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GINO VALLE E IL FASCINO DELLA NON FORMA La ponderosa monografia Gino Valle curata da Pierre Alain Croset e Luka Skansi e da poco pubblicata da Electa, offre numerosi elementi di interesse, intanto viene completata la documentazione sull'attività progettuale che nel volume precedente si arrestava al 1988, aggiungendovi le opere realizzate fino al 2003 anno della sua scomparsa, merita poi segnalare che le ricerche si sono svolte nello studio a Udine, attingendo dai tanti materiali anche inediti ivi conservati che Piera Ricci Menichetti ha generosamente messo a disposizione, coadiuvata dal figlio Pietro Valle, con il quale prosegue l'attività dello studio udinese. Parte da una diversa valutazione del contesto familiare il nuovo approccio all'opera di Gino Valle proposto dai due curatori della monografia, poiché la consultazione dell'archivio del padre Provino (ugualmente conservato a Udine) ha consentito di mettere a fuoco il fervido periodo di collaborazione durante gli anni di frequenza alla facoltà di Architettura di Venezia in uno studio che aveva la dimensione della bottega artigiana, modello che poi avrebbe guidato i passi successivi dell'attività professionale alla quale si sarebbe unita anche la sorella Fernanda (Nani). Gino Valle fa esperienza diretta di quanto va apprendendo nel percorso universitario e questo imprinting lascia una traccia indelebile, così si può spiegare la lucida consapevolezza di sé che gli permette di affermare di non avere mai avuto rapporti "maestro-allievo", né durante gli studi a Venezia, ma neppure durante il soggiorno americano (1951-1952) quando ha modo di confrontarsi con Wright e Gropius, nei confronti dei quali esprime delle riserve, con l'eccezione di Mies van der Rohe con cui confessa che gli sarebbe piaciuto "litigare". Una vera ammirazione la esprime nei confronti di Alvar Aalto, che gli ha insegnato la "non forma" un concetto che da allora ha fatto proprio intendendolo come una derivazione dal mondo della natura piuttosto che un'opera dell'uomo, vale a dire uno spazio da utilizzare in quanto tale. In questa dichiarazione si può cogliere uno dei fattori che hanno reso difficile individuare delle "gabbie critiche" nelle quali racchiudere la sua opera, spesso ritenuta inclassificabile o eterodossa, con piena consapevolezza da parte dell'architetto che preservava orgogliosamente questa sua libertà, immaginandosi come un "indiano con le piume sulla testa, osservabile da lontano, ma non catturabile". La sua eterogeneità potrebbe essere inquadrata dal termine eclettismo, da intendersi filologicamente come capacità di individuare e scegliere temi con i quali poi operare una sintesi, che risulta poi essere l'opera stessa: vale la pena di ricordare che, come Picasso, Valle sosteneva di essere uno che "trova". L'esperienza negli Stati Uniti segna una tappa fondamentale, dato che Valle trova conferma al pragmatismo che aveva assimilato dal padre e questa ammirazione è ricambiata, dato che sono inglesi e americani i primi critici a accorgersi di questo giovane italiano eccentrico che sentono affine. L'ammirazione si accompagna a un giudizio molto critico nei confronti dell'architettura italiana del dopoguerra che secondo Reyner Banham ha abbandonato la strada della modernità rifugiandosi nel passato: secondo Valle questo ripiegamento viene giustificato adducendo argomenti come "ambientazione nel paesaggio, ricerca del linguaggio vernacolare, recupero dei revivals storici" mentre a suo parere è frutto del senso di colpa per essersi piegata alla speculazione immobiliare. Come nel suo stile Gino Valle fa nomi e cognomi e sul banco degli accusati finisce Ernesto Nathan Rogers il quale dalle pagine di "Casabella" aveva fatto criticare il grattacielo Vriz (1950-1952) realizzato a Trieste: egli infatti non riusciva a accettare che Banham avesse attaccato la sua Torre Velasca a Milano preferendole l'edificio a torre realizzato dall'architetto friulano. Erano gli anni delle polemiche sul Neo-Liberty italiano tacciato di passatismo, una etichetta scomoda che era totalmente meritata a detta di Valle, il quale - a Rogers che si lamentava delle critiche ricevute - aveva ribattuto che «se si porta un elefante in città mica lo si può mettere in costume!». Gino Valle non ha mai apprezzato il mimetismo né sotto il profilo architettonico e tanto meno etico, come dimostrano i suoi interventi nel tessuto urbano, dove la storia viene intesa come traccia della memoria, soggetta a una capacità di interpretazione che non maschera ma anzi esalta talvolta la differenza tra passato e presente. È il caso del palazzo Talmone-Brigo a Udine in via Mercatovecchio dove un materiale icona dell'architettura contemporanea come il ferro viene scelto perché è quello che secondo Valle meglio si accosta alla vicina facciata in pietra e intonaco, per poi scoprire che lo stesso dipinto in rosso traduce in modo ottimale la struttura in legno delle case medioevali e anche se a Udine non esistevano più, bastavano i dipinti di Carpaccio e Canaletto dove si rappresentava una Venezia con le case di legno: è sempre l'arte la miglior giustificazione per sé stessa. Il dialogo con il contesto urbano è proseguito e quando Valle si è messo alla prova con la dimensione della metropoli – New York, Parigi – le soluzioni si sono fatte ancora più interessanti: è il caso dell'isolato Edouard VII commissionato dalla Société Générale dove rimette ordine al "ciclo delle trasformazioni del sito" restituendo qualità agli spazi. Quella di Valle è sempre una ricostruzione "critica", attenta quindi a prendere atto dell' hic et nunc, considerando che «l'alternativa non è tra conservare o demolire, ma convertire il passato trattandolo come un presente». Trasformazione è la stella polare verso la quale si orienta la progettazione di Gino Valle, sempre mutevole perché ogni volta cambiano i fattori costituenti e questa capacità di rimettersi in gioco, accettando di fare tabula rasa di quanto realizzato in precedenza, è il faticoso pedaggio che si paga alla vera conoscenza: sapere di non sapere. L'interesse e la lunga e fruttuosa frequentazione con il mondo dell'industria cominciano con il design – per Solari e Zanussi – e poi si estendono alla progettazione di fabbriche e uffici, depositi e magazzini (Fantoni, Bergamin, Dapres, Olivetti) dove l'architetto ha la possibilità di sperimentare materiali strutture e forme innovative: liberi da vincoli di centri urbani ricchi di storia gli edifici puntano a una modularità che è coerente alla prefabbricazione, ritrovando nell'essenzialità degli elementi il senso di un dialogo con il contesto ambientale e paesistico che apparteneva all'architettura greca, tanto che Valle paragona gli edifici della Fantoni ai templi di Paestum. Nella progettazione industriale poi si pone con maggior evidenza un altro dei filoni di ricerca dell'architetto, vale a dire quello degli aspetti strutturali che costituisce comunque una costante della sua architettura, da lui intesa sempre come "costruzione". Dai pilastri che reggono la copertura a pagoda delle Terme di Arta, al quadrato sorretto da tre piedritti del Monumento alla Resistenza di Udine, agli elementi prefabbricati per la Valdadige, Gino Valle non ha mai nascosto il suo interesse per l'ingegneria e una indagine in questa direzione potrebbe rivelarsi molto stimolante. Più che offrire la sintesi di un'attività progettuale intensa, la monografia presenta la complessità dell'opera di Valle che rivela tutta la propria attualità proprio nella capacità di un continuo auto-rinnovamento che secondo l'architetto è coerente con il significato della professione, fatta di "una continua ricerca per testimoniare attraverso la forma, senza mai poterla possedere. Il possesso della forma o questa illusione è la fine dell'architetto". Il volume verrà presentato a Udine venerdì alle 17 nel Salone del Parlamento del Castello e vi parteciperanno oltre agli autori, l'architetto Boris Podrecca e Pietro Valle e l'assessore all'Urbanistica del Comune di Udine Maria Grazia Santoro.