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117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 117 GIUSEPPE RUGGIERI «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II* UN PROGRAMMA DI PONTIFICATO L’ esortazione apostolica Evangelii gaudium (in seguito EG), del 24 novembre 2013, vuole essere un documento programmatico del pontificato di papa Bergoglio. Questa è l’intenzione espressa del documento, che fin dalle prime righe proclama il contenuto centrale che ispira l’azione di papa Francesco. Già l’incipit infatti racchiude in nuce tutto il messaggio che questo papa vuole comunicare alla Chiesa cattolica1: «La gioia del Vangelo riempie il cuore e la vita intera di coloro che si incontrano con Gesù. Coloro che si lasciano salvare da Lui sono liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento. Con Gesù Cristo sempre nasce e rinasce la gioia. In questa esortazione desidero indirizzarmi ai fedeli cristiani, per invitarli a una nuova tappa evangelizzatrice marcata da questa gioia e indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (1)2. Mi pare che siano almeno tre le affermazioni implicite ed esplicite al tempo stesso di questo scritto: il carattere programmatico, il primato del Vangelo, l’indicazione di un metodo. a) Il carattere programmatico è esplicitamente enunciato: «indicare vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni». Si può porre la domanda sull’effettiva consistenza di questa pretesa. La domanda non verte sulla possibilità che il programma resti lo stesso per tutta la durata del pontificato. Prudentemente il papa indica solo i «prossimi anni». Ci si può chiedere invece se si tratti di una pretesa astratta o di una pretesa che si invera nella prassi effettiva di questo papato. Un documento papale, come questa esortazione apostolica, spesso è redatto, in piccola o in gran parte, da alcuni esperti ai quali il papa comunica le sue intenzioni e sul cui testo egli si propone di intervenire per verificare se esso corrisponda a quanto desidera. Effettivamente il carattere prolisso e a volte ripetitivo del documento lascia trasparire la presenza di più mani. Il dubbio quindi è legittimo ed è tale che l’interprete è costretto a valutare il peso effettivo delle singole affermazioni nel contesto più ampio del pontificato. Nel caso specifico abbiamo tuttavia un termine di raffronto decisivo, quello della predicazione quotidiana di questo papa. Si tratta di una predicazione che, per lo stile, la continuità dei motivi e degli accenti, è quanto mai rivelativa della prassi effettiva e delle scelte di governo dell’attuale vescovo di Roma. E sebbene non esistano ancora studi sull’omiletica di papa Francesco, senza paura di essere smentiti, possiamo costatare come il ‘programma’ enunciato nell’esortazione riappaia costantemente nelle omelie. La destinazione dell’esortazione è chiaramente affermata dal papa al n. 200: esortazione «rivolta ai membri della Chiesa Cattolica». Nel corso di tutta la trattazione, i numeri arabi tra parentesi si riferiscono ai corrispondenti numeri dell’esortazione, secondo la versione italiana contenuta nel sito della Santa Sede: www.vatican.va. 1 2 117 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 118 GIUSEPPE RUGGIERI b) La seconda affermazione, sufficientemente esplicita, è il primato attribuito al Vangelo. Anzi, con una certa forzatura, oso dire che EG rappresenti il ‘ritorno del Vangelo’ nella Chiesa. So di forzare i termini, ma lo faccio consapevolmente. Parlo cioè del Vangelo annunciato da Gesù di Nazaret, ricalcato sulla profezia di Isaia al capitolo 61, quella a cui si riferì lo stesso Gesù per presentare sé stesso nella sinagoga di Nazaret (Lc 4,16-30): il messaggio bello rivolto ai poveri. Per intendere correttamente la mia forzatura, è necessario che io la spieghi. Nel Nuovo Testamento la fede assume due forme complementari, inseparabili, anche se in una mutua dialettica che noi purtroppo tendiamo a ignorare: la fede nel Vangelo del Regno annunciato da Gesù, la fede in Gesù Cristo come in colui che porta a compimento il Regno che ha annunciato. In altri termini: il Vangelo di Gesù, il Vangelo su Gesù. Possiamo dire grossolanamente che la comunità postpasquale ha trasformato il Vangelo di Gesù nel Vangelo su Gesù. In questa trasformazione si celano enormi problemi di cui le comunità neotestamentarie erano consapevoli, a partire dallo stesso Paolo che di per sé dichiarava l’inutilità della conoscenza di Cristo secondo la carne (2Cor 5,16: «Ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così»). Soprattutto nei Vangeli sinottici la fede richiesta a coloro che si vogliono mettere alla sequela di Gesù è anzitutto fede nel Vangelo che Gesù annuncia, dopo la predicazione di Giovanni Battista, una volta che costui ha concluso la sua missione: non più il giudizio predicato da Giovanni, ma la misericordia del Padre e l’imminenza del Regno. «Dopo che Giovanni fu messo in prigione, Gesù si recò in Galilea, predicando il Vangelo di Dio e dicendo: “Il tempo è compiuto e il regno di Dio si avvicina; ritornate e credete al Vangelo”» (Mc 1,14-15). Noi dobbiamo tornare a Dio, perché prima Dio si avvicina a noi con il suo Regno. Gesù cioè, variando il racconto ricevuto dai profeti, raccontò la storia dell’amore di Dio che si avvicina agli uomini, il suo Regno. E la raccontò in maniera tale che questa storia, la storia dell’amore sovrano di Dio, si attuasse per davvero. Per questo egli annunciava il Vangelo del Regno e lo attuava concretamente, tant’è vero che predicava il Regno scacciando i demoni, combattendo cioè il dominio del male sull’uomo, e sanando dalle malattie. E parlava della misericordia del Padre sedendo a tavola con i peccatori. Nell’annuncio di Gesù, il regno di Dio, quello descritto nelle Beatitudini, si avvicinava realmente a ogni uomo, ai malati e agli afflitti, ma anche ai peccatori. Anzi, egli affermava di essere venuto per i peccatori. E quando inviò i suoi discepoli a predicare, disse loro che dovevano non solo predicare, ma scacciare i demoni e guarire dalle malattie. La fede che Gesù chiede è quindi la fede nel suo annuncio del Regno come potenza dell’amore sovrano di Dio che prende possesso della realtà umana. I discepoli che lo seguono e stanno con lui ricevono conseguentemente il potere del racconto efficace: «Ne costituì Dodici che stessero con lui, per mandarli a predicare e avessero il potere di scacciare i demoni» (Mc 3,14-15). Dopo la sua morte i discepoli ripresero l’annuncio di Gesù, ma rielaborandolo come un annuncio ‘su’ Gesù Messia, che aveva cioè come referente storico la sua vicenda umana e l’accoglimento di essa da parte di Dio. Tale vicenda rappresentava per i discepoli il compimento dei racconti dei loro padri, era la vicenda del Messia atteso, di ‘colui che deve venire’. Soprattutto, essi immisero nel racconto di Gesù Messia, nella sua trama costitutiva, in maniera da resistere ad ogni modifica successiva, due elementi decisivi. Il primo, già implicito nella straordinaria pretesa di Gesù di ‘avvicinare’ il Regno nella sua persona, era il coinvolgimento unico di Dio nell’esistenza di Gesù di Nazaret: Dio si era talmente compromesso e identificato nella sua vicenda da non lasciarlo alla corruzione del sepolcro, ma da farlo vivere presso di sé. Il secondo fu l’espansione dell’esistenza di Gesù, in maniera tale da renderla contemporanea ad ogni altra vicenda umana, in maniera cioè da farvi entrare tutti gli uomini. Gesù Cristo, grazie alla sua risurrezione, con l’invio del suo Spirito, costituiva ormai uno spazio ‘relazionale’, nel quale tutta l’umanità era chiamata ad abitare, perché egli era morto per tutti, ed era stato costituito giudice dei vivi e dei morti. Paolo 118 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 119 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II potrà dire che ormai in lui Dio stesso aveva pronunciato il sì definitivo per l’uomo. Quando noi proclamiamo Gesù come Signore, Messia, Figlio dell’uomo diciamo ormai questo: egli è presente mediante il Suo Spirito in ogni momento della storia umana, come offerta dell’amore del Padre per ogni uomo e ogni donna. Parlare allora di un ‘ritorno del Vangelo’ nella Chiesa cosa vuol dire? Ovviamente non si vuole affermare che la Chiesa per un determinato periodo è vissuta senza credere al Vangelo. L’affermazione contiene piuttosto uno sguardo e al tempo stesso una valutazione di medio periodo sui pontificati successivi a quello di Roncalli (1958-1963). Mi pare indubbio, infatti, che i pontificati di Paolo VI, di Wojtyła e di Ratzinger (quello di Luciani fu troppo breve per permettere un qualsiasi giudizio) siano stati dominati dalla preoccupazione per il Vangelo su Gesù, anziché di Gesù. Mentre il pontificato di papa Roncalli, pur con tutto il suo tridentinismo, fu dominato dalla preoccupazione di avvicinare il Vangelo di Gesù all’uomo di oggi e soprattutto dalla consapevolezza che era passato il tempo in cui adoperare il «bastone della disciplina», per sostituirlo con la medicina della misericordia del Padre3, i pontificati successivi sono stati dominati in maniera crescente dalla preoccupazione dell’errore e dalla necessità quindi di ribadire la ‘verità’ della fede su Gesù. Con papa Bergoglio ritorna invece prepotentemente il primato della misericordia e del Vangelo dell’amore di Dio, vicino soprattutto al povero, al sofferente, al peccatore. c) Infine, la terza affermazione totalmente implicita è quella del metodo o, in termini più correnti, dello stile. Bergoglio non parla del Vangelo nella sua forma oggettiva soltanto, come ‘dato rivelato’ secondo la vecchia terminologia delle scuole teologiche, ma della ‘gioia del Vangelo’, del Vangelo in quanto sperimentato e vissuto, del Vangelo nella sua forma soggettiva. Si ha in questa indicazione di metodo il superamento di un’apologetica che cercava di mostrare la verità della rivelazione a partire dalle prove oggettive della sua manifestazione. Ciò che invece è sotteso a tutto il discorso della EG è la convinzione dell’autoevidenza di una fede vissuta e del suo spontaneo esprimersi nella testimonianza. Da questo principio, evidente per il credente Bergoglio, scaturiscono alcune conseguenze espresse nel seguito della premessa: occorre rinnovare ogni volta l’incontro personale con Cristo, perché non è un possesso acquisito una volta per tutte (3); in questo incontro si genera la gioia (4), quella gioia che è al centro del messaggio dell’Antico Testamento (5) e del Nuovo Testamento (6) e grazie alla quale siamo liberati dall’autoreferenzialità (8). Il passaggio da questo principio apodittico, che traduce l’autoevidenza della fede, alla prassi dell’evangelizzazione, viene operato con la stessa apoditticità: il bene tende a comunicarsi e in questa comunicazione si accresce. La missione evangelizzatrice è perciò espansione di un’esperienza che si rinnova sempre (9). Questa evangelizzazione, in continuità con il gergo inaugurato da Giovanni Paolo II, viene chiamata ‘nuova’. C’è tuttavia una discontinuità rispetto all’uso che ne faceva quel papa. Infatti il discorso di Wojtyła giustificava la ‘novità’ dell’evangelizzazione nel momento attuale, quasi con una punta di amarezza, come reazione alla secolarizzazione e alla conseguente scristianizzazione dell’Occidente. Anche nella EG è presente il discorso sulla secolarizzazione (cfr. i nn. 64 e 69), ma non è questa che motiva la ‘nuova’ evangelizzazione. Ai nn. 14-15, infatti, vi è un generico richiamo al sinodo dei vescovi del 2012, ma non se ne assume l’analisi sociologica, bensì solo la precisazione dei diversi ambiti nei quali la prassi evangelizzatrice trova la sua applicazione: la pastorale ordinaria, la pastorale dei cristiani che non vivono più il loro battesimo, i non credenti. L’evangelizzazione infatti, come apparirà dal primo capitolo, è inerente alla natura missionaria della Chiesa e questa implica, nella novità Cfr. G. ALBERIGO, Dal bastone alla misericordia. Il magistero nel cattolicesimo contemporaneo (1830-1980), in «Cristianesimo nella Storia», II, 1981, 2, pp. 487-521. 3 119 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 120 GIUSEPPE RUGGIERI della storia, una necessaria e sempre continua riforma della Chiesa stessa. L’evangelizzazione conseguentemente è sempre ‘nuova’. Ma a partire da questa prospettiva l’aggettivo ‘nuova’ non dice molto. Non è infatti ‘nuovo’ ciò che è sempre nuovo. LA TRASFORMAZIONE MISSIONARIA DELLA CHIESA Il capitolo I dell’esortazione è certamente quello che contiene le affermazioni più importanti sul programma del pontificato. Papa Bergoglio ama molto parlare della «Chiesa in uscita» e non solo nella EG. Esiste evidentemente una radice di questo motivo nella storia stessa della Compagnia di Gesù, quando, con una presa di distanza dalle tendenze centripete, non si enfatizzava il convento, ma il mondo, come luogo dell’azione missionaria4. La Compagnia, infatti, non ha una spiritualità conventuale, ma una spiritualità di presenza nella realtà ogni volta nuova della storia degli uomini. Ma c’è anche un tocco personale di tipo pastorale, che si rifà agli anni dell’episcopato argentino5. Comunque, dopo i richiami all’Antico e al Nuovo Testamento per fondare la necessità di una Chiesa in uscita (20 e 21), ancorata al cammino stesso della Parola nella storia e alle sue potenzialità che noi non possiamo prevedere per cui la Chiesa deve accettarne la libertà ineffabile (23), il papa offre una descrizione concreta di questa Chiesa: La Chiesa ‘in uscita’ è la comunità di discepoli missionari che prendono l’iniziativa, che si coinvolgono, che accompagnano, che fruttificano e festeggiano. ‘Primerear - prendere l’iniziativa’: vogliate scusarmi per questo neologismo. La comunità evangelizzatrice sperimenta che il Signore ha preso l’iniziativa, l’ha preceduta nell’amore (cfr. 1 Gv 4,10), e per questo essa sa fare il primo passo, sa prendere l’iniziativa senza paura, andare incontro, cercare i lontani e arrivare agli incroci delle strade per invitare gli esclusi. Vive un desiderio inesauribile di offrire misericordia, frutto dell’aver sperimentato l’infinita misericordia del Padre e la sua forza diffusiva. Osiamo un po’ di più di prendere l’iniziativa! Come conseguenza, la Chiesa sa ‘coinvolgersi’. Gesù ha lavato i piedi ai suoi discepoli. Il Signore si coinvolge e coinvolge i suoi, mettendosi in ginocchio davanti agli altri per lavarli. Ma subito dopo dice ai discepoli: «Sarete beati se farete questo» (Gv 13,17). La comunità evangelizzatrice si mette mediante opere e gesti nella vita quotidiana degli altri, accorcia le distanze, si abbassa fino all’umiliazione se è necessario, e assume la vita umana, toccando la carne sofferente di Cristo nel popolo. Gli evangelizzatori hanno così ‘odore di pecore’ e queste ascoltano la loro voce. Quindi, la comunità evangelizzatrice si dispone ad ‘accompagnare’. Accompagna l’umanità in tutti i suoi processi, per quanto duri e prolungati possano essere. Conosce le lunghe attese e la sopportazione apostolica (24). È, a partire da ciò, quasi tautologico parlare quindi della necessità di una continua riforma della Chiesa, con una ricaduta anche sul piano linguistico. Il linguaggio della riforma, nell’esortazione, viene infatti adoperato spesso e si alterna a quello del rinnovamento. I termini, sostantivati e verbali, connessi al concetto di riforma ritornano 16 volte Cfr. J.V. O’MALLEY, The First Jesuits, Cambridge (Mass.)-London 1993. Qui basti rimandare alle interviste rilasciate in Argentina ai giornalisti Sergio Rubin e Francesca Ambrogetti, raccolte nel volume El Jesuita. Conversaciones con el cardenal Jorge Bergoglio, sj, Buenos Aires 2010 (trad. it. J. BERGOGLIO, Papa Francesco. Il nuovo papa si racconta, Milano 2013), e a quella rilasciata al direttore de «La Civiltà Cattolica», Antonio Spadaro: PAPA FRANCESCO, La mia porta è sempre aperta. Una conversazione con Antonio Spadaro, Milano 2013. 4 5 120 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 121 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II e quelli connessi al concetto di rinnovamento 30 volte, senza che si possa notare una differenza di significato nell’uso dell’uno o dell’altro termine. Il riferimento principale è al Vaticano II, del quale tra l’altro viene citato il decreto sull’ecumenismo, Unitatis redintegratio 6: «Ogni rinnovamento della Chiesa consiste essenzialmente in un’accresciuta fedeltà alla sua vocazione [...] La Chiesa peregrinante verso la meta è chiamata da Cristo a questa continua riforma, di cui essa, in quanto istituzione umana e terrena, ha sempre bisogno» (24). Il papa parla addirittura di un sogno: Sogno una scelta missionaria capace di trasformare ogni cosa, perché le consuetudini, gli stili, gli orari, il linguaggio e ogni struttura ecclesiale diventino un canale adeguato per l’evangelizzazione del mondo attuale, più che per l’autopreservazione. La riforma delle strutture, che esige la conversione pastorale, si può intendere solo in questo senso: fare in modo che esse diventino tutte più missionarie, che la pastorale ordinaria in tutte le sue istanze sia più espansiva e aperta, che ponga gli agenti pastorali in costante atteggiamento di ‘uscita’ e favorisca così la risposta positiva di tutti coloro ai quali Gesù offre la sua amicizia (27). La necessità di una riforma deve coinvolgere tutte le strutture ecclesiali, a cominciare dalla parrocchia e dalla diocesi per finire alle conferenze episcopali, che dovrebbero manifestare in concreto la realizzazione della collegialità, e al papato (32). Su questo punto (la collegialità affermata dal Vaticano II), non si può non notare tuttavia la genericità del discorso, analogo a quello che hanno proclamato, senza dare un seguito concreto, tutti i papi del postconcilio. Ma al tempo stesso è doveroso registrare una novità. La EG testimonia il riconoscimento effettivo dell’autorità dottrinale delle conferenze episcopali, citate ripetutamente come auctoritates sulle quali si poggia il magistero pontificio: è il loro insegnamento che viene infatti ‘recepito’. A mia conoscenza, è la prima volta che questo avviene in un documento papale. Il fatto non è occasionale, giacché anche l’enciclica Laudato si’ (24 maggio 2015) citerà i documenti delle varie conferenze episcopali come documenti dotati di autorità dottrinale. Mentre quindi si deve registrare l’effettivo riconoscimento dell’autorità dottrinale delle conferenze episcopali, al tempo stesso occorre prendere atto come questo riconoscimento coesista con una concezione del ‘governo’ universale della Chiesa inteso come prerogativa esclusiva e personale del papa, giacché l’ascolto di tutte le altre istanze ecclesiali, ivi compreso il sinodo episcopale, non modifica l’esclusività della decisione finale. Questa visione gesuitica della governance, che ultimamente svuota di contenuto la collegialità, per cui il superiore ascolta tutti e decide per ultimo da solo, è stata ribadita dal papa in due interviste (quella a padre Spadaro, per cui cfr., supra, nota 5, e l’altra pubblicata sul «Corriere della Sera» del 10 marzo 2014, a firma del direttore Ferruccio De Bortoli) e confermata, nonostante l’avviso contrario del padre Ladislas Örsy, nella lettera al cardinale Baldisseri del 1° aprile 20146. Questa infatti non parla in recto di collegialità effettiva, ma dello «sviluppo dell’attività sinodale» alla quale, secondo le parole del papa, un vescovo titolare (sic, giacché l’ordinazione episcopale di quel vescovo è stata in sostanza absoluta, non legata cioè a una comunità diocesana effettivamente esistente), in virtù del sacramento dell’Ordine, assieme al cardinale segretario, darebbe un contributo, rispecchiando così quella comunione affettiva ed effettiva che costituisce lo scopo precipuo del sinodo dei vescovi. Si dice ancora, in quella lettera al cardinale Baldisseri, che le assemblee sinodali hanno offerto al Successore di Pietro un valido «aiuto e consiglio» per salvare e incrementare la fede. Si dice infine, con un’espressione per lo meno infelice, Cfr. L. ÖRSY, Francesco - Vescovi: lo stile di vita della Chiesa, in «Il Regno», 2014, 16, pp. 537-539. Per la lettera, si veda il testo nel sito: press.vatican.va/content/salastampa/en/bollettino/pubblico/2014/04/08/0251/00559.html. 6 121 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 122 GIUSEPPE RUGGIERI che i vescovi cattolici debbono prender parte «alla sollecitudine del Vescovo di Roma per la Chiesa universale», quasi che la sollicitudo omnium ecclesiarum fosse propria del papa e i vescovi partecipassero soltanto a una sua prerogativa. Appare cioè chiaro che il papa per un verso voglia sinceramente incrementare le forme dell’attività sinodale, anche se il suo quadro mentale resta quello del governo personale. Per altro verso, è altrettanto chiaro che i gesti concreti sopravanzino nella prassi la sua concezione dichiarata del governo della Chiesa sul modello del governo della Compagnia di Gesù. Il riconoscimento dell’autorità dottrinale delle conferenze episcopali nella EG (e nell’enciclica Laudato si’) è un segno eloquente di questa ambiguità. Resta cioè lo scoglio dell’autocoscienza dottrinale a livello teorico riflesso, che non è cosa da poco. Non occorre meravigliarsi di queste contraddizioni, segno positivo a mio avviso, e per nulla negativo, del carattere incipiente di un cammino che – a fronte di quello millenario precedente e di direzione inversa che ha portato da una comunione di Chiese in ognuna delle quali si rende presente l’unica Chiesa del Cristo a una Chiesa universalistica e centralizzata, ontologicamente preesistente alle Chiese che vivono nella storia – richiederà molto tempo prima di arrivare al suo esito compiuto. Tra le conseguenze più importanti del necessario rinnovamento della Chiesa in uscita, il papa tocca anche le questioni dottrinali. La prima e più importante è la necessità dell’essenzialità, che vuol dire il dovere di insegnare a partire non dalle questioni secondarie, ma dal cuore del Vangelo. «Il problema maggiore si verifica quando il messaggio che annunciamo sembra allora identificato con tali aspetti secondari che, pur essendo rilevanti, per sé soli non manifestano il cuore del messaggio di Gesù Cristo. Dunque, conviene essere realisti e non dare per scontato che i nostri interlocutori conoscano lo sfondo completo di ciò che diciamo o che possano collegare il nostro discorso con il nucleo essenziale del Vangelo che gli conferisce senso, bellezza e attrattiva» (34, ma cfr. anche 35). Coerente con il richiamo all’essenzialità dell’insegnamento ecclesiale è la conferma della dottrina conciliare della «gerarchia delle verità»: «Tutte le verità rivelate procedono dalla stessa fonte divina e sono credute con la medesima fede, ma alcune di esse sono più importanti per esprimere più direttamente il cuore del Vangelo. In questo nucleo fondamentale ciò che risplende è la bellezza dell’amore salvifico di Dio manifestato in Gesù Cristo morto e risorto. In questo senso, il Concilio Vaticano II ha affermato che “esiste un ordine o piuttosto una ‘gerarchia’ delle verità nella dottrina cattolica, essendo diverso il loro nesso col fondamento della fede cristiana”» (36). E, al di là della ripresa della dottrina conciliare sulla gerarchia delle verità, EG fa sua anche la distinzione di papa Roncalli tra la sostanza viva del Vangelo e la modalità della sua espressione (41)7. Questo vale tanto per i dogmi di fede quanto per l’insieme degli insegnamenti della Chiesa, ivi compreso l’insegnamento morale. E il papa a tal proposito cita lo stesso san Tommaso: San Tommaso d’Aquino insegnava che anche nel messaggio morale della Chiesa c’è una gerarchia, nelle virtù e negli atti che da esse procedono. Qui ciò che conta è anzitutto «la fede che si rende operosa per mezzo della carità» (Gal 5,6). Le opere di amore al prossimo sono la manifestazione esterna più perfetta della grazia interiore dello Spirito: «L’elemento principale della nuova legge è la grazia dello Spirito Santo, che Al n. 41 vi è una nota che reca la citazione dal discorso di papa Giovanni XXIII (11 ottobre 1962) secondo il testo latino riportato in Acta Apostolicae Sedis, 54 (1962), p. 786: «Est enim aliud ipsum depositum Fidei, seu veritates, quae veneranda doctrina nostra continentur, aliud modus, quo eaedem enuntiantur». Il testo italiano nell’edizione critica di A. Melloni, ha invece: «Altra è la sostanza dell’antica dottrina, del depositum fidei, ed altra è la formulazione del suo rivestimento» (Fede Tradizione Profezia. Studi su Giovanni XXIII e sul Vaticano II, Brescia 1984, p. 269). 7 122 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 123 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II si manifesta nella fede che agisce per mezzo dell’amore». Per questo afferma che, in quanto all’agire esteriore, la misericordia è la più grande di tutte le virtù: «La misericordia è in sé stessa la più grande delle virtù, infatti spetta ad essa donare ad altri e, quello che più conta, sollevare le miserie altrui. Ora questo è compito specialmente di chi è superiore, ecco perché si dice che è proprio di Dio usare misericordia, e in questo specialmente si manifesta la sua onnipotenza»8 (37). La EG propone così un nuovo equilibrio della ‘dottrina’ e del suo rapporto con quella che papa Roncalli chiamava la «sostanza viva» del Vangelo9. Papa Francesco non intende certamente negare la necessità della dimensione dottrinale. Dall’esortazione, infatti, emerge una comprensione della dottrina come elemento di rigore concettuale all’interno del magistero. Un’analisi del lessico dottrinale dell’esortazione mostra inoltre come su 17 frequenze, 2 non siano significative perché semplici citazioni del libro del Compendio della dottrina sociale della Chiesa e genericamente della Dottrina sociale della Chiesa (184 e 221). Nelle restanti 15 occorrenze, la dimensione dottrinale non viene negata, giacché l’esortazione viene sviluppata «in base alla dottrina della costituzione dogmatica Lumen gentium» (17) e si precisa altresì che esiste una gerarchia delle verità all’interno della dottrina secondo il Concilio Vaticano II (36), ma l’accento è posto altrove: il relativismo pratico può essere ancora più pericoloso di quello dottrinale (80), si esalta un impegno sociale della Chiesa unitamente a quello profuso dalle altre Chiese o comunità cristiane sia a livello di riflessione dottrinale sia a livello pratico (183); l’occorrenza più significativa è quella del n. 32, sulla necessità di riconoscimento di una qualche autorità dottrinale delle conferenze episcopali. E infatti, come ho già sottolineato, una delle novità assolute della EG è l’uso sistematico dei documenti delle conferenze episcopali come documenti dotati di autorità. È la prima volta che ciò accade in un documento papale. Fondamentale appare ancora la ricezione della concezione di Giovanni XXIII, che distingueva tra sostanza viva del Vangelo e sua formulazione nel deposito della dottrina cristiana (sic: 41). Per lo più viene invece relativizzata l’assolutezza della dottrina: una volta si critica il sogno di una dottrina monolitica difesa da tutti senza sfumature (40), diverse volte si situa la dottrina all’interno dell’annuncio evangelico, subordinato al centro del messaggio di amore (42 e 39); altre volte si critica una presunta sicurezza dottrinale a scapito dell’atto di evangelizzare (94) e la cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, fuori dal reale inserimento del Vangelo nel popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia (95); si fa un raffronto tra l’apparente possesso di solide convinzioni dottrinali e spirituali e lo stile di vita preoccupato della sicurezza economica e della ricerca di potere e di spazi di gloria umana (80); si critica la predicazione puramente moralista o indottrinante (142); la crescita della fede non comporta esclusivamente o prioritariamente la formazione dottrinale, ma in primo luogo comporta l’osservanza del comandamento dell’amore (161); non ci si deve preoccupare soltanto di non cadere in errori dottrinali, ma anche di essere fedeli al cammino luminoso di vita e sapienza (185). Corrispondentemente al primato del Vangelo della misericordia viene descritta la Chiesa come «madre di cuore aperto», alla cui vita tutti debbono poter partecipare. La EG prende quindi posizione contro tutte le forme di disciplina ecclesiastica che mirano a mettere condizioni ‘oggettive’ che rendono per principio impossibile in alcuni casi la partecipazione ai sacramenti: «Nemmeno le porte dei Sacramenti si dovrebbero chiudere per una Cfr. i vari brani della Summa di san Tommaso alle note 39-41 della EG. Per il pensiero di Roncalli, cfr. G. RUGGIERI, Esiste una teologia di papa Giovanni?, in Un cristiano sul trono di Pietro. Studi storici su Giovanni XXIII, a cura della Fondazione per le scienze religiose Giovanni XXIII di Bologna, Bergamo 2003, pp. 253-274. 8 9 123 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 124 GIUSEPPE RUGGIERI ragione qualsiasi. Questo vale soprattutto quando si tratta di quel sacramento che è “la porta”, il Battesimo. L’Eucaristia, sebbene costituisca la pienezza della vita sacramentale, non è un premio per i perfetti ma un generoso rimedio e un alimento per i deboli»10 (47). E val la pena citare ancora le parole che siglano questa parte della EG: Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. Ripeto qui per tutta la Chiesa ciò che molte volte ho detto ai sacerdoti e laici di Buenos Aires: preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37) (49). IL DISCERNIMENTO EVANGELICO DELLA SITUAZIONE La EG non intende offrire un’analisi sociologica della situazione nella quale si trova la Chiesa, ma vuole operare un «discernimento evangelico» dei segni dei tempi, guidato da una preoccupazione pastorale (50-51). L’analisi non verte unicamente sulla situazione storica ‘esterna’ alla Chiesa, ma include anche i riflessi che questa situazione ha sul comportamento dei cristiani e degli operatori pastorali in particolare. E la prima cosa che può essere notata nell’analisi offerta dalla EG è la sua collocazione storica. Essa prende cioè atto del mutamento che si è operato con il crollo delle varie attuazioni del socialismo reale. Il mondo non è dominato più da due sistemi economici contrapposti e dalle ideologie corrispondenti: comunismo da una parte e capitalismo dall’altra. Sul campo è rimasto un solo vincitore assoluto: il capitalismo postindustriale segnato a sua volta dal potere indiscriminato del capitalismo finanziario. Mentre il tradizionale insegnamento sociale della Chiesa, dalla fine dell’Ottocento fino a tutto il Novecento aveva per così dire due nemici di fronte ai quali collocarsi, liberismo da una parte e socialismo dall’altra, adesso l’avversario è uno solo. Ma questo avversario non viene combattuto nella EG anzitutto sul piano di una razionalità ideologica (come potrebbe essere, ad esempio, l’affermazione tradizionale della destinazione sociale dei beni, che avrà un certo rilievo più avanti nella IV parte dell’esortazione, al n. 189, e un grande peso nell’enciclica Laudato si’), bensì in una EG tocca qui un punto, quanto mai delicato, che costituisce al tempo stesso uno dei terreni di scontro del Sinodo, prima straordinario e poi ordinario, degli anni 2014 e 2015. Infatti, si enuncia un principio, quello del ‘diritto’ di tutti alla partecipazione all’eucaristia, giacché questa contiene il perdono dei peccati. La nota nella quale la EG suffraga questo insegnamento cita il De Sacramentis di Ambrogio e il commento al Vangelo di Giovanni di san Cirillo di Alessandria. Non si fa riferimento al decreto del Concilio di Trento sul sacrificio della messa ove si afferma che Dio «placato dall’offerta concede il dono e la grazia della penitenza e “crimina et peccata etiam ingentia dimittit”» (sessio XXII, De sanctissimo missae sacrificio, caput II, per il quale è utile la lettura di R. TILLARD, Il pane e il calice della riconciliazione, in «Concilium», 1971, 1, pp. 56-76). Difficile stabilire se si tratta di una scelta consapevole o meno. Sembra tuttavia indubbio che il papa qui manifesti la sua convinzione sincera. Infatti, il discorso del cardinale Walter Kasper al concistoro del febbraio 2014, nel quale si proponeva la comunione eucaristica ai risposati divorziati, è stato esplicitamente approvato dal papa, nonostante il rifiuto della maggior parte dei cardinali. 10 124 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 125 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II visione più semplicemente evangelica, in nome delle vittime del sistema, degli «esclusi», con il conio di un sintagma nuovo, la «cultura dello scarto» che genera a sua volta una «globalizzazione dell’indifferenza»: Così come il comandamento «non uccidere» pone un limite chiaro per assicurare il valore della vita umana, oggi dobbiamo dire «no a un’economia dell’esclusione e della inequità». Questa economia uccide. [...] Si considera l’essere umano in sé stesso come un bene di consumo, che si può usare e poi gettare. Abbiamo dato inizio alla cultura dello ‘scarto’ che, addirittura, viene promossa. Non si tratta più semplicemente del fenomeno dello sfruttamento e dell’oppressione, ma di qualcosa di nuovo: con l’esclusione resta colpita, nella sua stessa radice, l’appartenenza alla società in cui si vive, dal momento che in essa non si sta nei bassifondi, nella periferia, o senza potere, bensì si sta fuori. Gli esclusi non sono ‘sfruttati’ ma rifiuti, ‘avanzi’ (53). In questo contesto, alcuni ancora difendono le teorie della ‘ricaduta favorevole’, che presuppongono che ogni crescita economica, favorita dal libero mercato, riesce a produrre di per sé una maggiore equità e inclusione sociale nel mondo. Questa opinione, che non è mai stata confermata dai fatti, esprime una fiducia grossolana e ingenua nella bontà di coloro che detengono il potere economico e nei meccanismi sacralizzati del sistema economico imperante. Nel frattempo, gli esclusi continuano ad aspettare. Per poter sostenere uno stile di vita che esclude gli altri, o per potersi entusiasmare con questo ideale egoistico, si è sviluppata una globalizzazione dell’indifferenza (54). La denuncia, come si vede, non può essere più forte, e spietata appare anche la spiegazione delle cause effettive. La crisi è infatti di origine antropologica, con la negazione del primato dell’essere umano e la creazione di una nuova idolatria (55), con il rifiuto cioè dell’etica stessa e quindi di Dio (57). E, di fronte all’inequità che genera violenza, la EG nota come la repressione abbia le armi spuntate, perché la violenza genera violenza (59-60). L’analisi si conclude con una sottolineatura del ruolo che oggi giocano le culture urbane (71-75). Dopo una rapida evocazione del tema della città nell’Apocalisse di Giovanni, la EG sottolinea, per descrivere la cultura della città, il multiculturalismo, la lotta per sopravvivere, l’offerta di una moltitudine di stili di vita, la chiusura vicendevole dei quartieri. Rimedio ai mali della città può essere solo il senso unitario e completo della vita umana che il Vangelo offre. L’analisi fin qui condotta sul contesto storico che una Chiesa in uscita trova oggi davanti a sé, a questo punto si trasforma in una parenesi dettagliata di tutti i rischi che corrono gli operatori pastorali: la ricerca di spazi di autonomia, una certa sfiducia nella validità del messaggio della Chiesa, il relativismo pratico che porta ad agire come se Dio non esistesse, l’accidia egoistica, la lettura pessimistica degli avvenimenti (con il richiamo ai ‘profeti’ di sventura di roncalliana memoria), il senso del deserto che dovrebbe invece far riscoprire la gioia del credere e la vocazione di essere persone-anfora per dare da bere agli altri. La parenesi appare puntuale nella enumerazione dei rischi, ma sfilacciata nell’insieme, per non dire scontata. E anche i rimedi proposti, tutti legittimi e validi in sé stessi, danno l’impressione di un accumulo non sempre coerente di proposte: dall’invito a rompere l’isolamento per mescolarsi agli altri, non avendo paura di creare vincoli stabili, all’indicazione dei rischi del ritorno al sacro, dall’esaltazione della religiosità popolare (anche se prima [70] era stato espresso il rifiuto del cristianesimo devozionale!) alla critica della mondanità spirituale e della ricerca dell’apparenza, fino alla denuncia della cura ostentata della liturgia, della dottrina e del prestigio della Chiesa, ma senza che li preoccupi il reale inserimento del Vangelo nel Popolo di Dio e nei bisogni concreti della storia. In tal modo la vita della 125 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 126 GIUSEPPE RUGGIERI Chiesa si trasforma in un pezzo da museo o in un possesso di pochi. In altri, la medesima mondanità spirituale si nasconde dietro il fascino di poter mostrare conquiste sociali e politiche, o in una vanagloria legata alla gestione di faccende pratiche, o in un’attrazione per le dinamiche di autostima e di realizzazione autoreferenziale. Si può anche tradurre in diversi modi di mostrarsi a sé stessi coinvolti in una densa vita sociale piena di viaggi, riunioni, cene, ricevimenti. Oppure si esplica in un funzionalismo manageriale, carico di statistiche, pianificazioni e valutazioni, dove il principale beneficiario non è il Popolo di Dio ma piuttosto la Chiesa come organizzazione. In tutti i casi, è priva del sigillo di Cristo incarnato, crocifisso e risuscitato, si rinchiude in gruppi di élite, non va realmente in cerca dei lontani né delle immense moltitudini assetate di Cristo. Non c’è più fervore evangelico, ma il godimento spurio di un autocompiacimento egocentrico (95). Non è difficile cogliere la validità e a volte anche il fascino dei singoli richiami (e l’enumerazione qui fatta è gravemente incompleta), ma al tempo stesso non si può non notare la ridondanza eccessiva della parenesi. UN POPOLO CHE ANNUNCIA IL VANGELO La EG nel suo III capitolo tratta in recto dell’annuncio del Vangelo. Si tratta del capitolo in cui maggiormente si fa sentire l’origine latino-americana di papa Francesco, il debito verso le assemblee episcopali di Puebla e Aparecida, il lascito della teologia più matura e recente della stessa teologia della liberazione, soprattutto con la centralità accordata alla dimensione della cultura di ogni popolo e alla pietà popolare. Le citazioni non debbono ingannare. Frasi prese a prestito da Paolo VI, Giovanni Paolo II e Benedetto XVI sono immerse qui in un contesto assolutamente nuovo. E le differenze vengono taciute. La più chiara è quella sull’assoluta eguaglianza delle culture storiche dei popoli sul piano della fede, laddove è evidente il contrasto con la posizione del teologo Ratzinger11, anche se non formalmente con papa Benedetto XVI, il quale invece ha sempre considerato provvidenziale e privilegiata la mediazione del pensiero greco. Il pensiero dell’argentino papa Bergoglio è a tal proposito quanto mai chiaro: Non farebbe giustizia alla logica dell’incarnazione pensare ad un cristianesimo monoculturale e monocorde. Sebbene sia vero che alcune culture sono state strettamente legate alla predicazione del Vangelo e allo sviluppo di un pensiero cristiano, il messaggio rivelato non si identifica con nessuna di esse e possiede un Ma anche da papa, sia pure da ‘professore’, nella sua prolusione del 12 settembre 2006 nell’Aula magna dell’Università di Ratisbona, Ratzinger ha difeso il suo pensiero sull’incontro provvidenziale tra pensiero greco e cristianesimo nonché sulla conseguente missione dell’Europa nel mondo, nei seguenti termini: «Il [...] vicendevole avvicinamento interiore, che si è avuto tra la fede biblica e l’interrogarsi sul piano filosofico del pensiero greco, è un dato di importanza decisiva non solo dal punto di vista della storia delle religioni, ma anche da quello della storia universale – un dato che ci obbliga anche oggi. Considerato questo incontro, non è sorprendente che il cristianesimo, nonostante la sua origine e qualche suo sviluppo importante nell’Oriente, abbia infine trovato la sua impronta storicamente decisiva in Europa. Possiamo esprimerlo anche inversamente: questo incontro, al quale si aggiunge successivamente ancora il patrimonio di Roma, ha creato l’Europa e rimane il fondamento di ciò che, con ragione, si può chiamare Europa» (testo citato secondo www.vatican.va, nella sezione dedicata ai discorsi di Benedetto XVI). 11 126 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 127 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II contenuto transculturale. Perciò, nell’evangelizzazione di nuove culture o di culture che non hanno accolto la predicazione cristiana, non è indispensabile imporre una determinata forma culturale, per quanto bella e antica, insieme con la proposta evangelica. Il messaggio che annunciamo presenta sempre un qualche rivestimento culturale, però a volte nella Chiesa cadiamo nella vanitosa sacralizzazione della propria cultura, e con ciò possiamo mostrare più fanatismo che autentico fervore evangelizzatore (117). Il papa latino-americano mostra qui di pensare e scrivere in maniera ‘sua’. E, nonostante voglia presentare una teologia della Chiesa che annuncia il Vangelo come ‘popolo di Dio’, egli non si preoccupa di fondare il motivo né nell’Antico, né nel Nuovo Testamento, se si eccettuano i riferimenti a Mt 28, 19, con l’invito di Gesù a far discepoli tutti i popoli, e a Gal 3, 28 (dove tuttavia non compare esplicitamente una teologia del ‘popolo di Dio’), con l’affermazione che nella comunità dei credenti in Cristo «non c’è Giudeo né Greco [...] perché tutti voi siete uno in Cristo Gesù» (113). La stessa dottrina del Vaticano II sulla Chiesa come popolo di Dio viene ignorata, se si eccettuano tre riferimenti: Dio non ha voluto santificare gli uomini individualmente, ma volle costituire tra di loro un popolo (Lumen gentium 9 al n. 112); l’unzione dello Spirito che conferisce a tutti l’infallibilità nel credere (Lumen gentium 12 al n. 119) e sempre lo Spirito che distribuisce a tutti i suoi doni e i carismi (Lumen gentium 12, al n. 130). Come si vede il discorso della Chiesa come popolo di Dio, tipico della costituzione conciliare sulla Chiesa, risulta abbastanza marginale. Il concetto catalizzatore è invece quello della cultura. Il ragionamento del papa infatti è il seguente: l’evento del Vangelo che è all’origine della gioia di ogni uomo è la comunicazione dell’amore di Dio, la pura grazia. Ma Dio non si comunica agli uomini isolatamente, bensì «Dio ci attrae tenendo conto della complessa trama di relazioni interpersonali che comporta la vita in una comunità umana. Questo popolo che Dio si è scelto e convocato è la Chiesa» (113). Questo popolo di Dio si incarna nei vari popoli della Terra, ciascuno dei quali ha propria cultura. Con riferimento all’assemblea di Puebla, la nozione di cultura viene dichiarata strumento prezioso per comprendere le diverse espressioni della vita cristiana presenti nel Popolo di Dio. Si tratta dello stile di vita di una determinata società, del modo peculiare che hanno i suoi membri di relazionarsi tra loro, con le altre creature e con Dio. Intesa così, la cultura comprende la totalità della vita di un popolo. Ogni popolo, nel suo divenire storico, sviluppa la propria cultura con legittima autonomia. Ciò si deve al fatto che la persona umana, «di natura sua ha assolutamente bisogno d’una vita sociale» ed è sempre riferita alla società, dove vive un modo concreto di rapportarsi alla realtà. L’essere umano è sempre culturalmente situato: «natura e cultura sono quanto mai strettamente connesse». La grazia suppone la cultura, e il dono di Dio si incarna nella cultura di chi lo riceve (115). Si noti la trasformazione del vecchio adagio «gratia supponit naturam» in «gratia supponit culturam». Nei due millenni del cristianesimo, innumerevoli popoli hanno ricevuto la fede e l’hanno trasmessa secondo le modalità culturali loro proprie. In questo modo la EG del papa latino-americano seppellisce ogni eurocentrismo. Ben intesa, infatti, la diversità culturale non minaccia l’unità della Chiesa, in quanto È lo Spirito Santo, inviato dal Padre e dal Figlio, che trasforma i nostri cuori e ci rende capaci di entrare nella comunione perfetta della Santissima Trinità, dove ogni cosa trova la sua unità. Egli costruisce la comunione e l’armonia del Popolo di Dio. Lo stesso Spirito Santo è l’armonia, così come è il vincolo d’amore tra il 127 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 128 GIUSEPPE RUGGIERI Padre e il Figlio. Egli è Colui che suscita una molteplice e varia ricchezza di doni e al tempo stesso costruisce un’unità che non è mai uniformità ma multiforme armonia che attrae. L’evangelizzazione riconosce gioiosamente queste molteplici ricchezze che lo Spirito genera nella Chiesa (117). La sintesi ecclesiologica è così completa: ecclesiologia profondamente pneumatologica e trinitaria, anche se armonizzata con la teologia dell’Incarnazione, dove non sono negati ma risultano teoreticamente inoperanti la dimensione eucaristica dell’unità e la struttura gerarchica della Chiesa. Infatti ogni cristiano, in forza del battesimo e non per mandato della gerarchia, è un discepolo che evangelizza, già nella sua vita privata, con la testimonianza personale della propria gioia. In virtù del Battesimo ricevuto, ogni membro del Popolo di Dio è diventato discepolo missionario (cfr. Mt 28,19). Ciascun battezzato, qualunque sia la sua funzione nella Chiesa e il grado di istruzione della sua fede, è un soggetto attivo di evangelizzazione e sarebbe inadeguato pensare ad uno schema di evangelizzazione portato avanti da attori qualificati in cui il resto del popolo fedele fosse solamente recettivo delle loro azioni. La nuova evangelizzazione deve implicare un nuovo protagonismo di ciascuno dei battezzati. Questa convinzione si trasforma in un appello diretto ad ogni cristiano, perché nessuno rinunci al proprio impegno di evangelizzazione, dal momento che, se uno ha realmente fatto esperienza dell’amore di Dio che lo salva, non ha bisogno di molto tempo di preparazione per andare ad annunciarlo, non può attendere che gli vengano impartite molte lezioni o lunghe istruzioni. Ogni cristiano è missionario nella misura in cui si è incontrato con l’amore di Dio in Cristo Gesù (120). Non soltanto, ma proprio per il carattere costitutivo della cultura, nella identità di un popolo, anche la pietà popolare è soggetto attivo di evangelizzazione: Quando in un popolo si è inculturato il Vangelo, nel suo processo di trasmissione culturale trasmette anche la fede in modi sempre nuovi; da qui l’importanza dell’evangelizzazione intesa come inculturazione. Ciascuna porzione del Popolo di Dio, traducendo nella propria vita il dono di Dio secondo il proprio genio, offre testimonianza alla fede ricevuta e la arricchisce con nuove espressioni che sono eloquenti. Si può dire che «il popolo evangelizza continuamente sé stesso». Qui riveste importanza la pietà popolare, autentica espressione dell’azione missionaria spontanea del Popolo di Dio. Si tratta di una realtà in permanente sviluppo, dove lo Spirito Santo è il protagonista (122). Si tratta di una spiritualità incarnata nella cultura dei semplici, che non è priva di contenuti, ma li esprime per via simbolica piuttosto che con i concetti della ragione strumentale. A tal proposito la EG mette in campo la distinzione tra il credere in Deum e il credere Deum, citando la Summa di Tommaso d’Aquino (II-II q. 2 a. 2). Nella fede popolare cioè, più che le singole verità su Dio (l’oggetto materiale della fede), si esprime il motivo per cui si crede, il credere in Deum. Per la comprensione della pietà popolare occorre accostarsi ad essa con lo sguardo del Buon Pastore, il quale non giudica ma ama. L’amore genera infatti una connaturalità affettiva e solo all’interno di questo comune sentire si può scoprire la vita teologale presente nella pietà dei popoli cristiani (125). E disconoscere la forza evangelizzatrice della pietà popolare, che è frutto del Vangelo inculturato, equivarrebbe a disconoscere l’opera dello Spirito Santo (126). 128 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 129 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II La dimensione collettiva dell’evangelizzazione attraverso le varie testimonianze della pietà popolare, non ignora l’importanza della testimonianza individuale, qualificata come autentica ‘predicazione’, di cui si detta una precisa metodologia: In questa predicazione, sempre rispettosa e gentile, il primo momento consiste in un dialogo personale, in cui l’altra persona si esprime e condivide le sue gioie, le sue speranze, le preoccupazioni per i suoi cari e tante cose che riempiono il suo cuore. Solo dopo tale conversazione è possibile presentare la Parola, sia con la lettura di qualche passo della Scrittura o in modo narrativo, ma sempre ricordando l’annuncio fondamentale: l’amore personale di Dio che si è fatto uomo, ha dato sé stesso per noi e, vivente, offre la sua salvezza e la sua amicizia. È l’annuncio che si condivide con un atteggiamento umile e testimoniale di chi sa sempre imparare, con la consapevolezza che il messaggio è tanto ricco e tanto profondo che ci supera sempre. A volte si esprime in maniera più diretta, altre volte attraverso una testimonianza personale, un racconto, un gesto, o la forma che lo stesso Spirito Santo può suscitare in una circostanza concreta. Se sembra prudente e se vi sono le condizioni, è bene che questo incontro fraterno e missionario si concluda con una breve preghiera, che si colleghi alle preoccupazioni che la persona ha manifestato. Così, essa sentirà più chiaramente di essere stata ascoltata e interpretata, che la sua situazione è stata posta nelle mani di Dio, e riconoscerà che la Parola di Dio parla realmente alla sua esistenza (128). E, dopo aver dato grande importanza alla creatività delle culture e dei carismi, la EG detta anche il criterio per discernere in questa varietà. Chiaro segno per l’autenticità di ogni carisma è la sua capacità di integrarsi armonicamente nella vita del popolo di Dio, la sua ecclesialità (130). Infine, l’esortazione non dimentica il ruolo che le università e le scuole cattoliche possono giocare nel dialogo tra Vangelo e cultura (132-134). Il capitolo dedicato all’annuncio del Vangelo, si trasforma a questo punto in un manuale di teologia pratica che introduce alla tecnica dell’omelia durante la liturgia, alla predicazione e all’incidenza educativa dell’annuncio per la crescita della vita spirituale (135-175). LA DIMENSIONE SOCIALE DELL’ EVANGELIZZAZIONE L’esortazione, per una esigenza di completezza, nel IV capitolo affronta anche le conseguenze che dal Vangelo si debbono trarre per una presenza nel sociale. Viene cioè giudicato insufficiente quanto era stato detto nella prima parte. Non si può non notare, tuttavia, un certo mutamento di registro che, a mio avviso, è spia di una mano diversa e anche di un’ispirazione diversa rispetto soprattutto alle analoghe osservazioni contenute nel I e nel II capitolo. In qualche modo qui predomina lo stile della dottrina sociale della Chiesa. L’apoditticità dell’esperienza vissuta che prevaleva nella prima parte si trasforma in un discorso pacato che tende a mostrare la connessione logica dei pensieri: confessare un Padre che ama infinitamente ogni uomo implica scoprire la dignità di ognuno; confessare il Figlio di Dio incarnato significa comprendere che ogni persona è elevata fino al cuore di Dio; confessare che Gesù ha dato il suo sangue per noi fa scoprire l’amore senza limiti; confessare che lo Spirito agisce in tutti implica che Egli cerca di penetrare in ogni situazione umana e l’evangelizzazione deve allora cercare di cooperare con tale azione liberatrice dello Spirito, e via dicendo (178). Esiste cioè un legame indissolubile tra l’annuncio del Vangelo ed un effettivo amore fraterno, così come mostrano le Scritture (179). La proposta è il 129 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 130 GIUSEPPE RUGGIERI Regno di Dio che viene anticipato e cresce fra di noi. Il Vangelo contiene un principio di universalità, dal momento che il Padre vuole che tutti gli uomini si salvino, e il mandato della carità abbraccia tutte le dimensioni dell’esistenza. Ne consegue una difesa della dottrina sociale della Chiesa. Persino nel discorso sull’evangelizzazione la prospettiva era stata quella dell’intero popolo di Dio. Ma adesso il discorso viene centrato sui diritti della gerarchia: Gli insegnamenti della Chiesa sulle situazioni contingenti sono soggetti a maggiori o nuovi sviluppi e possono essere oggetto di discussione, però non possiamo evitare di essere concreti – senza pretendere di entrare in dettagli – perché i grandi principi sociali non rimangano mere indicazioni generali che non interpellano nessuno. Bisogna ricavarne le conseguenze pratiche perché «possano con efficacia incidere anche nelle complesse situazioni odierne». I Pastori, accogliendo gli apporti delle diverse scienze, hanno il diritto di emettere opinioni su tutto ciò che riguarda la vita delle persone, dal momento che il compito dell’evangelizzazione implica ed esige una promozione integrale di ogni essere umano. Non si può più affermare che la religione deve limitarsi all’ambito privato e che esiste solo per preparare le anime per il cielo. Sappiamo che Dio desidera la felicità dei suoi figli anche su questa terra, benché siano chiamati alla pienezza eterna, perché Egli ha creato tutte le cose «perché possiamo goderne» (1 Tm 6,17), perché tutti possano goderne. Ne deriva che la conversione cristiana esige di riconsiderare «specialmente tutto ciò che concerne l’ordine sociale ed il conseguimento del bene comune» (182). Questo insegnamento sociale nell’esortazione si articola in due argomenti: il privilegio da dare al grido del povero, all’escluso e alla vittima della cultura dello scarto, e la costruzione della pace. Sul tema dei poveri ritornano, anche se con minore forza profetica, alcune delle considerazioni già trattate nella prima parte. Si insiste sulla necessità di rimuovere le cause strutturali della povertà (188), ricordando la destinazione universale dei beni come realtà anteriore alla proprietà privata (189), e sottolineando come non esista solo la povertà dei singoli, ma di interi popoli della Terra, criticando altresì la difesa esacerbata dei diritti umani (individuali) per negare di fatto i diritti dei popoli (190). La centralità del povero viene ancorata a più riprese alla Scrittura. La EG cita tra gli altri esempi quello della colletta paolina per i poveri di Gerusalemme: Quando san Paolo si recò dagli Apostoli a Gerusalemme per discernere se stava correndo o aveva corso invano (cfr. Gal 2,2), il criterio-chiave di autenticità che gli indicarono fu che non si dimenticasse dei poveri (cfr. Gal 2,10). Questo grande criterio, affinché le comunità paoline non si lasciassero trascinare dallo stile di vita individualista dei pagani, ha una notevole attualità nel contesto presente, dove tende a svilupparsi un nuovo paganesimo individualista. La bellezza stessa del Vangelo non sempre può essere adeguatamente manifestata da noi, ma c’è un segno che non deve mai mancare: l’opzione per gli ultimi, per quelli che la società scarta e getta via (195). Nel cuore di Dio c’è un posto preferenziale per i poveri (197) e «per la Chiesa l’opzione per i poveri è una categoria teologica prima che culturale, sociologica, politica o filosofica. Dio concede loro “la sua prima misericordia”. Questa preferenza divina ha delle conseguenze nella vita di fede di tutti i cristiani, chiamati ad avere “gli stessi sentimenti di Gesù” (Fil 2,5). Ispirata da essa, la Chiesa ha fatto una opzione per i poveri intesa come 130 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 131 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II una “forma speciale di primazia nell’esercizio della carità cristiana, della quale dà testimonianza tutta la tradizione della Chiesa”» (198). Per questo l’impegno per i poveri non è soltanto fatto di azioni, ma ancor prima di un atteggiamento spirituale, apprezzando il povero nella sua bontà propria, nel suo modo di essere, nella sua cultura (199). La peggior discriminazione di cui soffrono i poveri è la mancanza di attenzione spirituale (200). Accanto a questo atteggiamento spirituale, la necessità di risolvere le cause strutturali della povertà impone di superare l’atteggiamento assistenzialista (202). Non possiamo più confidare nelle forze cieche e nella mano invisibile del mercato. La crescita in equità esige qualcosa di più della crescita economica, benché la presupponga, richiede decisioni, programmi, meccanismi e processi specificamente orientati a una migliore distribuzione delle entrate, alla creazione di opportunità di lavoro, a una promozione integrale dei poveri che superi il mero assistenzialismo. Lungi da me il proporre un populismo irresponsabile, ma l’economia non può più ricorrere a rimedi che sono un nuovo veleno, come quando si pretende di aumentare la redditività riducendo il mercato del lavoro e creando in tal modo nuovi esclusi (204). E forte è la critica della EG per quelle forme di esperienza comunitaria dove viene ignorato il problema della povertà. Queste comunità che ignorano la propria responsabilità sociale sono condannate alla dissoluzione e alla mondanità spirituale «dissimulata con pratiche religiose, con riunioni infeconde o con discorsi vuoti (207)». Vengono poi ricordate le forme nuove della povertà: i senza tetto, i tossicodipendenti, i rifugiati, i popoli indigeni, gli anziani sempre più soli e abbandonati, i migranti, coloro che sono oggetto delle diverse forme di tratta di persone, le donne che soffrono situazioni di esclusione, maltrattamento e violenza, i bambini nascituri, che sono i più indifesi e innocenti di tutti, ai quali oggi si vuole negare la dignità umana (210-214). E da ultimo c’è il lamento per la distruzione dell’ambiente: Ci sono altri esseri fragili e indifesi, che molte volte rimangono alla mercé degli interessi economici o di un uso indiscriminato. Mi riferisco all’insieme della creazione. Come esseri umani non siamo dei meri beneficiari, ma custodi delle altre creature. Mediante la nostra realtà corporea, Dio ci ha unito tanto strettamente al mondo che ci circonda, che la desertificazione del suolo è come una malattia per ciascuno, e possiamo lamentare l’estinzione di una specie come fosse una mutilazione. Non lasciamo che al nostro passaggio rimangano segni di distruzione e di morte che colpiscono la nostra vita e quella delle future generazioni (215). Il discorso sulla costruzione della pace, dopo alcune considerazioni di ordine generale, contiene quattro grandi principi che derivano dai grandi postulati della dottrina sociale della Chiesa e che sono relazionati a tensioni bipolari proprie di ogni realtà sociale. Essi sono nell’ordine: a) il tempo è superiore allo spazio, nella tensione bipolare tra la pienezza e il limite. Questo principio permette di lavorare a lunga scadenza, senza l’ossessione dei risultati immediati. Dare priorità al tempo significa iniziare processi più che occupare spazi di potere e di autoaffermazione (222-225); b) l’unità prevale sul conflitto. Questo principio permette di sviluppare una comunione tra le differenze e di vivere i conflitti come occasione per raggiungere una unità pluriforme (226-230); c) la realtà è più importante dell’idea. La realtà semplicemente è, l’idea si elabora. Tra le due si deve instaurare un dialogo costante, evitando che l’idea finisca per separarsi dalla realtà. È pericoloso vivere nel regno della sola parola, dell’immagine, del sofisma (231-233); d) il tutto è superiore alla parte (234-237). 131 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 132 GIUSEPPE RUGGIERI Dopo la formulazione di questi principi, l’esortazione fa appello alla libertà religiosa, considerata come diritto fondamentale la cui realizzazione costituisce il presupposto necessario per il dialogo effettivo: Un sano pluralismo, che davvero rispetti gli altri ed i valori come tali, non implica una privatizzazione delle religioni, con la pretesa di ridurle al silenzio e all’oscurità della coscienza di ciascuno, o alla marginalità del recinto chiuso delle chiese, delle sinagoghe o delle moschee. Si tratterebbe, in definitiva, di una nuova forma di discriminazione e di autoritarismo. Il rispetto dovuto alle minoranze di agnostici o di non credenti non deve imporsi in un modo arbitrario che metta a tacere le convinzioni di maggioranze credenti o ignori la ricchezza delle tradizioni religiose. Questo alla lunga fomenterebbe più il risentimento che la tolleranza e la pace (255). Come credenti ci sentiamo vicini anche a quanti, non riconoscendosi parte di alcuna tradizione religiosa, cercano sinceramente la verità, la bontà e la bellezza, che per noi trovano la loro massima espressione e la loro fonte in Dio. Li sentiamo come preziosi alleati nell’impegno per la difesa della dignità umana, nella costruzione di una convivenza pacifica tra i popoli e nella custodia del creato (257). MOSSI DALLO SPIRITO L’ultima parte dell’esortazione è dedicata all’azione dello Spirito che sta all’origine di ogni attività evangelizzatrice. Torna alla mente l’opera di dom Jean-Baptiste Chautard L’anima di ogni apostolato, pubblicata per la prima volta nel 1907 e divenuta nei decenni successivi un punto di riferimento che ha alimentato la vita interiore di molti preti. C’è tuttavia una differenza di sfumatura e di accento. L’opera di dom Chautard, al di là del titolo, voleva ribadire il primato della vita interiore su ogni azione esterna. Le riflessioni della EG, invece, vogliono mostrare la necessità della vita di unione, vissuta e interiorizzata, con Gesù Cristo come l’anima effettiva immanente a ogni attività evangelizzatrice. Potremmo dire che nell’ultima parte si dà il fondamento e l’esplicazione del titolo stesso dell’esortazione: la gioia del Vangelo. Infatti, dopo aver sottolineato come il primato fosse dato all’esperienza, al Vangelo in quanto vissuto e origine di gioia, possiamo osservare come proprio in quest’ultima parte la EG esplica tale dimensione soggettiva del Vangelo, di cui con una certa forzatura ho affermato il carattere di autoevidenza, di apoditticità. E val la pena anzitutto citare per esteso quanto anche graficamente è evidenziato nella esortazione al n. 262: Evangelizzatori con Spirito significa evangelizzatori che pregano e lavorano. Dal punto di vista della evangelizzazione, non servono né le proposte mistiche senza un forte impegno sociale e missionario, né i discorsi e le prassi sociali e pastorali senza una spiritualità che trasformi il cuore. Tali proposte parziali e disgreganti raggiungono solo piccoli gruppi e non hanno una forza di ampia penetrazione, perché mutilano il Vangelo. Occorre sempre coltivare uno spazio interiore che conferisca senso cristiano all’impegno e all’attività. Senza momenti prolungati di adorazione, di incontro orante con la Parola, di dialogo sincero con il Signore, facilmente i compiti si svuotano di significato, ci indeboliamo per la stanchezza e le difficoltà, e il fervore si spegne. La Chiesa non può fare a meno del polmone della preghiera, e mi rallegra immensamente che si moltiplichino in tutte le istituzioni ecclesiali i gruppi di preghiera, di intercessione, di lettura orante della Parola, le adorazioni perpetue dell’Eucaristia. Nello stesso tempo «si deve respingere la tentazione di 132 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 133 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II una spiritualità intimistica e individualistica, che mal si comporrebbe con le esigenze della carità, oltre che con la logica dell’Incarnazione». Per questa spiritualità che trasforma il cuore, il papa indica le condizioni che la alimentano: la vita personale di unione con Gesù la quale, unita alla convinzione che nell’altro c’è un’attesa della verità su Dio e su sé stessi, rafforza l’entusiasmo per la missione (264-267); il piacere spirituale di essere popolo, che ci fa toccare la miseria umana e la carne sofferente degli altri, un piacere che non è una parte soltanto o un’appendice della vita, ma che il discepolo non può sradicare dal suo essere (268-274); la fede nella presenza del Risorto e nell’azione dello Spirito che fa superare ogni chiusura del cuore dettata dal pessimismo (275-280); la preghiera d’intercessione per gli altri, che è un addentrarsi nel seno del Padre e fa scoprire nuove dimensioni che illuminano le situazioni concrete e le cambiano (281-283). La conclusione dell’esortazione è costituita da un richiamo al ruolo di Maria, dono che Gesù dalla croce ha fatto al suo popolo, e che imprime uno stile mariano nell’attività evangelizzatrice della Chiesa: Perché ogni volta che guardiamo a Maria torniamo a credere nella forza rivoluzionaria della tenerezza e dell’affetto. In lei vediamo che l’umiltà e la tenerezza non sono virtù dei deboli ma dei forti, che non hanno bisogno di maltrattare gli altri per sentirsi importanti. Guardando a lei scopriamo che colei che lodava Dio perché «ha rovesciato i potenti dai troni» e «ha rimandato i ricchi a mani vuote» (Lc 1,52-53) è la stessa che assicura calore domestico alla nostra ricerca di giustizia. È anche colei che conserva premurosamente «tutte queste cose, meditandole nel suo cuore» (Lc 2,19). Maria sa riconoscere le orme dello Spirito di Dio nei grandi avvenimenti ed anche in quelli che sembrano impercettibili. È contemplativa del mistero di Dio nel mondo, nella storia e nella vita quotidiana di ciascuno e di tutti. È la donna orante e lavoratrice a Nazaret, ed è anche nostra Signora della premura, colei che parte dal suo villaggio per aiutare gli altri «senza indugio» (Lc 1,39). Questa dinamica di giustizia e di tenerezza, di contemplazione e di cammino verso gli altri, è ciò che fa di lei un modello ecclesiale per l’evangelizzazione (288). UNA RECEZIONE ‘QUASI’ UNANIME In genere, la recezione ecclesiale della EG è stata ‘quasi’ unanime e tranquilla. Non mancano, tuttavia, voci contrarie che toccano i due punti più qualificanti del documento: il nesso tra l’evangelo dei poveri e il rifiuto dell’economia di mercato responsabile della cultura dello ‘scarto’; la riformulazione dell’equilibrio dottrinale della Chiesa sotto il primato del Vangelo della misericordia. Queste ‘voci’ contrarie non sono molto autorevoli. Tra di esse non si riscontrano voci di vescovi o di teologi ‘cordati’ (nel gergo teologico ‘autorevoli’), come si diceva una volta. Ciò non vuol dire che non siano rappresentative. Dietro la presa di posizione del filosofo dell’economia Michael Novak, non è del tutto ingiustificato auscultare la voce del ventre molle del cattolicesimo conservatore americano, ivi inclusi diversi esponenti dell’episcopato. E dietro la reazione dei lefebvriani, affidata alla penna di un loro autorevole esponente, Franz Schmidberger, fondatore e attuale rettore del loro seminario di Zaitzkofen in Germania, si può legittimamente leggere il rifiuto di tutta la Fraternità sacerdotale San Pio X, tant’è che il documento di Schmidberger è stato ripreso anche nel sito ufficiale della Fraternità, Documentation Information Catholiques Internationales (www.dici.org/documents) del 16 dicembre 2013. 133 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 134 GIUSEPPE RUGGIERI Riprendo l’articolo di Novak dal quindicinale conservatore «National Review» di New York del 7 dicembre 2013. Michael Novak è un fedele cattolico americano, fautore a suo tempo della politica economica di Reagan e autore di un celebre saggio in cui cerca di dimostrare la compatibilità tra la dottrina sociale della Chiesa e il capitalismo12. La sua posizione non è di rifiuto, ma di ridimensionamento della EG. Il papa infatti ha ragione nella sua condanna del capitalismo, ma solo perché guarda la realtà con gli occhi di un argentino. La verità è invece che nei paesi di tradizione anglosassone, soprattutto l’America, che si sono presto liberati dall’economia feudale, in regime di libertà e con interventi minimali dello Stato, si registra una crescita verso una condizione di benessere diffuso. Ben diverso rispetto alla EG il giudizio della Centesimus annus, soprattutto al n. 42 che invece riconosce nel capitalismo, basato sul ruolo positivo dell’impresa, del mercato e della proprietà privata, un modello valido per i popoli del Terzo Mondo, anche se rifiuta il capitalismo selvaggio e senza regole. Papa Bergoglio ha bocciato la ‘teoria della ricaduta favorevole’13, ma lo ha fatto condizionato dal pensiero di coloro che non sanno guardare più in là della condizione dell’America Latina, dove c’è scarsa creatività. Novak, tuttavia, apprezza due affermazioni fondamentali della EG: l’idea che il cosmo e l’uomo sono un frutto della vita intima del Creatore e del suo amore; l’affermazione della responsabilità dei cristiani per spezzare le ultime catene dell’antica povertà. Difficile valutare questa presa di posizione di Novak, senza voler prendere atto della sua unilateralità, cioè della ignoranza o della messa tra parentesi della responsabilità delle economie ricche, come quella del suo paese, nel negare proprio ai paesi dell’America Latina, per vari decenni (l’epoca delle dittature militari sostenute dai vari governi nordamericani), l’accesso alla democrazia e alla libertà, per lui fattore fondamentale di crescita. E la sua critica tende altresì ad ignorare la responsabilità delle grandi multinazionali nell’impoverimento del Sud del mondo. Ma non mi sembra questo il rilievo da fare. Piuttosto, la posizione di Novak mi sembra rappresentativa di un cattolicesimo conservatore che si ritrae con fastidio da ogni prospettiva che metta al centro del Vangelo il povero e soprattutto vuole ignorare il mistero stesso della povertà, nella sua dimensione cristologica e ultimamente trinitaria. Ridurre l’esortazione EG e l’attenzione che presta al mistero della povertà al suo aspetto economicistico significa ignorare tutto lo spessore teologico e spirituale che i poveri hanno assunto nelle teologie del Sud del mondo e che sono rispecchiate soprattutto nell’ultima parte dell’esortazione (264-267). Già prima di Novak, sempre nella «National Review», era intervenuto Samuel Gregg. Egli si era dichiarato contento della sottolineatura fatta dalla EG sul ruolo dello Spirito Santo e sul proposito di sviluppare la collegialità tra Roma e le Chiese locali. Ma il resto dell’articolo sviluppava una serrata critica soprattutto su due argomenti: il nesso tra l’islam e la violenza; la condanna dell’autonomia assoluta dei mercati. Sul primo argomento Gregg critica l’affermazione del papa che l’islam autentico si opponga ad ogni forma di violenza. Per farlo contrappone al papa gli scritti del gesuita Samir Khalil, che invece sostiene le profonde radici dell’atteggiamento violento, soprattutto nella tradizione sunnita. Ma la preoccupazione principale di Gregg è la critica della EG al capitalismo. Non è vero che il capitalismo sia senza regole, come dimostra l’elevata tassazione che nei paesi avanzati viene praticata sulla base del prodotto interno lordo. L’anarco-capitalismo è praticato solo in pochi paesi, mentre dove è stato introdotto il libero mercato, con un minimo di regole, si è avuta la diminuzione della povertà, come è dimostrato soprattutto M. NOVAK, The spirit of democratic capitalism, New York 1982 (trad. it. Lo spirito del capitalismo democratico e il cristianesimo, Roma 1987). Novak gioca sulla traduzione inglese che parla di trickle-down theories (con l’immagine dell’acqua che deborda e cade in rivoli verso il basso) e dice che invece occorre parlare di una crescita verso il benessere ai tempi di Reagan, che più propriamente «sgorgava dal basso», dalla libera creatività delle persone che facevano buon uso delle possibilità offerte loro dal capitalismo democratico. 12 13 134 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 135 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II dall’economia di alcuni paesi asiatici. Il papa, nonostante affermi il primato della realtà sull’idea, dedica scarsa attenzione all’analisi dell’economia reale. Per il resto Gregg si dichiara d’accordo con la preoccupazione di papa Francesco affinché si risolva il problema della povertà nel mondo. Sia l’articolo di Gregg sia quello di Novak mostrano a sufficienza un fatto, e cioè la preoccupazione di un certo conservatorismo di fronte alla critica radicale rivolta dalla EG al capitalismo selvaggio. È vero che la Centesimus annus aveva distinto tra capitalismo selvaggio e capitalismo buono. Ma è proprio questa mancanza di distinzione che ai difensori dell’economia del libero mercato risulta inaccettabile. Che questa condanna faccia parte di una preoccupazione pastorale più ampia, preoccupazione riconosciuta da Novak ma per nulla colta nel suo autentico spessore cristiano e teologico, non viene affatto preso in considerazione. Anche sul suolo europeo è stata respinta dai circoli conservatori la condanna dell’economia liberista. Si può citare come esempio il violento attacco di Hubert Milz in una conferenza tenuta presso il Ludwig von Mises Institut, una istituzione orientata fortemente in senso antisocialistico, e poi ripresa in vari siti on-line14. E il titolo della conferenza è chiaro: Evangelii gaudium: Abkehr vom rechtem Weg e cioè: l’esortazione del papa si è allontanata dalla retta via. Un buon protestante credente, come Robert Grözinger, che ha scritto un libro sulle radici cristiane del capitalismo (Gesù il capitalista. Il cuore cristiano dell’economia di mercato)15, offre, a detta di Milz, «maggiori conoscenze cattoliche dello scritto di papa Francesco». La rivista on-line «Katholisches - Magazin für Kirche und Kultur», espressione del cattolicesimo conservatore di lingua tedesca, pubblica da parte sua, in maniera che ormai è lecito definire programmatica, attacchi sempre più duri all’insegnamento e ai gesti di papa Francesco. Lì si trovano gli articoli in più puntate di Schmidberger, che sono stati poi ripresi dal bollettino ufficiale della Fraternità sacerdotale San Pio X. Il titolo è significativo: Evangelii gaudium - Dolor fidelium. La preoccupazione non è quella della difesa del libero mercato, come negli interventi che ho ricordato sopra, ma soprattutto dottrinale. Dapprima Schmidberger enumera gli aspetti dell’esortazione che egli ritiene positivi: il rimprovero alla società tecnologica di non procurare la gioia (7), il riconoscimento che l’azione della grazia oltrepassa ogni calcolo umano (22), l’affermazione che oggi la Chiesa non ha bisogno di una semplice amministrazione (25), la citazione di Tommaso d’Aquino al n. 37 sulla centralità della grazia per la vita morale, l’insistenza sulla predicazione che deve soprattutto toccare i cuori (42), l’analisi dello stato dell’economia dal n. 52 al 76 (anche se il papa manca di osservare che lo stato cattolico e la società cristiana erano frutto della fede cristiana e non cita la Quadragesimo anno), la crisi della famiglia al n. 66 (anche se la EG omette di ricordare che il matrimonio è l’unione indissolubile di un uomo e di una donna), la descrizione lucida degli anni postconciliari (78-79), la riaffermazione del sacerdozio riservato agli uomini, come segno di Cristo Sposo che si consegna nell’Eucaristia, questione che non si pone in discussione (104), la gratuità della grazia e dell’opera della Redenzione (112), l’importanza delle università e delle scuole cattoliche per la predicazione del Vangelo anche se in maniera insufficiente (134), la condanna della eliminazione dei bambini prima della nascita (214), il principio che il tutto è superiore alle parti come condanna dell’individualismo (235) e infine la superba descrizione dell’entusiasmo missionario e dell’attività apostolica al n. 267. Ma «le belle parti del documento papale che ci hanno rallegrato», non possono impedire la constatazione della ferma volontà di realizzare il Concilio non soltanto nella sua lettera, ma secondo il suo spirito. La trilogia 14 15 Cfr. il sito di «Katholisches - Magazin für Kirche und Kultur» (www.katholisches.info) del 6 dicembre 2013. R. GRÖZINGER, Jesus, der Kapitalist. Das christliche Herz der Marktwirtschaft, München 2012. 135 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 136 GIUSEPPE RUGGIERI libertà religiosa - collegialità - ecumenismo, che secondo le parole di monsignor Lefebvre corrispondono al motto della Rivoluzione francese, è sviluppata in maniera sistematica: i fedeli attaccati alla tradizione (la presunta sicurezza dottrinale o disciplinare) sono accusati di neopelagianesimo ai nn. 94 e 95; l’esortazione difetta di senso della realtà, appoggiandosi su una falsa esegesi della parabola della zizzania, vinta «dalla bontà del grano che si manifesta con il tempo» (225); il difetto di senso della realtà appare al n. 44, dove i preti vengono esortati a non trasformare la confessione in una «camera di tortura»; strana inoltre è l’osservazione del n. 129, dove si afferma che l’annuncio evangelico non si trasmette con formule determinate e fisse o con parole precise che esprimono un contenuto assolutamente immutabile: questo è il modernismo condannato da Pio X; il n. 155 parla della libertà religiosa come diritto fondamentale dell’uomo, affermazione che si oppone alla XV proposizione del Sillabo di Pio IX; il n. 255 contraddice la dottrina dei papi, dalla Rivoluzione francese fino a Pio XII incluso: il «sano pluralismo» di cui si parla è escluso dal riconoscimento che il Verbo è venuto nel mondo per redimerlo e che solo in Lui si trova la salvezza; il concetto di collegialità sviluppato dal papa sarà ancora più funesto per il futuro della Chiesa, giacché, se il papato e l’episcopato sono di istituzione divina, non lo sono invece le conferenze episcopali; la gerarchia delle verità, come ha spiegato la Congregazione per la dottrina della fede, non vuol dire che ci sia una verità meno importante di un’altra, ma che esistono delle verità dalle quali discendono altre verità parziali; il n. 246 afferma che l’alleanza con il popolo giudaico non è stata soppressa, ma così si ignora che l’Antico Testamento è solo preparazione al Nuovo, che umbram fugat veritas, che il velo del Tempio è stato lacerato da cima a fondo con la morte di Gesù; i nn. 250-253 dedicati al dialogo interreligioso ignorano che i musulmani negano la Trinità e la divinità del Cristo e che il Corano fomenta la violenza; il n. 254 afferma che i segni e i riti dei non cristiani possono essere canali che lo Spirito Santo suscita per liberarli dall’immanentismo ateo o da una religiosità solo individuale. Ma ciò equivale a dire che lo Spirito opera anche nelle religioni non cristiane e che esse sono tutte delle vie di salvezza. La conclusione è netta: Sebbene l’Esortazione apostolica Evangelii gaudium contenga degli elementi giusti, come nella semente sparsa, nell’insieme essa non è altro che uno sviluppo conseguente del Concilio Vaticano II, nelle sue conclusioni meno accettabili. Noi non vediamo in questa Esortazione «vie per il cammino della Chiesa nei prossimi anni» (1), ma piuttosto un altro passo funesto per il declino della Chiesa, per la corruzione della dottrina, per la dissoluzione delle sue strutture e persino per il suo spirito missionario, nonostante esso sia evocato a più riprese. Così Evangelii gaudium diventa Dolor fidelium, tristezza e dolore per i fedeli. IL MESSAGGIO DELL’ ESORTAZIONE Le motivazioni che portano al rifiuto dell’esortazione da parte di una fetta di cattolici per lo più allineati su posizioni conservatrici, nella collocazione sociale e/o ecclesiale, mettono in rilievo il messaggio della EG che sta tutta in due fuochi attorno ai quali si dispongono i suoi insegnamenti. Il primo fuoco è il «Vangelo dei poveri». Sbaglia chi spegne questo fuoco riducendolo ad affermazione economica o sociologica. Si tratta del mistero del Regno che è dei poveri, il quale affonda le sue radici nel mistero trinitario stesso, giacché è unus de Trinitate che non considera la sua origine trinitaria, cioè la sua eguaglianza con il Padre, come possesso da difendere, come preda, ma svuota sé stesso, si fa «tapino», «impoverisce sé stesso» per consegnarci in dono questo impoverimento, che si trasforma nella ricchezza del Vangelo stesso (cfr. Fil 2,6-11 136 117-138_07_RUGGIERI_impaginato interno 22/12/15 09:50 Pagina 137 «EVANGELII GAUDIUM» NEL SOLCO APERTO DAL VATICANO II assieme a 2Cor 8,9). Questo mistero diventa manifesto nella vicenda storica di Gesù di Nazaret e nella vita di coloro che si mettono alla sua sequela perché credono nel suo Vangelo. Esso non si identifica come tale con nessuna teoria economica, né con l’economia del libero mercato né con la sua negazione. L’eventuale affermazione o negazione di questa economia non è situata all’interno dell’orizzonte economicistico, ma è solo il riflesso di ciò che un determinato sistema economico opera o meno in una precisa situazione storica nei confronti dell’uomo concreto, cioè nei confronti dei popoli. Se un’economia mondiale di fatto mata, cioè uccide, per usare il linguaggio realistico di papa Francesco, è ovvio dire che essa è negazione del Vangelo. Il giudizio così espresso ha un registro radicalmente teologico, cioè esprime il logos tou Theou, la parola di Dio, come il «Guai a voi ricchi» che Gesù pronuncia in Luca 6,24. Il secondo fuoco, colto molto bene benché spento anch’esso nella reazione lefebriana alla EG, è di tipo storico salvifico. Che senso ha avuto il pontificato di papa Roncalli nella storia del cristianesimo, la sua proposta di un magistero prevalentemente pastorale sotto il primato della misericordia, la sua distinzione tra la sostanza viva del Vangelo e le forme in cui storicamente si esprime16, la sua proposta di una Chiesa dei poveri17, la presa di coscienza iniziale nell’assemblea conciliare18, il suo impatto nel cuore dei vescovi del Terzo Mondo (patto delle catacombe)19, la ripresa del Vangelo dei poveri nella teologia della liberazione? Si tratta di un effettivo ‘balzo in avanti’ nella comprensione del Vangelo o di una sua corruzione, come pretendono Lefebvre e i suoi seguaci? Che un vescovo di Roma proveniente dalla ‘fine del mondo’ recepisca il Concilio e porti con sé, sul soglio di Pietro, la maturazione spirituale della sua Chiesa, la ricchezza del suo cammino pastorale tra le periferie della sua sede argentina sono fatti che vanno debitamente collocati in un preciso orizzonte storico, che segnano il volto del cristianesimo imprimendovi dei tratti di non minor valore rispetto alla Chiesa intransigente dell’Occidente in lotta con la modernità. La novità che il Concilio rappresenta nel periodo lungo della storia della Chiesa, vorrei dire rispetto a tutta la storia della Chiesa nel II millennio, è un dato che si manifesterà in maniera sempre più chiara. La Evangelii gaudium ne è uno dei segni. Sono tutte affermazioni centrali della sua allocuzione conciliare Gaudet Mater Ecclesia. Cfr. il radiomessaggio dell’11 settembre 1962, in GIOVANNI XXIII, Discorsi, messaggi, colloqui del Santo Padre Giovanni XXIII, vol. IV, Roma 1964, pp. 519-528. 18 Presa di coscienza enfatizzata, alla fine del primo periodo conciliare, nell’applauditissimo intervento del cardinale Lercaro, il quale proponeva di far ruotare tutto il lavoro conciliare attorno al motivo della Chiesa dei poveri, motivo poi di fatto disatteso nel prosieguo del Concilio. Cfr. G. LERCARO, Per la forza dello Spirito. Discorsi conciliari, Bologna 2014, pp. 111-119. Sulla ricezione postconciliare del messaggio della povertà, cfr. G. RUGGIERI, Evangelizzazione e stili ecclesiali: «Lumen Gentium, 8,3», in Annuncio del Vangelo, forma ecclesiae, a cura di D. Vitali, Cinisello Balsamo 2005, pp. 225-256. 19 Il 16 novembre del 1965, pochi giorni prima della chiusura del Vaticano II, una quarantina di padri conciliari celebrarono una Eucaristia nelle catacombe di Domitilla, a Roma, chiedendo fedeltà allo Spirito di Gesù. Dopo questa celebrazione, firmarono il cosiddetto ‘Patto delle Catacombe’. Il documento è una sfida ai ‘fratelli nell’Episcopato’ a portare avanti una «vita di povertà», una Chiesa «serva e povera», come aveva suggerito papa Giovanni XXIII. I firmatari – fra di essi, numerosi brasiliani e latino-americani, poiché molti più tardi aderirono al patto – si impegnavano a vivere in povertà, a rinunciare a tutti i simboli o ai privilegi del potere e a mettere i poveri al centro del loro ministero pastorale. Il testo ha avuto una forte influenza sulla teologia della liberazione, che sarebbe sorta negli anni seguenti. 16 17 137