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SILVINA PAULA VIDAL UNA REVISIONE DELLE TESI DI ANDRÉ CHASTEL SU ALCUNE RAPPRESENTAZIONI CONTEMPORANEE DEL SACCO DI ROMA (1527) ESTRATTO da ARCHIVIO STORICO ITALIANO 2015/2 ~ a. 173 n. 644 644 Anno CLXXIII ARCHIVIO STORICO ITALIANO FONDATO DA G. P. VIEUSSEUX E PUBBLICATO DALLA DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA 2 0 1 5 DISP. II LEO S. OLSCHKI EDITORE FIRENZE 2015 ARCHIVIO STORICO ITALIANO Direttore : GIULIANO PINTO Comitato di Redazione : MARIO ASCHERI, SERGIO BERTELLI, EMILIO CRISTIANI, RICCARDO FUBINI, RICHARD A. GOLDTHWAITE, CHRISTIANE KLAPISCH-ZUBER, HALINA MANIKOWSKA, ROSALIA MANNO, RITA MAZZEI, MAURO MORETTI, RENATO PASTA, ROBERTO PERTICI, MAURO RONZANI, THOMAS SZABÓ, LORENZO TANZINI, SERGIO TOGNETTI, ANDREA ZORZI Segreteria di Redazione : LORENZO TANZINI, SERGIO TOGNETTI, CLAUDIA TRIPODI Direzione e Redazione: Deputazione di Storia Patria per la Toscana Via dei Ginori n. 7, 50123 Firenze, tel. 055 213251 www.deputazionetoscana.it INDICE Anno CLXXIII (2015) N. 644 - Disp. II (aprile-giugno) Memorie DANIELE GIUSTI, Scritture quattrocentesche della famiglia Gaddi: il Priorista e i Ricordi . . . . . . . . . . . . Pag. 191 RAÚL GONZÁLEZ ARÉVALO, De las postrimerías nazaríes a los albores castellanos. Ambrogio Spinola y la continuidad de los genoveses del Reino de Grenada (1478-1508) . . . » 239 SILVINA PAULA VIDAL, Una revisione delle tesi di André Chastel su alcune rappresentazioni contemporanee del Sacco di Roma (1527) . . . . . . . . . . . . . . . . . » 275 GIUSEPPE SECHE, Vicende e letture di studenti universitari del XVI secolo . . . . . . . . . . . . . . . . » 313 » 341 » 351 Documenti MARCO VENDITTELLI, Annotazioni ed elenchi relativi alla basilica romana di Santa Maria Maggiore dei primi anni del secolo XIII in calce al manoscritto Vaticano latino 4772 . . . . Recensioni EUGENIO RIVERSI, La memoria dei Canossa. Saggi di contestualizzazione della Vita Mathildis di Donizone (ENRICO FAINI). . segue nella 3 pagina di copertina a 644 Anno CLXXIII ARCHIVIO STORICO ITALIANO FONDATO DA G. P. VIEUSSEUX E PUBBLICATO DALLA DEPUTAZIONE DI STORIA PATRIA PER LA TOSCANA 2 0 1 5 DISP. II LEO S. OLSCHKI EDITORE FIRENZE 2015 La rivista adotta per tutti i saggi ricevuti un sistema di Peer review. La redazione valuta preliminarmente la coerenza del saggio con l’impianto e la tradizione della rivista. I contributi che rispondono a tale criterio vengono quindi inviati in forma anonima a due studiosi, parimenti anonimi, esperti della materia. In caso di valutazione positiva la pubblicazione del saggio è comunque vincolata alla correzione del testo sulla base delle raccomandazioni dei referee. Oltre che nei principali cataloghi e bibliografie nazionali, la rivista è presente in ISI Web of Knowledge (Art and Humanities Citations Index); Current Contents, Scopus Bibliographie Database, ERIH. La rivista è stata collocata dall’Anvur in fascia A ai fini della V.Q.R. e dell’Abilitazione nazionale, Area 11. Silvina Paula Vidal Una revisione delle tesi di André Chastel su alcune rappresentazioni contemporanee del Sacco di Roma (1527)* Sebbene tra fine ’400 e inizio ’500 nella penisola italiana, divenuta luogo di scontro delle potenze europee, gli episodi di violenza e gli assalti a villaggi e città fossero all’ordine del giorno, il Sacco di Roma del 1527 rimase, nella memoria dei contemporanei, un avvenimento senza precedenti, sia per la sua durata e brutalità che per l’impatto sull’immaginario collettivo. Secondo le testimonianze dell’epoca, ogni dettaglio del Sacco assunse una straordinaria drammaticità: (i) un esercito imperiale stremato e senza artiglieria, privato del suo capo (Carlo di Borbone) si impadronisce della città; (ii) una fitta e oscura nebbia protegge gli aggressori; (iii) l’affermazione del nemico risulta inevitabile di fronte a una Roma inerme e ai suoi timorosi abitanti; (iv) le truppe senza freni saccheggiano la città per dieci mesi, commettendo ogni sorta di efferatezze e causando circa 20000 morti; e (v) la maggioranza delle vittime sono membri dell’élite europea: notabili, cardinali, ambasciatori, principi e persino lo stesso Papa: Clemente VII. S.P. VIDAL (silvidal76@gmail.com) lavora presso il Consejo Nacional de Investigaciones Científicas (CONICET) / Universidad Nacional de Buenos Aires (UBA) / Universidad Nacional de San Martín (UNSAM), Argentina. * L’articolo costituisce una rielaborazione completa e aggiornata del mio intervento El Sacco de Roma (1527): textos e imágenes, presentato in occasione delle Giornate Internazionali: Las masacres del mundo moderno. Narrar, representar, comprender (7 e 8 Ottobre del 2010, Universidad Nacional de San Martín, Buenos Aires, Argentina) e publicata nella rivista «Eadem Utraque Europa», X/XI, 2010, pp. 181-208. Ringrazio il dott. Emanuele Leonardi per l’aiuto nella traduzione italiana, il dott. Lorenzo Tanzini per le correzioni stilistiche e Daniel Rosenfeld per il trattamento delle immagini. 276 Silvina Paula Vidal Dopo la pubblicazione nel 1983 del libro fondamentale di André Chastel,1 gli studiosi inclini a un approccio storico-culturale intesero il Sacco come un punto di rottura rispetto al periodo rinascimentale precedente (rappresentato dal pontificato di Leone X) e si concentrarono sui risvolti psicologici dell’avvenimento, ossia, sui cambiamenti generati nelle percezioni e negli stati d’animo, sulla base dell’analisi delle fonti letterarie e pittoriche.2 Non v’è dubbio che per gli umanisti, uomini di lettere e artisti, che credevano all’aura mistico-religiosa e al prestigio indistruttibile di Roma, il Sacco significò una frattura a livello simbolico che, lungi dal restringersi all’ambito politico e sociale, ne colpì le tradizioni, i costumi e la spiritualità. Come lucidamente sintetizzato dall’Aretino, nella sua lettera a Federico II Gonzaga, marchese di Mantova, la città di San Pietro era passata dall’essere «caput mundi» a divenire «coda mundi»3 vale a dire, alla sua stessa rovina, aggravata dalla fame, la carestia e la peste che scoppiarono alla fine della sua occupazione. Una varietà di testi contemporanei (dalle opere storiche, documenti e relazioni, fino ai giudizi, canzoni, sonetti, madrigali, lamen1 A. CHASTEL, The Sack of Rome, 1527, Princeton, Princeton University Press, 1983, in particolare si veda pp. 115-128. 2 A. QUONDAM, Un’assenza, un progetto. Per una ricerca sulla storia di Roma tra 1465 e 1527, «Studi romani», XXVII, 1979, pp. 166-175; M. TAFURI, Il sacco di Roma. 1527: fratture e continuità, «Roma nel Rinascimento», I, 1985, pp. 21-35; M. MIGLIO et alii (ed.), Il Sacco di Roma del 1527 e l’immaginario collettivo, Roma, Istituto Nazionale di Studi Romani, 1986; M. FIRPO, Il Sacco di Roma del 1527. Tra profezia, propaganda politica e riforma religiosa, Cagliari, Cooperativa Universitaria Editrice Cagliaritana, 1990; K. GOUWENS, Remembering the Renaissance: Humanist Narratives of the Sack of Rome, Leiden, Brill, 1998; A. VIAN HERRERO, Roma caput mundi, Roma coda mundi. Poésie du sac du Rome (1527), Europe. Pasquins et contrafacta, «Camenae», II, 2007, pp. 1-38 e G. CORABI, ‘Peggio che Babilonia è fatta Roma’: gli scrittori del gran Sacco, «Semestrale di studi e testi italiani», XV, 2005, pp. 81-96. 3 «…ma la passione che diede quella bona robba di mona Laura a ser Petracha fu più dolce che questa che ci dà Roma coda mundi per gratia di Spagnuoli et de i Thodeschi, che, per Dio, bisognerìa per isfogarsi che le parole fosseno spiedi & archibusi», PIETRO ARETINO, Lettera al Magnanimo Principe Federico Gonzaga, Marchese di Mantova, in Scritti di Pietro Aretino nel Codice Marciano It. XI 66 (=6730), a cura di D. Romei, Firenze, Cesati, 1987, p. 58. L’avvenimento del Sacco avrebbe richiesto, quindi, che le parole fossero armi. In Aretino, l’espressione «coda mundi» costituisce il contrario di «caput mundi» e allude non solo al contrasto tra la grandezza passata e la desolazione presente, ma anche all’eccezionalità di una situazione rispetto alla quale i codici letterari tradizionali (come quello petrarchista) si rivelano inadeguati. Su questo punto, vedi V. DI CAPRIO, Testi poetici sul Sacco di Roma del 1527, «Rivista di Studi Italiani», IV, 1986, pp. 35-53 [37]. Una revisione delle tesi di André Chastel 277 ti e pasquinate) hanno guardato al Sacco (se paragonato alle guerre anteriori) come il picco di un crescendo di violenza. Basta operare un’attenta rassegna dei ‘topoi’ e delle immagini letterarie impiegate per narrare i fatti: gli incendi, gli assassinii e i suicidi; la molteplicità delle torture, gli abusi, gli stupri e la furia iconoclasta dei saccheggiatori che deridono e aggrediscono i religiosi, rubano e distruggono gli oggetti di culto e profanano i luoghi sacri. Allo stesso modo, anche se non viene utilizzato il termine ‘massacro’ a quell’epoca,4 si avverte nell’aneddotario di cui riferiscono i documenti l’esistenza di un campo semantico composto da parole (‘strage’, ‘macello’, ‘eccidio’ e ‘strazio’) ed espressioni (per esempio: «grandissime o crudeli uccisioni») che sottolineano la brutalità e il dilagare delle morti.5 In questo ambito, ci proponiamo di esplorare le modalità di rappresentazione che acquisisce il Sacco come massacro storico, nel senso di assassinio di un gran numero di persone indifese che, in quanto vittime, si collocano in relazione asimmetrica di forza rispetto ai propri aguzzini.6 Il discorso girerà intorno a tre assi principali: (i) l’esistenza di immagini contemporanee del Sacco di Roma del 1527; (ii) la possibilità di tracciare corrispondenze tra immagini e testi e (iii) l’identificazione di formule di rappresentazione (nel senso di Pathosformeln) finalizzate a una lettura iconografica comparativa.7 4 Il termine ‘massacro’ assume il suo senso attuale nella Francia del XVI secolo. Il suo uso si estese mentre si accanivano le guerre di religione tra cattolici e protestanti. Nel 1556 un celebre pamphlet, Histoire memorable de la persécution et accagement du peuple Mérindol et Cabrières et autres circonvoisins appelez Vaudois, impiega per la prima volta questa parola per descrivere la campagna di pulizia etnica realizzata nel 1545 contro il valdesi della regione della Provenza. Vedi D. EL KENZ (a cura di), Le massacre, objet d’ histoire, Paris, Gallimard, 2005, pp. 7-23. 5 ‘Sterminio’ soprattutto in relazione alle città; ‘uccisione’, ‘strage’, ‘eccidio’ e ‘macello’ si usano come sinonimi, mentre ‘strazio’ (in relazione sia con la tortura fisica che con il tormento dell’anima) assume una connotazione morale. Si veda il Vocabolario degli Accademici della Crusca (1612), ‘strazio’ sub vocem, ora disponibile su internet: http:// vocabolario.signum.sns.it. Allo stesso modo, si veda l’articolo di E. BENZONI, Les sacs de ville à l’ époque des guerres d’ Italie (1494-1530): les contemporains face au massacre, in EL KENZ (a cura di), Le massacre cit., pp. 157-170. 6 EL KENZ (a cura di), Le massacre cit., pp. 7-23. 7 Con pathosformel intendiamo «un conglomerato di forme rappresentative e significanti, storicamente determinato nel momento della sua prima sintesi, che rafforza la comprensione del senso di ciò che è rappresentato, attraverso l’introduzione di un campo affettivo in cui si sviluppano le emozioni precise e bipolari che una cultura sottolinea come esperienza basilare della vita sociale», JOSÉ E. BURUCÚA, Arte y Ambivalencia. Ensayos de historia del arte, Buenos Aires, Biblos, 2006, pp. 11-13 (la traduzione 278 Silvina Paula Vidal Nello studio menzionato, Chastel sostiene due tesi fondamentali che presentano un ostacolo epistemologico e una sfida per il proseguo della nostra indagine: in prima istanza l’assenza, sul versante italiano, di immagini contemporanee del Sacco e l’usanza di commemorare solo gli eventi positivi; in secondo luogo, l’esistenza, sul versante imperiale, di rappresentazioni dell’avvenimento come trionfo militare e il rifiuto dell’interpretazione come massacro.8 Secondo lo storico dell’arte francese gli italiani, in quanto vittime di un’esperienza traumatica, soffrirono una «censura istintiva» che (cosciente o incosciente che fosse) li portò a reprimere il ricordo sia dell’assedio di Roma sia del suo responsabile, Carlo di Borbone.9 In seguito, durante il rapido processo di pacificazione che inizia con l’incoronazione di Carlo V da parte di Clemente VII e termina con l’entrata trionfale dell’Imperatore a Roma sei anni dopo, la prassi dell’autocensura si consolidò per motivi di convenienza politica e diplomatica.10 Nonostante Chastel faccia riferimento alla «censura istintiva» per spiegare l’effetto di shock che ebbe il Sacco su diverse personalità della cultura e dell’arte, egli sembra prendere distanza dalla riflessione teorica del secondo dopoguerra sulla «Soluzione Finale»; lo studio dello stato psichico dei sopravvissuti e gli strumenti di sublimazione dei massacri (classificati sotto la categoria di «trauma sociale»).11 Chastel non cita nessuno dei lavori segnalati in nota. Il suo approccio italiana è nostra). Come categoria di analisi, la pathosformel costituisce il prototipo di ogni pratica di permanenza o di cambio culturale. Burucúa realizza un’ interpretazione storica del concetto menzionato, ma definito con meno precisione da Aby Warburg nelle sue ricerche su Albrecht Dürer e l’Antichità classica. Nel caso specifico dei massacri storici, le formule affettive o pathosformeln richiamano l’attenzione sui processi di appropriazione e rielaborazione dei codici retorici ed estetici che agiscono nel tentativo di presentare e comprendere episodi di violenza disumana, che altrimenti risulterebbero insopportabili. 8 Per esporre con più chiarezza la nostra critica, discuteremo in un primo momento la tesi di Chastel sulla funzione celebrativa delle immagini imperiali e in un secondo momento quella relativa all’assenza di immagini italiane contemporanee al Sacco del 1527. 9 CHASTEL, The Sack of Rome cit., pp. 41 e ss. 10 CHASTEL, The Sack of Rome cit., cap. 1. 11 Su questi temi, si raccomandano, a modo di lettura introduttiva, i lavori: T. W. ADORNO, Cultural Criticism and Society, in Prisms, Cambridge (Mass.), MIT Press, 1983 (prima edizione 1967), pp. 17-34; P. LEVI, I sommersi e i salvati, Torino, Einaudi, 1986; S. FRIEDLANDER, Probing the Limits of Representation. Nazism and the “Final Solution”, Cambridge (Massachusetts), Harvard University Press, 1992; D. LA CAPRA, Writing History, Writing Trauma, Baltimore, The Johns Hopkins University Press, 2001. Una revisione delle tesi di André Chastel 279 teorico, che non arriva mai a definire in maniera sistematica, fa parte di una matrice warburghiana di pensiero che, nel mettere l’accento sugli aspetti antropologici e psico-storici, si interessa più all’incidenza della produzione artistica nella mentalità e nella sensibilità di una società storicamente data, piuttosto che alle moderne teorie culturali sul trauma.12 È questo approccio a segnare profonde differenze con i lavori più recenti di Vincenzo di Caprio e Kenneth Gouwens.13 A differenza di Gouwens (che insiste sulla «memoria alterata» dei sopravvissuti al Sacco),14 secondo Chastel, gli accadimenti del 1527 producono una frattura reale e decisiva che evidenzia sul piano artistico molti anni dopo (nella longue durée), con il pontificato di Paolo III, a partire dal passaggio da uno stile clementino (vincolato a un tipo di rappresentazione controllato, sofisticato e raffinato che fa leva sulla fluidità, su tratti voluttuosi e su una sensualità priva di contenuto), caratteristico di Sebastiano Luciani (Del Piombo) e Francesco Mazzoli di Parma (Parmigianino) a uno tragico che, più consono a un atmosfera penitenziale, raggiunge il suo massimo sviluppo nell’affresco del Giudizio Universale di Michelangelo Buonarroti.15 Qui, l’uso di forme pesanti e di colori sobri e monocromatici restituisce una sensazione di oppressione e angoscia di fronte alla salvezza.16 Influenzato dal racconto che Giorgio Vasari fa degli effetti che il Sacco ebbe su certi pittori,17 Chastel insiste sul fatto che questo avve12 Chastel ricorda il suo soggiorno presso l’Istituto Warburg e l’influenza esercitata su di lui da Fritz Saxl e Erwin Panofsky con il suo saggio sulle fonti letterarie e le formule iconografiche dell’acquaforte di Albercht Dürer, Malinconia I. A questo punto, lo storico francese definisce l’immagine e l’opera d’arte come fattori costitutivi della nostra civiltà e allo stesso tempo sottolinea l’importanza che esse acquisiscono nel contesto di produzione in relazione alla loro circolazione e manipolazione. In questo senso, Chastel riconosce che il proprio interesse per il Cinquecento italiano è dovuto, in parte, al fatto che, a quell’epoca, con la creazione dell’incisione e della xilografia, la circolazione delle immagini diventa intensa e prolifica, nel propagare le idee e nel generare azioni all’interno della società. Cfr. Entretien avec André Chastel, «Revue de l’Art», XCIII, 1991, pp. 78-87. 13 V. DE CAPRIO, La tradizione e il trauma. Idee del Rinascimento, Marziana, Vecchiarelli, 1992, pp. 223-253. 14 GOUWENS, Remembering the Renaissance cit., pp. 1-30 e 168-174 15 CHASTEL, The Sack of Rome, cit., pp. 169-78 e 191-207. 16 CHASTEL, The Sack of Rome, cit., pp. 191-207. 17 Bisogna notare che la scrittura del libro di Chastel sul Sacco di Roma (pubblicato nel 1983) avvenne quasi in contemporanea alla traduzione al francese e all’edizione commentata de le Vite de Giorgio Vasari (Les Vies des meilleurs peintres sculpteurs et architectes, Paris, Berger-Levrault, coll. Arts, 12 vol., 1981-1989). 280 Silvina Paula Vidal nimento colpì un’intera generazione di giovani artisti (come Parmigianino, Perino del Vaga, Rosso Fiorentino, Polidoro da Caravaggio e Marcantonio Raimondi, tra gli altri) che abbandonarono Roma e smisero di produrre opere di qualità. Non v’è dubbio che, come osserva bene Daniel Arasse, lo storico dell’arte deve essere prudente nello studiare i processi di creazione artistica.18 Arasse prende come esempio Parmigianino e la sua Madonna della Rosa, che fu dipinta nel 1530 ca. sul modello pagano di Venere e Cupido, per dimostrare che una catastrofe come il Sacco non necessariamente ebbe qualche conseguenza o influenza sugli artisti che il quel momento erano a Roma. Sebbene l’autore ammetta che uno stile artistico possa esprimere, in certe occasioni, la psicologia dell’artista, avverte poi che ciò accade indirettamente e risulta sempre difficile determinare quando e in che misura avviene. Per questa ragione, nonostante le affermazioni di Chastel risultino convincenti nei casi di Marcantonio e Vincenzo Tamagni, è anche certo che molti artisti di quella generazione tornarono a Roma e continuarono a lavorare come prima o, nel caso di Sebastiano, acquisirono la reputazione di pittori di tematiche religiose prima del 1527.19 In relazione all’affresco del Giudizio Universale, si è segnalato che, più che una risposta al Sacco, l’opera costituisce una riflessione personale di Michelangelo sul peccato e le fragilità umane.20 Nel tentativo di aggirare le critiche, Chastel chiarì ripetutamente di non aver mai sostenuto che Michelangelo stesse effettivamente rappresentando il Sacco; piuttosto che questo avvenimento in quanto esperienza storica concreta ‘soggiacesse’ all’affresco come immaginario.21 Tuttavia, questa linea argomentativa, oltre ad essere poco probabile (se si considera che il pittore non si trovava a Roma durante il Sacco del 1527), risulta praticamente impossibile da provare a causa della mancanza di evidenza visiva nell’ affresco stesso. In questo senso, Leo Seinberg,22 Marcia Hall,23 18 D. ARASSE, Il Sacco di Roma e l’ immaginario figurativo, in MIGLIO et alii (ed.), Il Sacco di Roma nel 1527 cit., pp. 47-59. 19 CHAMBERS, The Burlington Magazine cit., pp. 296-297. 20 Si veda l’interessante recensione che Nelson Minnich fa del libro di Chastel in «Catholic Historical Review», LXXII, 1986, pp. 119-121. 21 Entretien avec André Chastel, cit. 22 L. STEINBERG, Michelangelo’s Last Judgement as Merciful Heresy, «Art in America», LXIII, 1975, pp. 49-63. 23 M. HALL, Michelangelo’s Last Judgment: Resurrection of the Body and Predestination, «Art Bulletin», CVIII, 1976, pp. 85-92. Una revisione delle tesi di André Chastel 281 John Dixon24 e Jack Greenstein25 hanno discusso la relazione causale che Chastel stabilisce tra il Sacco del 1527 e il Giudizio Universale di Michelangelo.26 Allo stesso modo, le ultime due decadi hanno visto letture più positive, seppur divergenti, sull’affresco, che fanno leva su tre fattori: (i) la rapida ripresa di Roma dopo la catastrofe del 1527; (ii) il cambiamento del committente da Clemente VII (che vide solo i bozzetti iniziali) a Paolo III (suo successore) e (iii) la decisione di trasmettere un messaggio di potere ed egemonia papale.27 Le riflessioni di Chastel sembrano più precise in relazione al fatto che le uniche immagini contemporanee del Sacco del 1527 presentano l’avvenimento come un trionfo militare. Qui Chastel discute con un altro storico dell’arte, Marcel Destombes, su un quadro intitolato la Veduta di Roma di Bruegel, che Destombes, considerandola una interpretazione del Sacco, datò intorno al 1550 e attribuì a Peter Bruegel il vecchio (1525-1269). Nel suo articolo, pubblicato nella rivista Imago Mundi nel 1959,28 Destombes realizza una descrizione dettagliata della pittura, in cui richiama l’attenzione su due situazioni che avrebbero fatto riferimento al Sacco come massacro storico: (a) le centinaia di persone che, con lance e torce, avanzano in direzione Sud-Ovest, attraversando ponti e occupando gli spazi principali della Città mentre una parte dell’armata imperiale invade il palazzo del papa Clemente VII e si dirige verso il Castel Sant’Angelo, e (b) le scene di violenza che accadono in prossimità dell’accampamento dei soldati imperiali: in primo piano un uomo giace morto, mentre un gruppo di soldati tortura un religioso e fa prigionieri. 24 J. DIXON, Michelangelo’s Last Judgment: Drama of Judgment or Drama of Redemption?, «Studies in Iconography», IX, 1983, pp. 67–82. 25 J. M. GREENSTEIN, How Glorious the Second Coming of Christ: Michelangelo’s Last Judgment and the Transfiguration, «Artibus et Historiae», X/XX, 1989, pp. 33-57. 26 CHASTEL, The Sack of Rome cit., pp. 179-207. 27 C. BURROUGHS, Last Judgment of Michelangelo: Pictorial Space, Sacred Topography, and the Social World, «Artibus et Historiae», XVI, 1995, pp. 55-89; B. BARNES, Michelangelo’s Last Judgment. The Renaissance Response, Berkeley, University of California Press, 1998, pp. 51-57; M. HALL, Michelangelo’s Last Judgment, Cambridge, Cambridge University Press, 2005, pp. 154-155 e 184-189; A. LEADER, Michelangelo’s Last Judgment. The culmination of papal propaganda in the Sistine Chapel, «Studies in Iconography», XXVII, 2006, pp. 103-156. 28 M. DESTOMBES, A Panorama of the Sack of Rome by Pieter Bruegel the Elder, «Imago Mundi», XIV, 1959, pp. 64-73. 282 Silvina Paula Vidal Attraverso uno studio topografico minuzioso, Destombes ricostruisce differenti piani e vedute di Roma (dall’Antichità fino al 1584), collocando il quadro nel periodo compreso tra il 1540 e il 1550, che corrisponderebbe a un tracciato topografico ellittico. Al contrario, Chastel sostiene che, sebbene i riferimenti al Borgo e il motivo «caput mundi» permettano di identificare la scena come una rappresentazione dell’invasione e del Sacco di Roma del 1527, in termini topografici il quadro non può essere altro che una rielaborazione del Supplementum Chronicarum orbis di Iacopo Foresti da Bergamo, pubblicata nel 1490, dal momento che non registra i cambiamenti architettonici e le modificazioni edilizie operate a partire dal 1492 in quei luoghi.29 Questo lo porta a concludere che gli atti di violenza e le istallazioni militari devono essere state inserite nel quadro almeno due decadi dopo il fatto, con l’obiettivo di evocare il Sacco. Otre ad apportare prove efficaci relative alla filiazione di entrambe le immagini, Chastel mette in discussione la paternità artistica di Bruegel nel dichiararne falsa la firma. Sebbene il problema della paternità del quadro rimanga vivo, a causa della mancanza di dati sui suoi antichi proprietari, l’esistenza di due viste panoramiche simili del Sacco come avanzata militare, senza scene di violenza e relativamente contemporanee all’accadimento, sembrerebbero far inclinare la bilancia a favore della tesi del Chastel. Una di queste immagini [Fig. 1], datata 1540 ca., appare in una maiolica che fu realizzata nello studio di Guido Durantino a Urbino, sulla base dell’incisione da un disegno del soprannominato Master NA. DAT [Fig. 2] sulla battaglia di Ravenna del 1512, che vide contrapposte le truppe ferraresi e francesi contro l’esercito della Lega Santa. L’introduzione del Castel Sant’Angelo (sullo sfondo della composizione), con lo stendardo in fiamme del Papa Clemente VII, permette di identificare la scena con il Sacco di Roma. L’altra immagine, datata 1550, appartiene alla scuola pittorica fiamminga e si trova attualmente in uno dei musei reali del Belgio. Quindi il fatto che, una volta terminato il processo di pacificazione, ci sia stata una tendenza a rappresentare il Sacco come un trionfo militare, non significa, come afferma Chastel, che tutte le immagini imperiali dell’avvenimento svolgano soltanto una funzione celebra29 CHASTEL, The Sack of Rome cit., pp. 42-44. Una revisione delle tesi di André Chastel 283 tiva come parte della propaganda dell’impero. A sostegno della sua tesi, Chastel menziona due casi: quello di Jan Cornelius Vermeyen il quale, essendo pittore ufficiale della corte fiamminga, realizzò la serie pittorica delle campagne militari che l’imperatore Carlo V portò a compimento a Tunisi (serie sulla base della quale furono realizzati arazzi)30 e quello delle dodici tavole di vittorie imperiali che, disegnate da Marten van Heemskerck e stampate da Hieronymus Cock, furono pubblicate nel 1555, come parte della monumentale storia Divi Caroli V Imp. Opt. Max victoriae.31 In quest’ultima opera, due incisioni sono dedicate agli accadimenti del 1527: uno sulla morte di Carlo di Borbone (in relazione con la vittoria militare che seguì all’invasione di Roma); un altro si rifà alla presa del Castel Sant’Angelo (con allusione alla vittoria politica che ottenne con la cattura e la redenzione del Papa).32 L’incisione che ha per titolo Borbone occiso [Fig. 3],33 rappresenta la caduta mortale del Conestabile e consente una veduta trasversale di Roma, associando al dramma personale quello collettivo. Nell’immagine un soldato di fanteria guarda impotente il suo generale cadere all’indietro da una scala, posta contro un’enorme torre fortificata, che fa parte delle mura della città. Bisogna ricordare che Borbone morì durante l’attacco alla Porta Torrione; da qui la centralità della costruzione nell’incisione. Anche se il disegno, a causa della quantità di dettagli che contiene, potrebbe essere frutto dell’immaginazione creatrice, risulta – come nota Bart Rosier – 34 sorprendentemente corretto dal punto di vista topografico. A quell’epoca, le mura intorno al Vaticano finiva30 H. J. HORN, Jan Cornelisz Vermeyen, painter of Charles V and his conquest of Tunis: paintings, etchings, drawings, cartoons & tapestries, 2 voll., Doornspijk (Paesi Bassi), Davaco, 1989. 31 Ringrazio il Dr. Burucúa per avere richiamato la mia attenzione su queste incisioni di Heemskerck in relazione alla formula infernale di rappresentazione; questione che affronteremo in seguito. 32 CHASTEL, The Sack of Rome cit., pp. 46-47. Si veda anche A. VIAN HERRERO, El diálogo de Lactancio y un arcediano de Alfonso Valdés cit., pp. 50-56. 33 «Borbone occiso, Romana in moenia miles Caesareus ruit, et miserandam diripit urbem» (Borbone è morto, l’armata di Cesare irrompe attraverso le mura e saccheggia la povera città). 34 B. ROSIER, The victories of Charles V: a series of prints by Maarten Heemskerck, 155556, «Simiolus: Netherlands Quarterly for the History of Art», XX, 1990-1991, pp. 24-38. 284 Silvina Paula Vidal no sulle rive del fiume. Heemskerck ci mostra, dal punto di vista di qualcuno in piedi sotto la torre, la biforcazione del Tevere; e ciò, se unito alla veduta panoramica che si ha dall’alto della torre, permette all’artista di plasmare in forma sintetica l’assalto e il Sacco di Roma in un’immagine riflessa che illustra l’ascesa e la caduta di Borbone. Dall’alto, da sinistra e da destra, si osserva il campanile della vecchia chiesa di San Pietro, un obelisco a Sud dell’antica basilica e la nuova chiesa in costruzione. Allo stesso modo, come scenario della tragica morte del Conestabile, vengono mostrati, da un lato, i combattimenti nel Borgo Nuovo e a Sud del ponte Sant’Angelo, dall’altro, la città di Roma in fiamme, e la conseguente atmosfera di tipo infernale. Secondo Chastel, la propaganda imperiale rimase fedele alla memoria dei Borbone, e in virtù di ciò si presenta il Conestabile come un eroe, vestito alla maniera di un antico dux.35 In quest’ottica, la morte di Borbone permette di giustificare gli eccessi perpetrati da un esercito senza capitano, cui si deve aggiungere il meritato castigo divino di Roma, trasformatasi nella città del peccato. In un recente articolo sull’argomento Pierre Civil,36 in accordo con l’interpretazione di Chastel, paragona la caduta di Borbone a quella dei giganti che vogliono ascendere al cielo; tuttavia, questa caduta presenta notevoli somiglianze morfologiche (in relazione alla forma anatomica dei corpi, alla loro posizione e ai movimenti generati mentre precipitano) con l’immagine della discesa dei condannati all’inferno [Fig. 4], portata a termine tra il 1499 e il 1502 da Luca Signorelli; immagine che viene riproposta nel Giudizio Universale di Michelangelo [Fig. 5], il quale, come sappiamo, si ispirò proprio al Signorelli. Heemskerck visse a Roma tra il 1532 e il 1536; pertanto, non solo si trovava in questa città quando Michelangelo realizzava i disegni preparatori all’affresco del Giudizio Universale, ma è altrettanto probabile che li abbia visti, soprattutto se si considera che la sua serie di trionfi non può essere inserita in nessuna tradizione iconografica o stilistica dell’arte dell’incisione olandese.37 CHASTEL, The sack of Rome cit., p. 45 P. CIVIL, «Image et événement: de quelques illustrations du Sac de Rome de 1527», in A. REDONDO, Les discours sur le Sac de Rome de 1527. Pouvoir et Littérature, París, la Sorbonne Nouvelle, pp. 169-190. 37 ROSIER, «The victories of Charles V» cit., pp. 24-38 35 36 Una revisione delle tesi di André Chastel 285 Le somiglianze morfologiche concordano con la documentazione storica, dal momento che informatori spagnoli, storici e cronisti (secondo le testimonianze raccolte da Antonio Rodríguez Villa,38 Carlo Milanesi,39 e Ana Vian Herrero)40 riconoscono la responsabilità di Borbone in relazione alla piega che presero gli eventi, in particolar modo quando il Conestabile promette ai suoi uomini il sacco di città ricche come Roma e Firenze, per mettere fine agli atti di violenza e indisciplina da parte di un esercito stremato dalla fame e la mancanza della paga. La condotta di Borbone fu oggetto di critiche da parte di Luigi Guicciardini (fratello maggiore di Francesco e in quegli anni gonfaloniere di giustizia di Firenze) e Francesco Vettori, che era stato diplomatico durante la Repubblica. Guicciardini descrive Borbone come un personaggio astuto e traditore che, nonostante dica di accettare il cessare delle ostilità e di rispettare l’accordo firmato tra il Viceré Lasnoy e Clemente VII, convince i soldati spagnoli e tedeschi a non ritirarsi dalla Lombardia (come stabiliva l’accordo) e ad assaltare, invece, Firenze e Roma per arricchirsi con il bottino di guerra.41 Allo stesso modo, Vettori fa notare che il Conestabile era «ostile» a ogni tentativo di pacificazione del conflitto, ragione per la quale, quando viene a conoscenza dell’accordo tra il viceré e Clemente VII, si affretta a invadere Roma dal momento che lo stesso Papa, sicuro della pace, era rimasto senza rinforzi e denaro e quindi senza alcuna possibilità di resistere all’assalto.42 38 A. RODRÍGUEZ VILLA, Memorias para la historia del asalto y saqueo de Roma en 1527 por el ejército Imperial, Madrid, Imprenta de la Biblioteca de Instrucción y Recreo, 1875. 39 C. MILANESI, Il sacco di Roma del MDXXVII. Narrazioni di contemporanei, Firenze, G. Barbera, 1867. 40 «La Europa del Saco de Roma y el Diálogo de Lactancio y un arcediano de Alfonso de Valdés», in M. PÉREZ PRIEGO (dir.), Los Valdés. Pensamiento y Literatura, Cuenca, Instituto Juan de Valdés, 1997, pp. 183-212. 41 «Per la qual cosa Borbona di questo avviso inaspettato si alterò assai: pure, come astuto, mostrò dipoi averlo carissimo, con approvare efficacemente quanto il viceré per ordine di Sua Maestà aveva capitolato, promettendo che da lui non resterebbe fare ogni opera, che da tutto il suo esercito fosse osservato l’accordo concluso in Roma. Dall’ altro canto, segretamente persuase alli capi tedeschi e spagnoli che non dovessino acconsentire di tornare in Lombardia, per non lasciarsi torre di mano tanto facilmente il sacco di Roma e di Firenze [...] Queste e molte altre cagione allegava Borbona con arte, per addormentare con tale speranza il Papa e gli altri agenti del Cesare», LUIGI GUICCIARDINI, Lettera scritta all’ illustrissimo... Cosimo de’ Medici, in MILANESI, Il sacco cit., pp. 109-112. 42 F. VETTORI, Narrazione de la presa di Roma per Borbone in dialogo, in MILANESI, Il sacco cit., pp. 427-428. 286 Silvina Paula Vidal Tuttavia, la condanna di Borbone e la sua caduta infernale sembrano trovare un riferimento testuale nell’interpretazione che Paolo Giovio (testimone oculare del Sacco) offre della vicenda nel secondo volume delle sue Historiae sui temporis, pubblicato per la prima volta in latino tra il 1550 e il 1552; tradotte in contemporanea in italiano da Ludovico Domenechi e ripubblicate in questa lingua ben dodici volte.43 Il vescovo di Nocera (che in quanto medico personale del Papa, lo aveva accompagnato durante la prigionia nel castello Sant’Angelo) sostiene che sebbene la fortuna e Dio fossero state contrarie a Roma, i santi la proteggevano perché, agendo in «vendetta» del «gran sacrilegio» perpetrato dalle truppe imperiali, fanno sì che Borbone (che Giovio definisce «traditore» e anche «crudele assassino») sia ferito a morte dallo sparo di un archibugio, senza che potesse godersi la «sua maledetta vittoria».44 Qui, come ben segnala Price Zimmermann, si avverte in Giovio, l’esistenza di una moralità sotterranea, che si identifica nel castigo divino dei malvagi e guida l’esistenza umana.45 Le Historiae di Giovio, che narravano in 45 libri la storia dell’Europa dal 1494 al 1547, erano – al meno fino alla pubblicazione della Storia d’ Italia di Francesco Guicciardini nel 1561 – uno dei testi di storia più letti fuori dall’Italia, come mostrano le otto edizioni latine pubblicate nel Nord Europa (quattro a Basilea, una a Strasburgo e tre a Parigi) e le sue traduzioni al francese, tedesco e spagnolo in due versioni (realizzate da Gaspar de Baeza e da Antonio di Villafranca tra il 1562 e il 1563). Nonostante si tratti di un’opera frammentaria, dal momento che le edizioni citate sono prive dei libri dal V al X (che trattavano della morte di Carlo VIII e dell’elezione di Leone X) e 43 Si tratta dell’edizione del Torrentino, pubblicata per la prima volta a Firenze tra il 1551 e il 1553 e ristampata a Venezia da Comin da Trino di Monferrato nei periodi 15531554 e 1556-1557. Faremo riferimento a quest’ultima edizione. 44 «Perciò che queste cose en raccontare en udir si possono senza molte lagrime; talche quella santissima città potè molto ben conoscere come Iddio era contrario in tutto alla salute sua; se i santi avvocati di Roma ancor che con vano conforto, volendo la lor divinità farne nota vil vendetta, non avessero fatto sacrificio di quel tradittore & crudelissimo assassino nell’entrar propio della città presa. Percioché Borbone si morì, mentre con la scelerata mano, egli appoggiava la scala alle mura, essendogli passato il fianco & la destra coscia d’ una arcabugiata, accioche havendo ottenuto quella sua maledetta vittoria, non s’ allegrasse di si gran sacrilegio», PAOLO GIOVIO, La seconda parte dell’ Historie del suo tempo..., Venezia, Comin da Trino, 1557, f. 19r-v. Il grassetto è nostro. 45 T. C. PRICE ZIMMERMANN, The Historian and the Crisis of the Sixteenth-Century Italy, Princeton, Princeton University Press, 1995, pp. 280-281. Una revisione delle tesi di André Chastel 287 anche dei libri dal XIX al XXIV (relativi alla morte di Leone X e al sacco di Roma del 1527),46 è impossibile che Heemskerck, da cattolico devoto, non abbia considerato, nel realizzare il suo disegno, questa descrizione (che appare nel libro II) della morte di Borbone, come se fosse la caduta infernale di un condannato. La presa di Roma (pubblicata per la prima volta nel 1528),47 uno dei componimenti più popolari dell’umanista udinese Eustachio Celebrino,48 descrive anche nell’ottava 72 l’assalto alle mura di Roma da parte dell’esercito imperiale, facendo uso della metafora infernale (in questo caso si tratta di un inferno creato attraverso la combinazione di una nebbia densa e oscura e del fuoco delle armi). Così, nel componimento, lo scontro che causa la morte di Borbone acquisisce una crudeltà profonda: Or qui comincia il bel menar di mani, chel campo imperial fa gran fracasso, dall’altra parte i nostri capitani con l’armi son per divetarli el passo, le voci, il suono e gl’ululati strani fan simigliar ch’el ciel ruini al basso, la nebbia oscura con quei lampi dentro quel luogo fan parer l’ infernal centro.49 È assai probabile che Heemskerck si sia ispirato a questa ottava per conferire all’assalto di Borbone un’atmosfera infernale, soprattutto se si considera che il componimento di Celebrino non solo circolò ampiamente come plico sciolto da cantare o recitare nelle piazze, nelle taverne e nelle officine, ma fu anche pubblicato più volte in varie 46 Riguardo alle possibili ragioni del carattere frammentario delle Historiarum di Giovio, vedi PRICE ZIMMERMANN, The Historian and the Crisis cit., pp. 60-85. 47 Il titolo completo del componimento è: La presa di Roma. Con breve narratione di tutti gli magni fatti di guerre sucessi nel tempo che l’ esercito imperiale stette in viaggio da Milano a Roma e tutte le terre, Castelli e ville che prese el detto esercito, e dell’ accordo che fecie il Vicere col Papa, ecc. Per Celebrino composto in 1528. Abbiamo tratto il passo citato da F. MANGO, La guerra di Camollia e la presa di Roma. Rime del secolo XVI, Bologna, Romagnoli Dell’Acqua, 1886, pp.119-160. 48 Su questo personaggio, si vedano: D. DIAMANTI, La presa di Roma di Eustachio Celebrino da Udine, «Italianistica», XIX, 1990, pp. 331-49 e M. PALMA, «Celebrino, Eustachio», in Dizionario biografico degli Italiani, vol. 23, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1979, pp. 361-62. 49 MANGO, La guerra di Camollia cit., p. 145. 288 Silvina Paula Vidal città italiane e incorporato in forma episodica a due poemi storici dell’epoca.50 Consideriamo, quindi, che l’interpretazione dell’incisione Borbone Occiso che ci propongono Chastel e i suoi seguaci debba essere rivista alla luce della rappresentazione dell’assalto e del Sacco di Roma come massacro, sulla base della formula infernale. Una formula che, come lasciano trasparire le testimonianze e le dispute dell’epoca sull’agire del Borbone, racchiude un’ambiguità non indifferente, visto che la distanza tra i perpetratori del massacro (le truppe imperiali) e le vittime (la città di Roma e i suoi abitanti) sembra annullarsi, senza che l’interpretazione apocalittica del Sacco – inteso come castigo inviato da Dio contro la corruzione della Chiesa romana, per una futura rinascita – possa allontanare gli uomini (in questo caso a Borbone come capo dell’esercito imperiale) dalle loro responsabilità in relazione ai crimini commessi. In questo senso, Paolo Giovio descrive il Conestabile come un assassino. Un’altra incisione di Heemskerck che illustra la natura ambivalente della propaganda imperiale, in relazione al Sacco del 1527, è intitolata Capta urbe [Fig. 6]51. Nel museo d’Arte di Amburgo è custodito il bozzetto originale (uno dei quattro conservati). Dal momento che l’artista realizzò il disegno per la lamina al contrario, il bozzetto corrisponde all’incisione. La prigionia del Papa nel castello Sant’Angelo, che durò sette mesi, fu un avvenimento dalle polemiche così accese da obbligare Carlo V a negare ufficialmente ogni responsabilità.52 Per la realizzazione di Capta urbe, Heemskerck opta per una composizione frammentata in diverse scene, facendo ricorso al gioco di piani in successione e alle diverse proporzioni. Il castello, decorato con lo scudo d’armi di Clemente VII: le palle dei Medici, è posto al centro della scena; sulla sinistra si possono osservare la basilica del 50 Ci riferiamo a Guerre horrende de Italia. Comenzando dalla venuta di Re Carlo del mille quattrocento novantaquattro fin al giorno presente. Nuovamente stampate in ottava rima e diligentemente corrette, Venezia, Paulo Danza, 1534 e I sanguinosi successi di tutte le guerre occorse in Italia, principalmente dal 1509 sino a’ nostri tempi, Venezia, Domenico de Franceschi in Frezzaria, 1569. Su questi argomenti, si vedano: MANGO, La guerra di Camollia cit., pp. 22-37 y MILANESI, Il Sacco di Roma cit., p. XLVI. 51 «Capta urbe, Adriani praecelsa in mole tenetur obsessus Clemens, multo tandem aere redemptus» (Quando la città fu occupata, Clemente fu assediato nella gran fortezza di Adriano e infine liberato dopo il pagamento di un oneroso riscatto). 52 REDONDO (ed.), Les discours sur le Sac de Rome de 1527 cit., pp. 179-180. Una revisione delle tesi di André Chastel 289 Vaticano, le logge e i luoghi di deposito del Belvedere. In cima alla fortezza assediata si intravede la minuscola silhouette del Papa, circondato dai cardinali. La disposizione in lontananza del personaggio, sembra alleggerire il carattere drammatico della situazione. Il sovrano pontificio si avvicina al balcone per ascoltare le condizioni della resa che gli vengono comunicate da un araldo a cavallo, che si trova sul ponte Sant’Angelo. Le truppe imperiali controllano l’entrata della città. In primo piano, archibugi, mortai e cannoni, decorati con una testa di leone, minacciano il prigioniero umiliato. All’ingresso del ponte si ergono due statue monumentali (in relazione alle dimensioni dell’ araldo e dei soldati imperiali che impugnano le armi) dei santi patroni di Roma. A destra, San Paolo, con una spada e un libro, sembra offrire al papa una protezione inefficace. Sul lato sinistro, vicino alla basilica vaticana, San Pietro, che stringe con forza le sue enormi chiavi, lancia uno sguardo feroce in direzione di due enormi lanzichenecchi che, con lancia e stendardo, commentano la scena. Uno di loro, di spalle e con la testa di profilo, con gesto insolente, risponde allo sguardo del santo, collerico e indignato per ciò che sta accadendo. Le statue di Pietro e Paolo (come quelle degli altri santi) furono istallate dopo il 1527, ma Heemskerck le incorpora al disegno per dar loro un determinato valore simbolico; disegno che trasforma la presa del castello e la prigionia del papa in eventi compromettenti e dolorosi per le truppe di Carlo V. Sebbene Chastel riconosca la dimensione simbolica del disegno, non va oltre (così come Pierre Civil) la mera descrizione, dal momento che né approfondisce le fonti né tantomeno si interroga sul rapporto tra le due incisioni. A nostro avviso, invece, nel Capta urbe – come abbiamo in precedenza osservato nell’incisione del Borbone occiso – la vittoria dell’esercito imperiale è offuscata, in questo caso, dallo sguardo di disapprovazione che San Pietro, primo capo della Chiesa cristiana, ha nei confronti dei soldati imperiali. Il rapporto tra le due incisioni si intensifica, quando si osserva che in entrambi i casi l’ambiguità che produce l’interpretazione di quelle immagini si relaziona all’uso della formula infernale. In Capta urbe la figura scultorea del lanzichenecco che sfida San Pietro, sembra ricalcare un personaggio simile che si trova in un altro affresco del Signorelli, Il sermone e le opere dell’Anticristo. L’opera, realizzata tra il 1500 e il 1504, fa parte del ciclo di affreschi su temi 290 Silvina Paula Vidal apocalittici che decorano la cappella di San Brizio nella cattedrale di Orvieto. Qui fa la sua comparsa l’Anticristo, in piedi su un piedistallo, nell’atto di predicare, così come Cristo faceva i suoi sermoni, ma il diavolo è colui che lo comanda come un burattino e gli sussurra all’orecchio ogni parola. Alla sua sinistra, un uomo commette un orrendo massacro senza che nessuno lo fermi [Fig. 7]. Formando parte della moltitudine che ascolta l’Anticristo e gli lascia una serie di oggetti di lusso come offerta, si presenta, accanto a una donna che si prostituisce, un uomo corpulento di spalle (come il lanzichenecco di Heemskerck) con atteggiamento audace e temerario [Fig. 8]. Per quanto Heemskerck considerasse il castigo e l’espiazione di Roma necessari, ciò non implica che, pacifista com’era,53 giustificasse le truppe imperiali per i loro abusi e i crimini commessi. Risulta quindi assai probabile la doppia interpretazione che le sue incisioni permettono sul Sacco del 1527; l’uso della formula infernale colpevolista (che avvicina vincitori e vinti) e la sua necessità di soppesare la gloria imperiale, la crudeltà delle azioni commesse e la sofferenza delle vittime, costituivano un notevole esempio di rivisitazione storica dell’avvenimento. Rivisitazione che racchiude in sé una riflessione critica, ancora intrisa di un’atmosfera penitenziale e religiosa, sul prezzo del potere politico che si fonda sull’esercizio della violenza, privandosi di ogni umanità. Fin qui abbiamo dimostrato che le immagini imperiali del Sacco di Roma sono a volte equivoche, nel senso che permettono livelli di interpretazione e d’utilizzo che vanno al di là della funzione intenzionale, in questo caso celebrativa o propagandistica, con la quale furono concepite. Ma c’è dell’altro. In relazione alla seconda tesi di Chastel, l’assenza, sul versante italiano, di immagini contemporanee all’avvenimento, essa ci sembra accettabile solo se si analizzano incisioni e affreschi: se si aggiungono le produzioni pittoriche come le maioliche, la situazione cambia. 53 Heemskerck rimase cattolico, ma visse sulla propria pelle il terrore del fanatismo religioso. Soffrì la furia iconoclasta dei protestanti olandesi fuori da Haarlem (nella quale morirono molti dei suoi amici o furono spossessati o feriti gravemente e le loro incisioni distrutte) e l’armata spagnola giunse a confiscare gran parte dei suoi quadri. Il pacifismo del pittore prese forma compiuta nel 1559; anno nel quale realizza una serie di incisioni che mettono in luce l’importanza della rassegnazione e della pazienza nel rapportarsi alle mondane tribolazioni. Per un’analisi approfondita di questa serie, si veda: D. KUNZLE, From criminal to courtier: the soldier in Netherlandish art 1550-1672, Leiden, Brill, 2002, pp. 119-127. Una revisione delle tesi di André Chastel 291 La parola ‘maiolica’ significa ceramica dalla tonalità vicina al marrone, adatta alla decorazione policroma e allo smaltato metallico. Le prime maioliche di questo tipo ebbero origine nel IX secolo in Oriente (Mesopotamia), e poi si diffusero in Egitto e, attraverso il Nord-Africa e la Spagna, in Italia tra la fine del XII sec. e gli inizi del XIII. Quando questo tipo di ceramica era importato dalla Spagna all’Italia, il nome di maiolica derivava da Mallequa (con riferimento a Malaga); tuttavia, di lì a poco gli italiani iniziarono a confondere Mallequa con Maiorca. Verso il XVI sec., al diminuire delle importazioni provenienti dalla Spagna, la parola ‘maiolica’ iniziò a designare ogni tipo di ceramica verniciata, indipendentemente dalle sue origini, che luccicasse o meno.54 Così, la storia della maiolica in Italia dimostra come gli artigiani e gli artisti italiani adottarono una tecnica originaria dell’Islam e la trasformarono in tratto caratteristico del disegno e della cultura innovatrice dell’Italia rinascimentale per elaborare una serie di prodotti che in un primo momento si diffusero nel mercato locale e in seguito nel resto d’Europa.55 Il perfezionamento della tecnica di produzione della maiolica in Italia fu relativamente rapido, mentre gli artigiani andavano acquisendo esperienza in relazione al tipo di argille, smalti e pigmenti che potevano combinarsi e cuocersi in maniera soddisfacente. In questo senso, si avverte un contrasto tra, da un lato, la produzione quasi uniforme del XIII e XIV sec., nelle regioni dell’Emilia Romagna, Toscana, Umbria, Lazio e il sud dell’Italia (Puglia e Sicilia) e, dall’altro, una gran quantità di centri di produzione che, intorno al XV sec., presentano tratti distintivi, d’accordo al grado di raffinatezza della materia prima e alla natura dello smalto.56 A questo processo di diversificazione e differenziazione contribuirono diversi fattori: (i) l’ampliamento della gamma dei colori, che aggiungeva al porpora manganese e al verde rame, il blu importato del cobalto, il giallo derivato dall’antimonio e una serie di arancioni estratti dal ferro così come l’uso di miscugli per produrre diversi toni e ombre di altri pigmenti 54 J. V. G. MALLET, Xanto: pottery-painter. Poet, Man of the Italian Renaissance, London, Wallace Collection, 2007, pp. 10-15. 55 T. WILSON, Le maioliche, in F. FRANCESCHI et alii (ed.), Il Rinascimento italiano e l’Europa. Vol. IV. Commercio e cultura mercantile, Treviso-Costabissara, Fondazione Cassamarca e Angelo Colla editore, 2007, pp. 217-45. 56 WILSON, Le maioliche cit. 292 Silvina Paula Vidal per ottenere il bianco e il nero; (ii) la sperimentazione con lo smaltato di stagno e gli effetti di lucido e (iii) la mobilità dei ceramisti, disposti a spostarsi dove erano disponibili i materiali (soprattutto argille e combustibile per i forni) e benefici di protezioni e privilegi a fronte della loro competenza.57 La produzione di maioliche era comunitaria, intensiva e, secondo quanto spiega Cipriano Piccolpasso, autore dei Tre Libri Dell’Arte Del Vassaio (1557), abbastanza specializzata. Un laboratorio era composto da un capo o amministratore (che non sempre era chi metteva il capitale), vasai (che muovendo il tornio con il piede fabbricavano vasellame e piatti e li modellavano con le mani), pittori (che disegnavano e dipingevano i disegni), due uomini incaricati del forno e del processo di cottura dei pezzi, una serie di impiegati per occupazioni generali e di apprendistato. Come suggeriscono Talvacchia, Goldthwaite e Wilson, è altamente probabile che intorno al XVI secolo, l’intensificarsi della complessità del disegno delle maioliche, sia sul versante figurativo che nella sofisticazione degli smalti e delle decorazioni, abbia spinto i pittori di ceramica a firmare le proprie opere, con l’obiettivo di avvantaggiarsi sui vasai (visti come semplici lavoratori manuali) e ottenere maggior riconoscimento sociale per la propria arte. La situazione iniziò a essere più evidente quando una maggiore consapevolezza nell’uso dei colori e del disegno delle forme, consentì a questi pittori di sviluppare diversi effetti che culminarono nello ‘stile istoriato’, chiamato così perché consisteva nella narrazione di fatti storici o leggende. Fondamentale per il sorgere dell’istoriato, il cui apogeo durò circa sessant’anni, fu la tecnica dello smaltato in stagno che dava alla superficie della ceramica un colore bianco opaco, rendendo possibile usarlo come se si trattasse della tela di un quadro per dipingere storie attraverso figure umane in movimento che infondevano vita alle strutture architettoniche e paesaggistiche. In questo contesto, ci interessa richiamare l’attenzione sull’opera di Francesco Xanto Avelli (1486-1542), che concentrò la propria produzione nella corte di Urbino, alla quale concorrevano proprietari, clerici e diplomatici, potenziali consumatori della ceramica istoriata. A differenza di altri pittori di ceramica, le creazioni di Avelli non 57 R. A. GOLDTHWAITE, The Economic and Social World of Italian Renaissance Maiolica, «Renaissance Quarterly», XLII, 1989, pp. 1-32. Una revisione delle tesi di André Chastel 293 solo sono sopravvissute, nella loro maggioranza, ma sono anche facilmente identificabili dal momento che questo pittore, nel tentativo di attrarre clienti facoltosi, decise di firmare sistematicamente, a partire dal 1530 – dapprima con le iniziali F R (Francesco Rovigese) o F X A R (Francesco Xanto Avelli Rovigiese) e in seguito con il suo nome completo: Francesco Xanto Avelli da Rovigo –58 tutte le maioliche che dipingeva, cercando di lasciare il proprio segno personale nell’ambito della produzione comunitaria dei laboratori; ciò generò non pochi contenziosi con maestri dell’arte come Giorgio Andreoli, proprietario del laboratorio di Gubbio.59 Con tali ambizioni, non sorprende che Avelli abbia compiuto tutti passi necessari per ottenere il patronato cortigiano:60 si inventò un nome d’arte (‘Xanto’) d’ispirazione classica; compose una collezione di 44 sonetti, dal titolo Il Rovere Vittorioso che dedicò a Francesco Maria della Rovere duca di Urbino e si specializzò nello stile istoriato che, oltre a primeggiare nella produzione di ceramica urbinate, richiamava in maniera esplicita una clientela d’élite (Xanto poteva contare tra i suoi clienti più importanti, Federico II Gonzaga, duca di Mantova, alcuni membri della famiglia fiorentina Pucci e alte personalità dell’aristocrazia veneziana come Giacomo Michiel e Jacopo Pesaro).61 Nonostante Xanto mostrasse un genuino interesse per la letteratura e la poesia vernacolare, probabilmente fece parte delle sue strategie commerciali lo scrivere vignette comuni sul retro delle maioliche che dipingeva; vignette che in certe occasioni riflettevano su fatti politici contemporanei, ai quali si aggiungevano commenti dell’artista. Con lo stile istoriato la tecnica di decorazione delle maioliche aveva raggiunto il suo culmine, nonostante esso costituisse una piccola parte della produzione totale di ceramica nella penisola italiana. Tuttavia, il fatto che la maiolica istoriata si sia preservata meglio delMALLET, Xanto: pottery-painter cit., Introduction, pp. 10-25. B. TALVACCHIA, Professional Advancement and the Use of the erotic in the Art of Francesco Xanto, «Sixteenth Century Journal», XXV/1, 1994, pp. 129-131 y MALLET, Xanto: pottery-painter cit., pp. 10-11 60 Avelli, Xanto in Dizionario Biografico degli italiani, Vol. 4, Roma, Istituto della Enciclopedia Italiana, 1962 sub voce. Si veda anche: B. TALVACCHIA, Professional Advancement cit., pp. 121-153. 61 MALLET, Xanto: pottery-painter cit., pp. 27-41. 58 59 294 Silvina Paula Vidal le altre ha generato interrogativi e diverse ipotesi sulle sue funzioni e utilizzi. Per il Talvacchia questo tipo di pezzi avevano un valore prettamente estetico, e quindi si usavano come oggetti di decoro o di ossequio a persone influenti, al fine di riaffermare il prestigio sociale del loro possessore e forgiare alleanze;62 diversamente Mallet sostiene che le ceramiche istoriate furono utilizzate, al di là della loro funzione simbolica, come recipiente campestre per servire insalate.63 Una posizione intermedia è quella assunta da Goldthwaite, che parla del sorgere di una «cultura di mercato» che potesse rispondere a diverse forme di consumo. In questo senso, sebbene le maioliche siano viste come una serie di oggetti decorativi per la casa che assumono varie funzioni (devozionali, piatti da tavola, azulejos, barattoli per medicinali e spezie, calamai, candelabri e statuette), l’autore distingue tra i pezzi molto elaborati (quanto a varietà di colori, grado di raffinatezza ed eleganza delle decorazioni) destinati a un mercato di lusso e quelle più semplici indirizzate a un pubblico medio, desideroso di mangiare in qualcosa di meglio dei piatti di legno, ma incapace di sostenere il costo di vasellame d’oro o d’argento.64 Se ci si attiene alle fonti letterarie – come avverte Goldthwaite – la popolarità delle maioliche istoriate come articoli di lusso risponde anche a molte altre variabili diverse dal costo, come la rarità dei materiali impiegati, la trasparenza e la brillantezza degli smalti, la leggerezza degli oggetti, l’ammirazione per la cultura classica e per i saperi alchemici (per esempio, la magia della trasformazione della terra in ceramica) e le nuove regole dell’etichetta culinaria; questioni che, secondo l’autore, si combinavano eticamente ed esteticamente attraverso il buon gusto e l’eleganza.65 Questa prospettiva può arricchirsi ancora di più se si considerano i desideri e le richieste del committente al momento di ordinare l’esecuzione e il disegno dei pezzi, in special modo quando si trovano allegorie complesse, come vedremo nel caso di Avelli, di difficile interpretazione. Per quanto riguarda il disegno, era comune che i pittori di maTALVACCHIA, Professional Advancement cit., pp. 121-53 MALLET, Xanto: pottery-painter cit., pp. 27-41. 64 GOLDTHWAITE, The Economic and Social World cit., pp. 16-17. 65 Per uno studio più approfondito si vedano L. JARDINE, Worldly goods: a new history of the Renaissance, Londra, Macmillan, 1996, pp. 275-330 e P. FINDLEN, Possessing the Past: The Material World of the Italian Renaissance, «The American Historical Review», CIII/I, 1998, pp. 83-114. 62 63 Una revisione delle tesi di André Chastel 295 ioliche si servissero delle incisioni e delle xilografie come fonte dei propri motivi. Secondo quanto ci racconta Piccolpasso i pittori di ceramica, a differenza degli esecutori degli affreschi, lavoravano seduti in una sala del laboratorio intorno a un tavolo comune, con i pezzi da decorare (protetti da un contenitore di legno e ancora senza lo smalto cotto) tra le gambe, appoggiati su una tela grezza; tutti usavano gli stessi vasi di colore e le pagine dei disegni-fonte delle stampe, fissate su una parete di gesso dietro di loro [Fig. 9].66 Bisogna ricordare che a quei tempi, le stampe non erano considerate riproduzioni dei quadri; in questo senso si consigliava ai pittori di ceramica di copiare parti di esse (in relazione alla linea delle figure e alla loro disposizione nello spazio) perché, mentre riducevano gli affreschi in grande scala, realizzavano immagini adattabili a superfici molto più piccole.67 In linea con la moda dell’epoca, Avelli optò per le grandi incisioni (in special modo di Marcantonio Raimondi, ma anche di Baccio Bandinelli, Marco Dente e Agostino Veneziano) che si realizzavano a partire dai quadri di Raffaele Sanzio e del suo circolo; incisioni che monopolizzavano il mercato.68 Xanto aveva un metodo di appropriazione selettivo: copiava figure da composizioni popolate, soprattutto quelle che esaltavano il corpo umano e lo rappresentavano in posture d’azione, artificiose e eloquenti. Nel processo di adattamento e trasferimento alle ceramiche, le figure mantengono le stesse pose, ma Xanto le mette in rassegna raggruppandole con figure provenienti da altre xilografie, e riposizionandole in un nuovo scenario aggiungendo caratteristiche diverse per dar loro un nuovo ruolo nella storia che si propone di raccontare; ruolo che poco aveva a che vedere con quello del contesto originale.69 Generalmente, Avelli interpreta il Sacco del 1527 come un castigo divino meritato a causa del lassismo morale di Roma e dell’avarizia 66 MALLET, Xanto: pottery-painter cit., p. 10; TALVACCHIA, Professional Advancement cit., p. 124; Italian Maiolica, Catalogue of the collections, California, the J. Paul Getty Museum, 1988, pp. 1-11. 67 TALVACCHIA, Professional Advancement cit., pp. 124-126 68 DAVID EKSERDJIAN, Xanto and his sources, «Faenza. Bollettino del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza», XCIII, 2007, pp. 136-151 e CLAUDIO PAOLINELLI, «Di ‘quel carattere Raffaellesco’ nelle maioliche del ducato di Urbino», in LORENZA MOCHI, Raffaello e Urbino: la formazione giovanile e i rapporti con la città natale, Milano, Electa, 2009, pp. 244-265. 69 MALLET, Xanto: pottery-painter cit., pp. 14-26; TALVACCHIA, Professional Advancement cit., pp. 121-53. 296 Silvina Paula Vidal del Papa, anche se avverte, in consonanza con l’interpretazione che Clemente VII e la sua cerchia faranno dell’avvenimento, una certa speranza di rinascita spirituale. Tra il 1528 e il 1534, questo artista dipinge nelle sue maioliche una serie di allegorie relative al sacco della città. Di esse ne abbiamo selezionate sei, che passeremo in rassegna, con l’obiettivo di identificarne le formule di rappresentazione. La prima [Fig. 10], risalente al 1529, mostra i soldati imperiali ubriachi, che aggrediscono i cittadini romani, mentre Bacco sorpreso e Clemente VII terrorizzato – rappresentato come un anziano che, in piedi su un pallone (richiamo allo scudo mediceo) abbraccia le chiavi della Chiesa – assistono all’avvenimento. In primo piano, un’afflitta Venere (che in questo caso, personifica la città di Roma) è consolata da Cupido. Dall’alto Giunone, seduta su una nube, osserva con sguardo di approvazione la scena. Sul retro reca una tavoletta con su inciso l’anno 1527 e un’iscrizione che recita, in allusione alla vittoriosa presa della città da parte dei soldati imperiali: «Il di quinto di maggio Lanci & Spani col favor di Giunone entrarono Roma & hebbero Pietro & Bacco nelle mani». Per quanto riguarda la composizione, l’Avelli sembra essersi ispirato nell’occasione a Venere ne Il ratto di Elena di Marcantonio Raimondi;;70 mentre le scene di violenza furono disegnate a partire dalla Strage degli innocenti del pittore e scultore Baccio Bandinelli, secondo il disegno di Marco Dente da Ravenna [Fig. 11]. È sufficiente mettere a confronto l’incisione del Bandinelli con la versione che lo stesso Avelli fa della Strage degli innocenti.71 La seconda [Fig. 12], datata 1528-30 ca., dal titolo Allegoria del trionfo sulla Germania e firmata con le iniziali F. R., mostra eretta – sopra una pila dei cadaveri – l’aquila imperiale con due teste e le sue zampe ricurve sulla sella di un cavallo bianco. Sul fondo c’è un edificio in stile classico. Nonostante la maiolica non abbia iscrizione 70 E. ROSSONI, Stampe bolognesi di Marc’Antonio Raimondi intagliatore. Ricostruzione del secondo volume della raccolta di stampe della Pinacoteca Nazionale di Bologna, «Aperto. Bollettino del Gabinetto dei Disegni e delle Stampe della Pinacoteca Nazionale di Bologna», II, 2009, distribuito in formato digitale su www.aperto. gdspinacotecabo.it 71 J. M. MUSACCHIO, Marvels of maiolica: Italian Renaissance ceramics from the Corcoran Gallery of Art collection, Charlestown, Mass. Bunker Hill Pub. 2004, pp. 17-18; allo stesso modo si veda il catalogo digitale: Xanto nel mondo, distribuito in formato digitale su www.fondazionebancadelmonte.com. Una revisione delle tesi di André Chastel 297 l’immagine rimanda, senza dubbio alcuno, al dominio di Carlo V (simboleggiato dall’aquila) e alle morti provocate dal Sacco. La terza [Fig. 13], risalente allo stesso periodo della precedente, è un tondino nel quale si personifica il fiume Tevere come se fosse un uomo circondato da tele azzurre con i capelli bianchi che, nudo e piegato, sostiene una cornucopia (simbolo di fertilità e abbondanza); mentre al centro Cupido agita la sua mano in direzione di una donna nuda che, seduta in una posa dovuta alla stanchezza, regge una borsa aperta con delle monete. Sul retro si legge una iscrizione che dice: «Tybri avaritia con lascivia aggiunti. Nota». Sia il Cupido che la donna seduta derivano anch’esse da due incisioni di Marcantonio Raimondi: la danza dei cupidi e il processo di Parigi.72 Il lavoro costituisce un esempio di combinazione di stili (istoriato e pensa); combinazione che permette a Avelli di esprimere un giudizio morale sul Sacco di Roma, soprattutto se si relaziona l’iscrizione con: (i) la mancanza di etica da parte della donna che, a causa del suo atteggiamento avido e provocante, sembra suscitare un castigo divino e (ii) l’uomo che sdraiato su un pallone potrebbe ben rappresentare il papa Clemente VII come accade nella figura 15. La quarta [Fig. 14], del 1531, dal titolo Allegoria delle quattro città sottomesse, mostra quattro spade con le punte in fiamme (con riferimento al castigo divino e alla purificazione dal peccato tramite il fuoco) che indicano le città occupate da Carlo V: al centro in basso, Roma, con le chiavi di San Pietro; alla sua sinistra, Genova e Firenze, con un grande fiordaliso sotto il suo piede, e alla sua destra Napoli (identificata con l’antico nome di Parthenope). Delle quattro personificazioni femminili, Roma è l’unica ad essere rappresentata in modo lascivo, caratterizzata come la nuova Babilonia, contorta e con le chiavi mezze nascoste tra il polpaccio e il piede. Ci interessa far notare come Avelli copi la postura di Roma dalla posizione nove de I modi [Fig. 15], una serie di incisioni di figure erotiche che realizzò Marcantonio Raimondi a partire dai disegni di Giulio Romano.73 Le MALLET, Xanto: pottery-painter cit., pp. 104-105. I modi, anche conosciuto con il titolo latino De omnibus Veneris Schematibus, costituì un libro erotico famoso del Rinascimento italiano nel quale venivano ritratte coppie eterosessuali nell’atto sessuale in ben 16 posizioni. Le incisioni della prima edizione (1524) furono realizzate da Marcantonio Raimondi sulla base di una serie di pitture erotiche che furono commissionate a Giulio Romano da Federico II Gonzaga per il nuovo 72 73 298 Silvina Paula Vidal figure de I modi sono difficili da riadattare, e ciò ci fa pensare che Avelli lo abbia fatto con un’intenzione ben precisa: mettere in relazione il Sacco con il processo di degenerazione e di corruzione della città. La quinta, realizzata tra il 1532 e il 1533, si chiama La decadenza di Roma ed è uno dei trentasette pezzi commissionati a Xanto Avelli dalla famiglia Pucci,74 chiaramente identificabile dallo scudo d’armi che presenta il disegno: una testa di moro adornata con una fascia che porta il simbolo dei tre zibellini dalla forma di martello e su questo un ombrellino. Nel centro della composizione si trova Roma personificata come Venere inginocchiata, con la testa china, arrossita (in segno di vergogna) e afflitta, attorniata da sette donne in atteggiamento lussurioso e da una coppia che si avvicina a loro, con l’uomo che porta una cornucopia; mentre gli angeli tirano fuoco dal cielo. Un’altra volta, come nella maiolica precedente, vediamo l’importanza che Avelli conferisce al fuoco come strumento del castigo e della purificazione dai peccati. Allo stesso modo, si percepisce la mescolanza di fonti diverse – per esempio, l’incisione di Venere inginocchiata di Marcantonio Raimondi e le stampe della posizione otto [Figg. 16 e 16b] e nove [Fig. 15] di I modi per le donne sulla destra (che allatta un neonato) e a sinistra, collocate in primo piano – insieme alla riproposizione di motivi precedenti, come nel caso delle figure che nella Allegoria delle città sottomesse rappresentavano Firenze e Genova e che qui Avelli riproduce in scala minore relegandole sul fondo, alla destra di Venere. L’insieme di questa decorazione istoriato allude al sonetto 136 del Canzoniere del Petrarca, di cui Avelli trascrive le prime quattro righe Palazzo del Tè di Mantova. L’edizione fu censurata, le incisioni (tutte le copie esistenti) vennero distrutte e Raimondi incarcerato dal papa Clemente VII. I modi furono pubblicati per la seconda volta (1527) con sonetti di Pietro Aretino ad accompagnare ogni immagine. E di nuovo il papato ne confiscò e distrusse tutte le copie; sopravvissero solo alcuni frammenti (custoditi oggi nel British Museum) e due copie della posizione n°1. È probabile, come suggerisce Talvacchia, che Avelli non avesse a sua disposizione tutte le incisioni, dal momento che nei suo lavori compaiono solo sette posizioni. Sull’influenza de I modi nell’opera di Xanto Avelli, si veda: TALVACCHIA, Professional Advancement cit., pp. 121-53. E allo stesso modo L. LAWNER, I Modi: The Sixteen Pleasures: An Erotic Album of the Italian Renaissance, Chicago, Northwestern University Press, 1989. 74 Fino a poco tempo fa si pensava che il committente fosse Piero Maria Pucci di Firenze, dignitario pontificio di Leone X e Clemente VII; ma oggi gli esperti non sono d’accordo (dal momento che non esiste alcuna prova che questo personaggio utilizzasse lo stesso scudo che appare nella maiolica) con questa attribuzione. Cfr. Louvre. Guide du visiteur. Les Objets d’art. Moyen-Age et Renaissance, Paris, Editions de la Réunion des Musées nationaux, 1994, p. 110; cfr. anche Xanto nel mondo, cit. Una revisione delle tesi di André Chastel 299 sul retro del pezzo: «Fiamma dal Ciel su le tue treccie piova/ malvagia che dal fiume et da le ghiande/ per l’altrui impoverir se ricca e grande/ poi che di mal oprar tanto ti giova». Qui la chiesa è personificata come una donna (da cui il riferimento alle trecce) e il poeta, ergendosi a giudice, augura che una pioggia di fuoco discenda su di lei che, da povera e semplice che era (quando si alimentava di ghiande e beveva acqua del fiume) si è trasformata in ricca e potente, a costo dell’impoverimento di altri e oltretutto sembra godere delle proprie azioni malvagie e vili. Così, Avelli ripropone in chiave moralistica – attraverso l’invettiva del Petrarca contro la corte papale di Clemente VI e i suoi vizi di simonia, gola e lussuria (che si sviluppa nelle altre due strofe e continua nel sonetto 138 del Canzoniere) – una critica severa alla corruzione della Chiesa e del papato. La sesta, risalente al 1534 e intitolata Carlo V punisce Roma corrotta, mostra in primo piano l’Imperatore collerico, nell’atto di alzare una spada, con l’intenzione di tagliare a metà una donna sdraiata in posa ridicola e provocante dal punto di vista sessuale. Sullo sfondo, si possono osservare cinque donne nude, con possibile allusione agli eccessi e agli appetiti carnali di una Roma viziosa. Sul retro c’è un’iscrizione che dice «Roma lasciva dal buon / Carlo quinto partita à mezzo». La vignetta fa esplicito riferimento alle simpatie dell’artista, attraverso agli aggettivi che sceglie e il modo in cui li usa. Allo stesso modo, Avelli investe visivamente d’autorità la figura di Carlo V nel disegnarla in proporzione molto più grande della vittima, le cui minori dimensioni rafforzano la sua posizione di sconfitta. La sproporzione indica, senza dubbio alcuno, la relazione asimmetrica tra conquistatore e sottomesso. Sorprende la leggerezza con la quale la moglie che personifica Roma si contorce, mostrando il proprio sesso e indicando i genitali. Xanto la copia dall’ottava posizione de I modi; posizione che, come segnala Talvacchia,75 deve essere stata considerata abbastanza offensiva all’epoca, per il suo carattere eccessivamente grafico. L’immagine sopravvisse solo in forma mutilata: i due frammenti della versione incisa [Figg. 16 e 16b] mostrano come sia stata tagliata nel punto di congiunzione tra le due figure. A conclusione vogliamo completare questo quadro con un’allegoria [Fig. 18] di Giulio da Urbino (1533-1541), datata tra il 1534 e 75 TALVACCHIA, Professional Advancement cit., pp. 142 e 145-147. 300 Silvina Paula Vidal il 1535. Giulio fu uno dei discepoli di Avelli a Urbino, e del maestro condivide fonti, stile e tipo di iscrizioni.76 Per questo ci è sembrato fondamentale offrire anche questa rappresentazione per completare l’immaginario pittorico del Sacco. L’allegoria mostra Carlo V con le sembianze di uno scultoreo soldato seminudo dai capelli bianchi, nel tentativo di afferrare un’ala del cherubino che rappresenta Clemente VII, identificato dall’enorme pallone che porta sulle sue spalle (con riferimento alle sei palle dello scudo d’armi della famiglia del Papa, i Medici). È interessante notare che l’immagine dell’Imperatore fu tratta dall’incisione realizzata da Bandinelli della Strage degli innocenti [Fig. 11], una delle preferite da Avelli. In secondo piano, sulla destra, tre donne nude ballano in cerchio, portando cornucopie e pannocchie. Sul fondo si possono vedere un muro sfondato, una torre e una città. Sul retro, c’è un’iscrizione che recita: «D’amorosi pensieri gli animi ingombro». Dora Thornton ha dimostrato che l’iscrizione non è che una citazione modificata del sonetto X del Canzoniere del Petrarca: «D’amorosi pensieri il cor ne’ngombra / Ma tanto ben sol tronchi, et fai imperfecto, / Tu che da noi, Signor mio, ti scompagne».77 Il sonetto allude a un amico e sostenitore del Petrarca, che proviene dalla famiglia Colonna; famiglia che umiliò il Papa Bonifacio VIII ad Anagni nel 1303. Qui Giulio sembra concretizzare un parallelismo tra quell’episodio e la presente umiliazione di Clemente nel 1527 per mano dell’imperatore, umiliazione preceduta dalla rivolta dei Colonna. Tuttavia, come sostiene Mallet, intorno al 1529 Clemente VII aveva migliorato la propria relazione con la famiglia Colonna tanto da rendere ipotizzabile come possibile rimpiazzo di Francesco Maria Della Rovere come duca di Urbino al posto di Ascanio Colonna.78 Dalle maioliche analizzate possiamo avanzare diverse conclusioni: in primo luogo, si osserva l’influenza della tradizione classica (di miti e leggende), dalla quale si prendono figure e motivi pittorici per la rappresentazione di Roma (come Venere), del Papa Clemente VII 76 D. THORNTON, Giulio da Urbino and his role as a copyst of Xanto, «Bollettino del Museo Internazionale delle Ceramiche in Faenza», XCIII, 2007, pp. 269-289. 77 D. THORNTON, An allegory of the Sack of Rome by Giulio da Urbino, «Apollo», CXIX, 1999, pp. 11-18. 78 MALLET, Xanto: pottery-painter cit., p. 142. Una revisione delle tesi di André Chastel 301 (come il fiume Tevere, o più comunemente, come una sorta di Cupido o cherubino che trasporta un pallone) e dell’assalitore d’entrambi, Carlo V (rappresentato come un guerriero all’antica dal fisico scultoreo, con il simbolo dell’aquila imperiale). Allo stesso modo, nel caso della personificazione della Chiesa di Roma come donna e meretrice, Avelli si serve come fonte letteraria dell’invettiva che il Petrarca realizza nel suo Canzoniere contro Clemente VI; invettiva ispirata non solo alla Commedia di Dante,79 ma anche all’Apocalisse di Giovanni (cap. 17). Così l’Avelli sarebbe riuscito a dare al proprio giudizio sul Sacco del 1527 maggior autorità e peso, attraverso un gioco di riferimenti diretti e indiretti, da un lato, a due grandi poeti fiorentini; dall’altro, alla Bibbia. Per quanto riguarda le formule di rappresentazione, nella prima maiolica viene impiegata la formula del martirio (che allude al massacro dei santi innocenti),80 ma con riferimento al formato di ispirazione classica inaugurato da Raffaello e imitato da Raimondi [Fig. 19] che – a differenza della soluzione più realista operata da Pieter Bruegel – mette in risalto l’atletismo virile e anatomico dei soldati nudi o seminudi che commettono la strage e sfoggiano la propria forza davanti a donne e bambini.81 Per esempio, nella rappresentazione che ha al centro della composizione la Venere afflitta, si ripete sul lato destro la scena di un soldato che sta per lanciare un bambino contro il pavimento per ucciderlo sul colpo, mentre un altro copre con le mani il viso alla madre disperata per quanto sta avvenendo [Figg. 10 e 11]. La maiolica intitolata Allegoria del trionfo sulla Germania, allude anch’essa alle morti che causò il Sacco, sebbene lo faccia senza utilizzare questa formula di rappresentazione. Invece, nelle altre quattro rappresentazioni dell’Avelli, si riesce a percepire la costruzione di una immaginazione burlesca che, atPer esempio, si vedano i canti XXII del Purgatorio e XIX dell’Inferno. In generale i massacri rappresentati nel Medioevo furono uccisioni mitiche di martiri collettivi come quello dei diecimila della Cappadocia, quello delle vergini che accompagnavano a Sant’Orsola e quella dei santi innocenti. Quest’ultimo diventa, a partire dal Trecento, lo scenario di ogni rappresentazione figurativa di disperazione e di deriva emozionale estrema. Si veda J. E. BURUCÚA et alii (ed.), El padre Las Casas, De Bry y la representación de las masacres americanas, «Eadem Utraque Europa», X/XI, 2010, citazione 7, p. 151. 81 KUNZLE, From criminal to courtier cit., pp. 52-54; Brueghel to Rubens. Masters of Flemish Painting, London, Royal Collection Publications, 2007. 79 80 302 Silvina Paula Vidal traverso l’allusione all’erotico, al ridicolo e al grottesco, denuncia da una prospettiva moralistica, il capovolgimento di valori e gerarchie che caratterizzano una Roma in decadenza (che da città santa si è trasformata nella ‘nuova Babilonia’) per il degenerare dei costumi, la sua lascivia, avarizia e corruzione. Il Sacco del 1527 si iscrive così nell’ambito di un’interpretazione provvidenziale che lo rende necessario, non solo in quanto castigo divino, ma anche come parte del processo di rigenerazione della città, a partire dalla sofferenza, la mortificazione e la purga del peccato. Perciò, nelle maioliche dell’Avelli, i riferimenti agli atti di violenza e di morte contro gli abitanti, sono messe in secondo piano rispetto alle vere vittime della catastrofe: la città e la Chiesa di Roma (incarnata nella figura del Papa Clemente VII). Forse questa insistenza dell’Avelli su una spiegazione in chiave provvidenziale del Sacco si deve alla necessità di capire un paradosso politico che risulta difficile da spiegare razionalmente: quello di un imperatore che, cattolico devoto, lascia che il proprio esercito commetta ogni tipo di atrocità e faccia prigioniero il capo della Cristianità. Ad ogni modo, sembra evidente che, nonostante l’artista riconosca la responsabilità di Carlo V, giustifichi il suo agire nel rappresentarlo come puro strumento dell’ira divina e nel mettere in risalto, allo stesso tempo, le mancanze del Papa e della Chiesa, che hanno provocato il castigo divino con la loro condotta peccaminosa. Stupisce che Chastel non abbia considerato questo materiale, soprattutto se si pensa che l’interpretazione che le maioliche danno del Sacco in chiave punitiva e provvidenziale è stata quella che ha trionfato ufficialmente nella politica di ricostruzione, a livello artistico, del prestigio perduto di Roma; politica portata avanti dai papi Clemente VII e Paolo III che Chastel ha esaminato a fondo.82 Dopo avere preso coscienza della necessità di esplorare a fondo la continuità esistente tra l’interpretazione ufficiale del Sacco e quella offerta da queste rappresentazioni, risulterebbe utile un lavoro di identificazione e catalogazione, – non solo delle maioliche dell’Avelli, ma anche di tutte quelle che si riferiscono al Sacco del 1527 –, che mirasse a uno studio sistematico delle fonti letterarie e pittoriche delle loro allegorie (studio che permetterebbe di determinarne il significato con 82 CHASTEL, The Sack of Rome cit., capitoli V e VI Una revisione delle tesi di André Chastel 303 più chiarezza) e allo stesso tempo a scoprire, attraverso gli archivi e gli scavi archeologici, coloro che commissionarono quegli oggetti e le istruzioni che lasciarono per la loro esecuzione. Allo stesso modo, ci sembra valida la posizione di Arasse (che rende più complesse le relazioni tra storia e storia dell’arte) per ripensare criticamente le tesi del Chastel, per quanto riguarda il cambiamento di stile che avviene dopo il 1527, come conseguenza del trauma subito dagli artisti che si trovavano a Roma al momento della catastrofe. In questo senso, bisogna far notare come lo stile raffaelliano, osservato nelle maioliche che furono disegnate e elaborate immediatamente dopo il Sacco, nonostante possa inscriversi in un’atmosfera punitiva, non sembra corrispondere, a livello figurativo, alle forme pesanti e monocromatiche del Giudizio Universale di Michelangelo. In conclusione, abbiamo identificato – a partire dalla lettura di una serie di immagini (datate tra il 1529 e il 1555) del Sacco di Roma del 1527 – l’impiego della formula infernale (nelle incisioni di Heemskerck) e di quella del martirio (nelle maioliche di Xanto Avelli) per rappresentare l’accadimento come un massacro. In questo senso, crediamo che la tesi del Chastel debba essere rivista in relazione a due punti: (i) i clienti delle maioliche – principi, nobili, famiglie legate alla corte papale (come i Pucci) e funzionari – interpretavano il Sacco di Roma come un castigo divino, prima che i papi Clemente VII e Paolo III intraprendessero il loro programma di rinnovamento artistico e di recupero del prestigio perduto della città eterna come parte del processo di pacificazione, e (ii) le incisioni di Heemskerck sul Sacco, per il loro carattere ambiguo che lascia intravedere l’utilizzo della formula infernale (formula attraverso la quale vincitori e vinti sono entrambi presentati come peccatori), non possono ridursi a una celebrazione di trionfi come i cicli di Tunisia disegnati da Vermeyen. 304 Silvina Paula Vidal 1 2 Fig. 1. Un episodio del Sacco di Roma: l’assalto al borgo. Laboratorio di Guido Durantino, Urbino, 1540 ca. Metropolitan Museum of Art. Robert Lehman Collection, 1975 (www.metmuseum.org) Fig. 2. Master NA DAT. Battaglia di Ravenna (1512/1513). Rosenwald Collection. Concessa per cortesia della National Gallery of Art, Washington (D.C.). 305 Una revisione delle tesi di André Chastel 3 4 Fig. 3. La morte del Borbone. Incisione a stampa su un disegno di Martin Van Heemskerck: Divi Caroli... victoriae, Amberes, J. Cock (1555-1556). Rijksmuseum, Amsterdam. Fig. 4. Luca Signorelli, Discesa dei condannati all’Inferno, Cappella di San Brizio, Cattedrale di Orvieto. Disegno dell’autrice dall’originale. 306 Silvina Paula Vidal 5 6 Fig. 5. Michelangelo Buonarroti, Il giudizio universale (dettaglio). Cappella Sistina. Città del Vaticano. Disegno dell’autrice dall’originale. Fig. 6. I lanzichenecchi davanti al Castel Sant’Angelo. Incisione a stampa su un disegno di Martin Van Heemskerck: Divi Caroli... victoriae, Amberes, J. Cock (1555-1556). Rijksmuseum, Amsterdam. 307 Una revisione delle tesi di André Chastel 7 8 Fig. 7. Luca Signorelli, Il sermone e le opere dell’Anticristo (dettaglio). Cappella di San Brizio, Cattedrale di Orvieto. Disegno dell’autrice dall’originale. Fig. 8. Un confronto Signorelli-Heemskerck. Disegno dell’autrice. 308 Silvina Paula Vidal 9 10 Fig. 9. Cipriano Piccolpasso, I pittori nel laboratorio, estratto da Li tre libri dell’arte del Vassaio, manoscritto ca. 1557. Victoria and Albert Museum, Londra. Disegno dell’autrice dall’originale. Fig. 10. Xanto Avelli, Allegoria del sacco di Roma. 1530. Art Gallery of New South Wales, Sidney, Australia. Disegno dell’autrice dall’originale prima del restauro. Una revisione delle tesi di André Chastel 309 11 12 Fig. 11. Baccio Bandinelli, Strage degli Innocenti. Incisione da un disegno di Marco Dente. Pinacoteca Nazionale di Bologna. Disegno dell’autrice dall’originale. Fig. 12. Xanto Avelli, Allegoria del trionfo sulla Germania. 1530. Wallace Collection, Londra. Disegno dell’autrice dall’originale. 310 Silvina Paula Vidal 13 14 Fig. 13. Xanto Avelli, Un’allegoria del sacco di Roma. 1528-1530 ca.. National Trust, Polesden Lacey, Surrey (UK). Disegno dell’autrice dall’originale. Fig. 14. Xanto Avelli, Allegoria delle quattro città sottomesse. 1531. Museo di Arti Applicate, Castello Sforzesco, Milano. Disegno dell’autrice dall’originale. Una revisione delle tesi di André Chastel 15 311 17 16b 16 Fig. 15. Marcantonio Raimondi (secondo un disegno di G. Romano), I modi (ed. 1527). Posizione nove. British Museum, Londra. © Trustees of the British Museum. Fig. 16. e 16b. Marcantonio Raimondi (secondo un disegno di G. Romano). I modi (ed. 1527). Posizione otto. British Museum, Londra. © Trustees of the British Museum. Fig. 17. Xanto Avelli, Carlo V punisce Roma corrotta. 1534. The State Hermitage Museum. San Pietroburgo, Russia. Disegno dell’autrice dall’originale. 312 Silvina Paula Vidal 18 19 Fig. 18. Giulio da Urbino, Allegoria del Sacco di Roma. 1530. British Museum. © Trustees of the British Museum. Fig. 19. Marcantonio Raimondi, Strage degli Innocenti, 1513-1515. Incisione da un disegno di Raffaello Sanzio. Metropolitan Museum of Art. Rogers Fund, 1922 (www.metmuseum.org). I comuni di Jean-Claude Maire Vigueur. Percorsi storiografici a cura di Maria Teresa Caciorgna, Sandro Carocci, Andrea Zorzi (GIULIANO PINTO) . . . . . . . . . . . Pag. 354 VALERIE THEIS, Le gouvernement pontifical du Comtat Venaissin vers 1270-vers 1350 (SIMONE BALOSSINO) . . . . . . » 358 PAOLO GRILLO, Milano guelfa (1302-1310) (SERGIO TOGNETTI) . » 360 SYLVAIN PARENT, Dans les abysses de l’infidelité. Le procès contre les ennemis de l’Église en Italie au temps de Jean XXII (1316-1334) (FRANCESCO PIRANI) . . . . . . . . . . . . . » 364 Carteggio degli oratori sforzeschi alla corte pontificia, I, Niccolò V (27 febbraio 1447-30 aprile 1452) a cura di G. Battioni (EMANUELE CATONE) . . . . . . . . . . . . . » 368 FEDERICA VERATELLI, À la mode italienne. 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