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Giovanni Brina. Busto di Cristo

Una vecchia expertise (2007) che anticipa uno studio su Giovanni Brina in fase di realizzazione e che tratterà anche di questo argomento.

ALESSANDRO NESI UN BUSTO DI CRISTO DI GIOVANNI BRINA Olio su tavola, cm. 83 x 68 1 ALESSANDRO NESI UN BUSTO DI CRISTO DI GIOVANNI BRINA I fratelli Francesco (1) e Giovanni Brina (2) furono entrambi allievi di Michele Tosini nella sua bottega di Piazza Strozzi a Firenze, già appartenuta a Ridolfo del Ghirlandaio, e che fu nel corso del Cinquecento uno degli atelier artistici più importanti e prolifici in città. Successivamente però se ne staccarono per aprirne uno loro al Canto dei Tornaquinci, in una torre oggi non più esistente affacciata sull’attuale via Tornabuoni, in prossimità di Palazzo Strozzi, e quindi non distante dal luogo ove si era svolta la loro formazione artistica. Anche per tale motivo rimasero in contatto con Michele e con gli altri suoi discepoli, anche quando altri tra di loro si resero indipendenti, come nel caso di Niccolò Betti, che allestì una propria bottega nei pressi della vicina Piazza Antinori (3). E questa costante frequentazione fece sì che i due prendessero spesso parte ad imprese collettive, o continuassero a replicare per conto di Michele i suoi fortunati prototipi di Madonne col Bambino, di Sacre Famiglie o di Annunciazioni che tanto successo avevano avuto già a partire dalla metà degli anni cinquanta del Cinquecento, tanto da esser riproposti con una cadenza quasi “seriale”, spesso anche a scapito della tenuta qualitativa. Contemporaneamente i due fratelli inaugurarono però una loro personale produzione di immagini sacre destinate principalmente alla devozione domestica, costantemente ripetute con limitate varianti e, anche in questo caso, con una differente caratura qualitativa che può giustificare una partecipazione di altri artisti (ad esempio il già citato Betti) al positivo riscontro ottenuto presso la clientela. Si tratta soprattutto di Busti di Cristo, benedicenti o con la mano destra significativamente portata al cuore, e il volto dolcemente inclinato, campeggianti su uno sfondo scuro e con un panneggio svolazzante dietro le spalle. Allo studio e al “censimento” di queste immagini (molte delle quali comparse sul mercato dell’arte), mi sto dedicando da tempo in previsione della stesura di un saggio, del quale il presente scritto, incentrato su una di esse (fig. 1), costituisce un’anticipazione (4). Fig. 1 Ma un’analisi che sia prevalentemente tipologica trova inoltre la sua giustificazione per via del fatto che al quadro è stato dedicato uno studio dallo storico dell’arte Federico Berti, che ne ha correttamente individuata la pertinenza alla produzione di Giovanni Brina su base stilistica, e quindi 2 riproporre nuovamente il discorso attributivo nel suo complesso sarebbe soltanto una ripetizione . In effetti il minore dei due fratelli è quello cui può essere attribuita la gran parte di questi Busti di Cristo finora riemersi, tanto da lasciar supporre che a lui spetti l’invenzione compositiva di base, per la quale non è significativamente riapparso alcun prototipo di mano di Michele Tosini. O di suo figlio Baccio, che ne ereditò la bottega e sembra esser stato l’inventore di molte soluzioni iconografiche poi divulgate da Giovanni stesso, dal Betti o da Francesco Traballesi (5). Giovanni affresca ad esempio per ben due volte il soggetto nel convento di Santa Maria del Sasso a Bibbiena (Arezzo) nel 1567: entro un tondo sul coronamento del tempietto votivo che si trova al centro del Santuario casentinese (fig. 2), e poi sopra la porta del Refettorio (fig. 3)(6). Fig. 2 Fig. 3 Nel primo caso il Cristo viene rappresentato benedicente, e, allo stadio attuale delle ricerche, si tratta dell’unica redazione conosciuta di questa variante iconografica, mentre l’affresco del refettorio conventuale domenicano del Sasso presenta la consueta raffigurazione con la mano al cuore, resa però con un interessante effetto di trompe-l’oeil, ovvero come se si trattasse di un dipinto incorniciato e appeso al muro. A questa opzione formale appartiene anche una bella redazione ascrivibile a Francesco, ancorché passata sul mercato con riferimenti a Maso da San Friano e ad “Anonimo fiorentino, 1575 circa” (fig. 4)(7). L’attribuzione di tale dipinto al più anziano dei Brina è già stata proposta da chi scrive nel 2006 (8), e accolta dal Berti nella sua scheda di studio sul quadro in esame, ed è argomentata sia sul piano stilistico che cronologico dal confronto con la figura del Cristo che Francesco inserì nella notevole Resurrezione da lui firmata e datata nel 1570 per l’altare della famiglia Alessandrini nella chiesa fiorentina di San Michele Visdomini (fig. 5): i volti delle due figure sono infatti praticamente identici, e anche la stesura pittorica è quella densa e corposa, bronzinesca, tipica di Francesco, e non quella maggiormente liquida e trasparente che invece sempre compete a Giovanni. Ne risulta che il quadro già Christie’s è databile al 1570 circa, e che dunque segue di qualche anno le redazioni del Busto di Cristo affrescate da Giovanni al Sasso di Bibbiena. Anche se di qualità superiore al resto della serie, esso non può dunque esserne riconosciuto come prototipo, e questo sembra, almeno per il momento, avvalorare l’ipotesi che l’autore dell’invenzione compositiva sia lo stesso Giovanni. 3 Fig. 4 Fig. 5 La redazione che qui si approfondisce (fig. 1) si differenzia dalle altre per la presenza di una scritta in alto, “IPSI GLORIA ET IMPERIU(M)”, che nelle altre versioni su tavola finora ricomparse non si ritrova (9), e della quale già il Berti ha precisato la derivazione da un passo dell’Apocalisse (1,6). Se il dipinto, come si è accennato, è perfettamente pertinente al catalogo di Giovanni, per via della stesura morbida e leggera, che in alcune sezioni assume quasi la consistenza acquerellata consona al Michele Tosini più lirico e suggestivo, entro la serie dei Cristi brineschi i suoi punti di riferimento più calzanti appaiono essere quello del refettorio del Sasso, una versione da me resa nota nel 1999, e in precedenza ascritta al bolognese Prospero Fontana (10), e, soprattutto, questa tavola passata sul mercato nel 1998 come opera di “Scuola di Michele Tosini” (fig. 6)(11). Fig. 1 Fig. 6 Infatti, nell’ambito di una costante identità di composizione e di postura, qui ad accomunare i due dipinti è anche la caratterizzazione somatica del volto dolce, ma un po’ austero, con la barba che sembra acquistare una maggiore consistenza, una maggiore massa volumetrica, e allunga notevolmente l’ovale del volto. In entrambi i dipinti appare inoltre appena suggerita la grossa aureola crociata che invece negli altri quadri e affreschi della serie assume una incombenza fin troppo rilevante. Per il resto la versione comparsa sul mercato nel 1998 appare più scura per via dei depositi di nerofumo e le vernici che probabilmente ne offuscavano la superficie dipinta, mentre la 4 nostra appare in tutta la luminosità della sua intonazione cromatica: il rosa tendente al rosso della veste, che si pone in stridente e un po’ algido contrasto col grigio-azzurro cangiante del manto, mentre la nota calda dell’incarnato e il bruno dorato della barba e dei capelli creano un contrappunto di grande e pacata dolcezza. Altro dettaglio interessante che caratterizza il dipinto che qui si analizza, è la presenza sul retro di un monogramma costituito da una G maiuscola con al suo interno una piccola F minuscola e seguita da un asterisco (fig. 6). Purtroppo non è stato possibile appurare se tale contrassegno compaia anche sugli altri Busti di Cristo brineschi riferibili a Giovanni o su altre opere di quest’ultimo. Si può comunque notare come la costruzione grafica della lettera G sia identica alla stessa lettera che compare nella parola “GLORIA” della scritta sul recto del quadro (fig. 7). La scritta sulla superficie dipinta è risultata autentica alle analisi effettuate dal restauratore che ha avuto in cura il dipinto per conto dell’attuale proprietario, e fu dunque apposta al dipinto dallo stesso Giovanni Brina. Anche il monogramma sul retro potrebbe dunque risalire allo stesso pittore, e costituire forse un contrappunto alle firme che il fratello Francesco apponeva spesso per esteso, e a caratteri cubitali, sulle sue tavole d’altare. Fig. 7 Fig. 8 Esso potrebbe dunque sciogliersi come “Giovanni Fecit”, e successive indagini mirate potranno eventualmente consentire di individuarne la presenza anche in altre opere dell’artista, sebbene altre sue opere, ad esempio le due tavole d’altare realizzate nel 1580 per la Pieve di Buggiano (Pistoia), siano firmate diversamente (12). Va detto comunque che in questi casi si trattava di dipinti destinati all’esposizione pubblica, e che avrebbero potuto procurare all’artista qualche nuova e significativa allogazione. Nel nostro caso si tratta invece di un quadro da devozione privata, certamente destinato a una fruizione più raccolta, ma comunque eseguito con grande impegno, e quindi di qualità notevolmente sostenuta. Firenze, 22 ottobre 2007 Alessandro Nesi nesi.arte@yahoo.it 5 NOTE 1. San Felice a Ema (Firenze), 14 gennaio 1529 – Firenze 4 marzo 1586. 2. San Felice a Ema (Firenze), 10 marzo 1534 – Pisa, dicembre 1599. Per entrambe le date di nascita e per la data di morte di Francesco cfr. Nesi 2006, p. 261. Per il dato cronologico relativo alla morte di Giovanni, invece, cfr. ad esempio Colnaghi 1928, p. 53. 3. Nesi 2006, p. 267, con altra bibliografia. 4. Al proposito cfr. comunque già Nesi 2006, p. 267. 5. Cfr. Nesi 2006, pp. 264-267, e, per Francesco Traballesi, Nesi 2007, pp. 267-268. 6. I documenti relativi a questi affreschi sono in Giordano 1984, pp. 249 e 260. 7. Sotheby’s London 18 ottobre 1989, n° 25 per il riferimento ad anonimo, e Christie’s New York, 14 gennaio 1993, n° 132, per Maso. 8. Cfr. Nesi 2006, p. 267, dove la foto dell’opera non è stata inclusa per errore redazionale. 9. Scritte compaiono comunque attorno alle redazioni affrescate da Giovanni sul coronamento del tempietto e nel refettorio di Santa Maria del Sasso a Bibbiena: anche in questo caso si tratta di citazioni dai testi sacri. 10. Cfr. Nesi 1999, p. 8. 11. Sotheby’s London, 17 dicembre 1998, n° 378. 12. Entrambe sono firmate “IOANNES DE BRINA FACIEBAT”. Su di esse cfr. Nesi 1999, con bibliografia precedente. BIBLIOGRAFIA DI RIFERIMENTO SU GIOVANNI BRINA: BACCI, M., voce Brini Francesco e Giovanni, in Dizionario Biografico degli Italiani, 14, Roma 1972, pp. 318-319. BERTI, F., Giovanni Brina. Busto del Redentore, scheda critica. COLNAGHI, D.E., A Dictionary of Florentine Painters, London 1928. GIORDANO, B., S. Maria del Sasso. Un fiore del Rinascimento in Casentino, Cortona 1984. GIOVANNETTI, A., voce Brini Francesco, in La pittura in Italia. Il Cinquecento, Milano 1988, p. 655. MELONI TRKULJA, S., schede in AA.VV., Il primato del disegno, catalogo della mostra, Firenze 1980, pp. 82-83. NESI, A., Giovanni Brina in Valdinievole, in “Nebulae”, 12, 1999, pp. 6-8. NESI, A., Ombre e luci su Francesco Brina, in “Arte Cristiana”, XCIV, 2006, 835, pp. 261-276. NESI, A., Dai dipinti per l’antica iconostasi di S. Atanasio dei Greci a Roma, uno spunto critico per le opere toscane di Francesco Traballesi, in “Arte Cristiana”, XCV, 841, pp. 263274. VENTURI, A., Storia dell’arte italiana, IX,5, Milano 1932, pp. 269-273. 6