissione. Rispetto alla rigida, monologica ed epica figura di padron ’Ntoni, il giovane ’Ntoni può essere inquadrato come l’eroe problematico per antonomasia del romanzo moderno, un eroe che mette in discussione il proprio status e che subisce una certa evoluzione40. Si tratta di un personaggio sospeso tra due mondi: dapprima sogna la città, la raggiunge; poi, fa ritorno al villaggio, carico dell’esperienza conoscitiva urbana e con una disapprovazione della vita paesana ancor più rinvigorita. Questo salto nell’ignoto è ben lungi dall’essere rappresentato come una liberazione da vincoli di sorta alcuna; i membri del consorzio familiare lo rimproverano anzi per il suo egotismo e per la sua retorica pseudorivoluzionaria. Tuttavia, da un punto di vista esterno, la denuncia di ’Ntoni circa l’accettazione acritica del principio d’immutabilità appare a 9 o i o 8 gm u iam r ien e a ila t pa r p o k a o to Eb 2 m il.c o ue s Q 40. R. Luperini, «I Malavoglia» e la modernità, cit., p. 337. 59 20 1 60 JOBST WELGE in effetti una critica sociale fondata: «Ma voi altri ve la passate forse meglio di me a lavorare, e ad affannarvi per nulla? […] Sapete per chi lavorate, dal lunedì al sabato, e vi siete ridotto a quel modo che non vi vorrebbero neanche all’ospedale?» (MV, p. 298). Sebbene ’Ntoni divenga il personaggio cruciale del romanzo, è importante sottolineare che la sua attitudine alla rivolta non lo conduce ad alcuna vera alternativa, semmai a una semplice vita di vizi e piaceri, che lo rendono assimilabile a un personaggio marginale come l’ubriacone Rocco Spatu – al quale è dedicato l’explicit dell’opera. Dopo essere stato separato dall’oggetto dei suoi desideri, Santuzza, la perdizione di ’Ntoni è sancita nel momento in cui questi aggredisce con violenza il brigadiere Don Michele (cap. 13), venendo dunque condannato al carcere. E questa non è di certo l’unica tragedia che coinvolge la famiglia: il fratello Luca muore nella battaglia di Lissa, mentre la sorella Lia finisce per prostituirsi. Opponendosi a tutti questi eventi drammatici, il figlio più giovane dei Malavoglia, Alessi, riacquista in ultimo la casa di famiglia e ha così la possibilità di riprendere il ciclo dal principio. Tuttavia, il ripristino del consorzio domestico – tramite l’unione di Alessi e Nunziata – diverge completamente dal modello ancora tradizionale di famiglia presentato all’inizio del romanzo. Difatti, questa giovane coppia, che incarna un nuovo prototipo di famiglia mononucleare, si distingue ora dal vecchio mondo patriarcale già a partire dalle trattative matrimoniali – in precedenza spesso farsesche. Indipendentemente da ciò, il principio di ciclicità è smentito dal fatto che la riacquisizione della casa – una casa che è costata ai Malavoglia tanto lavoro e tanta sofferenza – riveste a questo punto un’importanza relativamente minore. La tendenza diametralmente opposta, ovvero la dispersione familiare, appare in effetti molto più significativa. Il segnale lampante che un’era è ormai giunta al termine è dato dalla morte di padron ’Ntoni. Non è un caso che la sua dipartita sia descritta attraverso la metafora convenzionale dell’ultimo viaggio: «padron ’Ntoni aveva fatto quel viaggio lontano, più lontano di Trieste e d’Alessandria d’Egitto, dal quale non siQ ritorna più» (MV, p. 366). E non è di certo solo questo passaggio a ues con altri momenti che segnano in ordine gli eventi di parconnettersi to E tenza, la dispersione -b dei Malavoglia, infine l’impossibilità del ritorno ook app artie ne a ilari a PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA (MV, p. 346, p. 360), ma è il romanzo nella sua interezza a esprimere la distanza spaziale tramite il mutamento temporale. Significativamente, nel capitolo finale, all’atto di rifiutare l’offerta di Alessi e di pronunciare il suo ultimo addio al mondo di Aci Trezza, il giovane ’Ntoni invoca con nostalgia la cerchia familiare come un tutt’uno con la comunità del paese: No! rispose ’Ntoni. Io devo andarmene. Là c’era il letto della mamma, che lei inzuppava tutto di lagrime quando volevo andarmene. Ti rammenti le belle chiacchierate che si facevano la sera, mentre si salavano le acciughe? e la Nunziata che spiegava gli indovinelli? e la mamma, e la Lia, tutti lì, al chiaro di luna, che si sentiva chiacchierare per tutto il paese, come fossimo tutti una famiglia? Anch’io allora non sapevo nulla, e qui non volevo starci, ma ora che so ogni cosa devo andarmene. (MV, p. 371) 41. Ibid., pp. 327-345. Qu e s to E b o ok appartie n ’Ntoni professa cioè, con enfasi retorica, quella religione della famiglia che lui stesso ha desacralizzato: il suo esilio volontario apre ora la strada a una potenziale rigenerazione. Perfino il linguaggio si tinge di sfumature nostalgiche: il discorso di ’Ntoni è tutto all’imperfetto; ciò conferisce al tempo una connotazione durativa, filtrata dalla reminiscenza mnesica del protagonista. L’intero ultimo capitolo si distingue infatti per un’atmosfera elegiaca che, tramite la rievocazione ossessiva del tempo che fu (l’«allora»), contrappone il momento presente alla memoria del passato; qui, l’imperfetto indica abitudini e tradizioni ricorsive («Allora ognuno si conosceva»), ma anche tutto ciò che «allora» era ancora sconosciuto: «Allora la gente non si sbandava di qua e di là, e non andava a morire all’ospedale» (MV, p. 363). D’altronde, per paradosso, solo dopo aver lasciato il nido familiare per inseguire le chimere della modernità, il giovane ’Ntoni può riscoprire il senso della vita, e lo fa proprio guardandosi indietro, volgendo cioè gli occhi a quel mondo periferico che si era lasciato alle spalle – il suo ragionamento rivela a un tempo l’insorgere di una nuova contraddizione tra pensiero e azione41. Significativamente, con la massima pronunciata da ’Ntoni, 61 e a ilar JOBST WELGE 62 «Ora è tempo d’andarmene» (MV, p. 373), la chiosa del romanzo mostra come la coralità della voce e del pensiero sia stata in ultimo sostituita da un tipo di discorso più individuale. Questa cesura nell’approccio interpretativo del mondo punta nella direzione di un futuro42, sia pure “aperto”, comunque decadente. Quando, infine, una sera, ’Ntoni torna a far visita alla casa di Alessi, è ormai a tal punto cambiato che perfino il cane non lo riconosce (MV, p. 368). Di fronte all’impossibilità del ritorno e al paradosso dell’innocenza perduta, le famose ultime parole di ’Ntoni sono allora dicotomizzate tra la rievocazione durativa dell’imperfetto e il presente dell’hic et nunc, del momento in cui, cioè, egli si lascia consciamente alle spalle “questo mondo” per sempre. Lo sguardo dei Malavoglia è perciò quello retrospettivo tipico della scuola verista: il lettore borghese è posto a confronto diretto con il proprio passato e con l’alterità esotica; così, esperisce e sperimenta una comprensione malinconica, eppure mai idealizzante, della possibile genesi della modernità. ia ne art ie a i lar p ka p o sto E-b o m Qu e 89 g io mu o 4. Federico De Roberto, I Viceré: genealogia e decadenza Analogamente, I Viceré (1894), romanzo di Federico De Roberto, collocano l’aristocrazia siciliana agli antipodi della modernità. Tuttavia, rispetto alla dispersione tragica e fatalistica dei Malavoglia, l’affresco derobertiano del declino, senz’altro meno empatico, è più esplicitamente incardinato sui fattori biologici, storici e politico-sociali. Così scrive De Roberto, in una lettera a un amico, a proposito del piano dell’opera: «il primo titolo era Vecchia razza: ciò ti dimostri l’intenzione ultima che dovrebbe essere il decadimento fisico e morale di una stirpe esausta»43. Il cambiamento del titolo dimostra quanto De Roberto intendesse spostare l’enfasi dal motivo naturalistico dell’ereditarietà a quello 42. Questo implicito moto decadente sembra spingersi in una direzione diametralmente opposta a quella tracciata da Zola, concepita come una genesi graduale della comunità popolare, una comunità che cerca di emergere dalle ceneri del Secondo Impero al tramonto. Cfr. H. Meter, op. cit., p. 56. 43. Federico De Roberto a Ferdinando Di Giorgi, 16 luglio 1891; la lettera è citata da G. Borri, in Come leggere I Viceré di Federico De Roberto, Milano, Mursia, 1995, p. 34. PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA delle dinamiche del potere sociale. Il romanzo costituisce il secondo e più robusto capitolo di una progettata (ma mai conclusa) trilogia tesa a tracciare la storia della famiglia Uzeda lungo l’arco di tre generazioni. I protagonisti, i Viceré del titolo, sono membri dell’antica casata feudale degli Uzeda di Francalanza, di sangue siculo-ispanico, che per secoli ha dominato a Catania. La classe sociale di appartenenza della famiglia, di origine aristocratica, equivale simbolicamente alla funzione della Sicilia come “luogo altro” rispetto alla modernità – e, in quanto tale, è dunque paragonabile all’universo sociale, sia pure del tutto differente, dei Malavoglia. L’arco storico-cronologico dell’opera ricopre l’intervallo che va dal governo borbonico al periodo dello Stato post-unitario, dal 1854 al 1882. Questo intervallo è marcato dall’incipit e dalla scena finale dell’opera. Mentre il primo mette in scena i funerali della vecchia principessa e capofamiglia Teresa, con tutti gli annessi fasti del vecchio regime, l’explicit rappresenta l’elezione al nuovo Parlamento nazionale a Roma del giovane principe Consalvo. Tuttavia, questa parvenza di transizione storica – dalla fine dell’assolutismo monarchico al nuovo sistema parlamentare – cela un più profondo senso di continuità, che mostra la rivoluzione borghese come un vero e proprio fallimento. Con il suo trasgredire a tutto ciò che è “misura” e con la sua tendenza all’eccesso, la famiglia Uzeda si fa paradossalmente simbolo sia del declino sia della persistenza. I tratti comuni dei suoi componenti – l’ambizione e la brama di potere – funzionano proprio come agente di discordia, mettendoli gli uni contro gli altri, costantemente assediati dall’invidia reciproca, dall’avarizia e dalla corruzione. Per la gran parte, questi intrighi familiari prendono avvio dai raggiri di Teresa rispetto alla legge della primogenitura, cioè a partire dalla decisione di lasciare tutte le ricchezze di famiglia al suo preferito, Raimondo, e non al primogenito, Giacomo. L’impulso iniziale verso la decadenza, dunque, è di marca economica, ed è legato all’annullamento dell’istituto del “fedecommesso” (datato 1812, in VR, p. 94; p. 425), per l’appunto una costruzione giuridica volta a garantire l’“eterna” continuità nella trasmissione dei diritti di proprietà familiari sulla base di una legge ereditaria rigorosa- 63 Qu est oE -bo ok ap pa rtie ne a il ari am uo io8 9 n rtie pa ap bo ok JOBST WELGE es to E- mente definita e resistente al tempo44. Tuttavia, di pari passo, i membri della famiglia mostrano capacità di adattamento a questa e a tutte le altre trasformazioni storiche successive, garantendosi ruoli e posizioni di potere sia politico sia economico, consentendo alla continuità genealogica di prevalere sulle cesure della Storia. Ma in cosa consiste, in concreto, l’identità familiare, la particolarità specifica di essere un Uzeda? Chiaramente non si tratta né di religione, né della famiglia intesa come centro delle relazioni affettive (così importanti per l’autocoscienza dei Malavoglia), né tantomeno semplicemente del determinismo meccanico della fêlure, come accade nel ciclo di Zola; si tratta piuttosto di un fattore intrinseco e pseudobiologico, che li rende divisi all’interno – l’uno contro l’altro – convogliandoli verso una caratteristica biforcazione dei tipi: Qu 64 I due fratelli, quantunque avessero la stess’aria di famiglia, non si rassomigliavano neppure fisicamente: Raimondo era più che bello, Giacomo quasi brutto. Nella Galleria dei ritratti si potevano riscontrare i due tipi. Tra i progenitori più lontani c’era quella mescolanza di forza e di grazia che formava la bellezza del contino; a poco a poco, col passare dei secoli, i lineamenti cominciavano ad alterarsi, i volti s’allungavano, i nasi sporgevano, il colorito diveniva più oscuro; un’estrema pinguedine come quella di don Blasco, o un’estrema magrezza come quella di don Eugenio, deturpava i personaggi. (VR, pp. 93-94)45 Raimondo, dunque, rappresenta un’eccezione rispetto al generale declino fisiologico degli Uzeda; in lui si realizza «una specie di reviviscenza delle vecchie cellule del nobile sangue» (VR, p. 94). Molte pagine e una generazione dopo, il caso della straordinariamente bella Teresa conferma questo modello per cui il processo di degenerazione biologica è contraddetto dalla sopravvivenza residuale di un’essenza della “razza” originaria: 44. Sulla critica postrivoluzionaria dell’istituto giuridico cfr. O. Parnes, U. Vedder, S. Willer, Das Konzept der Generation. Eine Wissenschafts-und Kulturgeschichte, Frankfurt am Main, Suhrkamp, 2008, pp. 105-107. 45. F. De Roberto, I Viceré, Torino, Einaudi, 1990 (d’ora in poi VR). ia lar i a 65 In realtà, in riferimento agli Uzeda, il termine “razza” è più utilizzato rispetto a quello di famiglia, fatto che testimonia quanto alla fine del XIX secolo l’idea di famiglia decaduta fosse al centro di diversi discorsi scientifici, di natura sia sociologica sia biologica46. Queste considerazioni pseudo-genetiche, nel solco della teoria della degenerazione, sono evidentemente un’eredità zoliana e del naturalismo francese – più nel dettaglio, delle tesi biologico-ereditarie di Bernard e Taine47. In tal senso, il legame razziale tra gli Uzeda si differenzia in maniera netta dalla continuità familiare dei Malavoglia, all’opposto marcata da connotazioni esclusivamente positive oltre che da una concezione del nucleo identitario in senso più spirituale che biologico – si pensi a quando padron ’Ntoni loda Luca o Mena per essere dei “veri”, o nati in quanto tali, Malavoglia (MV, p. 89, p. 121). La commistione tra la concezione positivista e quella decadente dell’eredità trovò terreno fertile nell’Italia degli anni Novanta, quando, ovvero, dopo un periodo di speculazione febbrile e ottimismo generale, nel corso degli anni Ottanta, la crisi del sistema parlamentare e lo scandalo della Banca di Roma sfociarono in un perturbamento generale, in un pessimismo e in una sfiducia diffusa nelle istituzioni, in accese discussioni sul trasformismo politico, in un crescente disordine sociale, sino all’insorgere dell’emergenza tutta 46. Cfr. U. Link-Heer, Über den Anteil der Fiktionalität an der Psychopathologie des 19. Jahrhunderts, in «Zeitschrift für Literaturwissenschaft und Linguistik», 51/52, 1983, pp. 294-295. 47. F. De Roberto, Romanzi, novelle e saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori, 1984, p. 1725. Cfr. altresì O. Parnes, U. Vedder, S. Willer, op. cit., pp. 174-187. sto e Qu La vecchia razza spagnuola mescolatasi nel corso dei secoli con gli elementi isolani, mezzo greci, mezzo saracini, era venuta a poco a poco perdendo di purezza e di nobiltà corporea: chi avrebbe potuto distinguere, per esempio, don Blasco da un fratacchione uscito da lavoratori della gleba, o donna Ferdinanda da una vecchia tessitrice? Ma come, nella generazione precedente, s’era vista l’eccezione del conte Raimondo, così adesso anche Teresa pareva fosse venuta fuori da una vecchia cellula intatta del puro sangue castigliano. (VR, p. 503) E ne e i art p ap k o -bo PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA JOBST WELGE 66 iene Quest o E-b o o k a ppart siciliana dei Fasci48. Nel romanzo, la tara della degenerazione fisiologica raggiunge la sua acme con la scena bizzarra dell’aborto spontaneo della Marchesa Chiara: il feto nato morto, deforme e mostruoso viene conservato sotto spirito in un barattolo di vetro: «il prodotto più fresco della razza dei Viceré» (VR, p. 286). Nondimeno, per quanto il testo attinga in misura varia al discorso della decadenza biologica, a prevalere è dopotutto l’intento esplorativo del potere aristocratico inteso come strumento di distinzione sociale. Proviamo allora ad analizzare il modo in cui l’albero genealogico degli Uzeda viene esplicitato e rappresentato nell’arco dell’intero racconto. Anzitutto, le nozioni di continuità genealogica ed elitarismo aristocratico, di cui la vecchia e ipereazionaria donna Ferdinanda, avida lettrice del «Teatro genologico di Sicilia» (VR, p. 105), si nutre fino a diventarne «ammalata» (VR, p. 104), sono esibiti di per sé come un rudere del passato. Al contempo, l’ossessione di Ferdinanda testimonia quanto l’abbarbicamento all’albero genealogico sia effettivamente tipico di quei periodi storici contraddistinti dall’esperienza della dissoluzione o della ricostituzione transitoria delle istituzioni sociali. Mentre il Teatro genologico di Sicilia è un vero e proprio documento storico (redatto dallo storico seicentesco Filadelfo Mugnòs), un altro Uzeda, don Eugenio, si fa autore di un suo corrispettivo o sorta di continuazione, intitolato L’araldo sicolo, la cui sottoscrizione è reclamizzata con la garanzia che all’acquirente sarà garantita una stampa del proprio albero genealogico: «Chi procura sei soscrizioni avrà diritto a pubblicare il proprio albero genealogico. Chi ne procura dodici avrà tuttosì lo stemma colorato» (VR, p. 490). Per finanziare e commercializzare il suo libello, Eugenio tormenta ogni singolo membro della famiglia; ma tutti declinano l’invito, considerando l’operazione un’idea ridicola, alla luce soprattutto dei nuovi tempi, borghesi e avversi a ogni gerarchia di classe: «Per esser considerati, bisogna venire dal niente!» (VR, p. 500). Eppure, malgrado le perplessità dei consanguinei, l’opera, in più volumi, vende anche bene, soprattutto perché l’autore banalizza di molto a ilaria muo 48. C. Duggan, op. cit., pp. 318-319; 340-342. io89 g PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA 67 la rappresentazione dei legami interni all’aristocrazia medesima: così Qufacendo, quelle famiglie che recano lo stesso patronimico sono indote te satcredere rientrare nel medesimo albero/ramo genealogico (VR, o In undiulteriore p. 548).E colpo di scena, poi, stimolato dal successo edi-bo toriale, Eugenio decide di apprestare una seconda edizione dell’opeok ra, stavolta inclusiva anche dei «nuovi nobili» (VR, p. 564). La satira è ap p palese: il marketing capitalistico del pedigree aristocratico dimostra ar ien quanto la neo-retorica del tliberalismo e dell’uguaglianza sociale finisca in realtà per favorire l’orgoglio e della discendenza genealogica, sia essa ai lar reale o immaginaria. iam Ferdinanda legge il Se in una delle sequenze iniziali del romanzo, Teatro genologico come se fosse un «romanzo»,uun oio«vangelo», «l’unico pascolo della sua immaginazione», compiaciuta di 8 quella 9 g «ortografia fantastica» (VR, p. 105), nel volume di Eugenio, appena rilegato, ma si parla il.c più per converso della nuova nobiltà come di un ceto dotato di «stemmi om o meno fantastici» (VR, p. 564). Le due scene distano centinaia di pagine l’una dall’altra, eppure entrambe rimarcano la componente immaginifica, fantastica e teatralizzata del compiacimento connesso all’elucubrazione genealogica. L’ironia si estrinseca: i lettori dell’opera di Eugenio sono quegli stessi falsi aristocratici disprezzati da Ferdinanda, a questo punto, a loro volta desiderosi di distinguersi dalla massa. Ora, tenuto conto che le sequenze che descrivono l’approccio commercial-editoriale di Eugenio sono simultanee al celere percorso di formazione politico-letteraria di Consalvo – una formazione intesa come strumento necessario per la promozione della sua carriera diplomatica – si può dedurre che il romanzo enfatizzi di fatto l’uso strumentale della Storia. Tale componente ironica racchiude così non solo una riflessione sulla trasformazione sociale e sulla distinzione, ma sottolinea anche quanto lo studio dell’albero genealogico rappresenti di fatto per il soggetto aristocratico un baluardo immaginifico di difesa rispetto alle forze omogeneizzanti della modernità. In tal senso, l’opera derobertiana non si limita a offrire il ritratto di una vecchia e folle famiglia per il mero ludibrio del lettore. Come ha dimostrato la ricerca archivistica condotta da Giovanni Grana, De Roberto potrebbe infatti aver esperito in prima linea la sensazione di uno stravolgimento sociale; per quanto cresciuto 20 12 28 09 - o Ebo o st ue JOBST WELGE Q 68 nel contesto e nelle condizioni tipiche della bassa borghesia, i suoi antenati risultano essere stati imparentanti con gli Uzeda del romanzo49. 5. Adattamento e pessimismo storico Nonostante l’ambizione corale e policentrica del racconto, è Consalvo a esplicare la funzione di personaggio esemplificativo della coscienza storico-collettiva degli Uzeda. Il suo ritratto psicologico e il suo volontarismo ideologico si pongono oltretutto in netta contraddizione rispetto alla dottrina naturalistica del determinismo oggettivo, specie nell’ultimo quarto dell’opera. Consalvo è un rappresentante paradigmatico di quei membri dell’aristocrazia che, per prevenire e cooptare le tendenze liberalizzatrici del nuovo Stato, anziché opporsi ad esse, apparentemente vi collaborano. L’aristocrazia tenta di arrestare e contrastare il proprio inevitabile declino sociale adattandosi alla nuova emergente alta borghesia, dunque soggiacendo alle condizioni del cosiddetto «nuovo ordine» (VR, p. 459). Questa strategia opportunistica di acclimatamento è diametralmente opposta all’idea di progresso senza limiti, caldamente sostenuta dai liberali del Nord industrializzato. Lo dimostra, ad esempio, l’arguta osservazione del duca d’Oragua – zio “liberale” di Consalvo – che racchiude un’ovvia caricatura della celebre sentenza di Massimo d’Azeglio: e certuni bene informati assicuravano che una volta, nei primi tempi del nuovo governo, egli aveva pronunziato una frase molto significativa, rivelatrice dell’ereditaria cupidigia viceregale, della rapacità degli antichi Uzeda: “Ora che l’Italia è fatta dobbiamo fare i fatti nostri…”. Se non aveva pronunziato le parole, aveva certo messo in atto l’idea: per ciò vantava l’eccellenza del nuovo regime, i benefici effetti del nuovo ordine di cose! (VR, p. 459) Questa osservazione è incanalata nel contesto della più lunga rappresentazione del trasformismo dello zio. Ciò che è particolarmente rilevante, in questo punto specifico, è proprio il modo attraverso cui il 49. G. Grana, I Viceré e la patologia del reale. Discussione e analisi storica delle strutture del romanzo, Milano, Marzorati, 1982, pp. 175-177. io 8 iam uo ea ilar PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA Qu es to E-b oo ka pp art ien narratore trasmette al lettore una sottile denuncia sociopolitica, senza ricorrere direttamente alla voce dell’autore. L’auto-condanna dello zio è filtrata dalla trasposizione dei «bene informati»; a questo punto potremmo chiederci: sono sempre i «bene informati» a pensare che questa frase sia “rivelatoria” di un tratto tipicamente uzediano? E chi ci dice, ammesso che queste parole siano state effettivamente pronunciate dal duca d’Oragua, che esse rispecchiavano il suo comportamento? Questo è solo il primo di una serie di passaggi in cui lo stile radicalmente oggettivo di De Roberto, per lunghe sequenze del romanzo basato unicamente sul dialogo e sul discorso indiretto libero, scivola in maniera sottile verso qualcosa di somigliante a una prospettiva autoriale. L’esempio è da ritenersi paradigmatico nella misura in cui tali interferenze autoriali, quasi impercettibili, riguardano di frequente proprio il riconoscimento di un’identità familiare comune. In una scena in cui il padre del giovane Consalvo rimprovera rabbiosamente il figlio per alcune spese folli, il narratore non riesce a esimersi dall’esprimere un commento sul proprio rapporto con il denaro: «meglio che tutti gli altri Uzeda, egli era il rappresentante degli ingordi Spagnuoli unicamente intenti ad arricchirsi, incapaci di comprendere una potenza, un valore, una virtù più grande di quella dei quattrini» (VR, p. 463). Soprattutto verso la sua conclusione, il romanzo affronta la questione del rapporto tra l’identità personale degli Uzeda e la più ampia dimensione collettiva della Storia e della politica. La Storia stessa sembra ormai a un punto di dissoluzione in cui ogni cambiamento è di fatto solo apparente, come Consalvo spiega a sua zia Fernanda in una delle ultime pagine del libro: La storia è una monotona ripetizione; gli uomini sono stati, sono e saranno sempre gli stessi. Le condizioni esteriori mutano; certo, tra la Sicilia di prima del Sessanta, ancora quasi feudale, e questa d’oggi pare ci sia un abisso; ma la differenza è tutta esteriore. Il primo eletto col suffragio quasi universale non è né un popolano, né un borghese, né un democratico: sono io, perché mi chiamo principe di Francalanza. Il prestigio della nobiltà non è e non può essere spento. Ora che tutti parlano di democrazia, sa qual è il libro più cercato alla biblioteca dell’Università, dove io mi reco qualche volta per i miei studi? L’Araldo sicolo dello zio don Eugenio, felice memoria. (VR, p. 697) 69 70 JOBST WELGE Queste sono fuor di dubbio le frasi del romanzo più spesso citate e di solito deputate a esemplificare la “morale” generale dell’opera nonché la visione del suo autore; è inoltre senz’altro possibile che in questa sede De Roberto affidi a un personaggio il proprio punto di vista. Tuttavia, in una narrazione così rigorosamente oggettiva, un siffatto pronunciamento resta ancora e in prevalenza l’espressione diretta della visione di colui che parla, ovvero Consalvo. Di conseguenza, i presupposti antistoricistici e fatalistici dell’immobilismo storico e della fissità antropologica potrebbero anche rientrare in quella razionalizzazione auto-illusoria tipica della nobiltà circa il tramonto della propria classe, con ricorso, dunque, a una torsione ironica, che sarà poi del resto riccamente sfruttata da Tomasi di Lampedusa nel Gattopardo. Tale visione scettica del progresso storico è intimamente connessa anche alla sede da cui parte l’enunciazione, al luogo da cui si propaga la voce del narratore: mi riferisco alla diversità del Sud, del Mezzogiorno, terra “disallineata” rispetto allo sviluppo economico del Nord, ancorata alla tradizione e alla famiglia come istituzione50. Da una parte, la famiglia è demandata a rappresentare un processo di declino morale e biologico; dall’altra, si presuppone che tutto “resti com’era”, giacché il cambiamento – solo apparente – lascia il posto a nuove ma sostanzialmente identiche formazioni di potere. Consalvo, l’ultimo ramo dell’albero genealogico, sia pure fermamente antidemocratico, partecipa alle elezioni parlamentari come candidato della Sinistra, chiarendo alla zia ipereazionaria che si tratta in realtà di un espediente per garantire e preservare la stessa continuità: «No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa» (VR, p. 700). -bo Quest oE 50. R. Contarino, Il Mezzogiorno e la Sicilia, in A. Asor Rosa (a cura di), Letteratura italiana: storia e geografia, vol. III, L’età contemporanea, Torino, Einaudi, 1989, p. 733: «De Roberto offriva, nel quadro del dominante ottimismo della cultura umbertina, la risposta più lucida dell’“opposizione meridionale” al cammino del Risorgimento e all’ufficialità continentale. Facendo dell’arretratezza della società siciliana una sorta di lungimiranza visuale, De Roberto poneva il suo romanzo fuori dalle coordinate del progresso a tutti i costi e anticipava la linea di tanti letterati siciliani (da Pirandello a Sciascia), che rifiuteranno i conforti del provvidenzialismo storico». PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA Mentre la storia sembra procedere sulla base di una legge meccanicistica del “progresso”, quest’ultimo non è più l’esito di azioni individuali e intenzionali, come avveniva invece – ad esempio – nelle Confessioni di un italiano di Nievo51. Le patologie distintive della famiglia Uzeda caratterizzano l’intero ambiente circostante e incarnano quella tendenza all’individualismo esasperato che fu tipica dell’Italia postunitaria nel suo complesso. In altre parole, la storia degli Uzeda è destinata a riflettere la più ampia storia non solo siciliana, ma altresì dell’intero neonato Stato-nazione italiano. Aderendo in maniera rigorosa alla dottrina naturalista dell’oggettività, De Roberto rifiuta di ordire il racconto, anche solo a sprazzi, sulla prospettiva particolare del singolo individuo; così facendo, lo sguardo del narratore può coincidere, di volta in volta, con quello di ciascun personaggio. Raramente il lettore è posto in condizione d’identificarsi con questo o quell’altro protagonista; inoltre, la continua variabilità caleidoscopica di cui si sostanzia l’opera nel suo insieme fa sì che la narrazione sia radicalmente policentrica. Se il testo è disseminato di eventi storici e allusioni alla realtà contingente, il focus della narrazione è e resta, con poche eccezioni, rigorosamente centrato sulla sfera privata. La reclusione volontaria degli Uzeda nel Palazzo (o nelle altre dimore di famiglia) conferma di fatto il loro sentirsi arroccati in una rete di potere che pone a riparo da qualsiasi forma di evoluzione temporale e spaziale. In tal senso, se intesa come una ripresa postunitaria del genere del romanzo storico, l’opera potrebbe essere interpreta-9 o8 ta come un rovesciamento ironico di quell’ottimismo prevalente inella o u tradizione del romanzo storico italiano, per lo meno nelle m forme e nei modi in cui esso fiorì nel periodo risorgimentale52. aria il A conti fatti, i romanzi di Verga e De Roberto testimoniano non solo a ne la componente fortemente regionale della e letteratura siciliana di fine i rt pa ap k 51. Cfr. H. Meter, op. cit., pp. 107-113 oo e M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito b critico dalle origini al post-moderno, Lecce, Manni, 1999. E 52. Per contro alle precedenti dei Viceré, secondo cui il romanzo sarebbe to interpretazioni s più di tipo sociale, con riferimenti a un ambiente ben specifico e ristretto, Margherita Ganeri, e pone l’accento sulugenere del romanzo storico, rilevando la componente polemica verso lo Q del periodo romantico. Cfr. M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia, cit., storicismo teleologico pp. 65-80, in particolare p. 70. 71 m gm co . l i a JOBST WELGE 72 to ue s Q Ottocento, ma anche quanto uno spazio periferico come quello siciliano si dimostri essere in realtà il centro più vitale – a livello letterario – di tutto il Paese, con una rappresentazione dell’identità locale deputata all’esame critico e all’accompagnamento stesso del processo di unificazione nazionale53. Per quanto la problematizzazione storico-politica sia molto più prominente in De Roberto, anche il romanzo di Verga mostra come l’insularità dello spazio rappresentato miri a disvelare, essendone al contempo l’esito, l’autocoscienza storica della nuova Nazione nata nel solco del Risorgimento, sulle macerie delle speranze di integrazione democratica. Per questo motivo, i due romanzi sono ad oggi ritenuti due modelli fra i più rappresentativi del romanzo italiano di fine secolo. In entrambi i testi, è l’istituzione – decisamente poco borghese – della famiglia a rappresentare un fronte di resistenza contro il processo di modernizzazione associato al Nord, così fungendo da principio di ciclicità temporale. Tuttavia, se la famiglia dei Malavoglia verghiani offre il ritratto dei vinti, degli sconfitti, di un progresso e di una storia ai margini, gli Uzeda di De Roberto resistono al progresso medesimo fingendo di aderirvi. E- k bo o a ap p e tr ie n a ila ria m u 9 oio 8 gm om ail .c 53. Cfr. D. O’Connell, Degenerative Genre: Federico De Roberto and his Sicilian Legacy, in J.R. Dashwood, M. Ganeri (a cura di), The Risorgimento of Federico De Roberto, Oxford, Peter Lang, 2009, pp. 137-163. 2 20 1 PROGRESSO E PESSIMISMO: IL ROMANZO VERISTA 73 Bibliografia Asor Rosa A., (2009), Storia europea della letteratura italiana, Torino, Einaudi, 3 voll. Augieri C.A., (1982), La struttura della parentela come codice narrativo in Vita dei campi, in R. Luperini (a cura di), Verga: l’ideologia, le strutture narrative, il «caso» critico, Lecce, Milella. Baglio S., (1991), I Malavoglia: la «famigliuola» e il paese, in N. Cacciaglia, A. Neiger, R. Pavese (a cura di), Famiglia e società nell’opera di G. Verga, Atti del convegno nazionale, Perugia, 25-26-27 ottobre 1989, Firenze, Leo S. Olschki. Baldi G., (1980), L’artificio della regressione. Tecnica narrativa e ideologia nel Verga verista, Napoli, Liguori. 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Zaccaria (a cura di), Torino, Einaudi. ma il.c o Un romanzo in costruzione: I Viceré e il tema dell’improduttività Rossana Chianura Qu 1. es to Una parte non trascurabile del dibattito critico sul romanzo I Viceré ha sempre, grossomodo, gravitato attorno a tre aspetti: il genere letterario d’appartenenza, il rapporto con il verismo e le tecniche narrative per certi versi eccentriche (dall’estrema impersonalità alla deformazione in senso espressionistico della realtà). Tutti questi aspetti contribuiscono a complicare qualsiasi analisi tenti di inquadrare il testo in una cornice sicura, e sono in parte strettamente legati alle circostanze in cui il romanzo ha visto la luce. Gli anni a cavallo dell’esperienza autoriale di De Roberto sono segnati, infatti, da un lato dalla pervasività del modello melodrammatico proprio dei romanzi d’appendice francesi; dall’altro dalla concezione antirealistica dannunziana1 e dalla frequentazione di teorie irrazionalistiche, come l’ipnotismo e lo spiritismo2. Nel 1894, anno in cui I Viceré viene pubblicato, e per tutti gli anni Novanta, il E- bo ok ap pa rti en e a ila ria m uo io8 9 gm ail .c 1. In un recente contributo Giancarlo Alfano prende in considerazione l’anno 1889 come quello in cui emergono le due “linee” della prosa fin de siècle: è il momento in cui vengono pubblicati, infatti, Mastro-don Gesualdo di Giovanni Verga e Il piacere di D’Annunzio, due romanzi praticamente agli antipodi per scelta del punto di vista e idea di mondo. (cfr. G. Alfano, L’anno 1889, in Idem, F. De Cristofaro (a cura di), Il romanzo in Italia. II. L’Ottocento, Roma, Carocci, 2018, pp. 319-321). 2. Già nel 1881 Antonio Fogazzaro con Malombra associa l’impianto onnisciente della narrazione all’esplorazione degli abissi di una mente morbosa; il romanzo testimonia un «intreccio tra l’eziologia delle patologie nervose e la ricezione della moda spiritista», quest’ultima in quanto parte della reazione idealistica fin de siècle al positivismo. Per un’agile panoramica sull’argomento cfr. il recente U.M. Olivieri, Le culture dell’irrazionalismo, in G. Alfano, F. De Cristofaro (a cura di), op. cit., in particolare pp. 387-389. 23 - 84 09 ROSSANA CHIANURA 23 - 08 76 Qu est o E-b oo ka pp art ien e a il ari am uo io8 9g ma il.c om 20 12 28 09 -12 campo letterario si caratterizza, dunque, per la compresenza di diverse idee di romanzo, la cui inconciliabilità dipende dal rispettivo atteggiamento nei confronti del punto di vista narrativo e della rappresentazione della realtà sociale e psichica dei personaggi. Entrambi gli aspetti possono essere visti come il riflesso di un rapporto ormai mutato tra i destini privati e la Storia, che in Italia prende la forma di una progressiva sfiducia nelle possibilità offerte dall’unificazione nazionale, dello sbiadire del racconto del Risorgimento presso le nuove generazioni e, non meno importante, della repressione delle lotte sociali durante la dura depressione economica (1888-1893). Per quanto riguarda la narrativa, gli ultimi dieci anni dell’Ottocento rappresentano agli occhi di alcuni critici una «lunga zona grigia»3, la cui vischiosità è data dalla sovrapposizione di tradizionalismo e sperimentalismo, sullo sfondo di una generale crisi (o trasformazione) delle applicazioni del positivismo in letteratura4. L’opera di Federico De Roberto fotografa piuttosto da vicino questa fase di metamorfosi della forma romanzo: vent’anni più giovane del suo maestro Giovanni Verga, l’autore dei Viceré è scrittore fin «troppo europeo» e «intriso di succhi apocalittici fin de siècle»5 perché la sua opera venga semplicemente liquidata come una delle prove della disgregazione degli ideali risorgimentali. Allievo di Zola e di Maupassant, De Roberto riesce a conciliare una visione estremamente soggettiva della realtà – la quale gli appare come un caos privo di valori e di tragedia – con la necessità di una rappresentazione comunque obiettiva, «che non si commove e non si appassiona di nulla»6, che con una «tersa 3. G. Petronio, La narrativa in Italia nel secondo Ottocento. Tra romanticismo e decadentismo, in Naturalismo e verismo: generi, poetiche e tecniche, Atti del Congresso Internazionale di Studi, Catania 10-13 febbraio, vol. I, Catania, Fondazione Verga, 1986, p. 86. 4. Ci troviamo, infatti, nel pieno della cosiddetta «seconda» fase di smantellamento del «paradigma ottocentesco», quella che va dal 1850 al 1900, secondo la scansione per ampie stazioni storiche delineata da Guido Mazzoni (Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, p. 307 ss.). 5. G. Maffei, L’amnesia della storia ne «L’Imperio» di Federico De Roberto, in «Sinestesie», IX, 2011, p. 425. 6. L. Capuana, Novelle, in Idem, Libri e teatro, Catania, Giannotta, 1892, p. 149. UN ROMANZO IN COSTRUZIONE lucidità di specchio riflette» il reale meglio dell’«obbiettivo fotografico»7, portando all’estremo un aspetto cruciale della concezione verista: l’idea che «la verità» dei personaggi si risolva «nella loro visualizzazione»8 oggettiva. Con De Roberto si affaccia, forse per la prima volta verso la fine del secolo, il problema della relatività del giudizio soggettivo di fronte agli aspetti contraddittori della realtà «visualizzata»: la verità non è più (solo) quella che emerge dalle condizioni materiali in cui vivono gli uomini, ma è anche – e sicuramente nei Viceré – quella fragile e intermittente della psiche alle prese con il problema del dominio sulla realtà e sugli altri. Venendo al dibattito critico e limitandoci al problema del genere letterario, lo studio di Vittorio Spinazzola9 considera il romanzo di De Roberto come il fondatore di una triade di «romanzi antistorici» che si reggono su un’idea negativa e contestataria della storia risorgimentale: I Viceré testimoniano, in quest’ottica, una sostanziale continuità fra primo e secondo Ottocento nella frequentazione del genere del romanzo storico, che a fine secolo muta, dando nuovi esiti «prevalentemente parodici e polemici»10. Poiché privo di un’intenzione propriamente storiografica, il romanzo derobertiano si mantiene decisamente alla larga da qualsiasi chiarimento di ordine generale a proposito dei grandi eventi storici, che vengono piuttosto inoculati nell’universo finzionale come «tempeste»11 improvvise, rispetto alle quali i personaggi dovranno modificare i loro piani di dominio. Naturalmente risulta significativo che le vicende dei Viceré si sviluppino lungo due decenni densissimi dal punto di vista dell’adeguamento al nuovo assetto politico. A dare conto di questo sono in particolare le zone conclusive delle tre parti in cui è diviso il roman- e a ilari sto E-book appartien Que 7. Ibid., p. 153. 8. C.A. Madrignani, Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Roma, Quodlibet, 2007, p. 64. 9. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Milano, CUEM, 2009. Lo studioso ha inoltre il merito di aver contribuito, assieme a Natale Tedesco, a riaprire il dibattito sul romanzo all’inizio degli anni Sessanta, col saggio Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli, 1961. 10. M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia, Lecce, Manni, 1999, p. 7. 11. V. Spinazzola, op. cit., p. 139. 77 ROSSANA CHIANURA zo, che realizzano, infatti, una sovrapposizione, tramite montaggio, di scene familiari e avvenimenti politici epocali, quali sono le prime elezioni al parlamento del Regno d’Italia (1861), la presa di Roma (1870) e le prime elezioni a suffragio universale maschile (1882). In queste zone del testo convivono due intenzioni praticamente opposte: da un lato, da un punto di vista di pura organizzazione dei contenuti, abbiamo la messa in evidenza di un avvenimento in quanto “finale” di un blocco narrativo più ampio; dall’altro assistiamo, da un punto di vista formale, alla messa in sordina del dato storico stesso, in quanto scisso dalle sue motivazioni causali, tagliuzzato ad hoc e ben posizionato nel montaggio a effetto. La Storia nei Viceré è uno strumento da adoperare a proprio vantaggio o svantaggio, e risulta definitivamente ridotta a puro ingranaggio. Per capire il modo in cui si muove la «macchina»12 di cui questo ingranaggio fa parte può risultare vantaggioso concentrarsi sulle caratteristiche specifiche della vicenda romanzesca, che è fondamentalmente una storia familiare, le cui dinamiche sono tali da attrarre a sé e modificare di conseguenza tutti i motivi a essa potenzialmente estranei. A differenza, infatti, di ciò che accade nei Malavoglia, un romanzo che «non è affatto riducibile alla storia della famiglia»13 Toscano, il contesto familiare degli Uzeda si presenta come l’unico luogo di fondazione dei significati del testo; fabula e intreccio non presentano scarti significativi e organizzano i propri segmenti elaborando incessantemente il problema dell’incomunicabilità, della tradizione, e del «discorso […] quale unico tramite delle relazioni»14 tra personaggi appartenenti allo stesso nucleo familiare. 12. Il termine chiama direttamente in causa una celebre definizione di Giovanni Verga, il quale in una lettera a De Roberto (21 ottobre 1894) definisce I Viceré una «machine poderosa», invitando l’amico a operare dei tagli. Si veda A. Ciavarella (a cura di), Verga, De Roberto, Capuana. Celebrazioni bicentenarie, Biblioteca universitaria, Catania 1755-1955, Catania, Giannotta, 1955, p. 129. 13. R. Luperini, Simbolo e «ricostruzione intellettuale» nei Malavoglia, in Idem, Giovanni Verga, Roma, Carocci, 2019, p. 135. Questo volume raccoglie quasi tutti i saggi dello studioso su Verga, usciti fra il 1976 e il 2018. 14. E. Testa, Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi, 2015, p. 69. Qu est oE -bo ok app art 78 UN ROMANZO IN COSTRUZIONE 79 L’adozione di una categoria allo stesso tempo precisa e ampia, onnicomprensiva15, come quella del romanzo di famiglia viene in soccorso nel momento in cui si debba considerare il romanzo come un unico sistema, formale ed espressivo; in quest’ottica, il tentativo di questo intervento è almeno triplice: indagare in che modo i significati genealogici si propagano nel testo e lo organizzano; far emergere il particolare policentrismo della narrazione derobertiana a livello della struttura e di alcune scene singole; dimostrare in che modo l’ambiguo policentrismo di questo romanzo venga tematizzato sul piano dell’inventio, in particolare sul piano delle azioni dei personaggi, tutte in qualche modo legate al tema dell’improduttività. 2. Una prima osservazione riguarda l’impiego della genealogia, che nel romanzo assume una funzione paradossale: invece di presentarsi come uno schema in grado di evocare e realizzare alcuni significati ad essa sottesi, come quelli di tradizione, trasmissibilità del sapere, meQusembra estoincamerare moria, l’albero genealogico degli Uzeda alcuni di E boo questi nodi tematici al puro scopo di negarli. La linea -delle generazioni k app artien agisce piuttosto come un sistema di controllo del materiale narrativo, e in quanto sfrutta la sequenza ereditaria come una formula narrativa sempre replicabile e di sicura efficacia. Questa sequenza rappresenta l’unica struttura di senso possibile in un romanzo in cui un notevole indebolimento del principio di realtà agisce sui personaggi, sullo stile e sull’idea di mondo a cui quest’ultimo rimanda. L’abbondanza di scene in cui domina «la confusione dei discorsi e dei valori»16 non solo delinea un quadro abbastanza fosco di continua autocontraddizione dei 15. Con questo termine si intende fare riferimento in particolare ad una delle caratteristiche di genere individuate da Marina Polacco, quella del romanzo di famiglia come «forma informe» in grado di «mescolare generi e modalità narrative diverse»; Bildungsroman, romanzo storico, romanzo matrimoniale possono essere visti come diversi modi tutti compresenti e significativi per il loro «implicarsi reciprocamente». (cfr. Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, p. 115). 16. P. Pellini, Naturalismo e verismo, Scandicci, La Nuova Italia, 1998, p. 75. a ila 80 ROSSANA CHIANURA personaggi, ma limita le uniche occasioni veramente comunicative allo scambio utilitaristico di informazioni in vista di una spartizione ereditaria. In assenza di quest’ultima condizione serpeggia piuttosto, all’interno della cerchia familiare, una coesione dispersiva, in cui si impone, tramite la strategia dell’evitamento reciproco, una placida – e temporanea – assenza di scontro. Questi elementi convergono e si organizzano formalmente soprattutto nelle scene che descrivono la famiglia riunita, come la seguente: […] don Blasco continuava a fiottare contro i rivoluzionari e i quarantottisti che minacciavano di alzar la coda. […] Il Priore […] nel gruppo delle tonache nere, dolorava anch’egli, a bassa voce, l’iniquità dei tempi per via della legge piemontese contro le corporazioni religiose; […] la principessa se ne stava in un angolo, un po’ alla larga, per evitar contatti. Donna Ferdinanda, seduta vicino al principe di Roccasciano, parlava con lui d’affari: del raccolto, del prezzo delle derrate, mentre la principessa di Roccasciano raccontava alla baronessa Cùrcuma un suo sogno […] Le ragazze Mortara e Costante, amiche di Lucrezia, parlavano d’abiti a quest’ultima, per divagarla, quantunque ella non desse loro ascolto e rispondesse a sproposito, com’era sua abitudine; ma la cugina Graziella teneva da sola animata la conversazione, rivolgendosi a tutti ed a ciascuno, passando da una sala all’altra, chiacchierando d’abiti, di sarte, della Crimea, del Piemonte, della guerra, del colera. Stanca del viaggio, la contessa Matilde parlava poco, aspettando di ritirarsi nelle sue camere; […]. E il cavaliere don Eugenio giudicava povertà il lusso dei moderni funerali a paragone di quello di un tempo […]17. to es Qu Tutti i membri della famiglia Uzeda sono alle prese con interlocutori ogni volta diversi, esterni alla cerchia familiare e giunti a palazzo principalmente per curiosità (il testamento della principessa Teresa sta per essere letto) o opportunismo; i «discorsi di politica, di moda, di viaggi» (V, p. 451) vengono riportati in modo contrappuntistico con 17. F. De Roberto, I Viceré, in Idem, Romanzi, novelle, saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori, 1984, pp. 449-450, d’ora in poi V seguito dal numero di pagina nel corpo del testo. I corsivi sono miei e evidenziano l’abbondanza di verbi dichiarativi puri o di loro sostituti più dinamici. k oo b E ai 89 gm o i o u ilariam a e artien p p a k E-boo UN ROMANZO IN COSTRUZIONE Ques to l’effetto di un sostanziale pareggiamento valoriale. Dopo aver indugiato brevemente sugli atteggiamenti comunicativi o non comunicativi dei singoli membri, dall’ipertrofia chiacchierona della cugina Graziella, che si rivolge «a tutti ed a ciascuno», alla quasi totale assenza di contatto (la principessa Margherita, Lucrezia, la contessa Matilde), la sequenza termina significativamente su don Eugenio, il cui monologo sulle virtù di un tempo non sembra interessare nessuno dei presenti: tra coloro che parlano, infatti, il cavaliere è l’unico a non avere un interlocutore esplicito. L’intera sequenza, e in particolare quest’ultimo medaglione, finalizza una dinamica costantemente attiva nel testo: l’esasperazione, attraverso alcuni accorgimenti formali, della condizione di isolamento in cui si trovano i personaggi. È proprio nei luoghi che evocano l’appartenenza al clan che il tempo vissuto assieme, sincronicamente, risulta parcellizzato e inconsistente. Il moltiplicarsi dei discorsi, il ritmo con cui il narratore «resocontista»18 si sposta da un angolo all’altro del salotto di rappresentanza per cogliere l’insieme delle pose e degli atteggiamenti, l’abuso che in queste sequenze si fa dei verbi dichiarativi: se nel romanzo di famiglia, in generale, è «la trasmissione della memoria»19 a determinare l’appartenenza di un membro al clan, in questo particolare caso sono l’uso della parola, l’impianto adialettico dei discorsi e l’isolamento degli individui in se stessi a costituire il tratto ereditario primario. Dovendo estendere questo tratto alla storia secolare della famiglia, essa apparirà, nel suo complesso, come un brusio di discorsi vuoti e mal articolati, su cui, di tanto in tanto, si impongono i soli avvenimenti in grado di determinare una convergenza degli interessi: episodi di violenza e, soprattutto, spartizioni patrimoniali. Il nesso morte-eredità non solo dà avvio agli eventi, ma scandisce significativamente l’intera cronaca privata, dunque la narrazione. Si potrebbe dire che al di fuori di questo nesso non c’è racconto. Quest’ultimo, allora, si configura come uno spazio allegorico, continuamente attraversato dal motivo della distruzione e ricostruzione del mondo a seguito di conflitti in cui 18. 19. V. Spinazzola, op. cit., p. 69. M. Polacco, op. cit., p. 120. 81 ROSSANA CHIANURA 82 l’energia vitale dei personaggi si rigenera e si spreca senza fine. Distruzione e ricostruzioni, se trasferiti sul piano formale di organizzazione del testo, danno origine a una struttura segmentale la cui principale caratteristica è la ripetizione variata degli eventi e delle situazioni, e in cui si fa fatica a individuare un principio gerarchico. L’«apparente “pienezza” romanzesca»20 del testo, dunque, si sgonfia proprio a causa della «ridondanza»21 – e minima variazione – delle vicende che la compongono. Per far emergere tali segmenti può tornare utile osservare da vicino l’asse ereditario principale (quello madre-figlio e padre-figlio). Consideriamo, dunque, i personaggi di Teresa Risà, del figlio primogenito di Teresa, Giacomo, e del figlio di questi, Consalvo, e costruiamo uno schema che mostri lo sviluppo delle loro traiettorie in relazione alla struttura del romanzo: Prima parte Seconda parte Terza parte 1855-1861 1861-1870 1870-1882 GIACOMO-FIGLIO GIACOMO-PADRE Azioni demolitrici Romanzo di Teresa 1 2 3 4 5 6 7 Romanzo di Consalvo 8 9 1 2 3 4 5 6 Q boo E o uest 8 9 1 2 3 4 5 6 7 8 9 SECONDO MOVIMENTO PRIMO MOVIMENTO Morte di Teresa 7 cadavere 20. M. Polacco, Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni, D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano: 1881-1923, Bologna, Pendragon, 1999, p. 153. 21. Ibid. In corsivo nel testo. om 201 228 ail.c UN ROMANZO IN COSTRUZIONE Qu est oE -bo ok app arti ene a ila riam uoi o89 gm L’avvio del primo movimento del romanzo coincide con l’esaurimento della storia di Teresa Risà (Romanzo di Teresa), l’anziana principessa madre, del cui decesso si dà notizia nella prima pagina. La morte della principessa Teresa, figlia di un «barone contadino» (V, p. 473) e data in sposa al rampollo di una famiglia nobile in rovina, Consalvo VII Uzeda, chiude simbolicamente un’epoca che aveva assistito da poco all’arricchimento della piccola nobiltà tramite il commercio. Se consideriamo la storia plurisecolare degli Uzeda diventa evidente che le vicende raccontate nel testo sono tutte da inserire in un secondo tempo della cronaca privata, un tempo che si pone abbondantemente al di là di un punto di svolta decisivo, anche storicamente: la borghesizzazione della nobiltà e l’immissione di nuovi patrimoni nei forzieri dell’aristocrazia in crisi, che non sono più fenomeni nuovi e non rappresentano più un momento di rottura nell’economia complessiva della cronologia familiare. La traiettoria esistenziale di Teresa rappresenta, allora, il collante tra vecchio feudalesimo e modernità, ed è per questo il centro virtuale della storia familiare. I Viceré, però, non racconta queste vicende, che rimangono pertanto escluse dall’orizzonte del testo e si trovano tutte alle spalle dei personaggi; lungo la sua prima metà il romanzo non fa che svolgere, dilatandolo, l’epilogo della storia di Teresa, dal suo decesso alla contemplazione del cadavere da parte della famiglia il giorno dei defunti: La vigilia dei Defunti, tutti gli anni, la famiglia recavasi nelle catacombe dei Cappuccini, a visitare gli avanzi della principessa Teresa […] La bambina tremava da capo a piedi […] la nonna, tutta nera in viso, nella bara di vetro, vestita da monaca, con la testa sopra una tegola e le mani aggrappate disperatamente a un crocefisso d’avorio!… (V, pp. 804-805) Il corpo imbalsamato della principessa defunta non viene mai mostrato prima del capitolo quinto della seconda parte. La scena è descritta, quasi interamente, dal punto di vista della nipote Teresina che, turbata alla vista della nonna morta, ci regala un’ultima, calzante descrizione del carattere della defunta: il suo aggrapparsi «disperatamente» al prezioso crocefisso, quasi fosse ancora viva e senziente, rimanda 83 ROSSANA CHIANURA 84 Q ad un attaccamento alla «roba» patologico, che sfida i limiti naturali dell’esistenza e divora, ugualmente, i vivi e i morti. In quanto documento che «stabilisce […] la sopravvivenza d’un se stesso identificato coi propri beni materiali»22, il testamento della principessa madre è concepito come un surrogato della sua personalità: l’ossessione per il controllo delle vite degli altri e l’accentramento delle decisioni che contano in una sola persona sono aspetti che promanano dalle disposizioni ereditarie, ne costituiscono, anzi, la sostanza vera e propria. Lungo tutto il primo movimento (dal primo capitolo della prima parte al quinto capitolo della seconda parte), il figlio primogenito di Teresa, Giacomo, non farà altro che accentrare su di sé le decisioni che riguardano il patrimonio, defraudando i parenti dei rispettivi lasciti e manipolando a proprio vantaggio le ultime volontà della genitrice; queste, anzi, rimangono di fatto lettera morta, vengono corrose dall’interno e rese improduttive. Che il quinto capitolo determini, in un testo «decentralizzato»23 come quello dei Viceré, un momento di svolta, o di travaso, per le energie compositive del romanzo è dimostrato anche dal fatto che, una volta ultimato – anche simbolicamente, con l’ostensione del corpo della principessa – il processo di annullamento delle sue volontà, vengono poste immediatamente le basi per un nuovo scontro generazionale, che avrà lo stesso esito del primo. Nel sesto capitolo immediatamente successivo, infatti, il figlio primogenito di Giacomo, Consalvo, viene finalmente liberato dal convento dei benedettini e ricondotto in famiglia. Qui lo vediamo per la prima volta «a cassetta», mentre brandisce «trionfalmente la frusta» (V, p. 816) e «lasciata finalmente la tonaca per gli abiti di tutti gli altri cristiani, […] se ne andava […] a sterminar conigli, lepri, pernici ed anche passeri, se non trovava altro; poi faceva attaccare ogni giorno, per imparare a guidare, e il suo calessino divenne in breve il terrore di chi girava per le vie di campagna […]» (V, p. 817). ues to E- p b o o ka e par tien 9 a i l a riam u o io8 gm a i l.co m 2 012 22. F.I. Caldarone, Federico De Roberto continuatore dell’opera verghiana: il tema del «testamento», in «Italica», 64, 2, Summer 1987, p. 266. 23. M. Ganeri, op. cit., p. 76. UN ROMANZO IN COSTRUZIONE 85 Da figlio che vuole rifarsi dell’oppressione materna, Giacomo si trasforma, nel giro di poche pagine, in padre esasperato: la “scarcerazione” di Consalvo coincide con il suo ingresso ufficiale nei ranghi della famiglia; e ciò vuol dire, secondo la logica uzediana dell’appartenenza al clan, ereditare una facoltà di potenza illimitata (rappresentata, qui come in altre scene della stessa zona del romanzo, dal principino sempre “alla guida” del calesse o a capo di altre attività, come la caccia) e una facoltà di distruzione che si esercita col terrore sul prossimo. All’altezza di questo capitolo della seconda parte ha inizio quel Romanzo di Consalvo, il cui tratto conclusivo si trova al di là del testo, nel romanzo incompiuto L’Imperio24. Nel secondo movimento della storia dei Viceré vediamo susseguirsi l’esclusione di Consalvo dall’eredità paterna – per il rifiuto di contrarre matrimonio – e l’annullamento di questa volontà di esclusione: la sorella minore, Teresa, unica legataria delle fortune accumulate dal padre, deciderà, con gesto magnanimo, di includere di nuovo il fratello nella spartizione. Ancora una volta, la nuova generazione demolisce il disegno dettato dalle precedenti: sono quelle azioni demolitrici che accompagnano e caratterizzano la cronologia del romanzo, che si presenta come un mero e inoperoso andare avanti in cui il rapporto dei personaggi col passato è concepito solo in termini di distruzione. m a i l . co m 89 g io mu o ia e a r t ien a i l ar pp o ok a oE -b 3. st L’incipit del sesto capitolo della seconda parte realizza sul piano formale ciò che l’uscita dal convento del principino Consalvo realizza, simultaneamente e su un piano prettamente contenutistico, di avanzamento della trama familiare. Il sesto capitolo, infatti, si apre con una Qu e 24. Le vicende di alcuni componenti della famiglia Uzeda, infatti, sono al centro di altri due romanzi: L’Illusione (1891), uscito prima de I Viceré, in cui si racconta la storia di una nipote di Giacomo, Teresina, adulta e sognatrice destinata al disincanto; e L’Imperio (1929), uscito postumo e incompiuto, in cui seguiamo la carriera politica romana di Consalvo, oltre a quella dell’idealista Federico Ranaldi. Insieme i tre volumi costituiscono il “ciclo degli Uzeda”, oltre a imperniarsi, in modalità molto diverse, sul tema della Bildung, impossibile per i personaggi de I Viceré o condannata alla disillusione. 22 20 1 ROSSANA CHIANURA 86 descrizione d’ambiente che ci porta nel pieno di una nuova epidemia di colera, la terza – e la più feroce – del romanzo: Per la via polverosa, sotto il cielo di fuoco, un’interminabile fila di carri colmi di masserizie: stridevano le ruote, tintinnavano i sonagli, e i carrettieri seduti sulle stanghe o appollaiati in cima al carico, voltavano tratto tratto il capo, se uno scalpitar più frequente e un più vivace scampanellìo di sonagliere annunziava il passaggio di qualche carrozza. Allora la fila dei carri serravasi sulla destra della via, e il legno passava, tra una nugola di polvere e lo schioccar delle fruste, mentre le facce spaventate di fuggenti mostravansi un istante agli sportelli. (V, p. 813) Prima ancora di analizzare questo passo per ciò che rappresenta, ci si dovrà soffermare innanzitutto sugli elementi di stile. Emerge innanzitutto l’assenza del verbo nella prima frase, seguita dall’insistenza sugli aspetti sonori («stridevano», «tintinnavano», «scampanellìo di sonagliere,» «schioccar delle fruste») e di descrizione della lenta e muta gestualità dei presenti (i carrettieri «appollaiati» che voltano «tratto tratto il capo», «le facce spaventate di fuggenti» che appaiono per pochi istanti). Tutti questi elementi, e in particolare il lungo momento descrittivo in cui sono inseriti, sono insoliti nella prosa derobertiana: I Viceré, infatti, si contraddistinguono per la quasi totale assenza di descrizioni, e in particolare di descrizioni d’ambiente; non solo: anche la stilizzazione della scrittura – che qui e nel resto della scena è particolarmente densa – è qualcosa che si verifica molto raramente, poiché il narratore aderisce completamente al modo di pensare dei personaggi, e a questa adesione spesso mescola un giudizio che significa disprezzo e assenza di partecipazione. Queste righe rappresentano la fuga degli abitanti da Catania, una città in cui il colera fa «trecento morti il giorno», dove persino la legge è sospesa poiché non esiste «più consorzio civile, nessuna autorità, né deputati, né consiglieri, né niente» (V, p. 833), ma in cui rimangono ben saldi i diritti dei potenti, le cui carrozze “hanno la precedenza” sui carri dei contadini. L’evacuazione della città reinterpreta sul piano del contenuto ciò che sta accadendo al romanzo proprio a partire da queste Qu est o E-b UN ROMANZO IN COSTRUZIONE pagine, sarebbe a dire la sparizione dal testo di alcuni personaggi, che per morte naturale oppure allontanamento fisico da casa Uzeda danno avvio ad un meccanismo di svuotamento della scena narrativa25. Questa strategia di liberazione del testo dai rami secchi della trama (secchi perché già ampiamente sfruttati o ininfluenti per il secondo movimento che si sta per aprire) prende le fattezze di una strage collettiva: i catanesi – come i personaggi – diventano «cadaveri insepolti, cotti dal torrido sole estivo», che dopo essere caduti «lungo gli stradali» infestano l’aria coi loro «pestiferi miasmi» (V, p. 833). L’epidemia mette in scena una vera e propria apocalisse; la sua collocazione al centro esatto del romanzo, però, getta un’ombra di provvisorietà sui suoi effetti. Innanzitutto, l’epidemia è un evento che attraversa periodicamente almeno la prima metà del testo, non è un unicum; inoltre, il mondo, benché impestato, continua a marciare allo stesso modo e a riproporre invariati i rapporti di forza tra le classi; infine, ed è l’aspetto più importante, dopo di essa il lettore assiste alla ripetizione con variazione della stessa vicenda che si è svolta lungo il primo movimento, ossia lo scontro tra l’erede e il capocasata della famiglia. Dunque, l’epidemia come momento di sospensione e sanificazione della trama è paragonabile a una fine del mondo transitoria e non ad un crollo definitivo, poiché non determina una trasformazione radicale dei significati alla base del vissuto degli uomini, che anzi si rapportano all’esistente come a qualcosa che per loro era ed è eternamente familiare. Il colera assume il ruolo di un finto fulcro della narrazione: la sua sola Q forza ue sta nel posto che occupa, il centro matematico del testo, e nel determinare sto un avvicendamento inerziale di nuovi personaggi. Se riprendiamo in considerazione gli aspetti che abbiamo attribuito alla genealogia uzediana – distruzione e ricostruzione, ripetizione variata delle vicende – ne consegue che in questo romanzo di famiglia la 25. Secondo Spinazzola, infatti, la seconda metà del testo, e in particolare la Parte terza, si caratterizzano per un «gioco al massacro» con «declinazione catastrofica», che prevede l’espulsione dal testo e la mancata sostituzione dei personaggi. Questa dinamica consente una «graduale semplificazione dell’intreccio», che negli ultimi capitoli converge, disegnando una «struttura a estuario», sui fratelli della terza generazione, Consalvo e Teresina. (cfr. V. Spinazzola, op. cit., pp. 141-142). 87 E- bo ok ap p 88 ROSSANA CHIANURA narrazione è sì policentrica, cioè modulata sulle vicende che riguardano un soggetto collettivo, ma in un senso piuttosto ambiguo. I molteplici fuochi della narrazione, dai due grandi movimenti alle micro-storie che questi contengono, non fanno che riproporre sempre la stessa situazione narrativa, quella del conflitto tra due o più soggetti determinato dalla volontà di autoaffermazione. Le numerose occasioni di scontro tra i personaggi vengono protratte, portate all’esasperazione, e tuttavia e artien p non oltrepassano mai il punto di non ritorno, oltre il quale le uniche p a okrapporti, della bodei -fine soluzioni disponibili sono quelle definitive,to della E diseredazione, dell’omicidio. Il policentrismo Ques del testo, allora, assume i contorni di un circuito di svolte narrative a bassa intensità, e l’unica legge che ne permette il funzionamento è che i personaggi continuino a incontrarsi e scontrarsi all’infinito, alimentando il circuito. Non solo: alla luce dell’esclusione del Romanzo di Teresa dal testo, che equivale all’esclusione del momento di massima criticità e decadenza mai attraversato dal tessuto familiare, il tetro policentrismo dei Viceré ha l’aria di mimare, nella forma, il destino di riattraversamento periodico di un momento traumatico. Il romanzo, cioè, moltiplicando all’infinito le occasioni di conflitto tra i familiari, ricrea puntualmente quelle condizioni critiche che un tempo hanno reso urgente il salvataggio da parte di un agente esterno: sperpero di denaro, litigi, fraintendimenti, dispetti, che si traducono in una cattiva custodia dei beni di famiglia e in una nuova necessità di intervento. La specificità compositiva del romanzo sta dunque in questi due elementi, nell’assenza di un punto di svolta significativo, attorno al quale si moltiplicano, quasi per gemmazione, centri narrativi tutti uguali e dunque inessenziali. Tale specificità compositiva, la sua logica, non intacca solo la struttura complessiva del romanzo, ma agisce in profondità, e ci permette di leggere sotto una lente diversa due scene in cui protagonista è una collettività senza volto. Il funerale della principessa Teresa e il discorso elettorale di Consalvo, rispettivamente l’incipit e l’explicit del romanzo, fanno da cornice al mondo vicereale e inscenano, estremizzandolo, il problema dell’inafferrabilità di un centro propulsore di senso; queste due scene possono essere viste come due grandi allegorie metatestuali, in cui la disposizione degli oggetti nello spazio, i movi- a ila UN ROMANZO IN COSTRUZIONE 89 menti dei personaggi – sempre antitetici e da «bolgia» (V, p. 441) – e le relazioni tra questi rimandano a qualcos’altro, cioè alle modalità di composizione del romanzo stesso che, come abbiamo detto, si frantuma in una serie di conflitti periferici organizzati attorno ad un centro debole. In queste scene, l’effetto ricercato è sempre quello di una schiacciante crisi della partecipazione dei presenti al momento rappresentato, con un significativo «slittamento dell’attenzione»26 dal centro ai margini dell’esperienza che si sta tentando di comunicare. Quel «gioco di estraneità reciproche e incrociate»27 tipicamente naturalista, che Verga ad esempio imprime agli ultimi momenti di vita di Gesualdo, nell’ultimo capitolo del romanzo, in De Roberto è una modalità costantemente attiva, come abbiamo visto nel brano sulla famiglia riunita; tuttavia raggiunge dei picchi con l’aumentare del numero di personaggi coinvolti, come durante le sontuose esequie della principessa all’inizio del romanzo, in cui la messa in sordina del momento solenne degenera in un grottesco corpo a corpo: Ma la gente incalzava alle spalle e i discorsi s’interrompevano, i primi arrivati dovevano cedere il posto, se ne andavano sotto il palco dell’orchestra eretto addosso all’organo, con quattro ordini di panche e manichi dei contrabbassi che spuntavano dal più alto, ma ancora vuoto; o giravano dalla parte opposta, verso la cappella della Beata Uzeda […]; e si fermavano, una volta fuor della ressa, a guardarne l’altare scavato dove si vedeva, attraverso un vetro, la cassa antica rivestita di cuoio […]; poi, tentavano di tornare verso il centro della chiesa per leggere le iscrizioni attaccate intorno agli altari, ma la folla era adesso compatta come un muro. (V, p. 435) 26. P. Pellini, L’ultima parola al becchino. Sulla rappresentazione della morte nella narrativa naturalista e verista, in Idem, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier, 2004, p. 49. In questo saggio Pellini si riferisce in particolare al topos naturalista della messa a distanza della morte, una strategia motivata, più in generale, dall’istanza antiretorica che attraversa questa categoria storico-letteraria e che colpisce soprattutto gli stereotipi del romanticismo. 27. R. Luperini, L’allegoria di Gesualdo, in Idem, Giovanni Verga, cit., p. 180. Qu 20 12 28 09 -12 23 -08 09 -84 ROSSANA CHIANURA ap pa rtie ne ai lar iam uo io8 9g ma il.c om Ben lontana dall’immagine di una comunità umana in raccoglimento, questa scena rappresenta in realtà un’efficace riformulazione della serie di conflitti a bassa intensità che popolano il romanzo. I catanesi, come i personaggi, si abbandonano a una serie di movimenti contrapposti per guadagnare una maggiore visibilità sul catafalco vuoto della principessa, mentre si alza «un vasto sussurro» (V. p. 437) di chiacchiere e pettegolezzi, tra chi cerca di calcolare, a occhio, il costo delle centinaia di ceri accesi per la funzione e chi, per ingannare il tempo, dice «vita, morte e miracoli della principessa» (V, p. 436). Gli spostamenti febbrili dei presenti attorno ad un centro vuoto mimano una lotta spregiudicata e senza senso per un primato effimero, lo stesso per cui in fondo combattono gli appartenenti al clan, visto che ogni volta la loro azione è demolita e relativizzata dalle generazioni successive. La figura dello scontro pretestuoso diventa allora la cifra distintiva di tutto il mondo rappresentato. Allo stesso modo, durante il discorso elettorale di Consalvo nel finale del romanzo, il rapporto visivo tra pubblico e centro catalizzatore dell’attenzione risulta indebolito, scoraggiato, disturbato, e suggerisce un rapporto diretto tra un centro il cui primato è solo posticcio (l’assenza del corpo della principessa, il catafalco di marmo «finto», «le urne di cartone», le «lacrime di carta argentate», ma anche il discorso «da istrione» di Consalvo, che commuove e fa ridere la platea «per vendere la sua pomata»; V, p. 1091) e l’ottusa tumultuosità della folla accorsa, la cui indole si fa prima capricciosa, poi indifferente e infine solo violenta: es to E- bo ok […] chiacchiere eleganti, profezie sull’esito delle elezioni, battibecchi politici, ma specialmente esclamazioni d’impazienza, tentativi d’applausi di chiamata, come al teatro, che facevano voltare il capo a tutti e cavare gli orologi. (V, p. 1079) […] A un tratto alcune seggiole rovesciate dalla gente che scappava fecero un gran fracasso. Tutti si voltarono, temendo un incidente spiacevole, una rissa; l’oratore fu costretto a tacere un momento. Riprendendo a parlare, la voce gli uscì rauca e fioca dalla strozza; non ne poteva più, ma era alla perorazione. (V, p. 1090) Qu 90 UN ROMANZO IN COSTRUZIONE 4. Qu e sto La ricorsività delle vicende, affiancata alla circolarità di una struttura che si apre e si chiude sul motivo dell’inavvicinabilità di un centro di senso, è una strategia testuale che portata a un livello tematico evoca lo spettro della parola e dell’azione prive di senso. In questi termini vorrei fare riferimento, per I Viceré, alla categoria dell’improduttività: lo scorrere di vicende ricorsive lungo il rassicurante asso cronologico implica che il tempo così rappresentato, proprio in virtù della stereotipia che lo caratterizza, risulti come continua negazione del tempo concretamente vissuto. L’azione che al livello dei personaggi simula con più efficacia il meccanismo di negazione del tempo è quella del gioco, attività gratuita e improduttiva per eccellenza, intrinsecamente rituale. Essa si esercita, nel romanzo, in almeno due ambiti: in quello della gestione collettiva degli edifici familiari, che subiscono continue distruzioni e riprogettazioni, e in quello del rapporto tra i singoli personaggi e alcuni aspetti dell’esperienza. Per quanto riguarda il primo aspetto, la modifica degli spazi abitativi si presenta sempre come un’attività controproducente, che invece di apportare migliorie agli edifici, tende piuttosto ad assecondare le manie dei personaggi: come fossero regni infinitamente estesi e sempre disponibili ai propri sovrani assoluti, i palazzi di famiglia subiscono l’azione dei capicasata, e di questi riflettono l’insopprimibile desiderio di cancellare, ogni volta, qualsiasi traccia delle modifiche fatte dalle generazioni precedenti. Col tempo tutti gli edifici di famiglia finiscono per assomigliare a mastodontiche strutture mutanti e inutilizzabili, costituite da «parecchie fette di fabbriche accozzate a casaccio», in cui non ci sono «due finestre dello stesso disegno né due facciate dello stesso colore» (V, p. 559). L’idea del mondo come stanza dei balocchi, in cui si può eternamente fare e disfare la realtà, combinando le diverse componenti che questa mette a disposizione per trarne una soddisfazione passeggera, è un’idea che attraversa tutto il testo, dalla rappresentazione della politica a quella della finanza e del rapporto col denaro, dalla cultura alla rappresentazione della guerra. La discesa in politica del duca d’Oragua è quella di un uomo che è convinto di «[aggiustare] l’Europa in quattro e quattr’otto, le finanze 91 E -bo o k ap p art ien e a ia ila r io mu o 89 g m ail .c om 1 20 0 22 8 2 9-1 2 3 0 8 4 09 -8 ROSSANA CHIANURA 92 italiane in men che non si dice» (V, p. 797), come fossero giocattoli difettosi a cui basta qualche giro di chiave; sia il gioco in borsa sia quello della speculazione sulle rendite costituiscono, inoltre, una vera e propria sottotrama della seconda parte del romanzo e si presentano come occasioni di riscatto per chi li sa sfruttare, come ad esempio succede per quei membri della famiglia che sono stati tassativamente esclusi dalla fetta di eredità maggiore, per via della legge del maggiorascato. Da questo punto di vista, politica e denaro si possono vedere come rosei – e unici – passatempi, destinati, tuttavia, a determinare una definitiva mutazione nella gestione economica delle fortune di famiglia. Pensiamo a don Blasco: da frate frustrato privo di vocazione, egli si trasforma in sofisticato amministratore delle rendite di famiglia, e poi in capitalista senza scrupoli. Il gioco d’azzardo, invece, è praticato dal fratello minore di Giacomo, Raimondo, vanesio e donnaiolo, e da un monaco benedettino, Padre Agatino Renda, che passa tutte le sue serate al tavolo da gioco della vedova Roccasciano. Se il duca e don Blasco si calano da dilettanti nel gioco del denaro e partecipano per vincere, altri membri cadetti della famiglia non riescono a trarre gli stessi vantaggi, e anzi esprimono al massimo grado quel gusto per il dilettantismo e per il gioco fine a se stesso che si trasforma in pratica del nonsense. Su un altro versante, infatti, don Eugenio gioca col sapere: il cavaliere intraprenderà diverse carriere, tutte fallimentari e particolarmente funamboliche. Da maestro precettore di Consalvo a ideatore di assurde riforme grammaticali, da fondatore dell’«Academia dei quattro Poeti» a commerciante di zolfo in erba: don Eugenio finirà i suoi giorni completamente pazzo, elemosinando finanziamenti per un’ultima impresa, questa volta sia culturale sia economica. La scrittura dell’«Araldo Sicolo», un’opera il cui intento è assegnare alle nuove famiglie borghesi titoli nobiliari inventati di sana pianta, incarna al massimo l’idea che dal gioco con le parole si possa passare molto facilmente alla reinvenzione del vissuto collettivo. Figlia di una frustrazione altrettanto priva di sbocco e lontana dal riscatto è anche la storia del nipote di don Eugenio, Ferdinando, uno scapolo eremita che rifiuta quasi del tutto il contatto con i membri della famiglia, e si dedica, nel suo podere delle Ghiande, a «esperimenti agricoli e meccanici» (V, m a il.c o 89 u oi o ri am e ne p ar ti b o o k o Q u es t E- ap a ila gm 2 -1 2 9 28 0 2 20 1 8 30 ilari book app artiene a UN ROMANZO IN COSTRUZIONE Questo E - p. 796). Già da bambino vediamo Ferdinando «sfasciar scatole di legno o di cartone per farne teatrini o altarini o casucce» (V, p. 488); egli non si è mai liberato delle fantasie dell’infanzia, che anzi monopolizzano i suoi ragionamenti, soprattutto durante la malattia, che egli attribuisce a «cause fantastiche», cioè «alla poca cottura del pane, allo spirare dello scirocco, al fresco della sera» (V, p. 878): Per lunghe e lunghe giornate non diceva una parola, non vedeva anima viva: chiuso nella sua camera, buttato sul letto, se ne stava immobile a seguire il volo delle mosche […] egli minacciò di chiudersi in camera e di non ricevere più nessuno. Ma il suo polso scottava dalla febbre. Per vincere quell’ostinazione, dovettero ricorrere a un artifizio, come con un fanciullo o con un pazzo: finsero che un ingegnere dovesse rilevar la pianta della casa e introdussero così un dottore in camera sua. (V, p. 878) Il suo ultimo passatempo di «fanciullo» è il gioco della guerra: nei giorni precedenti la sua morte, infatti, si farà portare «dozzine e dozzine di scatolini di spilloni e risme di carta e pacchi di matite» (V, p. 883) per ricostruire, sulla carta geografica, i movimenti delle truppe francesi e prussiane. Dai «teatrini» dell’infanzia ai «teatri della guerra» (V, p. 881, in corsivo nel testo): nella parabola di Ferdinando detto – dai suoi stessi familiari – “il Babbeo”, si congiungono progettazione e insensatezza, l’azione che cade nel vuoto e le scale che «non porta[va]no a nessuna parte» (V, p. 501) del palazzo cittadino degli Uzeda. 93 ROSSANA CHIANURA 94 Bibliografia Alfano G., (2019), L’anno 1889, in G. Alfano, F. De Cristofaro (a cura di), Il romanzo in Italia, vol. II, L’Ottocento, Roma, Carocci. Caldarone F.I., (1987), Federico De Roberto continuatore dell’opera verghiana: il tema del «testamento», in «Italica», 64, 2. Capuana L., (1892), Novelle, in L. Capuana, Libri e teatro, Catania, Giannotta. Ciavarella A. (a cura di), (1955), Verga, De Roberto, Capuana. Celebrazioni bicentenarie, Biblioteca universitaria, Catania 1755-1955, Catania, Giannotta. De Roberto F., (1984), I Viceré, in F. De Roberto, Romanzi, novelle, saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori. Ganeri M., (1999), Il romanzo storico in Italia, Lecce, Manni. Luperini R., (2019), Simbolo e «ricostruzione intellettuale» nei Malavoglia, in R. Luperini, Giovanni Verga, Roma, Carocci. Luperini R., (2019), L’allegoria di Gesualdo, in R. Luperini, Giovanni Verga, cit. Madrignani C.A., (2007), Effetto Sicilia. Genesi del romanzo moderno, Roma, Quodlibet. Qu Maffei G., (2011), L’amnesia della storia ne «L’Imperio» di Federico De Roberto, in «Sinestesie», IX. Mazzoni G., (2011), Teoria del romanzo, Bologna, Il Mulino. Olivieri U.M., (2019), Le culture dell’irrazionalismo, in G. Alfano, F. De Cristofaro (a cura di), Il romanzo in Italia, vol. II, L’Ottocento, Roma, Carocci. Pellini P., (1998), Naturalismo e verismo, Scandicci, La Nuova Italia. Pellini P., (2004), L’ultima parola al becchino. Sulla rappresentazione della morte nella narrativa naturalista e verista, in P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier. Polacco M., (1999), Il romanzo come allegoria del male: I Viceré, in F. Bertoni, D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano: 1881-1923, Bologna, Pendragon. Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13. Petronio G., (1986), La narrativa in Italia nel secondo Ottocento. Tra romanticismo e decadentismo, in Naturalismo e verismo: generi, poetiche e tecniche, Atti del es to E- bo 309122 228 UN ROMANZO IN COSTRUZIONE om Spinazzola V., (1961), Federico De Roberto e il verismo, Milano, Feltrinelli. 201 Congresso Internazionale di Studi, Catania 10-13 febbraio, vol. I, Catania, Fondazione Verga. ail.c Spinazzola V., (2009), Il romanzo antistorico, Milano, CUEM. Que sto E -bo ok a ppa rtien ea ilari amu oio8 9 gm Testa E., (2015), Eroi e figuranti. Il personaggio nel romanzo, Torino, Einaudi. 95 28 o 9 io8 u iam ne p ie art o p ka e Qu sto o E-b lar i a g m co . l i ma 12 20 «Nell’ombra dove seggono le madri». Una lettura dei Divoratori di Annie Vivanti Chiara Tognarelli Questo E-book appartiene a il Il panorama critico internazionale si è arricchito, in anni recenti, di studi dedicati alle forme narrative che tematizzano la famiglia; una particolare attenzione è stata riservata ai romanzi moderni e contemporanei incentrati su saghe familiari. Questi ultimi sono stati oggetto di analisi diverse per prospettiva e metodo, alcune di taglio storiografico, altre di caratura teorica: a letture approfondite di singole opere si sono affiancati studi catalogatori, indagini comparatistiche e saggi tassonomici volti, in ultima istanza, a conferire al “romanzo familiare” lo status di genere letterario – normato da leggi sue proprie e contraddistinto da costanti strutturali e topoi – e a darne una definizione esaustiva, preludio a una sistematica mappatura testuale in chiave genealogica1. In questo quadro, tentare una lettura dei Divoratori di Annie Vivanti può avere una doppia funzione: può offrire un’interpretazione globale dell’opera ricorrendo allo strumentario messo a punto da questa nuova ed eterogenea messe di studi e, specularmente, può invitare a riflettere 1. Pionieristico il lavoro di Y.-L. Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992. Ad alto tasso teorico i contributi di Polacco (mi limito, qui, a ricordare M. Polacco, Romanzi di famiglia, per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 95-125), J. Welge, Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern Novel, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015 e A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 70/71, 2016, pp. 24-66. Ben rendono la complessità e la varietà della materia S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640 e le miscellanee I. De Seta (a cura di), Armonia e conflitti. Dinamiche familiari nella narrativa italiana moderna e contemporanea, Bruxelles, Peter Lang, 2014 e E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017. 98 CHIARA TOGNARELLI sull’utilità ermeneutica che il romanzo familiare, inteso come categoria critica e storiografica, rivela alla prova pratica. Il caso dei Divoratori è oltretutto singolare. Le caratteristiche macroscopiche del testo – per gli aspetti formali, la dimensione corale e l’architettura diegetica, che segue e riproduce il succedersi di più generazioni; per gli aspetti contenutistici, la centralità dell’identità familiare e del vincolo madre-figlia – permettono di definirlo un romanzo familiare, stando ai parametri proposti dai teorici: può pertanto essere inserito in una prima mappatura del genere. A una lettura di profondità, questa classificazione appare, però, riduttiva. Le oppongono resistenza i tratti che determinano l’unicità di questo testo: l’etichetta “romanzo familiare” nomina le strutture di superficie, ma non restituisce le ragioni prime dell’opera, che di fatto incrocia e si ibrida con altri generi e altri temi – l’autobiografia, il romanzo di costume, il romanzo psicologico, da un lato; il ruolo della donna nella società e il senso stesso del fare letteratura, dall’altro –, acquisendo, così, una fisionomia eccentrica, indocile, di cui si fatica ad individuare modelli antecedenti e successive imitazioni. Come un reagente a spettro limitato, il genere “romanzo familiare” rende ben visibili, dei Divoratori, alcuni aspetti, ma non i più significativi: in quanto scarta dal canonico e in quanto sfugge alle maglie del genere sembra risiedere, almeno per questo specifico testo, ciò che più è importante. 1. Il suo destino fu di lanciare all’aria i suoi trilli durante qualche anno di vivacità e di buona disposizione giovanile; e presto tacere. Carmen aveva finito di recitare la sua parte e rientrava nelle quinte2. Trasfigurandola nella più sfrontata delle eroine operistiche, nel 1906 Croce liquidava Annie Vivanti e ne dichiarava conclusa la parabola artistica. Del resto, la chanteuse che aveva conquistato le cronache 2. B. Croce, La contessa Lara - Annie Vivanti, in Idem, La letteratura della nuova Italia. Saggi critici, Bari, Laterza, 1914, vol. II, p. 333. Ques to E- book ap «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» letterarie e mondane grazie ai «versi scapigliati e monelli»3 di Lirica (1890), prefata da Carducci, e grazie al «romanzo di costume»4 Marion artista di caffè-concerto (1891), si era sposata con un patriota irlandese, John Chartres, aveva messo al mondo una figlia, Vivien, e si era involata negli Stati Uniti; qualche anno dopo, il tentativo di riguadagnare la scena italiana si era risolto in un fallimento: il dramma La Rosa Azzurra era stato disprezzato dal pubblico e stroncato dalla critica; la prima, rappresentata all’Arena del Sole di Bologna il 15 luglio 1898, sarebbe stata ricordata soprattutto per il «Vigliacchi! Vigliacchi!» gridato da Carducci, a pugni alzati, contro la galleria da cui diluviavano fischi5. A quell’insuccesso era seguìto un nuovo allontanamento dall’Italia. All’altezza del 1906 nulla lasciava presagire la possibilità di una rivalsa. Eppure, nel marzo del 1911 Vivanti dà alle stampe un nuovo romanzo: I divoratori. A pubblicarlo è Treves, già editore, ventuno anni prima, di Lirica, suo libro d’esordio. L’inattesa rentrée ha successo. Dopo un ventennio di eclissamento, Vivanti riacquista centralità nel panorama letterario italiano. L’avrebbe mantenuta fino alla fine degli anni 3. Lettera di Annie Vivanti a Emilio Treves, 22 dicembre 1889. Si legge in G. Carducci, A. Vivanti, Addio caro Orco. Lettere e ricordi (1889-1906), A. Folli (a cura di), Milano, Feltrinelli, 2004, p. 25. 4. La definizione è di Carducci e si legge nella lettera del 6 ottobre 1890 a Cesare Zanichelli, G. Carducci, Edizione Nazionale delle Lettere, Bologna, Zanichelli, 1954, vol. XVII, p. 232. 5. A pubblicare Lirica fu Treves (Lirica di Annie Vivanti (George Marion), Milano, Fratelli Treves Editori, 1890), mentre Marion artista di caffè-concerto uscì per la Libreria editrice Galli di C. Chiesa e F. Guindani di Milano nel 1891. Lirica si può leggere oggi in A. Vivanti, Tutte le poesie, edizione critica con antologia di testi tradotti, C. Caporossi (a cura di), Firenze, Leo S. Olschki, 2006, pp. 147-232; Marion è stato ripubblicato nel 2006 da Sellerio, sempre per le cure di Caporossi e con una nota di Anna Folli. Il dramma La rosa azzurra non fu pubblicato e ad oggi risulta perduto; sulla sua composizione e messa in scena rimando a quanto ricostruito da Anna Folli in G. Carducci, A. Vivanti, Addio caro Orco, cit., pp. 54-59. Segnalo, infine, che in Tutte le poesie Caporossi ha inserito una preziosa mappatura della bibliografia d’argomento vivantiano (A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 407-456); ai titoli lì ricordati si aggiungano almeno le nuove edizioni di A. Vivanti, Circe. Il romanzo di Maria Tarnowska, C. Caporossi (a cura di), Milano, Otto/Novecento, 2011, Eadem, Naja tripudians, R. Reim (a cura di), Milano, Otto/Novecento, 2014 e Eadem, Vae victis!, Roma, Edizioni Croce, 2018; sul fronte degli studi, C. Tognarelli, Ego di Annie Vivanti, in A. Andreoni, C. Giunta, M. Tavoni (a cura di), Esercizi di lettura per Marco Santagata, Bologna, il Mulino, 2017, pp. 297-312, e S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and Culture, Madison, Fairleigh Dickinson University Press, 2016. 99 Qu est oE -bo ok app art ien ea 100 CHIARA TOGNARELLI e Qu sto E -bo ok Trenta, pubblicando e ripubblicando romanzi, drammi, racconti, favole, reportages di viaggio: tutte prose che incontrano gli interessi e il gusto del pubblico, in particolare di quello femminile6. I divoratori sono la prima opera della maturità vivantiana. Sulla scia dell’autobiografismo – forse più millantato che reale – di Marion, nei Divoratori Vivanti cannibalizza la propria biografia straripante di cosmopolitismo ed incontri, sottoponendo a un intenso processo di ricreazione letteraria le esperienze degli anni in cui aveva seguito la carriera di Vivien, enfant prodige del violino. Avrebbe abbandonato ogni velleità autobiografica già in Circe (1912), un romanzo d’inchiesta nel quale ricostruisce un noto episodio di cronaca nera indagando il movente e la psicologia di un’assassina d’eccezione, la conturbante Maria Tarnowska7. Alla politica contemporanea avrebbe guardato nel dramma L’invasore (1915) e nel romanzo Vae victis! (1917): in entrambi racconta le atrocità commesse dai tedeschi in Belgio attraverso la parabola di due donne che reagiscono in modo opposto alle violenze subìte. Un binomio simile sarebbe ritornato nel romanzo Naja Tripudians (1920), dove si descrive la vita di due sorelle di provincia che finiscono nelle spire della Londra viziosa e depravata del Dopoguerra: l’una saprà liberarsi, l’altra soccomberà8. Il carnet de voyage Terra di Cleopatra (1925) e il romanzo Mea culpa (1927) avrebbero affrontato il tema del colonialismo e dei rapporti tra Oriente ed Occidente; le due opere sono intrise di sentimenti antibritannici, peraltro già presenti nelle poesie giovanili di Lirica9. Avrebbero arricchito questa parabola numerosi racconti, 6. L’elenco completo delle opere vivantiane, delle loro edizioni e delle loro numerose ristampe in A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 407-430. 7. Già un personaggio dei Divoratori, l’attrice Nunziata Villari, incarnava il prototipo della femme fatale vivantiana, lì alle prese col declino della propria bellezza. A personaggi femminili di questo tipo sono riconducibili altri due romanzi: …Sorella di Messalina, Torino, Letteraria Casa Editrice Italiana, 1922, e la sua continuazione, Fosca, sorella di Messalina, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1931. Ne ha trattato J. Dashwood, From Circe to Fosca. Annie Vivanti and the Femme Fatale, in S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and Culture, cit., pp. 31-47. 8. Rimando a C. Gragnani, War Rape and Hybrid Birth, in S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and Culture, cit., pp. 49-61. 9. Basti pensare ad Ave, Albion!, in A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 160-161. che mescidano memorie ed invenzione, come le novelle di Zingaresca (1918), di Gioia (1921) e di Perdonate Elegantina (1926). A questa produzione si sarebbero aggiunte alcune prove di scrittura per l’infanzia: le favole di Sua altezza (1924) e il romanzo Il viaggio incantato (1933), ultima opera data alle stampe. Solo alla fine degli anni Trenta Vivanti sarebbe rientrata nelle «quinte» evocate da Croce. Allora, nonostante la sua vicinanza al regime, è duramente colpita per la sua nazionalità inglese – era nata a Londra nel 1866 – e per le sue origini ebraiche10. Nel 1941, a luglio, è costretta al domicilio coatto ad Arezzo. Per intervento di Mussolini le viene concesso di fare ritorno nella città che aveva scelto come propria alla fine della Grande Guerra, Torino. Lì sarebbe morta il 20 febbraio 1942. A rendere più tormentati i suoi ultimi mesi era stata la morte di Vivien, suicidatasi il 9 settembre 1941 nella sua casa di Brighton, a sud di Londra; a darle conforto, la conversione al cattolicesimo, che – così scrisse – aveva desiderato «fin dalla sua lontana fanciullezza»11. a p ap 2. n tr ie e a ila m ria u 8 oio 9 gm a m o c il. 2 2 01 2 «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» Q s ue to E- o bo k Quando escono I divoratori, Vivanti è reduce da vent’anni trascorsi soprattutto negli Stati Uniti e in Inghilterra. Il pubblico italiano ignora la sua produzione in lingua inglese – romanzi, racconti, drammi per il teatro, prose giornalistiche –; quel che sa, è che la poetessa di Lirica ha una figlia, Vivien Chartes, e che questa figlia è stata un’acclamata bambina prodigio del violino: ha vissuto il suo periodo d’oro tra il 1905 e il 1907, in tournée nelle maggiori città europee con la madre, che l’ha sostenuta più e meglio di un impresario. All’altezza del 1911, l’astro di Vivien si è oramai offuscato12. 10. La madre, la scrittrice tedesca Anna Lindau (1828?-Milano, 1880), era protestante, ma di origine ebraica; il padre Anselmo (Mantova, 1827-Milano, 1890), acceso mazziniano, proveniva da un’antica famiglia ebrea mantovana. 11. Annie Vivanti nella Chiesa Cattolica, in «L’Osservatore Romano», 10, 24 gennaio 1942, p. 3, in G. Carducci, A. Vivanti, Addio caro Orco, cit., p. 80. 12. Del resto, Vivien era nata il 25 giugno del 1893: all’uscita dei Divoratori ha già compiuto diciotto anni. Su questo periodo rimando a Caporossi in A. Vivanti, Tutte le poesie, cit., pp. 50-62. 101 102 CHIARA TOGNARELLI I divoratori sono la riscrittura di un romanzo in lingua inglese che Vivanti ha pubblicato nel 1910, The Devourers, e di cui doveva avere iniziato la stesura attorno al 190713. Il processo d’avvicinamento ai Divoratori risale, però, più addietro: già il racconto The true Story of a Wunderkind told by its Mother, Annie Vivanti, edito nel 1905 ed incentrato sull’infanzia di Vivien e sulla scoperta del suo precoce talento di violinista, costituisce l’incunabulo del tema che, sebbene diversamente declinato, sarebbe stato il fulcro del romanzo14. Nel novembre del 1906, sulla scia dei concerti tenuti dalla figlia nelle principali città d’Italia, Vivanti pubblica su «Il Secolo XX» il racconto La storia di Vivien, ulteriore prova di manipolazione e ricreazione delle proprie memorie più recenti. Qui, ribaltando quello che nel romanzo sarà il motore degli avvenimenti, l’autrice si augura che la propria figlia non sia un genio: Questo Arrivata a casa, andai in punta de’ piedi alla culla dove dormiva la mia piccola bambina, tutta rosea, coi biondi capelli arruffati sulla fronte. E dissi piano alla sua anima dormente: “Oh, tu bambina felice, che crescerai nel E-tenero braccia materne, tu non conoscerai lo strazio del genio boocerchio k apdelle p a rtiegloria precoce, le angosce della prematura. No! Tu non devi essere, tu non ne a ilariamu sarai mai un enfant prodige!”15. o io89 gm ail.com 13. La prima edizione inglese di The Devourers fu stampata dall’editore londinese Heinemann nel 1910. Lo stesso anno uscì anche un’altra edizione per G.P. Putnam’s Sons di New York-London. Notevole la fortuna editoriale della versione italiana: I divoratori, oltre che da Treves, ebbero sette edizioni con Quintieri (1911-1920), otto con Bemporad (19221932) e otto con Mondadori (1930-1949). Caporossi ripubblica l’edizione Treves del 1911 in A. Vivanti, I divoratori, C. Caporossi (a cura di), Palermo, Sellerio, 2008 (da qui in avanti, D). Per un confronto tra la versione in inglese e quella in italiano rimando a A.L. Lepschy, Annie Vivanti as self-translator: the case of The Devourers and Circe, in «The Italianist», 3, 2010, pp. 182-190, e M. Deganutti, A “Mistaken” Choice of Language? A Case of Self-Transaltion, in S. Wood, E. Moretti (a cura di), Annie Chartres Vivanti: Transnational Politics, Identity and Culture, cit., pp. 81-95. 14. Edito sulla rivista londinese «Pall Mall Magazine», vol. XXXV, gennaio-giugno 1905, pp. 55-59 e sulla rivista statunitense «The Saturday Evening Post», 3 giungo 1905, pp. 1314. Il racconto è stato tradotto da Caporossi e pubblicato in A. Vivanti, Racconti americani, C. Caporossi (a cura di), Palermo, Sellerio, 2005, pp. 138-157. 15. Poi confluito in Eadem, Zingaresca, Milano, Dott. Riccardo Quintieri Editore, 1918, pp. 119-120. Questo attacco è simile a quello di The true Story of a Wunderkind told by its Mother, Annie Vivanti; più delle convergenze, sono però interessanti le divergenze fra i due racconti – più dettagliato e cupo quello in inglese, più sbrigativo e solare quello 2012 Q «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» Il racconto procede poi narrando in che modo la piccola Vivien avrebbe seguito e pienamente realizzato la propria vocazione musicale, «inconsapevole delle emozioni che suscita, ignara della Fama che le cinge di luce la bionda testa d’arcangioletto»16. 3. Ad una meravigliosa bambina ch’io amo dedico questo libro perché lo legga quando avrà dei meravigliosi bambini suoi. (D, p. 27) Nella dedica dei Divoratori, Vivanti si raffigura nell’atto di offrire il frutto della propria fatica, il libro, alla figlia, augurandosi che un giorno, divenuta anch’ella madre, possa leggerlo. L’autrice si presenta come una donna realizzata, risolta, appagata: dà di sé un’immagine rassicurante, che farà cortocircuito con quella delle “divorate” del romanzo. Ma la de- in italiano –, che meriterebbero uno studio comparativo. Qui basti notare che The true Story of a Wunderkind told by its Mother, Annie Vivanti anticipa I divoratori assai più del breve e riassuntivo La storia di Vivien: è nel “racconto americano” che, ad esempio, fa la sua comparsa il personaggio della governante Fräulein Müller, una delle “divorate” del romanzo; è nel “racconto americano” che la narratrice si dice infelice e incompresa («Nessuno potrebbe credere come sia difficile essere la madre di un enfant prodige […]. No, tutto sommato non sono felice», A. Vivanti, Racconti americani, cit., pp. 153-154) e lamenta di sentirsi esclusa dalla vita della figlia prodigiosa («Ma poi penso… è davvero mia? La sua anima non se n’è forse volata via dietro il suono della musica, quando i suoi occhi profondi e solenni contemplavano cose che io non so, non riesco a vedere? […] vorrei lasciare ancora che le sue tenere foglioline si aprissero alla luce e ai dolori della Fama, ai fuochi e alla febbre della Gloria? …Chissà…», ibid., pp. 156-157), mentre quello italiano si conclude con l’immagine della madre felice e in piena sintonia con la figlia («Subito il suo sorriso mi cerca. Poi, alzando il violino, ella suona – per me! E la musica incantata ci trasporta entrambe lontano dalla folla, lontane dalla vita. Ci porta nei paesi felici dove le fate passeggiano per giardini risplendenti; dove le bambole non si rompono, dove i fiori non appassiscono, dove i bambini restano sempre piccini – e le mamme non piangono mai», A. Vivanti, Zingaresca, cit., p. 131). 16. Ibid. 103 CHIARA TOGNARELLI 104 dica, oltre a parlare dell’autrice, parla del libro, poiché prepara il lettore alla sua dimensione genealogica: essa allude a tre generazioni – in primo piano, la madre e la sua «meravigliosa bambina»; sfocati, ma in un futuro prossimo e dato per certo, altri «meravigliosi bambini», i nipoti –, così come su tre generazioni – madre, figlia, nipote – è costruito I divoratori. Una breve Prefazione fa da cuscinetto fra la dedica e il libro, fra l’augurio – piccolo congegno autobiografico – e l’invenzione romanzesca: C’era un uomo che aveva un canarino; e disse: “Che caro canarino! Se potesse diventare un’aquila!”. Iddio disse: “Nutrilo del tuo cuore, e diverrà un’aquila”. Allora l’uomo lo nutrì del suo cuore. E il canarino divenne un’aquila, e gli strappò gli occhi. Questo C’era una donna che aveva un gatto; e disse: “Che caro gattino! Se potesse diventare una tigre!”. Iddio disse: “Dagli a bere il tuo sangue, e diverrà una Allora la donna gli diede a bere il suo sangue. Etigre”. -boo k appauna tigre, e la sbranò. Ed il gatto divenne rti ene a i lariamu oio8 9 gm“Che C’era un uomo e una donna che avevano un bambino. E dissero: ailcaro .com bambino!… Se potesse diventare un genio!”… (D, p. 29) Il messaggio sotteso alla dedica contrasta con la morale della Prefazione, la cui conclusione, sebbene non scritta, è chiara. A completare questo apologo in tre movimenti, di cui l’ultimo solo accennato, è il romanzo. Il lettore è avvertito e ben guidato; le sue aspettative, indirizzate: la storia romperà il tabù e mostrerà che cosa accada a chi desideri che il proprio figlio diventi un genio; mostrerà, cioè, che finirà “divorato”. Mentre nella Prefazione a volere una prole geniale sono un uomo e una donna, nel romanzo la dinamica che innesca la catastrofe non è determinata da un desiderio condiviso. Tutto accade a partire da una madre rimasta sola, vedova di un uomo di valore, come Valeria, o abbandonata da un marito inetto, come Nancy. 2012 «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» to E b o o k a ppar Ques Nella sua articolazione in tre exempla e nell’incompletezza dell’ultimo, la Prefazione rispecchia la struttura del romanzo. Anche I divoratori, infatti, è suddiviso in tre parti, indicate come «Libri»; ogni libro è a sua volta suddiviso in capitoli: ventuno il primo, trenta il secondo e uno soltanto il terzo. Il primo libro racconta la storia di Valeria e di sua figlia Nancy, piccola poetessa; il secondo, quella di Nancy e di sua figlia Anne-Marie, violinista prodigiosamente precoce; il terzo, che consiste di sole due pagine, si limita a descrivere Anne-Marie e la sua «creaturina» appena nata e ancora senza nome (D, p. 524). La narrazione è scandita dalla reiterazione della “scena primaria” all’origine del romanzo: la nascita delle madri. L’impressione che se ne ricava è che tutte le vicende siano preordinate da un fato immodificabile e che ogni esistenza si compia aderendo, ora docilmente, ora recalcitrante, al proprio destino. L’impianto diegetico si regge su una «eterna legge» (D, p. 512) che, di pagina in pagina, di episodio in episodio, minore o maggiore che sia, si fa sempre più evidente. tiene a Nancy si mosse, sospirò!… Poi lenta aprì gli occhi. Era sveglia. Nella camera attigua Valeria singhiozzava tra le braccia dello zio Giacomo, e la zia Carlotta baciava Adele, e baciava Aldo, che, pallido con gli occhi rossi, stringeva la mano a tutti. Attraverso la porta socchiusa Nancy udiva le loro voci sommesse e bisbiglianti; e ne sentì un vago e languido piacere. Ma ecco che un altro suono le colpì l’orecchio: un suono dolce, staccato, regolare – che pareva il lento battito d’una pendola. Quel suono le dava un senso di calma profonda e soave. Volse il capo sui guanciali e guardò. Era una culla! […] Nancy sorrise e richiuse gli occhi. Quel battito regolare la sopiva, e la riconduceva verso il sonno. Ella si sentiva ineffabilmente tranquilla, illimitatamente felice. Era finita l’attesa; erano passati i timori. Ora la vita si apriva più vasta sopra più vasti orizzonti. L’anima sua era placata, appagata e senza desiderio. Ed ora, con un sommesso tremito di gioia, le tornò nella memoria il suo Libro; il suo Libro che la aspettava, fermo dove ella lo aveva lasciato quella sera in cui l’avvenire aveva pulsato entro il suo seno. L’opera che doveva vivere la chiamò con voce piana, e le ripiegate ali dell’aquila fremettero… 105 ail.com ilariamuo io89 gm 106 CHIARA TOGNARELLI Nel crepuscolo oscillante della culla la creatura aprì gli occhi e pianse: – Ho fame. (D, pp. 205-206) È l’ultimo capitolo del Libro primo. Nancy si risveglia dal sonno che segue le sofferenze del parto. Vicino al suo letto, la culla oscilla nella penombra: quel rumore ritmato la calma. In quel momento di pace estatica, il pensiero della puerpera corre al «Libro» di cui deve terminare la stesura: l’ispirazione finalmente riprende vigore («le ripiegate ali dell’aquila fremettero…»). Eppure, il bisogno di un altro subito si impone: il neonato si sveglia e piange; ha fame. Con parole ed immagini simili, nel Libro terzo è descritta AnneMarie al suo risveglio dopo il parto: Anne-Marie si mosse, sospirò, ed aprì gli occhi. La camera era buia e silenziosa. Ma in breve un piccolo suono ritmico e sommesso le giunse all’orecchio, e le parve assai dolce. Era un suono regolare e pacato, come il battito d’un orologio, come il pulsar d’un cuore. Era l’oscillare d’una culla! Anne-Marie, nel dormiveglia, sorrise; ed una immensa pace le invase lo spirito. Il dolce battito ritmico la ricondusse verso il sonno. Essa si sentiva ineffabilmente calma e felice. La vita apriva più vasti portali sopra orizzonti più immensi. Con un fremito di gioia essa pensò che il breve silenzio del trascorso anno era ormai terminato. Di nuovo la musica fluirebbe dalle sue mani, come un’incantata fontana, sopra il mondo in ascolto. Il suo violino!… Sotto le chiuse ciglia Anne-Marie lo rivedeva nel pensiero. Rivedeva le curve bruno-dorate della voluta; l’alacre slancio degli “S” nella tavola armonica; e le sensitive corde tese sopra l’agile ponticello: tutto quel perfetto istrumento silenzioso, aspettante il tocco delle sue ardenti dita giovanili, per ridestarsi di nuovo alla vita ed al canto! […] Essa vide la vita come un paesaggio di luce steso innanzi ai suoi giovani passi: ella ascenderebbe la bianca via dell’Immortalità, sorretta da un immutabile amore; il Genio le cingerebbe la fronte d’un serto d’astri fiammeggianti; – e la Musica, la divina Musica che le cantava come una fontana perenne nel cuore inonderebbe d’armonia il mondo… Qu e «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» La creaturina nella culla aprì gli occhi e pianse: – Ho fame. (D, pp. 523-524) La storia si ripete, inesorabile. Dopo il parto, sia Nancy che Anne-Marie sono avviluppate in pensieri di gloria: entrambe desiderano restituirsi alla loro arte – il libro incompiuto per Nancy, la musica da comporre e suonare per Anne-Marie. Ma il neonato scoppia a piangere e interrompe questo slancio: bisogna nutrirlo. Del resto, così era stato anche per Valeria. Nel primo capitolo del romanzo si descrive l’arrivo di Valeria, novella vedova, in Inghilterra, nell’Hertfordshire, dove vivono quanti restano della famiglia di suo marito Tom, falcidiata dalla tisi. La frase con cui si apre la storia di Valeria, e quindi il romanzo intero, si rivelerà la più emblematica: «La creaturina nella culla aprì gli occhi e disse: – Ho fame» (D, p. 33). Solo nel terzo capitolo «la creaturina», o il «béby», sarà battezzato “Nancy”. Valeria è la prima delle madri “divorate”: con lei inizia il «sacrificio a catena delle generazioni»17. Per proteggere Nancy, ella rinuncia ad ogni altro affetto: tutta la sua vita si riduce all’accudimento della figlia, che rivela doti poetiche straordinarie. Tanto Valeria si vota a Nancy, quanto Nancy si vota alla propria arte, in un crescendo parossistico di inconsapevoli atti d’egoismo, molti dei quali dagli esiti tragici. Ne stila un elenco Antonio, cugino di Valeria, uomo – come quasi ogni altro, in questo romanzo – irresoluto e di scarso carisma, col «naso fatto di pasta frolla cruda, che ognuno può prendere e far girare in qua e in là» (D, pp. 69-70) – così lo etichetta la sua amante, la cantante d’opera nonché femme fatale Nunzia Villari. Eppure, è ad Antonio che si deve un ritratto spietatamente lucido di Nancy e una riflessione sul rapporto tra lei e sua madre, oltre che sugli effetti devastanti di quel legame su tutta la famiglia: 17. C. Garboli, Naja Tripudians di Annie Vivanti, prefazione all’edizione per gli «Oscar» Mondadori (Milano, 1970, pp. 3-16), ora riprodotta in Idem, La gioia della partita. Scritti 1950-1977, L. Desideri, D. Scarpa (a cura di), Milano, Adelphi, 2016, p. 108. Qu est oE -bo ok ap pa 107 CHIARA TOGNARELLI – Cuginetta mia! – diss’egli. Ella gli sorrise di un sorriso triste. Poi gli domandò: – A che cosa pensi? Vi fu una pausa. – Pensavo a Nancy ed al passato, – rispose Nino. – Pensavo a suo padre, al povero Tom! Morto così improvvisamente, così miseramente, in viaggio fra estranei… – Già, – sospirò Valeria; e aggiunse a bassa voce, seguendo il filo dei ricordi: – Ma bisognava salvare Nancy. – E pensavo anche al vecchio nonno, morto solo, nella notte, sulla collina… – Bisognava salvare Nancy, – disse Valeria. – E pensavo alla piccola Edith ed alla sua povera madre, che dovettero partir sole… abbandonate da quelli che amavano, nell’ora più fosca della loro vita… – Ma bisognava pur proteggere Nancy, – disse Valeria, con grandi occhi stupiti. Udendola, egli comprese tutta l’inesorabile, la spietata forza dell’amore materno. Per Valeria nulla contava, nulla esisteva all’infuori di Nancy, – di Nancy che pure con dolce mano incosciente le aveva tutto rapito. Anche lui, non si era staccato da lei, preso ed avvinto da Nancy? – E penso a te, Valeria, – seguitò Nino, con voce bassa e tremante, – a te, di cui io ho calpestato il povero cuore… – Non importa, non era colpa tua, – disse Valeria con un piccolo singhiozzo. – Amavi Nancy; come potevi non amarla? – I pietosi occhi le si empirono di lagrime. – Ed ora anche le tue speranze sono naufragate, anche tu hai il cuore spezzato. Ed ancora una volta egli comprese come essa, nella sua innocenza di tortorella, avesse assorbito e sommerso l’esistenza di tutti quelli che le stavano d’intorno. Nella sua soave debilità, nella sua fralezza puerile, ella aveva infranto, distrutto e devastato. Le esistenze di tutti quelli che l’avevano amata erano state necessarie a nutrire la chiara fiamma del suo genio, il bianco fuoco del suo genio, il bianco fuoco della sua gioventù. Nino fissò gli occhi sul rosso tappeto nuziale che stendeva la sua striscia scarlatta fino all’orlo della strada. E gli parve un sentiero di sangue. – Ecco – diss’egli – la traccia del Divoratore!… Ecco il passaggio della colombella di preda! (D, pp. 186-188) Qu 108 es to E-b oo k «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» Il matrimonio con un affascinante poseur, Aldo della Rocca, stravolge e ridefinisce gli equilibri. L’ineluttabilità di questa infausta unione è rimarcata a più riprese («Poi il pensiero alato volò fuori dalla finestra della sua mente. La porta si aprì ed il Destino entrò nella sua vita. Era Aldo della Rocca», D, p. 151): al solito, le Parche intessono e recidono fili18. Nancy non riesce più a scrivere: da sposata, le manca quel silenzio che sua madre era riuscita a farle attorno, per difenderla da quanto e quanti potevano distrarla dalla ricerca della gloria. Quando con fatica, imponendosi di essere egoista, riesce a riprendere la stesura della propria opera, Nancy scopre di essere incinta. Nasce una bambina: Anne-Marie. E così, da “divoratrice” Nancy si trasforma in “divorata”. Maggio portò alla bambina un dente. Giugno gliene portò un altro, e le gettò uno sprazzo di luce dorata sui capelli. Agosto le mise sulle labbra una parola o due. Settembre la mise ritta e titubante sui piedini. E Ottobre la spinse a correre con passi vacillanti, attonita ed estasiata, nelle braccia della mamma. I suoi nomi erano Liliana, Astrid, Rosalynda, Anne-Marie. – Ora che béby sa camminare, – disse Valeria a sua figlia, – tu dovresti riprendere il tuo lavoro. – Sicuro che devo, – disse Nancy, sollevando tra le braccia la bambina e ponendosela in grembo. – Hai visto, mamma, che braccialetti che ha? (D, p. 218) Quest Con una prosa ricercata e suggestiva, l’autrice scandisce i primi mesi di vita della bambina, condensandoli in una manciata di righe evocative19. Anne-Marie cresce, mentre Nancy non ha modo di tener fede ai propri propositi. Il tracollo finanziario causato dalla scempiaggine di Aldo condanna la famigliola a fuggire rocambolescamente negli Stati Uniti, a New York. Dall’agio piombano nella povertà. Non appena viene a conoscenza delle condizioni in cui versano, Valeria decide di mandare dei danari a Nancy. Per la frenesia di far tutto alla 18. Così nell’episodio della morte del bisnonno di Nancy, D, pp. 86, 95 e 98. 19. Anche questi intervalli lirici sono piuttosto ricorrenti, soprattutto laddove occorra concentrare anni e fatti. Un altro bozzetto di questo genere si legge in D, p. 41. 109 o E-bo 110 CHIARA TOGNARELLI svelta e di soccorrere la figlia, Valeria attraversa distrattamente la strada e viene investita da un tram. La sua è una morte tragica: un’agonia descritta in ogni dettaglio, una fine all’altezza dei molti sacrifici fatti per la sua “divoratrice”. La vita di Nancy va avanti: Quando Nancy ricevette a New York la notizia della morte di sua madre, mise un abito nero invece di quello color marrone; e pianse, e pianse, e pianse, come piangono i figli per le loro madri. Poi rimise l’abito color marrone, ed andò avanti a vivere per Anne-Marie, come vivono le madri per i loro figli. (D, p. 313) Vorrebbe scrivere il libro, ma non riesce. Si consuma in rimpianti e rimorsi. Il bassofondo newyorkese dove hanno preso in affitto una stanza fatiscente e lugubre diventa il palcoscenico sul quale esibisce la propria disperazione; unico spettatore, il ritratto di uno sconosciuto defunto appeso alla parete: sentì che la vita passava, che passava rapida e irrichiamabile, e che lei, Nancy, non viveva! Lei era qui, chiusa col morto signor Johnson, ed era morta come lui. […] Tutto il rimpianto per il suo ingegno sciupato, tutto lo sdegno contro l’avvilente esistenza, tutto l’odio per la povertà che la mutilava, la amuoio i r a l i schiacciava, l’annichiliva, proruppe in quel lamento, tosto soffocato per non a partiene p svegliare Anne-Marie che dormiva nellaostanza vicina. a k o -b (D, pp. 338-339) Questo E Della propria infelicità non incolpa il marito, che ai suoi occhi è ormai poco più che un miserabile al quale nulla può essere imputato («Povero Aldo! Così decorativo, così estetico, così inetto alla lotta per l’esistenza!», D, p. 343)20. Si manifestano, intanto, i primi segni della genialità musicale della piccola Anne-Marie. Nancy non li comprende, aspettandosi che la bambina sviluppi come lei una spiccata sensi- 20. Già Nancy aveva sentenziato, seppur con amorevole leggerezza: «Che strano ragazzo sei tu! – disse. – Io credo che il tuo Giardino Chiuso, il tuo hortus conclusus, non è che un campicello di patate… E ciò nonostante quante ore felici vi ho passato!», D, p. 217. «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» 111 bilità letteraria. Una peripezia sblocca questa impasse. Ricompare uno dei personaggi determinanti nella formazione di Nancy, negli anni 89 per lei felici trascorsi nella campagna inglese: la governante tedesca, o i Fräulein Müller. È grazie a lei che prende vigore la caccia alla vocauo m zione: a ri ila – Ma la educherò io, – disse. – Certo sarà un genio anche lei. – Ho paura di no, – sospirò Nancy. – Ma quanto l’avrei desiderato! Le due donne tacquero. Ed allora per l’aperta finestra s’udì una voce limpida e chiara come una cascatella d’acqua montanina. Era la voce di Anne-Marie nella cameretta sopra. – Senti che canta, – disse Fräulein Müller. – Oh, sì. Canta sempre così, per addormentarsi – disse Nancy – da che ha sentito una volta un violino. La musica le piace. (D, p. 358) e ien a rt k oo a pp a b to s e E- u Q Le due donne finiscono col recitare la parte assegnata loro dal Desti- no. Anche Anne-Marie è una Wunderkind. Mentre le ambizioni artistiche di Nancy si spengono assieme al suo desiderio di essere amata dal «Selvaggio» – l’uomo «baluardo» (D, p. 428), il solo che avrebbe saputo sottrarla al mondo per restituirla al Libro –, Anne-Marie rivela il proprio talento di violinista. La sua ascesa divora chi le sta vicino: la madre, Fräulein Müller e Bemolle, l’assistente del Maestro che le impartisce le lezioni: Fräulein aveva nei suoi atteggiamenti tutta la stupefazione d’una divorata. – Quella bambina è un Genio, – continuava a ripetere. – Sarà come Wagner. Ma molto più grande. Poi parve risvegliarsi e ricordare le cose di minore importanza, le piccole realtà della vita. (D, p. 418) Bemolle, che era soprattutto compositore, ora non componeva più. Egli fu ben presto uno dei Divorati. (D, p. 427) gm CHIARA TOGNARELLI 112 om io8 9 g o iam u Caro Selvaggio, io sono una delle “divorate”. Non esisto più. La mia piccola Anne-Marie mi ha divorata. Ed è giusto, ed è bello, ed è santo che sia così. Essa mi ha consumata, ed io ne sono lieta. Essa mi ha annichilita e io ne sono riconoscente. Poiché questa è l’eterna legge, inesorabile e magnifica: che a queste vite date a noi, la nostra vita deve essere data. Ed io – come tutte le madri – estasiata ed a ginocchi, do la mia vita alla creatura inconscia che la esige. Ecco: io ricado nell’ombra: la mia corsa non finita, la mia meta non raggiunta, la mia missione non compiuta. Che importa? Ciò che a me fu negato, sarà dato ad Anne-Marie. Mia figlia raggiungerà le vette ch’io non ascesi. Per lei sarà la Gloria ch’io non acquistai. (D, p. 512) r ne ai la art ie p ka p o to Nancy riconosce alla figlia di diritto di divorarla. Poche pagine oltre e molti fatti dopo, la narratrice le dedica una sorta di requiem: Il chiuso fiore del tempo svolse i suoi petali. Ed i giorni lucenti e le notti stellate spinsero la piccola Anne-Marie di trionfo in trionfo. E le versarono flutti di mare negli occhi e flutti di sole sui capelli. Ed ella assurse fulgida come un giglio alla virginea e radiosa gioventù. Il chiuso fiore del tempo svolse i suoi petali. Ed i giorni e le notti versarono il lor crepuscolo su Nancy, e la spinsero indietro nell’ombra dove seggono le madri, con miti labbra che nessuno bacia, con dolci occhi di cui nessuno conta le lagrime. Ella imparò a scordare. Scordò di essere stata giovane; scordò di essere stata poeta. Scordò di aver saputo un giorno la storia del Giardino azzurro: La belle qui veut La belle qui n’ose Q ue s Ebo 01 2 2 .c ma il 0 9 -1 28 Nancy comprende di non poter più scrivere. Se Valeria non era mai stata consapevole di ciò a cui aveva rinunciato per la figlia, Nancy ne ha invece piena coscienza, tant’è che in una lettera d’addio all’amato Selvaggio descrive la propria condizione di sacrificata, «come tutte le madri»: «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» o il. c a Cueillir les roses Du jardin bleu21. 89 oi o Il Giardino azzurro della gioventù chiuse pianamente le sue porte dietro di lei; ed i fiori che Nancy non vi aveva colti, ora per lei non fiorirebbero più. […] Ormai era tardi. La sua creatura era partita. Il suo Libro era morto. Il Giardino azzurro era chiuso. (D, pp. 514-519) u am ri ne a ila e ar ti La gloria di Anne-Marie spinge Nancy «nell’ombra dove seggono le madri». Non diversamente, anni addietro, la gloria di Nancy aveva sospinto Valeria nella stessa ombra: p k ap Valeria sedeva sempre un po’ in disparte, nell’ombra; e se qualcuno le parlava, essa rispondeva piano, con breve dolcezza, e col sorriso spento. Le sue fossette si erano nascoste in due piccole linee che le solcavano le guance. Valeria non era più Valeria. Era la madre di Nancy. Essa si era ritratta nell’ombra dove seggono le madri, dagli occhi miti che nessuno guarda, dalle bocche dolci che nessuno bacia, dalle mani bianche che benedicono e rinunziano. Era la creaturina, era il béby che l’aveva spinta colà. Inesorabilmente, col primo gesto delle minuscole mani, col primo tocco delle fragili dita premute sul seno materno, la bambina aveva discacciato la madre dal suo posto al sole: l’aveva dolcemente, inesorabilmente, sospinta fuori dalla gioia, fuori dall’amore, fuori dalla vita – verso l’ombra dove seggono le madri con mini occhi di cui nessuno conta le lagrime, con dolci bocche di cui nessuno chiede i baci. Nancy prima d’altri aveva preso il suo posto al sole; ché, se quasi sempre i figli, simili ai pettirossi, sono gli inconsci ed istintivi carnefici dei loro vecchi, il giovane Genio è un’aquila, che balza inatteso dal nido d’una colomba; e, sbattendo le ali noncuranti e devastatrici, per vivere distrugge, per nutrirsi divora, per creare annienta. (D, pp. 139-140) b o o to E- ue s Q 21. Questa poesiola in francese ritorna in più punti del romanzo, a scandire le tappe della progressiva presa di coscienza di Nancy. 113 gm CHIARA TOGNARELLI 114 Eppure, Nancy non riesce a rassegnarsi, a darsi pace. I suoi tormenti si ripresentano in tutta la loro straziante virulenza quando Anne-Marie, all’apice della gloria, s’innamora, quando «l’Amore le toglie di mano il violino» (D, p. 515). Seguono pagine rapide, in cui gli eventi sono tracciati con tratti veloci. Nulla si dice di quell’incontro fatale, nulla si sa del marito: del resto, il romanzo ha già insegnato che sono aspetti marginali, di poca importanza. Senza la figlia, Nancy contempla la vacuità della propria esistenza («Ormai era tardi. La sua creatura era partita. Il suo Libro era morto. Il giardino azzurro era chiuso», D, p. 519). Su questa disperazione, si chiude il Libro secondo. Il Libro terzo condurrà il lettore nella camera della nuova puerpera: i pensieri luminosi di Anne-Marie saranno interrotti dal pianto del neonato affamato. 4. to es Qu Il conflitto fra istinto materno e vocazione artistica è il tema portante dei Divoratori. Il romanzo è infatti imperniato sull’annichilimento al quale il giovane di genio – il divoratore – riduce chi più lo ama: la madre. Questa legge immutabile, questa sorta di vampirismo fra consanguinei, può riguardare anche un padre e le sue figlie: è quanto mostra il caso del divoratore per eccellenza, «il grande Cantore della Rivolta, il Poeta pagano della nuova Roma» (D, p. 415)22, che Nancy incontra nella sua giovinezza: ok bo E- Lo spirito del Silenzio regnava sulla fredda e buia scala. La porta le era stata aperta da una pallida serva trasognata, di cui l’unica missione al mondo pareva essere quella di non fare rumore. Tre tacite donne, figlie forse del Poeta, le avevano detto con voci sommesse di prendere posto. Tutte avevano un’aria dolce e soggiogata come se vivessero giorno per giorno con qualche cosa che le struggesse, che le divorasse. E pareva che ne fossero contente. Esse esistevano unicamente per badare a ciò, che il Genio non fosse disturbato. e en rti pa ap a Fin troppo facile riconoscere in questi tratti il profilo di Carducci. uo m ria ila 22. «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» Ed ecco che la porta si aprì bruscamente ed il Genio entrò. Era un fiero uomo, colla testa grigia e leonina e gli occhi impazienti. E Nancy vedendolo comprese che si potesse volentieri traversare la vita in punta di piedi per non disturbarlo. Comprese che si abbassasse la voce e si frenasse il gesto davanti a lui. Comprese che egli aveva il diritto di divorare. Egli teneva tra le mani il piccolo libro di Liriche. Poi parlò in accenti brevi e staccati. Disse: – Tre sole donne furono poeti: Saffo; Desbordes Valmore; Elisabetta Browning. Ed ora, voi, Andate, e lavorate. Pronunciò poche altre parole; e tutte colla voce austera e gli occhi foschi sotto le ciglia aggrottate. Ma Nancy gli aveva detto addio tremante ed abbagliata di felicità. Le Divorate le avevano silenziosamente aperta la porta, ed ella già scendeva, vacillante e col cuore inondato d’emozione, la scala – quando udì un greve passo sopra a lei; si fermò e si guardò indietro. (D, pp. 416-417) La dinamica divoratore-divorato può estendersi anche a persone estranee alla famiglia: persone sole, che, gravitando attorno al genio, come una governante o un istitutore, rimangono abbacinate dal suo prodigioso talento e si mettono al suo esclusivo servizio, accantonando ogni altra aspirazione. Certo è, però, che I divoratori mette a fuoco soprattutto la declinazione al femminile di questo meccanismo, costituendo così un’inedita riflessione sulla maternità e sulle sue ripercussioni sulle donne dotate di capacità intellettuali ed artistiche fuori dal comune23. Così Vivanti rompe più di un tabù, suggerendo anzitutto che nell’animo umano – anche in quello di una madre – sempre si agitano forze che, sebbene occultate in profondità, vorrebbero impedire all’individuo di immolarsi totalmente per il bene di un altro; se ciò accade, è una rinuncia a vivere. A questo tema di caratura sociale e psicologica corrisponde una struttura romanzesca centrifuga, vorticosamente mossa da fatalità, casi 23. Su questo tema rimando a L. Benedetti, The Tigress in the Snow. Motherhood and Literature in Twentieth-Century Italy, Toronto-Buffalo-London, University of Toronto Press, 2007; alle pp. 23-25 tratta dei Divoratori. 115 to Q u es CHIARA TOGNARELLI 116 o C. Garboli, La gioia della partita, cit., p. 111. bo 24. E- – Allora a che cosa servono [i poeti non proprio veri]? – chiese Anne-Marie. Nancy non seppe risponderle. Nancy non sapeva a che cosa servissero i poeti non proprio veri. E d’altronde anche quelli veri, a cosa servivano? Tutto, nella vita, a cosa serve? I pensieri di Nancy tornarono in dolente fila al suo Libro non terminato. A che cosa sarebbe servito scrivere quel libro? Tanto valeva non averlo scritto. Ed a che cosa serve questo racconto ch’io vi faccio?… È una storia che potevo tralasciar di narrare. sto e Qu stupefacenti e coups de théâtre. I rovesci più repentini, le agnizioni meno plausibili, le improvvise accelerazioni e le soste narrative rendono godibile la disamina di un argomento difficile e scabroso, di cui il lettore è peraltro incoraggiato a immaginare la matrice autobiografica. Vivanti è maestra di peripezie. Come le Parche, intesse e recide fili a proprio piacimento. Vuole «spadroneggiare: ammazzare e far nascere le persone, sposarle, dividerle, spargerle da una parte all’altra del globo»24. E, di fatto, il romanzo corre da un continente all’altro: l’Hertfordshire della bucolica Inghilterra vittoriana, la Davos dei sanatori, la Milano della belle époque, la Montecarlo internazionale dei casinò, i quartieri più poveri di New York, e poi di nuovo l’Europa – Praga, Parigi –, e ancora l’Italia mediterranea, le città assolate, gli azzurri assoluti delle località di mare. Abile nel tratteggiare quadri d’ambiente e scene di costume, Vivanti, forte del proprio cosmopolitismo, fa continui reportages delle realtà a lei note. L’inquietudine stilistica, il continuo precipitare da un tono all’altro – ora drammatico, ora leggero, ora tragico, ora ironico – si legano a una voce narrante impalpabile, che racconta in presa diretta, senza alcun filtro moralistico, lo spazio coercitivo della famiglia. Divagazione dopo divagazione, quello spazio si dilata fino quasi a inglobare la scena del mondo. In un unico passo del romanzo l’autrice, come già nella dedica, ritaglia uno spazio per sé. Succede alla fine del nono capitolo del Libro secondo, quando Nancy si trova a dover spiegare alla piccola Anne-Marie a che cosa servano i poeti: Quest «NELL’OMBRA DOVE SEGGONO LE MADRI» Forse così dirà anche Iddio quando spenti ai Suoi piedi ripiomberanno i mondi morti, alla fine dell’Eternità. (D, p. 330) È la crepa da cui filtra il senso primigenio dei Divoratori. Per un istante, il congegno romanzesco si inceppa. Il dialogo fra madre e figlia sul perché esistano i poeti, soprattutto quelli «non proprio veri», blocca la macchina narrativa. L’autrice compare al centro della scena: del resto, è di lei che si parla. E allora Vivanti si interroga, assieme ai propri personaggi, sulla necessità e sul significato del raccontare storie: ma la riflessione rimane sospesa; il parallelismo conclusivo è un’impennata azzardata, poco illuminante. Intanto, però, la storia riprende e prosegue, perché non raccontarla significherebbe rinunciare a sé, condannarsi «all’ombra» funerea in cui si spengono le divorate. Ogni incertezza scompare: torna a scorrere rapinosa e straripevole la piena del romanzo e, con essa, la vita. Sarà poi la fine di Nancy, straziata dal vuoto della propria esistenza, afflitta dall’aver perso, col Libro, se stessa, a dare un’ultima risposta inequivocabile. 117 118 CHIARA TOGNARELLI Bibliografia Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20. Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 71/72. Benedetti L., (2007),Q The and Literature in TwenuTigress est in the Snow. 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Se si considerano i testi individualmente, tra i romanzi di famiglia è possibile annoverare alcuni tra i maggiori capolavori della letteratura occidentale, da I Malavoglia a Gli anni, da I Buddenbrook a Cent’anni di solitudine: opere tanto iconiche da poter essere definite, in alcuni casi, rappresentative dell’intera produzione dei loro autori; se lo si considera in quanto genere, invece, il romanzo di famiglia non ha ancora ricevuto una attenzione adeguata: le singole opere hanno da sempre goduto di una critica attenta e puntuale, ma solo negli ultimi anni i family novels1 sono diventati oggetto di un dibattito che cerca di comprendere le dinamiche interne all’intero genere, invece di analizzare i testi nella loro singolarità. A questa contraddizione che riguarda la fortuna critica se ne deve aggiungere una seconda, che della prima è forse la causa. I romanzi di famiglia sono spesso accusati di essere opere formalmente “conservatrici”. O, per meglio dire, i romanzi di famiglia, innanzitutto e per lo più, sembrano non abbracciare con convinzione le possibilità sperimentali che il campo letterario ha da offrire, presentandosi, come scrive Marina Polacco, come Q ok o b Eo t ues a rt ppa ien il a e a 1. Una premessa metodologica 1. In questo saggio userò indistintamente le espressioni «romanzo di famiglia» e «family novel». Questo perché, da una parte, family novel è la categoria critica che ha permesso, in ambito anglosassone, una nuova attenzione “di genere”; dall’altra, nel corso del saggio, specialmente nella parte riguardante i libri di famiglia, poter usare l’espressione inglese aiuterà nella chiarezza dell’esposizione. 122 LORENZO MECOZZI una forma narrativa «spesso apertamente anacronistica nel panorama letterario coevo»2. A questo si deve aggiungere, poi, che in più di un caso, da un punto di vista ideologico, i family novels possono essere tacciati, a torto o a ragione, di conservatorismo politico. Questa “arretratezza” ideologico-formale risulta tanto più significativa se si considera il fatto che il romanzo di famiglia è sempre interessato alle svolte fondamentali della modernità ed è attratto dalle antinomie del presente3. Come è possibile, dunque, sciogliere queste contraddizioni? Fino ad ora, i saggi più importanti sul romanzo di famiglia hanno cercato di definire il genere mostrandone le caratteristiche tipologiche principali4. Per comprendere la contraddittorietà del family novel, però, Q ue stonecessario può essere di famiglia come forma E-bookconsiderare appartilieromanzo ne che a ila riamda simbolica: formulare un’ipotesi genealogica permetta, uouna ioparte, 89 gmail.co di comprendere le ragioni dell’emergenza del family novel in quanto genere, e, dall’altra, la sua funzione simbolica; un’ipotesi che permetta di comprendere quale sia il «contenuto spirituale» che acquista una forma «sensibile» nel romanzo di famiglia5. Per far questo, mi riferirò 2. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, p. 115. 3. Oltre al già citato saggio di Marina Polacco, si pensi a Spinazzola, che, nel Romanzo antistorico, spiega il successo del Gattopardo come il risultato dell’esaurirsi della forza d’urto che caratterizzava lo sperimentalismo modernista (cfr. V. Spinazzola, Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti, 1990); o a quanto scrive Franco Moretti a proposito di Cent’anni di solitudine, ossia che il romanzo di García Márquez «rimette il modernismo con i piedi per terra. E poi, sana “la grande frattura” (Adorno) tra modernismo e cultura di massa […] un’opera d’avanguardia, capace però di raccontare una storia avvincente» (cfr. F. Moretti, Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994); o, infine, a quanto scrive Baldini riguardo a Virginia Woolf, che «non era conosciuta per la sua narrativa più sperimentale, ma proprio per Gli anni, che era il suo libro più venduto» (A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 71-72, 2016, p. 45). Nello stesso saggio, Baldini ricorda come la ricezione del Gattopardo fosse stata caratterizzata dal sospetto del suo impianto ideologico reazionario. 4. Da questo punto di vista, il saggio di Marina Polacco rappresenta una risorsa indispensabile per chiunque voglia affrontare criticamente il romanzo di famiglia in quanto genere. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., e Y.-L. Ru, The Family Novel: Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992. 5. La definizione di «forma simbolica» si deve a E. Panofsky, La prospettiva come «forma simbolica», Milano, Feltrinelli, 1979. L’uso che se ne fa in questo articolo è debitore agli studi di Franco Moretti, in particolare a F. Moretti, Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi, 1999. a ila ene arti IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA Que sto E-b ook app al contesto italiano considerando I Malavoglia di Verga, I Viceré di De Roberto, I vecchi e i giovani di Pirandello e Il Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; ma, nella convinzione che questa ipotesi possa dire qualcosa anche al di là della tradizione italiana, non rinuncerò a qualche riferimento incrociato con testi appartenenti ad altre letterature. E proprio perché si tratta di un’ipotesi genealogica, vorrei parlare del romanzo di famiglia come di un genere cadetto: un genere destinato, per il proprio prestigio, ad essere parte dell’élite letteraria, ma contemporaneamente, in quanto cadetto, condannato ad avere un ruolo secondario nel gioco delle parti della tradizione. Ma se il romanzo di famiglia è il “genere cadetto” del romanzo moderno, di chi considerarlo l’erede? Gli indizi conducono tutti ad un’unica conclusione: considerare il romanzo di famiglia come la forma simbolica che eredita il ruolo avuto durante il diciannovesimo secolo dal Bildungsroman. 2. Un ipotetico albero genealogico Romanzo di famiglia come erede del Bildungsroman. È per questo motivo, quindi, che guardando alla lista di romanzi che appaiono ciclicamente nei saggi sul romanzo di famiglia europeo (I Malavoglia, I Buddenbrook, I vecchi e i giovani, Gli anni, La marcia Radetzky, solo per menzionarne alcuni), si può ritrovare una significativa concentrazione di opere a ridosso della stagione modernista. A cavallo tra il diciannovesimo ed il ventesimo secolo, nel momento in cui il romanzo di formazione in Europa esaurisce la propria forza e il campo letterario sembra guardarsi intorno alla ricerca di una nuova forma letteraria capace di farsi carico delle questioni aperte dalla modernità, il romanzo di famiglia sembra proporsi come la forma simbolica in grado di offrire una rappresentazione sensibile delle contraddizioni del presente6. 6. Ovviamente, la storia del romanzo di formazione è una storia plurale. Così come la storia del romanzo di famiglia. Ciò che accomuna Bildungsroman e family novel è l’attenzione per ciò che Bachtin definisce, come vedremo più avanti, il «divenire del mondo». Cfr. S. Graham (a cura di), A History of the Bildungsroman, Cambridge, Cambridge University Press, 2019. 123 124 LORENZO MECOZZI In questo contesto, varie forme letterarie si contendono il compito di rappresentare la crisi della modernità che ha “esaurito” il Bildungsroman ottocentesco. Se ne possono nominare innanzitutto tre: il Bildungsroman modernista, il novel-essay, e le opere mondo: il primo, «while failing to measure up to the generic conventions it inherits from the classical tradition, […] succeeds to varying degrees in recuperating a classical notion of Bildung that incorporates the crucial elements of individual freedom and aesthetic education»7; il secondo, «symbolic form of the crisis of modernity», tenta di restituire «a picture of a world on the brink of a precipice; a world whose complexity was experienced as being so overwhelming as to request a synthetic and totalizing narrative form in order to relate it»8; le ultime cercano di rappresentare, in un unico testo, «la fondazione delle civiltà, il loro senso d’insieme, il loro destino»9, così come la frammentazione di un mondo che non ha più al centro l’essere umano. In che modo, allora, il romanzo di famiglia eredita la funzione simbolica del Bildungsroman? Mentre il Bildungsroman modernista, il novel-essay e le opere mondo cercano di governare un presente che “sfugge” ai limiti imposti al romanzo di formazione10, il romanzo di famiglia 7. G. Castle, Reading the Modernist Bildungsroman, Gainesville, FL, University Press of Florida, 2006, p. 27. 8. S. Ercolino, The Novel-Essay: 1884-1947, New York, NY, Palgrave Macmillan, 2014. 9. F. Moretti, Opere mondo, cit., pp. 30-35. 10. Sulla non appartenenza del romanzo di famiglia alla categoria di opere mondo mi trovo d’accordo con quanto scrive Franco Moretti. E, per quanto possa sembrare paradossale, le ragioni le spiega bene Marina Polacco, che al contrario ritiene i family novels opere mondo a tutti gli effetti. Credo che queste due forme rispondano in modo opposto allo stesso problema: l’erosione del Bildungsroman come forma simbolica. Il romanzo di formazione entra in crisi quando la complessità del reale, con le infinite possibilità che la modernità ha da offrire, finisce col rendere impossibile l’idea stessa di una soggettività in grado di contenere il mondo intero. Le opere mondo, così come il romanzo saggio, cercano di creare dispositivi formali che possano tenere testa a una modernità non più antropocentrica. I romanzi di famiglia, privilegiando una sinteticità cronologica invece che spaziale, scegliendo «la lunghezza e non la larghezza», come dice Polacco, e soprattutto scegliendo uno sguardo retrospettivo e sempre critico verso il presente, si pongono in diretta opposizione alla modernità, invece che cercare di “gestirla” come fanno le opere mondo. In questo senso si tratta di un genere “cadetto”, che pur ereditando le criticità del presente non ha la possibilità di risolverle. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 122 e F. Moretti, Opere mondo, cit., pp. 222-223. -bo Q oE t s e u rt ppa a k o u ene a lari am i ti IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA k E b oo a p p ar tenta di fare qualcosa di diverso: rifugiandosi nel passato, guardando ad un’istituzione ormai in via di dissoluzione come la famiglia tradizionale, cerca un impossibile compromesso tra le forze centrifughe (o percepite tali) della modernità e l’azione centripeta della tradizione. In quanto appartenente al ramo cadetto della genealogia delle forme, al romanzo di famiglia non spetta il compito di traghettare “l’eredità” del romanzo di formazione nel presente. Al contrario, sembra dover condividere il destino di molti figli “cadetti” degli stessi family novels. Come Tony nei Buddenbrook, come Mena nei Malavoglia, Concetta nel Gattopardo, il romanzo di famiglia sembra dover rimanere attaccato alla tradizione, riproponendo l’utopia del Bildungsroman nel tentativo di rilanciare, nel presente, l’impossibilità di una socializzazione armoniosa offerta dal romanzo di formazione inglese e tedesco all’inizio del diciannovesimo secolo. Come scrive Franco Moretti: to Qu es In una frase: il Bildungsroman racconta “come si sarebbe potuta evitare la rivoluzione francese”. Non per nulla è un genere letterario che si dispiega in Germania – dove la rivoluzione non ebbe mai alcuna possibilità di riuscita – e in Inghilterra – dove, compiutasi da oltre un secolo, aveva aperto la via ad una simbiosi sociale rinnovatasi con particolare ampiezza tra Sette e Ottocento. In Francia, il modello socio-culturale del Bildungsroman sarebbe apparso irreale: e infatti non vi mise radici. Perché la socializzazione del giovane occupi il centro della grande narrativa francese bisognerò attendere Stendhal e Balzac: e quella, naturalmente, sarà tutta un’altra storia11. Il romanzo di famiglia come ulteriore tentativo di evitare la rivoluzione francese, dunque. Ed infatti il family novel europeo assume una posizione periferica nell’albero genealogico dei generi letterari, ed acquista un senso – ed una centralità all’interno del canone – laddove il Bildungsroman era rimasto cristallizzato nella sua fase classica, ad esempio in Inghilterra o in Germania, o dove non aveva mai avuto uno sviluppo compiuto, come in Italia; o, in termini extraletterari, «in those countries or regions that come to be associated with a peripheral, “belated” 11. F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., pp. 71-72. 125 LORENZO MECOZZI ilariam a e n e i t appar status in the context of (European) modernity»12. E di questa modernità tarda che irrompe, da fuori, nella vita di queste comunità periferiche, il family novel, con la sua natura compromissoria, è la forma simbolica. Dopotutto, secondo Polacco, il romanzo di famiglia è un genere intimamente connesso al divenire storico: E-book o t s e u Q 126 Il romanzo di famiglia affronta un discorso storico anche senza parlare di fatti storici, o magari parlandone solo incidentalmente: ma la vicenda narrata costituisce di per sé una proposta di interpretzione di fenomeni e processi storici di portata epocale (la fine dell’ancien régime e il trionfo della borghesia, lacolonizzazione e la decolonizzazione, l’odissea del popolo ebraico durante la diaspora, le sorti della civiltà post-industriale, e così via); la storia della famiglia diventa allegoria della storia di una comunità – di una nazione, di un popolo, di una civiltà13. Ma perché il romanzo di famiglia emerge come forma simbolica “antirivoluzionaria”? Un’ipotesi è che il family novel, proprio per il suo legame inscindibile con l’istituzione familiare, sia la forma migliore per mostrare i “pericoli” della modernità democratica post-rivoluzionaria, dal momento che, come genere, si sviluppa proprio nel momento in cui si assiste al dissolvimento di ciò che dovrebbe essere al centro del racconto, con il passaggio dalla «famiglia tradizionale alla famiglia nucleare moderna» che ha fatto seguito allo sviluppo della borghesia14. Per questo motivo, il romanzo di famiglia è la forma migliore per mostrare i pericoli della tendenza della modernità ad organizzarsi intorno a quello che Simmel definisce il principio quantitativo, un principio che trasforma legami qualitativi in relazioni numeriche: Finally, despite all appearances to the contrary and all justified criticism, modern times as a whole are characterized throughout by a trend towards empiricism 12. J. Welge, Genealogical fictions: cultural periphery and historical change in the modern novel, Baltimora, Johns Hopkins University Press, 2015, p. 6. 13. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 121-122. 14. Ibid., p. 103. IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA 127 and hence display their innermost relationship to modern democracy in terms of form and sentiment. It would be easy to multiply the examples that illustrate the growing preponderance of the category of quantity over that of quality, or more precisely the tendency to dissolve quality into quantity, to remove the elements more and more from quality, to grant them only specific forms of motion and to interpret everything that is specifically, individually and qualitatively determined as the more or less, the bigger or smaller, the wider or narrower, the more or less frequent of those colourless elements and awarenesses that are only accessible to numerical determination – even though this tendency may never absolutely attain its goal by mortal means15. Il romanzo di famiglia può essere letto, dunque, come un genere che si sviluppa in opposizione all’avvento della modernità “democratica”, fondata su un principio quantitativo che ha nella propria natura la sussunzione di ogni legame qualitativo – e quindi di ogni valore e identità “familiare” – sotto l’egida del calcolo e del numero. Nel romanzo di famiglia, come nel Bildungsroman classico, si tenta, al contrario, un matrimonio tra le categorie della quantità e della qualità, tra individuo e comunità, tra modernità e tradizione. 3. Le nuove forme di un matrimonio impossibile G. Simmel, The Philosophy of Money, New York, Routledge, 1990, p. 300. book 15. to EQues Per comprendere in che modo il romanzo di famiglia eredita la funzione simbolica del Bildungsroman – il suo tentativo di evitare la rivoluzione francese – può essere utile soffermarsi su quei tratti formali che possono mostrare la somiglianza di famiglia tra i due generi romanzeschi. Si tratta di tre aspetti del romanzo di famiglia sottolineati da Marina Polacco (i libri di famiglia, quasi sempre presenti nei family novels; la geografia dei romanzi di famiglia; il policentrismo della narrazione) che, oltre ad essere, almeno in parte, eredità del Bildungroman, rappresentano i segni attraverso i quali prende forma l’idea, impossibile, di un compromesso con la modernità. LORENZO MECOZZI 128 3.1. I libri di famiglia Innanzitutto il ruolo e l’importanza dei libri di famiglia all’interno dei family novels. Come sostiene Marina Polacco, nei libri di famiglia, e quindi nei romanzi di famiglia, «l’individualità è trattata come espressione del gruppo»16. I libri di famiglia hanno la funzione di collocare il soggetto dentro un orizzonte di senso più ampio, di conferire valore all’individualità proprio attraverso la sua appartenenza alla collettività. Ora una citazione dal Romanzo di formazione di Franco Moretti, a proposito del Wilhelm Meister di Goethe: Nell’ultima pagina del settimo libro, Wilhelm scopre che Gli anni di apprendistato di Wilhelm Meister sono una pergamena conservata nella Sala del Passato […] In altri termini, il romanzo che stiamo leggendo è stato scritto dalla Torre per Wilhelm, ed è solo venendone a conoscenza che egli può alfine assumere il pieno possesso della sua vita17. sto Que Dalla pergamena della Società della Torre alle pergamene di Melquíades che raccontano la storia della famiglia Buendia in Cent’anni di solitudine; dal libro di famiglia dei Buddenbrook tanto amato da Tony fino alle storie del Mugnòs di cui Consalvo e Donna Ferdinanda discutono nelle pagine finali dei Viceré: la funzione di questi “dispositivi di senso” è creare una comunità che si fondi su un riconoscimento qualitativo dell’individuo. L’individualità del singolo dipenderà soltanto dall’appartenenza ad una comunità in cui riconoscersi. Eppure, da Goethe a Garcia Márquez qualcosa è cambiato. Mentre le pergamene della Società della Torre, sussumendo l’individualità all’interno di una soggettività più allargata, potevano garantire a Wilhelm il «pieno possesso della sua vita», nei family novels, come ha mostrato Polacco, ciò non è più possibile. Le cronache del Mugnòs, nei Viceré, se lette attentamente, non fanno che mostrare la falsità di ogni pretesa di eccezionalità aristocratica; la linea tracciata da Hanno sul libro di famiglia dei Bud- E-b M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 101. F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. 24. ook 16. 17. art app IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA 129 denbrook sancisce l’ultimo stadio della «decadenza» della sua famiglia; le pergamene di Melquíades altro non sono che la profezia della fine della famiglia Buendia. Nei family novel, i libri di famiglia segnano l’esaurirsi di quella possibilità di senso garantita dall’integrazione tra l’individuo e la società. Le pergamene della società della Torre, che rappresentavano l’happy ending nel Bildungsroman goethiano, nei romanzi di famiglia acquistano il senso opposto. E lo stesso si può dire dell’altra forma di “pergamene”, caratteristiche del Bildungsroman classico: quei patti matrimoniali che nei romanzi di Austen, come ha mostrato Moretti, sanciscono l’happy ending, e che nel corso dell’Ottocento, specialmente nel romanzo di formazione francese, perdono la loro centralità e il loro valore simbolico18. Se in Goethe e in Austen il matrimonio sancisce la pace sociale fra differenti classi, nei romanzi di famiglia i matrimoni rappresentano un tentativo di pacificazione destinato a fallire, trasformandosi nella certificazione della fine di una società in via di dissoluzione. Ma se nei romanzi di famiglia ritorna l’utopia di una perfetta integrazione tra società ed individuo, quali sono gli individui incaricati di ridurre le distanze tra il singolo e la comunità? Prima di rispondere a questa domanda, è necessario parlare della geografia dei nostri romanzi. 3.2. Geografie familiari Nei romanzi di famiglia, scrive Polacco, «all’estensione cronologica corrisponde […] la concentrazione spaziale»19. I romanzi di famiglia possono essere claustrofobici, geograficamente asfissianti. La narrazione si sviluppa quasi per intero all’interno dell’abitazione familiare, luogo simbolico che serve a rappresentare l’ascesa e la caduta della famiglia. Chiunque esca da questi confini spaziali, prosegue Polacco, «esce 18. Se così non fosse, Il rosso e il nero finirebbe con un happy ending dopo il matrimonio di Julien. Ma il romanzo, nonostante il matrimonio, continua, e come ha mostrato Franco Moretti, l’importanza de Il rosso e il nero sta in gran parte in quel «nonostante». Cfr. F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. 131. 19. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 111. Q to ue s E- ppar ti LORENZO MECOZZI Que sto E -boo ka 130 di scena, scompare»20, condannato ad un errare senza meta e senza possibilità di successo. Questa concentrazione spaziale, inoltre, è a sua volta geograficamente situata. Secondo Welge, esiste una precisa correlazione tra narrazioni genealogiche e periferia della modernità: the “peripheral” novels here discussed anticipate not only our current concern with processes of globalization but also our present sense that the “homogenizing force of modernity” is an illusion that has faded in the light of a “plurality of paths toward modernization” and a plurality of temporal worlds21. Nel caso dei romanzi di famiglia italiani, la prima affermazione è più vera della seconda. Uscire dal cronotopo idillico dell’abitazione familiare significa avventurarsi proprio in quelle forze della modernità che cancellano le differenze, annichiliscono l’identità individuale e comunitaria e, molto spesso, impediscono la possibilità del ritorno. Ma dove vanno i personaggi che scelgono di partire? Nei romanzi di famiglia italiani, sembra accadere qualcosa di simile a quanto accadeva nel Bildungsroman. Scrive Franco Moretti: Nello sviluppo del Bildungsroman da Goethe a Flaubert, per contro, la strada piano piano scompare, e il proscenio viene occupato dalle grandi città capitali […] il romanzo di formazione […] sa bene che la grande città è davvero quasi un altro mondo, rispetto al resto del paese, ma al tempo stesso la “lega” una volta per tutte alla provincia, facendone la meta naturale di ogni giovane di talento22. Come nel romanzo di formazione, anche nel romanzo di famiglia «ogni giovane di talento» ha nel proprio destino la capitale23. Ma la sta20. Ibid., p. 114. 21. J. Welge, op. cit., p. 9. 22. F. Moretti, Atlante del romanzo europeo, 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, p. 68. 23. O quanto meno, se non necessariamente la capitale, una di quelle “grandi” città che svolgono la funzione accentratrice che hanno le capitali, uno di quei centri di aggregazione della vita sociale che contribuiscono a creare il senso di appartenenza tipico di quelle «imagined communities» che sono i moderni stati-nazione. Cfr. B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, New York, Verso, 2006. IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA gione francese del romanzo di formazione non è passata invano, e il romanzo di famiglia ne ha ereditato la sfiducia nella possibilità che le grandi città possano offrire una Bildung. Eppure le capitali restano, e allora ha senso chiedersi chi siano questi giovani di talento che ne sono attratti e quale sia l’influenza che le capitali esercitano su di loro. In una parola: le capitali deterritorializzano i soggetti che vi si recano. I giovani che abbandonano la casa paterna per raggiungere la capitale tornano sempre, ma tornano in qualche modo cambiati, e questo cambiamento ha la forma dell’alienazione, dell’impossibilità di reinserimento nella società che hanno lasciato. Questo è quanto avviene ad esempio a Consalvo: Una volta lasciata Catania, Consalvo scopre l’immensità e la molteplicità del mondo moderno attraverso i suoi viaggi nelle varie capitali europee e comprende che tornare in Sicilia non è più possibile («come rassegnarsi a tornare laggiù») e che per vivere altrove è necessario cambiare («essere il primo tra i primi»). Lo stesso accade a Tancredi, che arruolandosi nelle milizie garibaldine dà il via a quel processo di trasformazione che, nelle parole dello “zione”, lo condurrà «a Vienna o a Pietroburgo», dove non ci sarà spazio per il vecchio mondo (sua cugina Concetta) ma dovrà essere affiancato dal nuovo (la giovane Angelica). E che dire del povero ’Ntoni, che lascia Aci Trezza per fare il soldato («il e Qu sto o E-b ok Il principino passò all’estero più presto del tempo stabilito. In paesi stranieri, la maggior ricchezza e autorità della gente della sua casta non lo feriva tanto, ma un altro impaccio lo aspettava: col suo povero e mal digerito francese, si sentì come fuori del mondo a Vienna, a Berlino, a Londra: a Parigi fece sorridere, come in Italia Baldassarre. Ma frattanto la Sicilia, il suo paese nativo, la sua casa dove la considerazione ed il primato d’un tempo lo aspettavano, erano divenuti per lui sempre più piccoli e meschini. Come rassegnarsi a tornare laggiù, dopo aver visto la gran vita nelle grandi città? E come tenere un posto mediocre in una capitale? Bisognava dunque essere il primo tra i primi!24 24. F. De Roberto, I Viceré, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 501. 131 LORENZO MECOZZI 132 frutto di quella rivoluzione di satanasso che avevano fatto collo sciorinare il fazzoletto tricolore dal campanile»25, come commenta il vicario don Giammaria) e dopo l’esperienza napoletana la modernità sembra portarsela addosso come una maledizione, al punto che una sua lettera da Napoli «mise in rivoluzione tutto il vicinato»?26. 3.3. Narrazioni policentriche Prendendo in mano qualsiasi romanzo di famiglia, si devono fare i conti con la proliferazione di storie e di vite che si consuma al suo interno. Come scrive Welge, «the family novel is choral and without a clear center»27: ogni romanzo di famiglia si caratterizza per la apparente mancanza di un centro gravitazionale di senso che non sia, nelle parole di Spinazzola, il «super-personaggio familiare»28. Eppure, dire che un centro non esiste, non è del tutto corretto. All’interno dei romanzi di famiglia ci sono personaggi che, con più forza degli altri, spingono avanti l’azione. Questi, per ovvie ragioni storico-sociologiche, sono spesso proprio i personaggi maschili: i Consalvo, i Lando, i Tancredi. Sono quei giovani che prendono «the way of the world»29. Una volta individuati, il legame con il romanzo di formazione sarà più evidente, come già intuito da Spinazzola: rtie ne a a o k a pp -bo esto E Qu ma io89 g uo ilari am i personaggi giovanili, pur nel loro attivismo, celano un’inquietudine che ne rende problematica l’immagine. […] Per questo aspetto, I Viceré e I vecchi e i giovani assumono l’aspetto del Bildungsroman, nella cura dedicata a seguire […] la formazione […] di Consalvo e Teresina Uzeda come di Lando Laurentano30. 25. G. Verga, I Malavoglia, Torino, Einaudi, 1995, p. 15. 26. Ibid., p. 19. 27. J. Welge, op. cit., p. 43. 28. V. Spinazzola, op. cit., p. 118. 29. Come recita significativamente l’edizione inglese del Romanzo di formazione di Franco Moretti, cfr. F. Moretti, The Way of the World: the Bildungsroman in European Culture, Londra, Verso, 1987. 30. V. Spinazzola, op. cit., p. 13. IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA 133 o st ue Q I Viceré e I vecchi e i giovani assumono l’aspetto del Bildungsroman. È più esatto per De Roberto che per Pirandello, forse, ma vale lo stesso anche per tanti altri family novels. Il Gattopardo, ad esempio, da una parte è il romanzo di Fabrizio, ma dall’altra è la storia di Tancredi. Fabrizio domina il piano del discorso, o dell’intreccio, mentre il piano della narrazione, o della fabula, ruota intorno alle vicende di suo nipote. In questo senso, inteso nella sua intelaiatura di eventi, il Gattopardo è soprattutto la storia del matrimonio tra Tancredi e Angelica. O, che è lo stesso, la storia del tentativo di Tancredi di trovare un posto all’interno dell’Italia postunitaria. Se il Bildungsroman, come sostiene Bachtin, è il genere in cui «l’uomo diviene insieme col mondo, riflette in sé il divenire storico dello stesso mondo»31, le vicende di Consalvo e di Lando rappresentano a loro volta il tentativo degli eredi degli Uzeda e dei Laurentano di essere parte del «divenire del mondo» che caratterizza l’Italia postunitaria. Ciò che differenzia i family novels, però, è che questi tentativi non si esauriscono nell’aspirazione individuale, ma sono sussunti dal desiderio di far divenire, insieme col mondo, il buon nome della famiglia. È in questa dialettica tra individuo e collettività che si gioca il destino del romanzo di famiglia. Nei romanzi di famiglia, questo tentativo di formazione degli eredi maschili si scontra dialetticamente con le vicende della famiglia. Il super-personaggio familiare, che come sostiene Spinazzola, sul piano del discorso, «porta al culmine la tecnica dell’ambivalenza ritrattistica»32, sul piano della fabula ha il ruolo di far emergere le differenti linee di desiderio presenti, innanzitutto, nella famiglia e, se si allarga lo sguardo, nella società nel suo complesso, costringendo i protagonisti maschili a trovare una mediazione, una sintesi. In questo senso, il super-personaggio familiare è una mise en abyme della società stessa, in cui i singoli desideri individuali non possono che portare, se seguiti con devozione, alla rottura del patto sociale. Affinché la famiglia possa divenire insie- ok bo E- e en rti pa ap a io uo m ria ila 89 31. M. Bachtin, Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo, in Idem, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi, 1988, pp. 210-211, citato in F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. XII. 32. V. Spinazzola, op. cit., p. 118. om l.c ai gm 2 134 LORENZO MECOZZI me col mondo, è necessario che i protagonisti maschili possano mediare tra le spinte verso la conservazione delle tradizioni e la società moderna. Così accade nei Viceré, dove Consalvo è costretto ad opporsi al desiderio di donna Ferdinanda nelle ultime pagine del romanzo; così accade nei Vecchi e i giovani, dove Lando deve decidere quale ramo della propria famiglia tradire, e pure nel Gattopardo, che ci presenta Tancredi costretto a deludere sua cugina Concetta, nel tentativo di realizzarsi individualmente e di far sopravvivere la nobiltà nella modernità democratica. Spesso questa dialettica assume proprio i contorni di genere: mentre i personaggi maschili diventano immagine del delicato equilibrio fra «i vecchi tempi ed i nuovi», i personaggi femminili interni alla famiglia come Concetta, donna Ferdinanda, Ursula in Cent’anni di solitudine o la giovane Tony, nei Buddenbrook, sono quelli ai quali è demandata la più alta fedeltà verso il passato e la tradizione. Una fedeltà messa in pericolo dai personaggi femminili esterni alla famiglia, come Angelica nel Gattopardo, Amaranta Ursula in Cent’anni di solitudine o Gerda nei Buddenbrook, figure cariche di una differenza perturbante, il cui ruolo to all’interno del testo è proprio l’essere portatrici di mobilità e cambiaQues mento33. In mezzo, gli eredi maschili, costretti a districarsi tra la forza della tradizione e l’attrattiva della trasformazione. 4. Il trasformismo ontologico della modernità È questa dialettica tra individuo e società, tradizione e trasformazione, la specificità del romanzo di famiglia come forma alternativa a quella del Bildungsroman. Ma in cosa consiste il romanzo di formazione di questi giovani? Nel caso di Consalvo, non ci sono dubbi: Fin quel momento era stato borbonico nell’anima e clericale per conseguenza, quantunque non credente, anzi scettico sulle cose della religione al punto di non andare a sentire la messa: altro capo d’accusa mossogli da 33. Sul tema dell’alterità femminile nel Gattopardo, cfr. D. Duncan, Lifting the Veil: Metaphors of Exclusion in Il Gattopardo, in «Forum for modern language studies», 29, IV, 1993, pp. 323-334. E-b IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA quel bigotto di suo padre. Adesso, per mettersi e riuscire nella nuova via, egli doveva essere liberale e mangiapreti come Mazzarini. Andò tuttavia a visitare lo zio Lodovico34. È la via del trasformismo. Consalvo, dopo aver viaggiato fuori dalla Sicilia scopre i limiti della tradizione in cui ha vissuto, si rende conto delle infinite possibilità che la modernità ha da offrire ed inizia a studiare. Ciò che persegue, però, non è una Bildung, quanto piuttosto l’«essere il primo tra i primi», una forma di sapere mobile in grado di farlo prevalere in qualsiasi contesto, senza costringerlo a credere in nulla. Una forma di sapere che trova la sua manifestazione più alta nelle parole che il giovane erede Uzeda pronuncia al cospetto di donna Ferdinanda: est Qu “Si rammenta Vostra Eccellenza le letture del Mugnòs? […] Gli antichi Uzeda erano commendatori di San Giacomo, ora hanno la commenda della Corona d’Italia. È una cosa diversa, ma non per colpa loro! E Vostra Eccellenza li giudica degeneri! Scusi, perché?” La vecchia non rispose. “Fisicamente, sì; il nostro sangue è impoverito; eppure ciò non impedisce a molti dei nostri di arrivare sani e vegeti all’invidiabile età di Vostra Eccellenza! […] Ma Vostra Eccellenza pensi al passato! Si rammenti quel Blasco Uzeda, ‘cognominato nella lingua siciliana Sciarra, che nel tosco idioma Rissa diremmo’; si rammenti di quell’altro Artale Uzeda, cognominato Sconza, cioè Guasta!… Io e mio padre non siamo andati d’accordo, ed egli mi diseredò; ma il Viceré Ximenes imprigionò suo figlio, lo fece condannare a morte… Vostra Eccellenza vede che sotto qualche aspetto è bene che i tempi siano mutati! […] Io stesso, il giorno che mi proposi di mutar vita, non vissi se non per prepararmi alla nuova. Ma la storia della nostra famiglia è piena di simili conversioni repentine, di simili ostinazioni nel bene e nel male… Io farei veramente divertire Vostra Eccellenza, scrivendole tutta la cronaca contemporanea con lo stile degli antichi autori: Vostra Eccellenza riconoscerebbe subito che il suo giudizio non è esatto. No, la nostra razza non è degenerata: è sempre la stessa”35. ok -bo oE arti app ene o89 uoi riam F. De Roberto, op. cit., p. 504. Ibid., p. 663. a ila 34. 35. 135 LORENZO MECOZZI 136 Questo Le letture del Mugnòs. Il cerchio si chiude: il “libro di famiglia” dei Viceré, invece di sancire il principio qualitativo del mondo premoderno della nobiltà siciliana, diventa una forma di sapere capace di giustificare l’adesione alla logica “quantitativa” della modernità democratica. Studiando, Consalvo scopre la menzogna alla base di ogni idea di nobiltà, smaschera l’accumulazione primitiva di potere che è la vera origine del prestigio feudale e proprio in virtù di questo moderno scollamento tra le parole e le cose, tra il sangue e la nobiltà, si sente legittimato nella propria impresa individuale. Lo stesso accade a Tancredi, la cui qualità maggiore è la capacità di farsi maschera dei desideri altrui e che è il vero e proprio eroe della simpatia, intesa come capacità mimetica («A me raccontano tutto; sanno che io compatisco»36, dice Tancredi riferendosi ai popolani di Donnafugata). Tancredi è l’eroe della modernità perché è individuo di pura forma, privo di contenuto. Se Fabrizio è la figura dell’ironia che osserva senza illusioni il disfarsi del presente, Tancredi vive nel tentativo di assecondare il proprio desiderio mimetico verso la realtà, una realtà sempre in movimento e priva di stelle fisse, che lo renderà, alla fine, un essere vuoto. Solo Lando sembra riuscire a non farsi travolgere dalla mutevolezza del reale, ma ciononostante non potrà che apparire agli altri come un «Amleto al cimitero»37, simbolo della crisi metafisica del presente, dell’indecisione, dell’individuo scisso, incapace di agire. E la via del trasformismo, ci insegna Moretti, era stata la via intrapresa dai grandi eroi del Bildungsroman francese – dai Julien, dai Lucien, dai Frédéric. Inizialmente mossi da alti ideali, una volta giunti nel cuore della modernità i protagonisti dei romanzi di formazione moderni cadono vittima della natura continuamente cangiante della modernità e finiscono con il soccombere, lungo la strada verso il successo, a quella soggettività priva di contenuto ideale che è la soggettività del trasformista. In questo senso, il trasformismo politico dei Viceré e del Gattopardo non è da intendersi soltanto nella sua realtà storica. Al contrario, è esattamente l’elemento sensibile che dà forma, appunto, al E-book riamuoi ne a ila appartie G. Tomasi di Lampedusa, Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 89. L. Pirandello, I vecchi e i giovani, Milano, Garzanti, 2008, p. 434. a o89 gm 36. 37. IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA Qu e sto trasformismo ontologico che è l’essenza stessa della modernità. Inteso come mancanza di una dimensione ideale o valoriale in grado di dare senso alla Bildung dell’individuo, il trasformismo è l’epifenomeno di una più generale impossibilità di un orizzonte di senso38. Così, sebbene Consalvo e Tancredi, almeno, abbiano un happy ending – l’elezione, il matrimonio – questo happy ending è tale solo sul piano formale. Sul piano della sostanza, il romanzo di famiglia italiano, rappresenta il tentativo impossibile di tenere in vita l’eredità del romanzo di formazione: sembra sancire l’impossibilità di una Bildung all’interno dell’eterno «divenire del mondo» moderno. 5. Un genere in bilico tra stasi e trasformazione e rtie n pa ka p o -bo E Qual è la ragione ultima di questi tentativi di Bildung? Lo spiega Tancredi, il più moderno dei nostri eroi: trovare un posto nel mondo e agire affinché tutto cambi perché tutto possa restare com’è. Il romanzo di famiglia come opposizione di stasi e trasformazione. O meglio, opposizione di classificazione e trasformazione, i due aspetti che distinguono il Bildungsroman classico dal romanzo di formazione francese. Ancora Moretti: Sotto il dominio della classificazione [che comprende secondo Moretti il romanzo familiare “della tradizione inglese” ed il Bildungsroman classico] un racconto ha tanto più senso quanto più radicalmente riesce a sopprimersi in quanto racconto. Sotto il segno della trasformazione – come nel filone Stendhal-Puskin, e in quello che porta da Balzac a Flaubert – è vero il contrario: ciò che conferisce senso al racconto è la sua “narratività”, il suo essere un processo open-ended39. Il romanzo di famiglia si presenta come tentativo di una dialettica tra il principio di classificazione ed il principio di trasformazione. Sotto 38. La stessa mancanza di senso che caratterizza la «fine dell’esperienza» della Bildung di Thomas nei Buddenbrook. Cfr. M. Polacco, La costruzione della memoria: il racconto delle generazioni e la «fine dell’esperienza», in «Compar(a)ison», 1-2, 2005, p. 41-48. 39. F. Moretti, Il romanzo di formazione, cit., p. 8. 137 138 LORENZO MECOZZI il dominio della classificazione, ricadono le candidature politiche ed i matrimoni dei protagonisti maschili, sotto il dominio della trasformazione, la Bildung necessaria affinché quelle ipotesi di senso siano possibili nel nuovo mondo. Ma questa Bildung – che dovrebbe preparare, attraverso la trasformazione, al momento classificatorio finale – è sempre destinata a fallire. Da una parte, morto Tancredi, nelle ultime pagine del Gattopardo troviamo l’una di fronte all’altra Concetta ed Angelica, stasi e trasformazione, incapaci, come è prevedibile, di comunicare. Dall’altra parte, Lando e Consalvo diventano emblemi del trasformismo politico, ed il testo si chiude senza che il loro successo garantisca loro la possibilità dell’azione o il potere. In questo modo, il romanzo di famiglia si presenta come il genere della sintesi impossibile di due principi tra loro contraddittori. Se ciò accade, è perché, in quanto forma, il romanzo di famiglia si sviluppa alla periferia della modernità, laddove la rivoluzione borghese e la modernità sono percepite come forze estranee, distruttrici dell’ordine sociale. Il romanzo di famiglia come genere profondamente antiborghese, quindi, che di norma guarda alla realtà dai due estremi del continuum sociale, le classi popolari e l’aristocrazia, e che cerca di frenare l’avanzare delle forze omologanti della modernità. Un genere in bilico tra classificazione e trasformazione, o meglio, un genere che cerca di inglobare la trasformazione del presente all’interno del proprio anelito fuori tempo alla classificazione. Un tentativo, però, destinato a fallire, e che sembra suggerire che sotto la spinta omogeneizzante della modernità tutte le famiglie infelici, in fondo, sono infelici allo stesso modo. Ques IL GENERE CADETTO. IL ROMANZO DI FAMIGLIA COME FORMA SIMBOLICA 139 Anderson B., (2006), Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, New York, Verso. sto e Qu Bibliografia E- ok bo Bachtin M., (1988), Il romanzo di educazione e il suo significato nella storia del realismo, in M. Bachtin, L’autore e l’eroe, Torino, Einaudi. rtie pa ap Baldini A., (2016), Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 71/72. ne Castle G., (2006), Reading the Modernist Bildungsroman, Gainesville, University Press of Florida. lar ai De Roberto F., (2011), I Viceré, Milano, Feltrinelli. uo iam Duncan D., (1993), Lifting the Veil: Metaphors of Exclusion in Il Gattopardo, in «Forum for modern language studies», 29, 4. 9g io8 Ercolino S., (2014), The Novel-Essay: 1884-1947, New York, Palgrave Macmillan. il.c ma Graham S. (a cura di), (2019), A History of the Bildungsroman, Cambridge, Cambridge University Press. om Moretti F., (1994), Opere mondo: saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi. 28 12 20 Moretti F., (1997), Atlante del romanzo europeo, 1800-1900, Torino, Einaudi. Moretti F., (1999), Il romanzo di formazione, Torino, Einaudi. 09 22 -1 Pirandello L., (2008), I vecchi e i giovani, Milano, Garzanti. 08 3- Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13. -8 09 Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang. 6jd j7 h9 rd 3- 42 Simmel G., (1990), The Philosophy of Money, New York, Routledge. 140 LORENZO MECOZZI Spinazzola V., (1990), Il romanzo antistorico, Roma, Editori Riuniti. Tomasi di Lampedusa G., (2013), Il Gattopardo, Milano, Feltrinelli. Verga G., (1995), I Malavoglia, Torino, Einaudi. Welge J., (2015), Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern Novel, Baltimora, Johns Hopkins University Press. o m c ail. io g 89 ia o mu e a n rtie k Qu to es E o -bo p ap lar i a e Qu I Buddenbrook nelle terre dei Viceré. Sul romanzo di famiglia a partire da Paolo il caldo sto E-b Luca Danti pp ka oo ien art 1. Le forme dell’incompiutezza ea Il 7 giugno ’53, su «Epoca lettere», Brancati annotava: «Scrivo I Castorini. Ho cominciato con un programma di felicità, e mi sembra che stia riuscendo il mio libro più triste»1. Doveva essere Il gallo non ha cantato ed è stato Il bell’Antonio (1949)2; doveva essere I Castorini ed è stato Paolo il caldo (1955). Mentre il primo cambio di titolo fu suggerito da Longanesi, il secondo, Brancati sembra l’abbia deciso da solo, quasi a voler rendere omogeneo l’ultimo atto della «trilogia del gallismo»3 ai primi due, Don Giovanni in Sicilia (1941) e il citato Bell’Antonio, entrambi intitolati al personaggio principale. In realtà, Paolo il caldo, pubblicato incompiuto e postumo, non avrebbe dovuto concludere nulla, anzi avrebbe dovuto inaugurare un ciclo, dalla fisionomia quanto meno composita, dedicato ai Siciliani. Composita perché, oltre al romanzo che conosciamo, dove- il.c ma 9g io8 uo iam ilar om 20 23 -12 09 28 12 1. V. Brancati, Diario romano, in Idem, Opere 1947-1954, L. Sciascia (a cura di), Milano, Bompiani, 1992, p. 611. La lezione del Diario romano – «Scrivo Castorini» ‒ va emendata – «Scrivo I Castorini» ‒ sulla base dell’articolo originale, cfr. R.M. Monastra, Al di là del gallismo: temi e forme in Paolo il caldo, in Eadem, L’isola e l’immaginario. Sicilie e siciliani del Novecento, Soveria Mannelli, Rubbettino, 1998, p. 199, nota 17. Si veda anche M. Schilirò, Narciso in Sicilia. Lo spazio autobiografico nell’opera di Vitaliano Brancati, Napoli, Liguori, 2001, p. 210. 2. Cfr. R.M. Monastra, Il romanzo come «cronaca»: a proposito del Bell’Antonio, in Eadem, L’isola e l’immaginario, cit., p. 189. 3. Cfr. P.M. Sipala, Vitaliano Brancati. Introduzione e guida allo studio dell’opera brancatiana, Firenze, Le Monnier, 1978, pp. 67-81. -08 09 23 -84 LUCA DANTI va comprendere, secondo il progetto descritto a Bompiani, i ricordi dell’adolescenza dell’autore, la «storia di alcuni egoisti» e «la Fine di un dongiovanni»4. Il passaggio dal primo titolo a quello definitivo illustra la tensione che informa l’opera: quella tra “i Castorini”, cioè i retaggi familiari, e Paolo, cioè il singolo che da quei retaggi cerca disperatamente di affrancarsi. Il tentativo naufragherà nella nevrosi e tale scacco dell’affrancamento dalla famiglia fa di Paolo il caldo, almeno nelle premesse, un Familienroman, giusta la definizione di Freud5. L’ultimo romanzo di Brancati ha un indiscusso protagonista e il titolo prescelto dà conto di questo elemento, ma quello scartato testimonia di un originario romanzo di famiglia che sopravvive all’interno del testo licenziato, ancorché mancante di due capitoli e di una revisione complessiva. La storia dei Castorini si “riduce” alla storia di Paolo e la presenza di un protagonista eponimo attenua la coralità dell’opera, anche per il fatto che tale protagonista è “centrifugo” rispetto alla famiglia. Nel Family novel, come scrive Polacco, «allo spazio chiuso del mondo familiare non c’è scampo», «fuori [dal “mondo familiare”] non c’è storia, o per lo meno non c’è romanzo»6: delle peregrinazioni di Raimondo e del Grand Tour di Consalvo nei Viceré (1894), così come dei “viaggi d’affari” di Christian nei Buddenbrook (1901), non si sa niente e, in ogni caso, non sono mai raccontati “in presa diretta”, ma attraverso le lettere spedite a casa o i ricordi dei personaggi. La permanenza di Paolo a Roma, che esclude dal racconto le vicende dei Castorini a Catania, è al centro dei primi tre capitoli della seconda parte e degli unici due capitoli della terza, e si configura come la riedizione del viaggio Que 142 sto E-b ook app arti ene a ila riam uoio 89 gm ail.c om 4. La lettera del 2 agosto ’52 si legge in G. D’Ina, G. Zaccaria (a cura di), Caro Bompiani. Lettere con l’editore, Milano, Bompiani, 1988, p. 361. Cfr. M. Schilirò, Narciso in Sicilia, cit., pp. 4-5. 5. «L’emancipazione dall’autorità dei genitori dell’individuo che cresce è uno degli esiti più necessari, ma anche più dolorosi, dello sviluppo. […] Vi è una sorta di nevrotici la cui condizione è chiaramente determinata dal fatto di essere falliti in questo compito», S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in in C.L. Musatti (a cura di), Opere. 1905-1908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, 1972, p. 471. 6. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, p. 114. 201 228 0 I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ 143 del provinciale nella metropoli, topos indiscusso della narrativa di formazione7. Una spiccata mobilità del punto di vista si impone là dove l’Ur-Paolo il caldo ha resistito, ovvero durante il pranzo in famiglia, nel colloquio tra Paolo e il padre Michele, nell’agonia di Michele e nel ritorno di Paolo da Roma a Catania per la malattia della madre. Nella prima parte – dal secondo al quinto capitolo – e nel quarto capitolo della seconda parte, i vari componenti della famiglia occupano la scena e prendono la parola subissando Paolo, confermando il nesso, evidenziato da Baldini, tra romanzo di famiglia e «narrazione multiprospettica»8. Paolo il caldo, però, non è solo un romanzo: il primo capitolo della prima parte è un’introduzione che, nella forma della pagina di diario9, avrebbe dovuto anticipare il récit d’enfance destinato al secondo volume dei Siciliani; inoltre, Brancati dà corpo in Paolo a «qualche [sua] vergognosa immaginazione»10, rendendo il romanzo lo «sfogo per liberare i mostri dell’inconscio, ma anche, proprio per la riflessione che lo contraddistingue, la cura»11. L’introduzione è legata al resto della narrazione, poiché essa presenta alcuni dei motivi, volendo Leitmotiv12, sviluppati nel romanzo: il dibattito sull’engagement, la degenerazione della sensualità in lussuria, l’apprensione e l’ossessione per la morte. Anche il romanzo “vero e proprio” non è ascrivibile a un unico sottogenere; ha osservato Monastra: «Irraggiando verso le “confessione” e la saga familiare, il saggio e la forma negativa del romanzo di forma- 7. Cfr. F. Moretti, Atlante del romanzo europeo 1800-1900, Torino, Einaudi, 1997, pp. 68-74. 8. A. Baldini, Il Gattopardo di Lampedusa come saga familiare: realismo modernista ed erosione dell’orizzonte della famiglia patriarcale, in «Allegoria», 26, 70/71, 2016, p. 51. 9. Si tratta della rielaborazione di una lettera del 23 giugno ’52 di Brancati alla moglie, utile per datare l’inizio della gestazione del romanzo, cfr. V. Brancati, A. Proclemer, Lettere da un matrimonio, Milano, Rizzoli, 1978, pp. 190-191. 10. V. Brancati, Paolo il caldo, A. Di Grado (a cura di), Milano, Mondadori, 2001, p. 22. Nelle prossime citazioni, mi limiterò a indicare a testo il numero di pagina tra parentesi. 11. F. Spera, Vitaliano Brancati, Milano, Mursia, 1981, p. 177. 12. Cfr. A. Guarnieri Corazzol, Tristano, mio Tristano. Gli scrittori italiani e il caso Wagner, Bologna, il Mulino, 1988, pp. 321-329. e Qu -1 09 ea ilar iam uo io8 9g ma il.c om zione, Paolo il caldo […] ci appare un’ardimentosa summa»13. La componente saggistica è soprattutto riflessione sull’arte e la letteratura: Paolo è anche uno scrittore mancato e Paolo il caldo è anche un Künstlerroman mancato, ovvero l’aborto di una vocazione letteraria. Non è da escludere che questo profilo ibrido sia da attribuire all’intenzione primigenia di scrivere I Castorini, dal momento che cifra formale del romanzo di famiglia è proprio la «capacità di mescolare generi e modalità narrative diverse», di essere «un romanzo-saggio, un saggio sulla forma-romanzo»14. Un siffatto statuto, riconoscibile e fluido, agevola fenomeni di ibridismo, come accade nelle memorie familiari15; la possibilità di contaminazione tra scritture dell’Io e romanzo di famiglia fu intuita dallo stesso Brancati, che ne ha lasciato traccia nel primo capitolo di Paolo il caldo. 20 12 28 LUCA DANTI ien 2. La «famiglia marcia»16 dei Buddenbrook oE -bo ok a pp art I precedenti riferimenti ai Viceré e ai Buddenbrook sono giustificati alla luce del rinnovato interesse di Brancati per De Roberto nel secondo dopoguerra17, e dalla lettura dell’opera di esordio di Mann all’inizio della composizione di Paolo il caldo18. L’influenza dei Buddenbrook è ammessa da Brancati, il quale, avendo aperto il cantiere della sua ultima opera all’inizio dell’estate del est 13. R.M. Monastra, Al di là del gallismo, cit., p. 203. 14. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., pp. 115-116. 15. Cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in Eadem, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia / Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 7-17. 16. T. Mann, I Buddenbrook. Decadenza di una famiglia, Milano, Mondadori, 2016, p. 699. 17. Quando Brancati, nell’incipit dell’articolo su «Epoca lettere», definisce I Castorini «il mio libro più triste» riecheggia la nota lettera di De Roberto a Di Giorgi del 7 marzo 1891, sui Viceré: «È un libro così triste che, dopo avere scritto metà del primo capitolo, la paura mi ha arrestato», cit. in A. Navarria, Federico De Roberto. La vita e l’opera, Catania, Giannotta, 1974, p. 264. 18. La manifestazione della stima intellettuale per il Mann degli scritti politici è in sostanza coeva alla rivalutazione di De Roberto, come dimostra un pezzo inserito nel Diario romano e datato marzo 1947, cfr. V. Brancati, Diario romano, cit., pp. 361-363. A tal proposito si veda F. Spera, op. cit., pp. 159-160, 178, nota 10. Qu 144 I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ ’52, lesse quello che definì «il più bel romanzo di Mann», entro la fine di settembre dello stesso anno19. Il 29 settembre Brancati scrive alla moglie: Ieri, finendo di leggere le mille pagine dei Buddenbrook […] ho avuto un dispiacere. Non so se ti ricordi che di un mio personaggio ho scritto che si liberava della sua sensualità prima quasi di averla avvertita ecc. ecc. con molte altre minuzie. Ebbene, proprio sulla fine dei Buddenbrook (poteva davvero risparmiarselo), Mann aggiunge su un personaggio, che aveva già abbondantemente descritto, la notazione che nella vita non aveva mai molto sofferto perché non aveva tenuto nulla dentro ecc. Pazienza! I grandi sono fatti per disturbare i piccoli20. Il personaggio di Brancati, cui si allude, è Marietta, la madre di Paolo: «da questi gesti ella liquidava fulmineamente tutti i suoi possibili peccati […]. Ella si liberava delle passioni prima di averle sentite» (p. 50). Per quanto riguarda la cronologia di composizione, dalla lettera ricaviamo che, alla fine di settembre, Brancati aveva già scritto almeno l’inizio del terzo capitolo della prima parte, che lo aveva condiviso con la moglie e che stesura del nuovo romanzo e lettura di Mann hanno proceduto per un periodo in parallelo. Il titolo I Castorini, in fondo, ricalca I Buddenbrook21, e anche quella narrata da Brancati è la storia della «decadenza di una famiglia». Non a caso quando lo scrittore di Lubecca fa la sua comparsa come personaggio nel salotto letterario di casa Ippolito22, assistiamo al trionfo di un critico supponente: «fece ritorno il professor Della Rovere stupidamente felice perché Mann aveva ammesso di essere un decadente» (p. 167). È chiaro che ad essere «stupidamente felice» è la reazione Quest o 19. V. Brancati, A. Proclemer, op. cit., pp. 198, 199. 20. Ibid., p. 199. 21. Cfr. R.M. Monastra, Al di là del gallismo, cit., p. 199, nota 17. 22. Thomas Mann soggiornò a Roma nell’aprile del ’53 anche per ricevere il premio “Antonio Feltrinelli” all’Accademia dei Lincei, cfr. I.B. Jonas, Thomas Mann and Italy (1969), Alabama, The University of Alabama Press, 1979, pp. 6-8. Fra gli autori italiani che risentirono dell’influenza di Mann, Jonas non nomina Brancati, cfr. ibid., pp. 115-130. 145 E-bo LUCA DANTI del professore, non il tono né la sostanza dell’autodefinizione dello scrittore23. Marietta viene affiancata a Tony Buddenbrook24, tuttavia la sensualità debordante e sempre sublimata di Marietta ha poco a che fare con gli sfoghi, dovuti all’orgoglio mortificato, di Tony; quella tra i due personaggi, accomunati da una discreta dose di civetteria ed edonismo spicciolo, è una somiglianza che non giunge in profondità. Dietro la facciata del paradosso – «I grandi sono fatti per disturbare i piccoli» –, Brancati riconosce che la lettura di Mann lo ha condizionato fino all’imitazione involontaria; è possibile pertanto che il «braccialetto tintinnante sul polso della figlia di un terriero» (p. 7), che compare nel primo capitolo di Paolo il caldo, sia il monile di Elizabeth, la mamma di Tony, discendente di una famiglia dalle «tendenze feudali»: «tendeva verso il marito la bella mano al cui polso tintinnava piano anche ora un braccialetto d’oro»25. Il confronto tra Tony e la mamma di Paolo offre un’altra indicazione indiretta, dal momento che il terzo capitolo della prima parte, quello del pranzo in casa Castorini, si rifà alla prima parte dei Buddenbrook, dove si narra il pranzo in casa del vecchio Johann II. Il pranzo in famiglia è una delle costanti tematiche del Family novel26 e delle memorie familiari27, senza contare che è in questa sequenza che si accenna al “lessico familiare” dei Castorini28, essenzialmente legato al personaggio di Marietta: «era ormai nel vocabolario della famiglia, era il chiodo di Venezia, in una frase indissolubile come una parola sola» (p. 51). 23. Sull’intero capitolo si veda W. Sahlfeld, Già un siciliano complicato… La sfera pubblica letteraria nel romanzo italiano del primo Novecento (Pirandello, Rosso di San Secondo, Brancati, Patti), Bern, Lang, 2001, pp. 271-287. 24. Cfr. T. Mann, op. cit., p. 631. 25. Ibid., pp. 54, 56. Il Leitmotiv del braccialetto che tintinna sempre più piano, man a mano che Elizabeth invecchia, ritorna alle pp. 7, 91, 169, 496. 26. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., pp. 117-118. 27. Cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, cit., pp. 11-15. 28. Cfr. ibid., p. 11. Qu es 146 I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ 147 Il pranzo con ospiti dei Buddenbrook è amplificato fino al grottesco in quello di Paolo il caldo: in casa di Johann II si mangiano «cibi buoni e pesanti» accompagnati da «vini altrettanto buoni e pesanti»29, ma dai Castorini all’iperbole gastronomica delle portate si associa l’esagerazione dell’appetito – non solo alimentare –, cosicché l’inappetenza (di Michele) o la sazietà (del marchese Carandola) risultano inconcepibili, sulla falsariga della novella pirandelliana Un invito a tavola (1902). Anche per quanto riguarda l’intrattenimento postprandiale, si passa dalla «piccola melodia, limpida, aggraziata» del flauto di Johann II30, relitto dell’eleganza rococò, alla canzone d’operetta, accompagnata alla chitarra dal nonno di Paolo: «Il canto divenne ancora una volta un urlo generale» (p. 66). La tavola è il «luogo del conflitto tra le generazioni, fisiologico e necessario allo sviluppo della personalità dei figli»31: nei Buddenbrook, tutt’al più si può parlare di una divergenza di opinioni tra Johann II, che difende gli studi umanistici, e Johann III, che approva l’impulso dato agli studi tecnici dalla monarchia di Luigi Filippo; in Paolo il caldo, invece, l’attualità politica, ovvero il “pericolo comunista” alla vigilia della marcia su Roma, offre lo spunto per un’accesa discussione tra il vecchio barone Paolo, collerico alfiere dei privilegi aristocratici, e il figlio Michele, mansueto, razionale e inesorabile contraddittore delle certezze paterne. Nel corso del pranzo dai Buddenbrook, il secondogenito di Johann III ed Elizabeth, Christian, vittima di una piccola indigestione, affermartiene ppa a che preconizza ripetutamente di accusare «una nausea dannata»32, il o k o -b l’ipocondria che lo consumerà una volta Uomo d’affari inetto, sto E ueadulto. Q amante della vita agiata e delle attricette, Christian è il personaggio che più ha influenzato Brancati, poiché in esso la rovina fisica, psichica e morale si fa esplicita. Di fronte ai primi comportamenti da viveur di Christian, il padre reagisce prendendosela con la famiglia della moglie 29. T. Mann, op. cit., p. 25. 30. Ibid., p. 32. 31. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, cit., p. 14. 32. T. Mann, op. cit., p. 30. a ila 33. 34. Ibid., p. 77. Ibid., p. 661. st ue Q e la passione per i lussi: «Sarà felice [il padre di Elizabeth] che il suo sangue sconsiderato e le sue empie inclinazioni non sopravvivano solo in Justus [fratello di Elizabeth], il… suitier, ma a quanto pare anche in uno dei suoi nipoti… […] Non se ne rende conto, no; ma l’inclinazione viene fuori! L’inclinazione è quella!…»33. Il motivo del sangue tarato che trasmette comportamenti devianti e (auto)distruttivi, è una delle ossessioni su cui è costruito Paolo il caldo che, sotto questo aspetto, come vedremo, si rivela debitore non tanto dei Buddenbrook quanto dei Viceré. Dopo il ricovero per reumatismi, Christian si fissa sui processi del proprio corpo: «si passava la mano sul fianco sinistro, sembrava che rivolgesse l’orecchio dentro di sé, dove succedeva qualcosa di strano» (p. 424); l’auscultazione ossessiva del fisico caratterizzerà anche lo zio di Paolo, Edmondo, nel corso di una vecchiaia ossessionata dal pensiero della morte: «Non ero più in grado di percepire il piccolo sventolio di una veste che passava giù in strada, ma sentii ben altro. […] Sentii l’interno del mio corpo» (p. 211). Il rovello di Christian ha un epilogo prevedibile: «Idee fisse e ossessioni inquietanti si erano ripetute sempre più spesso e per iniziativa della moglie e di un medico era stato ricoverato in una casa di cura»34. Anche i Castorini – il vecchio barone, Edmondo e Luigi, il fratello di Paolo –, dopo una vita consacrata ai piaceri della carne, quando la carne comincia a imputridire, sono attanagliati da una paura incontrollabile che li conduce all’ebetudine. A questa condanna all’alienazione mentale cerca di sottrarsi il protagonista: «Paolo promise a se stesso di estirpare quella smorfia [vista sul volto dello zio] dalle proprie labbra, sperando con ciò di bruciare alla radice una sua possibile incipiente idiozia» (p. 209). In un altro appunto del ’53, Brancati scrive: «Riletto alcuni racconti di Thomas Mann. Mirabile e pomposa arte funeraria. Il periodo è una tomba trasparente attraverso la quale vediamo scolorarsi e decomporsi la potenza terrena, la bellezza, la ricchezza ecc. L’opulenza, il barocco o LUCA DANTI 148 I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ e il diabolico, connaturali al gusto sepolcrale, trionfano già nel primo romanzo del venticinquenne Mann»35. Potrebbero essere le parole di un critico su Paolo il caldo36: Brancati, non solo si è ispirato al primo romanzo di Mann, ma, affiancando la lettura alla composizione, ha proiettato sull’opera del «venticinquenne Mann» alcuni dei tratti di quella che sarebbe stata la sua ultima fatica. Nei Buddenbrook, con la malattia di Antoinette, la moglie di Johann II, la morte entra nella casa come «qualcosa di nuovo, di estraneo, di straordinario»37, come se la sua presenza fino a quel momento fosse stata volutamente ignorata. In Paolo il caldo, leggiamo qualcosa di simile quando il protagonista si trova di fronte il telegramma che gli annuncia che la madre è malata terminale: «La morte di nuovo a casa sua, dopo tanti anni!» (p. 200): dopo il suicidio di Michele, il pensiero della morte era stato rimosso dai personaggi. In realtà, il tema ferale accompagna tutta la narrazione ‒ come la serie delle agonie e dei decessi in casa Buddenbrook a partire dalla scomparsa di Antoinette – e s’insinua nelle pagine dove dovrebbe trionfare la pienezza vitale: nel secondo capitolo, nel bel mezzo di una gara di masturbazione fra adolescenti, si colloca la prolessi sul trapasso per infarto di uno dei partecipanti; nel terzo capitolo, durante il banchetto, di un pesce della frittura si dice che giace nel piatto «col silenzio dei cadaveri che hanno trascorso in silenzio anche la vita» (p. 62). Dopo la descrizione della triglia, il taboo della morte viene infranto per due volte dal cavalier Mazzaglia, il quale è redarguito da Marietta: «Lei ha sempre codesta brutta parola sulle labbra […] come tutti i longevi, del resto» (p. 65). Il vecchio barone, dal canto suo, spera di morire all’improvviso, magari «a letto con una donna» (p. 66), invece finirà per rinchiudersi in soffitta «per farsi dimenticare dalla morte» (p. 227) e di lui non si saprà più nulla. o es t u Q 35. V. Brancati, Diario romano, cit., p. 612. 36. Ciò vale, ad esempio, per il «barocco»: il modo di ragionare di Paolo viene definito «barocco», la sua stessa mente appare «barocca» (p. 275). Senza contare che sul barocchismo dello stile, Brancati riflette a proposito degli scritti di Borgese, nel pezzo, datato settembre 1954, che conclude il Diario romano, cfr. V. Brancati, Diario romano, cit., p. 632. Sul «diabolico» in Paolo il caldo, mi permetto di rinviare al mio Le migliori gioventù. I periferici e la sessualità nella narrativa italiana del secondo dopoguerra, Firenze, Cesati, 2018, pp. 158-161. 37. T. Mann, op. cit., p. 64. 149 E- k bo o a ap p 150 LUCA DANTI Il terrore della morte diventa fobia in Edmondo, il quale, avendo trascorso la vita cercando unicamente di soddisfare le proprie voglie, crede di non aver vissuto a sufficienza: «I pensieri sono con me, li devo ancora sviluppare… E così i sentimenti, e i desideri: li devo ancora appagare! Io non sono affatto sazio di vita, comincio appena ora ad assaporarla!» (p. 212). In Edmondo vengono ripresi alcuni tratti di Elizabeth, la quale, anziana e ammalata di polmonite, amava ancora muo e a ilaria mangiare bene,E-bo vestirsiok lussuosamente, ostentare il proprio bonio89 ton, appartien Questo compiacersi della carriera del figlio Thomas: «No, l’anziana vedova del console sentiva che in realtà, nonostante la vita cristiana degli ultimi anni, non era pronta a morire»38. L’attaccamento di Elizabeth all’esistenza si rivela nella «sconcertante espressione di invidia» con la quale osserva i familiari sani al suo capezzale39; in Edmondo, il panico dovuto a un male probabile ma non reale, si combina con un esasperato egoismo e viene esternato in parole deliranti: «Il malato sono io, qui! Il vero malato, qui, sono io! Hai capito?… Gli altri stanno tutti bene, anche se hanno un tumore, perché un tumore è come una sveglia che ci si legge sopra quando suonerà, mentre io, con la mia stanchezza, posso morire ora, subito, mentre ti parlo» (p. 208). 3. La «razza putrida e schifosa»40 degli Uzeda Nel 1929 Brancati aveva discusso una tesi su De Roberto, nella quale riconosceva il primato della produzione novellistica su quella del romanziere; circa vent’anni dopo, questa gerarchia viene ripensata, come testimoniano due articoli spesso citati: Un letterato d’altri tempi e Scrupoli d’altri tempi, pubblicati sul «Tempo» il 18 dicembre 1947 e il 2 agosto 194841. In questi articoli, non solo Brancati prende le distanze dal sé giovane che esultava dei pretesi fallimenti del la- 38. Ibid., p. 529. 39. Ibid., p. 533. 40. F. De Roberto, I Viceré, L. Lunari (a cura di), Milano, Feltrinelli, 2018, p. 287. 41. Un letterato d’altri tempi era già apparso, col titolo La caramella di De Roberto, su «Oggi» il 20 luglio 1940. gmail. I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ voro certosino di De Roberto nella narrativa lunga42, ma ricorda De Roberto come «lo scrittore dei Viceré»43, tralasciando le altre opere44. Sull’influenza dei Viceré e dell’Imperio (1929) sul Bell’Antonio e su Paolo il caldo ‒ scandito in tre parti che avrebbero avuto un numero uguale di capitoli come I Viceré ‒, ha scritto pagine fondamentali Perrone, la quale evidenzia, fra l’altro, che la saga degli Uzeda è stata determinante nella scelta dei personaggi dell’ultimo romanzo di Brancati, ossia nel propiziare «il passaggio dai piccolo-borghesi catanesi agli aristocratici Castorini, dagli insignificanti uomini comuni agli eccessivi e sanguigni parenti di Paolo e poi all’eterogenea folla […] degli ambienti romani»45. Riallacciamoci all’ossessione mortuaria di Edmondo, che provoca la declinazione in chiave esorcizzante di un altro topos del romanzo di famiglia, quello della galleria dei ritratti46: «Dopo aver attraversato due grandi stanze, affollate di immagini sacre e di morti, davanti alle quali gli occhi di Edmondo gonfi e lucidi come quelli di un imbavagliato, esprimevano la sofferenza di non poter lanciare i soliti baci propiziatori, zio e nipote giunsero nello studio» (p. 205). Il topos è accennato en passant, non serve né a celebrare il passato, né a rappresentare la decadenza della stirpe ‒ come invece accade nei Viceré47 ‒, ma anticipa l’ossessione a sfondo religioso di Maria, la sorella di Paolo, che, immobilizzata dal suo quintale e mezzo, vive in una stanza rivestita di immaginette sacre. Anche Luigi, il fratello di Paolo, quasi prigioniero del 42. Cfr. V. Brancati, Un letterato d’altri tempi, in Idem, Il borghese e l’immensità. Scritti 1930-1954, S. De Feo, G.A. Cibotto (a cura di), Milano, Bompiani, 1973, p. 224. 43. V. Brancati, Scrupoli d’altri tempi, in Idem, Il borghese e l’immensità, cit., p. 269. 44. Nella tesi, invece, si leggeva: «Un primo grande malinteso balza dalla frase corrente, colla quale De Roberto è chiamato “l’autore dei Viceré”, che dovrebbe essere sostituita dall’altra, “l’autore dei Processi verbali”», V. Brancati, De Roberto e dintorni, R. Verdirame (a cura di), Catania, Tringale, 1988, pp. 13-14. 45. D. Perrone, Vitaliano Brancati. Le avventure morali e i ʻpiaceriʼ della scrittura, Caltanissetta-Roma, Sciascia, 2003, p. 158. Su De Roberto negli ultimi due romanzi di Brancati, cfr. ibid., pp. 131-132, 154-159. 46. Per altri accenni ai ritratti dei Castorini, cfr. V. Brancati, Paolo il caldo, cit., pp. 30, 52. 47. Cfr. F. De Roberto, I Viceré, cit., pp. 126-127. 151 p Questo E-book a ne a i o E-bo suo palazzotto fatiscente, consuma i giorni identici l’uno all’altro in una routine da ebete. Il ritorno a Catania serve a Paolo per specchiarsi nel suo futuro, vale da monito per cambiare vita: «Io rischio di diventare un idiota, e non voglio diventare un idiota!» (p. 223). Non dissimili erano stati i timori di Consalvo, alla vigilia della sua ascesa politica, dopo la morte prematura del padre: «Pensava impaurito a quel male terribile che un giorno avrebbe potuto rodere, distruggere il suo proprio corpo in quel momento pieno di vita»48; un male che poteva essere accompagnato dalla demenza, l’«oscuro pericolo che pesava su tutta la gente della sua razza»49. Se Paolo pensa alla conversione per sottrarsi al destino della race, Consalvo sa di assomigliare agli Uzeda per quanto riguarda l’arrogante spirito di casta, ma sa di essere diverso da loro perché capace di disporre lucidamente della propria versatile intelligenza; ciò gli consente, dopo il trionfo elettorale, di superare i comportamenti misofobici, senza smarrirsi nella monomania: «si stringeva addosso a tutte le persone, guarito interamente, come per incanto, dalla manìa dell’isolamento e dei contagi»50. Gli altri Uzeda sono tutti dei fissati: la superstizione del principe Giacomo, la stravaganza di Ferdinando il Babbeo51, il «misticismo isterico» di Teresa52, prefigurano le derive mentali di Edmondo, Luigi e Maria. Esiste, dunque, una seconda matrice letteraria della pazzia che incombe sui Castorini: essa non discende solo dal côté più “aristocratico” di casa Buddenbrook e, in particolare, da Christian, ma dalla stirpe degli Uzeda, concittadina della famiglia di Paolo53. ok ap partie LUCA DANTI Quest 152 48. Ibid., p. 608. 49. Ibid. 50. Ibid., p. 656. 51. Ferdinando attraversa anche una breve parentesi ipocondriaca, di ascolto ossessivo della propria fisiologia: «egli si teneva l’altra [mano] sul cuore per verificarne il numero dei battiti, o si palpava dappertutto con lo spavento di scoprire i tumori, gli incordamenti, le infiammazioni di cui parlavano i medici», ibid., p. 370. 52. Ibid., p. 638. 53. Cfr. A. Di Grado, Il viaggiatore in fondo alla notte era forse Dio?, introd. a Brancati, Paolo il caldo, cit., p. X. Ciò non significa escludere altri modelli letterari: Schilirò ha dimostrato I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ Nella casa dei Viceré, nota Polacco, «la pazzia […] non ha nulla a che vedere con la patologia: è, in sintesi, desiderio sfrenato e prepotente di dominare e di godere»; e più avanti: «Marginali sono le spie a prima vista più appariscenti e, in primo luogo, le continue allusioni alla “razza”, alla teoria dell’ereditarietà e alla “pazzia” considerata come una degenerazione di famiglia»54. Se da una parte bisogna concordare sul fatto che spesso gli Uzeda risultano pazzi, l’uno agli occhi dell’altro, se con ostinazione cercano di far valere una consuetudine vecchia di secoli, oppure, se con identica cocciutaggine, violano una tradizione dell’Ancien regime55, dall’altra non si può trascurare il fatto che alcuni membri della famiglia finiscono come alienati mentali ‒ Ferdinando, fra’ Carmelo, Eugenio, la Badessa, lo stesso principe Giacomo… per tacere del ramo dei Radalì ‒ e che, proprio le «spie […] più appariscenti», possano aver influenzato la ricezione brancatiana. Il nesso tra sangue malato e trasmissione ereditaria di comportamenti maniacali che sfociano nella follia, è derobertiano56 e di ma- ea n rtie a pp a ok -bo oE est Qu che il ritorno in famiglia di Paolo è esemplato anche sul ritorno a Guardiagrele di Giorgio nel Trionfo della morte (1894) di d’Annunzio, un altro soggiorno nella città natale che diventa confronto con «le tare di una famiglia che vive di una sensualità incontrollata», M. Schilirò, L’“infinito vaniloquio”. La satira dannunziana in Singolare avventura di Francesco Maria di Brancati, in «Siculorum Gymnasium», 48, 1/2, 1995, p. 493. 54. M. Polacco, I Viceré (1894), in F. Bertoni, D. Giglioli (a cura di), Quindici episodi del romanzo italiano (1881-1923), Bologna, Pendragon, 1999, pp. 164, 168 nota 6. 55. Si veda, ad esempio, ciò che osserva G. Pedullà a proposito di donna Teresa Uzeda e di don Blasco, cfr. G. Pedullà, Uzeda! La politica spiegata da Federico De Roberto, introd. a Federico De Roberto, L’imperio, Milano, Garzanti, 2019, pp. 55, 96-97. 56. Come risulta dal confronto delle seguenti occorrenze: nei Viceré, a proposito della bellezza di Raimondo, si accenna alla «reviviscenza delle vecchie cellule del nobile sangue», in Paolo il caldo, Edmondo dice al nipote che «su tutto il [suo] sangue galleggiano cellule morte» (p. 211); nei Viceré, durante l’intervento del principe Giacomo, «una goccia del putrido sangue [cade] sulla mano scalfita dell’assistente», in Paolo il caldo, Michele morente ribadisce a Paolo che «il [suo] sangue è stato scelto goccia a goccia nella parte infetta del suo [del vecchio barone] organismo» (p. 100); nei Viceré, nel corso dell’agonia del principe, si nota che «il sangue avvelenato incancreniva a poco a poco tutto il suo corpo», in Paolo il caldo, a proposito della circolazione di Maria si legge: «quel cuore che mandava […] rivoli di sangue […] ricevendolo poi di ritorno da punti lontanissimi asfissiato da veleni di ogni sorta» (p. 224). In entrambi i romanzi, poi, compaiono case chiazzate del sangue di due suicidi: quello di Giovannino nei Viceré ‒ «nella casa macchiata dal sangue del fratello» ‒, quello di Michele in Paolo il caldo ‒ «sulla soglia, ancora un’altra macchia» (p. 92). Le citazioni dai Viceré sono tratte da F. De Roberto, I Viceré, cit., pp. 127, 598, 602, 616 (corsivi miei). 153 ia ilar il 89 154 io uo a gm iam LUCA DANTI e en ar a il i trice naturalistica57, e opera arlat riunificazione dell’albero genealogico p dei Rougon-Macquart, ap«una famiglia a due rami, […] il primo votato k 58 alla degenerazione oo morale e il secondo alla degenerazione fisica» . b Nel secondo capitolo della prima parte, secondo le convenzioni del o Edi famiglia, abbiamo una «presentazione di “gruppo”»59 t romanzo s ue tre generazioni maschili dei Castorini – il barone Paolo, lo zio Qdelle Edmondo, Paolo e Luigi – accomunate dalla stessa eccessiva sensualità, che si snatura in lussuria e li predispone alla pazzia. L’ingresso di Michele, l’anello che non tiene, è ritardato al terzo capitolo: la sottomissione dantesca della ragione al talento, e cioè il deterioramento delle facoltà più elevate dell’essere umano60, salta un componente della generazione di mezzo e si ripresenta in Paolo, anche in forza del temperamento materno. Tuttavia il sangue malato non risparmia nemmeno Michele, il quale resta intrappolato in una sorta di double bind: a causa della sifilide che affliggeva il padre quando lo concepì, Michele si vede debole, frigido e perciò gli viene precluso il godimento delle gioie razionali; d’altra parte, però, proprio la lue paterna sembra avergli evitato la condanna alla lussuria: «Io sono come quei portatori di microbi che non hanno la malattia che trasmettono» (p. 72). La via alla felicità è interdetta: la conversione di Paolo, accelerata dalla lettura del diario del padre, che rimpiazza il libro di famiglia, non poteva risolversi positivamente, dal momento che anche l’ultimo dei Castorini sottostà a «un destino preconfigurato dagli avi»61. 57. Cfr. P.M. Sipala, op. cit., p. 76. Per l’influenza naturalistica legata al tema della pazzia anche nel Bell’Antonio, cfr. M. Schilirò, Tempo del privato e tempo della storia. Il XII capitolo del Bell’Antonio, in M. Tropea (a cura di), La Letteratura la Storia il Romanzo, Caltanissetta, Lussografica, 1998, pp. 255-256. 58. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, p. 629. 59. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 118. 60. Cfr. S. Zarcone, La carne e la noia. La narrativa di Vitaliano Brancati, Palermo, Novecento, 1991, pp. 131-133. 61. S. Calabrese, op. cit., p. 627. I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ 155 4. Le forme della decadenza Qu Le tre generazioni dei Castorini ‒ tre come quelle dei Viceré – agiscono in un arco di tempo che va dal 1914, con temporanei arretramenti al 1902 e al 1903, ai primi anni Cinquanta. Il tempo della storia è caratterizzato dall’avanzamento “rapsodico” tipico del romanzo di famiglia; infatti, in Paolo il caldo si susseguono episodi slegati (anche brevissimi) del ’14, del ’21, del ’22, del ’35, del ’36, del ’39, del ’48, del ’50 e così via62. Nonostante siano anni cruciali per l’Italia e l’Europa, i fatti che occupano la narrazione riguardano la quotidianità e il privato di Paolo e dei Castorini. Anche nelle opere di De Roberto e Mann, gli eventi storici vengono raccontati sub specie familiae e ciò comporta una rappresentazione scorciata della storia ufficiale: si pensi all’Unità d’Italia o alla presa di Roma come vengono narrate nei Viceré oppure ai moti del ʼ48 a Lubecca come vengono narrati nei Buddenbrook. Questo abbassamento di tono si radicalizza in Paolo il caldo, dove gli accenni alla Storia si rarefanno: sono pochi e cursori i riferimenti al comunismo nell’entre deux guerres, a Mussolini, alla Seconda Guerra Mondiale e ai bombardamenti di Catania, liquidati in neanche mezzo paragrafo. Più di metà romanzo è dedicata alla maturità di Paolo e agli anni del secondo dopoguerra, non solo perché l’erotomania isola il protagonista dalla Storia e funziona da filtro/distorsore di ciò che lo circonda, ma perché è l’attualità che interessa Brancati63. Anche in questo Paolo il caldo è allineato con il genere del Family novel che «attraverso le vicende della famiglia protagonista […] rappresenta e giudica un’intera epoca storica» e «affronta un discorso storico anche senza parlare di fatti storici»64. In quest’ottica, il tema della malattia altro non è se non la mise en abyme di una necrosi che trascende i confini della singola famiglia e si -bo oE est ok ene arti app uoi riam a ila m2 il.co a gm o89 012 62. Cfr. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 110. 63. Mi permetto di rinviare al mio Semantica della torre d’avorio nelle opere di Vitaliano Brancati, in «Le forme e la storia», 10, 1, 2017, pp. 169-184; 181-183. 64. M. Polacco, Romanzi di famiglia, cit., p. 121. 280 22 9-1 LUCA DANTI fa «dissoluzione di un mondo»65, di quella provincia siciliana che, per quanto ambiguamente raffigurata, almeno in Don Giovanni in Sicilia, aveva costituito l’alternativa alla metropoli attivistica e fascista: in Paolo il caldo, «il mito prediletto da Brancati, quello di una provincia a misura umana, […] si sfalda del tutto, e irrimediabilmente. La provincia è luogo di sopraffazione e abbrutimento»66. La corruzione fisiologica fa tutt’uno con Catania: lì vivono e muoiono tutti i Castorini, e la tara, seguendo le vie del sangue, perseguita chi si è allontanato. Il legame non rescindibile tra i personaggi di Brancati e la terra dei padri è ripreso anche da Schilirò che osserva: «gli eterni adolescenti brancatiani possono soltanto abitare lo spazio della provincia, cioè della famiglia e della immutabilità dei destini […]. A loro non è toccato, come ai personaggi del romanzo ottocentesco […], di perdere la loro condizione filiale in favore dell’autonomia e del dinamismo dei giovani»67, nonostante l’esperienza della metropoli. Ritorniamo alle radici del Familienroman, alla mancata «emancipazione dall’autorità dei genitori», che è contemporaneamente fra i presupposti delle anti-educazioni à la manière de Flaubert68, del Bildungsroman fallimentare, dal momento che il romanzo di famiglia funziona da “negativo” del romanzo di formazione. La grande città è uno spazio mitizzato dai provinciali, ma non è mai rappresentata da Brancati come un’opzione positiva rispetto alla 65. Ibid., p. 122. 66. R.M. Monastra, Immagini di provincia nella narrativa di Brancati, in Eadem, L’isola e l’immaginario, cit., p. 179. Sulle trasformazioni e le ambivalenze della provincia brancatiana, si può vedere anche il mio Le migliori gioventù, cit., pp. 164-167. 67. M. Schilirò, Narciso in Sicilia, cit., p. 151. 68. Mentre sta scrivendo con grande fatica Paolo il caldo, Brancati legge anche L’Éducation sentimentale (1869) e la lettura acuisce la crisi creativa: «Il male è che al mondo esistano genî come Flaubert», V. Brancati, A. Proclemer, op. cit., pp. 195-196. Sulla difficile gestazione di Paolo il caldo si vedano anche le lettere del 4 e 11 ottobre ’52 e del 19 giugno ’53, cfr. ibid., pp. 200-201, 205, 209. Nella lettera del 4 ottobre, inoltre, si trova un’interessante conferma di ciò che si è osservato sulla provincia siciliana in Brancati: «Al tempo del fascismo, vedevo questa terra come la patria del buonsenso e della ragione. […] Ma oggi le cose sono cambiate, e al confronto di una vera civiltà, la mia povera Isola diventa sede di una calma e leggermente paurosa follia senile», ibid., p. 201. La «follia senile» di cui sono vittime i Castorini. Qu es to E- bo ok ap pa rtie ne ai lar iam 156 I BUDDENBROOK NELLE TERRE DEI VICERÉ provincia; meno che mai in Paolo il caldo, dove la capitale si riduce al demi-monde intellettualoide e vizioso di casa Ippolito e ai baraccati delle borgate, entrambi “riserve di caccia” della lussuria del baroncino Paolo69. È più corretto sostenere che, nell’ultimo romanzo di Brancati, l’ombra della grande città si allunga sulla provincia e la omologa alla propria corruzione, delineando un nichilistico livellamento, portato del pessimismo metastorico derobertiano70. In Paolo il caldo l’interferenza tra sottogeneri letterari ‒ romanzo di famiglia e romanzo di formazione ‒ è anche interferenza tra gli spazi caratterizzanti quei sottogeneri letterari ‒ la provincia e la grande città: ne risulta perciò che, assimilandosi alla metropoli, lo spazio della comunità viene sacrificato allo spazio dell’individualismo; al contempo, però, il retaggio della provincia/famiglia, alla stregua di un cordone ombelicale mal reciso, impedisce a Paolo la crescita personale nella grande città, e così il Bildungsroman viene sacrificato alla logica della coazione a ripetere fino al declino tipica del family novel. Questo E-book 69. La lussuria interclassista di Paolo permette un ultimo parallelismo tra il baroncino Castorini e Consalvo Uzeda, il quale, per bieco opportunismo, pur restando intimamente un borbonico reazionario, «era divenuto democratico e progressista, promettendo di sedere a sinistra, di dare perfino una mano ai socialisti», F. De Roberto, L’imperio, cit., p. 234. Anche Paolo ammanta l’indole del prevaricatore libertino usurpando il credo progressista: «non aveva avuto ritegno a regalarsi la qualifica di socialista [...] per questa sua inclinazione verso le donne povere e malvestite, quasi si trattasse di solidarietà con gli umili, e non invece di un antico morbo contratto forse dai suoi antenati nell’esercizio di un privilegio verso le loro contadine» (p. 268). 70. Sulla lezione di Leopardi e Schopenhauer nei Viceré, cfr. M. Polacco, I Viceré, cit., pp. 169-174. 157 158 LUCA DANTI Bibliografia Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in Eadem, E. 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Sono ricordi che riaffiorano alla sua memoria dopo tanti anni di oblio, in concomitanza con il nostos alle origini familiari, al viaggio verso l’Andalusia, la patria materna (il «ritorno indietro nello spazio» è anche un «ritorno indietro nel tempo»; A, p. 362)1. La matrice teorica freudiana entro cui essi sono stati concepiti e devono essere interpretati si può dedurre dalle metafore di cui talora l’io narrante si avvale per descriverne la dinamica. Un solo esempio. A proposito della sua «impresa “partigiana”», definita «comica» con il senno del poi, ma vissuta in modo drammatico quando aveva solo dodici anni, un episodio che improvvisamente gli è tornato alla memoria, Manuele commenta: «Per più di trent’anni, essa è rimasta sotterrata nella piccola, brumosa necropoli di certe mie esperienze infantili» (A, p. 193). Più volte Freud era ricorso alla similitudine tra l’apparato psichico e una città sepolta2. Ma si badi che Morante, per bocca del suo «alibi» canuto, parla qui precisamente di a ap p e rti en a i m l a r ia uo i o 89 a gm m il.c o 0 -0 8 1 2 23 8 0 9- 2 2 0 12 1. E. Morante, Aracoeli, Torino, Einaudi, 2015 (d’ora in poi A). A proposito di Aracoeli, Giovanna Rosa parla dell’antagonismo tra «due tipologie narrative forti: il racconto di viaggio, in una Bildung all’inverso, e il Familienroman modellato sul paradigma centripeto delle relazioni parentali». Cfr. G. Rosa, Cattedrali di carta, Milano, Net, 1995, p. 309. 2. Si veda ad esempio questo brano di Costruzione nell’analisi: «Il suo [dell’analista] lavoro di costruzione o, se si preferisce, di ricostruzione, rivela un’ampia concordanza con 162 IVAN PUPO «necropoli», di una città sotterranea abitata da morti, larve e fantasmi, e che coerentemente ci presenta i «ritorni inaspettati» delle «memorie perdute» attraverso l’immagine di un abbeveramento nelle acque della «Restituzione», il fiume gemello dell’Oblio (cfr. A, p. 193), parente stretto, si potrebbe aggiungere, dell’Acheronte virgiliano citato da Freud nell’epigrafe all’Interpretazione dei sogni. La conferma che abbiamo a che fare con un viaggio-catabasi ci viene dal manoscritto, nelle note in cui si parla del romanzo andaluso come della «discesa di Orfeo agli inferi» (non per nulla ad un certo punto Manuele raccomanda a se stesso di non «voltarsi indietro»)3. Si capisce forse meglio, alla luce di queste premesse, la terribile immagine che perseguita Manuele nelle sue visioni e che fa da cornice al libro (ci si imbatte in essa sulle soglie del viaggio, e poi, alla fine, nel racconto della vecchia grassa): le bombe che cadono sul Verano, il cimitero del quartiere di S. Lorenzo a Roma, a mezzogiorno del 19 luglio 1943, scoperchiando molti sepolcri, tra cui quello di Aracoeli, e la fuga terrorizzata di quest’ultima, sporca di sangue, tra una foresta di fumo e d’incendio. È una scena uscita dalla storia tragica del Novecento, ma che pure ha un suo versante spettrale. È proprio in relazione a quest’ultimo che se ne coglie appieno il significato simbolico: Manuele quarantatreenne non ha ancora messo una pietra sopra la sua sanguinosa infanzia, il suo inconscio vi rimane ossessivamente fissato; il fantasma della madre uccisa non ancora trentenne da un male incurabile esce dalla tomba, perché il figlio sopravvissuto non ha ancora elaborato il lutto (cfr. A, pp. 7 e 379). Si aggiungano altre due considerazioni: l’immagine dei «sepolcri scoperchiati» nel cimitero del Verano fa quella dell’archeologo che dissotterra una città distrutta e sepolta o un antico edificio». Cfr. S. Freud, Opere, vol. XI. L’uomo Mosè e la religione monoteistica e altri scritti 1930-1938, Torino, Bollati Boringhieri, 2016, p. 543. Per una ricognizione di tutte le occorrenze di questa similitudine archeologica nell’opera di Freud cfr. M. Lavagetto, Freud la letteratura e altro, Torino, Einaudi, 1985, pp. 181-191. 3. «Perché la promessa finale si adempia, io “non devo più voltarmi indietro”» (A, p. 146). Nel manoscritto di Aracoeli, custodito presso la Biblioteca nazionale di Roma, si leggono alcuni riferimenti al mito di Orfeo: «N. B. Orfeo e nelle favole non voltarsi. Non lasciarsi tentare […] Devo arrivare a El Almendral senza badare ai vivi – non lasciarmi tentare più» (Vitt. Em. 1621/B1, c. 141v); «Significati – La discesa di Orfeo agli inferi» (Vitt. Em. 1621/ B3, c. 83). Questo E-book a ppartiene a ilaria muoio89 gmail.c om UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ 163 pensare alla nozione di «cripta» elaborata da Nicolas Abraham e Maria Török, vera e propria tomba nella psiche, dove sono custoditi, come dei Qu fantasmi, i segreti (e i traumi) di famiglia4; c’è un “prima” e un “dopo” est nella storia collettiva della nazione e nel vissuto esistenziale di Manuele o che tendono a coincidere5. Manuele recupera ricordi traumatici collocabili nel «breve corso della sua vita in famiglia» (A, p. 4), sino alla soglia dei sette anni, cioè fino all’«ultima estate della sua infanzia» (A, p. 28), quando muore sua madre Aracoeli. Significative sono però anche le incursioni nella prima adolescenza, pure essa costellata di episodi traumatici. Si tengano presenti le “villeggiature”, prima e dopo la morte di Aracoeli, a casa dei nonni paterni, le «Statue Parlanti» che con il metro di una rigida disciplina giudicano il ragazzo loro ospite un “barbaro” degno di sua madre e per di più lo fanno sentire una «femminella», un povero animaluccio spaurito, agli antipodi rispetto all’«idealità virile» e all’onore militare incarnati dal figlio Eugenio, il padre di Manuele, ufficiale della Regia marina italiana (cfr. A, p. 356). Né si trascurino le fughe dal collegio piemontese, a 12 e a 13 anni, quando ha ormai perso anche i nonni: l’avventura pseudo-partigiana di cui si è già detto e che solo a ricordarla lo ferisce ancora, a distanza di decenni; l’ultimo incontro con il padre gonfio di sbronze nel suo fetente domicilio, un’ultima volta che lo fa «rivoltare di schifo» (A, p. 382), salvo poi rivelargli un amore inaspettato, una struggente tenerezza filiale che capovolge l’augurio di morte in guerra formulato qualche anno prima6. È certo comunque che le ferite adolescenziali non incidono profondamente quanto quelle dell’infanzia. Nella storia di Manuele, soggetto 4. Per la psicogenealogia, analisi transgenerazionale delle vicende familiari, i fatti traumatici che hanno segnato la storia familiare rischiano di ossessionare i discendenti se non escono dalla «cripta» in cui sono stati rinchiusi. Cfr. N. Abraham, M. Török, L’écorce et le noyau, Paris, Flammarion, 1987. 5. Secondo Sergio Zatti i «traumi epocali della guerra radicalizzano le cesure nella percezione delle storie individuali». Cfr. S. Zatti, Morfologia del racconto d’infanzia, in S. Brugnolo (a cura di), Il ricordo d’infanzia nelle letterature del Novecento, Pisa, Pacini, 2012, p. 31. 6. «Di mio padre, non provavo nessuna pietà, anzi rancore e antipatia. Mi sorpresi addirittura a desiderare che una prossima guerra lo uccidesse» (A, p. 351). E-b o art p ap k oo b E IVAN PUPO to «disturbato di nervi» (A, p. 123), contano innanzitutto i traumi legati alla figura materna, rinnovanti di volta in volta quella «prima separazione» che Otto Rank ha identificato con il trauma della nascita7. Non l’Edipo dunque – più di una volta Manuele dichiara di non aver mai sofferto di gelosia per il padre – ma l’angoscia preedipica del distacco dal ventre materno, la separazione originaria, si porrebbe come il nocciolo duro del male che affligge l’ultimo protagonista morantiano. Nel singolare processo che si celebra nello spazio interno alla sua psiche, a proposito del legame con la madre, la Difesa mette in guardia l’Uditorio dal ricascare nel «comune schema edipico», aggiungendo che il caso in questione «non si adatta a nessuno schema prefisso» (A, p. 134), ma in verità avrebbe dovuto concedere la deroga almeno per la tesi di Rank (chiaramente implicata, se non allusa). Mettiamo ora tra parentesi la questione della rivalità edipica negata8, e inseguiamo per un po’ l’ombra lunga della separazione originaria. Dopo la simbiosi paradisiaca delle 1400 giornate “clandestine” di Totetaco – una «congiunzione inseparabile» e pienamente paga di sé, a tal punto che il bambino non sente affatto il bisogno di un padre, né si pone in alcun modo la questione della paternità – il piccolo Manuele deve affrontare, fin dal primo approdo ai Quartieri Alti, l’ardua prova del dormire da solo, la camera matrimoniale essendo riservata ad Aracoeli e al suo sposo. La madre gli spiega che lo impone la «legge della famiglia» voluta da Dio. Da quel momento la «religione adulta delle nozze» lo tiene riguardosamente a distanza dalla camera dei genitori (cfr. A, pp. 158 e 279)9. La connotazione sacrilega della es u Q 164 7. «…E indietro, ancora più indietro nel tempo. Il 4 novembre di 43 anni fa, ore tre pomeridiane. È il giorno e l’ora della mia nascita, mia prima separazione da lei, quando mani estranee mi strappano dalla sua vagina per espormi alla loro offesa […] Vivere significa: l’esperienza della separazione: e io devo averlo imparato fino da quel 4 novembre, col primo gesto delle mie mani, che fu di annaspare in cerca di lei» (A, p. 20). L’esperienza di cui qui Manuele si fa portavoce va letta con gli strumenti offerti in O. Rank, Il trauma della nascita, Carnago, Sugarco, 1990. 8. Questa negazione è sospetta perché Manuele, come si è già detto, almeno in un punto del suo racconto, arriva a confessare un suo desiderio parricida. 9. Per l’efficacia sul piccolo Manuele degli ammonimenti materni, si veda il seguente brano: «Perfino in assenza di mio padre, io non potevo passarne la soglia [della camera matrimoniale] UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ catastrofe familiare nell’estate del 1939 acquista risalto anche dal fatto che la “scena primaria” (in senso freudiano) cui assiste Manuele, successiva all’esplosione della ninfomania materna, si svolge fuori dalla «sacra clausura nuziale», in qualche profana «stanza di passaggio» dove il ragazzo sorprende per caso la coppia allacciata nel «ballo angelico» (A, p. 279). Manuele porterà sempre nelle orecchie il ritmo di una sessualità coniugale blasfema, irrispettosa della legge sacra della famiglia voluta da Dio (oltre che del pudore della prima Aracoeli). Di assoluto rilievo è poi l’episodio della visita oculistica e dell’acquisto delle prime lenti da miope. Siamo al secondo anno nella nuova casa, Manuele ha cinque anni. È in questa occasione che per la prima volta la genitrice lo vede brutto. Più che brutto, addirittura deforme, se il narratore parla di «pollice oscuro e maligno» che cominciava a «deformare senza rimedio» lo «stampo primitivo del suo viso» (A, p. 203). Trauma del rifiuto materno, “figura” in senso auerbachiano del destino di Manuele, ma anche brutto colpo per Aracoeli, inizio del suo invecchiamento (si potrebbe persino dire che già a quest’altezza risale l’incubazione della malattia)10. Tante le tracce del corpo mostruoso disseminate nel romanzo. Ecco un elenco di quelle che si lasciano ricondurre a Manuele: gli «scherzi ottici» cui all’aeroporto madrileno devono sottostare i suoi occhi affetti da forte miopia, sprovvisti di lenti (le «immagini storpie» di un «film dell’orrore»: una «signora obesa con due teste», «individui che al posto della faccia hanno una proboscide»; A, p. 26); la battuta sprezzante al processo dei finti partigiani secondo se non con un riguardo speciale, misto d’insicurezza e di ardimento, alla maniera di uno che avanza verso un trono» (A, p. 159). 10. Acuta quest’osservazione di Stefano Brugnolo: «Il protagonista ce lo presenta come un ricordo originario ma non c’è dubbio che la scrittrice ce lo presenta come un ricordo di copertura», nel senso che l’episodio in sé insignificante «“copre” l’esperienza fondamentale della perdita dell’amor materno». D’altra parte la «sensazione di essere rifiutati a causa della propria bruttezza copre a sua volta la sensazione di essere rifiutati perché non si è più infanti, perché si sta crescendo e questo risulta insopportabile (brutto) alla madre». Nello stesso saggio da cui si sta citando si legge l’intelligente assunto: il «ricordo d’infanzia […] si costituisce come la “figura” del destino individuale». Cfr. S. Brugnolo, Alcuni influssi freudiani sul tema letterario del ricordo infantile, in S. Brugnolo (a cura di), Il ricordo d’infanzia del Novecento, cit., pp. 368 e 355. 165 -b Qu e E o t s 11. «I soli suoi beneficati conosciuti da lei di persona erano gli ospiti di una Casa della Beata Fratellanza o simile, che ricoverava i nati di donna più abnormi e scempi, da sembrare prodotti di una follia cosmica» (A, p. 355). 12. «Segnato da Dio, non accostarti»: queste le parole che Anna Massia rivolge in Menzogna e sortilegio al marito Francesco De Salvi, riferendosi agli sfregi del vaiolo che ne deturpano il viso, stigma del suo destino di uomo «solo in un mondo ostile». Per questa condizione di disadattamento alla vita, il «butterato» del primo romanzo morantiano prefigura senz’altro l’antieroe di Aracoeli. es cui egli sarebbe un «vecchio nano travestito» da «pischello» (A, p. 183); il risalto concesso, nel disegno andaluso della Crocifissione, al ladrone buono con il quale il viaggiatore si identica (un «difforme omiciattolo contorto, coi piedi e le mani simili a zampe d’anitra»; A, p. 147); il pipistrello, «sorta di mostriciattolo» (A, p. 251), nel cartone animato che lo fa piangere fortissimo perché parla di lui; infine l’invito inequivocabile rivolto alla madre di accogliere la sua «deformità», di rimangiarselo, come le «gatte coi loro piccoli nati male» (A, p. 127). Insomma, sono le stigmate del freak, dei «nati di donna più abnormi e scempi» – simili a quelli beneficati dalla nonna paterna11 – del “segnato da Dio” (quindi della stessa razza di Francesco De Salvi)12, del fenomeno da baraccone (il protagonista dichiara ad un certo punto di essere una «sagoma da tiro a segno»; A, p. 127) che, facendolo sentire in colpa, gli alienano precocemente l’affetto materno, per poi rendere ridicola ogni sua pretesa di ricostruirsi, da orfano, di là dal perduto amore, un «nido normale» (A, p. 29). Le circostanze in cui gli è permesso di godersi la gioia di un «figlietto suo» (A, p. 110) – il sogno ad occhi aperti in età scolare e poi l’imprevisto di una notte al collegio durante l’adolescenza – ribadiscono il complesso di inferiorità del «paria» e la sua condanna all’esclusione dal modello di famiglia che la società borghese, al tempo del fascismo, riteneva fosse normale. Sulla scena dell’immaginazione, al tempo della prima pubertà, il «figlietto» è un «sosia gnomo», quindi a ben guardare ancora una volta un nano travestito da pischello, chiamato a riprodurre la deformità del genitore, con il vantaggio per quest’ultimo che almeno il suo doppio in miniatura «non lo tratterebbe da brutto» (A, p. 75). Al collegio il «figlietto» si chiama Pennati e fin dal cognome contribuisce a rafforzare t IVAN PUPO Qu 166 UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ 167 la posizione centrale che il mondo animale occupa nel romanzo (faccio mia una giusta osservazione di Concetta D’Angeli)13: «il suo fiatino e i miei respiri» – si legge ad un certo punto – «scaldavano insieme la nostra cuccia» (A, p. 107); e non molte righe dopo: Maternità, non c’era altro nome per quella mia stranezza. Io ero una madre col proprio figlio piccolo. Però la nostra appartenenza alla specie umana non era necessaria. Piuttosto, io mi ero trasformato in una animalessa (pecora, mucca, rondine, cagna) che proteggeva il suo cucciolo dall’orrore della società umana. (A, p. 107) o st ue Q L’influenza di Saba su questa metamorfosi mi sembra fuori discussione, come pure la possibilità di leggerla in chiave queer, partendo dal presupposto dell’androginia di Manuele ai tempi di Totetaco. Ma qui si vuole sottolineare un altro aspetto dell’episodio: il fatto che Pennati scelga quella “madre” avventizia e si fissi su di essa, reagendo ad una situazione di stimolo della durata di pochi attimi (un incrocio di sguardi e un saluto reciproco a cena). Alla strana intimità della notte collegiale presiede la dinamica dell’imprinting, Lorenz avendo qui la meglio su Freud. D’altra parte, l’etologia, forse ancor meglio della psicoanalisi, delle «scienze positive dell’anima» (A, p. 117), potrebbe spiegare la «pulsione disperata» che spinge l’orfano a inseguire Aracoeli, la staffetta celeste che verso El Almendral lo precede «in volo ma pure immobile» (cfr. A, pp. 7 e 23). Ed è d’altra parte sempre l’imprinting della reazione di inseguimento che consente a Manuele di mettere a fuoco per contrasto il suo «corpo disorientato», non solo in campo amoroso (il che equivale a riconoscersi come creatura troppo presto scacciata dal «paradiso […] della ninna»)14. Dopo aver evocato l’«istinto primario» che porta un rondinotto a «seguire il volo collettivo verso l’Africa» o una «giovane anguilla a risalire con le altre […] il corso dei fiumi», Manuele ok bo E- e en rti pa ap a ila 13. Cfr. C. D’Angeli, Leggere Elsa Morante. “Aracoeli”, “La Storia” e “Il mondo salvato dai ragazzini”, Roma, Carocci, 2003, pp. 39-42. 14. El Almendral è l’unica stazione terrestre capace di indicare una direzione al «corpo disorientato» (A, p. 10) di Manuele. Per quest’ultimo Aracoeli-Manuel costituisce il «paradiso serrano della ninna e della gloria» (A, p. 195). 168 IVAN PUPO si paragona ad un cucciolo che «brancola dietro allo stormo già distante da lui: dibattendosi agli incroci e incapace di leggere i segnali» (A, p. 75). Il linguaggio metaforico si mantiene coerente lungo tutto il romanzo. Si tratta dello stesso «animale bastardo» che «appena cucciolo portarono via dal suo covo», sicché non gli resta che rifare «tutto il cammino all’indietro» (A, p. 10), affidandosi ai «suoi sensi acuti», ovvero all’«istinto della stalla» (A, p. 323). Nella storia familiare che si racconta in Aracoeli i segreti non contano meno dei traumi. In alcuni casi gli uni si intrecciano agli altri, perché è il codice della reticenza a fare, per così dire, da filtro al trauma, a e mediarlo agli occhi di Manuele e di sua madre. D’altra parte il segreto tien r a di famiglia ha sempre avuto un ruolo molto importante nei a romanzi pp di k o qui a due Morante. Il discorso da farsi sarebbe molto lungo, b olimito - mimorte E soli esempi: in Menzogna e sortilegio Elisa parla della dei genitori to s e come di un «enigma» da questi lasciatole Qu in eredità; nell’Isola di Arturo il misterioso Wilhelm relega la fotografia della propria madre in un cassetto, e poi in un «nascondiglio ancora più nero», facendo in tal modo della nonna tedesca di Arturo una figura del rimosso familiare. Nell’ultimo romanzo morantiano il segreto si accampa fin dalle prime pagine. Sull’esistenza prenuziale di Aracoeli vige una sorta di «onorabile segreto di stato» (A, p. 4) gelosamente custodito dal marito e da zia Monda. Manuele intuisce, sulla base di pettegolezzi della servitù, che quanto gli si presenta come un «grande Arcano» è in realtà un «piccolo scheletro nell’armadio» (A, p. 30): la notevole disparità di classe fra i suoi genitori, ovvero le umili origini della madre, povera contadinella andalusa di cui si era innamorato nientemeno che un ufficiale della Regia Marina. I pregiudizi borghesi portano zia Monda a evitare l’argomento, quasi si trattasse di una vergognosa «malattia ereditaria» (A, p. 31). Lo sprezzo snobistico con cui zia Monda guarda al passato andaluso della cognata – un atteggiamento che condiziona pesantemente il comportamento di quest’ultima dopo il matrimonio – getta luce sulla funzione metaforica della malattia che la fa da padrona nell’ultima parte del romanzo: è come se, ostentandone i sintomi, la madre di Manuele rivendicasse le proprie origini barbare, non ne avesse più vergogna, manifestando tutto il suo disagio della civiltà borghese (oltre a vendicar- r a ila UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ si dei «delitti collettivi», la guerra e la Shoah, secondo la spiegazione autoriale)15. Assecondando l’inclinazione naturale a circonfondere di splendore il segreto, più che ad indagarlo, il piccolo Manuele rinuncia alla verità sulle ascendenze materne e lascia viaggiare la fantasia. Una leggenda viene a collocarsi nella zona degli antefatti, tra i rami alti dell’albero genealogico: Aracoeli «poteva discendere da una stirpe di gitani o di mendicanti o di toreri o di banditi o di Grandi Idalghi» (A, p. 30). L’ambientazione spagnola e qualche “demone donchisciottesco” – particolarmente caro a Morante – giustificano l’invenzione di una «madre hidalga e castellana» (A, p. 223). Si ha qui a che fare con un romanzo familiare eterodosso rispetto al modello freudiano, perché qui non si tratta di sostituire, nei sogni ad occhi aperti, genitori indegni, dai quali ci si sente messi in disparte, bensì di abbellire un passato familiare avvolto in un’aura di mistero. Anche il nume degno di culto in cui Manuele, sempre da piccolo, trasfigura, secondo strategie tipiche del modo “epico-tragico”, il proprio padre quasi sempre assente, rientra in questo tipo di attività fantastica. Del suo passato la stessa Aracoeli parla al figlio di rado, con il contagocce, facendo affidamento sulla di lui congenita precognizione, sul fatto cioè che Manuele, sia pure inconsapevolmente, saprebbe tutto di lei, attraverso un «messaggio cifrato» trasmessogli fin dai tempi della sua esistenza intrauterina16. Questa precognizione è solo una delle tantissime tracce del mondo magico e primitivo che è dato riscontrare in Aracoeli, secondo quanto di recente ha mostrato, utilizzando soprattutto chiavi di lettura demartiniane, un suggestivo libro di Angela Di Fazio17. Già Fortini se ne era accorto, ponendo l’accento, sia pure en 15. Ci si riferisce ad un appunto del manoscritto: «(Aracoeli) creatura che si vendica (inconsapevolmente) dei delitti collettivi con la propria degradazione e distruzione» (Vitt. Em. 1621/B3, c. 83). 16. «La sua storia mi era stata trasmessa, fino da quando io le crescevo nell’utero, attraverso lo stesso messaggio cifrato che aveva trasmesso dalla sua pelle alla mia il colore moreno» (A, p. 5). 17. Cfr. A. Di Fazio, Tra crisi e riscatto. Elsa Morante legge Ernesto De Martino, Bologna, Pendragon, 2017, in part. pp. 195-229. 169 mu Questo E-book appartiene a ilaria 170 IVAN PUPO Qu passant, su un «universo di relazioni sovrannaturali» ricco di «colori induisti e taoisti»18. Al lettore che si imbatte in riapparizioni inaspettate di oggetti e paesaggi, cui apertamente si riconosce un «valore magico» ed un effetto «conturbante», possono venire in mente le ricerche di Jung intorno ai fenomeni sincronistici e ai nessi acausali19. Aracoeli è un romanzo della precognizione e del destino già scritto. La storiella del «sarto immortale» (cfr. A, pp. 52-54), suggestivamente incastonata nelle memorie familiari di Manuele, ripropone sotto altra veste il racconto delle Moire, le dee, figlie della Necessità, che secondo gli antichi filano il destino di ciascun uomo. Nessuno può «dirottare un mortale dal corso del suo adempimento» (A, p. 18). Vi sono dei momenti nella vita delle persone, dei parenti stretti di Manuele nella fattispecie, in cui si fanno sentire «con un fragore assordante» (A, p. 19) i segnali dell’agonia, della morte imminente. Istanti decisivi che hanno un valore doppiamente prolettico, preparando il terreno all’epilogo di certi destini ed insieme anticipando quello che Manuele dirà più avanti, distesamente, con dovizia di dettagli. Esemplifichiamo con il «lampo all’indietro» su uno snodo importante del passato paterno, perché dovremo tornarci: to es bo E- ok ap pa rtie ne uo iam lar ai om il.c ma 9g io8 Estate 1945. Mio padre, alla mia prima e ultima visita in quella sua casa del Tiburtino mezzo bombardata, con le finestre tutte chiuse e quel fetore dolciastro. Lui, con la pelle di una bianchezza sordida sotto la barba non fatta. La sua bocca che mastica a vuoto. Il sudore freddo della sua mano che si ritrae… lui fa quella specie di sorrisino miserabile… (A, p. 20) 18. F. Fortini, «Aracoeli», in Idem, Nuovi saggi italiani, Milano, Garzanti, 1987, p. 244. 19. La «conturbante» riapparizione del talismano andaluso (cfr. A, p. 199) può essere interpretata alla luce di C.G. Jung, La sincronicità, Torino, Bollati Boringhieri, 2018. -rd 3 42 9-8 80 -0 23 -12 09 28 12 20 L’inesorabilità del destino trova conferma nelle voci oracolari. Due profezie sembrano chiamate ad enfatizzare la specularità tra Manuele e il parente che egli ha eletto fin da piccolo a proprio eroe, il suo quasi omonimo zio materno Manuel. La prima profezia nell’ordine della storia è quella messa in bocca a Tia Patrocinio, l’ultracentenaria, vicina di casa di Aracoeli nel villaggio muoio89 gmail.c om 201228 UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ Questo E-book a ppartiene a ilaria di El Almendral, cui una nonna gitana ha svelato i destini di tutti i compaesani. Conoscendo i segreti del futuro, ella mette in guardia Manuel nel modo enigmatico tipico dell’oracolo: un toro di immani proporzioni si profila minaccioso al suo orizzonte. Nel tempo del lutto, messa alle strette dal figlio, Aracoeli si ricorda di questa predizione: Manuel – gli svela – è stato incornato da un toro. La bestia assassina è immagine del Nemico che nella guerra civile spagnola fa scempio dei guerriglieri anarchici. La brutta fine di Manuel sarebbe dovuta passare sotto silenzio nella famiglia dei leali franchisti, «perché il parente era morto combattendo dalla parte sbagliata» (A, p. 371). Il pudore del silenzio ha precise motivazioni politiche, non si spiega solo con un riguardo verso Aracoeli incinta. Il segreto sulla morte di Manuel, come nella Storia il segreto razziale di Nora Almagià e poi di sua figlia Ida Ramundo, mette in corto circuito la sfera personale-familiare e quella storico-collettiva. Il nome dello zio andaluso è messo al bando, perpetuando a livello di microcosmo familiare l’alleanza tra potere ed oblio. Il racconto-ricordo di Manuele svolge allora una funzione contro-fattuale, perché in qualche modo fa rivivere il passato dal punto di vista dei vinti20. L’altra profezia fa tutt’uno con la maledizione della zingara: Manuele sarebbe «morto d’amore prima dei quindici anni d’età» (A, p. 27). L’oroscopo si compie nel momento in cui, davanti alla Quinta dove Aracoeli si prostituisce, il predestinato, che ha ancora sette anni, si sente abbandonato dalla madre, cioè si sente morire dentro, e consuma in quel punto «tutte le sue esperienze future» di esclusione e di disamore. L’oggetto magico, l’amuleto che avrebbe dovuto proteggerlo, finisce proprio allora nell’immondezzaio (cfr. A, p. 331). La precoce morte spirituale è confermata dal modo in cui, nel manoscritto del romanzo, si definisce la Quinta, il bordello di lusso gestito dalla donna-cammello, che nel suo mistero attrae e respinge insieme il piccolo: essa deve apparire – si legge in un prezioso promemoria – come «l’antimaterno» contrapposto a Totetaco, un «affascinante, ma funebre […] regno della 20. Sulla morte tabuizzata in questo episodio del romanzo ha richiamato l’attenzione Concetta D’Angeli nel suo op. cit., pp. 51-52. 171 172 IVAN PUPO morte»21. Manuele-Orfeo non riesce a salvare Aracoeli-Euridice, e per di più si consegna egli stesso a Plutone, sicché anche l’oroscopo domestico, apparentemente innocuo, letto poco tempo prima da zia Monda, ha un che di inquietante: «MANUELE – segno dello Scorpione […] Pianeti Plutone in domicilio, Venere in esilio […]» (A, p. 235). Le suddette profezie, in un libro ricco di non casuali rimandi interni, corrispondenze ed equivalenze, pongono in un rapporto di simmetria il destino di Manuele e quello dello zio materno attraverso la mediazione di Aracoeli, la quale «credeva alle zingare profetesse non meno che alle statue delle chiese» (A, p. 27). Ma al di là dei presagi luttuosi espressi in un codice cifrato, è il miraggio della morte eroica che Manuele, sulle orme di Manuel, cerca nel bosco piemontese, ad evidenziare le strutture di genere sulla scena parentale: Manuele sente di appartenere al gruppo della madre, piuttosto che a quello del padre biologico (al quale significativamente non si rivolge mai con il nome di papà e di cui, nelle vesti di narratore, omette sempre il cognome), antepone cioè al rapporto reale con il padre quello virtuale con lo zio materno. Basandosi sulle letture etno-antropologiche di Morante, prestando attenzione alla «cultura originaria» del villaggio di Aracoeli, Di Fazio chiama in causa le regole di parentela delle tribù selvagge di Malinowski, di quei popoli primitivi cui non si adatta lo schema edipico freudiano, l’incasellamento nei complessi della famiglia patriarcale22. La malattia di Aracoeli costituisce senz’altro il più grande mistero ne e nella narrazione di Manuele. La necessità di tenergliela nascosta trende r i la a grottesca la conversazione familiare. Con la sua febbrile logorrea p nonna mette a nudo, suo malgrado, la ferita del disonore, ap salvo poi k stravagante censurarsi per un riguardo al nipote. Ne vien fuori ouno o soliloquio, costellato di buchi neri, in cui è facile riconoscere la logica b delle formazioni di compromesso: lo scandalo E- della condotta di to senza che si facciano Aracoeli vi è sempre e soltanto alluso e sottinteso, s i nomi di responsabili e vittime. Nonostante ue sospetti che quel fiume Q 21. «Attenzione. Qui […] la quinta deve apparirmi in qualche modo come l’“antimaterno” […] Affascinante, ma funebre e mineraria ossia regno della morte» (Vitt. Em. 1621, A XI, c. 15v). 22. Cfr. A. Di Fazio, op. cit., pp. 223-225. u ri am a ila 2 UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ 173 om .c ail di parole possa condurlo alla verità, Manuele, che ha paura di soffrire, gm preferisce non sapere. 8sul9 cano Quando poi, alla fine della guerra, zia Monda solleva il velo i uo Manuele cro per scagionare Aracoeli dall’accusa di oscena immoralità, m rifiuta la spiegazione fisiologica, convinto che quello iadella zia sia solo li ar (A, p. 371). Comun «pretesto per salvaguardare l’onore della famiglia» a menta Fortini nella sua recensione: reagendo Manuele e in tal modo, n dimostra di volere una «tragedia non iuna disgrazia»23, una colpa da e rt far scontare, non una malattia da commiserare. sente cioè il a pil più possibileL’orfano p bisogno di squalificare e degradare la defunta, per facia k litarsi il distacco, di «calunniarla e maledirla e rinnegarla», pur di non oosuo ultimo segreto» (cfr. A, p. 337). riconoscere la «miseria b del E- la madre «per difendersi dalla sua morte», a Quella di sfregiare to nel tempo del discorso, non sarebbe stata una «ripensarci» da sadulti, e «furbizia» diuManuele, ma della stessa Aracoeli. Nel romanzo terapeutico Q di Manuele, come nelle storie cliniche di Freud, si rende necessario tornare tante volte sugli stessi snodi, da angolature diverse. Nella fattispecie si assiste ad un vero e proprio ribaltamento grazie al quale la defunta si conquista la riconoscenza filiale. Con le «sue bruttezze di vecchia puttana», con il suo «spettacolo osceno» allestito alla Quinta (lo strano nome non a caso richiama le quinte di un teatro, lo spazio dell’istrione, del gioco segreto), Aracoeli riesce ad allontanare Manuele dall’immagine della sua «povera materia in dissoluzione», dalla «piccola cassa inchiodata» in cui sono sepolti i suoi resti. Con i suoi ditini di morta si fabbrica una «brutta sosia contraffatta», una «sosia dall’anima nera», per difenderlo dal «contagio funebre» (cfr. A, p. 353)24. Torna utile ancora la lezione di Rank: il sosia ha rappresentato in origine un baluardo contro la scomparsa dell’Io25. Nella sua funzione protettiva, segnatamente apotropaica, il teatro della perversione che Manuele attribuisce alla madre 23. F. Fortini, op. cit., p. 244. 24. Per la “strategica” malattia di Aracoeli nei nuovi pensieri di Manuele si veda sempre A, p. 353. 25. Cfr. O. Rank, Il doppio. Il significato del sosia nella letteratura e nel folklore, Carnago, Sugarco, 1994. 1 20 174 IVAN PUPO e Qu sto può ricordare, mutatis mutandis, l’episodio più famoso di Menzogna e sortilegio, il click che, secondo le dichiarazioni dell’autrice, aveva presieduto all’ispirazione del libro. Qui le «compiacenti invenzioni della figlia pietosa» Augusta, e poi le finte lettere di Anna, che della famiglia Cerentano da sempre avrebbe voluto far parte, sono destinate a far credere ad una madre, donna Concetta, che il figlio adorato non sia morto26. Nel «povero, ultimo romanzo andaluso» Manuele narratore ipotizza non solo che la cartolina postuma dello zio gli sia stata fatta pervenire per «dargli smentita della sua morte» (A, p. 232), ma anche che Aracoeli abbia finto, nei panni di una novella Traviata, una parte odiosa e scandalosa, quella della «vecchia puttana», per proteggerlo dal «vero scandalo», il più odioso di tutti, quello della morte, e non lasciarsi guardare e nemmeno intravedere nella sua «frana d’ombra» (A, p. 353). Senonché, nel finale di un romanzo in cui la fisiologia svolge un ruolo decisivo, si ricostruisce dettagliatamente la scena in cui Manuele, venuto al contatto con il corpo andato a male del padre, non può fare a meno di presentirne con ribrezzo la morte. L’addio del fantasma materno – «Ma, niño mio chiquito, non c’è niente da capire» (A, p. 359) – avrebbe potuto costituire una chiusa altrettanto efficace? Forse sì, ma Morante avrà certo avuto le sue buone ragioni per non fermare la penna. Innanzitutto, quelle relative alla circolarità della trama. La scrittrice ha voluto fare di Eugenio, incanutito semicieco e ubriaco, un doppio di Manuele adulto, imponendo a quest’ultimo di ereditare, oltre al colore degli occhi del padre, anche il suo triste destino di uomo solo. A riproporsi in tal modo è il rapporto di simmetria tra le generazioni già sperimentato in Menzogna e sortilegio, nel cui manoscritto ad un certo punto si legge: «Accennare in qualche luogo come nella nostra famiglia oltre al fisico e ai caratteri si tramandano anche i destini (per questo voglio raccontarvela – serpe che si morde la coda)»27. Altre ragioni forse ea ien art pp ka oo E-b il.c ma 9g io8 uo iam ilar om -08 23 -12 09 28 12 20 23 -84 09 26. Va precisato però con Garboli che in Menzogna e sortilegio lo «spunto edificante» (il «bisogno di carità») presto si stravolge in un «rito blasfemo». Cfr. C. Garboli, Il gioco segreto, Milano, Adelphi, 1995, pp. 35-36. 27. Si cita dal manoscritto custodito presso la Biblioteca Nazionale di Roma: cfr. Vitt. Em. 1619, Q. I, c. II. -rd h UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ iene a ppart 28. C’è come una pulsione profonda che detta a Manuele comportamenti e spostamenti. Nell’episodio delle fughe alla Quinta la coazione interiore è tradotta con un’immagine fantastica: «Come si legge di certi erranti maledetti, forse in quei giorni la mia piccola persona occhialuta era soggetta a un servo d’ombra, comandato da chi sa dove a portarmi in giro per qualche ambiguo disegno a me nascosto» (A, p. 327, corsivo mio). ook a to E-b Ques possono venir fuori scavando nella cornice dell’episodio (per il quale si rinvia ad A, pp. 373-382). Appena finita l’imbarazzante visita durante la quale gli esce di bocca solo qualche monosillabo e mai la parola «papà», Manuele, a quel tempo ragazzo di 13 anni, seguita a gironzolare nel quartiere di San Lorenzo, apparentemente senza ragioni (in verità «comandato» dal suo inconscio)28. Si reca in un caffè e all’uscita sente come un pungiglione di vespa, una trafittura fino in fondo alla gola che lo fa «piangere in pubblico senza ritegno né conforto». Parte di qui il «gioco ozioso» di Manuele adulto sul «seme» di quel pianto, sulle cause plurime del suo scatenamento. Sembra che il monito del fantasma materno – «non c’è niente da capire» – sia caduto nel vuoto. Tutt’al più l’io narrante è disposto a riconoscere che ogni «risposta possibile», «anche se verace», è «sempre insufficiente e approssimativa». Un invito a non fermarsi alle risposte che esplicitamente si danno nel testo, a non accettare per oro colato l’ultima spiegazione, quella basata sulla scoperta dell’amore nei confronti di Eugenio? L’ammissione che tale spiegazione sia arrivata «con troppo ritardo» legittima nel lettore una certa diffidenza, perlomeno la preoccupazione di non cadere nella trappola dei «ricordi di copertura», di quei ricordi che non emergono dalla nostra infanzia, ma che sono piuttosto costruiti sulla nostra infanzia. Mi sembra ad ogni modo utile ricostruire l’itinerario «comandato» di Manuele in tutte le sue tappe, alla ricerca di altri preziosi indizi. Uscito dall’alloggio paterno, prima di entrare nel caffè, il ragazzo fa sosta nei pressi del Verano e qui, vicino alle tombe, capisce quel che poco prima aveva voluto dire la zia Monda con la frase: «Tuo padre vuol tenersi vicino a lei». Proprio in quel momento avverte come una «zampata di tigre» alla gola, qualcosa di più penetrante di un pungiglione di vespa, per quanto gigante. Correlando le due sensazioni psicosomatiche si ha modo di capire che, nell’epilogo del Familienroman di Manuele, non è solo questione di ambi- 175 ilaria 176 IVAN PUPO Ques valenza o «duplicità senza soluzione» del sentimento filiale, né del solo «bisogno appassionato» dell’«affetto paterno, troppo a lungo negato»29. A ben guardare la commozione finale investe anche Aracoeli, in quanto oggetto di una passione coniugale «definitiva», che non arretra neppure dinanzi alla morte30. Trovo psicologicamente convincente – e sappiamo quanto contasse per Morante la psicologia in un romanzo – che Manuele si sciolga in lacrime non solo perché scopre in sé il figlio che fino a quel momento non ha saputo o potuto essere, ma anche per l’irresistibile forza d’urto del «romanzo sentimentale dei suoi genitori» (A, p. 31), perché arriva ad apprezzare fino in fondo la dedizione estrema di Eugenio alla sposa. C’è una luce, sia pur fievole, di speranza che in qualche modo riscatta queste pagine del romanzo, altrimenti solo cupe e deprimenti. L’amore coniugale è un valore che regge alle prove estreme: alla guerra, alla miseria materiale e morale di un Paese distrutto, all’abbrutimento personale di Eugenio (con una capacità di ragionamento ridotta ormai ad un «impasto di suoni disarticolati e inservibili», ulteriore avvilente depotenziamento rispetto al «bisbiglio» dell’uomo nella camera d’ospedale dell’agonizzante Aracoeli; A, pp. 377 e 347). È proprio la scoperta di questa resilienza che riscatta Eugenio agli occhi del figlio. Senza questa scoperta la reazione di Manuele sarebbe stata solo di ribrezzo. L’amore che resiste, nonostante tutto, ascrivibile ad un ubriacone per una morta, non è inutile, come potrebbe sembrare, nella misura in cui colui che ne è testimone, Manuele, è spinto a rivedere il rapporto con il genitore. Nel finale del romanzo un amore ne accende inaspettatamente un altro: l’amore di Eugenio per la defunta Aracoeli accende l’amore di Manuele per Eugenio. Pur di restituire alla fedeltà amorosa il suo «valore primigenio»31, c’è chi, adattandosi a fare da «guardiano di un faro isolato sugli abis- ien ppart ook a to E-b 29. G. Rosa, op. cit., p. 352. 30. A proposito della specularità che unisce fin dal principio i suoi genitori, Manuele afferma: «Fu, anche, quella di lei, come quella di lui, una passione ardita e improvvisa, ma coniugale e definitiva» (A, p. 51). 31. Adattiamo all’orizzonte vedovile la resilienza di cui aveva già dato prova Eugenio: «[…] “Amore mio!” / Sempre, nel corso della nostra comune estate, lui ridiceva a mia madre queste due parole. Era la sola risposta che sapeva darle […] Ma, dette da lui a lei, le due comuni scadute parole riprendevano integro il loro valore primigenio» (A, p. 278). UNO SCHELETRO NELL’ARMADIO DEI MUÑOZ MUÑOZ si» (A, p. 374), accetta persino che l’ala dell’idiozia gli sfiori il cervello. Proiettata sullo sfondo di questa «fiaba estrema»32, il degrado di Eugenio, indubbiamente una spietata parodia dell’eroismo virile, non può che apparire agli occhi di Manuele come un «fiore di pazienza»33 da onorare con il pianto. 32. Espressione tratta dalla poesia di Morante Alibi, datata 1955 ed edita nel 1957. 33. Ci si riferisce all’ultima poesia di Miklòs Radnóti che Morante cita in Pro o contro la bomba atomica (1965). 177 Ques to E- book appa rti IVAN PUPO 178 9 80 - Bibliografia Brugnolo S., (2012), Alcuni influssi freudiani sul tema letterario del ricordo infantile, in S. Brugnolo (a cura di), Il ricordo d’infanzia nelle letterature del Novecento, Pisa, Pacini. 1 9- 2 23 0 Abraham N., Török M., (1987), L’écorce et le noyau, Paris, Flammarion. 2 0 8 2 D’Angeli C., (2003), Leggere Elsa Morante. “Aracoeli”, “La Storia” e “Il mondo salvato dai ragazzini”, Roma, Carocci. m 1 20 Di Fazio A., (2107), Tra crisi e riscatto. 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Brugnolo (a cura di), Il ricordo d’infanzia nelle letterature del Novecento, cit. muo a i r a ila io ail m g 89 rtie ppa ne Romanzo (non) familiare: la famiglia quale inconscio collettivo in Piazza d’Italia e Il piccolo naviglio ka Veronica Frigeni boo o E- 1. Introduzione: Tabucchi, l’inquietudine e il romanzo di famiglia Que st L’ipotesi che mi propongo di esplorare è la seguente: il romanzo di famiglia, analizzato nelle sue componenti distintive, costituisce un modello narrativo privilegiato per la narrazione dell’inquietudine tabucchiana, attraverso un tentativo di dare voce al familiare nel suo venir meno, e nello specifico all’inconscio collettivo. In Tabucchi, questo identifica, infatti, il rovescio di un famigliare inteso in un’accezione ampia come l’insieme di tutte quelle ideologie, narrazioni, eventi e memorie che legittimano la grande Storia ufficiale. Un tentativo, quello dello scrittore, che si misura proprio a partire da un uso straniante, improprio, non famigliare dei principali meccanismi formali e dei topoi tematici del romanzo di famiglia. La lettura dell’opera di Tabucchi, in questo caso dei due romanzi genealogici e di famiglia Piazza d’Italia (1975) e Il piccolo naviglio (1978), non può prescindere da una riflessione preliminare sul motivo e sul modo dell’inquietudine. Di fronte alla sfida postmoderna alla possibilità di articolare un discorso di verità e di costruire una trama di senso, l’inquietudine costituisce, infatti, la cifra essenziale dell’esperienza narrativa tabucchiana e della visione stessa che l’autore ha della letteratura, cui demanda il duplice compito di inquietare – così aprendo lo spazio dell’altro, dell’improprio, del non famigliare – e di interrogare – così architettando una costellazione critica nella quale i due poli io-altro, 180 VERONICA FRIGENI proprio-improprio, famigliare-non famigliare sono visti non come opposizioni irrelate, ma come diversi momenti di un continuum, che va da un minimo ad un massimo di perturbante spaesamento. In un’ottica di reciproca compenetrazione, per Tabucchi, l’uno è da sempre presente nell’altro quale condizione di possibilità e rovescio, e richiede perciò allo scrittore – e, con lui, al lettore – di cambiare posizione, di abbracciare una nuova prospettiva per poterne cogliere la simultaneità. Nell’universo narrativo di Tabucchi, ogni cosa è sia famigliare che spaesante ed è, allo stesso tempo, famigliare e spaesante. Entro un’economia poetica fondata sull’inquietare e l’interrogare, la famiglia si circoscrive, pertanto, come spazio di inquietante alterità e straniamento: paradossalmente è nell’intimità del domestico e delle relazioni famigliari che il famigliare si rivela come rovescio del non famigliare. Perché è qui che l’inquietudine si affaccia come ritorno dell’inconscio, individuale e collettivo. Cosa s’intende, dunque, con inconscio collettivo? Rifacendosi alla teoria freudiana della letteratura di Orlando, inconscio collettivo designa tutto ciò che è stato escluso dalle narrazioni dominanti del passato – e del presente – ovverosia quanto attiene alla dimensione del possibile rispetto all’attualità storica, ciò che avrebbe potuto accadere diversamente, ma che fu oggetto di repressione culturale sociale e politica, e ciò che accadde ma fu poi taciuto, negato, rimosso1. L’analisi dei due romanzi di famiglia di Tabucchi, Piazza d’Italia e Il piccolo naviglio, si propone di rispondere a tre quesiti principali: anzisto e tutto perché Tabucchi sceglie, per i suoi due testi di esordio, euquindi Q del in un momento decisivo della sua produzione letteraria, il genere romanzo di famiglia? Ovverosia, come si situa quest’ultimo rispetto alla 1. Avremo pertanto un ritorno del represso che si configura in quattro possibili situazioni: al solo livello inconscio, nel quale «represso sarà diventato sinonimo di rimosso»; conscio ma non accettato, nel quale si registra una scissione o contraddizione tutta interna al singolo personaggio; «accettato dal singolo personaggio ma non propugnato», dove il singolo si pone in diretto contrasto con la società, ma con una sorta di inimitabilità, unita alla rassegnazione che «il mondo, storicamente e metafisicamente, resti com’è»; «propugnato ma non autorizzato», ovverosia condiviso da una minoranza, ma non dall’ordine costituito. F. Orlando, Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi, 1992, p. 81. E- b k oo a ROMANZO (NON) FAMILIARE 181 poetica dell’inquietudine dell’autore? In secondo luogo, quali sono le cifre essenziali del romanzo di famiglia che lo rendono una forma privilegiata per la narrazione, in Tabucchi, ma potenzialmente anche oltre il singolo autore, del cosiddetto inconscio collettivo? Infine, a quali esiti narrativi e retorici conduce un uso straniato e straniante del romanzo di famiglia? Rispondere alla prima questione significa sottolineare fin da subito come, in Tabucchi, l’inquietudine includa e combini tra loro una precisa dimensione storica – è al perturbante novecentesco che l’autore guarda, coniugando l’Unheimliche freudiano al desassossego di Pessoa, sino all’angoscia esistenzialista – ma anche, oltre a quella storica, una dimensione trascendentale, metafisica – poiché per Tabucchi la letteraQu tura in quanto possibilità di creazione di senso, un senso sempre provest visorio, spaesante e interrogativo, risponde laicamente alle necessità oreligiose E-b dell’essere umano2. Questo doppio livello dell’inquietudine tabucchiana oo trova un riscontro privilegiato nel romanzo di famiglia, k a come sottolinea Polacco, si apre similmente a tre posladdove questo, pp «Un piano letterale (storia della famiglia) […] un sibili livelli di lettura: art piano anagogico (storiaiedinun’epoca) […] e un piano metafisico (condie a senso, è lecito sostenere che Tabucchi zione dell’umanità)»3. In un certo ilarun modo della narrazione quanto trovi nel romanzo di famiglia tanto iam una sorta di narrazione modale, vale a dire in un modo difuconiugata oio scrittore ferente da quello della realtà, e che fornisce allo una serie di 89 strumenti per sottoporre ad una sorta di revisione del gpossibile ma la storia medesima. il .co m 20 Al fine di sciogliere i successivi interrogativi, prenderò invece in 1 esame, per ogni testo, i quattro elementi narrativi caratterizzanti il 22 80 2. Sul perturbante in Tabucchi mi permetto di rinviare a: V. Frigeni, L’inconscio ottico della storia. Per una retorica della visione perturbante in Tabucchi, in «Between», 4, 7, 2014, pp. 1-19. 3. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, p. 123. 9-1 182 VERONICA FRIGENI romanzo di famiglia: tempo, spazio, famiglia e scrittura memoriale. Queste quattro dimensioni verranno incrociate e fatte interagire con il motivo dell’inquietudine, e per questo interrogate alla luce della dinamica topologica (e non antinomica) tra famigliare-non famigliare. Seguendo Canzaniello, in una possibile tassonomia di questa «intersezione di genere» come egli definisce il romanzo di famiglia4, è doveroso includere: la concentrazione spaziale, giacché tutto ruota attorno alla casa e più in generale ad uno spazio domestico, contrapposto a quanto è fuori, estraneo; una diacronia estesa, controbilanciata dalla narrazione sincronica di scene, come strumento di verosimiglianza e di prossimità al reale; il protagonismo corale, rispetto al quale viene meno l’indipendenza del singolo personaggio e, al tempo stesso, si registra una centralità dei conflitti familiari, che esauriscono il ventaglio delle possibili posizioni di un dato orizzonte temporale; infine, la trasmissione memoriale come principio formale strutturante. Nei due testi in esame, nell’ottica di una scrittura dell’inquietudine, Tabucchi sottopone ad un procedimento straniante questi stessi meccanismi narrativi. I quattro elementi tassonomici vengono pertanto rovesciati, in una narrazione del famigliare nel momento in cui questi viene meno, tanto a livello diegetico quanto a livello formale. Nello specifico si vedrà come: in primo luogo, il fatto che il romanzo di famiglia si strutturi lungo uno svolgimento diacronico esteso diventa, in Tabucchi, l’occasione di disturbare la linearità della continuità storica, attraverso .com l i a una mescidazione di temporalità plurime e paradossali, che da un lato gm 9 8 o attualizzano il represso come ritorno e, dall’altro, spostano l’orizzonte i muo dalla Storia alla microstoria. Lo spazio rdiviene, in secondo luogo, rota i a contribuisce a delineare il a eilquindi tura del confine pubblico/privato e n ruolo della famigliapcome artiepunto intermedio tra inconscio individuale p a e collettivo: gli ambienti domestici sono diffusi, permeabili oink Tabucchi -bo oE uest Q 4. E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, Idem, Il romanzo di famiglia oggi/Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 88-111. 22 201 ROMANZO (NON) FAMILIARE all’esterno, in ciò stesso minando la dicotomia pubblico-privato; inoltre essi sono già, da subito, abitati da quanto è estraneo, inquietante; infine, le case nei romanzi di famiglia di Tabucchi si antropomorfizzano, assumendo i caratteri fondamentali dei propri abitanti. Quanto al protagonismo corale e alla centralità dei conflitti familiari, essi danno origine, in Tabucchi, ad una genealogia che più che arborea pare rizomatica, fatta di nomi che si ripetono, che si perdono e riguadagnano; di discendenze sbarrate o a fondo chiuso (i figli mai avuti o dati in adozione); di maternità raddoppiate, ecc. Un tale modello rizomatico aderisce alla struttura dell’inquietudine, giacché i diversi membri della famiglia incarnano diversi gradi di ritorno del represso (inconscio, conscio, accettato, propugnato) e fanno della famiglia tutta il principale soggetto dell’inconscio collettivo. Infine, il fatto che il romanzo di famiglia per definizione si strutturi come narrazione memoriale diventa pretesto, in Tabucchi, per una narrazione fortemente autoriflessiva e straniata, che interroga i principi stessi del fare e del farsi metastorico. 2. Piazza d’Italia: rizoma, inquietudine, microstoria Si tratta di un romanzo di famiglia genealogico: si seguono tre generazioni, le morti del nonno, del figlio e del nipote sono i veri momenti di svolta che strutturano narrativamente il libro in termini di eredità e passaggio di testimone: in questo senso la dialettica generazionale non è però di antagonismo, anzi di continuità. Un aspetto testimoniato anche dalla continuità onomastica (ci si tramanda il nome Garibaldo), fisica (padre e figlio soffrono tutti di dolori al piede, come il nonno cui fu amputato durante la Breccia di Porta Pia) e persino dall’anacronismo finale dell’ultimo nipote. Il libro è diviso in tre tempi, come un film. Il primo tempo segue le vicende di Plinio e del figlio Garibaldo. Plinio, il capostipite, partecipa alla Spedizione dei Mille con Garibaldi, perde un piede durante Porta Pia, viene ferito a morte da un guardacaccia regio a trent’anni. Crede nell’ideale dell’uguaglianza ed il suo bracconaggio nasce da una situazione socioeconomica disperata. Plinio ha quattro figli, due coppie di gemelli: Quarto, Volturno, Anita e Garibaldo. Quarto e Volturno trovano la morte durante la guerra d’Africa del 1887, Garibaldo è inve- 183 e Qu VERONICA FRIGENI 184 ce disertore, sparandosi a un piede. Come il padre è bracconiere, ma a differenza del genitore riesce a ferire il guardiacaccia per primo. A tale episodio fa seguito la sua fuga a Parigi e in America. Al suo ritorno sposa Esperia e ha un figlio, Volturno, rinominato Garibaldo dopo la sua morte durante l’assalto al granaio municipale nel 1899. Nel secondo Q lo spazio maggiore al secondo e e nel terzo tempo, il romanzo dedica u ultimo Garibaldo. Egli è un ribelle eesovversivo sotto molteplici aspetti: st o Cuore, il maestro santifica smette di andare a scuola quando, leggendo E- mondiale scrive alla fila carezza del re; dal fronte della Prima guerra b danzata Asmara che lì gli uomini sono ridotti aotopi ok nelle fogne; compie atti anarchici per vendicare i soprusi subiti dagli a indifesi, come l’ambulante Apostolo Zeno; abbraccia la Resistenza e in p seguito pa rinuncia al proprio individualismo anarchico tesserandosi col PC; infine r i si accorge di come, anche nel dopoguerra democratico, i soprusi deitpadroni en non siano terminati e quando la polizia massacra l’amico Guidoneedurante a di una riunione di lavoratori egli si arrampica sulla statua della piazza ila Borgo per denunciare le nuove violenze, dove viene colpito a morte ri per ordine del questore. Il romanzo si apre proprio con le sue ultimeam parole, «Abbasso il re»5, un anacronismo straniante che in realtà da un uo io lato sancisce il vincolo con la figura del nonno e del padre (di cui pare 89 un doppio o simulacro) in quanto soggetti portatori di una possibilità g differente ed inconscia rispetto alla storia ufficiale, e dall’altro smaschera come nella Storia l’oppressione dei padroni sopravviva al mutare delle contingenze. In questo senso esso si propone di inquietare anche il lettore, invitandolo implicitamente a considerare in che modo ciò sia ancora vero nella realtà attuale, e come l’autore e il lettore (almeno quello implicito), si pongano come nuovi eredi, una sorta di Garibaldo postumi. Rispetto al modello del romanzo di famiglia i conflitti famigliari paiono assenti in Piazza d’Italia, poiché, pur nel variare di volta in volta delle contingenze storiche, la famiglia nelle sue diverse generazioni 5. A. Tabucchi, Piazza d’Italia, Milano Feltrinelli, 1996, p. 11. iene a ilariamuoio8 Questo E-book appart ROMANZO (NON) FAMILIARE è compatta nel sostenere i medesimi ideali di uguaglianza e giustizia sociale. In tal senso è la famiglia tutta a opporsi a quanto vi è di esterno, ad assumere le funzioni di una «minoranza etica»6. Se si volesse rintracciare l’unico spiraglio di dissonanza e conflittualità entro la famiglia di Plinio bisognerebbe risalire l’albero genealogico fino a quel ramo spezzato, ovvero il figlio che Anita ha da adolescente e che rifiuta dandolo in adozione al fattore del paese per farsi monaca di clausura. Melchiorre, nipote rinnegato di Plinio e di Garibaldo aderisce, infatti, al fascismo e trova la morte nella notte dell’incendio fascista di Borgo. Più in generale è significativo osservare come, se la famiglia si pone come soggetto dell’inconscio collettivo nel suo antagonismo corale alla storia ufficiale, al suo interno i diversi personaggi che compongono il microcosmo famigliare appartengano ai diversi livelli di represso seguendo la scala di Orlando: e così, per esempio, Volturno muove da un ritorno del represso ancora esclusivamente inconscio e perciò inaccessibile al simbolico quando da bambino, in un mutismo ostinato, non è ancora in grado di interpretare e dare senso ai propri timori, per arrivare ad un ritorno del represso conscio ma non accettato, quando da adolescente «rifiutando il mondo, disegnando figure sulla cenere con un bastoncino o riempiendo fogli di minuscoli e illeggibili scarabocchi» cerca di simbolizzare la propria inquietante malinconia, il proprio saper leggere e prevedere, quasi da poeta, gli aspetti più oscuri e negati della storia tutta7. Quanto a Plinio e al figlio Garibaldo, essi sono indubbiamente portatori di un ritorno del represso accettato ma non propugnato: il loro solipsismo anarchico, pur nell’interesse della collettività, li condanna ad agire quali oppositori inimitabili e solitari in un antagonismo storico e metafisico con i padroni. Solo con l’ultimo Garibaldo, nel momento in cui egli capisce che il tempo dell’anarchia è finito e che «oggigiorno bisogna essere uniti, bisogna organizzarsi e che l’unione fa la forza»8, 6. 7. 8. Cfr. G. Fofi, La vocazione minoritaria: Intervista sulle minoranze, Bari, Laterza, 2009. A. Tabucchi, Piazza d’Italia, cit., p. 26. Ibid., p. 134. 185 a iene t r a p VERONICA FRIGENI k ap o o E-b 186 sto e u Q si ha finalmente accesso ad un ritorno del represso propugnato ma non autorizzato: la posizione dell’ultimo Garibaldo è infatti condivisa da una minoranza collettiva, che si organizza e agisce coralmente – e il partito pare quasi sostituirsi al microcosmo famigliare – ma che non trova però legittimazione nell’ordine politico precostituito. In Piazza d’Italia anche lo spazio, in particolare la casa, ovverosia il luogo privilegiato del romanzo di famiglia, subisce un trattamento assolutamente peculiare: il focolare, che ne definisce il nucleo più intimo, domestico, e privato, si rivela, infatti, essere un luogo chiave, una sorgente ed un ricettacolo di inquietudine. Si confronti, di seguito, la prima descrizione dell’ambiente domestico con lo stravolgimento dello stesso che determina la presenza di Volturno, figlio di Plinio: La casa dove abitavano Plinio si ricordava di averla vista costruire a suo padre […] Quando vi era nato era quasi una capanna, con un pavimento di terra battuta e una cucina che confinava col pollaio. Poi suo padre aveva fatto un pavimento di granito e un focolare enorme di mattoni, sotto cui indugiavano le sere di inverno, senza trovare il coraggio di andare nelle camere fredde. […] Volturno cresceva nell’immobilità e nel silenzio […] passava le giornate in un angolo che si era formato in fondo al focolare con delle assi di legno, quasi un recinto. Di lì non voleva uscire. […] Anche da ragazzo la sera tornava alla sua placenta di cenere, per scrivere segreti9. Si noti l’espressione «placenta di cenere»: la casa pare un essere antropomorfo, e incarna, per l’inquieto Volturno, il materno, un possibile ritorno alla protezione dell’ambiente uterino. Eppure essa è, allo stesso tempo, il climax dell’estraneo, laddove, proprio nel focolare, con il personaggio di Volturno si materializzano tutte le paure, i sogni, e le ansie della storia. Così, è nel focolare, cuore dell’abitazione, che il represso, individuale e collettivo, ritorna. Più in generale, l’ambiente domestico in Piazza d’Italia è diffuso e collettivo. Ogni casa è legata all’altra, a Borgo. E vi è tra tutte una naturale benché incredibile sinergia: esemplare è il caso delle finestre, che si comportano all’unisono. 9. Ibid., p. 19 e p. 22. ROMANZO (NON) FAMILIARE Questo E-book appartiene a ilariam Queste restano cieche nell’anno delle febbri, spiccano il volo e scompaiono la notte dell’incendio fascista di Borgo; tremano nei cardini a mo’ di presagio la notte della morte dell’ultimo Garibaldo. Sono case anonime e metonimiche. Un po’ come il paese medesimo, che sta per un qualsiasi altro borgo italiano. Tale anonimità collettiva dell’interno domestico rovescia, di fatto, un tratto costante nella caratterizzazione spaziale dei romanzi di famiglia: viene, infatti, meno l’opposizione tra casa di famiglia, polo del famigliare, del domestico, di quanto è noto e usuale, e tutto quanto vi è di esterno, polo dell’estraneo, dell’improprio, dell’ignoto. Allo stesso tempo Borgo appare un paese spaesato e spaesante, che nella nominazione comune e imprecisata nega già la possibilità di un radicamento nel famigliare. Anche la temporalità del romanzo è assolutamente peculiare: si inizia con l’epilogo, ovvero con la morte dell’ultimo Garibaldo. Il montaggio narrativo lo affianca alla morte del primo Garibaldo. Per poi tornare indietro. Si procede, infatti, a ritroso, per recuperare le gesta garibaldine di Plinio. Nel testo il tempo si condensa, si anticipa, si biforca, pare quasi tornare indietro, si annulla. Volturno soffre del «mal del tempo: rispondeva all’improvviso a una domanda che gli avevano fatto il giorno prima, si ricordava fatti non ancora successi, soffriva due volte la stessa delusione»10. Atina esce dal tempo: rifiuta il figlio Melchiorre e diventa suora di clausura in un convento dove «morì prosciugata dal tempo, senza aver mai saputo che c’erano state due guerre, la sera in cui gli americani entravano rumorosamente in Borgo»11. E Asmara aspetta la sterilità per sposarsi con l’ultimo Garibaldo, poiché un oroscopo le aveva predetto che avrebbe avuto un figlio morto a trent’anni: in realtà l’oroscopo pare compiersi indirettamente, giacché Garibaldo muore a sessant’anni (ovvero 30 più 30). L’aspetto principale e caratterizzante del romanzo di famiglia, coprire una diacronia estesa, è fortemente straniato e diventa veicolo di inquietudine. Come dice il narratore, «nella famiglia di Garibaldo il tempo era sempre corso su 10. 11. Ibid., p. 25. Ibid., p. 39. 187 VERONICA FRIGENI 188 fili speciali»12. L’imperativo genealogico è stravolto, straniato e negato. La struttura temporale è, infatti, quella del rimosso che ritorna sotto forma di antieroismo, anarchismo, desiderio di giustizia e uguaglianza. Tuttavia, pur essendo improntata alla struttura del ritorno del represso, nonostante la ciclicità apparente che deriva anche dall’epicità della narrazione – inizia e si chiude con la morte, e due dei tre protagonisti condividono il nome (Garibaldo padre e figlio), il tempo è scandito da nascite matrimoni e morti –, questo non deve essere considerato come un mero ritorno dell’identico – l’albero genealogico si fa solo in apparenza frattale: giacché se pure gli ideali sono i medesimi, e la dicotomia tra oppositori e oppressi giace al cuore della storia e come tale, quasi per inerzia, si ripropone costantemente, in realtà è proprio alla possibilità di riconoscere e dare voce all’alterità, al represso ciò che – a livello diegetico con Garibaldo, che si fa cantore en-abyme di alcuni dei principali avvenimenti accaduti alla sua famiglia per racimolare spicci a matrimoni, feste di paese, persino una festa dell’unità, e a livello testuale con il narratore – introduce il principale elemento di rottura e di novità. Alla memoria e alla scrittura della stessa spetta il compito di restituire il futuro negato al passato mostrando al lettore il presente ed il futuro che sono a lui negati, ovverosia esortandolo a prendere consapevolezza di come le cose potrebbero e dovrebbero andare. In effetti, l’inconscio collettivo ritorna non solo a livello di contenuto ma anche a livello di forma. La struttura memoriale costituisce, come detto, lo scheletro narrativo del romanzo di famiglia. In Piazza d’Italia tale impianto formale è fortemente straniato, sia rispetto alle temporalità che propone a livello diegetico e extradiegetico, sia rispetto al farsi medesimo della narrazione. Il romanzo presenta una struttura fortemente ibrida e di intersezione, combinando registri diversi (epica, fiaba) e media differenti (scrittura, cinema). In un’intervista del ’91 ai Cahiers du Cinema Tabucchi lo definisce come una «narrazione epica alla maniera brechtiana e montata alla maniera di Eisenstein»13. Il riferimento a Q ue st o E- bo ok ap pa rti en e a ila ria m uo io 89 gm ai l.c om 20 12. Ibid., p. 12. 13. A. Tabucchi, Écrire le cinéma, in A. de Baecque (a cura di), Le cinéma des ecrivains, Parigi, Éditions de l’Etoile, 1995, pp. 11-18. 12 28 09 -1 22 ROMANZO (NON) FAMILIARE 189 Brecht fornisce una genesi addizionale rispetto ad una pratica narrativa straniante con un focus specifico sulla dimensione delle condizioni socio-politiche rispetto al singolo personaggio. Tuttavia è il montaggio filmico, con le sue cesure, ripetizioni, sincronie e distorsioni temporali a risultare decisivo nella creazione di una narrazione montata in tre tempi, che inizia con il proprio epilogo e si conclude oltre i limiti della vicenda narrata. Significativamente, la componente filmica non solo rompe la linearità temporale ma consente di radicare, almeno per il lettore, il piano del possibile, e di una possibile contro-storia, a partire da quello dell’evenemenzialità. Come sottolinea Agamben nelle sue riflessioni sul montaggio filmico, del resto, «la ripetizione altro non è che il ritorno in possibilità di ciò che è stato. La ripetizione restituisce la possibilità di ciò che è stato, lo rende nuovamente possibile. Ripetere una cosa è renderla di nuovo possibile»14. Come si relaziona dunque questa intersezione di generi, registri e codici differenti con il romanzo famigliare e con l’emersione di un inconscio storico collettivo? La risposta risiede nel fatto che ricostruendo la memoria collettiva di una famiglia e di un paese toscano durante un secolo di Storia italiana, rispetto alla quale la storia ufficiale è un brusio di fondo che il narratore mai chiarisce, Piazza d’Italia utilizza il genere del romanzo di famiglia per tentare una narrazione microstorica. Vale a dire, di una narrazione che cerca di dare voce alle classi marginali e periferiche, di riportare ne e «alla luce l’esperienza dell’individuo, di ricreare dalle evidenze una ceri rt ta mentalità […] credenze, valori, comportamenti, ovvero la storia cula turale»15. Il microstorico è lo storiografo di quanto la storia ha represso pp a nel suo inconscio. k oo b 3. Il piccolo naviglio: ritorno del represso e metastoria Etoristretta di Anche Il piccolo naviglio appartiene ad una definizione s e romanzo romanzo di famiglia. La forma memoriale sostiene ul’intero Q 14. G. Agamben, Il cinema di Guy Debord, in E. Ghezzi, R. Turigliatto (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Milano, Il Castoro, 2001, p 103. 15. F. Brizio-Skov, Antonio Tabucchi. Navigazioni in un arcipelago narrativo, Cosenza, Pellegrini, 2002, p. 31. a i VERONICA FRIGENI 190 allorché un narratore onnisciente racconta di come, alla fine degli anni ’60, nel tentativo di ricostruire la genesi e navigare la rotta della propria esistenza, Capitano Sesto ripercorra a ritroso le vicende della propria famiglia, risalendo per quattro generazioni, sino al trisavolo Leonida, passando per il primo Sesto, figlio di Leonida, e Sesto Marianna, nipote di Leonida e papà di Capitano Sesto. Similmente al romanzo di esordio, anche nel Piccolo naviglio carattere testimoniale privato e valore storiografico collettivo si fondono e si confondono, laddove uno costituisce il necessario rovescio dell’altro. L’eredità generazionale è, in questo caso, triplice: quella degli ideali, come in Piazza d’Italia, di uguaglianza e giustizia sociale; quella del nome: si succedono tre Sesti: Sesto, il nipote Sesto Marianna, figlio delle due sorelle del primo Sesto, e da ultimo Capitano Sesto, chiamato durante l’infanzia Alcide dal patrigno acquisito, Anselmo Zanardelli, per poi ritornare Sesto alla nascita di un fratellino Alcide. Infine vi è l’eredità del capello rosso, un segno distintivo, non familiare e quantomeno improprio d’insofferenza ai soprusi, che caratterizzava anche i Garibaldi di Piazza d’Italia. L’eredità triplice conferma il motivo del ritorno come struttura temporale fondamentale, con il suo valore di apertura del fattuale al possibile. Nel romanzo l’estensione diacronica è bilanciata da numerose scene che mettono in pausa il racconto: anzi il narratore insiste ripetutamente sull’incommensurabilità di un tempo che corre velocissimo e ogni volta si rimette a correre con rinnovato slancio, e un tempo che pare annullarsi, pietrificarsi come il marmo nella cava. In un certo senso questo doppia temporalità (tempo della storia, tempo della quotidianità) riflette l’equilibrio tra la dimensione diacronica entro cui si muove il racconto di Capitano Sesto e del narratore, e di dimensione sincronica, che appartiene invece a tutti i personaggi del romanzo. Rispetto a Piazza d’Italia, nel Piccolo naviglio ci troviamo di fronte a tre differenti ambienti domestici: la casa di Leonida e di tutti i suoi eredi, «una casa ocra e piena di crepe in un paese pieno di sassi»16, che -b est oE Qu ea arti en pp ook a 16. A. Tabucchi, Il piccolo naviglio, Milano, Feltrinelli, 2011, p. 29. ROMANZO (NON) FAMILIARE ha almeno due dettagli inquietanti: il lampadario e il solaio. Il primo, un lampadario orrendo fatto di tante palline, e regalo di nozze di Leonida e Argia, diviene veicolo della follia di quest’ultimo quando accoccolato davanti alla finestrella osserva le biglie cadere dalla finestra. Nella sua follia, Leonida crede che la gravità, rappresentata dalla caduta delle palline, sia il peggior destino dell’uomo, a cui ci si deve pertanto ribellare. Quanto al solaio, oltre ad essere il luogo degli esperimenti di Leonida, esso diviene anche l’archivio improbabile dei reperti famigliari. In tale ottica il solaio funziona come una sorta di doppiofondo inconscio dell’ambiente domestico, dove si chiude, si abbandona – si nega e si rimuove – tutto quanto non deve essere mostrato, neppure in famiglia. L’immagine ricorrente delle crepe pare invece antropomorfizzare la casa, laddove esse possono essere considerate l’equivalente delle rughe cha solcano i volti di Argia, la capostipite, e di Zia Addolorata, mancata sposa di Quinto, prozia di Capitano Sesto, e unica superstite, pur ridotta a una cozza. Tuttavia, il colore ocra e la presenza di crepe è in realtà comune a tutte le case del paese, contribuendo ancora una volta ad una sorta di domestico collettivo ancor più significativo considerando che il narratore definisce una «maceria polverosa» l’Italia tutta: come in Piazza d’Italia, l’ambiente domestico diviene un’allegoria dell’intero paese17. Vi è, in contrasto, la casa borghese, la villa a Fiesole di Zanardelli dove il piccolo Capitano Sesto trascorre la propria infanzia con la madre Amelia. Essa viene descritta in alcuni tratti distintivi e familiari nel contenuto, ma in modo assolutamente straniato, attraverso la prospettiva di un piccolissimo capitano Sesto-Alcide. E così il corrimano della scala che conduce alle camere da letto pare un «lungo serpente dal capo mostruoso»18; i tre busti della sacra famiglia appesi sopra il letto matrimoniale appaiono sordi alle richieste del bimbo di capire perché la mamma talvolta pianga; e un arazzo diviene una sorta di mondo parallelo, dove il piccolo immagina di parlare con un cane cui ha dato il nome di Sesto. La casa di Zanardelli è la più segnata 191 oio ne a ook Q ue s t o E-b appa rtie Ibid., p. 109. Ibid., p. 111. ilaria mu il.com 89 g ma 17. 18. 192 VERONICA FRIGENI da una «endogamica ricorsività di alcuni riti famigliari»19. Centrale, nella realtà domestica borghese, è il momento della cena, sempre a base di pesce, per conferire un tono aristocratico ai membri della famiglia, e ai loro corpi. Proprio l’occasione del pasto segna però la massima esplosione del conflitto tra padroni e oppressi, tra Anselmo e Amelia, la quale rivendica al marito la possibilità di far conoscere al figlio i parenti paterni (nello specifico la zia Addolorata, che le manda numerose lettere che paiono scivolare, miste alle lacrime della donna, nel brodo di nasello). Nella villa di Fiesole i riti diventano spesso rituali o celebrazioni sacre della famiglia: e così accogliendo gli ospiti si dispongono a imitazione della sacra famiglia; mentre dopo la morte di Amelia la casa viene riempita di ritratti della defunta cui ci si accosta come a degli altari. Infine, merita di essere menzionata la casa, ancora in costruzione, dove Zanardelli trova la propria morte, imprenditore edile sommerso da una colata del suo stesso calcestruzzo. Essa è in realtà una non casa, solo uno scheletro di abitazione, e l’imprenditore si diverte ad affacciarsi dalle numerose finestre in fase di realizzazione sui diversi piani. Che il re del calcestruzzo, padrone di un impero di vani abitabili, trovi la propria morte in un mucchio conico a pronta presa costituisce l’ennesimo rovescio dello spazio famigliare, oltre che una sorta di climax dell’osmosi tra spazio e personaggio tipica dei romanzi di famiglia tabucchiani. Chiaramente una tale topografia di ambienti domestici riflette un microcosmo famigliare più composito e articolato al suo interno rispetto a Piazza d’Italia, per cui la metafora rizomatica diviene ancor più pregnante. Ciò introduce anche ad una ulteriore differenza rispetto al romanzo d’esordio, vale a dire, in modo apparentemente più consono al romanzo di famiglia, la presenza di visioni e posizioni contrastanti all’interno di una medesima famiglia. In realtà si tratta di un dissidio dell’intera famiglia con Anselmo Zanardelli, educato da bravo italiano durante il fascismo, complice nella cattura del secondo Sesto, padrone Qu es to 19. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in Eadem, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., pp. 6-17. E -b o ok ROMANZO (NON) FAMILIARE della cava, esponente DC, sposo di Amelia e patrigno di Capitano Sesto. Un dissidio complicato dal duplice intreccio della famiglia dei sesti con quella Zanardelli, perché Corradino Zanardelli, padre di Anselmo, aveva ingravidato una delle due sorelle del primo Sesto, Maria o Anna, le quali, a seguito però di un parto assolutamente sincrono, mettono alla luce Sesto Marianna. Sesto è, di fatto, fratellastro, prima ancora che amico di infanzia, di Anselmo Zanardelli, che diventerà decisivo nella sua cattura e spedizione ad Auschwitz, e che diventerà patrigno del figlio di Sesto Marianna (o secondo Sesto), vale a dire Capitano Sesto. Chiariti tali intrecci si spiega la netta dicotomia tra la posizione di Anselmo, padrone del tempo e della storia, membro della storia ufficiale e promotore dello status quo, e l’animo sovversivo, di promotori di una possibilità differente, di una possibile differenza, che accomuna tutti i Sesti e Leonida medesimo. Ques to rtiene ook a ppa E-b Leonida ed i suoi discendenti si muovono lungo il continuum di progressivo straniamento sociale e emersione dell’inconscio. Leonida in un certo senso compie un percorso a ritroso: dalla fuga dalle guardie regie, che ne denotano la condizione di uomo ribelle rispetto all’ordine costituito, egli scivola dapprima in un conflitto tra coscienza e inconscio nel momento in cui si rende conto dell’ineluttabilità metafisica della condanna all’oppressione, sino a sprofondare, incapace di approdare più ad un processo di simbolizzazione e di organizzazione di senso, nella follia del rimosso inconscio. Il primo Sesto, uomo acquatico e rabdomante, che scopre un pozzo sotterraneo in grado di risolvere la siccità del paese, sente fin da adolescente «la vocazione al vagabondaggio, lo struggimento per l’ignoto, per le vie del possibile»20. La sua malinconia, non diversamente da quella di Volturno, lo rende protagonista di un dissidio esclusivamente interiore. Sesto Marianna, pur nella sua capacità di ispirare e guidare un gruppo di dissidenti del proprio paese, rimane una figura eroica inimitabile – si pensi al suo accettare di scontare anni di carcere solo per aver organizzato proteste 20. A. Tabucchi, Il piccolo naviglio, cit., p. 43. 193 VERONICA FRIGENI 194 dopo una rappresaglia fascista, al fatto che egli convinca gli anarchici del paese a non colpire l’amico di infanzia e fratellastro Anselmo, o al tentativo di sostituirsi a un bambino per salvarlo dalle camere a gas di Auschwitz –, impossibilitata a farsi davvero portatore di un inconscio collettivo. Capitano Sesto, infine, compie tutto l’itinerario passando da un rimosso interamente inconscio, nel quale sono sepolti gli anni di un’infanzia senza cronaca né cronologia, ad una discrasia tra inconscio e coscienza, ovvero quando inizia la fase dell’archivio dei cosiddetti ricordi ricordabili; dalla scoperta di un mondo fatto di voci per domandare, per comandare o per proibire, ad un ostinato mutismo, conseguente alla morte della madre; egli approda ad una fase di accettazione solipsistica, quando, subito dopo la morte di Anselmo, abbandona la casa del patrigno, rifugge il nome di Alcide ed esce dal proprio prolungato mutismo, per trasferirsi a Firenze; sino al momento del ritorno del rimosso propugnato ma non autorizzato quando non solo confluisce nel PC grazie all’amore dell’Ivana detta Rosa, ma, in un livello più sottile, si fa poeta e scrittore, di se stesso, e del romanzo della propria famiglia. Nata dal bisogno «di sillabare un nodo che lo ingombrava»21, e quindi con un preciso, aggiuntivo valore terapeutico di scioglimento del rimosso individuale e di emersione del represso sociale e storico, la narrazione memoriale di Capitan Sesto produce un ironico, e amaro, rovescio della narrazione ufficiale dello storico e chierico Paolo Fozio, i cui annali sono una fedele cronaca dei principali accadimenti nella storia italiana di fine ’800, e dove i personaggi del romanzo o sono ridotti a numeri incolonnati in quadratini oppure completamente taciuti: egli «faceva storia e non delle storie», nota il narratore22. Ciò che Tabucchi intende smascherare è chiaramente l’arbitrarietà di ogni rappresentazione storica, che organizza eventi selezionati a partire da una data prospettiva e conferendo loro una Qu es 21. 22. Ibid., p. 161. Ibid., p. 55. to E- b ROMANZO (NON) FAMILIARE Qu est precisa intelligibilità. Una prospettiva ed un senso che sono, di fatto, sempre quelli della classe dominante, dei padroni, degli oppressori. In questo senso, il romanzo produce un ritorno del represso a livello di forma da un lato ponendo l’attenzione sulla letterarietà di ogni narrativa storica e dall’altro mostrando come ogni narrazione storica familiare si basi sulla rimozione di un inconscio collettivo. Piegando la natura ibrida del romanzo di famiglia dal polo documentale verso quello del fantastico, Capitano Sesto fa dell’immaginazione – e non della memoria – il principale organo del proprio racconto genealogico. Sul sagrato polveroso di una chiesa, con un quaderno ed una penna, produce infatti congetture, colma vuoti di informazione, istituisce legami tra avvenimenti diversi, adoperando come fonti dei reperti improbabili, ritrovati nel solaio della casa di famiglia, quali il ritratto di Leonida, una vecchia raccolta di ricette mediche, uccelli impagliati, pacchi di giornali, un lampadario ed il racconto della prozia Addolorata. E nel fare ciò, procedendo per metonimie mnemoniche, egli stravolge l’idea stessa di verità e verosimiglianza storica. Sesto, immaginando la propria storia, «provava quel vago senso di eccitazione e di meraviglia che viene dallo sconosciuto, e insieme un senso di ebbrezza e turbamento per la libertà che si prendeva, perché si rendeva conto che tutto ciò che era stato dipendeva unicamente da lui»23. In conclusione, Sesto, e con lui Tabucchi, non esita a interrogare, a prestare ascolto e a dar voce al rovescio di ogni posizione e narrazione. In Tabucchi, l’inconscio collettivo è fatto di tutte quelle tracce di una realtà passata che sopravvivono nella memoria conscia e inconscia, desideri e aspirazioni collettive, elementi latenti e disparati del passato, il futuro negato nel passato, i suoi detriti simbolici ancora non detti e non scritti. In questo senso, riconducendolo a quel perimetro pur sempre poroso che è il romanzo di famiglia, l’inconscio collettivo costituisce il rovescio di un famigliare inteso in un’accezione ampia 23. Ibid., p. 17. 195 oE -bo o Q VERONICA FRIGENI s ue to bo E 196 come l’insieme di tutte quelle ideologie, narrazioni, eventi e memorie che appartengono a e legittimano la grande Storia ufficiale. Il romanzo di famiglia è per Tabucchi necessariamente e sin dal principio non familiare, straniante e straniato. Per questo esso converge, in origine e da ultimo, con la visione autoriale della letteratura, giacché come scrive Tabucchi nel suo Elogio della letteratura: La letteratura è sostanzialmente questo: una visione del mondo differente da quella imposta dal pensiero dominante, o per meglio dire dal pensiero al potere, qualsiasi esso sia. È il dubbio che ciò che l’istituzione vigente vuole sia così, non sia esattamente così. Il dubbio, come la letteratura, non è monoteista, è politeista. Peraltro le conseguenze dei pensieri monoteisti, che non nutrono alcun dubbio, sono sotto gli occhi di tutti24. 24. A. Tabucchi, Elogio della letteratura, in A. Dolfi (a cura di), Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema, Milano, Feltrinelli, 2013, p. 12. ROMANZO (NON) FAMILIARE Quest o E-bo ok ap Bibliografia partie ne a i Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20. Agamben G., (2001), Il cinema di Guy Debord, in E. Ghezzi, R. Turigliatto (a cura di), Guy Debord (contro) il cinema, Milano, Il Castoro. Brizio-Skov F., (2002), Antonio Tabucchi. Navigazioni in un arcipelago narrativo, Cosenza, Pellegrini. Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit. Fofi G., (2009), La vocazione minoritaria: Intervista sulle minoranze, Bari, Laterza. Frigeni V., (2014), L’inconscio ottico della storia. Per una retorica della visione perturbante in Tabucchi, in «Between», 4, 7. Orlando F., (1992), Per una teoria freudiana della letteratura, Torino, Einaudi. Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13. Tabucchi A., (1996), Piazza d’Italia, Milano, Feltrinelli. Tabucchi A., (1995), Écrire le cinéma, in A. de Baecque (a cura di), Le cinéma des ecrivains, Parigi, Éditions de l’Etoile. Tabucchi A., (2011), Il piccolo naviglio, Milano, Feltrinelli. Tabucchi A., (2013), Elogio della letteratura, in A. Dolfi (a cura di), Di tutto resta un poco. Letteratura e cinema, Milano, Feltrinelli. 197 laria o Quest «Questo è il libro per cui sono venuto al mondo». L’epopea storico-familiare in Canale Mussolini di Antonio Pennacchi Simona Di Martino Il presente intervento mira a esaminare il romanzo Canale Mussolini, vincitore del Premio Strega 2010, inquadrandolo all’interno di quell’“intersezione di generi” che è stata definita il romanzo familiare italiano, per cogliere la ricorrenza di alcune costanti tematiche che possano inscriverlo nel sopracitato genere di recente definizione1. Dopo aver affrontato il discorso del genere, l’analisi intende prendere in esame alcuni temi chiave – nello specifico la figura della casa, l’uso del dialetto e del discorso diretto e il rapporto di conflittualità tra i personaggi – ascrivibili al genere in questione. 1. Questione di genere. Romanzo storico, epico e familiare Già Emanuele Canzaniello ha definito il romanzo familiare un crocevia di generi, una particolare commistione di romanzo e memoria familiare, ma anche autobiografia e auto-fiction2. Quest’idea trova conferma nella prefazione di Canale Mussolini, dove Antonio Pennacchi scrive «Bello o brutto che sia, questo è il libro per cui sono venuto al mondo» dichiarando nelle righe successive il suo impegno a raccontare una storia che sentiva il dovere di fermare prima che svanisse3. In que- -b esto E 1. L’espressione “intersezione di generi” è usata da Emanuele Canzaniello, Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in «Enthymema», 20, 2017, p. 89. 2. Ibid. 3. A. Pennacchi, Canale Mussolini, Milano, Mondadori, 2010, p. 7. D’ora in avanti l’opera sarà citata con l’abbreviazione CM a testo. Qu 200 SIMONA DI MARTINO sto modo l’autore afferma di essere parte della storia e implicitamente indica la presenza di un certo grado di autobiografismo. Allo stesso tempo, il genere del romanzo familiare è stato definito come un incrocio tra un documento storico e un’opera di fantasia4. Canale Mussolini confermerebbe questo connubio, come indica il resto della prefazione: Non esiste naturalmente nessuna famiglia Peruzzi in Agro Pontino a cui siano capitate tutte le cose narrate qui. Sia la famiglia Peruzzi che la successione di cose che le capitano […] non sono che frutto di invenzione: non è vero niente ed è tutta un’opera di fantasia. Non esiste però nessuna famiglia di coloni veneti, friulani o ferraresi in Agro Pontino – e anche questo è un fatto – a cui non siano capitate almeno alcune delle cose che qui capitano ai Peruzzi. In questo senso e solo in questo, tutti i fatti qui narrati sono da considerarsi rigorosamente veri. (CM, p. 7) Il romanzo racconta le vicende accadute alla famiglia Peruzzi prima, durante e dopo l’epoca fascista, in un continuo susseguirsi di flashback che narrano tanto le vicende familiari quanto l’ascesa di Mussolini, la marcia su Roma, l’omicidio Matteotti, la fondazione di nuove città e molto altro, arricchendo la vicenda familiare con una di eventi storicamente e innegabilmente accaduti Qucostellazione esto che attribuiscono alla famiglia un valore tanto più eroico quanto più drammatica E si -fabo la sequenza di accadimenti. Partendo quindi dalla ok al’autore sviluppa la storia inventata, ma veveridicità dei fatti storici ppa Peruzzi, i cui membri portano nomi rosimile, della numerosa famiglia rtien di importanti personaggi dell’antichità, può essere consideefatto a lche rato come prima spia di contaminazione di igeneri arialetterari. Di epico non ci sono solo i nomi dei personaggi ma anche lem imprese uoioche questi compiono in un costante intreccio di leggenda familiare e8storica; 9 gm imprese che se ai personaggi valgono il titolo di eroi, al romanzo valail.c om gono il titolo di poema, come recita la quarta di copertina. L’epopea 4. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», XIII, 2005, pp. 95-125. «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» inizia con la cacciata e l’emigrazione di intere famiglie dalle zone del Veneto, del Friuli e dell’Emilia Romagna verso il Lazio. Il racconto di questa discesa procede per tappe, ognuna delle quali è chiaramente indicata come “epica”, di grande portata. Le tappe principali si possono riassumere in cinque momenti: la cacciata dal Nord; la ricerca di una raccomandazione, che implica un viaggio a Roma; l’esodo in treno; l’insediamento nella nuova realtà e, infine, l’impresa della bonifica delle Paludi Pontine. Per poter dare conto dell’epos, procederò con una breve disamina degli eventi appena elencati. Le motivazioni dell’esodo della famiglia Peruzzi sono affrontate nella prima pagina del romanzo. Il narratore, di cui parlerò più approfonditamente in seguito, afferma: «Ci hanno cacciato. Il conte Zorzi Vila», (CM, p. 9). Derubati delle proprie bestie, i Peruzzi ricevono lo sfratto, a seguito dell’imposizione della quota novanta in politica agraria del 1926, e i due figli maggiori dei Peruzzi, Pericle e Temistocle, si recano a Roma per cercare riparo al danno subito nella figura del Rossoni, vecchio amico del padre, che nel frattempo ha aderito al fascismo5. Il racconto del viaggio dei due fratelli, dal carattere meraviglioso, è straordinario se lo si misura prima di tutto in termini di mezzi di locomozione. L’intero percorso infatti è affrontato in bicicletta. Il narratore, incalzato da proposizioni interrogative indirette, ribadisce l’epicità dell’impresa: «Come dice? Perché non hanno preso il treno? Ma se avessimo avuto i soldi per pagare il treno, li avremmo avuti anche per pagare il padrone […]» e incalza «Ci hanno messo cinque o sei giorni […] avranno fatto un centinaio di chilometri al giorno, mica era come al Giro d’Italia adesso […] Le biciclette erano pesanti, i copertoni consumati. Ogni tanto bucavi e ti dovevi fermare a riparare col mastice la camera d’aria» e ancora «Dormivano dove capitava, nelle stalle e nei fienili di qualche povera gente […]» (CM, pp. 15-16). Successivamente, anche il faticoso viaggio verso le terre dell’Agro Pontino viene descritto con termini degni di pa ka p o to ue s Ebo ri e rtie n Q 5. Gli eventi storici narrati sono documentati dall’autore a seguito di ricerche archivistiche, alcune delle quali trovano spazio a fine libro in un lungo elenco di fonti; cfr. A. Pennacchi, op. cit., pp. 458-460. Per una bibliografia dettagliata lo stesso autore rimanda a: A. Pennacchi, Fascio e martello. Viaggio per le città del Duce, Bari, Laterza, 2008. 201 ai la SIMONA DI MARTINO 202 un poema, arricchito della reazione di disprezzo verso gli emigranti da parte della popolazione locale: Fu un esodo. Trentamila persone nello spazio di tre anni – diecimila all’anno – venimmo portati quaggiù dal Nord. Dal Veneto, dal Friuli dal Ferrarese. Portati alla ventura in mezzo a gente straniera che parlava un’altra lingua. Ci chiamavano “polentoni” o peggio ancora “cispadani”. Ci guardavano storto. E pregavano che ci facesse fuori la malaria. (CM, p. 137) o ue st Q Ancora, l’eccezionalità del viaggio è resa dalla ripetizione dei numeri, dalla grande quantità di persone trasferite, dalla sintassi spezzata, e dall’anaforico “ci”, quasi deresponsabilizzante, come se l’esodo fosse stato imposto ai coloni. Lo stesso termine “esodo”, appartenente alla sfera semantica sociologico-religiosa – accompagnato dal parallelismo che vede associate la zona dell’Agro Pontino alla Terra Promessa – delinea la grandiosità dell’impresa, nuovamente tingendo il fatto storico con toni epici: rti e n ea k a pp a o E-b o Fu un esodo però, le ho detto. In trentamila in quasi tre anni ci caricarono sui treni e ci portarono qui. Sulle tradotte. A scaglioni. Un treno al giorno. Diecimila all’anno. Facendoci attraversare tutta Italia. Ci concentravano nelle stazioni di partenza – a Ferrara, Rovigo, Vicenza, Udine, Treviso, Padova – e poi la sera partivamo. Le case e i paesi li avevamo salutati la mattina; ci erano venuti a prendere con gli autocarri della milizia, ci avevano aiutato a caricare le nostre robe, i pochi mobili, gli attrezzi, le bestie chi le aveva. […] Tutti – nei giorni dell’attesa – non avevamo fatto altro che costruire gabbie per i nostri animali da portare nella Terra Promessa […]. (CM, p. 148) ila r i am u com m a il. 9g oio 8 L’insediamento del nucleo familiare, composto dai vecchi genitori, dai figli e dalle nuore, nella terra vergine laziale pronta per essere conquistata e bonificata è lungamente descritto insieme alla fondazione delle nuove città, prima fra tutte Littoria/Latina. Una volta giunti a destinazione, tuttavia, la metafora biblica continua: L’esodo era terminato. La Terra Promessa raggiunta e le guardie del Faraone – schierate coi fez e le camicie nere sul marciapiede del binario Uno – erano 2 «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» lì a proteggerci nello sbarco ed a guidarci nel prendere possesso del nostro Mar Rosso prosciugato. Mosè le aveva solo divise le sue acque temporaneamente: giusto il tempo di far passare la sua gente e poi richiuderle. Il Duce e il Rossoni le hanno prosciugate invece per sempre queste terre dalle acque loro. […] E ci hanno portati qui – “Littoria Stazioneee!” – e scaricati tutti alle sette e mezza del mattino […]. (CM, p. 154) rtie oE b o o k appa Quest L’epicità del romanzo familiare è stata inoltre discussa da Canzaniello, che individua l’elemento epico nella resa romanzesca dell’identità di una nazione o di una civiltà tramite o all’interno della stessa saga familiare, argomentazione che, oltre a rispecchiare quanto accade in Canale Mussolini, ben si sposa con i tre livelli di lettura descritti da Marina Polacco, i quali trovano la loro realizzazione nel romanzo in esame6. Se il piano letterale dà conto della storia della famiglia, esplorando il nucleo dei Peruzzi, quello anagogico permette al lettore di interpretare un’epoca, quella dell’Italia pre- e post-fascista, e infine, il piano metafisico consente l’indagine della condizione dell’umanità, soggetta a grandi stravolgimenti7. La peculiarità dell’epopea è esemplificata dalla voce narrante cui la trattazione è affidata, su cui occorre soffermarsi per meglio inquadrare le singolarità del genere in questione. Questa, infatti, ha un’identità ignota fino alle ultime pagine del romanzo, ma si definisce chiaramente da subito interna alla famiglia per due ragioni. Innanzitutto, epiteta i vari personaggi familiarmente come “zio/a” e “nonno/a”; inoltre, sin dalla prima pagina del romanzo la storia narrata è definita con netta coralità, caratteristica testimoniata dall’uso di verbi e aggettivi possessivi plurali. Si veda l’incipit del romanzo (corsivo mio): «Per la fame. Siamo venuti giù per la fame. E perché sennò? Se non era per la fame restavamo là. Quello era il paese nostro. Perché dovevamo venire qui?». Il narratore fa dunque parte della famiglia, e, pur dichiarando di non essere ancora nato all’epoca dei fatti narrati, li racconta in quanto questi costituiscono E. Canzaniello, op. cit., p. 90. M. Polacco, op. cit., p. 123. io89 gm ne a ila riamuo 6. 7. 203 204 SIMONA DI MARTINO una sorta di patrimonio familiare orale. Si tratta di fatti tramandati da tutti i membri della famiglia, nonni, zii, genitori, cugini, che a loro volta ne sono protagonisti. La storia è narrata direttamente a un anonimo interlocutore cui il narratore si rivolge di tanto in tanto, rispondendo piccatamente alle domande che questi gli pone, domande che però non vengono mai direttamente riportate nel testo dall’interlocutore stesso, venendo riproposte piuttosto dal narratore in una continua mimesi del parlato che rende l’intera narrazione un monologo di quest’ultimo. Si veda ad esempio: «Cosa fa, ride? Non ci crede? Glielo avrei voluto far vedere. E i buoi? Avevamo certi buoi che tiravano gli aratri a due a due peggio di un caterpillar. Che fa, ride di nuovo?»; oppure più avanti nel racconto: «Come dice? Che era stato però lui ad incendiarla? Ho capito, lo abbiamo già detto, è inutile stare a rimestare» (CM, pp. 9; 173). Tenendo presente quanto detto sulla voce narrante, si potrebbe pensare di definire il romanzo in questione una sorta di memoria di famiglia, parzialmente autobiografica, genere discusso in un recente articolo di Elisabetta Abignente. La studiosa definisce le memorie di famiglia delle narrazioni di vicende familiari filtrate attraverso il punto di vista di uno dei membri della famiglia stessa8. Nel caso di Canale Mussolini, tuttavia, il narratore riporta i fatti così come sono narrati dai suoi familiari, restituendone persino la mimesi del parlato. Questa si traduce con una resa dialettale di esclamazioni e interi discorsi che indicano la stretta dipendenza della storia ai fatti raccontati dalla coralità della famiglia, imponendosi come verità, ma anche come testimonianza di cui il narratore si fa solo portavoce, astenendosi dal dare giudizi di valore sulle imprese compiute dai vari personaggi. La volontà di mantenere una posizione neutrale è dichiarata dallo stesso narratore; si veda ad esempio la seguente asserzione: Io naturalmente adesso non è che le stia a dire che avessero ragione loro o avessero ragione gli altri. Io le sto a dire solo come sono andati i fatti e come – volta per volta – l’ha pensata la mia famiglia. Poi chi avesse ragione non lo so, si faccia lei il giudizio suo sul torto o la ragione. (CM, p. 37) 8. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 6-17. Questo «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» 205 Allo stesso tempo, il romanzo può essere considerato un memoir familiare, a patto che ci si ricordi di quanto dichiarato nella prefazione prima esaminata. Questa considera il romanzo una rassegna di fatti verosimili, pur tuttavia dichiaratamente inventati, rendendo possibile una sua inscrizione in una categoria che può essere definita una narrazione autentica9. Per poter definire Canale Mussolini pienamente un romanzo di famiglia occorre fare riferimento a quegli elementi che sono stati definiti come caratteristiche indispensabili per la definizione del genere10. Tra questi, l’ampiezza temporale e la concentrazione spaziale sono certamente i primi due elementi che collocano il romanzo in linea con tali caratteristiche. Infatti, il periodo cronologico è ampio e comprende più generazioni, partendo dai nonni per arrivare ai nipoti, mentre lo spazio della narrazione – sebbene ampio e vario poiché sotteso alle vicende di guerra che vedono i protagonisti viaggiare all’interno e all’esterno della penisola italiana – si basa sulla centralità della casa patriarcale. Ancora in accordo con le caratteristiche del genere è il rapporto tra la microstoria familiare e la macrostoria, in questo caso quella dell’ascesa di Mussolini e più ampiamente dell’Italia. Nonostante questa aderenza al canone tradizionale, Canale Mussolini spiccatamente dipinge il volto di un’Italia, e di una famiglia, dichiaratamente non antifascista11. La famiglia Peruzzi infatti, è convintamente fascista e organica al regime. L’autore testimonia la sfacciata onestà dei membri della famiglia che incarnano l’esempio della popolazione dell’epoca, nell’acclamare il fascismo e il Duce, con l’eccezione ironica del capofamiglia, il quale mal- 9 gmail.com k Questo E-boo appa rt ie n e a il a ri a muoio8 9. Per maggiori dettagli sulle differenze tra narrazioni autentiche e inautentiche, si veda Á. Heller, La memoria autobiografica, Roma, Castelvecchi, 2017. 10. Tra i pochi studi condotti sul genere, oltre al già citato contributo di Polacco del 2005, si ricordano: Y.-L. Ru, The Family Novel: Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992; S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640; K. Dell, The Family Novel in North America from Post-War to Post-Millennium. A Study in Genre, Saarbrücken, VDM, 2007. 11. Molti romanzi autobiografici novecenteschi ritraggono preferibilmente famiglie antifasciste, si veda Lessico familiare di Natalia Ginzburg, come anche Il giardino dei Finzi Contini di Giorgio Bassani, oppure si pensi alle scritture autobiografiche di Carlo Levi, di Piero Gobetti, dei fratelli Rosselli. 206 SIMONA DI MARTINO parti 12. Si veda ad esempio il lavoro di Sergio Luzzatto, Il corpo del Duce, Torino, Einaudi, 2011, nel quale l’autore ritrae atteggiamenti tipici delle masse facilmente riscontrabili nel romanzo di Pennacchi, che, tuttavia, non trovano in questa trattazione lo spazio adeguato per essere esaminati. 13. E. Canzaniello, op. cit., p. 108. 14. Y.-L. Ru, op. cit., p. 12. k ap Come già anticipato, Canale Mussolini non rispetta pienamente la limitata concentrazione spaziale della vicenda familiare, cui invece ten- -boo 2. Primo tema chiave: la casa, il podere 517 sto E Al di là del realismo, dato dalla cronologia del racconto, il canone del romanzo familiare include almeno altre tre fondamentali caratteristiche da riscontrare tra le pagine di Canale Mussolini: la presenza di rituali e cerimonie, l’accadere di conflitti familiari e la coralità delle voci14. Questi tre elementi si prestano a essere discussi all’interno di una più ampia disquisizione sui temi chiave del romanzo, che verranno affrontati nei paragrafi successivi. Alla luce di questa analisi, il romanzo in questione potrà trovare una collocazione rispetto al genere qui discusso del romanzo familiare italiano. Que vede l’affetto e la confidenza di Mussolini verso la moglie12. Infatti, il 23 marzo 1919 a piazza San Sepolcro a fondare il fascio con Mussolini «e un altro po’ di bella gente» c’era anche lo zio Pericle «e a lui il programma che aveva illustrato il Mussolini piaceva proprio perché difendeva l’onore dei soldati, e la patria era ora che cominciasse ad essere riconoscente e soprattutto a dare la terra ai contadini, perché erano i contadini che la lavoravano e che avevano vinto la guerra» (CM, p. 69). Più avanti nella narrazione, il Duce è descritto da un altro membro della famiglia nei seguenti termini: «Quello era un Uomo Speciale che ne nasce solo uno per secoli e secoli» (CM, p. 69). Per dirla con Canzaniello, la generazione che recupera la memoria del trauma privato della Seconda guerra mondiale trova nel romanzo familiare la forma che favorisce un recupero memoriale misto di privato e collettivo, dove spesso, come accade in Canale Mussolini, le due prospettive coincidono13. «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» dono i romanzi familiari. Il motivo di tale deviazione dalla tipicità del genere, che fotografa una realtà dilatata cronologicamente ma ristretta spazialmente, è dovuto all’interesse dell’autore per il racconto del viaggio, tanto per quanto riguarda l’emigrazione dal nord al sud Italia, che per i numerosi viaggi compiuti all’interno della macro-vicenda, spesso, ma non solo, relativi alla guerra in corso. Il proposito dell’autore, infatti, non è solo narrare la storia della famiglia Peruzzi, e, fuori di metafora, della propria famiglia, ma anche raccontare l’Italia da un punto di vista interno e personale, mediato appunto dai racconti tramandati in famiglia, e in particolare di quella nuova realtà laziale nata sotto il ventennio fascista. Il racconto, seppur ironicamente e soggettivamente, dà conto di accadimenti precedenti all’ascesa del Duce e successivi all’intervento americano, dando l’idea di una complessità e una continuità che troveranno seguito nel romanzo successivo. La presenza di un seguito, rappresenta un altro elemento di incontro con le caratteristiche del romanzo familiare, ossia, la necessità di una continuazione e l’esistenza di una vera e propria saga familiare. Quest’ultima consente al romanzo di rappresentare una sorta di totalità narrativa enciclopedica e insiste su legami di sangue, eredità, lotte tra rami diversi della stessa famiglia15. Alcuni di questi aspetti sono riscontrabili nell’atteggiamento della famiglia Peruzzi, specialmente per quanto riguarda il rapporto con gli altri rami della famiglia, sebbene non si possa apertamente parlare di lotte. Il narratore pare tuttavia sottolineare il distacco della sua famiglia dal ramo meno eroico, quello che non ha voluto affrontare il viaggio. Dell’arrivo dei Peruzzi nell’Agro Pontino, il narratore racconta: Qu est oE -bo ok ap pa rtie ne Ci avevano portato i nostri cugini Peruzzi, quelli che erano sempre stati assieme a noi anche a Codigoro e poi ci eravamo divisi, ma divisi sul lavoro, sulle terre e sulla politica. La parentela era rimasta però, e l’affetto pure, anche se un po’ guardingo. […] I nostri cugini però non vennero in Agro Pontino. Anche loro erano stati cacciati dai conti Zorzi Vila e pure a loro mio zio Pericle aveva offerto di venire. Ma non avevano voluto: “Restiamo qua. Qualche cosa troveremo”. (CM, p. 169) 15. E. Canzaniello, op. cit., p. 107. 207 a il ari a a k -bo o SIMONA DI MARTINO sto E e Qu ap p 208 Tuttavia, non sarebbe veritiero dichiarare che, anche in Canale Mussolini, uno degli spazi fondamentali della narrazione non sia la casa. L’elemento domestico è infatti fondamentale per il genere familiare, in quanto mette in luce i legami ed esprime il livello di intimità e quotidianità dei membri della famiglia. Infatti, verso la metà del libro, dopo la narrazione del viaggio e dell’insediamento, il narratore si dilunga nella presentazione del nuovo nucleo abitativo, il podere numero 517. La prima disquisizione dell’autore è linguistica: I poderi erano tutti uguali. O meglio, in realtà la parola podere significherebbe l’intero terreno assegnato ad ogni famiglia di coloni, che variava da dieci a quindici o anche venti ettari di terra, a seconda della fertilità e della possibilità di irrigazione. Ma noi da subito abbiamo cominciato a chiamare il “podere” il casale dove abitavamo; neanche la stalla – che pure era attaccata – o i fienili o i magazzini, ma proprio la casa. Quello era il podere perché sopra – sul fronte che dà verso la strada – su di un angolo al secondo piano, scritto a lettere alte di pietra, c’era: “O.N.C. – Podere N. 517 – Anno X E.F.”. (CM, p. 205) Questo stralcio anticipa inoltre l’importanza del linguaggio familiare, composto da un lessico personalizzato ma preciso, che investe diversi campi semantici, a cominciare da quello particolarissimo, perché più genuinamente vicino alla famiglia, della casa. È importante notare inoltre che, sebbene siano due i poderi assegnati alla famiglia Peruzzi – in quanto, come spiegato nel testo «due erano, nella nostra famiglia, i combattenti della Prima guerra mondiale, zio Temistocle e zio Pericle» (CM, p. 206) –, è attorno al 517, quello dove vivono i nonni, che l’intera storia si sviluppa. La casa è descritta nei dettagli, esternamente e internamente, piano per piano, quasi a voler fare sfoggio dell’organizzazione ingegneristica impeccabile, in contrasto con la descrizione del viaggio in treno pesante e scomodo. A titolo esemplificativo, riporto qui uno stralcio: I poderi – ossia i casali – erano tutti celesti. A due piani. Col tetto a due falde e capriate di legno. Tegole rosse alla marsigliese. Grondaie per la raccolta dell’acqua e discendenti. Sopra il tetto il comignolo grosso – tondo – in «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» 209 Ques to E-b ook a cemento prefabbricato, uguale per tutti. Le finestre nuove di zecca erano verniciate di verde e non avevano persiane ma, all’esterno, zanzariere […] poi i vetri e dietro, all’interno, gli “scuri” di legno verniciati chiari, pannelli che richiusi non lasciavano filtrare la luce. Al piano terra, sulla corte, davanti all’ingresso del podere c’era un tirabasso – bow-window si dice adesso, o anche veranda – una tettoia coperta anch’essa con le tegole e tutta richiusa da zanzariere, con un sistema interno di filo, carrucola e contrappeso che faceva richiudere al volo la porta, appena veniva aperta. Dopo questo antingresso c’era il portoncino vero e serviva appunto – l’antingresso – a tenere lontane le zanzare e non farle entrare in casa. (CM, pp. 206-207) ppart iene a ilariam uoio8 9 gm ail.co Si può notare in questa parte di testo la presenza della voce narrante che interviene per modernizzare il lessico, segnale tuttavia anche della modernità della domotica dell’epoca fascista. Questo tipo di descrizioni, infatti, più che essere funzionale all’intreccio o delimitare lo spazio delle azioni familiari, è testimonianza dell’epoca storica che l’autore tiene a evidenziare16. L’enfasi su questo aspetto è evidente nella descrizione del bagno dell’abitazione, che può essere letta come vero e proprio documento storico. Questo l’estratto: Dietro la casa invece, sul retro – a circa trenta o quaranta metri dal podere – c’era il gabinetto, la latrina, una specie di garitta in muratura, un parallelepipedo con poco più di un metro quadro di base, alto più o meno un paio di metri, con tetto a due falde e tegole di laterizio anche lui. […] Il gabinetto era dietro, staccato dalla casa, e gli americani poi – quelli del New Deal, non quelli della guerra e del Ddt – dissero che si chiamava “prìvy” e che ce lo avevano anche loro fuori, nelle campagne loro, staccato dalle case come si vede ancora adesso nei film western, tipo Gli spietati, che 16. Per approfondire lo studio della casa e degli ambienti domestici in epoca fascista, si veda ad esempio M. Salvati, L’inutile salotto. L’abitazione piccolo-borghese nell’Italia fascista, Torino, Bollati Boringhieri, 1993. Lo studio si sofferma principalmente sulla figura del salotto, una stanza curiosamente assente dal romanzo dei Peruzzi, ma dà conto della struttura della casa fascista, similarmente alle descrizioni riscontrabili in Canale Mussolini, pur marcando chiaramente i confini tra la famiglia piccolo borghese e quella contadina, un’evoluzione che varrebbe la pena di analizzare alla luce di quanto narrato nel romanzo preso in esame. m 20 210 SIMONA DI MARTINO quando debbono ammazzare uno lo vanno ad aspettare proprio fuori del prìvy. (CM, p. 271) Lo stesso lessico utilizzato per indicare questo luogo è un marchio della famiglia Peruzzi: «E tutti noi della famiglia Peruzzi […] lo abbiamo sempre chiamato prìvy». Il narratore insiste sulla ricostruzione storica, sul cambiamento che la casa subì nel corso degli anni, con il susseguirsi delle generazioni, in un continuo oscillare tra la storia familiare e la grande storia17. L’importanza della testimonianza è ribadita dall’insistenza sulla storia del bagno nelle case dell’Agro Pontino, che continua per le pagine a seguire, fino all’introduzione dell’ambiente all’interno della casa, testimonianza che assume dunque il valore di vero e proprio documento storico: Il prìvy, bagno o quel che sia, ad ogni modo viene portato in Agro Pontino dentro l’abitazione – in ogni abitazione, sia di città che di sperduta campagna – solo dopo il 1960, quando è arrivato il benessere e l’elettrificazione anche da noi. Allora sì, giù acqua a volontà, perché oramai c’erano le pompe elettriche, i serbatoi e le condutture per portare subito i nostri rifiuti lontani da noi, senza più bisogno di andirivieni e pesantissimi secchi. (CM, p. 221) Elemento fondamentale della descrizione dello spazio domestico è la rappresentazione della vastità di tale spazio annullata dalla grandezza fisica della famiglia. Più volte il narratore insiste su quanto i Peruzzi siano numerosi, su quante braccia lavorino i campi, su quanto poco senso del privato ci fosseQ trauiemembri stessa famiglia, su quanto facilsto Edi-buna ook a18.pLapcoralità del romanzo, mente gli spazi disponibili venissero saturati artiene a ilariamuoio 17. Approfondimenti sulla stanza da bagno si possono trovare in L. Wright, La civiltà in bagno. Storia del bagno e di numerosi accessori, abitudini e mode riguardanti l’igiene personale, Milano, Garzanti, 1960. Sul cosiddetto “Prìvy” si vedano: D. Booth, Nature Calls: The History, Lore, and Charm of Outhouses, California, Berkeley, Ten Speed Press, 1998; “Jackpine” Bob Cary, The All-American Outhouse-Stories, Design & Construction, Cambridge, Adventure Publications, 2003; P.J. Harrison, Garden Houses and Privies, Authentic Details for Design and Restoration, New York, John Wiley & Sons, 2002; M.E. Gregory, S. James, Toilets of the World, London, Merrell Publishers Ltd, 2006. 18. Si veda a questo proposito G. Chiaretti, Interni familiari. Relazioni e legami d’amore, Milano, FrancoAngeli, 2002. «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» spesso esemplificata da espressioni ricorrenti, dal protagonismo vario dei diversi personaggi, nonché dal palesamento dei pensieri di questi ultimi, si riflette anche nella narrazione dell’intimità domestica. Al lettore è talvolta trasmesso un senso di oppressione e soffocamento, dato dalla sintassi rapida e spezzata e dalle anafore che evidenziano la pienezza degli ambienti, il contatto costante tra i membri della famiglia. Si veda ad esempio il seguente passaggio: Era un podere nuovo di zecca. Un sacco di camere. I muri odoravano ancora di calce, le porte di vernice e un podere così bello e spazioso non lo avevamo mai visto prima. Ma noi eravamo tanti – troppi, le ho detto – e troppo spazio non c’era mai stato per nessuno. Come ti muovevi sbattevi in qualcun altro. La gente, a quei tempi, stava sicuramente più comoda nella cassa da morto quando moriva, che nella casa di famiglia insieme ai suoi parenti. (CM, p. 214) sto E Que La ripetizione anaforica di “troppo” insieme all’intervento del narratore, che ribadisce di aver già dato conto della grandezza della famiglia, annulla la spaziosità prima descritta, evidenziando la sproporzione del nucleo familiare. La visione antitetica della cassa da morto che viene ironicamente rappresentata come dimora più comoda rispetto alla casa di famiglia, iperbolizza il concetto di spazialità ridotta nel podere dei Peruzzi. All’interno dell’ambiente casalingo, si possono inoltre trovare delle aree più spiccatamente dedicate all’incontro familiare, dove il narratore può accentuare la grande concentrazione umana della casa. Tipicamente nei romanzi familiari, un ruolo preminente lo assume la tavola da pranzo, come dimostrato da Abignente19. In realtà Canale Mussolini part k ap -boo 19. Nel saggio di Abignente, il modello preso come riferimento per l’analisi del genere delle memorie di famiglia è Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg, che viene confrontato con uno snello corpus di testi con simili caratteristiche contenutistiche e formali: Le Labyrinthe du monde (1974-88) di Marguerite Yourcenar, Harmonia Caelestis (2000) di Péter Estrházy, Die Box. Dunkelkammergeschichten (2008) di Günter Grass e Les Années (2008) di Annie Ernaux. Un’analisi particolare viene riservata alle scene che vedono la famiglia riunita a tavola. L’autrice infatti asserisce che «il rituale del pasto domestico, quotidiano o festivo, si presenta come significativo terreno di incontro e di scontro tra le generazioni e come momento privilegiato della vita comunitaria nel quale ogni lessico familiare prende forma», cfr. E. Abignente, op. cit., pp. 11-15. 211 iene a 212 SIMONA DI MARTINO inscena poche rappresentazioni di pranzi e cene, più adatti alla rappresentazione dell’aristocrazia, come accade tra le pagine del Gattopardo, dove vengono fotografati i pasti sontuosi della famiglia Salina, che non adempirebbero allo stesso proposito dell’autore del romanzo in queom c . stione, interessato alla rappresentazione dell’ambiente contadino dei il a Peruzzi20. Uno degli ambienti meglio descritti in Canale Mussolinimè g non a caso la cucina, area della casa più congeniale alla rappresentazio9 8 ne di una famiglia di contadini e cacciatori, descritta con tutto il o i calore familiare possibile, seppur insistendo sulla scomoda densità uo umana: m ia lar A sinistra, subito dopo l’ingresso, la porta sempre aperta della cucina. Un cucinone enorme col focolare in fondo in cui entrava – nel cucinone, non nel focolare – tutta la famiglia patriarcale. Era questo il cuore del podere in cui tutti assieme si mangiava – chi in piedi e chi assiso – e si discuteva pure, se e quando era il caso. (CM, p. 212) e n tr ie a i a p ap Che si tratti dell’ambientekfamiliare per eccellenza è facilmente dioo della porta sempre aperta, chiaro segnale mostrato dalla caratteristica b di condivisione e spazio E- comune21. Come tutte le cucine di famiglia, o t Peruzzi non solo si mangia ma si discute, e, come anche in quella discasa e si vedrà più avanti u nella trattazione, si discute parecchio. La stanza è Ql’accrescitivo indicata con “cucinone”, grande abbastanza per accogliere l’intera famiglia, che comunque, non poteva trovare collettivamente posto a sedere. La cucina appare tuttavia come una sorta di ambiente diffuso nell’intera casa, a sottolineare nuovamente l’estensione della famiglia e l’intimità ugualmente diffusa, in aggiunta alla testimonianza storica, sempre da tenere a mente. La diffusione della cucina negli altri ambienti domestici è ben resa dalla seguente descrizione, riguardante il forno per il pane: 20. Per uno studio sull’immagine del banchetto nel Gattopardo cfr.: M.T. Simeti, La tavola del Gattopardo: la cucina siciliana tra letteratura e memoria, Palermo, Parco letterario Giuseppe Tomasi di Lampedusa, 2001. 21. Per una psicologia degli spazi interni si veda: G. Giordano, La casa vissuta: percorsi e dinamiche dell’abitare, Milano, Giuffrè, 1997. 20 «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» Qu es to Ebo ok ap pa rtie ne a ila ria muoio89 gmail.com 2012 Dall’altro lato della casa invece – sul lato corto opposto a quello della stalla – c’era il forno per il pane. […] Mia nonna cominciava la sera prima – e tutte le altre femmine insieme a lei a impastare e rimestare – finché a notte la cucina era piena di forme di pasta cruda messa a lievitare. E gli uomini ad accatastare la legna. E il giorno dopo vai con il fuoco al forno, a cuocere il pane per tutta la mattinata. […] C’erano tutte le stanze piene – da qualche parte dovevamo pure metterli, e noi eravamo una marea e ci volevano maree di salami e cotechini per darci da mangiare – e per tutto novembre-dicembre e anche gennaio-febbraio, c’erano tutti questi soffitti con la roba che pendeva e tu dormivi e la notte, ogni tanto, ti cadeva una goccia di grasso sulla faccia. (CM, pp. 222-224) I ruoli domestici sono, come ci si aspetterebbe, ben definiti22. Le donne impastano mentre gli uomini preparano la legna. L’insistenza sulla poca disponibilità di spazio dovuta all’estensione familiare è nuovamente palesata nella descrizione della cucina diffusa, che vede cibi e membri della famiglia mescolarsi in un unico grande ambiente condiviso. 3. Secondo tema chiave: il linguaggio dei Peruzzi Al termine del romanzo, nella nota filologica si legge che il dialetto veneto-pontino che si parla in Canale Mussolini non è rintracciabile nel veneto antico e nemmeno in quello contemporaneo. L’autore chiarisce che la lingua parlata dalla sua famiglia è un impasto di più dialetti – rovigotto, ferrarese, trevigiano, friulano e altri – privo di strutturazione grammaticale fissa e con cambiamenti riscontrabili spostandosi da podere a podere e dipendenti dalla situazione, spesso anche nello stesso parlante23. Il dialetto dei Peruzzi, è dunque tratto caratteristico dei coloni dell’Agro Pontino, segno distintivo di personaggi che hanno intrapreso l’epica discesa verso il Lazio, protagonisti dell’epopea fami22. Uno studio su spazi domestici e ruolo femminile nelle immagini letterarie si veda: C. Cretella, S. Lorenzetti (a cura di), Architetture interiori: immagini domestiche nella letteratura femminile del Novecento italiano, Firenze, Franco Cesati Editore, 2008. 23. Cfr. Nota filologica, in A. Pennacchi, op. cit., p. 457. 213 214 SIMONA DI MARTINO Quest oE liare che si sta qui analizzando. Tratto tipico delle famiglie è un particolare lessico, una sorta di gergo decifrabile quasi unicamente dai membri della famiglia, che non manca di comparire in Canale Mussolini, anzi sottolineando maggiormente la provenienza straniera della famiglia nel nuovo territorio. Tuttavia, l’impiego del dialetto nella maggioranza dei discorsi diretti che si trovano nel romanzo ha una valenza di testimonianza storica, ancora una volta, in quanto scelta consapevole del narratore di soggettivare il racconto stesso. Tale decisione è ad esempio ben rappresentata dai dialoghi che vedono protagonisti i personaggi storici, anche Mussolini e lo stesso Hitler, impegnati in immaginarie e semplicistiche, ma per questo dirette ed efficaci, conversazioni in dialetto veneto-emiliano. Il lettore è dunque chiamato a immagine un narratore in carne e ossa intento a riportare la sua narrazione come se fosse stata appena raccontata da uno dei tanti zii dai nomi altisonanti. Le parole di Hitler ad esempio, sono filtrate dal punto di vista del personaggio che le riferisce e la soggettività della storia, che pur sempre rimane testimonianza di eventi storici innegabili, si fa allo stesso tempo portavoce della coralità della famiglia. Si ricordi infatti l’uso dei possessivi plurali da parte della voce narrante. Quanto raccontato è condiviso e tramandato dall’intera famiglia, che ha contribuito alla completezza dell’intera storia confezionata per il lettore. Il lessico familiare impiegato non è molto vasto, ma piuttosto ripetitivo. Motti e modi di dire si impongono ironicamente tra le pagine della narrazione, ora a rimarcare la firma familiare, ora a sottolineare la rusticità genuina dei protagonisti. Particolarmente significativa a questo proposito è l’esclamazione «Maladeti i Zorzi Vila», nata nel contesto della cacciata da parte dei padroni dal nord Italia e riproposta ogni volta che qualche membro della famiglia si trova a dover fronteggiare un problema o una disgrazia, necessariamente – s’intende – legata alla maledizione abbattutasi sulla famiglia a seguito della suddetta cacciata. Si veda un esempio in cui la maledizione verso i vecchi padroni è legata invece a un evento positivo. Si ripropone qui la scena in cui i Peruzzi, arrivati in Agro Pontino vanno a impossessarsi di alcuni capi di bestiame a loro disposizione. Tutta la famiglia festeggia felice l’inizio della nuova vita all’interno della stalla nuova di zecca popolata da nuove be- -b «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» Q u e sto stie, finché la nonna esclama: «In malora i Zorzi Vila e tuta l’Altitalia» (CM, p. 184). L’espressione diventa talmente significativa e pregnante per la famiglia, che anche i membri acquisiti, e più avanti i loro discendenti, maledicono i vecchi padroni mai conosciuti. Quando Armida, la donna più bella, andata in sposa al coraggioso Pericle, saluta il nipote Paride, consapevole di essere colpevole di un tradimento che sarà la sua rovina, dice: «Grassie a ti, amore mio benedeto, grazie per sempre… e siano benedetti anche i dolori che potranno venire dalla mia colpa, maladeta tuta la rasa d’i Zorzi Vila» (CM, p. 425). Ancora, espressioni dialettali ricorrenti sono «Come te sì bea», frase detta dal nonno alla nonna all’inizio del romanzo e poi in punto di morte, nonché reiterata nella fase di corteggiamento dello zio Pericle verso la bella Armida, e anche «Dove sì ch’at copo?»; la prima a dimostrazione della passione amorosa e della dolcezza che scorre nelle vene dei Peruzzi e la seconda, esempio dell’impulsività sanguigna degli stessi. L’invettiva dialettale è ugualmente spesso parte di un ritornello che accomuna i vari membri della famiglia, senza distinzione di genere, come l’espressione «Ch’at vegna un càncher», diretta in segno di protesta o indignazione intercambiabilmente a membri e non membri della famiglia. Quando i figli dei capostipiti della famiglia si preparano per partecipare alla marcia su Roma, la nonna si lamenta per il tempismo dell’impresa, decisamente in disaccordo con la tabella di marcia della semina, ed esclama: «A Roma? E perché non più in là? Qui c’è da seminare, desgrasià. Chi è che semina, ch’av vegna un càncher?» (CM, p. 113). Piuttosto frequente anche l’insulto dialettale verso la popolazione locale, che, come ribadito precedentemente, appare agli occhi dei coloni nordici talmente differente da sembrare straniera. Motivo per cui l’appellativo dato dai Peruzzi a chiunque provenga da una certa latitudine in giù è «marucassi» alternato a «maruchin». Tra le espressioni più chiaramente appartenenti al lessico familiare si annovera l’iconica «firmato Peruzzi». Questa deriva dalla chiosa del bollettino della vittoria della battaglia a Vittorio Veneto prima dell’armistizio del 4 novembre 1918, che appunto si concludeva con «Firmato Diaz». Differentemente dalla maggior parte degli italiani, che fieramente avevano dato nome “Firmato” ai propri figli, i Peruzzi firmavano ver- 215 ok E-b o tien app ar 216 SIMONA DI MARTINO balmente le loro esclamazioni importanti con l’espressione «Firmato Peruzzi», a indicare anche una decisione perentoria e inamovibile, e per questo accompagnata spesso da «un bel pugno sul tavolo» (CM, p. 112). In proposito, il narratore aggiunge: «ma anche quando calavano l’asso. Specie mio nonno: “Firmato Peruzzi!”» (CM, p. 112). 4. Terzo tema chiave: la conflittualità familiare La conflittualità tra i membri della famiglia, è l’ultimo tratto chiave che questo saggio prende in considerazione. In Canale Mussolini, molte sono le scene che ritraggono conflitti, essendo la famiglia Peruzzi particolarmente e fieramente irruenta e sanguigna, come anche precedentemente dimostrato. L’autorità matriarcale è quella più fortemente temuta tra i Peruzzi, che si impone sia nel legame con il marito che in quello madre-figli. I motivi dei conflitti sono vari e talvolta costituiscono le parti ironiche della storia narrata, pur sempre mettendo in luce la gerarchia della famiglia, dove la nonna, matriarca, detiene il potere decisionale. Si veda ad esempio la scena del ritorno del capofamiglia a casa dopo aver registrato il nome delle nuove nate all’anagrafe. E così dal 1904 al 1908 – che mio nonno aveva messo al mondo altri quattro figli – ritenendo di fare cosa giusta, a uno aveva messo nome Treves, all’altro Turati e le due femmine, le gemelline che adesso dormivano già un po’ strette […] le aveva chiamate una Modigliana mentre l’altra, per non fare torto a nessuno, Bissolata. […] appena il nonno era tornato dall’averle registrate, mia nonna andò su tutte le furie: “Bissolata? Ma che t’ha detto quella testa? Chi se la prende da sposare? Non lo capisci che tutti la chiameranno Bìssola tua figlia?”. (CM, p. 38) L’episodio, che aprirebbe un’ampia parentesi riguardo l’onomastica durante l’epoca fascista tuttavia sfociando in una digressione non consentita in questa trattazione, ha un forte sapore familiare e il dialetto dei coloni gioca nuovamente un ruolo importante. Infatti, “bìssola” ha il significato di biscia in italiano, e, nomen omen, il narratore assicura che la zia in questione era una biscia di nome e di fatto, una serpe velenosa. Questo «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» 217 Al di là del disappunto della moglie verso il marito, l’episodio torna ad affermare quell’ibridismo di generi che intreccia al documento storico – il fatto che tra i nomi più registrati all’anagrafe ci fossero i cognomi dei personaggi politici più influenti dell’epoca – l’elemento epico e leggendario, secondo cui i membri della famiglia Peruzzi presagiscono la personalità dei loro discendenti attribuendo loro i perfetti nomi evocativi. Inoltre, la capacità quasi magica di avere delle premonizioni rimane un tratto fondamentale della figura materna, tanto che il sogno ricorrente della nonna che rappresenta la caduta di un “velo nero” è effettivo presagio di morte nella realtà24. Ancora, la figura matriarcale emerge prepotentemente in un altro episodio, mettendo in evidenza, come spesso accade nel corso della narrazione, la gerarchia familiare. Questo l’episodio accaduto dopo l’uccisione involontaria di un prete da parte di Pericle: Mio nonno invece non diceva niente. Capirai, se la moglie era arrabbiata col figlio e decideva di starlo a rimproverare tutto il santo giorno, lui che faceva, si metteva in mezzo? A dire cosa? A difenderlo? […] Come dice? Che poteva intervenire anche lui a rimproverare il figlio? Sì, peggio ancora. Ma allora non ha capito com’era fatta quella. “Di che ti impicci tu?” avrebbe detto. E pur di contrariarlo avrebbe cambiato idea lei, e si sarebbe messa a dare ragione al figlio e torto a lui. Meglio farsi i fatti propri quando quella partiva, e mettersi ad aspettare che le passasse. (CM, p. 54) La dinamica familiare è qui lucidamente spiegata dalla voce narrante mediante la presentazione di una serie di domande retoriche, che mette in risalto la testardaggine della nonna. L’episodio fa parte di una costellazione di eventi propedeutici al grande scontro finale, il conflitto Qu sto E definitivo, che spiazza il lettore e che non lascia apertaealcuna via-b al-oo k ternativa. Ancora una volta, la decisione matriarcale è quella decisiva, a cui nessuno può opporsi e che nessuno può attenuare. L’evento fonte del conflitto, che stravolge per sempre le vite della famiglia Peruzzi, è 24. Si veda a questo proposito E. de Martino, Morte e pianto rituale: dal lamento funebre antico al pianto di Maria, Torino, Bollati Boringhieri, 2000. appart ap ok bo E- l’unione incestuosa della bella Armida, moglie del valoroso Pericle partito per la guerra, con il nipote Paride Peruzzi, figlio di un altro membro della famiglia. Parte della famiglia, scoprendo l’accaduto, si fa complice dei due innamorati fino a quando la verità viene scoperta dalla nonna e l’evento raccontato dal narratore con toni epici e drammatici assume quasi la portata di una guerra fratricida. pa SIMONA DI MARTINO es to Il dramma vero comunque fu quando vennero a saperlo da mia nonna, che doveva arrivare questo bambino. Fu il finimondo. Una tragedia greca. […] Lei non ha idea di quello che è successo. Erano ripresi ancora più forti i rumori dei bombardamenti dalle parti di Cassino […] Ma niente in confronto a quello che è successo al podere 517 dei Peruzzi. […] Mio zio Adelchi sfasciava tutte le sedie per terra in cucina […] e sbatteva piangendo la testa al muro. “Che vergogna, che vergogna” strillava mentre sbatteva la testa – ‘Tòum, tòum, tòum’ – Che vergòògnaaaa!” e piangeva e piangeva. “Chi xè stà! Chi xè stà!” facevano tutti gli altri intorno […] Mia nonna come l’ha avuta tra le mani l’ha sgrullata due o tre volte per le braccia e tutto il corpo […] poi l’ha lasciata e le ha dato uno schiaffone forte in faccia, e l’Armida ferma immobile, e mia nonna ha detto: “Chi xè stà? Chi xè stà bruta putana?” […] “Deve essere stato qualche figlio del Temistocle, confessa!” hanno detto a una voce zia Bìssola e zio Adelchi. “Lasciate stare i miei fiòi!” ha detto come una bestia zio Temistocle, impugnando dal tavolo uno dei coltellacci del maiale. (CM, p. 432) Qu 218 La drammaticità della scena è esacerbata dalla rapidità della descrizione, dall’uso del discorso diretto libero e del dialetto, che conferisce ancora una volta spontaneità ai personaggi. La violenza dei gesti dei personaggi in contrasto con la staticità rassegnata di Armida esaspera il conflitto familiare facendo risaltare la gravità della colpa dei due peccatori. La nonna, alla pari di un dio punitore, esercita il suo potere su Armida, sancendo per sempre il suo allontanamento dalla famiglia. «QUESTO È IL LIBRO PER CUI SONO VENUTO AL MONDO» La sentenza […] era pronunciata. Bando assoluto. Mia nonna mandò subito il carretto da zio Temistocle a prendere le robe dell’Armida e dei suoi figli. […] Solo Menego – il piccolo – le lasciarono […] ma gli altri glieli tolsero tutti e li dispersero uno ad uno per ogni famiglia dei Peruzzi. (CM, p. 433) La crudeltà della punizione inflitta ad Armida, evocativa di un castigo degno di un tragico racconto epico, si ripercuote anche sulle generazioni a venire, in linea con i toni biblici manifestati nell’epopea dei Peruzzi sin dall’inizio. La donna viene allontanata dal podere e le vengono tolti i figli, affidati alle cure dei Peruzzi del nucleo familiare originario cui Armida non può opporsi: All’Armida comunque oramai mancava solo la lettera scarlatta sulla fronte. Non poteva più uscire o andare al borgo. Né a novene né a messe la domenica e neanche a Natale. Chiusa in casa se arrivava qualcuno. Non si doveva proprio vedere. […] E il senso di vergogna ci riempiva tutti quanti. (CM, p. 433) L’ostracismo del personaggio di Armida è straziante, ma ancora una volta, è occasione di manifestazione della coralità del romanzo. L’accumulo di negazioni che appesantisce l’elenco dei divieti imposti alla donna è mozzato alla fine dell’estratto dalla congiunzione coordinante “e”, quasi ad aggiungere l’ultima pena alla montagna precedentemente costruita. La vergona e il disonore sono caduti come un velo sull’intera famiglia Peruzzi, coralmente unanime nella decisione presa. L’epopea familiare si interrompe qui, con l’esclusione di un membro dalla stessa famiglia, quasi a ricordare che la famiglia segue un preciso codice d’onore, disatteso il quale è impossibile continuare a farne parte. 219 uoio pparti ene a i lariam Qu est o E b o ok a Q 220 SIMONA DI MARTINO Bibliografia Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20. Booth D., (1998), Nature Calls: The History, Lore, and Charm of Outhouses, California, Berkeley, Ten Speed Press. Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi. Canzaniello E., (2017), Il romanzo familiare. Tassonomia e New Realism, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit. 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La madre, Maria Zemmgrund, proveniene da una famiglia di nazisti della prima ora: suo padre trova nel partito degli anni Venti l’unica entità pronta a difendere e rivendicare orgogliosamente la sua mutilazione di guerra. Le prime pagine del romanzo sono dedicate proprio alla descrizione della durissima vita economica, sociale e politica nel primo dopoguerra a Bockburg, una cittadina di fantasia pochi chilometri a sud di Monaco. La famiglia approfitta poi delle leggi anti-ebraiche del 1935 per strappare ai propri vicini ebrei, i Kaumann, la casa e l’automobile, ma ben presto Maria si ammala di tubercolosi, ed è costretta a recarsi in un luogo dal clima più favorevole alla cura, ossia Merano, in Alto Adige. Siamo alla fine degli anni Trenta, e la città sta vivendo una profonda crisi del mercato immobiliare a causa delle “opzioni” in Alto Adige, il sistema stabilito 1. G. Falco, La gemella H, Torino, Einaudi, 2014, di seguito nel testo indicato con l’abbreviazione GH. om 20 GIACOMO TINELLI 224 da Italia e Germania nel 1939 per risolvere il contenzioso sui territori della regione. Molti alto atesini di cultura tedesca svendono casa per traslocare nel terzo Reich, il prezzo degli immobili crolla e la famiglia Hinner ne approfitta per un’ulteriore, vantaggiosissima, acquisizione patrimoniale. La famiglia vive separata mentre infuriano gli anni della guerra: la madre con le gemelle a Merano, Hans a Bockburg, a capo del giornale. Quest’ultimo, concluso il periodo bellico e fuggito dalla Germania, riesce a raggiungere a Merano le figlie e la moglie, che però muore l’anno seguente di tubercolosi. Abbandonata per sempre la Germania, Hans, Hilde e Helga ricominciano da Milano, la città-simbolo della ricostruzione postbellica. E infine, all’alba degli anni Cinquanta, la famiglia si trasferisce a Milano Marittima, sul litorale romagnolo, dove avvia un’attività alberghiera (l’hotel Sand) e partecipa alla ricostruzione e ai benefici del cosiddetto “miracolo” economico. Il testo ha una stretta relazione con il genere del romanzo storico dunque, specialmente nella prima parte, che racconta gli antefatti degli Hinner e degli Zemmgrund in uno stretto rapporto con la storia. E ciò è evidente poiché, come afferma Lukács, in effetti «il particolare modo di agire degli uomini [deriva] dalle caratteristiche storiche dell’epoca loro»2. Qui le vicende, le emozioni, le parole, i destini e insomma l’intera caratterizzazione e la funzione dei personaggi è legata in modo indissolubile alle vicende storiche e politiche della Germania degli anni Venti e Trenta. Eccone un esempio nella reazione della madre di Hans alla notizia del fidanzamento del figlio con Maria: Impugna la forchetta, che sembra pesare dieci chili, prima di precipitare nel piatto. Ascolta tua madre. […] Maria Zemmgrund è figlia di un invalido! Invalido di guerra, ma sempre invalido. Suo padre è nazista, Hans, sono bifolchi, noi siamo nazionalisti, non nazisti, la monarchia è tradizione e classe, perché legarsi alla figlia di Zemmgrund, lo zoppo? (GH, p. 16) Qudella madre, nel A questo indiretto libero che focalizza il punto di vista esstoricamente quale già di per sé compaiono in nuce una serie di questioni t oE -bo 2. G. Lukács, Il romanzo storico, Torino, Einaudi, 1965, p. 9. ok ap pa rt LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE determinate che influiscono sul suo giudizio personale rispetto all’opportunità del matrimonio (le relazioni iniziali tra partito nazionalista e partito nazista, lo snobismo piccolo borghese di una famiglia artigiana della provincia bavarese, la contrapposta composizione di classe che caratterizza le due compagini politiche a inizio novecento), segue un brano che contestualizza storicamente il problema degli invalidi di guerra a Bockburg e della disoccupazione e che rafforza dunque la relazione tra i destini di questa particolare cittadina immaginaria e la Storia del Novecento. Tuttavia, i problemi che La gemella H pone sul piano storico sono costantemente passati attraverso il filtro sociale e affettivo della famiglia. Le azioni, i desideri e i destini individuali dei personaggi, che esibiscono una relazione cogente con la storia, sono cioè interamente concepiti all’interno delle relazioni affettive e di interesse familiari. D’altra parte già Marina Polacco aveva individuato il rapporto vincolante che lega i due generi, avanzando l’ipotesi che il romanzo familiare possa essere considerato una sorta di romanzo storico, in cui paradossalmente si e tr ie n a i a k bo o to ap p i E- ue s Q uo m lar ia affronta un discorso storico anche senza parlare di fatti storici, o magari parlandone solo incidentalmente: ma la vicenda narrata costituisce di per sé una proposta di interpretazione di fenomeni e processi storici di portata epocale […]. La storia della famiglia diventa allegoria della storia di una comunità […]3. La Gemella H fornisce allora l’occasione per tentare di comprendere quale tipo di rapporto possa instaurarsi tra i due generi. L’ipotesi principale di queste pagine è che Falco abbia realizzato una sorta di romanzo che osserva la storia da un punto di vista materiale, mettendo in luce il carattere ideologico della famiglia e delle narrazioni politiche che ne accompagnano il passaggio dall’epoca nazifascista a quella del capitalismo dei consumi e della democrazia liberale4. La famiglia si confi- 3. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 121-122. Cfr. anche ibid., p. 115. 4. Cfr. R. Saviano, Un nazista piccolo piccolo dal Terzo Reich a Rimini, in «La Repubblica», 20 febbraio 2014; E. Trevi, I frutti laboriosi di un piccolo peccato, in «Corriere della Sera», 2 marzo 2014; A. Cortellessa, Giorgio Falco. La gemella H, in «Doppiozero», 15 marzo 2014; 225 GIACOMO TINELLI gurerebbe allora come un sintomo difensivo rispetto alla continuità materiale della storia, tramandata attraverso la catena patrimoniale che ha radici nell’atto infame dell’acquisizione ad un prezzo irrisorio della villa dei Kaumann e che di fatto, dopo una serie di passaggi territoriali, consente l’investimento nell’hotel Sand. Il puro e semplice furto nazista si trasforma allora, e solo retrospettivamente, in una sorta di accumulazione originaria, poiché permette di raccogliere il capitale necessario all’avvio dell’attività imprenditoriale5. Althusser colloca la famiglia nell’ambito dei cosiddetti «apparati ideologici di stato», che occorrono a garantire la riproduzione delle condizioni di produzione. In quanto tale, la famiglia partecipa dunque alla costruzione ideologica, che A proposito delle qualità che un romanzo di famiglia deve mostrare per essere ritenuto e interpretato come tale vi è una sostanziale con- G. Fofi, Aggrappati ai consumi, in «Internazionale», 26 marzo 2014. Queste e altre recensioni sono raccolte in A. Cortellessa (a cura di), La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), Roma, L’Orma, 2014, pp. 461-465. 5. Sull’accumulazione originaria cfr., naturalmente, K. Marx, Il Capitale. Libro I, Torino, UTET, 1996, pp. 743-775. Il concetto è qui utilizzato in maniera abbastanza fedele all’idea marxista: un furto originario che si trasforma in capitale di investimento. 6. L. Althusser, Sull’ideologia, Bari, Dedalo libri, 1976, p. 59. a ilariam partiene 2. Il romanzo di famiglia -book ap Da questo punto di vista, la famiglia e le sue relazioni interne, allora, non sono che un filtro immaginario che plasma la percezione rappresentativa della posizione dell’individuo rispetto al ruolo economico-sociale che riveste nella società. uoio rappresenta non i rapporti di produzione esistenti (e gli altri rapporti che ne derivano), ma prima di tutto il rapporto (immaginario) degli individui ai rapporti di produzione e ai rapporti che ne derivano. Nell’ideologia è dunque rappresentato non il sistema dei rapporti reali che governano l’esistenza degli individui, ma il rapporto immaginario di questi individui con i rapporti reali nei quali vivono6. Questo E 226 LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE vergenza della critica attorno ad alcune caratteristiche fondamentali7. Anzitutto, è universalmente riconosciuta la rilevanza discriminante del cronotopo: una delle qualità del genere è una specifica articolazione tra le linee narrative spaziali e quelle temporali. L’arco temporale ampio, che corrisponde ad almeno tre generazioni e mostra la dialettica dei rapporti tra esse, si abbina ad un’estensione spaziale ristretta, claustrofobica, tesa a mettere in risalto l’intimità delle scene familiari «endogamiche», «la ricorsività dei riti familiari»8. Sarà proprio questa prima e rilevante caratteristica ad essere posta in questione dal caso di studio che abbiamo scelto, poiché se il requisito temporale è tutto sommato soddisfatto, quello spaziale è tutt’altro che riconoscibile: il luogo di residenza e di attività della famiglia si sfrangia in molteplici beni immobili tra la Baviera, l’Alto Adige, Milano e infine la Romagna, occupati e utilizzati a seconda dell’opportunità del momento9. Come già osservato, l’elemento della casa è ciò che identifica la catena patrimoniale della famiglia, indicandone le radici nell’atto nazista. Per farlo deve necessariamente mobilizzarsi, poiché è proprio grazie a tale caratteristica che essa assume il ruolo di capitale di investimento a partire da un ruolo esclusivamente patrimoniale. È solo occultando il filo che riconduce la casa di Merano, poi quella di Milano e infine l’Hotel Sand, alla villa di Bockburg che gli immobili possono legittimamente trasformarsi in capitale di investimento per la futura attività familiare. Una conseguenza di tale organizzazione temporale, individuata da Yi-Ling Ru, è l’articolazione tra dimensione diacronica (e, appunto, la dinamica, i contrasti del rapporto tra generazioni) e dimensione sin7. Cfr. Y.-L. Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992; M. Polacco, op. cit.; S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640. 8. Ibid., p. 635. A proposito dei pasti come scene tipiche del romanzo familiare cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 11-15. 9. L’elemento della casa come cronotopo significativo era già chiaramente apparso nell’attività di Falco con L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi, 2009 e si confermerà centrale in seguito con G. Falco, S. Ricucci, Condominio oltremare, Roma, L’Orma, 2014 e con G. Falco, Ipotesi di una sconfitta, Torino, Einaudi, 2017. 227 Qu es to E ila ria a ne ar tie GIACOMO TINELLI es to E- bo o ka pp cronica della famiglia, che dipinge cioè le relazioni orizzontali, relative a un particolare momento, tra le figure familiari10. Il doppio sguardo, da un lato alla cronologia passata della famiglia, dall’altro alla rappresentazione delle relazioni in una particolare sezione di tempo, determina a sua volta un’ulteriore caratteristica, ossia una gestione del tempo narrativo che procede per salti, discontinuità, accelerazioni e sospensioni, attraverso una successione di scene collocate in momenti cronologici a volte molto distanti l’uno dall’altro. Lo sviluppo lineare della fabula, costruita da una progressione di avvenimenti, non trova necessariamente riscontro nell’intreccio: la materia deve essere selezionata, ridotta, riorganizzata11. Qu 228 Nella Gemella H è proprio quest’ultima caratteristica a consentire l’organizzazione del racconto secondo una disposizione e un modo tale per cui gli avvenimenti storici emergono solamente in controluce rispetto alla narrazione delle relazioni interfamiliari. La narrazione della guerra è un esempio chiarissimo ed eloquente rispetto alle scelte dell’autore in tal senso. I mesi bellici sono colti attraverso una scrittura intimistica come quella epistolare (le brevi lettere che Hans e Maria si scambiavano tra Bockburg e Merano) e in un’accelerazione vertiginosa del racconto. Eccone un esempio: Caro Hans, […] Quanto alla guerra, c’è bisogno di tutti, soprattutto dei giornali e della radio. Se potessi sarei lì a dare il mio contributo. Come possono combattere i soldati senza qualcuno che lavora in patria per assicurare loro armi e cibo? 10. «The family novel is developed along line through the evolution of several generations. The cronology constructs a long, foward-moving vertical structure. At the same time, all kinds of conflicts among family members, including those between brothers form what might be described as the horizontal structure», in Y.-L. Ru, op. cit., pp. 36-37, citato in M. Polacco, op. cit., p. 109. 11. Ibid., p. 110. A proposito già A. Sarchi ha notato che il testo «procede per accumulo e non per intreccio», La gemella H in «alfabeta2», 26 marzo 2014, in https://www. alfabeta2.it/2014/03/26/gemella-h/, anch’esso raccolto in A. Cortellessa (a cura di), La terra della prosa, cit. art p ap k o bo E o t s LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE e Qu […] L’Italia è in guerra e ora pensa ad altro. In molti dicono che i nostri soldati entreranno in Sudtirolo. Se Merano diventasse il Terzo Reich potresti trasferirti subito! Tua, Maria (GH, pp. 140-141) La Storia rimane un cartonato scenografico sfocato in una pagina intimistica, sullo sfondo delle relazioni: ciò che importa qui è rassicurare subito Hans della sua utilità per le sorti del Reich, anche se egli non vede il fronte, cioè il luogo dove più evidentemente sta passando la Storia. La questione propriamente storica della guerra resta in secondo piano, sotto forma di un senso di colpa che la moglie sa consolare attraverso la scrittura. Tra l’altro, la scelta del tema dei lavoratori tedeschi che non hanno vissuto direttamente la guerra ma che tuttavia hanno garantito la continuità produttiva necessaria allo sforzo bellico è significativa proprio in relazione all’attitudine del romanzo familiare di occuparsi di Storia senza perciò parlare direttamente di fatti storici: nessuna grande battaglia è citata (solo il generico “fronte orientale”), nessuna grande parata scenografica è rappresentata per denotare il nazismo12. La Storia, allora, produce conseguenze prima di tutto familiari: l’operazione tedesca nel Sud Tirolo è messa in luce dal punto di vista della famiglia e in particolare di Maria, che la ritiene auspicabile per un ricongiungimento del nucleo. 3. Il rapporto con il romanzo storico Il romanzo, segnatamente nell’accezione che la lingua inglese affida al termine novel, ha come terreno prediletto il campo della medietà, dell’esistenza particolare immersa nell’inevitabile prosaicità del mondo13. In quanto tale, il romanzo che si occupa di storia è stato spesso col- 12. L’unica parata nazista che compare nel romanzo sembra, anche in questo caso, un’occasione per mettere in luce i rapporti sincronici tra personaggi più che la costruzione del consenso nazista. Cfr. G. Falco, La gemella H, cit., pp. 33-34. 13. «Il romance serio sposta il baricentro della narrativa europea: introduce eroi che lottano per scopi individuali e non per scopi collettivi; si interessa al destino immanente delle 229 GIACOMO TINELLI 230 to nella sua relazione con alcune correnti storiografiche novecentesche, come la storia sociale o la microstoria14. Il genere mette cioè al centro le vicende della storia “dal basso”, mostrando come l’influsso delle vicende storiche agisca direttamente «sui destini privati degli uomini, sulla trasformazione esteriore della vita e sull’intimo modificarsi del comportamento etico-sociale»15. Una caratteristica che offre la possibilità di rappresentare la medietà nella storia. In fondo, Hans Hinner, la sua attività di giornalista di un rotocalco provinciale progressivamente nazificato, l’azienda familiare del boom economico, sono tutti elementi che tracciano i confini di quella zona grigia evocata per la prima volta da Primo Levi16 e che conserva ancora uno scandaloso mistero etico e storico. Gli Hinner incarnano cioè una vita popolare e piccolo borghese che la storiografia ha molte difficoltà a cogliere proprio in virtù della sua normalità, in un momento storico che è spesso dipinto come un tempo che ha per definizione espunto la normalità dal suo orizzonte di esistenza storico17. La Gemella H offre allora un punto di vista corale e complesso di una famiglia appartenente alla medietà, uno sguardo che eccede l’identificazione con qualcosa di “totale”: ben al di sotto di quel “male assoluto” rappresentato dal nazismo nei suoi meccanismi più efferati; ma anche al di sopra della condizione di vittima inerme e miserevole che rappresenta il contraltare ideologico di tale immagine assolutistica18. La storia non ammette perfezione né purezza di stati ontologici o morali, e il romanzo storico, e ancor di più quello familiare, Q ue st o E- bo ok ap pa rti en e a ila ria m uo persone, e non ai significati universali di cui le persone sarebbero portatrici. Tuttavia […] la transizione diventa vistosa solo col novel e con i suoi eroi ordinari», in G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, p. 162. 14. Cfr. E. Piga Bruni, La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo, Sesto San Giovanni, Mimesis, 2018, p. 91. 15. G. Lukács, Il romanzo storico, cit., pp. 395-396. 16. P. Levi, La zona grigia, in Idem, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986, pp. 24-52. 17. Ad Hans «si può imputare solo un’infamia minore, […]. Un gesto che il suo senso degli affari e il suo amore per la famiglia provvede a salvaguardare da ogni scrupolo morale», in E. Trevi, op. cit. 18. Il senso della critica alla identificazione con la vittima come strumento di legittimazione è in D. Giglioli, Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Roma, nottetempo, 2014. io 89 gm ai l.c om 20 12 28 09 ien t r a pp a k oo LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE e Qu -b E sto è un luogo ideale per ospitare tale ambiguità: «Grigio è il colore-chiave […] de La gemella H. E grigia, con scelta precisa e coraggiosa, si è fatta pure la scrittura di Falco […]. Nessuno aveva avuto sinora il coraggio di far proprio il punto di vista della Zona Grigia»19. Potremmo affermare, allora, che anche La gemella H dà forma a ciò che Emanuela Piga Bruni ha descritto come il “negativo” della storia, ossia ciò che fatica ad emergere, le ambiguità morali, le contraddizioni interne alle varie fazioni sociali e politiche in lotta, i traumi non simbolizzabili dal discorso della memoria collettiva e insomma il lato osceno – nel senso etimologico di “escluso dalla scena” – della storia20. Il testo non si limita ad indagare gli anni del nazismo, ma oltrepassa l’evento storico della Seconda guerra mondiale, addentrandosi, più o meno con lo stesso atteggiamento epistemologico e rappresentativo riservato agli anni del Terzo Reich, nell’epoca della ricostruzione postbellica e poi del cosiddetto “miracolo” economico. Il fattore di maggior interesse risiede proprio nella continuità spietatamente prosastica del grigiore della normalità, che prosegue in un mondo che la storiografia21 – e non solo l’immaginario del senso comune – contrappone radicalmente, in termini assiologici e politici, al fascismo. La scrittura de La gemella H conduce in fondo ad una esperienza di realismo come straniamento, un’interruzione delle stereotipie ideologiche nella rappresentazione di un’epoca storica: è cioè la «sottrazione dell’oggetto [in 19. A. Cortellessa, Giorgio Falco. La gemella H, cit. 20. E. Piga Bruni, op. cit., pp.161-207. 21. Ho esitato sull’opportunità di utilizzare, in sostituzione di “storiografia”, il termine “memoria”, connotando così la rappresentazione dei fatti in termini di narrazione epica, fondativa e assiologica, del presente sociale e politico. Scelgo invece di riferirmi alla storia poiché mi sembra che, al netto di spesso distantissimi livelli di complessità e problematizzazione, vi sia un universale consenso su una valutazione positiva del “boom” che, a partire da dati indubitabilmente significativi riguardanti i progressi economici e sociali, tracima, più o meno consapevolmente, nel giudizio morale. Ne sono testimonianza le varie metafore utilizzate per descrivere il periodo (“miracolo”, il “boom” economico, il periodo d’oro, ecc…). A proposito, per una questione di sintesi, si rimanda a A. Villa, Il miracolo economico, in Enciclopedia Treccani, 2013, in http://www.treccani.it/enciclopedia/il-miracolo-economico-italiano_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Tecnica%29/, (consultato il 18/06/2020). 231 GIACOMO TINELLI 232 questo caso dell’oggetto storico] all’automatismo della percezione»22. Il filo materialistico che annoda l’epoca nazista e il tanto celebrato periodo di sviluppo economico (un filo simboleggiato dal patrimonio immobiliare che consente alla famiglia di costruire la propria fortuna particolare nello sviluppo economico collettivo e che trova radici in un atto di forza commerciale) è affidato a un doppio vettore: da un lato tematico, dall’altro formale. Il corrispettivo tematico è appunto la famiglia, che consente di mostrare i silenzi che provvedono alla rimozione sia della vita privata degli individui, sia della storia. È la famiglia a rendere osceno il passato: quello relativo alla dimensione psichica morale e individuale e quello relativo alla vera e propria storia collettiva, svolgendo una doppia funzione di rimozione ideologica e garanzia di continuità materialistica, solo apparentemente contraddittoria. Nel seguente brano vediamo risolto, attraverso una negazione perentoria, un potenziale conflitto (che avevamo già incontrato) riguardante il fidanzamento di Hans con Maria: la famiglia è un gruppo di persone eterogenee che passa la propria vita negando i conflitti esistenti, spesso causa di segreti imbarazzanti, e così anche Rosie pensa, mettendo una patina infelice sullo sguardo: Hans, mai parlato male di tuo suocero, a Bockburg esiste almeno una ventina di zoppi. (GH, p. 32) Questo E-book appartiene a ilariamuoio8 L’amore per la famiglia, allo stesso modo in cui ha garantito l’epoché morale sull’acquisto della villa dei Kaumann, assicura una trasformazione del passato in termini di coerenza con il presente: in questo caso sopendo un conflitto. Quando invece, anni dopo, non appena conclusa la guerra e arrivato Hans nella casa di Merano, alla famiglia occorre occultare il proprio passato, le vicende private si sovrappongono alla storia, e quest’ultima si riduce a un elemento strettamente intimo, da dimenticare, metaforizzato significativamente dalla vergogna e dall’oscenità della sessualità infantile: 22. V. Šklovskij, Teoria della prosa, Torino, Einaudi, 1976, p. 12. Qu es t LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE In giardino, solo quattro anni prima il nostro gioco preferito è: giochiamo ai figli di Bormann. Nella primavera del 1945 quel momento non appartiene alla Storia, ma alla sfera intima, l’ambito di un sogno lontano, forse mai avvenuto, come il reciproco spogliarsi infantile tra sorelle, alle due di pomeriggio con il sole, per scoprire qualcosa di privatissimo e banale, da dimenticare. (GH, p. 163) È proprio attraverso tale sovrapposizione tra storia pubblica e intimità che il romanzo familiare aggancia la storia, confermando la tipica dimensione allegorica che istituisce il rapporto strutturale tra i due generi. La famiglia si trasforma in una sorta di negativo della storia, in un doppio senso: da un lato negandola, rimuovendola, agendo da elemento di riciclaggio ideologico; dall’altro dandone un’immagine negativa, ossia con valori tonali invertiti rispetto alla consueta rappresentazione. La famiglia può allora garantire una discontinuità ideologica e immaginaria, ma anche una continuità materiale, la persistenza di un nodo di interessi fondamentalmente economici. Ed è esattamente questa la forza della prospettiva ne La gemella H. Del resto, Hans Hinner assomiglia molto ad un uomo di affari degli anni Cinquanta e Sessanta già durante il terzo Reich. Egli comprende bene come il mondo che si affaccia alla storia è quello del mercato e della spregiudicatezza economica: la carriera nel giornale è condotta più secondo una logica di opportunismo arrivistico che per adesione ideologica23; l’acquisto della casa, sia quella a Bockburg, strappata ai vicini ebrei ad un prezzo irrisorio, sia quella di Merano, sono condotte secondo logiche di mercato, in cui la regola che più condiziona gli acquisti è quella di domanda-offerta, per quanto possa essere politicamente alterata. Ciò che evidenzia il romanzo è che se queste alterazioni politiche passano nella storia, non passa invece, ma rimane e al limite si trasforma, l’accumulazione del patrimonio: gli Hinner sono stati in grado di occultarlo, mobilizzarlo e trasformarlo in capitale economico. 23. E. Trevi, op. cit. 233 GIACOMO TINELLI 234 Il benessere che la famiglia Hinner progressivamente acquista è interamente materialistico, descrive un orizzonte consumistico, è fatto di merci, e la provenienza delle ricchezze si dipana già prima della fortuna imprenditoriale su una catena a proposito della quale a nessuno interessa l’origine: I nostri soldi sono di Hans Hinner. I soldi di Hans Hinner sono i soldi di “Mutter”. I soldi di “Mutter” sono i soldi del partito. Donazioni spontanee, forzose, lasciti di vecchie vedove che muoiono e regalano i loro beni immobili al partito. E dal partito al giornale. E dal giornale a noi. […] Gli abitanti di Bockburg non vedono, non vogliono vedere. Abbiamo il frigorifero elettrico […]. Abbiamo l’aspirapolvere […]. Abbiamo il ferro da stiro a vapore, l’asciugacapelli […]. Abbiamo la lavatrice e la lavastoviglie, il tostapane automatico […]. (GH, p. 74) Qu to es Il benessere tipico del boom economico e del passaggio al capitalismo dei consumi è decisamente anticipato grazie al senso degli affari e all’opportunismo di Hans Hinner. È per questo motivo che il padre delle gemelle, una volta scampato definitivamente dai processi ai nazisti e risistematosi economicamente sulla riviera romagnola, può permettersi di affermare che «non parliamo mai di politica, è una delle regole della nostra famiglia» (GH, p. 276) e, senza contraddizione, osservando la zona industriale di Ravenna, uno degli esiti paesaggistici del mondo capitalistico postbellico, che «il nostro mondo, pensa Hans Hinner, [è] quello che ha vinto» (GH, p. 322). La politica, dunque, va esclusa assieme alla storia; mentre il dato economico assume una centralità sulla quale cala un ostinato silenzio. A proposito de La gemella H si potrebbe affermare più o meno ciò che Engels ha detto di Balzac, cioè che l’autentico romanzo realista (in un senso aristotelico di mimesis al reale “oggettivo”) non ricostruisce anzitutto le idee (tanto meno quelle dell’autore), né la politica di per sé, bensì segue in prima istanza la “roba”, il filo materialistico che disegna gli equilibri e le trasformazioni della lotta di classe in un determinato periodo24. bo E- a ne ie art pp a ok mu ria ila 24. «Balzac […] in “La Comédie humaine” gives us a most wonderfully realistic history of French “Society”, especially of le monde parisien [the Parisian social world], describing, chronicle-fash- 8 oio Qu es LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE 4. Hilde e Helga Se la famiglia è il nucleo tematico al quale si aggancia l’osservazione della discontinuità ideologica e della continuità materialistica della merce e dei rapporti economici, l’originalissima impostazione della voce narrante ne offre il piano formale. La struttura narratologica del romanzo è estremamente complessa25. Il libro è diviso in due parti da un intermezzo che rappresenta la prolessi del suicidio di Hilde, nel 2013, alla quale è affidata la prima sezione del libro (che arriva cronologicamente fino agli anni Cinquanta). La seconda sezione è intitolata invece a Helga. Ciascuna parte è caratterizzata da una focalizzazione narrativa che solo a tratti coincide con la gemella che dà il nome al capitolo. Il punto di vista è infatti estremamente mobile e spesso conteso con un narratore esterno, talvolta con altri personaggi. Ciò permette anzitutto di mettere in luce la radicale alterità delle due sorelle, dai caratteri e dalle idee sostanzialmente contrapposte. Helga è la gemella che ha accettato più dolcilmente, ma anche, vedremo, meno ideologicamente, l’eredità del padre. È nell’attacco della sezione a lei intitolata che si esplicita chiaramente la continuità materiale offuscata dalla discontinuità ideologica: Le nostre azioni passate svaniscono, seppellite dagli stereotipi. Il Grande Male. La Belva Umana. Il Criminale Assoluto. […] Ridimensionata la visibi- ion, almost year by year from 1816 to 1848 the progressive inroads of the rising bourgeoisie upon the society of nobles, that reconstituted itself after 1815 and that set up again, as far as it could, the standard of la viellie politesse française [French refinement]. […] Around this central picture he groups a complete history of French Society from which, even in economic details (for instance the rearrangement of real and personal property after the Revolution) I have learned more than from all the professed historians, economists, and statisticians of the period together», in F. Engels, Letter to Margaret Harkness in London, in L. Baxandall, S. Morawski (a cura di), Marx and Engels on Literature and Art, St. Louis, Telos Press, 1973 (in https://www.marxists.org/archive/marx/ works/1888/letters/88_04_15.htm) (consultato il 3 luglio 2020). 25. D’altra parte il racconto del “negativo” è spesso caratterizzato da contorsioni linguistiche o da particolari difficoltà discorsive: cfr. E. Piga Bruni, op. cit., pp. 161-162; il romanzo familiare, invece, «si presenta come una sorta di macro-genere, una summa delle potenzialità (formali e tematiche) di volta in volta esperibili. È sempre, tendenzialmente, una sintesi enciclopedica del “narrabile” in una data epoca», in M. Polacco, op. cit., pp. 115-116. In effetti nella Gemella H compaiono diversi tipi di scrittura: l’articolo di giornale (pp. 21, 298), la scrittura epistolare (pp. 133-135, 138-139, 140-141, 145-151, 153) e diaristica (pp. 274-280, 344). 235 236 GIACOMO TINELLI lità dell’ideologia – ora diluita sotto ogni traccia – resta la volontà di vivere secondo quelle stesse dinamiche totalitarie applicate ai rapporti lavorativi e familiari. Possiamo fare e subire tutto, purché rimaniamo in una sfera economica, finanziaria. (GH, p. 215) Helga sembra in qualche modo consapevole della nuova forma di famiglia dentro il miracolo economico e vede con lucidità come adattarla ai nuovi contenitori ideologici ed economici del periodo: La ditta è individuale. Hotel Sand, di Hans Hinner. Helga vorrebbe variare la costituzione della società. Hans Hinner dice, noi siamo una famiglia. Helga o8 ribatte, certo, adesso siamo anche un’azienda. Helga, ascolta tuo padre, non i abbiamo bisogno di una ditta per sentirci uniti. Papà non sto dicendo che uo daremmo più uniti come Srl o altro. Helga, da una Srl è possibile uscire, da am i r una famiglia no. (GH, p. 222) la a i Se Helga rappresenta l’erede che accoglie supinamente e senza ne ree sistenze la storia familiare, accettandone e riproducendone i silenzi ei rti di vista. meccanismi profondi, Hilde invece è recalcitrante, da più punti a p Anzitutto da un punto di vista ontogenetico: comincia ap parlare in ria tardo rispetto a Helga e, nella retrospettiva paradossale assume il okcheche punto di vista di Hilde ancora infante, si comprende non lo fa per o -b ritardi cognitivi o linguistici di sorta quantoEpiuttosto per “protesta”: «non voglio ancora rimanere prigioniera tdel linguaggio» (GH, p. 39). o s Una protesta che si prolungherà nel tempo e che si manifesterà in varie udiepartecipare alle responsabilità forme, tutte contraddistinte dal rifiuto Q di una realtà che la coinvolge in maniera troppo impegnativa, da un discreto ritiro della partecipazione26, che del resto trova una conclusione coerente nella scelta finale di suicidarsi, molti anni dopo. Hilde è definita ironicamente – e con un po’ di disprezzo – da Franco (l’uomo che Helga, appena diciottenne, sposa all’arrivo a Milano Marittima) «l’arti26. Ad esempio: «Detesto contare assieme agli altri ad alta voce. Suoniamo uno strumento, cantiamo, mi unisco al resto del coro, fingo bene, apro la bocca e muovo la lingua, martello il mio palato, simulo di fianco a mia sorella, che invece canta, sento dal suo piccolo petto la forza sorgiva della sua voce» (GH, p. 64). LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE sta di famiglia» (GH, p. 313) e sembrerebbe dunque colei che, rifiutando l’adesione al modello familiare (non si sposerà mai) e in generale opponendo diverse, benché minime, resistenze alla riproduzione delle condizioni di produzione familiari, contrasti dall’interno il progetto degli Hinner di disciogliersi nell’economia del “miracolo economico”. In tal senso, allora, dovremmo pensare che Hilde, che certamente blandisce molto di più il lettore richiedendone una discreta identificazione, sia la contestatrice della continuità materiale che stringe la storia del miracolo economico al terzo Reich? È lei la voce fuori dal coro che consente di identificare il rapporto tra ideologia e materialismo che regola la tenuta del nucleo familiare a cavallo della fine della guerra? Eppure, a Hilde «Helga e Franco le sembrano più onesti dentro la recita imprenditoriale. Hilde è invischiata dentro qualcosa che non le appartiene, ma può esserle davvero estranea un’attività iniziata con i soldi del Terzo Reich? Ora è denaro rispettabile, sono soltanto soldi ripuliti dall’espiazione del lavoro stagionale» (GH, p. 292). Viene spontaneo domandarsi, allora, se la posizione di Hilde non aderisca invece abbastanza fedelmente a quella rappresentazione immaginaria dei rapporti reali di un individuo che, un po’ come l’istituzione familiare, consente di fingere/mistificare in primis a sé stessi il proprio ruolo materiale nella catena della produzione. 5. Le mele Nonostante la verbosità velleitaria di Hilde, la realtà materiale dei fatti non tarda a fare capolino. Il testo lo mostra con strumenti propriamente letterari, ossia per mezzo di un oggetto simbolico che attraversa tutto il libro27. Siamo all’inizio degli anni Cinquanta, l’hotel Sand è avviato per la prima stagione balneare quando Helga incontra Franco, cuoco in una rosticceria. I due si innamorano e si fidanzano. Coerentemente con la lucidità pragmatica di Helga, ora «il problema è come presentare Franco a Hans Hinner e farlo assumere in cucina» (GH, p. 255): se Fran- 27. La centralità del frutto è stata notata da A. Cortellessa, Giorgio Falco. La gemella H, cit. 237 - Qu e E o t s GIACOMO TINELLI 238 co dev’essere il futuro marito, è bene che entri a far parte dell’azienda familiare. Ma prima occorre trovare un modo di cacciare Margherita, la cuoca romagnola che già lavora in cucina, sebbene impeccabile sul lavoro. Dopo la conclusione del pranzo, Qu Helga infila tre mele nella borsa di Margherita, va dal padre e dice, papà. Ripete spesso papà nella sua imminente rivelazione, per rinsaldare il legame delle sue parole al vero. Non avrei mai voluto dirlo, papà, non ce la faccio più: Margherita ruba, lo fa da quando sono arrivata. Uhm, davvero? E cosa? […] Ruba poco, ma ogni giorno, quattro fette di pane, un po’ di frutta e verdure, burro […] adesso ha tre mele nella borsa. (GH, p. 255) est o E-abtale sopruso, l’aspetto più interessante è la bizzarra reaDi fronte okha l’effetto di ricollocare il suo personaggio in una zione di Hilde, o che a p posizione di dominio, inpcompagnia a ti con il resto della famiglia. Helga ha eneMargherita davanti agli occhi del appena concluso una filippicarcontro a sii svolge l’episodio: padre, sua sorella è appena arrivata dove lari am come una pallina da Hilde prende la mela dalla mano della sorella, la rigira uoi o89 del futennis, quasi vi possa scorere nella traccia del passato la predizione turo. Hilde accosta la mela alle labbra, sente il proprio respiro sullagbuccia, ma i denti affondano nella polpa da cui esce una leggera schiuma bianca. […] Ilil.c om rumore della sua masticazione riempe la reception, si alterna in un accordo misterioso al suono degli spiccioli con cui Hans Hinner congeda Margherita. (GH, p. 256) Ciascun componente della famiglia gioca un ruolo fondamentale: Helga è la mente che, facendo leva in particolare sull’appellativo familiare “papà” come garanzia di veridicità, punta a determinare l’intervento di Hans. Hilde, semplicemente, non parla, non agisce, e tutto il suo silenzio è magistralmente metaforizzato dallo scrocchiare della mela sotto i suoi denti, «in accordo misterioso» con il tintinnio dei soldi. L’accordo misterioso è l’armonia fatta di silenzi e omertà che stringe i tre componenti familiari, è il grigio rumore ideologico – banale come quello di una mela masticata – che rimuove efficacemente il rinnovato sopruso, legittimato legalmente dai rapporti di forza sul 20 lavoro e culturalmente dalla narrazione a proposito del “miracolo” economico. La mela, dunque, rappresenta il silenzio grazie al quale la famiglia rimuove e perciò stesso riproduce le condizioni materiali in cui si genera un sopruso, che non è, come era stato nel caso dell’acquisizione della villa dei Kaumann, un’accumulazione primaria di capitale, ma che si manifesta bensì ora nei rapporti di forza sul lavoro che quell’accumulazione ha garantito una volta maturata ed evoluta in attività imprenditoriale. I due tipi di prevaricazione appartengono a due epoche differenti, ma sono sostanzialmente vincolati da una consequenzialità logica e cronologica dentro una struttura economica che sostanzialmente non muta. La frase d’esordio che leggiamo ne La gemella H è «Noi mangiavamo le mele solo nello strudel, prima» (GH, pp. 7, 38, 221). Le mele tengono incardinati più sensi: un’intimità incancellabile, poiché nelle prime due occorrenze il frutto compare in coincidenza con brani di descrizione di una memoria familiare esclusiva e intima; ma anche il prima, quello stesso riferimento temporale di cui si dice, non appena finita la guerra: «il prima che dobbiamo dimenticare» (GH, p. 163), e necessitano di una trasformazione che le legittimi. Se allora le mele nello strudel metaforizzavano una certa intimità legata al periodo nazista, le mele che finiscono nella borsa di Margherita simboleggiano il nuovo sodalizio intimo della famiglia, estremamente più opaco e forse meno consapevole perfino anche da parte di chi agisce il dominio. Due forme diverse (metaforizzate dal frutto nello strudel oppure mangiato crudo) di esercitare un potere in un’unica struttura economica, che attraversa tutta l’arco temporale che il romanzo copre. 6. Conclusioni o st e u E oo b - k ar p ap ti e en a ila ri am u o oi 89 gm a o li .c m 20 2 12 8 09 1 3 22 - 90 08 LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE Q È dunque la verbosità di Hilde, in misura maggiore, a garantire al discorso ideologico familiare il suo funzionamento: è lei, non Helga, a mistificare con strumenti immaginari il suo rapporto con la realtà, e dunque ad adempiere alla funzione ideologica che avevamo ritrovato in Althusser. La scena delle mele – e molti altri indizi – lasciano invece intendere che la realtà materialistica è molto più costrittiva rispetto 239 GIACOMO TINELLI 240 o Quest a quella ideologica, che i comportamenti pesano, nella costruzione della realtà, molto più che i semplici atteggiamenti (per quanto anticonformisti possano apparire). La gemella H, cioè Hilde, l’unica che parla, mostra suo malgrado quanto distanti procedano la storia politico-ideologica e la storia economica, quanto dietro a situazioni differenti si celino problemi e strutture analoghe. Queste considerazioni, naturalmente, non riguardano in esclusiva la famiglia Hinner, ma si proiettano su tutte le attività della riviera romagnola e, per sineddoche, all’intera narrazione fondativa del boom economico, in particolare quando essa si rivolge alla tipica impresa italiana: quella familiare. Nel descrivere il gesto pacchiano attraverso cui Franco chiede la mano di Helga (attraverso uno striscione agganciato a un piccolo aereo), la voce narrante ha l’occasione di offrire una visione aerea della costa: k E-boo tiene appar ail.com 89 gm muoio a ilaria Franco decolla a fianco del pilota di un aereo da turismo. Vola lungo il tratto di mare, è la prima volta che si trova in cielo, la vertigine del movimento si placa dopo pochi istanti, sembra di restare fermo lungo la costa adriatica, ogni piccolo albergo è l’Hotel Sand, ogni stabilimento balneare potrebbe essere quello della felicità […]. (GH, p. 281) 0 23-08 2 809-1 20122 Le responsabilità storiche non riguardano esclusivamente la famiglia Hinner e il suo passato particolarmente problematico, bensì si manifestano in ogni piccola attività economica ora celebrata con entusiasmo in quanto rinascita sociale e civile. A proposito di tale allargamento delle responsabilità e di quanto dicevamo in apertura rispetto al valore allegorico della famiglia nei confronti della storia, vi è un’ultima notazione da appuntare, che riguarda in buona sostanza la “direzione” dell’allegoria. Per lo studio offerto in queste pagine, abbiamo postulato l’idea, reperita nei testi critici sul romanzo di famiglia, che la famiglia sia l’allegoria della Storia. Ciò significa che gli effetti che la storia produce nella famiglia rappresentano metafore storiche: l’avversione della madre di Hans verso la famiglia di “bifolchi” Zemmgrund è leggibile anche sul piano astratto, che rimanda alle questioni storiche riguardo la composizio- ila r ia rtie ne a LA GEMELLA H: IDEOLOGIA E MATERIALISMO NEL ROMANZO FAMILIARE Qu e sto Ebo ok ap pa ne di classe e ideologica che contrapponeva i Nazionalisti e i Nazisti durante gli anni Venti. Tuttavia, alcuni brani del romanzo consentono di sollevare qualche dubbio rispetto ad una lettura unidirezionale dell’allegoria. Mi riferisco anzitutto al rapporto di causalità che regola la relazione tra famiglia e storia. Il dubbio interviene per la prima volta quando leggiamo la descrizione di un personaggio secondario, il bagnino della piscina di Merano: I rimproveri veri gli riescono solo in italiano, quando il padre o la madre riaffiorano dalla memoria involontaria, e le parole trovano un aiuto nella postura del corpo, l’eredità più grande ricevuta dai genitori, prima ancora che da Benito Mussolini. (GH, p. 137) Il narratore rincara la dose allorché descrive Franco per la prima volta nell’approccio a Helga: L’uomo resta in piedi, le mani posate sui fianchi, come fanno gli italiani senza rendersene conto, scimmiottano Mussolini e invece proseguono le mosse e i gesti che lo stesso dittatore, nella celebrazione della sua parte femminile, aveva ereditato dai rimproveri materni. (GH, p. 229) In queste ultime due descrizioni, è la famiglia che genera effetti nella storia ed è legittimo domandarsi allora se non sia la seconda a diventare una paradossale allegoria della prima. La definizione di famiglia come “negativo” della storia assume dunque un’ulteriore sfumatura. Attraverso le descrizioni di alcuni personaggi secondari, il testo “inverte” la direzione allegorica, spostando l’attenzione sui processi intimistici e familiari che generano la storia, quantomeno nella sua dimensione estetico-espressiva dei personaggi storici. Il rischio, come è evidente, è la negazione della storia tout court. Un rischio che in fondo Helga, la gemella taciturna, ha non solo accolto ma propugnato, nella sua idea onnivora di famiglia, e che probabilmente dà conto della funzione ideologica più profonda dello strumento familiare che il romanzo mette in scena. 241 242 GIACOMO TINELLI Qu Bibliografia to es Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20. bo E- Althusser L., (1976), Sull’ideologia, Bari, Dedalo libri. ok Calabrese S., (2003), Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi. ap rti pa Cortellessa A. (a cura di), (2014), La terra della prosa. Narratori italiani degli anni Zero (1999-2014), Roma, L’Orma. e en Engels F., (1973), Letter to Margaret Harkness in London, in L. Baxandall, S. Morawski (a cura di), Marx and Engels on Literature and Art, St. Louis, Telos Press. Marx K., (1996), Il Capitale. Libro I, Torino, UTET. Mazzoni G., (2011), Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino. Piga Bruni E., (2018), La lotta e il negativo. Sul romanzo storico contemporaneo, Sesto San Giovanni, Mimesis. Polacco M., (2005), Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13. Ru Y.-L., (1992), The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang. Šklovskij V., (1976), Teoria della prosa, Torino, Einaudi. Villa A., (2013), Il miracolo economico, in Enciclopedia Treccani, in http://www. treccani.it/enciclopedia/il-miracolo-economico-italiano_%28Il-Contributo-italiano-alla-storia-del-Pensiero:-Tecnica%29/. gm Lukács G., (1965), Il romanzo storico, Torino, Einaudi. 9 Levi P., (1986), I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi. io8 Giglioli D., (2014), Critica della vittima. Un esperimento con l’etica, Roma, nottetempo. uo Falco G., Ricucci S., (2014), Condominio oltremare, Roma, L’Orma. m ria Falco G., (2017), Ipotesi di una sconfitta, Torino, Einaudi. ila Falco G., (2014), La gemella H, Torino, Einaudi. a Falco G., (2009), L’ubicazione del bene, Torino, Einaudi. Q to s ue oo b E- k ap rt a p Una storia di ombre. Immaginazione delle origini e indagine genealogica nel romanzo contemporaneo Elisabetta Abignente Prima di lasciar ripassare a quelle due ombre il fiume infernale, vorrei porre loro qualche domanda su me stessa Marguerite Yourcenar, Care memorie (1974) L’obiettivo di questo contributo è riflettere sull’incidenza che l’«imperativo genealogico», così definito negli anni Settanta da Patricia Drechsel Tobin1, abbia ancora oggi, in un tempo segnato da un necessario ripensamento dell’idea di famiglia, in uno spazio fluido che educa genitori e figli a radici sempre più mobili e flessibili. Se è vero, come osserva Stefano Calabrese2, che attraverso il vincolo di consanguineità la saga familiare ha sempre rappresentato uno strumento identitario, fondato su un’idea di superiorità ontologica delle origini, e un coagulante simbolico entro cui “sanare” le contraddizioni di una realtà sempre più centrifuga e sfuggente, non stupisce che l’interesse per la ricostruzione del proprio passato familiare riemerga anche nel romanzo contemporaneo. Mentre gli intrecci familiari si confermano lo schema privilegiato di recenti successi editoriali – come I leoni di Sicilia di Stefania Auci o La luce è là di Agata Bazzi, entrambi del 2019 e di ambientazione siciliana – e della serialità televisiva – si pensi, limitandosi alla fiction 1. Cfr. P.D. Tobin, Time and the Novel. The Genealogical Imperative, Princeton, Princeton University Press, 1978. 2. Cfr. S. Calabrese, Cicli, genealogie e altre forme di romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640. RAI, a Romanzo famigliare (2018) di Francesca Archibugi o a Tutto può succedere (2015-2018) di Lucio Pellegrini e Alessandro Casale – una certa letteratura sembra arroccarsi in una forma di scrittura familiare più intima e legata alle vicende biografiche di chi racconta. Considerando la produzione romanzesca degli ultimi decenni, è possibile infatti registrare il frequente desiderio degli autori di ripercorrere i rami del proprio albero genealogico per scandagliare, con passione speleologica e documentaria, il sottosuolo delle dinamiche parentali, delle relazioni orizzontali e verticali che hanno dato corpo alla struttura familiare cui appartengono o che li ha preceduti, come se proprio il ripensamento dell’istituzione familiare, sottratta all’automatismo, fosse in grado di generare un rinato interrogativo riguardo le proprie radici. Senza voler semplificare eccessivamente, sembrerebbe accadere quello che Franco Moretti osservava in Opere mondo, ovvero: «l’idea che la letteratura segue i grandi mutamenti sociali: che arriva sempre “dopo”. Venir dopo, però, non significa ripetere (“rispecchiare”) quel che già esiste, ma l’esatto opposto: risolvere i problemi posti dalla storia. […] [La letteratura] ha una vocazione problem-solving: rendere l’esistente più comprensibile – più accettabile. E più accettabili, vedremo, i rapporti di potere, e persino la loro violenza»3. Se si guarda al romanzo di famiglia anche come possibilità di rielaborare, attraverso la scrittura, lacerazioni, traumi, lacune del proprio passato familiare, sarà forse più facile comprendere le ragioni del successo quasi inalterato di questo genere romanzesco. Un’altra utile chiave di lettura proviene in questo senso dall’ambito della psicanalisi: il riferimento è alla naturale attitudine del bambino a fantasticare intorno alle proprie origini definita da Freud ne Il romanzo familiare dei nevrotici (1908)4. L’intensa attività immaginativa intorno al proprio passato familiare potrebbe essere considerata anche come uno dei motivi profondi per i quali l’individuo rivolge il proprio sguardo 3. F. Moretti, Opere mondo. Saggio sulla forma epica dal Faust a Cent’anni di solitudine, Torino, Einaudi, 1994, p. 8. 4. Cfr. S. Freud, Il romanzo familiare dei nevrotici (1908), in C.L. Musatti (a cura di), Opere. 1905-1908. Il motto di spirito e altri scritti, vol. V, Torino, Boringhieri, 1972, p. 472. E-b oo ELISABETTA ABIGNENTE Que sto 244 UNA STORIA DI OMBRE e Qu st alla ricostruzione, vera o fittizia, della propria genealogia5. La necessità di guardare all’indietro, decidendo di narrare quel che è stato e che non è più, in un misto di precisione documentaria e inevitabile rielaborazione romanzesca, potrebbe essere letta come il tentativo di far rivivere sulla pagina letteraria una dimensione comunitaria e una consapevolezza identitaria che rischiano di sbiadire con l’avanzare degli anni, la vendita di case, la dispersione di oggetti, l’inevitabile diaspora a cui ogni nucleo parentale è destinato. Lasciare traccia della propria storia familiare può diventare l’unico strumento in grado di ritrovare e immortalare un tempo perduto. In quasi tutte le saghe familiari, dai Buddenbrook al Gattopardo a Cent’anni di solitudine, si possono rintracciare elementi autobiografici più o meno velati: i casi qui riuniti sono però quelli in cui il riferimento al proprio vissuto e alla veridicità del narrato si fa esplicito e dichiarato a partire dal paratesto (avvertenze, postfazioni, alberi genealogici pubblicati in appendice)6. Quel che qui interessa osservare, infatti, è quel genere ibrido posto al confine tra romanzo genealogico, romanzo storico e scrittura del sé che altrove ho definito come “memoria di famiglia”, intesa come narrazione delle vicende di una famiglia lungo più generazioni, filtrate attraverso il punto di vista di uno dei suoi membri 5. Ibid. Sul nesso tra rielaborazione fantastica delle proprie origini e origini del genere romanzo, cfr. M. Robert, Roman des origines et origines du roman, Paris, Grasset, 1972. L’interesse per la genealogia nel romanzo contemporaneo si registra anche nei “récits de filiation” dove la ricerca delle radici va intesa come ricerca dei “padri letterari” (D. Viart, Filiations littéraires, in J. Baetens, D. Viart (a cura di), États du roman contemporain. «Écritures contemporaines», 2, 1999, pp. 115-139), che si rivela in alcuni casi vana dando vita a scrittori “orfani” (L. Demanze, Encres orphelines. Pierre Bergounioux, Gérard Macé, Pierre Michon, Paris, José Corti, 2008). Al romanzo familiare come possibilità di elaborazione del trauma, pubblico e privato, guardano gli studi di Matteo Galli e Simone Costagli dedicati al successo del Familienroman nella Germania post ’89: S. Costagli, Autobiografia collettiva di una nazione. L’onda lunga dei Familienromane tedeschi, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 64-74 e S. Costagli, M. Galli (a cura di), Deutsche Familienromane. Literarische Genealogien und internationaler Kontext, Paderborn, Fink, 2010. 6. Cfr. G. Genette, Soglie. I dintorni del testo, Torino, Einaudi, 1989. Sulla rilevanza delle indicazioni paratestuali per «certificare la veridicità del narrato» si sofferma anche M. Ganeri, Il romanzo storico in Italia. Il dibattito critico dalle origini al postmoderno, Lecce, Piero Manni, 1999, p. 42. 245 ELISABETTA ABIGNENTE Ques to 246 tien o k a p par E-bo o discendenti7. Questi ultimi possono porsi come testimoni diretti delle vicende narrate, come avviene in Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg, o piuttosto come eredi intenti a ricostruire una storia familiare non vissuta in prima persona e quindi non testimoniabile, lontana nel tempo anche di vari secoli e dei quali sono stati protagonisti i propri avi. A questo secondo gruppo appartengono i testi che qui si prendono in esame: Il labirinto del mondo (1974-88) di Marguerite Yourcenar, Harmonia caelestis (2000) e L’edizione corretta di Harmonia Caelestis (2002) di Péter Esthérazy, Il gioco dei regni (1993) di Clara Sereni, Il mio nome a memoria di Giorgio van Straten (2000) e Un cappello pieno di ciliegie (2008) di Oriana Fallaci. Una sorta di vertigine genealogica conduce gli scrittori nelle soffitte, nelle biblioteche e negli archivi alla ricerca di prove in grado di riannodare i fili della propria storia familiare, finendo per determinare un vero e proprio rovesciamento per cui è il discendente, colui che è stato generato, a porsi come il creatore, colui che genera i propri avi ridando loro vita sulla pagina. Se, come scrive Moretti, «la storia di ogni famiglia, fatalmente, è una storia di ombre. Due, tre generazioni, e i morti sono più numerosi dei vivi»8, l’elemento “negromantico” si fa ancora più tangibile nel caso delle memorie di famiglia, che finiscono per assomigliare a un vero e proprio viaggio nell’Ade. Altri romanzi italiani pubblicati negli ultimi anni condividono un analogo movimento – il percorso a ritroso lungo i rami del proprio albero genealogico – e una simile posizione accordata a chi narra – il ricorso alla prima persona pur con una deliberata eclissi del sé: Il tempo migliore della nostra vita (2015) di Antonio Scurati, che Riccardo Castellana ha definito «biofiction multipiano»9 individuando il suo elemento caratteristico «nell’intreccio di biografia, memoria famigliare (finzionalizzata) e autobiografismo»10; Il romanzo della nazione (2015) 7. Cfr. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., pp. 6-17. 8. F. Moretti, op. cit., p. 225. 9. R. Castellana, Finzioni biografiche. Teoria e storia di un genere ibrido, Roma, Carocci, 2019, p. 54. 10. Ibid., p. 183. Qu UNA STORIA DI OMBRE di Maurizio Maggiani per la ricerca delle radici mediante il padre, il desiderio di romanzo documentale e la cronaca familiare come nostalgia dell’epos11; La rancura (2016) di Romano Luperini che già nel titolo montaliano richiama la necessità di fare i conti con quell’ambiguità tra rancore e cura che connota il passaggio di testimone tra le generazioni. Si tenterà qui di ragionare da un lato sul permanere di caratteristiche che accomunano questa categoria di testi narrativi ibridi al genere del romanzo familiare vero e proprio (estensione cronologica del tempo narrato; presenza di almeno tre generazioni, ma quasi sempre molte di più, sia in diacronia che in sincronia; centralità dei riti familiari e conflitto intra- e inter-generazionale; senso della fine)12; dall’altro sulle forze centrifughe che acuiscono la presenza, in questa forma autobiografica di romanzo di famiglia, di altri generi, primo tra tutti il romanzo storico (uso delle fonti materiali e immateriali; rapporto tra fatto e finzione; ambiguità tra «vero, falso e finto»)13. Come afferma Marina Polacco, ogni romanzo di famiglia «è sempre, almeno in parte, un romanzo storico»14: l’attenzione alla documentabilità delle vicende narrate è un dato che sembra però farsi ancora più esplicito nei romanzi di famiglia di tipo autobiografico degli ultimi decenni. I testi qui riuniti sembrano condividere in questo senso almeno due tratti caratteristici del romanzo ipermoderno definiti da Raffaelle Donnarumma: l’oscillazione fra volontà di testimonianza e lo scrupolo documentario, e l’espansione delle scritture dell’io15. Una delle domande centrali da porsi è cosa succede laddove non sia possibile raccontare la propria storia di famiglia come testimone diret- 11. Di questi aspetti si è occupato F. de Cristofaro in Controcanto epico. Vie del romanzo di famiglia tra postmoderno e ipermoderno, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi, cit., p. 75-87. 12. Il riferimento è alle costanti individuate da M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 95-125 e Y.-L-Ru, The Family Novel. Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992. 13. Cfr. C. Ginzburg, Il filo e le tracce. Vero falso finto, Milano, Feltrinelli, 2006. 14. M. Polacco, op. cit., p. 115. 15. Cfr. R. Donnarumma, Ipermodernità. Dove va la narrativa contemporanea, Bologna, il Mulino, 2014. 247 Qu e s to ELISABETTA ABIGNENTE 248 k bo o E- to. Cosa avviene, cioè, quando l’elemento diacronico diventa centrale e l’arco cronologico di riferimento si amplia, le generazioni diventano molto più di tre e la famiglia che si intende narrare non è quella effettivamente vissuta, che dunque rientra nel proprio campo visivo ed emotivo, ma quella composta da individui da cui si è ereditato sangue e cromosomi pur non avendone mai ascoltata la voce. Alle fonti immateriali – racconti orali, ricordi personali – si aggiungeranno, o in alcuni casi sostituiranno, fonti materiali, scritte o visive, come diari, lettere, taccuini di appunti, fotografie e documenti ufficiali, conservati in archivi di famiglia o di Stato. La predilezione per l’uno o l’altro tipo di documenti nel processo di scrittura determina delle conseguenze rilevanti tanto sul piano della affidabilità storica delle vicende narrate quanto sul piano narrativo, finendo per incidere sullo stile, sul ritmo e sul registro linguistico del romanzo. Veniamo al caso di Marguerite Yourcenar e della trilogia Le Labyrinthe du monde, pubblicata tra il 1974 e il 1988, in cui la storia degli avi materni e paterni della scrittrice, antica famiglia nobiliare delle Fiandre, viene ricostruita attingendo a fonti storiche conservate in parte proprio negli Archivi del Nord che danno il titolo al secondo dei tre volumi. L’intento di Yourcenar è di procedere a ritroso lungo le generazioni che la precedono, sempre più in alto lungo l’albero genealogico, fino al punto lontano in cui le origini familiari si fondono e confondono con le radici sfumate e collettive dell’umanità. La recente vita familiare si rivela così il punto di approdo ultimo di una storia che non può che dirsi universale16. La forma ibrida che ne consegue, sorta di ricostruzione storica “con beneficio di inventario”17, rende l’operazione labirintica compiuta nella trilogia uno dei più interessati esperimenti di scrittura contemporanea, sfuggente secondo Guido Mazzoni a qualsiasi tradizionale classificazione di genere, al pari dei racconti di Carver, dei romanzi di Houellebecq o alle Benevole di Jonathan Littell18. a ap p rt i e ne a r ila io ia m uo 89 gm .c ail om 2 2 01 2 16. Cfr. V. Sperti, Écriture et mémoire. Le Labyrinthe du monde de Marguerite Yourcenar, Napoli, Liguori, 1999. 17. Cfr. M. Yourcenar, Con beneficio d’inventario, Milano, Bompiani, 2013. 18. Cfr. G. Mazzoni, Teoria del romanzo, Bologna, il Mulino, 2011, p. 361. ene parti -boo k ap UNA STORIA DI OMBRE Que sto E L’incipit del primo volume, Care memorie, coincide con la nascita di Marguerite, richiamando un classico topos del genere autobiografico. Ma già dal terzo rigo compare la parola “famiglia”, come a voler subito collocare «l’essere che chiamo “io”»19 dentro una precisa genealogia che ne legittimi l’esistenza. Scorrendo le pagine, si nota subito come l’attenzione ai documenti, prima di tutto anagrafici, sia uno dei marchi tipici di questa ricostruzione genealogica. Ma la fiducia accordata alle fonti ufficiali è immediatamente messa in discussione dall’inesattezza dei documenti consultati. Ufficialità non è sempre sinonimo di verità ma in alcuni casi di più o meno involontaria falsificazione della storia20. Colpiscono, della sua ricostruzione genealogica, alcuni elementi che ricorrono come veri e propri topoi del genere qui indagato. Si pensi al rovesciamento di prospettiva nei legami familiari quando si constata che se i nostri avi sono esistiti a volte poco per noi, noi non siamo esistiti affatto per loro: che verità può esserci allora nei legami familiari? Una verità biologico-patrimoniale e non di relazione, sembra suggerire l’autrice21; il senso della fine, la consapevolezza di essere l’ultimo discendente di una lunga stirpe e la preghiera laica davanti alla tomba degli antenati: «non restava che un unico discendente, che ero io. Toccava dunque a me fare qualcosa. Ma che cosa?» (la vera risposta alla domanda sembra essere la scrittura di questo libro: cosa fare per loro? raccontarne la storia)22; l’inversione dei ruoli madre-figlia nella relazione creativa autrice-personaggio: «Del resto col passare degli anni i nostri rapporti s’invertono. Ho più del doppio dell’età che lei aveva quel 19 giugno 1903, e mi concentro su di lei come una figlia che tentassi in tutti i modi di capire senza però riuscirci del tutto»23; le affinità elettive che si avvertono con alcuni degli antenati-personaggi a dispetto di altri, perché in loro emergono dei tratti che l’autrice riconosce come propri. Tracciare la storia della propria famiglia significa scrivere la propria 19. 20. 21. 22. 23. M. Yourcenar, Care memorie, Torino, Einaudi, 1981, p. 5. Cfr. ibid., p. 27. Cfr. ibid. Ibid., p. 43. Ibid., p. 49. 249 k bo o to E- ap ELISABETTA ABIGNENTE 250 ue s autobiografia attraverso la mediazione dei propri progenitori, ricostruire attraverso di loro la storia della propria personalità e della propria formazione culturale: «Prima di lasciar ripassare a quelle due ombre il fiume infernale, vorrei porre loro qualche domanda su me stessa», confessa infatti l’autrice in una frase che ben si presta a essere posta in esergo a questa breve indagine24. Uno degli aspetti più significativi è il montaggio delle fonti operato all’interno del testo. In alcuni passaggi metatestuali l’autrice-narratrice, già avvezza ai procedimenti tipici della biografia finzionale25, commenta e giustifica le scelte compositive adottate e le loro conseguenze sul piano redazionale e tipografico, a partire dalla decisione di utilizzare o meno le virgolette per il discorso riportato: Q Le pagine precedenti sono un montaggio. Per scrupolo di autenticità ho fatto monologare il più possibile Octave attingendo ai suoi libri. Anche nei punti in cui non mi sono servita di virgolette, ho spesso riassunto le annotazioni del poeta, troppo prolisse per essere riportate tali e quali. Le frasi di mia creazione sono tutt’al più dei riempitivi: ho cercato se mai di imprimere ad esse qualcosa del suo ritmo personale. […] Mi rendo conto della stranezza di questa operazione quasi negromantica. A un secolo di distanza, più che lo spettro di Octave sto evocando Octave in persona, il quale quel certo 23 ottobre 1875 va e viene, senza saperlo, in compagnia di una “pronipote” che nascerà soltanto dopo la sua morte […] Tali sono i giochi di specchi del tempo26. Uno degli aspetti che colpisce particolarmente l’occhio indagatore di Yourcenar è il piccolo spazio occupato da una singola famiglia nell’immensità del tempo. Le pagine iniziali di Archivi del Nord (1977) sono animate da questa forte attrazione nei confronti dell’origine del mondo27 e rivelano la particolare sensibilità della scrittrice belga per il 24. 25. 26. 27. Cfr. ibid., p. 204. Cfr. R. Castellana, op. cit., pp. 113-115. M. Yourcenar, Care memorie, cit., p. 167. Eadem, Archivi del Nord, Torino, Einaudi, 1982, p. 5. 53 20 12 28 09 -12 23 -08 09 -84 23 -rd h9 j76 jdj UNA STORIA DI OMBRE bo ok ap pa rtie ne ai lar i am uo io8 9g ma il.c om materico, il biologico-cellulare-genetico, fino al vegetale e al tellurico28. L’idea di inabissarsi in lontananze inesplorate, di allungare lo sguardo all’indietro giungendo a contemplare paesaggi incontaminati, precedenti alla comparsa dell’uomo, anima il prologo del secondo volume, intitolato La notte dei tempi. La posizione incipitaria, il parallelismo tra genealogia familiare e storia universale, l’attrazione per il primitivo e l’autentico, l’esplorazione del paesaggio come metafora del viaggio nel tempo sembrano richiamare alla memoria le parole con cui si apre il Prologo delle Storie di Giacobbe (1933) di Thomas Mann, intitolato Discesa agli inferi: «Profondo è il pozzo del passato. O non dovremmo dirlo imperscrutabile?»29. A confermare una possibile relazione intertestuale tra i due prologhi, che non stupisce se si pensa alla grande ammirazione e alla profonda conoscenza che la scrittrice belga aveva di tutta l’opera manniana, interviene la ricorrente ed evocativa immagine delle «dune», metafora dell’illusorietà di ogni ricerca delle radici ma anche traccia di un comune immaginario legato alle ampie spiagge dei mari del Nord. Un secondo romanzo ibrido nel quale l’elemento diacronico e il rapporto con le fonti si fanno particolarmente significativi è Harmonia caelestis di Péter Esterházy (2000). Il titolo, che rimanda all’opera barocca di un compositore antenato dell’autore, è chiaramente antifrastico: non c’è universo più disarmonico di quello raccontato. Lo scrittore ungherese, esponente di uno dei più antichi casati aristocratici dell’Europa orientale, dà vita ad una biografia volutamente romanzata della propria famiglia di origine, risalendo fino al sedicesimo secolo. Il volume, che si estende per più di settecento pagine, si articola in due libri: nel primo sono narrati cinquecento anni di storia, tra luci e ombre, dell’antica dinastia. Il secondo racconta un tempo più vicino e vissuto in prima persona (lo scrittore nasce nel 1950 e muore nel 2016). L’appellativo costante rivolto ai membri della famiglia delle diverse generazioni è l’epiteto “il mio buon padre”, la cui ricorrenza all’interno Qu es to E- 28. Cfr. ibid., p. 42. 29. T. Mann, Le storie di Giacobbe, in Idem, Giuseppe e i suoi fratelli (1933-1943), Milano, Mondadori, 2000, p. 5. 251 ppartiene Questo E-boo ka 252 ELISABETTA ABIGNENTE del testo determina un’inevitabile confusione tra le generazioni, molto simile a quella a cui ogni lettore di Cent’anni di solitudine finisce presto per rassegnarsi. Lo stile del romanzo sembra sfuggire a ogni possibile definizione: ora lirico e aforistico, ora piano, riproducendo i moduli della cronaca, ora espressionistico, ricorrendo a una lingua estremamente concreta e materica e anche al turpiloquio. Molto poco canonica è anche l’organizzazione interna e l’aspetto grafico del testo, che si articola in micro-paragrafi numerati, lunghi in alcuni casi poche righe, che si aprono con un capolettera interno e si chiudono con un segno di interpunzione o di parentesi in grassetto (elementi grafici che ricordano il Tristram Shandy di Laurence Sterne). Tra continui salti temporali e non infrequenti anacronismi, prende forma una storia di famiglia impietosa e irriverente che mostra tutte le debolezze, anche carnali, dei predecessori di chi scrive. Come deve essere dunque letto questo libro? Come un romanzo, una cronaca, un libro di frammenti, una biografia finzionale30? E come si pone questa bizzarra ricostruzione genealogica rispetto al problema della verità? Individuare possibili risposte all’interno del romanzo è operazione ardua dal momento che ogni affermazione contenuta nel testo è sottoposta al filtro deformante del citazionismo e dell’ironia. Il ricco «Elenco dei “testi ospiti”» pubblicato in appendice, sorta di affastellato e incompleto indice dei nomi, riesce a colmare soltanto parzialmente il disorientamento del lettore di fronte a un testo insincero, divertito nel prendersi gioco del limite tra verità e finzione. È questo il caso del lungo autocommento in cui l’autore sembra finalmente offrire una chiave di lettura della prima poderosa parte del volume che sta per concludersi: «I luoghi di questo libro, fianchi e cascate, gli eventi e i personaggi, sono reali, sono conformi alla realtà, corrispondono alla realtà […]. Il figlio del mio buon padre non aveva inventato nulla e se, secondo la sua abitudine inveterata, volgendosi verso 30. Una possibile definizione di genere di Harmonia caelestis come «biografia romanzata» è proposta in L. Tassoni, La memoria familiare: due letture incrociate. Giuseppe Tomasi di Lampedusa e Péter Esterházy, Roma, Carocci, 2007, che è anche uno dei pochi contributi dedicati in Italia al romanzo dello scrittore ungherese. Qu e UNA STORIA DI OMBRE la scrittura narrativa si affidava all’immaginazione»31. Basterà leggere queste righe per rendersi immediatamente conto che la presunta dichiarazione di intenti altro non è che una traduzione, in alcuni punti letterale, in altri rielaborata e arricchita, dell’Avvertenza che apre Lessico famigliare di Natalia Ginzburg: «Luoghi, fatti e persone sono, in questo libro, reali. Non ho inventato niente: e ogni volta che, sulle tracce del mio vecchio costume di romanziera, inventavo, mi sentivo subito spinta a distruggere quanto avevo inventato»32. Il gioco intertestuale continua: «Non aveva una gran voglia di parlare di se stesso. Infatti non ha scritto la storia di se stesso, quanto quella della famiglia del mio buon padre, anche se non l’ha de(scritta)»33 dichiara il narratore di Harmonia caelestis facendo slittare alla terza persona la limpida dichiarazione in cui la scrittrice torinese si poneva volutamente ai margini della storia narrata: «Non avevo molta voglia di parlare di me. Questa difatti non è la mia storia, ma piuttosto, pur con vuoti e lacune, la storia della mia famiglia»34. Se il debito nei confronti di Lessico famigliare poteva essere già colto nel titolo della prima parte del libro, Frasi numerate dalla vita della famiglia Esterházy, che rimanda alla dimensione del dialogo domestico e del patrimonio linguistico che contraddistingue ogni storia di famiglia, tutto il romanzo è fitto di citazioni e di riferimenti impliciti a tanta letteratura ungherese ed europea – Kosztolányi, Márai, Goethe, Kafka, Beckett, Kiš sono soltanto alcuni dei nomi che compaiono nel promiscuo elenco. La poderosa genealogia finzionale va dunque letta come una continua riscrittura. «È di una difficoltà cane mentire senza conoscere la verità»35 recita l’incipit di Harmonia caelestis, in una sentenza che ha il sapore di una profezia. Le rocambolesche vicende della famiglia Esterházy non si concludono infatti con la fine del volume. Durante la preparazione del romanzo lo scrittore aveva chiesto di consultare gli archivi dei servizi 31. 32. 33. 34. 35. P. Esterházy, Harmonia Caelestis (2001), Milano, Feltrinelli, 2003, p. 329. N. Ginzburg, Lessico famigliare (1963), Torino, Einaudi, 2010, Avvertenza. P. Esterházy, op. cit., p. 329. N. Ginzburg, Lessico famigliare, cit., Avvertenza. P. Esterházy, op. cit., p. 11. 253 254 ELISABETTA ABIGNENTE segreti ungheresi per sapere se fosse mai stato tenuto sotto controllo e scopre così, soltanto dopo aver dato alle stampe la grandiosa epopea della sua famiglia nella quale si stagliava la figura paterna, che proprio suo padre era stato una spia, un informatore del regime dal 1957 al 1980. Nell’Edizione corretta di Harmonia caelestis, pubblicata del 2002, verranno ripercorsi, quasi in forma di diario, i giorni drammatici dell’inquietante scoperta, che costringe lo scrittore Quaeuna s sconvolgenE-èbperò te rilettura ex post della sua intera infanzia e giovinezza.toNon oo prevista in questo caso nessuna riappacificazione, nessuna rielabora-k zione del trauma: lo rivela la forma irrisolta, frammentaria, volutamente imperfetta di questo secondo libro, la sua veste grafica espressiva e disomogenea, con ampi inserti in inchiostro rosso e il ricorso alle parentesi per indicare le varie aggiunte e stratificazioni intervenute nella tormentata genesi. Ricostruire le dinamiche di un nucleo familiare policentrico, multiforme e conflittuale, riuscire a penetrare nei pensieri di uomini e donne appartenenti a un mondo ormai sepolto doveva presentarsi come un’operazione costosa e complessa anche agli occhi di Clara Sereni. Nell’appendice de Il gioco dei regni (1993) intitolata Dopo la storia: perché si legge dell’iniziale resistenza ad addentrarsi in un passato che è arduo riuscire a districare, della curiosità e dell’entusiasmo che anima il percorso di ricerca, simile a un lento processo di disvelamento. Non a caso, lo stimolo alla ricostruzione genealogica proviene dalla scoperta del midrash, l’esegesi biblica dei testi sacri: «Midrash, che dalla radice drsh deriva il senso del ricercare, dell’interrogare, dell’investigare: un gioco intellettuale ricco di sorprese, e la chiamavo ginnastica mentale. Annusavo la pista come un detective, senza chiedermi cosa stessi inseguendo e perché: […] con la sensazione di scoprire una vena sepolta, e forse non solo dentro di me»36. 36. C. Sereni, Il gioco dei regni, Firenze, Giunti, 1993, p. 434. L’interesse per la ricostruzione del proprio passato familiare animava già le pagine di Casalinghitudine (1987), storia di famiglia en travesti: cfr. E. Gambaro, Diventare autrice. Aleramo Morante De Céspedes Ginzburg Zangrandi Sereni, Milano, Unicopli, 2018, pp. 241-267. Per un approfondimento sulle intense figure femminili del romanzo del 1993 cfr. M. Palumbo, Il gioco dei regni di Clara Sereni: la Mater dolorosa e il lutto della storia, in «Notes per la psicanalisi», 11, 2018, pp. 103-109. appa rt UNA STORIA DI OMBRE L’idea di intraprendere il lento e avvincente processo di disvelamento delle proprie origini e di districamento dei rami è legata alla casualità di un incontro e continua con un viaggio in Israele, luogo carico di significati il cui ricordo confuso risale agli anni dell’infanzia. Sono proprio i racconti e la calda accoglienza di zii e cugini ebrei insieme alla visita in un archivio nel quale entra in contatto con scatole piene di lettere e documenti relativi alla nonna materna Xenia, a innescare nella scrittrice una crescente curiosità per i suoi avi, e una sempre più indomabile necessità di sapere mista a un inedito senso di appartenenza familiare. A sostenerla nell’impresa c’è Stefano Rulli, compagno di vita che, un decennio più tardi, avrebbe scritto insieme a Sandro Petraglia una delle saghe familiari che hanno meglio saputo raccontare l’Italia del secondo Novecento: La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana. Al ritorno a Roma, pur con una notevole ritrosia e non senza un certo scoraggiamento per la complessità della materia da dipanare, Clara Sereni si immerge nelle ricerche d’archivio e nella raccolta di testimonianze orali di amici dei genitori, tra i quali Manlio Rossi Doria e Vittorio Foa. Ai colloqui privati e ai documenti ritrovati – fotografie, lettere, verbali – si aggiungono i libri e gli articoli scritti dal padre Emilio, detto Mimmo, e dalla madre Xenia, conosciuta con il “nome di battaglia” di Marina adottato nell’attività politica all’interno del Partito Comunista. L’ampiezza del materiale d’archivio a disposizione, la pluralità delle testimonianze raccolte, il ritorno del rimosso, a volte traumatico e irruento come un fiume in piena, innescano un meccanismo difficile da arginare. Non stupisce dunque che metafore alle quali la scrittrice ricorre per descrivere il suo percorso di riappropriazione della memoria siano l’immagine dell’uragano37 e quella del terremoto38. Ad intensificare il senso di impotenza che si avverte di fronte alla portata inarrestabile di una catastrofe naturale, interviene anche l’immagine della trappola, che la costringe a fare i conti con il proprio passato impedendo ogni possibilità di sottrarvisi: «Mi sentii in trappola: da allora, e per lungo tempo, 37. 38. C. Sereni, Il gioco dei regni, cit., p. 443. Ibid., p. 444. Qu255e sto E ELISABETTA ABIGNENTE 256 il libro si chiamò Samarcanda, per dire dell’impossibilità di sfuggire al destino, una volta che il meccanismo sia innescato»39. Del travaglio vissuto durante la sua preparazione restano tracce evidenti nel testo. La più significativa riguarda l’uso particolare che Clara Sereni fa delle fonti alle quali ha attinto. Invece di camuffarle impastandole nella trama stessa del romanzo, sceglie di farle parlare direttamente nel testo, che si presenta come un mosaico di citazioni e di voci. Si tratta della propria, personale risposta al caos, dell’unica strategia che la scrittrice individua per trovare «un ordine» e per condividere la sua responsabilità di autrice (perché ricordare significa sempre selezionare, decidere cosa includere e escludere, scegliere cosa e come montare)40. Il libro risulta così costruito sull’intreccio tra parti originali e ampie citazioni, inserite tra virgolette, le cui fonti bibliografiche sono riportate nella nota iniziale. Nonostante il procedimento sia del tutto scoperto, l’ampiezza e la frequenza delle citazioni, quasi sempre in prima persona data la natura diaristica o epistolare delle relative fonti, e la mancanza di didascalie, finisce per destabilizzare il lettore e allentare i confini netti tra la voce narrante e quelle dei singoli personaggi. La continua alternanza tra prima e terza persona si fa in questo senso particolarmente significativa in quanto traccia del processo di riscrittura e stratificazione del senso che sottende ogni libro di famiglia e per la sua capacità di mettere allo scoperto la fragilità del limite tra l’io autoriale e gli altri familiari, ai quali viene ceduta la parola. L’intento è quello di dare vita a una storia che si scriva da sola, in un continuo avvicendamento di voci. Le scoperte e i fallimenti, le illuminazioni e i blocchi affrontati lungo il percorso diventano materia narrativa nel romanzo di Giorgio van Straten, costruito sull’alternanza tra tempo della storia e tempo della scrittura. Il mio nome a memoria, che si apre con un albero genealogico lungo sei generazioni, si articola in quattro parti, al cui interno l’andamento narrativo segue un ordine cronologico sparso, alternando la ricostruzione lineare degli avvenimenti a salti spazio-temporali. Pro- Ibid. Ibid., p. 447. Questo E 39. 40. UNA STORIA DI OMBRE Qu e sto lessi e analessi abituano il lettore a muoversi con agilità all’interno di una storia di famiglia che si sviluppa dipanandosi in numerosi rami, disperdendosi in diversi paesi europei e extraeuropei. Se uno dei tratti caratteristici della saga familiare risiede nella compensazione dell’ampio arco cronologico raccontato con un restringimento dello spazio narrativo ai limiti del claustrofobico, la storia dei van Straten registra al contrario una simbolica assenza di centro, o meglio un policentrismo mobile e dinamico, annunciato sin dal cognome («Straaten», nome del piccolo paese fiammingo degli antenati, in olandese significa «strade»)41, solo parzialmente compensato dall’albero genealogico che funziona da possibile «approdo simbolico»42. Dopo l’incipit dedicato alla figura di Hartog Alexander e alla sofferta scelta di un cognome, l’attenzione si sposta già nel secondo paragrafo sull’ultimo erede, colui che dice io nel libro e si assume il compito di ricostruire e dare forma alla storia di famiglia. Se il fondatore sentiva su di sé il peso di una decisione che avrebbe inciso anche sulla vita dei posteri, l’ultimo Giorgio avverte la responsabilità di far rivivere sulla pagina coloro che hanno portato quel cognome tra le strade del mondo. Si tratta di un compito che, sebbene autoimposto, si rivela estremamente costoso in termini etici, prima ancora che psicologici o letterari. Il primo problema con il quale l’autore si trova a dover fare i conti è la limitatezza, e in certi casi la vera e propria assenza, di tracce lasciata dalle generazioni che l’hanno preceduto. Se Marguerite Yourcenar e Clara Sereni potevano contare su una molteplicità di fonti, sebbene parziali e talvolta contraddittorie, dovuta anche al ruolo pubblico ricoperto da diversi membri delle loro famiglie, la storia dei van Straten risulta di fatto potenzialmente anonima, una microstoria come tante altre che potrebbe rischiare di confondersi e amalgamarsi con le diverse epoche che ha attraversato. L’autore si trova così a essere l’ultimo depositario di una storia incompleta, costellata di vuoti, strappi, pagine E -bo o ka p pa rt i e ne a 41. G. van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000, p. 19. 42. D. Budor, Il «romanzo genealogico», ovvero la memoria viva dei morti, in R. Speelman, M. Jansen, S. Gaiga (a cura di), Scrittori italiani di origine ebrea ieri e oggi: un approccio generazionale, in «Italianistica ultraiectina», 2, 2007, pp. 115-128. 257 am ila ri 9 u o io8 ELISABETTA ABIGNENTE 258 sbiadite e indecifrabili. L’aspetto più inquietante risiede nella constatazione che quest’assenza di tracce non si limita a generazioni lontane nel tempo, dove sarebbe in qualche modo giustificata dai continui spostamenti, dalla povertà e dalla guerra, ma riguarda prima di tutto la figura del padre: «Anche mio padre non ha lasciato un foglio scritto. Non parlo di un testamento, non è quello che mi manca. Intendo che di lui non c’è una lettera, un appunto, tanto meno un diario»43. Da questa assenza di fonti scritte, dolorosa, disorientante, si origina la scrittura stessa, che si offre come unica possibile occasione di risarcimento, nel suo doppio significato di riparazione e di indennizzo, del passato. Alla domanda che tutti i nostri autori si pongono – come e quanto sia giusto colmare con l’immaginazione i vuoti della storia – Van Straten trova una propria personale risposta ricorrendo alla metafora del restauro, suggeritagli da Luciano Berio in Rendering44, che puntella il testo come un Leitmotiv. L’accostamento della figura dell’autore a quella di un restauratore non si limita all’analogia tra il tentativo di recupero memoriale e la lenta operazione di ripristino di antichi colori sbiaditi dal tempo ma indica anche la possibile strategia alla quale ricorrere nel caso in cui ogni traccia sia andata perduta: «Come un restauratore posso recuperare i colori che il passare dei secoli ha offuscato, che cattivi pittori hanno coperto. Ridare vita, respiro. Ma c’è un confine per me invalicabile: anche nei moderni restauri, nei punti in cui la pittura è completamente scomparsa, non si può inventare un disegno che è perduto. Fra una zona recuperata e l’altra si dà una mano di intonaco bianco»45. Il libro è puntellato di riflessioni sul proprio operare, di dichiarazioni di intenti, di verifiche in itinere, di autocommenti. La componente autoriflessiva si arricchisce di volta in volta di ulteriori specifiche e distinzioni, come quella tra i casi in cui il colore è recuperabile perché si è in possesso di oggetti-reliquia portatori di indizi – un quaderno, un orologio, una fotografia – e gli altri in cui invece l’unica possibile via G. van Straten, op. cit., pp. 21-22. Ibid., p. 296. Ibid., p. 22. o o E-bo Quest 43. 44. 45. UNA STORIA DI OMBRE d’uscita sia quella di un rispettoso silenzio. Se in fase programmatica la linea di confine tra il vero e il verosimile, tra l’accaduto e l’inventato, appare nitida e netta, una volta immersi nella scrittura questa distinzione lentamente sfuma e tutto si confonde. I dubbi che tormentano l’autore-narratore prendono la forma di un esame di coscienza che offre una chiave di lettura per comprendere non soltanto il suo personale processo creativo ma anche quello intrapreso da tutti gli autori qui indagati. Negli stessi anni Novanta nei quali van Straten scrive la sua genealogia fatta di nomi, anche Oriana Fallaci si ferma, dopo il lungo e avventuroso peregrinare, per immergersi in un viaggio nel tempo. Alla vecchia passione per le storie di famiglia, testimoniata dalla grande mole di appunti raccolti nel tempo, si aggiunge, dopo l’ultimo lavoro da inviata nella Guerra del Golfo nel 1991, la scoperta della malattia che le mostra improvvisamente la possibile brevità degli anni che le restano da vivere: «Ora che il futuro s’era fatto corto e mi sfuggiva di mano con l’inesorabilità della sabbia che cola dentro una clessidra, mi capitava spesso di pensare al passato della mia esistenza: cercare lì le risposte con le quali sarebbe giusto morire. Perché fossi nata, perché fossi vissuta, e chi o che cosa avesse plasmato il mosaico di persone che da un lontano giorno d’estate costituiva il mio Io»46. Sin dal prologo di Un cappello pieno di ciliegie, il voluminoso romanzo incompiuto pubblicato postumo nel 2008, il percorso a ritroso lungo le generazioni si connota per Oriana Fallaci come un’indagine interiore, tale da rendere la storia della propria famiglia una forma di autobiografia stratificata e plurale. Come l’albero genealogico che insieme alle fotografie del dattiloscritto e degli appunti autoriali compone il paratesto, anche il libro si articola in quattro parti che ripercorrono i rami materni e paterni. All’ampio arco cronologico, compreso tra il 1773 e il 1889, corrisponde anche in questo caso uno spazio multiforme: il paese di Panzano in Chianti è il simbolico epicentro di una storia di famiglia che, nel corso delle sue circa ottocento pagine, tocca le città di Firenze, Torino, Cesena e si spinge oltreoceano. Una storia di tradimenti e abbandoni, di amori e o oE -b st Qu e ne art ie pp ok a 46. O. Fallaci, Un cappello pieno di ciliegie, Milano, Rizzoli, 2016, p. 7. 259 ELISABETTA ABIGNENTE bugie, di ferite e ritrovamenti, di annegamenti e morti che per essere narrata richiede uno sguardo lucido in grado di arginare il rischio di dispersione costantemente all’orizzonte. Se il percorso memoriale è simile allo «scoperchiare una scatola che contiene un’altra scatola che ne contiene un’altra ancora all’infinito»47, anche in questo caso una metafora artistica viene in supporto: si tratta dell’immagine dell’io come mosaico, le cui tessere corrispondono alle esistenze di coloro che ci hanno preceduto. Il senso di questa immagine si rivela però di segno completamente opposto a quello suggerito da van Straten: se in quel caso lo scrittore si poneva nei panni di un restauratore che con pazienza e pudore si faceva strumento di un lento e pur sempre parziale recupero del passato, qui la struttura interna del mosaico viene associata alla personalità stessa della scrittrice, abbattendo ogni confine tra io e manufatto. L’aspetto più interessante della saga di Oriana Fallaci, per altri versi non esente dai cliché propri di un genere di consumo, consiste nell’idea di guardare alla storia di famiglia come un percorso di eterna reincarnazione lungo le generazioni. Lo strumento al quale la scrittrice ricorre per ricostruire le vicende dei propri progenitori consiste infatti nell’immedesimazione, marcata dal passaggio, nei momenti di maggiore intensità emotiva, dalla terza persona alla prima. Non si vive soltanto dopo chi ci ha preceduto ma anche attraverso di loro. La figura del narratore finisce per somigliare allora da un lato a quella di un acchiappa-fantasmi, che fa i conti con l’inafferrabilità di individualità sfuggenti e lontane nel tempo, dall’altra a un fantasma stesso, che si diverte a incarnarsi di volta in volta nei corpi che tenta di riportare in vita, tanto da poter dire: io sono coloro che racconto. Viene così portata alla massima evidenza quella relazione ambigua tra io e noi, singolare e plurale, che costituisce uno dei marchi caratteristici delle memorie di famiglia48: l’interiorità del discendente è una sorta di palinsesto nel quale permangono, incisi, i segni delle esistenze precedenti alla propria, le tracce degli individui che l’hanno generato. sto e Qu E k oo b - p ap a n rtie e 260 47. 48. Ibid., p. 8. Cfr. ibid., pp. 463 e 470. UNA STORIA DI OMBRE «Che cosa ci sarebbe stato da scrivere in avvenire sotto il suo nome, che le aveva imposto la nonna Antoniette?»49, si chiedeva Tony Buddenbrook all’epoca della fatidica e sofferta scelta del matrimonio con Grünlich in una delle sequenze più intense del romanzo di Thomas Mann, immaginando cosa avrebbero potuto leggere i suoi discendenti sfogliando le pagine ingiallite di quel «libretto dalla copertina di pelle sbalzata e dal taglio dorato»50 in cui erano narrate le vicende degli avi. Alcuni anni dopo e qualche riga più sotto, il piccolo Hanno avrebbe tracciato una doppia linea continua, lugubre anticipazione della fine di un mondo. Nelle memorie di famiglia qui indagate, e in particolar modo nelle loro soglie, sembrano rivivere questi due gesti speculari: da un lato la consapevolezza di Tony di dover essere all’altezza di «coloro che ci hanno preceduti e ci hanno indicato la strada»51 attraverso le proprie scelte e la trasmissione della memoria (non a caso è a lei che Gerda affida le carte di famiglia alla fine del romanzo riconoscendola come unica vera erede spirituale dei Buddenbrook); dall’altro il gesto istintivo e definitivo di Hanno, l’ultimo discendente, presenza ormai postuma, al quale non resta che mettere un punto a una storia lunga generazioni. Alla luce di questo sia pur limitato percorso, si potrebbe concludere osservando che se, come scrive Marina Polacco, «la conservazione della memoria è la condizione imprescindibile per la preservazione dell’identità familiare» e «la dissoluzione della coscienza storica è l’anticamera della morte»52, la passione per l’indagine genealogica e per il recupero memoriale che anima e struttura non pochi romanzi contemporanei sembra confermare che il romanzo di famiglia sia un genere ancora lontano dal proprio tramonto e che la scrittura continui a rappresentare una potentissima strategia di sopravvivenza. 49. 50. 51. 52. T. Mann, I Buddenbrook (1901), Torino, Einaudi, 1952, p. 144. Ibid., p. 45. Ibid., p. 134. M. Polacco, op. cit., p. 120. Q ue st o E- bo ok 261 262 ELISABETTA ABIGNENTE Questo E-book appartiene a ilariamuoio89 gmail.com 201 Bibliografia Abignente E., (2017), Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. 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Una è l’ambientazione in una Napoli dove povertà, disuguaglianze sociali e violenza sono ben visibili e la vita dei personaggi è dominata o minacciata dalla presenza del crimine organizzato. E a preparare il terreno era stato il memoir finzionale di Roberto Saviano Gomorra (2006), che non ha solo fornito il materiale Questo E-book appartiene a ilariamu 1. Queste sono le cifre riportate da M. Reynolds (il direttore editoriale di Europa Editions) in un’intervista rilasciata per il documentario Ferrante Fever uscito nel 2017: G. Durzi, Ferrante Fever, Roma, Malìa – Rai Cinema, 2017, 00:10:56-00:11:34. 2. I dati sono raccolti e pubblicati in D. Renga, Watching Sympathetic Perpetrators on Italian Television: Gomorrah and Beyond, Cham, Switzerland, Springer Nature - Palgrave Macmillan 2019, pp. 280-281. 3. Dichiarazione rilasciata da A. Cattelan per conto di Sky Atlantic nel 2017; accessibile all’indirizzo: https://tg24.sky.it/spettacolo/serie-tv/2017/09/12/sky-upfront-2017-2018 (consultato il 5 luglio 2020). ALESSIO BALDINI 266 2 012 om 2 il.c to Ques narrativo per la serie TV, ma ha anche riportato l’attenzione gmsuaNapoli e 9 8 o i sul crimine organizzato con 10 milioni dim copie uo vendute globalmente4. a i r la quadrilogia dell’Amica geniale e La seconda ragione del successo a idella e n e i t di Gomorra – Lap serie ar è il fatto che entrambe sono delle saghe familiari. p a k Le pagine che seguono sono dedicate a questo genere narrativo. Il mio o -bo E obiettivo è proporre una definizione teorica della saga familiare basata su prove documentarie che rendano conto delle pratiche di chi produce e consuma romanzi, film e serie televisive. Nel prossimo paragrafo (1. La circolazione della saga familiare nella cultura moderna) ricostruisco la genesi e la diffusione della saga familiare e nel secondo spiego perché penso sia necessario adottare un approccio interartistico e intermediale a questo genere (2. Finzione, arti e media, generi). Poi nel terzo paragrafo propongo una definizione della saga familiare (3. La saga familiare come genere narrativo middlebrow: personaggi, tempo, spazio e punti di vista) e infine concludo parlando della sua funzione sociale (Conclusione: dalla poesia del Risorgimento alla prosa della vita nazionale). Anche se terrò presente l’orizzonte della letteratura, del cinema e della televisione globali, mi concentrerò sull’Italia. La saga familiare è infatti un genere «glocale (glocal)»5 e deve la sua circolazione e il suo successo globali alla possibilità che offre a chi consuma queste opere d’arte di immaginare storie e personaggi radicati in un luogo e in un momento specifici. 1. La circolazione della saga familiare nella cultura moderna I ruoli e le relazioni familiari sono onnipresenti come oggetti o temi di racconto nelle opere d’arte narrativa. Bisogna però distinguere le opere in cui la famiglia è la dominante tematica e strutturale del racconto6: solo queste opere sono elementi di quel sottoinsieme che chiamo saga familiare. Sorprende che questo genere narrativo diffuso e longevo abbia ricevuto così poca attenzione da parte sia degli studi letterari sia di quelli sul cinema o sulla televisione. Ci sono delle mo- 4. G. Benvenuti, Il brand Gomorra: dal romanzo alla serie tv, Bologna, il Mulino, 2018. 5. D. Damrosch, How to Read World Literature, Chichester (UK), Wiley-Blackwell, 2009, p. 192. 6. Y.-L. Ru, The Family Novel: Toward a Generic Definition, New York, Peter Lang, 1992. FINZIONI CHE LEGANO i l .c 9 g ma uoio8 lariam ne a i partie ok ap Quest o E-bo nografie di riferimento su molti generi letterari, tra cui il romanzo di formazione, quello storico, quello domestico e quello di adulterio7. Nel caso del cinema e della televisione sono stati studiati a fondo i generi importanti, dal western alla commedia, al poliziesco, al noir e all’orrore; e ci sono persino collane editoriali dedicate ai generi8. La saga familiare è menzionata invece solo di sfuggita all’interno della riflessione su cinema e storia9. Fra i pochi studi esistenti su questo genere in ambito letterario, vanno menzionati quelli di Stefano Calabrese e di Patricia Tobin sui romanzi genealogici10; il saggio di Marina Polacco, che ha il merito di porre le basi per la definizione del romanzo familiare11; c’è poi la monografia di Jobst Welge, che è la prima a spiegare la funzione sociale di questo genere all’interno degli immaginari nazionali12; c’è infine il numero speciale di Enthymema curato da Elisabetta Abignente ed Emanuele Canzaniello, dove si mette a fuoco la distinzione fra il memoir familiare e la saga come genere di finzione13. In questo saggio riprendo i risultati già acquisiti da queste ricerche, mettendoli però in una cornice concettuale e su una base documentaria nuove. Vorrei dunque ricostruire come è nata la saga familiare e come ha iniziato a circolare. Prima di fare questo, vorrei però dire qualcosa sulla scelta terminologica e vorrei tracciare la diffusione di questo genere 267 7. F. Moretti, The Way of the World: The Bildungsroman in European Culture, London, Verso, 1987; G. Lukács, The Historical Novel, Harmondsworthm, Penguin, 1969; N. Armstrong, Desire and Domestic Fiction: A political History of the Novel, New York-Oxford, Oxford University Press, 1987; T. Tanner, Adultery in the Novel: Contract and Transgression, Baltimore (MD)-London, Johns Hopkins University Press, 1979. 8. Ad esempio Berry Keith Grant cura New Approaches to Film Genres per Wiley Blackwell. 9. R. Rosenstone, History on Film/Film on History, Harlow, Pearson, 2006. 10. S. Calabrese, Cicli, genealogie e la genesi del romanzo totale nel XIX secolo, in F. Moretti (a cura di), Il romanzo, vol. IV, Torino, Einaudi, 2003, pp. 611-640; P.D. Tobin, Time and the Novel, Princeton (NJ), Princeton University Press, 1978. 11. M. Polacco, Romanzi di famiglia. Per una definizione di genere, in «Comparatistica», 13, 2005, pp. 95-125. 12. J. Welge, Genealogical Fictions: Cultural Periphery and Historical Change in the Modern Novel, Baltimore, John Hopkins University Press, 2015. 13. E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017. 268 ALESSIO BALDINI Q u es espresnella cultura globale. Ho scelto “saga familiare” perché questa to tesione si può riferire non solo ai libri, ma anche ai film e alle serie Elevisive. Usando “saga familiare” non voglio indicare alcun rapporto b con le saghe islandesi medievali o conferire un carattere epico a questeoo opere. Al contrario, le opere d’arte centrali per le saghe familiari che ho k in mente sono ambientate in società moderne e raccontano storie di personaggi più o meno ordinari. Il mio uso di “saga familiare” è dunque tecnico, ma rimanda al significato etimologico di “saga” come “detto”, “storia” o “racconto” – la radice germanica è la stessa del verbo “dire” (to say, sagen, zeggen, säga, seie, sige, segja). La saga familiare è uno dei generi narrativi più importanti e popolari non solo nella letteratura italiana, ma anche nella letteratura mondiale a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La saga familiare conta molti noti capolavori e continua ad arricchirsi di opere che hanno una grande diffusione presso il pubblico e ricevono un ampio consenso da parte della critica. Alcuni esempi sono Les Rougon-Macquart (1871-93) di Émile Zola, I Malavoglia (1881) di Giovanni Verga, I Maia (1888) di José Maria Eça de Quirós, I Buddenbrook (1901) di Thomas Mann, Il regno dei morti (1912-16) di Henrik Pontoppidan, Gli anni (1937) di Virginia Woolf, Famiglia (1933-40) di Ba Jin, La trilogia del Cairo (1956-57) di Naguib Mahfouz, La serie di Stoccolma (1960-68) di Anders Fögelstrom, Cent’anni di solitudine (1967) di Gabriel Garcia Márquez, Il mare della fertilità (1969-71) di Yukio Mishima, Radici (1976) di Alex Haley, La casa degli spiriti (1982) di Isabelle Allende, L’albero della vita (1992) di Maryse Condé, Grande seno e fianchi larghi (1996) di Mo Yan, Denti bianchi (2000) di Zadie Smith, Le correzioni (2001) di Jonathan Franzen, Middlesex (2002) di Jeffrey Eugenides, La saga dei Cazalet (1990-2013) di Elizabeth Howard, L’amica geniale di Elena Ferrante, Non dimenticare chi sei (2016) di Yaa Gyasi, Pachinko (2017) di Min Jin Lee. Anche questa lista parziale dà il senso della circolazione globale e dell’adattabilità di questo genere a diversi contesti nazionali; le opere ricordate qui provengono infatti da quasi tutti i continenti e da letterature di paesi molto diversi per collocazione geopolitica, lingua e cultura. La saga familiare è un genere adatto alla serialità e alla resa cinematografica e televisiva. Così si trovano numerosi adattamenti di opere letterarie per ap pa rt FINZIONI CHE LEGANO lo schermo, anche se ci sono opere originali. Si può pensare ai Buddenbrooks (1923) di Gerhard Lamprecht, Rocco e i suoi fratelli (1960) e Il Gattopardo (1963) di Luchino Visconti, Il padrino (1972-90) di Francis Ford Coppola, Karl e Cristina (1971) e La nuova terra (1972) di Vilhelm Moberg, Radici (1977) di Marvin Chomsky et al., Novecento (1976) di Bernardo Bertolucci, Heimat di Edgard Reitz (1984-2013), La casa degli spiriti (1993) di Bille August, Vivere! (1994) di Zhang Ymo, Sunshine (1999) di István Szabó, La meglio gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana, Gomorra di Sollima e So Long, My son (2019) di Wang Xiaoshuai. L’ideatore del genere è Émile Zola, i cui Rougon-Macquart sono il primo tentativo di costruire una narrazione seriale che si regga sulla storia di una famiglia. Dopo il successo ottenuto con Thérèse Raquin (1867), il giornalista e romanziere francese decide di lanciarsi in un’impresa letteraria più ambiziosa dal punto di vista sia artistico sia commerciale. Stanco del lavoro di giornalista, Zola tenta di diventare uno scrittore di professione e per fare questo ha bisogno di un progetto che gli permetta di scrivere una serie di romanzi di qualità per il grande pubblico. E la saga familiare sarà per lui la soluzione, come Zola rivela ai fratelli Gouncourt durante il loro primo incontro avvenuto a metà dicembre del 186814. All’inizio del 1869 Zola firma un contratto con l’editore Albert Lacroix per la pubblicazione di una serie di 10 romanzi; il progetto dei Rougon-Macquart passerà poi con la pubblicazione di Le Ventre de Paris (1873) all’editore Charpentier e crescerà fino a includere 20 romanzi. Fra l’autunno del 1867 e l’inizio del 1869 Zola stende una serie di appunti preparatori al primo romanzo La Fortune des Rougon (1871) e all’intera serie, che avrebbe dovuto rappresentare la società francese sotto il Secondo Impero. Il modello è quello della Comédie humaine di Balzac, che l’editore Michel Lévy stava ripubblicando proprio in quegli anni all’interno delle Œuvres Complètes. Zola deriva da Balzac sia l’idea di raccontare la vita di diverse classi sociali in un ciclo romanzesco sia l’uso di personaggi che ricorrono come strategia narrativa per legare i romanzi. Conscio del suo debito, Zola vuole marcare Questo E-b 14. E.-J. de Goncourt, 14 décembre 1868, in R. Ricatte (a cura di), Journal. Mémoires de la vie littéraire, Monaco, Flasquelle and Flammarion, 1956, pp. 154-156. 269 270 ALESSIO BALDINI la sua originalità e intitola un gruppo di appunti Différences entre Balzac et moi15. E nei primi appunti che stende, intitolati Notes générales sur la marche de l’œuvre, Zola identifica proprio nel racconto di una storia di famiglia l’elemento centrale del suo progetto; d’altra parte il sottotitolo dei Rougon-Macquart è Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire. Zola vuole dunque scrivere un romanzo «simple (semplice)» con «une seule famille, avec quelques membres (una sola famiglia con qualche membro)»16. Se è Zola ad avere ideato la saga familiare, sono scrittori e scrittrici che si sono riconosciuti nel naturalismo di cui è stato il promotore ad averla trasformata in un genere. L’influenza della letteratura francese ottocentesca su quella mondiale non può essere sottovalutata e Zola è stato l’autore francese della seconda metà dell’Ottocento più venduto e noto anche all’estero17. Grazie alla sua fama e alla sua capacità di promotore culturale e commerciale, Zola trasforma il naturalismo in una koinè letteraria europea a cui si ispirano poi autrici anche nelle Americhe e in Asia; e anche quando il naturalismo declina come movimento letterario verso la fine del XIX secolo, la saga familiare continua a circolare e poi si estende al cinema e alla televisione. Ma come inizia a circolare l’idea che sta alla base di questo genere narrativo? Lo si capisce se si guarda alla letteratura italiana, che è la prima – per quanto ne so – a importare la saga familiare; e ciò non deve stupire vista la prossimità geografia della Francia e dell’Italia e l’impatto della cultura francese su quella italiana nella seconda metà dell’Ottocento. io89 È vero che Zola era noto per il successondi singoli amuocome ilariromanzi a e ie rt a p p ok aGerminal (1885) e La Débâcle (1892), che L’Assomoire(1877), Nana -bo(1880), sto E u Q si potevano e venivano letti isolatamente; ed è inoltre vero che il ciclo dei Rougon-Macquart nel suo complesso è stilisticamente disomogeneo, 15. É. Zola, Différences entre Balzac et moi (Bnf – f 15/2), in C. Becker (a cura di), La fabrique des Rougon-Macquart, Paris, Champion, 2003, pp. 40-48. 16. É. Zola, Notes sur ma marche générale de l’œuvre (Bnf – f 2/1, f 6/5), in C. Becker (a cura di), La fabrique des Rougon-Macquart, cit., p. 33. 17. D. Sassoon, Zola: Money, Fame and Conscience, in The Culture of the Europeans: From 1800 to the Present, London, HarperCollins, 2006. gmail FINZIONI CHE LEGANO e Qu st disuguale per valore letterario e narrativamente incoerente. E tuttavia Zola e i suoi editori non perdono l’occasione di presentare ai lettori questa serie di romanzi come un’opera unica e questo per ragioni sia artistiche sia commerciali. Così negli occhietti e nei frontespizi delle edizioni in volume pubblicate da Lacroix prima e da Charpentier poi il titolo di ogni romanzo è numerato progressivamente e compare sotto il titolo della serie18. E nelle prefazioni Zola ribadisce sempre l’unità del ciclo romanzesco, che dichiara essere basata sul racconto di una storia familiare. Se le prefazioni ai primi due romanzi – La Fortune des Rougon e La Curée (1872) – servono a introdurre e lanciare il ciclo sul mercato, Zola usa la prefazione all’Assommoir (il settimo volume della serie) per difendersi dalle accuse di avere scritto un romanzo pieno di violenza e volgarità. Già dalla sua uscita sui periodici l’Assommoir aveva infatti attirato l’attenzione di pubblico e di critica e l’uscita in volume avrà un successo di vendite senza precedenti per Zola, la cui carriera e il cui profilo pubblico ne usciranno trasformati. In seguito al successo dell’Assommoir, Zola decide di far precedere il testo del romanzo successivo, intitolato Une page d’amour (1878), da una Note e dall’albero genealogico della famiglia dei Rougon-Macquart. L’intento è quello di ravvivare l’interesse per i sette romanzi già pubblicati – che erano elencati nell’occhietto – e alimentare l’aspettativa per l’uscita del prossimo. È importante notare però che non si tratta solo di una trovata pubblicitaria. Una versione precedente dell’albero genealogico si trova infatti fra i primi documenti preparatori redatti e inviati a Lacroix; inoltre Zola dichiara che avrebbe voluto pubblicarlo solo con l’uscita dell’ultimo volume, perché nella finzione l’albero genealogico è il risultato di una ricerca scientifica condotta da uno dei personaggi, il medico Pascal – e infatti un’altra versione verrà allegata al ventesimo romanzo intitolato proprio Le Docteur Pascal (1893)19. 18. Ad esempio si veda É. Zola, La Fortune des Rougon, Paris, Charpentier, 1871, accessibile all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k8577723?rk=42918;4 (consultato il 5 luglio 2020). 19. É. Zola, Note, in Idem, Une page d’amour, Paris, Charpentier, 1878, pp. v-vii, accessibile all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ark:/12148/bpt6k5839140d?rk=107296;4 (consultato il 5 luglio 2020). 271 ALESSIO BALDINI Questo E-book appartiene a ilariamuoio89 gmail.com 2 272 La stampa dà grande risalto all’uscita della serie dei Rougon-Macquart. In particolare, il domenicale del «Figaro» del 21 aprile 1878 è tutto dedicato a Zola. Philippe Gille recensisce infatti sia Une page d’amour sia l’edizione illustrata dell’Assommoir in uscita per C. Marpon et E. Flammarion. Anche Gille segnala in apertura che il nuovo romanzo va letto come un episodio all’interno della serie dei Rougon-Macquart, di cui elenca tutti i romanzi già usciti20. Per diffusione e prestigio il domenicale del «Figaro» era una delle pubblicazioni letterarie più influenti al mondo e il fatto che un intero numero fosse dedicato a Zola era una cosa che non passava inosservata. Il domenicale del «Figaro» usciva il sabato a Parigi e veniva spedito poi nei dipartimenti di provincia dove era in vendita la domenica. È quindi probabile che copie del domenicale arrivassero la domenica anche a Milano. Giovanni Verga era un lettore del «Figaro» e in quel periodo si trovava proprio nella città lombarda: è possibile quindi che abbia letto il domenicale al Biffi in Galleria o in uno degli altri caffè letterari che frequentava21. A farlo pensare è la lettera che Verga scrive proprio quel giorno a Salvatore Paola Verdura. In questa lettera Verga condivide con l’amico avvocato, che viveva a Catania, l’idea di un ciclo composto da cinque romanzi intitolato La Marea. È la prima volta che Verga parla di questo progetto e la coincidenza delle date e l’entusiasmo dell’autore fanno pensare che sia stata proprio la lettura della recensione di Une page d’amour ad averlo convinto a imitare Zola; è questa lettera che segna l’arrivo della saga familiare come genere narrativo in Italia22. Che Verga intendesse scrivere una saga familiare sul modello di Zola era chiaro anche ai critici letterari dell’epoca. Nella sua recensione ai Malavoglia, la cui prefazione tornava a parlare 20. P. Gille, Revue bibliographique – Une page d’armour par Émile Zola, in «Le Figaro. Supplément littéraire du dimanche», 21 avril 1878, accessibile all’indirizzo: https://gallica.bnf.fr/ ark:/12148/bpt6k273783z.r=le%20figaro?rk=2060096;0 (consultato il 5 luglio 2020). 21. Su Verga e il Biffi si veda: R. Melis, Per una storia del giornalismo letterario milanese: Giovanni Verga, Carlo Borghi e gli amici del “Biffi”, in «Giornale Storico della Letteratura Italiana», 171, 553, 1994, 553-576. 22. G. Verga, A Salvatore Paola Verdura, Milano, 21 aprile 1878, in Idem, Lettere sparse, G. Finocchiaro Chimirri (a cura di), Roma, Bulzoni, 1979, pp. 79-80. p p ka o bo E- toFINZIONI CHE LEGANO s ue Q del progetto di un ciclo di cinque romanzi che ora si intitolava I Vinti23, Francesco Torraca non ha dubbi e scrive: [I Malavoglia sono] un romanzo realista, anzi una serie di romanzi, qualcosa di simile alla Storia naturale di una famiglia sotto il secondo impero! […] la famiglia de’ Malavoglia è il pernio del racconto, […] Se non che i Malavoglia sono appena la base di un grande edifizio. Chi ci assicura che, insieme con l’avvocato Scipione, non ricompariranno Lena e ’Ntoni? La dimenticanza, in tal caso, sarebbe semplice artifizio del romanziere. Lia, certo, ricomparirà e ci dirà quali lotte segrete, quale sgomento, o qual fascino la spinse alla fuga24. 2. Finzione, arti e media, generi Fin qui non ho dato definizioni. Mi sono affidato a intuizioni che spero siano condivise, alcune delle quali ho documentate rimandando a ciò che autori e lettori professionisti hanno scritto. Sarei potuto partire da una definizione puramente teorica o “normativa” di un genere – ad esempio, il «romanzo massimalista» –, per poi applicarla all’insieme di testi scelti per costruire la definizione, evitando di chiedermi se quella categoria sia usata da chi produce e consuma opere d’arte25. Sarebbe stata una scelta legittima, perché non c’è nulla che ci garantisca che le nostre intuizioni e persino quelle dei romanzieri e dei critici letterari non siano confuse. Le categorie dell’arte sono infatti «la posta in palio (up for grabs)» della teoria: ogni teoria di un genere o di un altro tipo d’arte è sempre una scommessa e una scoperta26. Facendo così avrei però corso il rischio di costruire una definizione circolare della saga familiare e di non considerare una dimensione importante della co- 23. G. Verga, Prefazione, in Idem, I Malavoglia, Torino, Einaudi, 1995, pp. 3-7. 24. F. Torraca, I Malavoglia (9 maggio 1881), in Idem, Scritti critici, Napoli, Perrella, 1907, pp. 374-390. 25. S. Ercolino, Il romanzo massimalista: da L’arcobaleno della gravità di Thomas Pynchon a 2666 di Roberto Bolaño, Milano, Bompiani, 2015. Questo esempio è rilevante perché Ercolino classifica come “romanzi massimalisti” alcuni esempi centrali di romanzo familiare come Le correzioni di Franzen e Denti bianchi di Zadie Smith. 26. D.M. Lopes, Beyond Art, Oxford, Oxford University Press, 2014, pp. 127-130. 273 boo Questo E- 274 ALESSIO BALDINI struzione dei concetti che usiamo per parlare d’arte – inclusi quelli di genere –, che è proprio quella dell’uso che ne fa chi produce e consuma opere d’arte. Credo infatti che la teoria dell’arte debba cercare un «equilibrio riflessivo» fra le intuizioni di chi produce e consuma opere d’arte e un resoconto «normativamente adeguato» dei concetti in uso che ha l’obiettivo di migliorare le nostre intuizioni rendendole meno confuse ed eliminando le fonti di errore27. Non che chi scrive o legge romanzi abbia bisogno di una teoria per fare quello che fa; lo scopo della teoria è quello di cercare di mettere un po’ di ordine per consentire a chi fa ricerca di gettare luce sui fenomeni che ci interessano e studiarli in modo più sistematico. Il mio obiettivo qui è dunque quello di definire i concetti centrali che ho usato nei paragrafi precedenti. Continuerò a basarmi su esempi di singole opere d’arte, sia per testare concetti e intuizioni gli uni contro le altre, secondo il metodo dell’equilibrio riflessivo, sia per saggiare il potere «euristico» dei concetti che cercherò di definire – una teoria è infatti adeguata solo se ci aiuta a capire e spiegare meglio i fenomeni28. La mia più grande ambizione in questo saggio è infatti quella di poter contribuire a gettare le basi per un programma di ricerca su quello che credo sia uno dei generi narrativi più importanti della cultura moderna. Per come la definisco, la saga familiare è un genere di finzione. È importante notare che “finzione” non designa qui un insieme di testi e film che costituirebbero un genere di cui la saga familiare sarebbe un sottogenere; con “finzione” mi riferisco piuttosto a un modo di enunciazione o rappresentazione in cui parole, immagini e suoni non sono usati per asserire o rappresentare la realtà, ma veicolano una «postura fittizia (fictive stance)» che induce chi legge o guarda e ascolta a immaginare un mondo inventato29. Per far capire che cos’è il modo di enunciazione o rappresen27. B. Gaut, “Art” as a Cluster Concept, in N. Carroll (a cura di), Theories of Art Today, Madison (WI), The University of Wisconsin Press, 2000, pp. 30-31. 28. Ibid. 29. P. Lamarque, S.H. Olsen (a cura di), Truth, Fiction, and Literature, Oxford, Clarendon Press, 1994, pp. 32-34. Per cinema e televisione si veda: C. Plantinga, Rhetoric and Representation in Nonfiction Film, Cambridge, Cambridge University Press, 1997, pp. 15-25. Uso l’espressione “mondo inventato” in senso metaforico per indicare qualcosa che è frutto della FINZIONI CHE LEGANO ook Q u e s t o E-b tazione fittizio su cui si basa la finzione, Kendall Walton è ricorso all’analogia con «i giochi di far finta (games of make-believe)» dei bambini: a p p a r t i ene a Per capire i quadri, le opere teatrali, i film e i romanzi, bisogna prima osservare le bambole, i cavalli a dondolo, le macchinine, gli orsacchiotti. Le attività in cui sono incastonate le opere d’arte mimetiche (representational) e che costituiscono la loro ragion d’essere si capiscono meglio se pensate in continuità con i giochi di far finta dei bambini (games of make-believe). Anzi, propongo di considerare queste stesse attività come giochi di “far finta” e cercherò di dimostrate che le opere d’arte mimetica funzionano come materiale scenico (props) in questi giochi, proprio come le bambole e gli orsacchiotti servono da materiale scenico nei giochi dei bambini30. ilari Delimitare la saga familiare al dominio della finzione mi permette di distinguere questo genere da quello contiguo delle «memorie familiari»31. Se le memorie familiari condividono infatti molte proprietà narrative con la saga familiare, il loro modo di enunciazione è però quello della «postura assertiva (assertive stance)»32: chi scrive delle memorie familiari vuole «ricostruire […] la storia della propria famiglia» e quanto racconta è valutabile in termini di vero o falso33. Si pensi a Lessico famigliare (1963) di Natalia Ginzburg; un libro dove Ginzburg dichiara di non avere inventato niente e di avere scritto con «profonda intolleranza per ogni invenzione»34. Un esempio più recente è Leggen- nostra immaginazione; ho deciso così di preservare quella che mi sembra un’intuizione importante, anche se è notoriamente difficile definire il concetto di “mondo inventato” o “mondo di finzione”; su questo si veda: R. Woodward, Truth in Fiction, in «Philosophy Compass», 6, 3, 2011, pp. 158-167. 30. K.L. Walton, Mimesis as Make-Believe: on the Foundations of the Representational Arts, Cambridge (MA)-London, Harvard University Press, 1990, p. 11 [la traduzione è mia]. 31. E. Abignente, Memorie di famiglia. Un genere ibrido del romanzo contemporaneo, in E. Abignente, E. Canzaniello (a cura di), Il romanzo di famiglia oggi/ Le roman de famille aujourd’hui, in «Enthymema», 20, 2017, pp. 6-17. 32. C. Plantinga, op. cit., p. 19. 33. E. Abignente, op. cit., p. 7. 34. N. Ginzburg, Avvertenza, in Eadem, Lessico famigliare, in Eadem, Opere, vol. I, Milano, Mondadori, 1986, p. 899. 275 ALESSIO BALDINI 276 da privata (2017) di Michele Mari, che tenta di recuperare la sua storia familiare attraverso ricordi d’infanzia e fotografie. E passando alla letteratura mondiale viene in mente Il labirinto del mondo (1974-1988), la trilogia in cui Marguerite Yourcenar riesuma le vite dei suoi avi. Anche le memorie familiari sono un genere interartistico e intermediale. Non ci sono quindi solo libri, ma anche documentari come La scomparsa di mia madre (2019) di Beniamino Barrese, che mette insieme frammenti del passato e del presente della madre. Oppure si pensi a Stories We Tell (2012), in cui Sarah Polley va alla ricerca della verità sulla sua nascita illegittima indagando le personalità e le storie dei genitori e in particolare quella della madre. Come si è già visto dagli esempi fatti, la saga familiare è un genere interartistico e intermediale. I generi infatti non sono necessariamente vincolati dal medium come invece lo sono le arti35. Si può considerare una forma d’arte come un uso speciale di un medium – ad esempio il linguaggio verbale, il cinema, la televisione – che «mira a produrre o produce del valore artistico»36. E se le forme d’arte dipendono dai media, questi a loro volta sono costituiti da «quell’insieme di pratiche che regolano l’uso del materiale»37 adatto a quel medium e che può essere sia fisico (carta e inchiostro, un portatile, una macchina da presa, una pellicola e dei reagenti chimici, un disco rigido) oppure simbolico (le parole, le immagini e i suoni considerati come segni, le serie numeriche di cui sono fatti i file di testo e le immagini digitali). A differenza delle forme d’arte, i generi non sono vincolati a un medium perché dipendono da rapporti sociali. Come i giochi, i generi sono degli insiemi di convenzioni che chi produce e consuma un tipo di opere d’arte riconosce, condivide e usa per interpretarle e valutarle38. Q ue st o E- bo 35. D.M. Lopes, op. cit., p. 133. 36. B. Gaut, A Philosophy of Cinematic Art, Cambridge, Cambridge University Press, 2010, p. 289. 37. Ibid., p. 288. 38. C. Abell, Comics and Genre, in A. Meskin, R.T. Cook (a cura di), The Art of Comics: a Philosophical Approach, Oxford, Wiley-Blackwell, 2012, pp. 77-78. Ho sostituito le nozioni di “produttore” e “consumatore” a quella di «comunità (community)» usata da Abell, con cui intende comunque “gruppi di produttori e consumatori”. ok ap pa rti en e a ila ria FINZIONI CHE LEGANO A queste convenzioni risponde l’intenzione autoriale di realizzarle in un’opera, che quindi esibisce delle proprietà corrispondenti. Vorrei sottolineare che una singola opera non deve possedere tutte le proprietà corrispondenti per essere assegnata a un particolare genere; ne deve possedere però almeno una parte e deve essere il prodotto dell’intenzione di creare quel tipo di opera e orientare così le aspettative del pubblico. Infine è frequente che una singola opera esibisca proprietà che definiscono più di un genere, anche perché questi possono avere delle convenzioni in comune; e dato che l’assegnazione di un’opera a un genere risponde alle preoccupazioni e agli interessi dei produttori e dei consumatori che le interpretano e le valutano, accade spesso che una singola opera si possa assegnare a una pluralità di generi oppure che questa assegnazione cambi col cambiare delle preoccupazioni e degli interessi di chi produce e consuma storie di quel tipo. Quindi non solo la definizione ma anche l’uso dei generi rimane «la posta in palio (up for grabs)» per chi apprezza, valuta, interpreta e studia l’arte. Per come la definisco qui, alle convenzioni che caratterizzano la saga familiare corrisponde un «grappolo (cluster)»39 di proprietà che tendono a essere co-presenti nella stessa opera e ne caratterizzano gli elementi narrativi basilari, cioè (i) i personaggi, (ii) il tempo, (iii) lo spazio e (iv) il punto di vista. Ed è sulle proprietà narrative basilari della saga familiare che mi concentrerò nel prossimo paragrafo. mu Questo E-book appartiene a ilaria 3. La saga familiare come genere middlebrow: personaggi, tempo, spazio e punti di vista Le opere che si possono identificare come appartenenti alla saga familiare sono caratterizzate dal racconto di storie di (i) personaggi che appartengono a una o due famiglie che hanno rapporti di consanguineità o alleanza e sono seguite attraverso due, tre o più generazioni40. Così viene rappresentato l’intero ciclo della vita: la generazione cen39. Applico qui ai generi la definizione a grappolo di arte proposta da B. Gaut, “Art” as a Cluster Concept, cit. 40. Nell’identificare le proprietà che definiscono la saga familiare mi sono basato su M. Polacco, op. cit. 277 278 ALESSIO BALDINI trale viene seguita dall’infanzia o dalla giovinezza alla vecchiaia, mentre della generazione precedente e di quella successiva si raccontano rispettivamente l’invecchiamento seguito dalla morte e la nascita e la crescita prima dell’entrata nella vita adulta. Il racconto per generazioni distingue la saga familiare da generi contigui come il romanzo domestico, il romanzo di formazione o quello di adulterio. Per rimanere alla letteratura – ma si può pensare agli adattamenti per lo schermo di alcune delle opere che elencherò –, ciò che hanno in comune Le ultime lettere di Jacopo Ortis (1802) di Ugo Foscolo, Le confessioni di un italiano (1867) di Ippolito Nievo, Un matrimonio in provincia (1885) della Marchesa Colombi e Teresa (1886) di Neera è la «trama del matrimonio (marriage plot)»41, ovvero il racconto della storia di un personaggio che ruota intorno a una storia d’amore, al desiderio di sposarsi, alla vita coniugale o alla crisi di un’unione. Per i Rougon-Macquart Zola parte dalla stesura di appunti sui personaggi distribuiti per generazioni e poi allega ai romanzi del ciclo l’albero genealogico della famiglia protagonista. Anche Verga nel preparare I Malavoglia stende degli appunti sui personaggi che sono elencati per appartenenza familiare e generazionale42. E la pubblicazione dell’albero genealogico della famiglia protagonista o delle informazioni di base sui personaggi raggruppati per famiglie in apertura Q o chiusura ues del libro o Eè tipica delle saghe familiari. Ciascuno dei quattro volumi tdell’Amica book geniale si apre con un Indice dei personaggi, dove questi sono suddivisi per famiglie a partire da quelle delle due protagoniste, «La famiglia Cerullo (la famiglia dello scarparo)» e «La famiglia Greco (la famiglia dell’uscire)»43. In una delle pagine di guardia di Acqua di sole (2020) di Bianca Rita Cataldi sono pubblicati gli schemi dell’albero genealogico 41. È un concetto comune negli studi letterari in lingua inglese (si veda per esempio L. O’Connell, The Orgins of the English Marriage Plot: Literature, Politics and Religion in the Eighteenth Century, Cambridge, Cambridge Univesity Press, 2019), tanto da essere diventato il titolo di un romanzo (J. Eugenides, The Marriage Plot: A Novel, London, Fourth Estate, 2012). 42. G. Verga, I Malavoglia; personaggi, carattere, fisico, e principali azioni, in Idem, I Malavoglia, cit., pp. 386-391. 43. E. Ferrante, L’amica geniale: infanzia, adolescenza, Roma, E/O, 2011, p. 9. appa FINZIONI CHE LEGANO delle famiglie Gentile e Fiorenza44; mentre un albero genealogico più dettagliato appare in chiusura del racconto e prima dell’indice nei Leoni di Sicilia (2019), il primo volume dedicato alla saga dei Florio scritto da Stefania Auci45. E questo accade anche al cinema e in televisione attraverso media sonori e visivi. La famiglia di Ettore Scola si apre con un lungo piano sequenza di una seduta di posa dove sono schierate le generazioni per una foto di famiglia in occasione del battesimo dell’ultimo nato Carlo, di cui si sente la voce adulta sovraimpressa che commenta le circostanze ed elenca i membri della famiglia; e tutta la prima lunga sequenza è dedicata alla meticolosa presentazione dei membri della famiglia46. Il primo episodio della prima stagione di Gomorra è significativamente intitolato Il clan dei Savastano. La prima volta che gli spettatori vedono la casa-bunker dei Savastano è in occasione di una seduta clandestina dove gli imprenditori e gli amministratori locali affiliati al clan sono riuniti per discutere di una gara di appalto; l’inquadratura stringe in campo medio su don Pietro, donna Imma e il figlio Gennaro, alle cui spalle è appeso un quadro a olio di grandi dimensioni che ritrae lo stesso gruppo familiare47. Il fatto che i personaggi siano raggruppati per famiglie e distribuiti su più generazioni fa sì che (ii) il tempo raccontato sia misurabile in decenni. E questo permette di raccontare come le vite ordinarie siano esposte e trasformate dagli eventi e dai processi che costituiscono la grande storia pubblica di una città, di una regione o di una nazione. Già Les Rougon-Macquart di Zola raccontano la storia della Francia per un quarto di secolo dall’ascesa alla caduta di Napoleone III (1851-74). E nell’intenzione di Verga, l’incompiuto ciclo dei Vinti avrebbe dovuto raccontare la storia d’Italia nell’Ottocento, almeno dalla rivoluzione del 1820 con cui inizia il Mastro-don Gesualdo (1889) fino forse agli anni ne art ie p ka p o sto Ebo i Qu e mu o ria ai la 44. B. R. Cataldi, Acqua di sole, Milano, Harper Collins, 2020, p. 9. 45. S. Auci, I Leoni di Sicilia: la saga dei Florio – I, Milano, Editrice Nord, 2019, p. 431. 46. E. Scola, La Famiglia, Roma, Cinecittà – MassFilm, 1987, min. 00:00:26-00:06:20. 47. S. Sollima, Il clan dei Savastano, in Gomorra – La serie, stag. 1, ep. 1., 2014, min. 00:11:15-00:11:19. 279 ALESSIO BALDINI 280 Ottanta e oltre, se si pensa che I Malavoglia si chiudono verso la fine degli anni Settanta e Verga aveva progettato di scrivere altri tre romanzi. L’ambizione di raccontare la storia italiana attraverso i decenni è evidente anche nei Sanssôssí (1929-25; 1963) di Augusto Monti e nel Mulino del Po (1938-40; 1957) di Riccardo Bacchelli: entrambe le opere raccontano la storia d’Italia dalle guerre napoleoniche fino alla Grande Guerra e rispettivamente dal 1796 al 1918 la prima e dal 1812 al 1915 la seconda. A partire dall’ultimo quarto del Novecento l’interesse di chi scrive libri e di chi dirige film si sposta più avanti sul Novecento o sul periodo successivo alla Seconda Guerra Mondiale, ma resta l’intento di raccontare le trasformazioni di un’epoca attraverso una storia familiare. È il caso della Storia dei Rupe (1932-73) di Leonida Répaci, che inizia nel 1900 e si chiude nel 1968, o dello Scialo (1960) di Vasco Pratolini che racconta il periodo fra le due Guerre Mondiali. Emblematico è il titolo Novecento, il film in due episodi di Bernardo Bertolucci la cui storia inizia all’inizio del secolo (1901) e si conclude con la fine della Guerra (1945). E nel ventunesimo secolo è la trasformazione avvenuta con il miracolo economico a marcare spesso l’inizio della storia familiare, come accade nel ciclo dell’Amica geniale – che parte dal 1958 per arrivare al 2010 –, nella Meglio Gioventù (2003) di Marco Tullio Giordana – che ripercorre la storia italiana dal 1966 al 2003 – e in Di padre in figlia (2017) di Riccardo Milani (ma da un’idea di Cristina Comencini) – la cui vicenda si snoda dal 1958 al 1981. Si noti qui la differenza rispetto al genere del romanzo e del film storici, che si concentrano su un numero ristretto di anni e portano in primo piano gli eventi della storia pubblica. Così accade nei Promessi sposi, che si concentrano su due anni (1628-30) e dove il racconto della peste è centrale. Oppure si pensi ai Vecchi e i giovani (1913) di Luigi Pirandello, la cui storia è racchiusa nei due anni segnati dal movimento dei Fasci Siciliani (1892-94); e questo è anche il caso del recente Vincere (2009) di Marco Bellocchio e di M: il figlio del secolo (2018) di Antonio Scurati, che si concentrano entrambi sull’ascesa al potere di Benito Mussolini. A distinguere il romanzo e il film storici dalle saghe familiari non è la presenza o l’assenza di una sola proprietà. Come dicevo nel paragrafo precedente, un genere è definito da un grappolo di proprietà Quest o E-bo ok ap partie ne a i l o ue st o 281 Q che tendono a presentarsi insieme e quello che conta è la co-presenza di più di una proprietà nella stessa opera. Le opere che appartengono alla saga familiare sono caratterizzate anche dal fatto che le loro storie (iii) gravitano intorno alla casa di famiglia o comunque a una località precisa – un quartiere, un paesino, una città o una regione. E questi luoghi perimetrano lo spazio raccontato e lo marcano con una soglia che separa l’identità di un “noi” da quella di un “loro”. Si instaura così una rete di relazioni complesse fra le proprietà co-presenti nell’opera che riguardano i personaggi, il tempo e lo spazio. Un tipo di relazione è per così dire orizzontale: il passaggio da un “al di qua” a un “al di là” del confine spaziale innesca dinamiche di appartenenza ed esclusione nei personaggi. C’è poi anche una relazione verticale per cui lo spazio abitato e attraversato per decenni da generazioni diverse compare come un «luogo praticato (practiced place, lieu pratiqué)»48, cioè rivela le tracce di usi e di modi di vivere passati mentre continua a essere rivisitato, riusato e rivissuto da altri personaggi. I materiali preparatori ai Rougon-Macquart sono pieni di fotografie di posti e di schizzi di stanze, case, strade e spazi pubblici49. Il primo disegno che Zola fa per il suo ciclo romanzesco è quello di uno spazio pubblico abbandonato alle porte di Plassans, l’immaginaria Aix-en-Provence dove tutto inizia. E le prime pagine della Fortune des Rougon sono un’estesa descrizione di questo luogo. Quello che i lettori immaginano non è tanto lo sfondo di una storia, ma una visione dello spazio che li fa sprofondare indietro nel tempo attraverso generazioni di abitanti e di viaggiatori che hanno usato quel luogo via via nei modi più disparati, trasformandolo da cimitero a frutteto, campo per le carovane di zigani, deposito, area di gioco usata dai bambini50. In modo speculare I Malavoglia si chiudono con la lunga descrizione del risveglio del paese di Aci Trezza, che il nipote Ebo FINZIONI CHE LEGANO 48. M. De Certeau, The Politics of Everyday Life, Berkeley (CA), University of California Press, 1984, pp. 117-118. 49. É. Zola, L’Invention des lieux, in O. Lumbroso, H. Mitterand (a cura di), Les Manuscrits et les dessins de Zola, Paris, Textuel, 2002, vol. III. 50. É. Zola, La Fortune des Rougon, in H. Mitterand (a cura di), Les Rougon-Macquart. Histoire naturelle et sociale d’une famille sous le Second Empire, Paris, Gallimard, 1960, vol. I, pp. 8-9. 282 ALESSIO BALDINI Ques t E-b ook ’Ntoni guarda per l’ultima volta prima di andarsene e lasciare ancheo «la casa del nespolo» da cui sarà escluso per sempre51. L’ingresso nel mondo dei Viceré (1894) di Federico De Roberto coincide con l’arrivo al palazzo catanese dei Francalanza di una carrozza di famiglia che porta la notizia della morte della matriarca Teresa causando scompiglio in casa e dando l’avvio a tutta la vicenda52. O ancora si può pensare all’inizio del Gattopardo (1958) di Tomasi di Lampedusa e a quello di Visconti, che rivelano subito a chi legge o guarda e ascolta le stanze e il giardino carichi di storia della villa dei Salina fuori Palermo. E Canale Mussolini (2010-15) di Antonio Pennacchi reca già nel titolo il toponimo che segna la storia di una famiglia migrata dal Veneto nel Lazio durante il Fascismo; e i due volumi dell’opera portano stampati nel risguardo i disegni datati della trasformazione delle Paludi Pontine (1926) nell’Agro Pontino (1939) con la bonifica e quelli della città di Littoria (1941). I titoli di apertura di Romanzo famigliare (2018) di Francesca Archibugi sono sovraimpressi su una serie di inquadrature che percorrono il porto di Livorno e salgono in collina fino alla villa della famiglia Liegi, i cui cancelli si chiudono di fronte alla telecamera53. Il caso più estremo di confinamento dello spazio sullo schermo è quello della Famiglia, che Scola gira interamente in uno studio dove ricostruisce l’interno dell’appartamento della famiglia situato nel quartiere Prati di Roma. Colpiscono poi le prime due stagioni dell’Amica geniale (2018-20) di Saverio Costanzo, che rendono in modo vivido l’esperienza dei cambiamenti che stanno avvenendo nel dopoguerra all’interno del rione napoletano dove vivono le famiglie delle protagoniste. Quando si verifica un’accelerazione dei cambiamenti sociali e culturali non è più possibile il lento e graduale adattamento delle concezioni e dei modi di sentire e di fare esperienza; è allora che una nuova generazione emerge costituendosi come «un nuovo centro di configurazione 51. G. Verga, I Malavoglia, cit., pp. 371-373. 52. F. De Roberto, I Viceré, in Idem, Romanzi, novelle e saggi, C.A. Madrignani (a cura di), Milano, Mondadori, 1984, pp. 413-426. 53. F. Archibugi, Romanzo famigliare, Roma, Wildside – Rai Fiction, 2018, ep. 1, min. 00:02:48-00:03:51. FINZIONI CHE LEGANO 283 (a new centre of configuration)»54. Le saghe familiare cercano di rendere l’alternarsi degli orizzonti di senso delle generazioni facendo assumere al racconto (iv) i punti di vista dei personaggi che occupano a turno il centro della scena: quello dei genitori, quello delle figlie e dei figli e così via. In una saga familiare l’artista presenta ciò che succede non dall’esterno, ovvero dal suo punto di vista, ma dall’interno, ovvero dal punto riamuoio89 a ila partiene apl’intenzione book di vista deiQu personaggi. Questa era già di Zola che si proesto Eponeva di evitare di fare come Balzac e ancorare il racconto ai principi della propria concezione morale e politica55 e voleva invece rendere «il mischiarsi di tutte le ambizioni (la bousculade de toutes les ambitions)», «l’avvento di tutte le classi (l’avènement de toutes les classe)» e la «familiarità fra genitori e figli, la mescolanza e la frequentazione di tutti gli individui (familiarité des pères et des fils, le mélange et le côtoiement de tous les individus)» che vedeva come caratteristiche della modernità56. È soprattutto grazie al grande successo ottenuto con l’Assommoir che Zola svolge un ruolo fondamentale nel diffondersi di questa concezione del modo di raccontare e della tecnica dello stile indiretto libero, con cui si può raccontare una storia dal punto di vista di qualcun altro57. Questo modo di raccontare immersivo e pluralistico lo si ritrova nei Malavoglia di Verga, che iniziano assumendo il punto di vista del nonno padron ‘Ntoni e della comunità di pescatori per poi alternarlo con quello individuale dei nipoti Mena e ’Ntoni58. E attraverso questi e altri modelli il modo di raccontare dall’interno si ritrova usato sistematicamente nei Viceré di De Roberto, in Canne al vento (1912) di Grazia Deledda, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa; e a conferma di quanto abbia inciso questa tecnica c’è l’esempio di romanzi come Il mulino del Po di Bacchelli, dove il punto di vista autoriale esterno, che è pur pre54. K. Mannheim, The Problem of Generations (1923), in Idem, Essays on the Sociology of Knowledge, London, Routledge & Kegan, London 1952, p. 309. 55. É. Zola, Différences entre Balzac et moi, cit. 56. É. Zola, Notes sur ma marche générale de l’œuvre, cit. 57. P. Pellini, In una casa di vetro. Generi e temi del naturalismo europeo, Firenze, Le Monnier, 2004. 58. A. Baldini, Dipingere coi colori adatti: I Malavoglia come romanzo moderno, Macerata, Quodlibet, 2012. gm 284 ALESSIO BALDINI k ap p a rtien e a ila ues to E -boo Q sente, si alterna comunque con quello interno. Ed è possibile adottare il punto di vista dei personaggi anche nel medium audiovisivo attraverso la tecnica della «soggettiva indiretta libera»59, che è l’equivalente cinematografico dello stile indiretto libero in letteratura. È quello che succede ad esempio nel finale della prima stagione dell’Amica geniale di Costanzo. L’ottavo e ultimo episodio si chiude con la lunga sequenza del matrimonio fra Lila e Stefano Carracci. Quando Lila vede entrare Marcello Solara – un potente e pericoloso criminale che la desidera – nel ristorante dove si tiene il ricevimento, si rende conto con orrore che l’uomo che ha appena sposato le ha mentito – Lila aveva infatti fatto promettere a Stefano di interrompere ogni rapporto personale e commerciale con Marcello. L’inquadratura passa da Marcello che Lila ha appena visto a un primo piano del viso di lei, la cui espressione svela un misto di sgomento e rabbia perché sa che il legame col marito non ha futuro. È in questo momento che il volume dell’allegra musica d’orchestra sulle cui note gli invitati continuano a ballare si abbassa fino a scomparire e si inizia a sentire sempre più distinta una melodia triste, continua e insistente che non proviene da nessuna fonte sonora in scena; quello che si sente è un brano non-diegetico tratto dalla colonna sonora di Max Richter che il regista usa come equivalente dello stato mentale di Lila. E la dissolvenza dal viso di Lila al nero prima della comparsa dei titoli di coda è come una finestra aperta sulla sua disperazione60. Come spero di avere mostrato con la discussione di questi esempi, queste proprietà narrative basilari rendono la saga familiare un genere che si presta alla scrittura di romanzi di buona o alta qualità letteraria che possono trovare il favore del grande pubblico. La presenza di un numero considerevole di personaggi, l’ambizione inscritta nell’ampio arco temporale coperto, l’attenzione riservata allo spazio e l’uso dello stile indiretto libero per rendere punti di vista diversi sono tutti elementi a cui si associa un alto valore letterario. Allo stesso tempo queste storie familiari che si articolano su più anni segnati da eventi 9 am u o io8 ri 59. P. P. Pasolini, Cinema di poesia (1965), in Idem, Empirismo eretico, Milano, Garzanti, 1977, p. 187. 60. S. Costanzo, L’amica geniale, st. 1, ep. 8, 2018, min. 00:56:00-00:57:11. FINZIONI CHE LEGANO 61. D. Holmes, Middlebrow Matters: Women’s reading and the literary canon in France since the Belle Époque, Liverpool, Liverpool University Press, 2018. 62. J. Gibson, Fiction and the Weave of Life, Oxford, Oxford University Press, 2007, p. 161. 63. L. Hunt, The Family Romance of the French Revolution, Berkley (CA), University of California Press, 1992; A.M. Banti, La nazione del Risorgimento: parentela, santità e onore alle origini dell’Italia unita, Torino, Einaudi, 2000. app Fra Settecento e Ottocento la famiglia serve come metafora per immaginare la nazione e motivare le persone a combattere per la patria63. Questa metafora circola in una varietà di generi di scritture, dal pamphlet politico alla poesia, al teatro tragico e all’opera. Nel Marzo 1821 (1848) Manzoni apostrofa direttamente la «Cara Italia» come se fosse una donna dal cui «seno» sono «sbocciati» i «figli» pronti a prendere le armi per lei. Se l’Italia è madre, i patrioti sono suoi «figli» e fra loro «fratelli», come scrive Alessandro Poerio in Il risorgimento (1943). Così nel libretto composto da Temistocle Solera per l’Attila (1846) di Giuseppe E-book Conclusione: dalla poesia del Risorgimento alla prosa della vita nazionale Questo significativi e carichi di emozioni – le nascite, i matrimoni, le morti – sono fatte per coinvolgere i lettori e alimentarne il desiderio di continuare a leggere per sapere cosa succederà nella storia. Questa fusione fra una cura stilistica che aumenta il valore letterario del testo, la serietà dei temi affrontati e la godibilità di una storia che appassiona sono i tratti tipici della letteratura middlebrow61, di cui la saga familiare è uno dei generi più importanti. E sono poi queste stesse proprietà a fare della saga familiare un genere interartistico e intermediale che ha un’ottima resa sullo schermo e risulta particolarmente adatto al formato seriale della televisione – e cinema e televisione sono media ancora più adatti alla produzione e al consumo di opere d’arte middlebrow. Nel paragrafo precedente ho ricordato come la teoria delle arti mimetiche come dei giochi del far finta spieghi la finzione in termini sociali; ed è questo il punto più importante62. Ma quale è la funzione sociale della saga familiare come genere? La conclusione del mio saggio sarà dedicata al tentativo di rispondere a questa ultima domanda. 285 ALESSIO BALDINI 286 Verdi la patria è «madre» «di possenti e magnanimi figli». L’immagine della patria come madre circola anche nelle arti visive. Nella Meditazione (1851) di Francesco Hayez – il cui primo titolo era L’Italia nel 1848 – l’Italia compare come una giovane donna triste col seno scoperto, una croce su cui sono incise le date delle Cinque Giornate di Milano e un libro scuro dal titolo Storia d’Italia scritto in inchiostro rosso64. Se la metafora della nazione come famiglia è centrale nella letteratura e nella cultura del Risorgimento, non esiste però un genere artistico identificabile che la faccia propria e permetta a lettrici e lettori Questo di seguire una storia attraverso cui immaginare la vita nazionale. Ed è proprio questa invece la prima funzione della saga familiare nell’Italia postunitaria. La saga familiare segna il passaggio «dalla poesia» del Risorgimento alla «prosa» della vita nazionale sia in senso letterale, perché la metafora della nazione come famiglia diventa la base di un genere narrativo, sia nel senso metaforico dato da Benedetto Croce a questa espressione, con cui intendeva spiegare la forte delusione che prese le classi dirigenti e le classi medie italiane nei decenni successivi all’Unità65. Con I Malavoglia di Verga si inaugura infatti la tradizione della saga familiare che lamenta la fine del Risorgimento e osserva con preoccupazione l’emergere della “questione meridionale”. E uno dei temi costanti della saga familiare italiana resta tuttora la divisione fra Nord e Sud e le sue conseguenze. Il lungo periodo fascista segna profondamente l’identità nazionale italiana, così come la Liberazione e la nascita della Repubblica. E la letteratura e poi il cinema cercano di rendere conto di queste esperienze, da Tutti i nostri ieri (1952) di Ginzburg passando per La storia dei Rupe di Répaci e Novecento di Bertolucci, fino a Canale Mussolini di Pennacchi. Alle trasformazioni dell’Italia del Novecento tornano a guardare artisti che hanno di fronte nuovi inizi. L’amica geniale di Ferrante esprime il tentativo di reimmaginare la storia e l’identità nazionali italiane dal punto di vista delle donne alla fine di un’epoca offuscata dalla misoginia 64. 65. Gli esempi sono tutti tratti da A.M. Banti, op. cit., pp. 67-68. B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915 (1928), Milano, Adelphi, 1991, p. 12. E FINZIONI CHE LEGANO che caratterizzava la cultura e il potere berlusconiani. E in risposta alle nuove migrazioni e ai cambiamenti demografici degli ultimi decenni è emersa una prospettiva post-coloniale, che fa riemergere l’esperienza coloniale che la nazione italiana ha rimosso. Su questo punto è esplicita la Nota storica ad Adua (2015) di Igiaba Scego, che dichiara di avere voluto intrecciare nella sua saga familiare «il colonialismo italiano, la Somalia degli anni Settanta, e la nostra attualità che vede il Mediterraneo trasformato in una tomba a cielo aperto per i migranti»66. La saga familiare non funziona solo come metafora della nazione – dove la storia di una singola famiglia serve a immaginare la storia pubblica di un paese –, ma anche come metonimia della società: ogni saga familiare rappresenta la parte per il tutto e il racconto della storia di una famiglia serve così a raccontare quella della società di cui fa parte. La saga familiare è il genere artistico più adatto per rendere conto di come si producono le trasformazioni sociali di un paese: la famiglia è infatti una «società naturale» – come ricorda l’articolo 29 della Costituzione della Repubblica Italiana (1948) –, ovvero è la cellula di base dell’organismo sociale. Ed è proprio all’interno della famiglia che si producono e riproducono le identità sociali, da quelle generazionali a quelle etniche, di classe e di genere (gender), che poi i membri della società portano con sé nella sfera pubblica67. E uno dei cambiamenti più importanti che hanno attraversato la famiglia e la società italiane nell’ultimo secolo e mezzo è il tramonto della famiglia patriarcale come orizzonte di senso e riferimento normativo dei modelli di famiglia. Le saghe familiari sono state spesso interpretate come storie di declino e della fine della famiglia e del mondo; ma questa interpretazione va qualificata, perché il tramonto che le saghe familiari raccontano non è quello della famiglia o del mondo sans phrases, ma è quello della famiglia patriarcale e della società che le corrispondeva. Come hanno sostenuto gli storici della famiglia e quelli del diritto, questo cambiamento è segnato in Italia dall’approvazione della Costituzione della Repubblica 66. 67. I. Scego, Nota storica, in Eadem, Adua, Firenze, Giunti, 2015, p. 175. C. Saraceno, L’equivoco della famiglia, Laterza, Roma, 2017. 287 Qu es to ALESSIO BALDINI 288 9 uoio8 lariam ne a i partie ok ap o E-bo Quest Italiana e della riforma della legge sulla famiglia (1975)68. La letteratura, il cinema e la televisione dall’Arte della gioia (1976) di Goliarda Sapienza all’Amica geniale di Costanzo – per citare solo due opere – hanno accompagnato questo cambiamento, raccontando la fine della famiglia patriarcale come orizzonte di senso e incoraggiando i consumatori di queste opere d’arte a immaginare nuovi inizi. Dopo più di un secolo e mezzo di storia, la saga familiare continua ad affrontare seriamente temi importanti usando tecniche artistiche sofisticate e intrattenendo il grande pubblico che si vuole immergere in storie coinvolgenti. La saga familiare è ancora capace di legare a sé il pubblico e di legare fra loro chi produce e consuma queste opere d’arte in comunità effimere che si formano attorno a romanzi, film e serie televisive di successo per poi dissolversi quando queste opere d’arte diventano solo un oggetto di studio accademico. Ma è anche in questo modo episodico che vive la nazione come «comunità immaginata»69. 68. M. Barbagli, Sotto lo stesso tetto: mutamenti della famiglia in Italia dal XV al XX secolo, Bologna, il Mulino; P. Ungari, Storia del diritto di famiglia in Italia (1796-1975), Bologna, il Mulino, 2002; P. Passaniti, Diritto di famiglia e ordine sociale: il percorso storico della società coniugale in Italia, Milano, Giuffrè, 2011. 69. B. Anderson, Imagined Communities: Reflections on the Origin and Spread of Nationalism, London, Verso, 2006. gma 90 28 2 1 20 om c . l ai FINZIONI CHE LEGANO Bibliografia gm 9 io8 o mu a i r ila Abell C., (2012), Comics and Genre, in A. Meskin, R.T. 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Genealogia di un romanzo genealogico Giorgio van Straten Molto di ciò che gli scrittori fanno non è determinato razionalmente a priori, non è frutto cioè di una scelta che preesiste all’atto dello scrivere, e questa è una fortuna, perché un eccesso di consapevolezza va spesso a detrimento della qualità narrativa. Ma ciò significa anche che un testo può contenere elementi ignoti all’autore che possono essere dedotti legittimamente a posteriori da chiunque lo legga, sia da chi lo ha scritto come da un qualsiasi altro lettore. Vi spiego meglio con un esempio cosa intendo. Ricordo molto bene quando, in un’intervista, Romano Bilenchi, che è stato lo scrittore che per primo ha fatto pubblicare un mio testo, rispondendo alla domanda se La siccità1, un racconto lungo che credo sia il suo capolavoro, potesse essere letto come una metafora del fascismo, rispose: quando l’ho scritto non ci ho pensato, ma ora che lei me lo dice penso che in effetti sia un’interpretazione legittima. Questo E-book a In che modo questo discorso riguarda Il mio nome a memoria2? Quando l’ho scritto, l’ho fatto soprattutto pensando a mio padre che era morto senza lasciare delle tracce marcate di sé, molto probabilmente per sua volontà o natura, e ho creduto che quel viaggio a ritroso nelle mie origini fosse un modo per ritrovarlo. 1. 2. R. Bilenchi, La siccità, Firenze, Edizioni di Rivoluzione, 1941. G. van Straten, Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori, 2000. ppa 228 09122 3-0 GIORGIO VAN STRATEN 294 Qu est oE -bo ok app arti ene a il aria mu oi o89 gm ail. com 201 È curioso come vari scrittori della mia generazione (Sandro Veronesi con Profezia3, Valerio Magrelli con Geologia di un padre4, Edoardo Albinati con Vita e morte di un ingegnere)5 abbiano scritto dei propri padri nonostante che si trattasse sempre, come nel caso del mio, di genitori schivi, che dell’understatement avevano fatto una ragione di vita. Mostrando in questo modo un grandissimo affetto nei loro confronti e contravvenendo regolarmente alle loro volontà esplicite o implicite di riservatezza. Del resto per anni avevamo pensato, intendo gli appartenenti alla mia generazione quella nata nella seconda metà degli anni Cinquanta, che fra noi e chi ci aveva generato ci fosse una soluzione di continuità, una rottura che avrebbe portato il mondo a essere diverso e quindi non ci eravamo preoccupati di raccogliere notizie su di loro, di conoscerli non come padri ma come persone. Poi la politica ci aveva tradito (o forse noi avevamo tradito lei), le possibilità rivoluzionarie si erano dissolte, eppure le domande ai nostri padri, finché erano stati in vita, non le avevamo fatte lo stesso. Poco dopo la morte del mio, alla fine degli anni Ottanta, un lontano parente mi scrisse dall’Inghilterra per dirmi che del ramo della mia famiglia che discendeva da Emanuel van Straaten (con due a), figlio di Hartog, l’uomo che a Rotterdam all’inizio dell’Ottocento aveva scelto quel cognome, io ero l’ultimo che lo portasse ancora. Mi sembrò una storia davvero strana che un cognome si potesse scegliere: qui in Italia i cognomi si sono stratificati nel tempo, frutto del mestiere che si faceva, delle caratteristiche fisiche, dei luoghi di provenienza, del nome del proprio genitore e così via. Là in Olanda, invece, gli ebrei ancora all’inizio dell’Ottocento i cognomi non ce li avevano. I Francesi, arrivando a seguito delle conquiste napoleoniche, avevano concesso loro l’emancipazione, ma avevano anche imposto l’obbligatorietà di averne uno. Del resto quando un mondo ristretto si allarga, 3. 4. 5. S. Veronesi, Profezia, Milano, RCS Quotidiani, 2011. V. Magrelli, Geologia di un padre, Torino, Einaudi, 2013. E. Albinati, Vita e morte di un ingegnere, Milano, Mondadori, 2012. GENEALOGIA DI UN ROMANZO GENEALOGICO essere Emanuel figlio di Hartog non è più sufficiente a identificarti, il cognome serve. Perché quell’Hartog scelse van Straaten non lo so, probabilmente si trattava dell’indicazione di una provenienza, del paese di origine, ma il risultato è che lui ha scelto anche per me all’incirca 150 anni prima della mia nascita. Pensai allora che raccontare quella storia, arrivare fino a mio padre, ricostruire quello che si poteva ricostruire mi avrebbe aiutato a ritrovare quel genitore riservato e poco conosciuto. E così, armato di quel cognome e di un orologio donatomi da mio nonno, di poco più recente della scelta di Hartog (sulla cassa è incisa una data di un secolo esatto precedente la mia nascita), iniziai un viaggio e scrissi un romanzo (famigliare, anzi per individuare una sottocategoria più volte citata in questo volume, genealogico). Fu solo dopo che il libro era stato pubblicato che un critico della mia stessa età, acuto e intelligente, rovinato poi da mal riposte ambizioni televisive, mi disse: «Ma tu lo sai che quello che hai scritto è un romanzo sulla ricerca dell’identità?» e, anche se fino a quel momento non lo sapevo, pensai che avesse ragione. Ecco di cosa vorrei occuparmi in questo intervento: del romanzo famigliare, e di quello genealogico in particolare, come uno strumento della ricerca e della ricostruzione di un’identità. Per tutti gli anni Settanta ero stato convinto che l’identità di una persona fosse parte di un’identità collettiva, che la mia felicità individuale dipendesse da qualcosa da costruire insieme a un gruppo grande e potente proprio perché grande. Poi alla fine di quel decennio, nella sostanza dopo il rapimento e l’uccisione di Aldo Moro, tutti quanti facemmo retromarcia e ci dedicammo ad attività individuali, strumento, ci pareva, della nostra realizzazione come persone; per esempio a scrivere libri. E l’appartenenza collettiva ci sembrò non potesse più far parte dei nostri orizzonti che potevano al massimo prevedere l’aggregazione intorno a piccoli gruppi omogenei e amicali, gruppi che negli anni si fecero sempre più piccoli. Ma è possibile appartenere solo a sé stessi? È possibile un’identità che non nasca anche dalle relazioni con gli altri, con una comunità di 295 Qu GIORGIO VAN STRATEN 296 persone? Quel nome che mi portavo dietro come ultimo discendente di Emanuel, figlio di Hartog, poteva essere un tramite per aiutarmi anche a definire me stesso? Io avevo perso un genitore, il partito a cui ero stato iscritto per un ventennio aveva perso il proprio nome, forse ricostruire il percorso che aveva fatto il cognome van Straten (alla fine con una sola a perché mio nonno arrivando in Italia aveva provveduto a semplificare) poteva dirmi anche qualcosa di me. Io credo che un romanzo famigliare/genalogico sia molto spesso questo: la ricostruzione di un’appartenenza. E non al fine di nobilitare le proprie origini (come nel caso dell’Eneide per Ottaviano Augusto o dell’Orlando furioso per gli Estensi), perché anzi molto spesso chi arriva per ultimo non è che una pallida immagine di coloro che l’hanno preceduto, quanto per definire una identità. Quello che può rendere la mia esperienza di autore collegabile a una vicenda più larga del mondo letterario italiano dagli anni Ottanta alla fine del secolo, una vicenda quindi generazionale, è il fatto che, in un quadro di perdita del senso di appartenenza politica, alcuni autori abbiano cercato quella identità nelle loro radici, anche se in molti casi attraverso una distanza che si chiudeva in un arco di anni non abbastanza largo da costituire la base di un romanzo famigliare. Nel mio caso, pur da battezzato cattolico come mia madre, l’appartenenza era, o almeno poteva essere, un’appartenenza ebraica: dato che quella ebraica è una tradizione patrilineare (anche se si è ebrei solo per discendenza materna: mater semper certa…), e quel nome che mi portavo dietro si collegava a generazioni di persone, alle loro vite, alle loro storie, alle loro morti. Mi definiva, in qualche modo. E, oltretutto, mi poteva definire anche come scrittore, in considerazione dell’importanza che la parola scritta ha nella trasmissione della cultura e dell’identità di quella tradizione ebraica. Se fossi stato un pittore il processo sarebbe stato assai più complicato (come dimostra quel capolavoro che è Il mio nome è Asher Lev6 di Chaim Potok, dove es to E- bo ok ap pa rtie ne ai lar iam uo io8 9g ma il.c C. Potok, Il mio nome è Asher Lev, Milano, Garzanti, 1991. Qu om 6. 20 12 28 GENEALOGIA DI UN ROMANZO GENEALOGICO 297 la natura di artista del protagonista diventa il motivo della fuoriuscita dal gruppo di appartenenza, proprio per la mancanza di una tradizione iconografica nel mondo ebraico e anzi per la prevenzione di quel mondo nei confronti di un’attività artistica che si esprima attraverso le immagini). Qu Nel mondo anglosassone esiste una differenza netta fra memoir e novel, da noi memoir non ha nemmeno una traduzione e non viene considerato un genere (le memorie sono un’altra cosa). In questo caso credo che abbiamo ragione noi, perché il memoir (come l’autofiction) è un genere di romanzo, non una cosa diversa dal romanzo. La differenza costituita dal partire dalla realtà o da personaggi inventati, è più fittizia che effettiva perché in entrambi i casi si finirà per ricostruire e trasformare dati provenienti dall’esperienza e dalla conoscenza dell’autore. Nel caso del memoir modificando con l’invenzione, inevitabilmente e magari involontariamente, la realtà dalla quale si parte, nel caso del romanzo aggiungendo realtà all’invenzione del mondo romanzesco. Il mio, in ogni caso, è un romanzo con i nomi veri, molti oggetti esistenti o esistiti (orologi, fotografie, mobili), le storie ricostruite ma talvolta inventate, e i pensieri, ovviamente, immaginati. Dunque non credo che partire dalla realtà o dalla fantasia porti a produrre qualcosa di profondamente diverso, al contrario ritengo che nel romanzo famigliare, che si tratti di una famiglia esistita o inventata, si finirà sempre per ragionare di appartenenza e identità, sia che si parli di quella dell’autore o di quella dei personaggi (in cui tendenzialmente l’autore si identifica). to es ok bo E- ne rtie pa ap ai il. ma 9g io8 uo iam lar Un altro elemento costitutivo del romanzo genealogico, a mio modo di vedere, a differenza del romanzo familiare più generalmente inteso, è quello di assumere anche i connotati, se non di un vero e proprio romanzo storico, di un romanzo in cui le vicende famigliari interagiscono con le vicende storiche, e sono spesso fortemente influenzate da quelle vicende. Forse la mia formazione (ho studiato storia all’Università) mi fa velo nel fare questa affermazione, ma certo per me è sempre stata centrale GIORGIO VAN STRATEN 298 l’idea che la letteratura sia un modo di riesumare i morti, di riportarli in vita, e spesso anche un modo di raccontare le vicende umane e di interpretarle (non solo di essere una fonte per la ricerca storica quindi, ma una parte di quella ricerca). Certo è che la relazione fra Storia e storie è senza dubbio vera nel caso del mio romanzo, dove l’età napoleonica, le migrazioni, l’era staliniana, la Seconda guerra mondiale, la Shoà incidono profondamente nelle vite dei miei personaggi, senza con ciò annullare l’effetto delle interazioni interne al nucleo famigliare. Questa relazione fra Storia e storie ha per certi versi accentuato il mio senso di appartenenza a una vicenda famigliare. È senz’altro difficile stabilire un legame fra il desiderio di un trenino elettrico e la persecuzione nazista, ma posso garantirvi che c’è se il trenino è di fabbricazione tedesca e nella tua famiglia non si comprano prodotti di quel paese per rispetto e ricordo dei propri parenti uccisi: quel tuo piccolo sacrificio, quella tua rinuncia sono parte di una sorta di cerimonia di iniziazione che cementerà il tuo senso di inclusione nella comunità. E quando, percependo quest’appartenenza, ne scriverai, allora crescerà la responsabilità di rappresentare la memoria di quella discendenza, anche se in modo del tutto immeritevole. Forse qua passa probabilmente l’unica differenza sostanziale fra partire dalla realtà o dalla finzione: un differente livello di responsabilità morale nei confronti dei propri personaggi, quello che ancora oggi sento fortissimo nei confronti di ogni individuo che ho incluso nel mio romanzo. o to Q ue s Ebo GENEALOGIA DI UN ROMANZO GENEALOGICO 299 Bibliografia Albinati E., (2012), Vita e morte di un ingegnere, Milano, Mondadori. -boo Potok C., (1991), Il mio nome è Asher Lev, Milano, Garzanti. k ap parti van Straten G., (2000), Il mio nome a memoria, Milano, Mondadori. ene a ila Veronesi S., (2011), Profezia, Milano, RCS Quotidiani. sto E Magrelli V., (2013), Geologia di un padre, Torino, Einaudi. Que Bilenchi R., (1941), La siccità, Firenze, Edizioni di Rivoluzione. riam uoio 89 g mail .com 2012 il. com 89 am io uo ea pa n rtie p ka i ilar Finito di stam pare nel m ese di dicem bre 2020 da Im pressum Srl - Marina di Carrara (MS) per conto di Pisa University Press oo e Qu st -b oE a gm 20 Questo E-book a ppartiene a ilaria muoio89 gm