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Emanuele Zinato Dipartimento di Italianistica Università di Padova Fra narrativa e saggismo: un patto tra le generazioni I. I fenomeni di ibridazione e di contaminazione tra generi sono argomenti a cui molti studiosi hanno fatto riferimento per definire i tratti specifici della letteratura postmoderna, sia segnalando il ricorso al cosiddetto double coding sia insistendo su relazioni che Genette direbbe palinsestuali (le retoriche della citazione, dell’allusione, del pastiche e della parodia)1. Non si può negare, tuttavia, che la contaminazione tra romanzo, autobiografia e saggio sia stata una delle strategie discorsive più rilevanti del Modernismo. Il Novecento intero è stato descritto infatti come “secolo della saggistica” e al contempo come il secolo che accentua una tendenza al “rimescolamento, la fusione, la riformulazione dei generi letterari” (Berardinelli, 2002, 90). In Thomas Mann, in Robert Musil e in Alfred Döblin, vale a dire i maggiori narratori-saggisti primonovecenteschi europei, il discorso filosofico s’incorpora nella struttura stessa della finzione letteraria. Qualcosa di simile accade nel Pirandello romanziere: la somma delle considerazioni argomentative finisce per sortire nel lettore lo stesso effetto risultante dai sovrabbondanti dettagli nei testi di Proust, di Joyce o di Faulkner, con la sensazione che non vi sia affatto plot, che nella narrazione accada ben poco. Analogamente, nel Novecento italiano, nella generazione nata negli anni Venti (che qui chiamerò “generazione dei Padri”, con forte riferimento alla questione dell’eredità culturale) sono universalmente considerati narratori-saggisti Leonardo Sciascia e Italo Calvino per i loro romanzi brevi, ibridi di narratività e di riflessione-argomentazione, come ad esempio La giornata d’uno scrutatore (1963) o Il cavaliere e la morte (1988). Il Calvino anteriore alla svolta combinatoria, autore de La speculazione edilizia, de La nuvola di smog e, appunto, de La giornata d’uno scrutatore, è incline al realismo speculativo e ai riferimenti immediati alla mutazione del miracolo economico italiano. Si tratta di un saggismo mascherato, in cui il ragionamento rallenta il plot e contrae le coordinate spazio-temporali. Calvino stesso, in una lettera a Mario Boselli (in “Nuova corrente”, IX, 32-33, 1964, pp. 102-106), scrisse che dentro La nuvola di smog 1 Cfr. AA.VV., Generi letterari. Ibridismo e contaminazione, a cura di A. Sportelli, Roma-Bari: Laterza, 2001 e M.-H. Boblet, Le roman dialogué après 1950. Poétique de l’hybridité, Paris: Champion, 2003. 1 c’è nascosto un saggio, ma tutto cancellato, e ne restano solo rimasugli smozzicati, e anche i dialoghi contenutistici – che potevano magari essere dei dialoghi filosofici – sono stati cancellati e se ne legge soltanto qualche ombra di parola sotto i fregacci della gomma. La dimensione saggistica, autobiografica e congetturale è rimasta pressoché intatta ne La giornata d’uno scrutatore, il romanzo breve del 1963 che chiama in causa il fondamento stesso della democrazia (il suffragio universale) ‘scrutato’, cioè osservato e straniato, da una condizionelimite (il seggio elettorale situato nel Cottolengo, casa di cura torinese che ospita deformi e minorati). Veicoli stilistici del saggismo in questo testo sono il predominio della parentesi, come segno esibito di cautela, di complicazione o di difficoltà a interpretare una realtà complessa, e le frequenti digressioni, spesso dubitative. La nota in appendice del testo invita inoltre il lettore a considerare l’opera sia come una “finzione” che permette di meditare sulla condizione umana, che come una “testimonianza” autobiografica (l’autore fu davvero scrutatore in quel seggio torinese in due tornate elettorali, nel 1953 e nel 1961). Considerazioni del tutto analoghe si possono fare a proposito de Il cavaliere e la morte (1988), opera terminale di Sciascia: un romanzo breve che congiunge narrazione trasfigurante (lo schema del giallo), dati autobiografici (il cancro, l’esperienza del dolore fisico) e saggismo sia politico che esistenziale (l’apologo politico sulla violenza terroristica strumentalizzata dai media, l’itinerario della mente verso la morte, l’ars moriendi). Dal punto di vista dei generi letterari, l’Autore volle rubricare questo suo ultimo testo come “sotie”, come fecero Gide con i Sotterranei del Vaticano e Kundera con Lo scherzo: scherzo o satira allegorica, dunque, in forma di dialogo, che mette in scena e sottopone al vaglio critico un mondo stupido e folle. Qui è al centro, come ne La giornata di Calvino, un’acuminata e divagante meditazione sui limiti oscuri della biologia umana. La costante del breve romanzo è infatti la digressione: la vicenda criminale è ridotta al minimo e continuamente interrotta dalle meditazioni del protagonista, vero e proprio portavoce dell’autore. Il romanzo giallo diventa in tal modo l’involucro di un romanzo-saggio testamentario e terminale, il pretesto per formulare un congedo vigile e virile dal mondo. Il romanzo dell’intero Novecento, insomma, si è compromesso a fondo con il saggismo e con l’autobiografia, al punto che Proust potrebbe essere considerato più un erede di Montaigne che di Balzac2. Non a caso, Giacomo Debenedetti parlerà proprio di Proust come di uno scrittore “il quale, per osservare un personaggio, [...] se lo avvicina nella maniera più sicura: che era quella di portarselo a vivere dentro di sé: di iniettarselo, di inocularselo quasi dentro il sangue” (Debenedetti, 242). Per restare alla “generazione dei Padri”, lo scrittore italiano del secondo Novecento forse più 2 Cfr. A. Berardinelli, La forma del saggio e le sue dimensioni, in Il saggio. Forme e funzioni di un genere letterario, a c. di G. Cantarutti, L. Avellini e S. Albertazzi, Bologna: Il Mulino, 2007, p. 37. 2 consanguineo a queste inclusioni ed estroflessioni è Paolo Volponi. Gerolamo Aspri e Bruto Saraccini, protagonisti di Corporale (1974) e de Le mosche del capitale (1989), sono e non sono il proprio autore, rappresentano insieme qualcosa di vissuto e di inventato. Da Memoriale a Corporale, Volponi ha infatti sottoposto a una dura verifica finzionale il proprio lavoro industriale: come per Ettore Schmitz, manager della ditta Veneziani, anche per il narratore-dirigente olivettiano il rapporto fra scrittura e organizzazione produttiva sembra implicare ribellioni, scissioni e conflitti. Volponi, a differenza di Calvino, di Pasolini e di Sciascia, non ha la vocazione del grande saggista. La forma delle Mosche sembra tuttavia quella dello sdoppiamento fra piano della riflessione e piano della rappresentazione. I temi saggistici di cui il libro si sostanzia sono allo stesso tempo oggetto di mimesi letteraria e argomento di discussione saggistica fra i personaggi del romanzo: a esempio, attraverso il coro grottesco degli oggetti industriali e, soprattutto, attraverso i dialoghi tra i ficus e il terminale e tra la luna e il calcolatore, vere e proprie operette morali, autonomamente concepite e montate nel tessuto del romanzo. Infine, saggismo e autobiografia si incrociano nei testi di un altro grande scrittore, anch’egli nato negli anni Venti: Luigi Meneghello. Nei suoi due esplosivi ibridi d’inizio degli anni Sessanta, Libera nos a malo e Piccoli maestri, diario, autobiografia e finzione sono veicoli di un recupero linguistico, consapevole e distanziante, comico ma non parodico, delle radici italiane premoderne e per una narrazione non retorica della guerra civile in Italia: in entrambi i testi, infatti, un narratore osserva se stesso agire entro le vicende di un mondo ormai lontano e trae schegge ironiche e scintille argomentative e cognitive dalla dialettica tra culture opposte. II. Veniamo ora alla “generazione dei Figli” e alle nuove condizioni in cui si svolge il confronto fra scritture di finzione e saggismo nel periodo che va dagli anni Novanta a oggi. Innanzitutto occorre precisare che, a fine secolo, più delle pratiche stilistiche autoriali, è soprattutto il mercato a ridisegnare il sistema dei generi. Il best seller, ad esempio, diviene un transgenere che ingloba la categoria merceologica di novità e la affianca a quella del libro “già venduto” prima ancora di invadere il mercato editoriale. Al medesimo principio di packaging editoriale risponde la tendenza, dominante dagli anni Novanta nel linguaggio della produzione libraria, a ripartire tutte le opere in due super-generi: fiction e non-fiction. L’industria internazionale del libro smista i prodotti in questi due “grandi scatoloni” con un’operazione semplificante, e non innocente, che estirpa dal concetto di letteratura l’ibridazione tra immaginazione e reportage, la confusione tra invenzione e argomentazione, l’andirivieni tra visionarietà e autocoscienza, vale a dire gli elementi “saggistici” costitutivi sia del romanzo che della lirica moderna. La letteratura è inclusa in tal modo 3 nell’onnicomprensivo campo della fiction, così vasto da comprendere anche i maggiori processi economici in atto: con il termine fiction economy si intende infatti, il consumo di immagini e l’allargamento della legge del valore a tutti gli aspetti del simbolico e dell’immaginario3. La saggistica è inclusa viceversa nel settore della non-fiction. Gli ingredienti che la formula best seller garantisce all’utente fin dal paratesto sono la sicura, accattivante consumabilità delle storie raccontate, nella fiction; la capacità cordiale, morbida e seduttiva di passare tra le diverse discipline senza suscitare imbarazzo o senso di inferiorità, nella non-fiction4. Da qualche anno, tuttavia, secondo alcuni critici, in Italia, come in molti altri Paesi dell’Occidente, stiamo assistendo a uno spostamento rispetto al campo figurale del postmodernismo5. La costante che caratterizza questo recente fenomeno è la caduta dell’opposizione tra fiction e non-fiction: il romanzo costeggia il diario o il reportage, tra documentazione e denuncia, e la scrittura si presenta come testimonianza veridica, recuperando i modi dell’autobiografia. A testimoniare su larga scala la svolta in corso, come è noto, è stato soprattutto il best seller di Roberto Saviano Gomorra (2007), evento letterario clamoroso non solo per il successo di vendite ma anche perché ha suscitato alla sua uscita una vera e propria contesa categoriale: il libro si sbarazza della gabbia della fiction fondendo invenzione, testimonianza e inchiesta. Se è stato descritto con lucidità come il fenomeno sia sostanzialmente oppositivo, per non dire antagonistico, nei confronti dell’omologazione libraria imposta dal consumo delle immagini6, non è stato notato viceversa che questa nuova resistenza alla forcella finzione-non-finzione avviene soprattutto nel segno del dialogo con la generazione precedente, da cui si recupera l’autocoscienza “in situazione” e la centralità strategica della forma saggistica: non a caso, il Pasolini “corsaro” è per Saviano, un antecedente cui rifarsi. Ma forse, ancor più, Sciascia, con le sue forme miste di storia e d’invenzione, costituisce un modello per un testo come Gomorra, in cui l’immaginazione sembra aver sempre bisogno di un supporto “oggettivo” di tipo documentario che garantisca della sua attendibilità. In una pagina di Nero su nero (1979) Sciascia affermava infatti che la letteratura “è la più assoluta forma che la verità possa assumere”7. Il dialogo con i “Padri” (non un omaggio citazionistico e intertestuale, ma una sofferta assunzione di eredità) è percepito insomma da alcuni scrittori odierni come il principale antidoto all’anestetizzazione mediatica e mercantile della scrittura letteraria: il fenomeno è presente non solo 3 Cfr. F. Carmagnola, Il consumo delle immagini. Estetica e beni simbolici nella fiction economy, Milano: Mondadori, 2006. 4 Cfr. A. Rollo I sudditi del best seller d’importazione in Tirature ’01, Milano: Il Saggiatore, 2001, pp. 96-104. 5 Cfr. G. Simonetti, Sul romanzo italiano oggi. Nuclei tematici e costanti figurali, in “Contemporanea”, 4 , 2006, pp. 55-81. 6 Cfr. C. Benedetti, Gomorra di Alberto Saviano, in “Allegoria”, n. 57, 2008, p. 173. 7 Cfr. L. Sciascia, Nero su nero, in Opere, Milano: Bompiani, 2001, 3 voll., II, p. 834. 4 in Saviano ma anche, ad esempio, in Siti, in Affinati e nel meno noto ma assai rilevante caso di Luigi Di Ruscio. La finta autobiografia ad elevato tasso di cinismo cognitivo di Walter Siti, infatti, dialoga a distanza con le strategie di scrittura “celiniane” di Pasolini e di Volponi (Corporale e Petrolio, soprattutto), la saggistica lirica ad alta tensione etica di Eraldo Affinati, ripropone la situazione della scrittura testimoniale di Primo Levi, l’autobiografismo linguisticamente straniante dell’espatriato Luigi Di Ruscio si pone sulla medesima lunghezza d’onda dei libri di Meneghello. La trilogia di Siti, composta da Scuola di nudo (1994), Un dolore normale (1999) e Troppi paradisi (2006) è, come si sa, un’autobiografia fittizia. Mentre Affinati subordina la fiction alla non-fiction, nel senso che proclama l’autenticità etico-morale dell’esperienza, Siti enfatizza la non veridicità dell’autobiografia. Poiché il “realismo” di tipo classico-ottocentesco è stato colonizzato dalla produzione televisiva, che si è assunta il compito di proporre il grado-zero del realismo (il reality), a Siti sembra necessario costruire finte confessioni, in modo da generare cortocircuiti circa lo statuto di verità di quanto viene narrato e poter veicolare, in forme occulte, il cuore della sua ricerca narrativa: la tragedia del desiderio umano nel nostro presente spettacolarizzato. In Scuola di nudo le digressioni crudeli del sosia intendono soprattutto difendere il Desiderio (qui esemplato dal nudo maschile) inteso come un’allegoria del desiderio di ciascuno di riconoscimento da parte degli altri. In Troppi paradisi la finzione autobiografica è più marcatamente esibita ed è conseguente al grado estremo raggiunto dal processo di omologazione. La fittizia autobiografia, proprio perché palese, si tramuta così in romanzo-saggio capace di fare i conti con l’incidenza della televisione nella vita quotidiana degli italiani: Mai, nella storia, gli esseri umani sono stati esposti così a lungo all’indistinzione tra ideale e reale: una mimesi avvolgente, che viene a trovarti lei anziché esser tu costretto ad andare in biblioteca o al museo. Mai la gente ha tanto parlato nei bar e nelle file per la posta, di fiction (127). L’autofinzione di Siti, insomma, manifesta, in forme paradossali, un latente, perfino tragico bisogno di ripristinare in tempi avversi la civile conversazione, il pensiero critico, il rifiuto dei dogmi. Questa pulsione saggistica è resa esplicita, dopo la trilogia, dal trionfo dell’inchiesta sul campo e del reportage: Siti decide di verificare e discutere i dati concreti della mutazione in una borgata-tipo ne Il contagio (2008) e nella Disneyland degli emirati arabi ne Il canto del diavolo (2009). La paternità della saggistica pasoliniana riemerge così con la forza rivelatrice d’una negazione. Il novel contemporaneo, per raggiungere una forma qualsiasi di realismo sembra dover affrontare in anteprima le condizioni tratteggiate in eccesso dalla scrittura autobiografico-saggistica di Siti, le medesime messe a fuoco da Slavoj Žižek nel suo Benvenuti nel deserto del reale (2001): 5 le scritture ibride di vero e invenzione, riflessione e finzione, costituiscono un campo di forze in tensione rispetto all’indistinzione di virtuale e di accaduto, urtano la trasformazione di fiction in faction, rimettono in circolo gli aspetti conturbanti del reale, fanno i conti di nuovo col vuoto e col tragico. III. Eraldo Affinati anziché fondarsi come Siti sulla constatazione cinica della rimozione postmoderna del tragico, concentra tutte le sue risorse, come in Veglia d’armi (1992) dice l’Autore stesso di Tolstoj, in una “lotta per combattere il nulla che ci assedia”. I libri di Affinati sono pseudo-romanzeschi: si tratta in realtà di una scrittura divisa fra vocazione lirica e saggismo. Il suo vero capolavoro è Campo del sangue (1997), un saggio-diario narrativizzato incentrato sull’interpretazione etica dei destini umani. È la narrazione autobiografica di un pellegrinaggio, che recupera il genere medievale dell’itinerarium mentis, da Venezia verso Auschwitz: il viandantescrittore, rallentando il proprio viaggio, non vuole banalmente commemorare quanto piuttosto creare cortocircuiti e epifanie fra storia privata e storia del Novecento8. In Affinati è dunque al centro il tema della memoria ma, in lui come in Primo Levi, i processi memoriali sono sempre di natura pluripersonale: se la ricostruzione proustiana del passato origina da un’epifania del tutto privata, per Affinati, come anche per Sebald, la memoria, anche quella privata, passa invece attraverso un confronto intersoggettivo. È il dialogo con persone o con oggetti-testimoni, di cui il narratore è custode, che rivivifica i cortocircuiti memoriali, non il ripiegamento narcisistico del soggetto su di sé. La resurrezione del passato, anche individuale, è sempre legata a una comunità memoriale. Anche ne La città dei ragazzi (2008) Affinati si pone alcuni tra i massimi problemi del presente: l’incontro coi migranti, la responsabilità dialogica dell’insegnamento, il problema dell’eredità culturale e della paternità. Affinati, può attingere alla sua privata memoria solo controcorrente, incontrando gli altri, resuscitando la figura del padre mediante un viaggio in Marocco coi suoi allievi immigrati. La città dei ragazzi è incentrata sulla scomposizione e sul montaggio di tre percorsi paralleli. A dare il titolo al libro è “la città dei ragazzi di Roma”, fondata nel 1953 dal sacerdote irlandese Carrol-Abbing: una comunità basata sul principio dell’autogoverno e nata per provvedere all’educazione di ragazzi esposti a rischi di devianza. La Fondazione un tempo ospitava i giovani emarginati italiani, ora invece accoglie quasi esclusivamente migranti. 8 Cfr. A. Casadei, Stile e tradizione nel romanzo italiano contemporaneo, Bologna: Il Mulino, 2007, p. 217. 6 Affinati insegna in questa comunità e può disporre in vitro dei materiali di un piccolo laboratorio sociale: il libro indaga le vite dei suoi allievi in dialogo e in conflitto con la sua funzione di docente, con l’istituzione che li ospita, con la cultura di provenienza e con quella di arrivo. L’autore utilizza anche, montate nel corpo del testo, alcune delle loro scritture: inserti di italiano stentato così come può essere quello di un parlante afghano o africano che intercetta i nostri gerghi e dialetti ben prima delle strutture della lingua ufficiale. Nel testo compare inoltre, a intervalli, il taccuino del viaggio in Marocco dell’insegnante con due dei suoi ragazzi, Omar e Faris, alla scoperta delle loro radici. Infine, La città dei ragazzi propone un viaggio mentale, à rebour, anch’esso intermittente, per riconoscere l’infanzia e l’adolescenza dello stesso docente, restituire dignità alla figura paterna e stabilire un dialogo tra generazioni. Affinati insomma è forse l’autore della generazione dei Figli che più di ogni altro si è posto il problema dell’eredità culturale. Uno dei modelli de La città dei ragazzi è la Lettera a una professoressa (1967) di don Lorenzo Milani, il saggio scritto con gli alunni della Scuola di Barbiana, che, coi metodi dell’inchiesta sociale e della verifica dei linguaggi, ha sottoposto quattro decenni or sono alla dura critica del radicalismo evangelico il nostro sistema educativo. Per don Milani, la più grave ingiustizia in una società divisa tra poveri e ricchi era di ordine culturale: in un borgo appenninico, i bocciati erano quasi esclusivamente i figli dei contadini. Affinati cita esplicitamente don Milani (a p. 79 ) e ne condivide le premesse di tipo evangelico: l’analisi di don Milani era però severissima, rivendicando una reale uguaglianza di possibilità e di prospettive economiche per la maggioranza dei ragazzi condannata alla subordinazione culturale e a uno stentato alfabetismo. I bocciati di Barbiana ponevano questioni universali in forma polemica e eversiva: “primo, tutti sono adatti a tutte le materie”; “secondo, il problema degli altri è uguale al mio. Sortirne tutti insieme è la politica. Sortirne da soli è l’avarizia.” Al posto di Omar e Tarif, uniti dallo stesso destino di migranti verso l’eldorado dei consumi, c’erano Gianni e Pierino del Dottore, irrimediabilmente divisi. Il destino di Gianni era segnato dalla sua nascita, dalle condizioni famigliari di miseria che lo predisponevano al disinteresse verso una scuola progettata per Pierino e che funzionava per riprodurre la distinzione fra incolti e colti, fra subalterni e classe dirigente. Il dialogo col modello “paterno” è dunque contraddittorio: don Milani insegnava ai suoi allievi soprattutto a non fidarsi della classe dirigente, Affinati aiuta invece i suoi scolari a guadagnare millecinquecento euro al mese come baristi o cuochi, a non morire, a non diventare homeless. Il radicalismo di don Milani prefigurò la contestazione del Sessantotto e influenzò la saggistica di Franco Fortini e quella di Pasolini sui grandi temi dell’educazione, della colonizzazione culturale e dell’omologazione. Per Affinati invece è fortissima, più che la critica sociale, l’etica della 7 responsabilità, nella certezza che “non ci si salva da soli”: ciò si desume dalla fitta serie degli aforismi, degli accostamenti analogici, degli interrogativi, vere spie stilistiche di una richiesta di senso e del costante cortocircuito saggistico e poetico fra occasioni private e destini collettivi, tra passato e presente. L’acqua contaminata entra nelle case. L’aria è mefitica. I camion depositano le immondizie senza sosta, perfino a tarda sera. La gente mangia, beve, vive nei rifiuti. Mi sorprendo a considerare le fattezze degli abitanti: collo, naso, gambe, braccia, come se volessi sincerarmi della loro natura umana. Sono arrivato alla sorgente? È questo il punto di partenza che cercavo? La fossa biologica dove tutti torneremo? (196). IV. Luigi Di Ruscio, nato nel 1930, ha fatto a tempo ad avere, per le sue prime raccolte di versi, le prefazioni di Fortini e di Quasimodo prima di trasferirsi, negli anni Cinquanta, in Norvegia come operaio metalmeccanico. Si tratta quindi di un autore collocabile più nella generazione paterna che in quella dei Figli. Tuttavia le sue prose, da Palmiro (1986, con prefazione di Antonio Porta) in poi, risultano assai interessanti per l’odierna questione delle ibridazioni tra generi. L’ultimo Cristi polverizzati (2009) è il memoriale narrativizzato di un emigrato marchigiano a Oslo: qui il lettore non è chiamato a condividere una fiction ma una condizione comune all’intero genere umano. Chi dice “io”, con le sue trovate linguistiche scoppiettanti e i suoi gioiosi paradossi, sembra voler sfuggire a una stretta mortale, non sa e non vuole abituarsi a morire. La voce rimembrante, infatti, è quella d’uno Charlot in delirio euforico tra i denti degli ingranaggi. Amavo i sonetti del Belli, il momento in cui il riso è straziante, da Cervantes a Chaplin (62). Cammino con la massima indifferenza su un tutto pronto ad esplodere […] guardo paralizzato e terrorizzato mentre il sottoscritto tra gli orrori del mondo, inconsapevole com’è, sorride e fischietta (194). Non si tratta di ciò che oggi comunemente si dice un “romanzo” ma piuttosto della vicenda di una fissazione: nel senso che la scrittura vortica su se stessa e le libere associazioni non varcano quasi mai il perimetro stretto degli anni Cinquanta italiani. La struttura del libro è circolare: il cogitare memoriale si apre sullo shock del parto, dell’essere gettati nel mondo (“Parto difficilissimo, spesso si nasce venendo stritolati”, “la poesia retrocede verso la prima angoscia”, 1) e si chiude con la rappresentazione di un varco sbarrato e stritolante (“varco le soglie del mondo ed è come se fossi in un campo minato”, 195). La situazione di chi scrive è quella di chi, espatriato e chiuso in un remoto rifugio domestico, batte cocciutamente sui tasti prima di una vecchia Olivetti poi di una tastiera di computer, per riportare in vita il se stesso infante e adolescente, con lo scopo di resuscitare gli anni dal 1945 al 1957 e un luogo marchigiano preciso, Fermo, in cui tutto ciò che doveva compiersi si è compiuto. Cristo, preannunciato dal titolo, assolve a una duplice funzione: è emblema di un corpo straziato ed è anche stralunata figura di una resurrezione metacronica. Il titolo rimanda inoltre, nello specifico, all’ingresso in scena di un personaggio dell’Italia precedente il 8 “miracolo” e la mutazione: un crocefissaro meridionale, detto il Moscatritata, che transita con il treno Lecce-Milano per vendere porta a porta nelle metropoli del Nord i suoi cristi finto-antichi “in gesso e anche polverizzati in bronzo” (137). La scrittura si muove a spirale, passando e ripassando per i medesimi punti. I ricordi più remoti riguardano l’educazione scolastica e quella cattolica. Nel bel mezzo degli “splendori fascisti e imperiali” lo scolaro Luigino osa scrivere un tema sul parto mostruoso di una gatta che, “dopo averli cacati”, divora i figli “come fossero teste di pesce” (5). Il maestro fascista s’infuria e il tema viene “mitragliato di segni rossi e azzurri” (17). Con l’apologo della gatta divoratrice, il piccolo Di Ruscio narrava già allora, sfidando il maestro, una vicenda materiale di produzione e distruzione universale ben nota alla coscienza popolare ma ignorata e svalutata dalla cultura ufficiale. Per il maestro del regime, quei ragazzi “sbandati” sono invece “uno sbaglio, una presenza di mala natura” (6) da colpire con una lunga canna di bambù, senza nemmeno alzarsi dalla cattedra. Accanto alla retorica scolastica, in Cristi polverizzati, esattamente come in Libera nos a Malo di Meneghello (anch’esso un espatriato, capace di uno sguardo straniante sulla provincia italiana), l’altro veicolo di acculturazione e dominio è rappresentato dalla Chiesa, che penetra nelle case contadine e nell’inconscio collettivo. Come accade per tutti i simboli dell’inconscio, anche Iddio nell’esperienza profonda dell’infanzia, si sdoppia nel “dio tenebroso della vendetta, macabro giudice che contava tutte le masturbazioni” (10) e nell’“iddio gioioso”, abitatore dell’azzurro, capace di “scomparire nel magnifico nulla, nel ventre da cui è sorto” (19). La religione è in tal modo esperienza che suscita pulsioni ambivalenti, sempre divise tra l’irrisione del potere dei papi e delle gerarchie e il sentimento panteistico di un cosmo naturalmente poetico. Perfino il momento supremo della comunione, sbirciato dalla privilegiata postazione del chierichetto, si può così tramutare in una festa della carne, scoppiettante di santità materiale e di intuizioni erotiche. Ecco i sessi nei loro umidori, sorrisi, languori, arrossamenti e ci fu quella volta che improvvisamente cadde dalle mani del prete la particola sacra, ecco Cristo con tutta la sua carne e il suo sangue è per terra, il prete allarga le braccia come un santo sbalordito. Da chierichetto mi riguardavo tutte quelle bocchette aperte con le graziose linguette rosse delle ragazzette dove il sacerdote posava delicatamente la particola, la linguetta stretta e prensile che si ritirava velocissima e la bocchetta si rinserrava leggermente indispettita (27). Cristi polverizzati è un prezioso referto clinico e diagnostico sullo stato dell’inconscio collettivo degli italiani, sedimentatosi proprio in quegli anni Cinquanta e oggi pressoché inattingibile perché rimosso e oscurato dalle successive ondate modernizzatrici: gli anni Sessanta, il “miracolo” industriale, i Settanta e gli Ottanta, tra contestazione e avvio del postmodernismo nostrano, il presente, preda del partito-azienda. La sua lettura produce lo stesso effetto di autoriconoscimento un po’ perturbante che si prova talvolta davanti allo specchio. Solo Di Ruscio, espatriato precocemente a Oslo, può oggi rimemorare senza filtri né veli quell’Italia, fra fascismo, resistenza e ricostruzione, 9 senza la quale non si può minimamente comprendere né spiegare l’Italia di oggi. Nel testo circola, del resto, e proprio là dove la voce narrante si sdoppia, facendo appello al “graziosissimo lettore” oppure al “sottoscritto scrivente”, l’autocoscienza della superiorità di rivelazione e verità della scrittura testimoniale saggistico-letteraria rispetto alla mera ricostruzione storiografica: Ma scusami, caro scrivente perché interrompi la narrazione e ti metti a baccagliare con gli storici? Il motivo è semplicissimo, il narratore racconta il particolare, lo storico invece racconta come i fatti sono avvenuto in generale e il generale e il particolare non si combinano mai. I testimoni oculari ne vedono e ne vedranno di tutti i colori, lo storico invece non ha mai visto un cazzo (34). Da dove viene all’io narrante questa ipercoscienza dei mutamenti in atto? Figlio di un muratore, semiafabetizzato, Luigi ha avuto un rapporto intenso con i Padri: da ragazzo leggerà per pura ansia poetica, Pavese, Gadda, Montale, Sterne e Cervantes e poi Giordano Bruno, Sarpi, Campanella, Hegel, Croce e Gramsci. Questo vero e proprio miracolo culturale era abbastanza comune nel dopoguerra e oggi non è più nemmeno pensabile a causa del mescolamento dei codici e della penetrazione dei media. Il primum per Di Ruscio è la poesia (in versi e in prosa) intesa non come lirica ma come forma di ribellione e sberleffo: in tutto il testo dominano analogie fulminanti, scarti improvvisi, acrobazie tra pensieri e visioni. L’espatrio, la poesia, la vitalità anarchica e ribelle sono gli antidoti che Di Ruscio impiega contro la sclerosi, la banalizzazione e l’appiattimento e che gli permettono di dar voce a una resurrezione: a uscir dal sepolcro non è però il corpo di Cristo ma quello dell’io poetante e l’Italia della guerra fredda, anticipazione occulta della nostra condizione attuale. Del tutto controcorrente in un’epoca che ha glorificato l’intreccio per predisporre la narrazione a farsi fiction e puro intrattenimento, la scrittura di Di Ruscio non lascia spazio al plot. Eppure il piacere del testo è immediatamente percepibile al lettore. Evidentemente occorre riconoscere che l’intreccio non è il solo veicolo di “godibilità” testuale. Domina invece in Cristi polverizzati la retorica dell’aversio, vale a dire la strategia saggistica della digressione permanente, adatta a differire la conclusione, ideale per creare una moltiplicazione del tempo all’interno dell’opera, per attivare una fuga perpetua. Così accade che in Cristi polverizzati i fatti sembrano registrati in presa diretta mentre Domineddio, la Chiesa, il Partito, i Poeti, la Materia del cosmo, la Vitalità sessuale e corporea, l’Orrore, i Corpi sbranati, diventano puri ritornelli, iterazioni litanianti, cadenze ritmiche. E mentre i segretari delle Camere del lavoro, i dirigenti di Partito, i Poeti ufficiali sono visti con lo stesso sospetto eretico con cui si guarda ai preti o ai maestri scolastici, il corpo gioioso e le pulsioni utopiche restano l’unica bussola per orientarsi, irridere, non arrendersi, sortire dai varchi. Non è stato compreso a sufficienza che noi italiani siamo nati lì, nelle macerie, nei dogmi della guerra fredda, negli anni Cinquanta dell’americanizzazione e della prima irruzione di consumi e tv, 10 nel secondo dopoguerra in cui si ripeteva in maschera la nostra millenaria vicenda subalterna, cortigiana, inquisitoriale e gesuitica. Non è stato capito abbastanza che il nostro inconscio nazionale è stratificato di “Iddii trini e quattrini, dell’acqua miracolosa di Lourdes, del sangue bollente di San Gennaro” (59). Se così non fosse probabilmente non ci sarebbe stato nemmeno il recente involgarito dominio vetero-commerciale, con le televisioni che hanno ridotto a offerta pubblicitariofinzionale ogni aspetto della vita associata. Le divagazioni poetico-saggistiche di Di Ruscio ce lo suggeriscono, con la saggezza di un saltimbanco: Abbiamo tanta fantasia che crediamo anche nell’incredibile, quindi immaginiamo congiure complicatissime, guardate Berlusco come riesce a far credere di essere perseguitato dalla congiura di una giustizia di sinistra e ci metterebbe la mano nel fuoco anche perché il Berlusco si presenta tanto bene e con tante esatte scriminature, non può aver fatto tutto quello di cui viene accusato, ed ecco la fantasia infernale della procura di Milano e la mancanza del diritto per i diritti (159). Ci voleva un poeta-operaio indifeso e blasfemo, che scrive lontano dall’Italia, per ricordarci, con una lingua ludica, diaristico-saggistica e narrativa, i nostri segreti delitti e le nostre pene. Attraverso la scrittura di Di Ruscio come attraverso quelle di Saviano, Siti, Affinati e forse di molti altri, la generazione dei Padri dialoga, in forme spettrali, con quelle odierne e, come nei versi di una grande poesia di Vittorio Sereni (La spiaggia) ci consegna un’ eredità culturale non destinata a diventare scarto o detrito inerte ma a farsi, pur nella mutazione, movimento, luce e parola. Bibliografia AA.VV., Generi letterari. Ibridismo e contaminazione, a cura di A. Sportelli, Roma-Bari: Laterza, 2001. Benedetti, Carla, Gomorra di Alberto Saviano, in “Allegoria”, n. 57, 2008, p. 173. Berardinelli, Alfonso, La forma del saggio. Definizione e attualità di un genere letterario, Venezia: Marsilio, 2002. Berardinelli, Alfonso, La forma del saggio e le sue dimensioni, in Il saggio. 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