INCARNAZIONE: cammino per l’inculturazione del Vangelo
RIFLESSIONI BIBBLICHE
PAOLO CUGINI
[pubblicato in Orientamenti Pastorali, 12/2004)
INTRODUZIONE
Non è difficile scorgere tra le righe dei documenti della Chiesa, nonché in vari studi o articoli di
riveste specializzate, grande preoccupazione sul futuro della Chiesa. Preoccupazione che, del resto, è
più che giustificata visto e considerata la scristianizzazione progressiva che stiamo assistendo in
questo modo sempre più post-moderno. La frammentazione dei saperi, infatti, assieme al relativismo
in campo morale e al particolarismo che stanno alla base di molte rivendicazioni politiche in diverse
parti del mondo contraddicendo, in apparenza, la tendenza globalizzante non solo dell'economia che
é in atto; sono fenomeni che fanno riflettere. E allora come portare il Vangelo in questo secolo che,
come scrive giustamente Matteo Armando no è più solo in cambiamento, ma è già cambiato? In altre
parole emerge con forza il problema dell’inculturazione del Vangelo che viene a porsi non solamente
in modi non occidentali, di culture cioè, e religioni, non cristiane, ma nello stesso mondo occidentale.
Ciò non per il semplice fatto della presenza di persone provenienti da altri paesi, mondi, ma perché
l’uomo occidentale stesso, per una serie di trasformazioni avvenute, ha perso sempre di più la propria
identità cristiana. C’è, allora una cultura diversa che si è venuta a formare in questi documenti, una
cultura secolarizzata, non necessariamente atea.
Se c’è chi sostiene che non poteva che andare così, in quanto la secolarizzazione del mondo
occidentale è il punto d’arrivo del cristianesimo stesso, per chi ha fatto del Vangelo di Gesù Cristo
non un semplice “dato” culturale, ma l’annuncio della salvezza, non può che rimanere preoccupato.
Si creano, allora, degli strumenti, delle chiavi di lettura che aiutino ad interpretare il fenomeno, per
individuare cammini di inculturazione percorribili. La tentazione però, che spesso si intravede qua e
là, in uno studio specifico o in un dibattito tra specialisti di pastorale, è di correre dietro al postmoderno, per timore di essere considerati dei poveri cristiani moderni, mettendo involontariamente
da parte il punto di partenza necessario per qualsiasi inculturazione: il Vangelo. Se è vero che
l’ermeneutica ha compiuto passi da gigante, soprattutto in questi ultimi trent'anni, è altrettanto vero
che il metodo donato da Dio per annunciare la Buona Novella della Salvezza, rimane tutt'oggi
insuperato.
1 Sfogliando la Parola.
Vorrei iniziare queste semplici riflessioni bibliche con una domanda: come ha fatto Dio a
“inculturare” la Parola nella? In primo luogo l’incontro tra Dio e l’uomo è avvenuto nella Parola
stessa. Lo ricorda l’autore della lettera agli Ebrei quando scrive: “Dio che nel tempo antico molte
volte e in diversi modi aveva parlato ai Padri nei profeti, in questa fine dei tempi ha parlato a noi nel
Figlio”. Una parola che è discesa, che dall’alto è venuta verso il basso. Questo cammino di discesa
che la Parola ha compiuto, è passato per varie tappe a giungere a Gesù, il verbo incarnato.
“Ho visto l’oppressione del mio popolo…e sono sceso a liberarlo dagli Egiziani”. La storia della
salvezza operata da Dio in favore del suo popolo, può essere narrata come la storia di una progressiva
discesa. E’ così la risposta a quella domanda che il saggio Agur fa nel libro dei poveri. “Chi è salito
al cielo e poi è disceso?” La troviamo in Gesù, Parola definitiva del Padre che, come ci ricordava
l’Evangelista Giovanni” è venuto abitare in mezzo a noi”. Da questo momento in poi non si tratta più
solamente di una Parola rilevata, ma il Verbo incarnato, di Dio che è diocesi assumendo la stessa
carne degli uomini e, Lui che è eterno, accettando i limiti della storia umana. Il concilio ci ricorda
che tutto ciò è avvenuto perché:
“piacque a Dio nella sua bontà e sapienza, rilevarsi a se stesso per far conoscere il mistero della sua
volontà mediante il quale gli uomini, per mezzo di Cristo, Verbo incarnato, hanno accesso nello
Spirito Santo al Padre e diventano partecipi della natura divina” (Dei Verbum).
Nonostante questa delucidazione del magistero ecclesiastico, per l’uomo in cerca della Verità, rimane
comunque aperta una domanda: era davvero necessaria questa discesa che presenta l’aspetto di un
duplice umiliazione? Di fatto, non solamente Dio si umilia scendendo dal cielo mescolandosi con la
creatura sfidando tutte le leggi della metafisica classica; ma è anche l’uomo a uscirne umiliato, in
quanto la discesa di Dio pone in evidenza l’incapacità della natura umana di rispondere positivamente
al piano di Dio
Leggendo e rileggendo la storia del popolo di Israele, storia fatta per lo più di alleanze disattese, di
ribellioni e peccati, viene da rispondere immediatamente che non c’era altra alternativa. Non bastano,
infatti, le grida minacciose dei profeti per rimettere sul giusto cammino un popolo preso dall’idolatria
e nella dimenticanza di Dio dei padri.
Lo aveva, del resto, già intuito il profeta Geremia quando, in uno dei momenti storici più tristi del
popolo d’Israele, vale a dire la distruzione di Gerusalemme operata da Nabucodonosor nel 587 a.C.
e la successiva deportazione del popolo a Babilonia, profetizzava un futuro in cui Dio avrebbe scritto
le Sue parole di amore non più in tavole di pietra, ma nel cuore stesso dell’uomo. La debolezza della
struttura antropologica umana resa fragile a causa del peccato, della disobbedienza originale, non ha
permesso all’uomo di obbedire alla legge – Torah- ricevuta da Mosè scritta sulle tavole di pietra.
Geremia, e dopo di lui Ezechiele, hanno colto il disastro storico avvenuto nelle deportazione di
Babilonia, un problema ben più profondo nel cuore stesso dell’umanità, che necessitava dunque di
un intervento diretto di YHWH. E’ in questo contesto che è nata la Teologia del cuore, spingendo il
rapporto dell’uomo con Dio sul piano interiore. Discendendo del cielo, Dio è entrato nel cuore
dell’umanità per scrivere dentro di essa la Sua Parola. Questo suo cammino di discesa, che secondo
la letteratura profetica è innanzitutto un cammino di interiorizzazione, è avvenuto con Gesù Cristo. È
san Paolo che lo rivela quando, nella lettera ai Romani, mentre al capitolo 5 riflette sulle conseguenze
della giustificazione scrive: “La speranza non delude, poiché l’amore di Dio è stato riversato nel
nostro cuore per il dono dello Spirito Santo” (Rom 5,5).
E’ una discesa allora che, se in apparenza sembra umiliare l’uomo, in realtà tenta con successo il
recupero, per metterlo in grado di vivere ciò che per vocazione è: immagine e somiglianza di Dio.
La discesa del Verbo nel cuore dell’uomo per riscattare ciò che sembrava per sempre perduto, è
avvenuto sul piano dell’identità e della differenza.
Sul piano dell’identità innanzi tutto. Infatti, che “Il Verbo si è fatto carne ed è venuto ad abitare in
mezzo a noi” ha voluto dire per l’umanità il desiderio di Dio di salvare l’uomo non con un atto
esterno, ma creando un rapporto di strettissima vicinanza. In altre parole Dio, in Gesù Cristo, si è
spinto vicino all’uomo sin dove poteva. Sono tante che le espressioni che nel Nuovo Testamento
descrivano questo cammino di Dio verso l’uomo. Innanzi tutto san Paolo nella lettera ai Filippesi
ricorda che Gesù Cristo è “diventato simile agli uomini”. Per salvare l’uomo dal peccato il Verbo ha
assunto la carne del peccato stesso facendosi simile in tutte le cose “ai fratelli” eccetto chiaramente
il peccato. Per rendere autentica questa partecipazione alla somiglianza della carne e del sangue
dell’umanità da salvare, il Verbo ha dovuto attendere. In primo luogo ha atteso la pienezza del tempo,
la fine dei tempi.
C’è stata una lunga, secolare preparazione prima che si compisse l’evento dell’incarnazione. Un
evento preparato e annunciato nei secoli. Si pensi ad esempio alle profezie che incontriamo al capitolo
24 del libro dei numeri in cui Balaam figlio di Beor, a dispetto delle maledizioni che Balac re di Moab
chiedeva sul popolo di Israele accampato ai piedi del monte Baal, disse:”Io lo vedo, ma non ora, io
lo contemplo, ma non da vicino: Una stella spunta da Giacobbe… “. Anche la profezia di Natan nel
secondo libro di Samuele in cui Dio promette per bocca del profeta al re Davide una alleanza eterna
con la sua casa. Profezie millenarie che fanno riflettere sui tempi calmi del Signore, così diversi dai
tempi frettolosi degli uomini e delle donne. C’è poi una seconda attesa che avviene nella vita stessa
di Gesù. San Paolo la descrive così: “quando giunse la pienezza del tempo, Dio invitò suo Figlio nato
da donna, nato sotto la legge”.
Il Verbo si è sottomesso alla legge della natura umana e degli uomini. La partecipazione alla
somiglianza della care e del sangue dell’uomo non è stato qualcosa di fittizio, esterno, formale: è stata
una sottomissione autentica, un cammino di apprendimento dentro le mura della famiglia di Nazareth
e nella scuola dei saggi di Israele. Infine, c’è l’attesa di Gesù nel deserto prima di iniziare il ministero.
Si rimane a lungo con il fiato sospeso prima di ascoltare una parola di Gesù e di vederlo all’opera. E’
una lentezza non solo imbarazzante, ma nel tempo stesso impressionante che richiede di essere
ascoltata e meditata con attenzione. In effetti, è una lentezza che ha tutti i tratti della delicatezza di
Dio. Se è vero, infatti, che Dio interviene nella storia per salvare l’uomo dal peccato e dalla morte
eterna, sembra che intenda farlo col modo più delicato possibile, senza ferire troppo una umanità già
malata. L’incarnazione del Verbo operata da Do nella storia vede, quindi, questo primo aspetto
fondamentale: il Verbo è disceso lentamente e delicatamente. E’ stato un incontro talmente lento e
delicato che in pochissimi se ne sono accorti: dice infatti Giovanni che “il mondo non lo riconobbe”.
Lo stesso vale per il cammino di discesa. Difatti la somiglianza di Gesù con l’umanità incontrarsi era
talmente grande che non riusciva a percepire la differenza divina. E la gente si chiedeva: “non è questo
il figlio di Giuseppe?”.
3 Il duplice movimento dell’incarnazione
Disceso sulla terra il Verbo di Dio si è messo subito in movimento. E così, sfogliando il vangelo di
Marco, troviamo Gesù che cammina “lungo il mare di Galilea”, che entra in una sinagoga, dirigendosi
alla casa di Simone e Andrea, andando nelle città vicine, salendo una montagna, entra in una casa,
salendo in una barca, percorrendo la Galilea, dirigendosi al territorio della Giudea e, infine, arrivando
a Gerusalemme. Osservando questo momento, si può proprio dire che Gesù ha fatto della storia il
luogo dell’incontro con l’umanità. Dopo la triplice attesa, sopradescritta, Gesù ha manifestato il
desiderio incontenibile di Dio di parlare a faccia con l’uomo. E lo ha cercato in ogni luogo
percorrendo le strade della Palestina. Ci si può chiedere all’ore: che cosa ha significato questo
movimento di Gesù verso l’esterno? Che cosa comunica all’umanità? In primo luogo è segno di una
libertà interiore impressionante. Gesù camminando per le strade della Palestina, entra nelle case di
tutti, di chi lo invita, sedendosi nel piazzale del tempio per conversare con il popolo o con i dottori
della legge ha manifestato la sua libertà nei confronti di quelle paure umane che spesso pregiudicano
l’incontro con l’altro: la paura di essere giudicato e la paura di non essere accolto. In questo modo ha
rivelato che il contenuto che doveva comunicare – l’annuncio del regno do Dio – era ben più
importante di quello che la gente poteva pensare di Lui. In secondo luogo il movimento di Gesù
all’esterno è segno di gratuità. In Gesù tutto era grazia: lo ripete continuamente san Paolo nella lettera
ai Romani. Inviando Gesù, Dio non ha atteso che l’uomo meritasse la salvezza. C’è stato un altro
tempo di attesa e lo abbiamo visto sopra. Lo zelo, la determinazione, la donazione totale di Gesù, il
suo correre incontro all’uomo, alle donne per annunciare la Buona Notizia, sono il segno di una
salvezza che è azione misericordiosa di Dio o, come direbbe san Paolo, giustizia di Dio. Dio è giusto
non perché l’umanità meritasse questo, ma perché fedele a se stesso, alle promesse fatte ai Padri, ad
Abramo, Isacco, Giacobbe e, in seguito, ai profeti.
Il movimento che Gesù cimose nel mondo è, infine, segno di una progettualità. Non si tratta, infatti
di un’az. Al contrario, se Gesù entra in una casa non è per mangiare e basta e parlare del più e del
meno. In ogni incontro di Gesù, in ogni dialogo, c’è una finalità ben precisa: l’annuncio salvifico del
Regno. E allora se incontriamo Gesù sulle rive del lago della Galilea, o su una montagna o a parlare
nella piazza del tempio con un gruppo di persone, non dobbiamo immaginare che stia perdendo
tempo, anzi, lo sta riempiendo di significato. Il fatto che Gesù sia la pienezza del tempo è manifestato
nei vangeli anche attraverso questi piccoli dettagli, nel suo modo di muoversi, di parlare, di essere.
Niente di Gesù è fatto o detto a caso, ma le sue parole e i suoi gesti, oltre a essere intimamente
connessi, sono segni rilevatori del piano salvifico del Padre.
Il fatto, poi, di mettersi sulle strade della Palestina alla ricerca dell’umanità perduta e disorientata, ha
provocato un altro tipo do movimento: non era solamente tutto il popolo a correre da Lui o, come è
detto più avanti “molta gente si riunì vicino a Lui”, ma quelli che poi diventeranno suoi nemici come
i farisei, i sadducei lo cercano. Che dire poi dell’umanità isolata come i lebbrosi, gli indemoniati, gli
ammalati, i cechi, i sordi, tutti camminano verso Gesù. Anche a questo proposito rivolgiamo la stessa
domanda:che significato questo andare verso Gesù dell’umanità? Immediatamente viene da
rispondere che, se c’è stato un incontro tra Dio e l’umanità attraverso Gesù, questo incontro, non solo
è stato preparato, ma voluto. E’ nell’incontro, nella relazione, che il messaggio è comunicato e questo
incontro, per essere significativo, deve mantenere le caratteristiche tipiche dell’universo personale.
Quali sono queste caratteristiche? Innanzi tutto lo sguardo. Nell’incontro di Gesù con il giovane ricco
ad un certo punto del dialogo instaurato tra i due, l’evangelista Marco annota che Gesù “fissatolo, lo
amò”. Al contrario, nella scena della Passione, Pietro riceve uno sguardo di Gesù che lo porta alle
lacrime. In una relazione il contenuto non passa solo attraverso la Parola. Gli occhi rivelano i nostro
sentimenti e così si rafforzano, cioè danno incisività a ciò che si intende comunicare. Per comunicare
la Buona Nuova non possiamo sottrarci allo sguardo dell’altro e, allo stesso tempo, di guardare l’altro.
E poi le mani. Con le mani Gesù ha curato gli ammalati,”la prese per mano”, “poi le tocco gli occhi”,
ha benedetto i bambini (“allora gli condussero alcuni bambini perché imponesse loro le mani e
pregasse”, ha sfamato le folle “prese sette pani e i pesci, rese grazie, li spezzò, li dava ai discepoli e i
discepoli li distribuivano alle folla” e, finalmente, si è donato ai discepoli all’ultima cena “mentre
essi mangiavano, Gesù prese il pane e, pronunziata la benedizione, lo spezzò e lo diede ai discepoli”.
Le mani sono fondamentali nelle relazione interpersonale. Con esse manifestiamo i nostri
sentimenti,positivi o negativi, rafforziamo il significato di ciò che stiamo dicendo, con i gesti. Con le
mani abbracciamo, salutiamo, accarezziamo.
C’è poi un altro aspetto in quella che potremmo chiamare la fenomenologia della relazione, che è
significativa per Gesù: lasciarsi avvicinare, toccare. Spesso nel vangelo il verbo avvicinarsi è
utilizzato per esprimere il cammino dell’umanità verso Gesù. Non è comunque un avvicinamento
freddo e distante. Al contrario. Chi si avvicina a Gesù lo fa per toccarlo. Sono le folle e gli ammalati
che lo toccano. Tra questi troviamo nei vangeli il caso di una donna afflitta da una emorragia da molti
anni, che di proposito studia il momento opportuno per toccare Gesù, perché sapeva – o immaginava
– che il suo corpo emanava un’energia che sanava. Memorabile è poi quell’avvicinamento silenzioso
e pieno di amore della “donna peccatrice pubblicana”, così come l’evangelista Luca la chiama, che
incontra Gesù in casa di un fariseo. La donna sapendo che si trovava a casa di un fariseo, “si mise
dietro hai piedi di Gesù, e piangendo si mise a bagnare i piedi con le lacrime e asciugarli con i capelli:
gli baciava i piedi e li ungeva con l’olio. Gli occhi, le mani, il corpo. Nella vita di Gesù l’annuncio
del Vangelo è stato mediato da tutto ciò che appartiene all’universo personale. E’ il suo corpo lo
spazio in cui è avvenuto storicamente l’incontro tra Dio e l’umanità. In Gesù sembra che la relazione
preceda, accompagni e segua il contenuto.
4 Servo per amore
“Così saprai che è stata la nostra condizione il motivo della sua discesa”. Nell’”incarnazione del
Verbo” Atanasio ricorda che l’incarnazione è stato un cammino di discesa e quindi di umiliazione.
Se, come abbiamo visto, non c’è stata umiliazione dell’uomo, incarnandosi il Verbo divino si è
abbassato. Lo descrive molto bene san Paolo nell’inno della lettera ai Filippesi:”non considerò un
tesoro geloso la sua uguaglianza con Dio; ma spogliò se stesso, assumendo la condizione di servo e
diventando simile agli uomini; apparsa in forma umana, umiliò se stesso facendosi obbediente fino
alla morte e alla morte in croce”. In questi pochi versetti Paolo descrive che cosa è stata l’incarnazione
del Verbo e in che senso è da intendere l’abbassamento avvenuto. Nel piano salvifico del Padre era
necessario toccare l’uomo senza distruggerlo, guardarlo senza che morisse, parlargli affinché
comprendesse il cammino della redenzione preparato nei secoli. E allora è disceso. Ma questa discesa
è per così dire, costata cara. Per questa discesa Dio ha pagato un prezza carissimo:la morte del suo
figlio. Non ha ritenuto infatti, un impedimento al piano salvifico del Padre, l’essere di natura divina,
ma si è spogliato di tutto ciò che potesse rappresentare una distanza, che potesse umiliare e quindi
allontanare l’uomo. Per rendere possibile ciò si è fatto servo dell’umanità, e in questo servizio che
manifesta la sua umiltà, ha reso obbedienza al piano del Padre. In altre parole: visto come stavano le
cose, da una parte la santità di Dio e dall’altra l’umanità immersa nel peccato, affinché si verificasse
l’incontro tanto atteso e sperato, era necessario non solo assumere una carne simile a quella umana,
ma diventare il servo.
E in che modo si è manifestato questo servizio? “Il Signore fece cadere su di Lui tutti i nostri
crimini….. Il mio servo innocente riabiliterà tutti perché caricò su di sé i peccati di tutti. E’ l’ultimo
canto del servo che incontriamo nel libro del profeta Isaia e che la Chiesa ascolta il venerdì santo. Il
servizio che Gesù ha compiuto all’umanità è che ha preso su di se i peccati di tutti noi e li ha
inchiodati alla croce. E ha fatto ciò in silenzio, senza gridare rivendicazione, senza creare rivoluzioni
popolari. L’inculturazione del Vangelo operato da Dio è passata attraverso lo scandalo della
croce:”scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani”. E’ questo che fa stare male, perché per molto
aspetti è assurdo, non è logico. La morte del giusto umiliato e perseguitato è il mezzo attraverso il
quale giunge la salvezza all’umanità. Ed è uno strumento che non ha nulla di esteticamente
significativo, non solo per attirare 0gli sguardi, ma per sentirsi attratti. Eppure è dal legno della croce
che Dio ha deciso di attrarre l’umanità a sé. Di fatto, in quello che Gesù ha compiuto,è nascosto il
senso profondo dell’amore di Dio. Gesù stesso, poi, ci ha offerto gesti e parole per entrare dentro alla
comprensione del più grande mistero dell’umanità. Nell’ultima cena, infatti, secondo la narrazione di
Giovanni, Gesù ha lavato i piedi agli apostoli e poi li ha invitato a fare lo stesso, Lui, il maestro si è
umiliato, si è fatto servo dei discepoli per mostrare loro il cammino che dovevano compiere. Poco
più avanti Gesù offre a loro anche il comandamento che, se vissuto, sarà il segno di riconoscimento
della sua presenza in mezzo a loro:
“Amatevi gli uni gli altri come vi ho amato. In questo conosceranno che siete miei discepoli se avrete
amore gli uni per gli altri.”
Gesù, quindi, non fornisce solamente un comando,ma anche le modalità. Gli apostoli infatti sono
invitati ad amarsi non in modo generico, ma ”come Gesù li ha amati”. E Gesù li ha amati servendoli,
abbassandosi, portando anche il peso dei loro peccati oltre che dei nostri. L’inculturazione del
Vangelo, in questa prospettiva, esige il farsi servo dei fratelli e delle sorelle che si incontrano,
portando il peso dei loro peccati senza giudizi, anche perché alla fine dei conti nessuno di noi è Gesù.
5 Discese per risalire
L’ultimo elemento sul quale vorremmo fermare l’attenzione è il dato teologico dell’incarnazzione.
Gesù infatti non solo è disceso, si è fatto servo condividendo la nostra condizione umana eccetto il
peccato: ma aveva un motivo. Mentre parlava con gli uomini e le donne, mentre serviva l’umanità
Gesù sapeva bene dove voleva condurla. E’ S.Paolo che ci ricorda, non solo che “Dio inviò suo figlio
nato da donna,nato sotto la legge”nell’ora stabilita, ma che ciò è avvenuto affinché “venissero
riscattati i sudditi dalla legge e noi ricevessimo la condizione di figli”.
Questa tensione teologica che Gesù ha manifestato continuamente durante la vita, è ben visibile nella
costante preoccupazione di compiere la verità del Padre. In Giovanni, questa preoccupazione diventa
come un ritornello: “ Il figlio non fa nulla per se stesso, se non quello che vede fare dal Padre. Ciò
che il Padre fa, il figlio lo fa ugualmente “. E così, in ogni gesto e parola di Gesù, il mondo deve poter
riconoscere la potenza del padre. Gesù è disceso per tornare al Padre, ma non per ritornare a mani
vuote.nel contesto di quello che chiama la preghiera sacerdotale, Gesù prega non solo per la salvezza
dei suoi discepoli, ma anche per la fede di coloro che non sono nel mondo, mostrando così il taglio
universale del piano salvifico di Dio “Affinché il mondo creda”.
C’è un’altra situazione che manifesta la preoccupazione costante di Gesù di rimanere attento al piano
salvifico del Padre per non trasformare la discesa in un sfracello.
E’ il modo di pregare di Gesù. Di fatto, come ci mostrano i Vangeli, Gesù quando prega, non ripete
delle formule o non compie semplicemente dei riti. Il suo modo di pregare è diverso, carico di
relazione,dimostrando la dimensione filiale del suo rapporto con il Padre. E così lo troviamo all’alba
in un luogo isolato in preghiera; nello stesso atteggiamento lo si incontra di notte su di una montagna
da solo e infine nell’orto del Getsemani la notte prima di morire Gesù è in ginocchio “e pregava”.
Nei pochi, ma significativi brani che incontriamo sulla preghiera di Gesù, pare evidente lo sforzo di
una ricerca costante della volontà del Padre, rimettendo nelle sue mani le preoccupazioni e i problemi
che l’incontro con l’umanità avvolta nel peccato, stava provocando. Soprattutto, però, nella preghiera
solitaria e costante di Gesù al Padre c’è la preoccupazione di non perdere il senso del percorso
intrapreso. Niente, quindi, di determinismo o di qualcosa che faccia intravedere una mancanza di
libertà nell’azione di Gesù. Al contrario, la sua preghiera profonda mostra la libera adesione alla
volontà del Padre, ma una volontà accolta dall’amore e costantemente cercata perché “il Padre ama
il figlio e gli pone tutto nelle sue mani”.
Il Verbo divino è dunque disceso dal cielo non per rimanere impigliato nella rete del peccato,ma per
sconfiggerlo e liberare l’uomo dalla schiavitù, per ricondurre l’umanità verso il cielo. E’ disceso per
ascendere: “che cosa significa ascese se non che era disceso nelle regioni più bassa della terra?
Coliche è disceso è lo stesso che è salito al di sopra del cielo per purificare l’universo”.
Per questo la Chiesa, nella notte di Pasqua, esplode in un alleluia pieno di allegria, perché ringrazia
il Verbo divino non solamente di essere disceso in mezzo a noi ma che,nonostante questa discesa
fosse piena di pericoli e di insidie, non ha perso di vista l’obiettivo finale risalendo al Padre. La fedeltà
al progetto del Padre ha fatto diventare la discesa del Verbo il cammino che l’umanità intera deve
percorrere per risalire al Padre. “Ci ha lasciato l’esempio” ci ricorda l’apostolo Pietro “affinché
seguissimo le sue orme”.
6 Riflessione Conclusive
Nel cammino di inculturazione del Vangelo si intravedono dei momenti che sono allo stesso tempo
complementari e contemporanei. Il primo è quello che abbiamo tentato di descrivere nelle pagine
precedenti e cioè l’incarnazione, vale a dire il cammino che la Chiesa compie quando va all’incontro
degli altri per annunciare il Vangelo. Il secondo momento è ciò che avviene quando, nell’annuncio
del Kerigma, si comincia a tessere la relazione con il mondo,al quale ci si sta rivolgendo, scoprendo
così modi di essere, di fare, in altre parole, culture o religioni differenti. Sfogliando le pagine della
già abbondante letteratura sul tema in questione, è curioso notare che, se da un lato si incontrano
buoni e poderosi volumi sul secondo elemento, sul primo non si trova quasi nulla. Per trovare
qualcosa di significativo sul tema dell’incarnazione legato all’inculturazione del Vangelo, è
necessario andare alle pagine di diario e di appunti personali di quelle persone che hanno preso sul
serio le parole pronunciate da Gesù nell’ultima cena: “Vi ho dato infatti l’esempio, perché come ho
fatto io, facciate anche voi”. E così nelle lettere di Matteo Ricci e di Charles de Faucald, nelle note di
Paolo Manna e nello studio del dialogo interreligioso di Ettore Frisotti troviamo spunti sul cammino
che deve compiere l’uomo, e la donna, la Chiesa che incontra un’altra cultura. E’ in ogni modo un
silenzio che rivela più di mille parole. Di fatto, il cammino di incarnazione pone dei problemi non
tanto alla cultura che si incontra ma, prima di tutto alla nostra persona, alla nostra struttura psicologica
e alla nostra vocazione. Di fatto, l’iculturazione del Vangelo prima di essere un incontro tra culture e
religioni, è un incontro tra persone. E qui nasce il dilemma perché, andando all’incontro dell’altro,
posso essere più o meno disposto non solo a conoscere o ad amare l’altro ma, al tempo stesso, a
lasciarmi conoscere e amare dall’altro. Per questo i tempi sono importantissimi. Non si può pensare
di amare tutto un popolo, una razza, una cultura per avere fatto un corso di due mesi. Nemmeno poi
ci si può illudere di amare i suddetti popoli e razze per il semplice fatto che si va a vivere nelle loro
terre per alcuni anni. Come ci ha insegnato Gesù è necessario sentire il desiderio di vivere come loro,
somigliando a loro. E’ come se, facendo un esempio, ad un prete o ad una suora venisse in mente di
andare a vivere in un campo di nomadi o nelle case di alcuni albanesi immigrati o di alcune famiglie
del Senegal. E’ chiaro che per farsi aprire la porta ci sarebbe da conquistare la fiducia. Per abitare in
mezzo a noi, per avere una carne simile alla nostra Gesù è disceso, si è abbassato, si è fatto servo. Per
conquistare la nostra fiducia è morto al nostro posto.
Non basta desiderare di essere come loro, di abitare in mezzo a loro.
La storia della Chiesa è piena di esempi e di persone animate da un fortissimo ardore missionario, ma
che poi si sono perse lungo il cammino. Gesù è sceso per risalire nuovamente. Gesù nei fratelli che
incontrava vedeva il volto del Padre. Per avere questa visione pura, libera occorre avere il cuore pieno
di Dio. Per desiderare di salvare la propria anima assieme alle anime delle persone che si amano nel
Signore, occorre mantenere lo sguardo fisso su Gesù, “autore e perfezionatore della nostra fede”. Ciò
significa che l’inculturazzione del Vangelo non può passare solamente per una promozione culturale
e sociale. Di fatto è l’inculturazione del Vangelo si fonda sul mistero del Verbo, è un cammino di
discesa che manifesta una provenienza:il Padre.
Ancora una volta non si possono separare i due movimenti: incontro con le culture e incarnazione
fanno parte dello stesso cammino di discesa e risalita al Padre. Spetta a noi mantenerci fedeli al
progetto di Dio e capire che non ci potrà mai essere alcuna inculturazione del Vangelo se non
percorrendo quel cammino di discesa che è stata l’incarnazzione del Verbo.