GIAN CARLO GARFAGNINI
NEOPLATONISMO E SPIRITUALISMO NELLA FIRENZE
DI FINE QUATTROCENTO: GIOVANNI NESI
Giovanni Nesi viene da varie esperienze: era aristotelico; morto Donato
Acciaiuoli, suo maestro, ha ripudiato sillogismo, metodo empirico, spirito
scientifico, passando a Ficino; coltiva un repertorio visionario, dal pellicano
immortale alla Gerusalemme celeste, su deliquescente fondale erotico-mistico
[...]; laurenziano, non resiste al sole fratesco; due sonetti (uno, Ad se ipsum, 10
ottobre 1497) cantano neoplatonicamente rifiuto del passato, conversione,
renovatio. Engagé, serve San Marco a modo suo, con una fantasmagoria onirica sfrenatamente eclettica impastando astrologia, simbolismo ermetico, figure neopitagoriche, fantasie apocalittiche, fiaba fiorentina, profetismo savonaroliano: all’apogeo piagnone, 1496, ha composto un Oraculum de novo saeculo;
e gli esce nel momento meno fausto (Lorenzo Morgiani, 8 maggio 1497),
dedicato all’amico Gianfrancesco Pico. È un sogno, dove avvengono cose
dell’altro mondo, alla lettera.1
Cosı̀, come in un crescendo rossiniano (peraltro godibile dal punto
di vista letterario), uno dei moderni e, per molti aspetti, più acuti studiosi della vicenda savonaroliana introduce alla trattazione del Nesi
‘piagnone’; e non v’è dubbio che alla scarsa simpatia ispiratagli dal frate
ferrarese faccia buon riscontro un’altrettanto feroce ironia nel tratteggiare il carattere di questo suo sostenitore.2 Ma, possiamo chiederci,
F. CORDERO, Savonarola, IV, Agonista perdente 1497-1498, Roma-Bari, Laterza, 1988, p. 100.
Si legga quanto segue al passo citato nel testo: «qualcuno gesticola sulla luna col baculus,
seminando denti di drago; il sole lo illumina e un coppiere gli versa nettare sulla lingua; quando apre bocca, le parole dividono gli ascoltatori, suscitando effetti salutari o devastanti; su ‘prata quaedam virentia atque florentia’, i fortunati edificano una città simile alla Gerusalemme
celeste; ‘ego constitutus sum rex super Syon sanctum vestrum’, segnala una croce sospesa
in aria; viene un eroe, declama il dignitario seduto al tempio, con due tavole; nell’aurea i destini della città e, sull’argentea, le relative norme. Espansione gloriosa e palingenesi [...]. Indi
metamorfosi: da oca a cigno; un verme asiatico nato da antiche ossa, diventa fenice coabitando
con un leone nella città solare; volano sei aquile; fenice-aquila figliano varie specie. Sopraf1
2
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si tratta di una polemica ben diretta? O non si ferma piuttosto al sapiente, e caustico, bozzetto di atteggiamenti culturali caratteristici di un’epoca nella quale vissero tanti uomini dediti allo studio delle humanae
litterae che, nelle loro opere, travasarono nelle forme più varie, ed anche più lontane dalla nostra sensibilità, un modo di leggere e vivere le
difficoltà del loro tempo, le inquietudini di una temperie storica che
segnalava la crisi ed il mutamento dei codici culturali e spirituali sino
ad allora ritenuti validi e vitali? E che, nello stesso tempo, manteneva
un filo di continuità con la tradizione, ed i valori, della società della prima metà del Quattrocento che la rivoluzione savonaroliana, pur nel
suo epilogo drammatico, aveva contribuito in qualche modo a mantenere in vita? Da questo punto di vista, a me sembra, Giovanni Nesi rappresenta un ottimo punto di osservazione, sia nella sua contestualità
con i ‘laurenziani’ ed i ‘confilosofi’ ficiniani sia nella sua adesione alla
parte fratesca. Non si tratta tanto di salvare sempre e comunque l’esperienza del passato in nome di un generico de mortuis, nihil nisi bonum,
quanto di vedere se, ed in quale misura, vi sia sostanza, tensione concreta e sincera al di là delle formule retoriche e di un linguaggio artificioso, oscuro e talvolta sicuramente poco comprensibile nel quale egli
esprime ansie, speranze, illusioni e, naturalmente, delusioni che furono
non solo sue.
Nato nel 1456, Nesi 3 fa il suo ingresso in società, per cosı̀ dire, agli
inizi degli anni Settanta con alcuni sermoni nelle confraternite laiche a
indirizzo religioso di cui è ricca la Firenze del suo tempo, e che costituiscono una palestra ed un apprendistato quasi indispensabile per coltivare amicizie politiche con prospettive di carriera ed una via privilegiata per entrare a far parte dell’élite culturale del circolo che si riunisce
intorno alla famiglia dominante. I temi di questi sermoni – quelli che ci
fatto dal caleidoscopio, l’autore-sognante chiede aiuto. Gli risponde un pennuto saturnino,
picus, espertissimo d’arte divinatoria (Giovanni Pico, inutile dirlo), e chiosa affabilmente i
simboli: il locatore sulla luna è Girolamo Savonarola, Socrate ferrarese, mandato da Dio a Firenze, ombelico della penisola; fa mirabilia, molti dei quali occulti, avendo studiato Bibbia,
Cabala, Platone, Plotino; scelto dal cigno, Gianfrancesco Pico ha una parte cospicua nell’imminente guerra mistica; verme-fenice significa ‘renovatio Ecclesiae’; quel nido nella città solare è Firenze. Pastiche zodiacale su Cristo, Ariete, Leone» etc. (ivi, p. 101).
3 Per la biografia e la personalità di Giovanni Nesi, indispensabile il rimando a C. VASOLI,
Giovanni Nesi tra Donato Acciaiuoli e Girolamo Savonarola, in ID., I miti e gli astri, Napoli, Guida,
1977, pp. 51-128; ID., Pitagora in monastero, «Interpres», I, 1978, pp. 256-272; ID., L’hermetisme
dans l’Oraculum de Giovanni Nesi, in Présence d’Hermès Trismegiste, Paris, Albin Michel, 1988,
pp. 157-166. Cfr., inoltre, CH. S. CELENZA, Piety and Pythagoras in Renaissance Florence. The
Symbolum Nesianum, Leiden, Brill, 2001, lo studio introduttivo (pp. 1-83) e la ricca bibliografia.
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restano vanno dal ’72 all’’86 – sono di carattere sacro e, pronunciati per
lo più in occasione di solenni ricorrenze liturgiche,4 comportano un
ampio sfoggio di espressioni retoriche e citazioni bibliche e classiche,
secondo un uso, sia detto per inciso, duramente contestato da Savonarola. Dalla prima orazione in poi, comunque, si può notare un progressivo mutamento del linguaggio che non è riconducibile soltanto ad una
maggiore capacità oratoria; con il trascorrere degli anni, l’eloquio del
Nesi offre sempre più spazio a riecheggiamenti e moduli stilistici propri
dell’insegnamento e degli scritti di Marsilio Ficino, a testimonianza dell’adesione sempre più convinta del giovane alle teorie del dotto canonico. Da questo punto di vista, è stata giustamente posta in risalto l’orazione tenuta presso la Compagnia dei Magi il 23 marzo 1486, un
giovedı̀ santo, sul tema della carità. Sull’importanza di questa confraternita, di cui faceva parte il Magnifico Lorenzo con i suoi, è inutile soffermarsi dopo quanto hanno scritto Hatfield e Vasoli,5 ma per precisare
meglio il senso del passaggio del testimone da Acciaiuoli a Ficino, da
cui sono partito, vale la pena di citarne alcune frasi, tratte dall’esordio,
laddove Nesi sottolinea che la somiglianza dell’uomo al suo creatore
non sta nella dottrina, o nell’uso di ragione, ma piuttosto nella volontà,
e nell’amore:
Non ti comanda – è una voce, quella di Dio, che parla all’autore del sermone allorché questi cerca gli argomenti da esporre – la mosaica, non l’evangelica legge che con sottili et acuti syllogismi ricerchi e’ divini secreti, ma con
tutto il cuore, con tutto l’animo, con tutta la mente, ami la divina bontà. Imperò che si come il legno non per ricevere lume ma per accendersi diventa
fuoco, cosı̀ tu, non per investigare solamente la divina luce, ma per infiammarti del divino amore, divino diventerai. Tu se’ imagine et similitudine del
eterno dio, tanto più perfecta, quanto più efficacemente il tuo exemplare rapresenti. Più lo rapresenti per amore che per doctrina. Più in te riluce la sua
4 Per i testi, cfr. ivi, pp. 74-110: I. Joannis Nesij adolescentuli oratiuncula apud Coetum sancti
Nicholai habita die XIII decembris 1472; II. Oratione del corpo di Cristo da Giouanni Nesi composta,
et da lui nella Compagnia di sancto Antonio da Padua recitata. Die VIJ aprelis MCCCCLXXIIIJ; III.
Oratio Johannis Nesij adolescentis de eucharestia die XXIIJ Martij MCCCCLXXIIIJ; IV. Johannis
Nesij adolescentis oratio de humilitate habita in Fraternitate Nativitatis die XI aprelis MCCCCLXXVI;
V. Johannis Nesij oratio de caritade a N.P. habita in Sotietate Natiuitatis die XXV februarij
MCCCCLXXIJ; VI. Johannis Nesij oratio de charitate habita in Collegio Magorum die .XXIII martii.
MCCCCLXXXV.
5 Cfr. R. HATFIELD, The Compagnia de’ Magi, «Journal of the Warburg and Courtauld Institutes», XXXIII, 1970, pp. 107-161; O. ZORZI PUGLIESE, Two Sermons by Giovanni Nesi and
the Language of Spirituality in Late Fifteenth-Century Florence, «Bibliothèque d’Humanisme et
Renaissance», XLII, 1980, pp. 641-656; K. EISENBICHLER, The Boys of the Archangel Raphael.
A Youth Confraternity in Florence, Toronto, University of Toronto Press, 1998.
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effige amando che speculando, più gli piace chi l’ama che chi lo conosce. Et
chi lo conosce et ama, non perché lo conosce, ma perché l’ama, da lui è redamato. Non sa’ tu che l’ingegno uostro invano circa le superne cose si ravolge, se lume divino non s’infonde? Non s’infonde lume divino, se l’anima
ad la divina mente come la luna al sole non si converte? Non si converte se
prima del divino amore non si accende. Accesa allora l’anima del divino amore, il divino sole con aquilina vista contempla.6
Supremazia dell’amore, dell’affetto rispetto alla ragione, sono le
chiavi per la deificatio dell’uomo, perché l’uomo possa riconoscere il
Dio che l’ha creato come parte di sé e se stesso come parte di Dio.
È questo, quello dell’amore, il tema su cui Nesi insiste quasi ossessivamente in questo sermone, come negli scritti della sua maturità, quando
proprio nel nodo d’amore troverà una giustificazione all’avverarsi della
profezia della ‘renovatione’ del mondo. D’altra parte, non mancano
neppure echi ermetico-cusaniani, che insistono sull’unità complessa
del creato, in cui tutto è da Dio e a lui tutto ritorna: «Il cuore del corpo
è fonte dela uita corporale. Io, cuore de l’anima – dice la voce – sono
fonte de la uita spirituale. Dal cuore del corpo procedono tutti gli spiriti
uitali. Dal cuore de l’anima tutte le uirtù uiuenti. Il cuore è centro del
corpo. Io centro de l’anima. Il centro è indiuisibile puncto; niente di
meno tutte le linee da quello ad la circunferentia mosse complicate
in sé contiene, et in tutte quasi explicando si extende. Io sono indiuisibile unità; niente di manco in me exemplarmente tutte le uirtù, et me
formalmente in tutte le uirtù meritorie troverrete. Et come tutte le linee rectamente dalla circumferentia mosse tocchano il centro, cosı̀ tutte le uirtù rectamente exercitate ad me pervengono, in modo ch’io sono il punto onde si muove et donde ritorna ogni uirtù».7 In queste frasi
si fondono insieme due immagini, due richiami a concezioni filosofiche
diverse ma componibili tra loro nell’aspirazione ad una unità superiore:
il centro e la circonferenza nella loro reciproca, indissolubile dialettica
di complicatio – explicatio, con il successivo rinvio all’immagine del sole,
il Dio vivente, concepito come il cuore pulsante da cui scaturisce ogni
forma di vita e, quindi, di amore, ‘vita formale (cioè principio attivo)
dell’anima’ come l’anima lo è del corpo. Ed è un centro, il sole, cui
si attinge per il tramite dell’affectus che sublima ogni potenzialità materiale, che l’affina e l’innalza al di sopra e al di là del suo luogo naturale.
6
7
C. VASOLI, Giovanni Nesi, cit., p. 102.
Ivi, p. 105.
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O sole superceleste! O sole eterno, rappresentato al mondo dal celeste sole! Il sole celeste è creatura da dio creata; Tu sole superceleste, essentia increata. Quello è forma delle corporee creature. Tu forma dell’incorporee. Quello
illustra le stelle fixe. Tu gli immobili angeli, Quello illumina gli erranti pianeti. Tu le mobili anime. Quello dà la uita al’huomo esteriore. Tu all’interiore. Cieca rimane la potentia uisiua sanza il lume del celeste sole. In tenebre
si rauolge la potentia intellectiua privata del suo splendore. [...] Tu, coll’uno
et l’altro eternalmente unito, se’ ineffabil nexo della trinità, se’ indissolubil
nodo, se’ mirabile completo, il quale il uisibile et l’inuisibil mondo annodi
et completi. Per te è il uerbo umanato, l’huomo deificato, il peccatore saluato. [...] O philosophi, adunque, se uolete entrare nel sacratissimo tempio della
diuinità, aprite la porta, non la porta dell’intellecto, per la quale dio ad l’anima descenda, aprite la porta, ma la porta della volontà, per la quale l’anima a
dio ascenda. Per questa porta entrate coll’accesa fiamma, et uedrete l’inuisibil
mondo, conoscerete cose incredibili et vere.8
Temi cari alla speculazione platonizzante dei primi anni Ottanta a
Firenze, segnati dalle traduzioni e dalle lezioni ficiniane, ed incoraggiati
dalla benevola, partecipe e non disinteressata politica culturale del Magnifico, di cui Nesi si fa convinto propagatore proprio nella misura in
cui non ne dimentica, accanto alla valenza misticheggiante, l’elemento
politico e pratico. Proprio questo, per altro, è la caratteristica più interessante del De moribus,9 il dialogo filosofico in quattro libri che compose
nel 1484 (e che ripropose, poi, nel 1503 in ben altro contesto). L’oggetto dell’opera è costituito da una esposizione dell’insegnamento etico civile di Donato Acciaiuoli che, collocato nel 1477, viene presentato in
forma di dialogo tra il ‘maestro’ ed un gruppo di giovani esponenti
del patriziato fiorentino, come Filippo Valori, Bernardo di Alamanno
de’ Medici, Antonio Lanfredini e Iacopo Salviati; il contenuto, è invece
offerto da un rapido compendio, nei primi tre libri, dell’Etica Nicomachea, mentre il quarto si distacca nettamente e per lo stile e per le idee
e segnala il passaggio ad altra, più articolata e matura concezione filosofica. In effetti, vista la struttura, si può dire che anche qui il linguaggio
filosofico aristotelico serve da supporto ad una analisi delle virtù e dei
compiti dell’uomo e del cittadino, il quale può davvero considerarsi tale
soltanto nella misura in cui adempie al suo ufficio volgendosi a Dio come al suo fine ultimo, che tutti gli altri accoglie e indirizza. I primi tre
libri riguardano quindi le virtù civili proprie della vita pratica, politica e
Ivi, pp. 106, 108.
R. BONFANTI, Su un dialogo filosofico del tardo Quattrocento: il De moribus del fiorentino Giovanni Nesi (1456-1522?), «Rinascimento», II s., XI, 1971, pp. 203-221.
8
9
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mercantile, mentre il quarto si configura come una sorta di itinerarium
mentis ad Deum, secondo il quale la conoscenza razionale, fisica del mondo è la base perché invisibilia Dei per visibilia cognoscantur; da lı̀, se vogliamo dirlo con altre parole, dalla conoscenza scientifica si può puntare alla
contemplazione del sommo bene ed alla realizzazione del fine ultimo.
In pratica, alla metà degli anni Ottanta, quando Savonarola ha già
effettuato il suo primo, non fortunatissimo soggiorno fiorentino, Nesi
ha compiuto ben più della metà del suo percorso intellettuale; e, dall’interesse per la funzione civile della filosofia pratica aristotelica, con le
lezioni sul testo dell’Etica Nicomachea cosı̀ importanti per le generazioni
del primo Quattrocento e per lo sviluppo degli studi ‘umanistici’ (filosofici e filologici), è ormai giunto ad un approdo platonico e neoplatonico, ermetico ed astrologico corroborato, con l’ampio corredo dei
testi e commenti che conosciamo, dall’accademia ficiniana. Ma proprio
qui credo che dobbiamo fare attenzione. Come il suo aristotelismo non
consiste in una filosofia di tipo universitario, ma riguarda piuttosto tutto quell’insieme di riflessioni concernenti l’aspetto morale dell’agire
pratico, nella sua politicità ed eticità, che una consolidata tradizione
storiografica ha indicato come ‘umanesimo civile’, cosı̀ la sua adesione
nei confronti delle tesi ficiniane insiste soprattutto sugli aspetti religiosi
e sapienziali, nella ferma e convinta adesione alla verità cristiana. Che
poi questa verità gli si configurasse come la sintesi, ultima e definitiva,
sia di ogni modalità di rivelazione che di tutte le forme di conoscenza
del divino che dall’antichità, e per il tramite dell’ispirazione diretta o
indiretta dello Spirito, l’umanità aveva conosciuto è tutt’altra questione. Ma questo è comunque per Nesi il punto di convergenza più alto,
e la sintesi capace di rispondere alle ansie ed alle inquietudini che la situazione storica e la evidente inadeguatezza della chiesa a lui contemporanea come istituzione non erano in grado di sanare.
Il neoplatonismo che egli ricavava dai testi ficiniani si sostanziava
nell’idealizzazione dei saturnia regna, nell’ipotesi del loro recupero attraverso la riscoperta delle vie traverse (poeti teologi, magi e astrologi, antichi teologi) con le quali Dio aveva consentito che la sua rivelazione restasse a portata dell’intelletto degli uomini più puri e più saggi: sono
questi gli elementi che giungono ad un punto di fusione ottimale con
gli inizi degli anni Novanta, con il ritorno cioè di Savonarola a Firenze,10
all’insegna di una predicazione profetica che, partendo dal sociale, dalla
10 Mi sia consentito, per questi temi, il rinvio a G.C. GARFAGNINI, «Questa è la terra tua».
Savonarola a Firenze, Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, 2000.
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denuncia della corruzione della giustizia, della religione come pura esteriorità e della carità negata, proclama la necessità della ricostruzione di
una società giusta e, in essa, dell’uomo rinato in Cristo, l’ineluttabilità
delle tribolazioni e, con esse, la profezia dell’avvento del regnum Dei e
di Firenze nuova Gerusalemme. Gli anni dell’ultimo Lorenzo ed il breve interludio di quel Piero cui aveva dedicato il De moribus rappresentano una faccia della medaglia, a fronte della quale si pongono la tormentata riflessione filosofica e l’inquietudine religiosa di Giovanni
Pico, l’impegno deciso di Gianfrancesco Pico e l’affermazione apodittica, a sostegno della sua lettura del momento storico, del frate di San
Marco: Hoc dixit Deus. Nesi può quindi ben immaginare che sia giunto
il momento della realizzazione del suo ideale irenico e religioso.
Il biennio 1496/’97 è veramente l’annus mirabilis per la Firenze del
Savonarola: le difficoltà interne ed esterne crescono, il Consiglio Maggiore incontra sempre maggiori ostacoli nello svolgimento del programma di riforma (e non poche di queste si debbono agli stessi frateschi),11
Roma minaccia e poi fulmina la scomunica. Savonarola moltiplica il suo
impegno, chiama a raccolta i seguaci, predica con una continuità eccezionale, consapevole del fatto che in quei mesi si sta giocando la partita
decisiva. Ed in questo contesto vale la pena di allargare per un momento
lo sguardo: Domenico Benivieni pubblica il 28 maggio 1496 per i tipi di
Francesco Buonaccorsi il suo Tractato in difesa del frate e, subito dopo,
l’Epistola a uno amico responsiva a certe obiezioni e calunnie contra a frate Ieronimo da Ferrara; Giorgio Benigno Salviati fa uscire le sue Propheticae solutiones da Lorenzo Morgiani l’8 aprile 1497, Nesi il suo Oraculum de novo saeculo (dedicato a Gianfrancesco Pico), dallo stesso stampatore, l’8
maggio e nel corso dell’anno Benivieni interviene ancora con un terzo
scritto apologetico, il Dialogo della verità della dottrina predicata da frate Ieronimo da Ferrara nella città di Firenze.12 Tre autori, tre personaggi della
Firenze laurenziana che si schierano pubblicamente in favore del frate;
ma va notato che si tratta di tre percorsi diversi tra loro e le loro apolo11 Cfr. Savonarola e la politica, Atti del II seminario di studi (Firenze, 19-20 ottobre 1996),
a cura di G.C. Garfagnini, Firenze, Sismel - Edizioni del Galluzzo, 1997; Provvisioni concernenti
l’ordinamento della Repubblica fiorentina, 1494-1512, I, 2 dicembre 1494 - 14 febbraio 1497, a cura
di G. Cadoni, Roma, Istituto Storico Italiano per il Medio Evo, 1994 e II, 12 maggio 1497 29 dicembre 1502, a cura di G. Cadoni e F.M. Di Sciullo, ivi, 2000; G. CADONI, Lotte politiche e
riforme istituzionali a Firenze tra il 1494 e il 1502, ivi, 1999.
12 Per il primo testo cfr. D. BENIVIENI, Trattato in difesa di Girolamo Savonarola, a cura di
G.C. Garfagnini, Firenze, Edizioni del Galluzzo per la Fondazione Ezio Franceschini,
2003; gli altri due scritti del Benivieni e l’operetta di Giorgio Benigno Salviati sono editi
in G.C. GARFAGNINI, «Questa è la terra tua», cit.
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gie, per quanto gradite ed elencate debitamente in tutti gli scritti dei sostenitori di Savonarola, non riscuotono in realtà il completo apprezzamento di fra Girolamo. Sono utili, evidentemente, ma non dicono
quello che il frate di San Marco avrebbe voluto sentire da loro, anche
se tutti si sforzano di porre al centro della loro riflessione il tema centrale
della sua dottrina, e cioè la profezia ed il significato della missione affidatagli. Metterne in luce le differenze può aiutare a capire meglio sia il
loro pensiero sia quello del domenicano.
Benivieni, ad esempio, è certamente il più vicino ed il più organico
alla spiritualità del ferrarese, condivide con lui l’accentuazione biblica,
veterotestamentaria e scolastica, della lettura dei tempi, ma sottolinea
con una forza particolare il valore dell’impegno individuale, dell’interiorità della meditazione come via di salvezza aperta a tutti gli uomini,
sı̀ che ciascun cristiano nel suo dialogo ininterrotto con il Cristo che
per lui si è sacrificato possa giungere alla salvezza; la dimensione sociale
e politica, che tanta parte ha nella predicazione savonaroliana, gli resta
in fondo estranea, come del resto appare chiaro dal suo ripiegamento
intimistico successivo al supplizio del frate. Salviati, per parte sua, scrive
un’opera in cui presenta Savonarola come vero profeta, ma la sua concezione della profezia ha più a che fare con l’esegesi e la meditazione
del testo sacro che con l’ispirazione diretta dello Spirito di Dio cui si
rifà Savonarola, e viene cosı̀ meno, nella sua difesa, il punto centrale
su cui il frate aveva impostato la validità ed il significato della sua missione, fiorentina e universale: l’assoluta gratuità ed imperscrutabilità del
disegno divino, il senso comminatorio delle grazie promesse a Firenze
come punto di partenza di una renovatio che solo in virtù dello Spirito
poteva fare della città dell’Arno la nuova Gerusalemme.
Anche Nesi, nel suo Oraculum, incentra la sua visione sulla profezia,
vedendo in essa, come ha scritto Weinstein,13 una forma di potere che
13 Cfr. D. WEINSTEIN, Savonarola e Firenze. Profezia e patriottismo nel Rinascimento, trad. it.,
Bologna, Il Mulino, 1976, pp. 219-220: «[Savonarola] riteneva la profezia un dono divino
indipendente dalle qualità morali del profeta o dalla sua saggezza, e solo questo dono di
Dio rendeva l’uomo capace di prevedere il futuro. Inoltre, la profezia era un fatto storico, cioè
faceva parte di un piano divino che Dio non aveva ancora realizzato ma al quale avrebbe dato
compimento secondo le sue vie e secondo la sua volontà. Cosı̀ il fine della profezia rivestiva
unicamente un carattere religioso e cristiano [...]. D’altro canto, per Nesi la profezia era qualcosa di più che la predizione di azioni divine. Riguardava più il campo mistico, poetico e filosofico che il campo politico. Nesi sembra non aver fatto distinzione tra la facoltà di predire
eventi contingenti e la facoltà di conoscere verità sublimi, di penetrare i misteri dell’ordine
universale ed il significato della vita. Mentre per Savonarola la profezia era un fatto divino,
attraverso il quale l’uomo si umiliava davanti al suo Dio, per Nesi era mezzo attraverso il quale
l’uomo si rendeva padrone del suo destino, e si faceva con ciò simile a Dio».
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rende l’uomo simile a Dio, in quanto capace di penetrare i misteri dell’universo; niente di più lontano, però, dalla concezione savonaroliana,
secondo la quale la profezia è una grazia che pone, strumentalmente, il
recettore nella condizione di predire un’azione coerente all’ordo presente nella mente di Dio. Nesi, e si sente, è un allievo di Ficino, e continua a condividere l’iniziale entusiasmo con cui anche Marsilio aveva
salutato il ritorno di Savonarola a Firenze, dal momento che ritiene forse possibile mantenere unite le due diverse concezioni di rinnovamento
della Cristianità. Quel che è certo, è che nell’Oraculum egli si sforza di
porre in risalto gli elementi di convergenza più che le differenze,14 consapevole forse che la sconfitta del frate avrebbe significato la rovina non
solo sua e della sua parte, ma di tutto lo schieramento di coloro che
desideravano davvero la riforma del vivere cristiano. Il paradosso sta
nell’indicazione iniziale del destinatario: Giorgio Benigno Salviati nell’autografo, il più giovane dei Pico nella versione finale; non si può dire
che ne avesse compreso gli intendimenti! Come ha scritto Vasoli, «se il
primo destinatario era effettivamente Giorgio Benigno, anche il significato dell’Oraculum de novo saeculo può apparire sotto una luce, in qualche modo, diversa, in rapporto con la personalità di questo teologo che
troviamo coinvolto in alcune delle più importanti vicende religiose del
suo tempo e, addirittura, al centro di costanti e singolari iniziative ‘escatologiche’ e ‘profetiche’».15 Ed è significativo che il più acerrimo nemico di Savonarola, il confratello Giovanni Caroli, attaccasse l’opuscolo
nesiano con espressioni irridenti (per certi aspetti simili a quelle del moderno studioso da cui abbiamo preso le mosse) sia per gli omaggi allo
pseudo-profeta sia per la confusione, innegabile, tra elementi cosı̀ diversi come le referenze ermetico-platonizzanti, contro cui il protagonista aveva duramente polemizzato, e la dottrina cristiana nella sua simplicitas evangelica.16
In quest’ottica costituisce sicuramente un elemento di grande interesse quanto ha scritto recentissimamente Stéphane Toussaint sui rap14 Cfr. ivi, p. 220: «Occorre cercare di comprendere l’Oraculum nello spirito stesso che lo
informava, poiché esso era destinato non a mostrare le diversità esistenti tra i seguaci di Ficino
e Savonarola, ma a porre in risalto quanto li accomunava».
15 C. VASOLI, Giovanni Nesi, cit., p. 70; cfr. anche A.F. VERDE, O.P., Lo Studio Fiorentino,
1473-1503, Ricerche e documenti, IV, 3, Firenze, Olschki, 1985, pp. 1226-1228 e L. POLIZZOTTO, The Elect Nation. The Savonarolan Movement in Florence, 1494-1545, Oxford, Clarendon
Press, 1994, pp. 102-108.
16 Cfr. C. VASOLI, Giovanni Nesi, cit., p. 71, nota 54. L’opera di Giovanni Caroli, Contra
Johannis Nesii Oraculum de novo saeculo, si trova nel ms. Conv. sopp. C. 8. 277, ff. 137r-174v,
della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze; su di lui cfr. CH. S. CELENZA, Piety and Pythagoras, cit., pp. 43-45.
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porti tra l’opuscolo nesiano e Pietro Dolfin, con Paolo Orlandini come
tramite, con un’acuta comprensione del fine di quello scritto e dell’ambito concettuale nel quale si proponeva di inserirsi.17 L’Oraculum non è
un’opera di puro e semplice sincretismo, quanto piuttosto una sovrapposizione di due diverse aspettative riformatrici, il ritorno dell’età aurea
e la Gerusalemme celeste, che rispondono a due diverse inclinazioni
culturali e filosofico-religiose (diverse, si badi, e non in contraddizione
reciproca); e giustamente lo studioso pone in rilievo come la dicotomia
kristelleriana tra un umanesimo letterario ed una posizione filosofica
incentrata sui valori religiosi sia sicuramente da rivedere e modificare
alla luce di un lungo e paziente lavoro di indagine sui testi, editi e soprattutto inediti, in gran parte ancora da fare.18
Quel che è certo, a mio parere, è che la combinazione di culto platonico, giustizia solare e profetismo cristiano non poteva funzionare,
come di fatto non funzionò, nel momento in cui il sentimento religioso, nella sua ricerca delle fonti più autentiche della dottrina, riproponeva un tipo di rapporto con la fede più immediato e diretto, nel colloquio interiore dell’anima con Dio. In tale contesto, la distanza esistente
tra la sapienza di Dio e la scienza dell’uomo non poteva che approfondirsi, disegnando con più nettezza i contorni della diversità essenziale
tra creatore e creatura. Con una possibilità di eccezione, quella di accogliere in pieno il significato più proprio della similitudo che lega l’uomo a Dio nell’esempio del Dio che si è fatto uomo. La imitatio Christi,
allora, diviene il campo specifico della carità, una virtù concreta che si
realizza nell’operare nella storia. Il terreno più proprio all’uomo artifex
si rivela allora nell’ambito delle scienze pratiche, e della più importante
fra di loro, la politica. Richiamiamo, a questo proposito, le parole con
cui si apre l’Oraculum nesiano:
Ferrariensis igitur Socrates philosophiam quae de moribus agit, diutius
exulantem revocavit in urbem civitatique restituit, vitiorum castigator acerri17 S. TOUSSAINT, La voix des prophètes. Un ‘inédit’ pour Giovanni Nesi et Paolo Orlandini,
«Bruniana & Campanelliana», X, 2004, pp. 105-116.
18 Ivi, p. 116: «L’espace mental de cette fin de Quattrocento, étranger à nos distinctions
de genres – poésie et rhétorique d’un côté, mystères symboliques et philosophie religieuse de
l’autre –, exige des savants un effort d’interprétation plus poussé. Au regard de la function
d’écran divinatoire que le symbolisme a joué dans l’insondable question prophétique, particulièrement savonarolienne, il apparaı̂tra légitime de s’interroger sur la valeur d’une dichotomie souvent proposée par Kristeller. La philosophie religieuse y est largement étrangère à
l’humanisme lettré. Voilà au moins un cas, celui de l’Oraculum, ‘accuratissime elucubratum’,
où cette opposition n’a pas grande valeur et doit céder le pas à des critères intellectuels plus
raffinés pour juger d’une époque où maint humaniste aspirait à siéger ‘inter verso vates’».
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mus, virtutum laudator gravissimus. Vir in iudicando integer, in docendo facilis, in disputando subtilis, in scribendo gravis, in contemplando lynceus, in
vaticinando divinus. Non popularis aurae cupidus, non rumusculorum sectator. [...] Christi est in omnibus aemulator egregious, in cuius (ut ita loquar)
palestra numquam, ut dicitur, extra chorum saltare deprehensus est, quam vero in orando sit vehemens, in monendo efficax, in consulendo liber, in agendo prudens. Testis est res publica vestra, Nesi, quae, si verum fatear, tantum
illi debet, quantum ulla tempestate ne alteri quidam. [...] Hic dein discordias
diremit, urbem sedavit, civilem pacem constituit, oblivionis legem, ut apud
Athenas Transibulus, obtinuit. Provocationes ad populum divino etiam iussu
multis reflantibus et in medio saepe fluctus reiicientibus, persuasit. Hic patriam suo restituit filio, populo scilicet, civilemque administrationem civitas
universa receipt. Haec qui negat, sui compos non est. Haec qui damnat, ex
libidine damnat, non ratione. Praetereo quantos progressus fecerit illius opera
omnis iuventus, omnis aetas, omnis sexus, omnis populus. Praetereo quae leges, quae decreta, quae plebiscite sancita sunt illius consilio ad tuendam rem
publicam, ad honestandum imperium, ad conservandam libertatem. Quantas
leges, immortalis Deus, statuit populus huius viri suasu, ut abolerentur inimicitiae, ut vitia omnia penitus avellerentur? Quantas proposuit senatus, ut extirparentur conspirationes, ut iuvenes mulieresque melius informarentur, quibus qui refragantur preterquam quod manus afferunt patriae, multis se
mancipant calamitatibus.19
Messa da parte quella che, ai nostri occhi, non può che apparire come una bizzarra espressione retorica, l’identificazione del frate con Socrate, il filosofo che, nella tradizione scolastica, abbandona lo studio
della natura per dedicarsi a ciò che l’uomo è ed opera in quanto tale,
rinvia al Platone del Timeo, della Repubblica e delle Leggi, a quella discussione sulle leggi, sulla corretta forma di organizzazione politica e
sociale della civitas cui Tommaso d’Aquino ed Egidio Romano, da attenti commentatori della Politica aristotelica, avevano dedicato riflessioni non banali per quanto attiene al problema della civile convivenza tra
gli uomini.20
C. VASOLI, Giovanni Nesi, cit., pp. 110-112.
Cfr. AEGIDII COLUMNAE ROMANI ... De regimine principum libri III, per Fr. Hieronymum
Samaritanium Senensem ... editi, Romae, apud Bartholomaeum Zannettum, 1607, L. III, P.
I, cap. 7: «Socrates autem quamdiu philosophatus esset circa naturas rerum, videns circa naturalem scientiam magnam difficultatem esse, ut narrat Philosophus in Metaphysica sua, convertit se ad Moralia, quem Plato suus discipulus in multis secutus est, propter quod Philosophus Platonem ipsum secundum Socratem appellavit. Determinando autem Socrate set Plato
de moralibus, quinque tetigisse videntur circa civitatem et regna» (p. 416); dell’opera sono comunque da tener presenti i capp. 7 15, pp. 416-459, oltre alle lectiones I-VII del II libro del
commento dell’Aquinate alla Politica di Aristotele; e cfr. anche G.C. GARFAGNINI, Platone ‘teologo’ e politico: il sogno di uno Stato «divino», «Rinascimento», II s., XLII, 2002, pp. 3-30.
19
20
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GIAN CARLO GARFAGNINI
Inoltre, questa attenzione all’attività legislativa, come fondamento
di un solido impianto statuale, può ben spiegare l’apparentemente incongrua riproposta del De moribus nel 1503, in difesa dello stato repubblicano, di una politia recta che aveva assoluto bisogno di cives che fossero anche boni viri. Giovanni Nesi, per parte sua, sapeva come
funzionava lo Stato, ed il suo giudizio sull’attività riformatrice del frate
nasceva da una cognizione diretta e personale, non da piaggeria retorica: nel corso della sua vita, infatti, egli fu Priore, nel 1485, 1499 e 1503,
Ufficiale dello Studio, nel 1497 e nel 1499, Podestà di Prato, nel 1505/
’06, e partecipò attivamente alle Pratiche.21 Questo suo impegno civile,
prima e dopo Savonarola, non può forse essere letto anche come una
possibile spiegazione del passaggio di molti intellettuali laurenziani, come li definisce Weinstein, da utili strumenti del disegno mediceo della
costruzione di un potere signorile ad interlocutori diretti, e protagonisti, nella edificazione di un potere popolare, teso a realizzare un bonum
commune caro alla tradizione medievale che vedeva nella politica la
scientia architectonica della filosofia pratica? La conduzione della cosa
pubblica, anche nella forma del ‘consigliere’, poteva forse coincidere
con il recupero di un ruolo che la ‘tirannia’ medicea aveva in qualche
modo eliminato.
Nell’introduzione all’edizione di un testo 22 che egli ritiene, almeno
nel suo nucleo centrale, opera del Nesi, il Symbolum Nesianum, Christopher Celenza traccia un’ampia panoramica della situazione culturale
fiorentina del Quattrocento, ed individua in essa una cesura verso la
metà del secolo, allorché la crescente preminenza dei Medici privò l’ideologia ‘civile’ della classe dirigente dell’indispensabile supporto pratico. In effetti, questa lettura appare ben argomentata e convincente.
Dal punto di vista degli orientamenti culturali, questa cesura si identifica nelle contrapposte figure di Ficino e Poliziano: portavoce, il primo,
di una concezione filosofica ispirata ad una forma di neoplatonismo religioso, aperto ad influenze misticheggianti, con forti venature neopitagorico-ermetiche e profetiche, capofila, il secondo, di una filologia
intesa come scienza, dotata di una propria metodologia tecnica, ancorata all’analisi dei testi e rispettosa della loro concretezza formale e concettuale. Cosı̀, mentre l’esperienza ficiniana si faceva sempre più astratta
nell’individuazione di un filone spiritualistico, che lasciava ampio spa21 Cfr. Consulte e pratiche della Repubblica fiorentina, 1498-1505, éd. D. Fachard, Genève,
Droz, 1992.
22 Cfr. CH. S. CELENZA, Piety and Pythagoras in Florence, cit.
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zio non solo al recupero di una passata ‘età dell’oro’ ma anche all’avvento della nuova età preannunciata dai prisci theologi che, almeno nell’immediato, non precludeva un sostegno alla spiritualità savonaroliana,
Poliziano, e con lui Giovanni Pico, vide con chiarezza la sostanziale diversità delle due posizioni.23 Lo statuto soteriologico della filosofia apparve loro insoddisfacente, in quanto incapace di dare una risposta effettiva e documentata alle richieste del loro tempo e della vita: la
proposta di Savonarola, presentata nelle lezioni nel chiostro di San
Marco negli anni Ottanta e poi nelle prediche degli anni Novanta, si
rifaceva ai maestri della spiritualità cristiana, dai Padri ai grandi maestri
del XIII secolo, ma soprattutto alla Bibbia dell’Antico Testamento, dove era consegnata la promessa salvifica del genere umano.
Questa divaricazione nella cultura del suo tempo fu vissuta da Nesi
in prima persona, dall’apprendistato con l’Acciaiuoli al discepolato ficiniano sino all’‘innamoramento’ savonaroliano, ed è interessante notare
come, in fin dei conti, egli tentò di far quadrare queste diverse suggestioni scegliendo una via mediana che, in qualche maniera, mantenesse
l’ispirazione soteriologica ficiniana in linea con l’aspirazione fratesca alla
costruzione di uno Stato, di una repubblica popolare in cui il bonum
commune, posto a fondamento di una vita ‘civile’, consentisse la realizzazione di una, possibile, deificatio umana. E non è certamente un caso
se, nel commento ai 48 simboli di ascendenza pitagorica che compongono il Symbolum Nesianum, l’autore utilizza non solo fonti dell’antichità classica, greca e latina, accanto alla Bibbia (e qui sono presenti in gran
numero sia i Salmi che i Proverbi, l’Ecclesiaste e la Sapienza, con Isaia,
Geremia, Ezechiele e Malachia; testi cari a Savonarola), ma anche filosofi
e maestri medievali (da Bernardo di Chiaravalle ad Alberto Magno) e
contemporanei, come Ficino, Giovanni Pico ed Angelo Poliziano.
Un posto a sé, a mio parere significativo, è riservato a Tommaso d’Aquino ed ai testi canonistici: dell’Aquinate si cita soltanto il De regimine
principum (in realtà nella continuazione di Tolomeo da Lucca), mentre,
molto più copiosamente, è presente il Decretum di Graziano ed il Liber
Extra. Due presenze che testimoniano dell’attenzione riservata alla problematica civile e politica e che si uniscono alla riproposizione del De
moribus in un momento successivo alla morte di Savonarola, ma in un
contesto politico istituzionale ancora strutturato secondo le sue indicazioni.
23 G.C. GARFAGNINI, Savonarola tra Giovanni e Gianfrancesco Pico, in ID., «Questa è la terra
tua» cit., pp. 251-291.
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GIAN CARLO GARFAGNINI
Come scriveva a suo tempo Vasoli: «l’esperienza religiosa e filosofica di Giovanni Nesi [...] [offre] un’ottima prospettiva per seguire da
vicino un itinerario spirituale che fu comune anche ad altri uomini della sua generazione, del suo ceto e della sua cultura. Come tutte le personalità non molto originali, ma sensibili a forti influenze e suscettibili
di rivivere in modo autonomo gli ideali e le attese del proprio ambiente, il Nesi è infatti lo specchio rivelatore della vicenda tormentata e difficile di una generazione di intellettuali, passata, in meno di mezzo secolo, dagli antichi ideali ‘civili’ all’assetto ideologico e politico dell’età
laurenziana, per partecipare più tardi alla grande speranza riformatrice
degli anni del Savonarola, essere travolta dalla disfatta del 1498 ed assistere poi, nei primi decenni del nuovo secolo, alla crisi definitiva della
società fiorentina».24
Si può quindi guardare con qualche ironia agli scritti del Nesi, al
suo stile immaginifico e fantasioso come alle sue visioni aperte alle interpretazioni più sfrenate, purché però si tenga presente che egli riflette
il suo tempo, e su di esso, sulle prove alle quali fu sottoposto e gli sbocchi che esse fornirono sembra che non vi fosse da stare tanto allegri. Il
‘nibbio del Mugello’ volava ormai sui tetti della città che, in un ultimo
sussulto, si sarebbe data Cristo per suo re.
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C. VASOLI, Giovanni Nesi, cit., pp. 60-61.
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