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a cura di Paola Proverbio e Raimonda Riccini DESIGN E IMMAGINARIO Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto I --U --A --V ilPOLIGRAFO       DESIGN E IMMAGINARIO Oggetti, immagini e visioni fra rappresentazione e progetto a cura di Paola Proverbio e Raimonda Riccini ilPOLIGRAFO progetto grafico Il Poligrafo casa editrice Laura Rigon copyright © settembre  Università Iuav di Venezia Il Poligrafo casa editrice Il Poligrafo casa editrice  Padova piazza Eremitani - via Cassan,  tel.   - fax   e-mail casaeditrice@poligrafo.it www.poligrafo.it ISBN ----   Premessa Paola Proverbio, Raimonda Riccini Parte prima suggestioni e visioni: l’oggetto nell’immaginario collettivo  Immaginario del design fra tecnica, estetica e progetto Raimonda Riccini  Design, oggetti e mondi fantastici Medardo Chiapponi  Oggetti, cose, dispositivi: linee di una ricerca Antonio Costa  Dalla rappresentazione fotografica degli oggetti all’oggetto moderno Cristina De Vecchi  L’incanto delle cose. L’immaginario degli oggetti nella letteratura francese della modernità Francesca Pagani  La strategia del desiderio: immagini, sessualità e oggetti Elda Danese  Anversa, . Editoria, mostre e immaginari della moda Saul Marcadent  Ai confini dell’immaginazione progettuale Michele Sinico Parte seconda tragitti dell’immaginario progettuale  Designer. Processo ideativo e componente immaginativa Paola Proverbio  Manualità, materia, allestimenti e oggetti anonimi. Conversazione su Achille Castiglioni con i figli Giovanna e Carlo a cura di Paola Proverbio  Fantascienza, tecnologia e filiera digitale. Conversazione con Denis Santachiara a cura di Paola Proverbio  Mondi formali, tensione alla bellezza e pragmatismo operativo. Conversazione con Odoardo Fioravanti a cura di Paola Proverbio  Tapio Wirkkala. Il progetto plasmato con le mani Rosa Chiesa  Raccontare l’anima segreta delle cose di Tobia Scarpa Teresita Scalco  bibliografia  Note sugli autori  Indice dei nomi DESIGN E IMMAGINARIO  Paola Proverbio, Raimonda Riccini L’immaginario è argomento che attraversa, con gradi diversi di intensità, ma con un ruolo determinante, tutte le discipline e i saperi legati al design e alla cultura visuale. La sua intima connessione con categorie come creatività, utopia, innovazione, visione, progetto lo colloca al centro di una riflessione trasversale che riteniamo particolarmente utile per il design, in quanto l’immaginario è fra i connotati salienti delle pratiche progettuali che fanno di questa professione uno dei perni dell’innovazione materiale e sociale nel mondo contemporaneo. Sebbene la nozione di immaginario ancora oggi abbia uno statuto impreciso, abbiamo voluto prendere le mosse dell’accezione che ne dà il sociologo Paolo Jedlowski: «l’immaginario deriva dall’immaginazione, che è facoltà del possibile», cioè possibilità di «emanciparsi parzialmente dai vincoli dell’esistente», Il libro è frutto di un lavoro comune. Per l’organizzazione e la cura dei testi, la prima parte “Suggestioni e visioni: l’oggetto nell’immaginario collettivo” è da attribuire a Raimonda Riccini e la seconda “Tragitti dell’immaginario progettuale” a Paola Proverbio, che ha anche interamente curato come autrice le conversazioni con Denis Santachiara, Odoardo Fioravanti, Giovanna e Carlo Castiglioni.  Per questa ragione il tema è diventato il perno dell’attività seminariale del Dottorato in Scienze del design dell’Università Iuav di Venezia nella primavera del . Sotto il coordinamento scientifico di Raimonda Riccini, sono stati organizzati due cicli di incontri, frutto del lavoro comune delle curatrici, che hanno coinvolto docenti, dottorandi e studiosi di diversa provenienza culturale. Hanno partecipato ai seminari, oltre a chi scrive, Marco Bertozzi, Rosa Chiesa, Giulia Ciliberto, Antonio Costa, Elda Danese, Cristina De Vecchi, Toufik Haidamous, Silvio Lorusso, Laura Losito, Mario Lupano, Gabriele Monti, Francesca Pagani, Teresita Scalco, Paolo Simoni, Michele Sinico. A tutti, anche a coloro che non hanno avuto modo di scrivere un contributo, va il nostro ringraziamento.  ,    perché il concetto di immaginario «rimanda al fatto che, immaginando, noi moltiplichiamo la vita: riconosce che sul possibile noi ci sporgiamo». Questa dimensione di proiezione nel futuro, sul quale è possibile sporgersi, ci è parsa la più consona a far comprendere la relazione fra l’immaginario e il design, ovvero il sapere progettuale che si protende in avanti, secondo la nota etimologia del termine progetto. Nell’elaborare i programmi dei seminari, e affrontando la discussione con gli ospiti, ci siamo rese conto di quanto l’immaginario abbia profonde radici in numerose discipline, da quelle letterario-filosofiche a quelle delle scienze umane e sociali, fino a essere centrale anche nella riflessione scientifica e nella produzione tecnologica. Si tratta di un termine ampio, che ha visto crescere per tutto il Novecento un uso sempre più intenso e che ha finito per soppiantare quello di immaginazione. Nel nostro caso i due termini sono stati usati in senso sostanzialmente sinonimico, poiché il presente lavoro non ha certo ambizioni sistematiche, ma piuttosto l’interesse a esplorare un campo ancora poco dissodato nel mondo del design, dove il concetto di immaginario si è sviluppato in maniera difforme e non con l’estensione che meriterebbe. Benché sia chiaro a tutti quanto gli oggetti del design e della moda siano importanti nella formazione degli immaginari nelle società contemporanee, quando si passa a considerare quale sia il ruolo dell’immaginario nel processo di progettazione, configurazione e realizzazione di questi stessi oggetti, il panorama critico e analitico è decisamente scarno. Dunque al centro di questo lavoro è l’immaginario in relazione al design. L’ambizione è quella di non limitarsi a indagare soltanto il significato e il ruolo degli oggetti nella costruzione culturale e sociale dell’immaginario. Accanto a questo, si è voluto  P. Jedlowski, Immaginario e senso comune. A partire da «Gli immaginari sociali moderni» di Charles Taylor, in Genealogie dell’immaginario, a cura di F. Carmagnola, V. Matera, Utet Università, Novara , p. .  M. D’Amato, Nuovi paradigmi dell’immaginario, Enciclopedia Treccani (XXI Secolo), http://www.treccani.it/enciclopedia/nuovi-paradigmi-dell-immaginario_(XXI-Secolo)/ [ aprile ].   scandagliare quale sia il percorso immaginativo proprio del processo di progettazione degli oggetti da parte dei designer. La questione di fondo dell’analisi risiede nella comprensione delle dinamiche che governano la dimensione immaginativa dei designer, nello svelarne l’iter ideativo. E in effetti la componente immaginifica che il designer attribuisce all’oggetto è parte costitutiva del processo di progettazione, non è un elemento che compare «al di fuori» del processo, come se fosse un’attribuzione a posteriori. Soprattutto negli oggetti d’uso quotidiano – dagli elementi d’arredo agli strumenti del lavoro, dai mezzi di trasporto ai dispositivi della comunicazione (e si pensi agli immaginari legati oggi alle tecnologie digitali e alle loro potenzialità futuribili!) – questa componente insita nel momento della progettazione è elemento di distinzione indispensabile. Essa colloca ogni singolo oggetto non solo in uno specifico segmento merceologico e di mercato, ma in una precisa zona dell’immaginario sociale. Che il design sia un elemento essenziale in questa dinamica lo sapevano bene, fin dai primi del Novecento, gli interpreti di un mondo capitalistico, allora assai più chiaro da decifrare rispetto a quello attuale, come Thorstein Veblen con la sua epigrammatica idea del valore ostensivo degli oggetti. O, successivamente, autori come Jean Baudrillard o Roland Barthes con le loro analisi sulla dimensione mitica, simbolica e segnica delle cose e dei sistemi a cui esse danno luogo nel contesto della società dei consumi. Così come lo sapevano (e sanno) ancor meglio gli uomini del marketing o quelli della comunicazione, che attorno agli oggetti costruivano (e continuano a costruire) un’invisibile rete di significati simbolici, di rimandi e suggestioni. Come lo sapevano, infine e soprattutto, i designer stessi che ai loro prodotti hanno assegnato il ruolo di concretizzazione di una poetica e di un’estetica personali attraverso la quale interpretare il mondo della cultura materiale del nostro tempo. Partendo da queste considerazioni, il volume è stato suddiviso in due parti. La prima parte comprende esempi di come diversi territori disciplinari produttori di potenti immaginari sociali leggono la  ,    presenza degli oggetti nella nostra esistenza (dal cinema alla fotografia, alla moda, all’arte, alla letteratura, dalla psicologia alla storia della tecnica e del design di prodotto). La complessità che contraddistingue il termine immaginario si riflette in una potenzialità narrativa che le diverse angolazioni disciplinari mettono in campo secondo le proprie specificità. Per questo abbiamo intitolato la prima parte del volume “Suggestioni e visioni: l’oggetto nell’immaginario collettivo”, un titolo che vuole dar conto della complessità riflessiva dell’argomento della nostra osservazione. Se è vero che in questa sezione si privilegia ancora lo sguardo che da diverse aree di sapere inquadra e illumina il senso degli oggetti come dispositivi narrativi o di costruzione culturale (come nel caso dei saggi di Antonio Costa, Cristina De Vecchi e Francesca Pagani), è altrettanto vero che in essi si cerca di mettere a fuoco alcune specificità della cultura del design, dove è particolarmente intenso l’intreccio fra immaginario collettivo e produzione di immaginario attraverso l’azione artistica e la progettazione editoriale (Elda Danese, Saul Marcadent). Peraltro questo intreccio è presente nei processi storici sia nella produzione di artefatti sia nella loro narrazione, la cui circolarità è messa in luce dal testo di Medardo Chiapponi, in cui si estraggono dalle pagine di opere letterarie come le Mille e una notte o dai racconti di fantascienza di Isaac Asimov alcune analogie fra la caratterizzazione degli oggetti magici e quelli reali. Un passo ulteriore verso il riconoscimento del rapporto fra processi immaginativi e realizzazione degli artefatti è tentato nel testo di Raimonda Riccini, che rintraccia alcune costanti (ma anche relative discontinuità) nei processi di figurazione e configurazione degli oggetti nel mondo tecnico, a partire dal rapporto con il corpo umano. Per ultimo, il testo di Michele Sinico, Ai confini dell’immaginazione progettuale, è volutamente collocato a ridosso della seconda parte del volume, perché è propedeutico a inquadrare il tema dell’immaginario individuale che si riversa nel lavoro del progettista. Ovvero, il testo ci dice come effettivamente funzionano i meccanismi cognitivi che producono l’immaginazione nell’elaborazione di un progetto. E soprattutto ci induce a pen-   sare che l’immaginazione ha un limite e che lo sviluppo progettuale avviene entro un perimetro dal quale non è dato uscire. Un perimetro che ci permette anche di riconoscere la natura profondamente sociale degli oggetti, il cui senso e uso e valore possono essere misurati e progettati e utilizzati soltanto all’interno di una cultura materiale condivisa. La seconda parte del volume è dedicata ai “Tragitti dell’immaginario progettuale”, con cui si è entrati direttamente nel merito del tema della relazione tra immaginario e design. La sezione è preceduta dal saggio di Paola Proverbio, che utilizza lo strumento del dialogo immaginario per mettere a confronto le voci di Bruno Munari e Italo Calvino in un serrato scambio di idee fra l’immaginazione letteraria e quella che presiede i processi visivi e progettuali, con sorprendenti reciproci legami. L’indagine sul campo è stata resa possibile dal confronto diretto con un gruppo di designer – Tobia Scarpa, Denis Santachiara, Odoardo Fioravanti –, per apprendere direttamente dagli autori qual è l’iter immaginifico che sottende alla loro attività progettuale. Allo stesso tempo si è cercato di analizzare a posteriori come abbia agito l’immaginario personale di due designer come Achille Castiglioni e Tapio Wirkkala. La selezione dei designer riflette personalità, generazioni e contesti geografici diversi. Una differenza che corrisponde non solo a nazioni lontane fra loro (Italia e Finlandia), ma entro lo stesso ambito italiano la scelta è ricaduta su personalità che per provenienza (e nel caso di Tobia Scarpa anche per area operativa) non appartengono specificamente al consueto territorio milanese del design (a esclusione di Achille Castiglioni). A ogni modo, l’analisi condotta all’interno del solo contesto progettuale italiano risulta sufficientemente diversificata e feconda per avanzare una serie di prime riflessioni se si considera che, com’è già stato rilevato più volte nel corso del tempo, quello italiano in rapporto al contesto internazionale non è un design «normativo», ma «iconico»: perché in esso «è sempre presente un surplus rispetto alla pura presenza come oggetti d’uso [...] oggetti che immettono un quid differenziale [...] e la presenza di un fattore immaginativo del tutto  ,    palese». Al di là delle differenti e a volte contrapposte poetiche, infatti, è implicita un’unitaria teoria del design che può essere definita come «una teoria dell’immaginazione nell’ambito della società industriale». Questo perché il design italiano è stato un design fortemente correlato con i mutamenti sociali e culturali del paese, supportandone lo sviluppo (così com’è accaduto d’altronde in diversi altri paesi); ma anche anticipandone sovente gli interessi e le aspirazioni, offrendo modelli di valore incarnati poi nel cosiddetto Made in Italy. Da parte loro, le industrie del design italiano, attraverso i prodotti e la loro comunicazione – dalla grafica alla fotografia del design –, hanno sempre alimentato un immaginario collettivo in cui i termini utopia, ottimismo, futuro, libertà e bellezza hanno corroborato l’indispensabile funzionalità. Un approccio che col passare degli anni non ha evitato al design di slittare progressivamente «verso un orizzonte di veri o presunti desideri». Tornando allora a considerare il panorama internazionale, i designer, come già evidenziato più sopra, sono sempre stati consapevoli dell’importanza di conferire ai propri oggetti non la semplice e nuda funzionalità o la mera componente estetica come qualità separate, ma il valore aggiunto, olistico potremmo dire, della «dimensione progettuale» intrisa di immaginario. Si pensi anche solo ai designer americani Raymond Loewy, o al lavoro dei coniugi Charles e Ray Eames; o, nel caso italiano, ai nostri Gio Ponti, Joe Colombo, o ancora Ettore Sottsass e Alessandro  Cfr. S. Giacomoni, A. Marcolli, Designer italiani, Idea Libri, Milano , p. . Più di recente anche Michele De Lucchi ha sostenuto che «l’Italia è un paese nel quale architetti e designer lavorano in termini di pensiero da applicare alla realtà, mentre generalmente nel resto del mondo si analizza la realtà per trarne le idee. Modalità che si possono schematizzare nella diversità tra mentalità analitica e razionale e mentalità eclettica e intuitiva. Tale leggerezza mentale però trova spazio solo dove è possibile sperimentare», citato in F. Bulegato, S. Polano, Michele De Lucchi. Comincia qua finisce là, Electa, Milano , p. .  S. Giacomoni, A. Marcolli, Designer italiani, cit., p. .  Cfr. Unicità d’Italia. ⁄. Made in Italy e identità nazionale, a cura di E. Morteo, A.M. Sette, Marsilio, Venezia , p.  e passim. Si veda anche F. Carmagnola, Design. La fabbrica del desiderio, Lupetti, Milano .  La specifica carica utopica legata all’invenzione e alla creatività individuale è una qualità che Ettore Sottsass riconosceva al design italiano; caratteristica che a suo avviso è andata perdendosi a partire almeno dagli anni Novanta del Novecento.   Mendini, solo per citarne alcuni, i quali probabilmente più di altri hanno lasciato trasparire l’immaginario strettamente personale e le fonti che lo hanno alimentato. Del resto, l’oggetto di design rientra a pieno titolo nell’«industria culturale» – insieme ai prodotti dell’arte e della letteratura, alle canzoni, ai manifesti, ai discorsi, alle immagini, alla TV e non certo ultimo al cinema – che altro non sono che l’oggettivazione dell’immaginario autoriale o, come li ha definiti Bruno Munari, i «mezzi sostituivi dell’immaginazione». Ed è stato, tra l’altro, proprio grazie all’invenzione del cinema che si è cominciato a parlare di immaginario; tutto sommato il termine è “giovane” e ha acquisito significato, entrando nell’uso comune, solo dal momento in cui un mezzo di espressione e comunicazione come il cinema ha veicolato contenuti a livello di massa. Immaginario collettivo e immaginario personale sono quindi i due poli entro cui si muove il designer. Valgono quali binari che orientano il progetto dell’oggetto. Questi sono i primi nodi di una griglia di strumenti e riferimenti che sono serviti nell’analisi e nella quale rientrano inoltre: esperienze e interessi personali, gusti e relazioni fra i dati noti, associazioni di immagini e soluzioni visive finali. Senza dimenticare tuttavia che i parametri con i quali i designer in ogni caso si confrontano (e da cui traggono stimoli per il progetto) sono dati dalla forma, dalla materia, dalla funzione, ma anche dalla tipologia degli oggetti stessi e dalla tecnologia – componente che gioca un ruolo determinante se si pensa al  La locuzione è parte integrante degli studi sia di Edgar Morin sia di Alberto Abruzzese. A questo proposito si veda P. Jedlowski, Immaginario e senso comune, cit.  Cfr. B. Munari, Fantasia, Laterza, Roma-Bari , pp. -.  Cfr. P. Jedlowski, Immaginario e senso comune, cit., p. . Italo Calvino a proposito di processi immaginativi, nel capitolo “Visibilità” del testo Lezioni americane parla di «cinema mentale» in relazione alle numerose immagini che si affollano nella mente di un regista impegnato nella realizzazione di un film. Lo scrittore fa osservare, però, che tale processo di cinema mentale in realtà «è sempre in funzione in tutti noi – e lo è sempre stato, anche prima dell’invenzione del cinema – e non cessa mai di proiettare immagini alla nostra vista interiore», I. Calvino, Lezioni americane, Mondadori, Milano , pp. -.  ,    peso che l’immaginario tecnologico ha rivestito a partire dall’era della meccanizzazione, e che ha segnato passaggi importanti nella seconda metà del Novecento: prima con il periodo dell’elettronica, poi con quello dell’informatica e del digitale oggi. Una parte di tali parametri risultano già intuibili dai termini che connotano i titoli dei saggi e che anticipano al tempo stesso le specificità delle figure prese in considerazione.