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Gherardo Cibo Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Gherardo Cibo dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Arte, scienza e illustrazione botanica nel XVI secolo A cura di Giorgio Mangani e Lucia Tongiorgi Tomasi il lavoro editoriale Pubblicazione edita con il contributo dell’Assessorato alla Cultura della Regione Marche della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana e del Comune di Arcevia Nella pagina precedente Fig. 1 - Gherardo Cibo, Celidonia minore (Ranunculus icaria) Ms Additional 22332, British Library, Londra, c. 91 Il catalogo delle opere (pp. 131-206) è stato redatto da Stefano Rinaldi Traduzione degli abstract (pp. 333-337) di Isabelle Riviere © Copyright 2013 by il lavoro editoriale (Progetti Editoriali srl) casella postale 297 - 60100 Ancona Italia Tutti i diritti riservati www.illavoroeditoriale.com Isbn 9788876637254 Da Ulisse a Gherardo, una piccola odissea Nota introduttiva In un lucido saggio pubblicato nel lontano 1979 dal titolo Spie. Radici di un para- digma indiziario, Carlo Ginzburg sosteneva che il metodo indiziario riesce a chiarire momenti storici ino ad ora “muti”; un metodo che deve essere considerato non ine a sé stesso, né inalizzato all’esclusivo piacere della scoperta, ma che risulta valido in quanto permette di “decifrare”, di “leggere”, insomma di “capire” la storia. È quanto è successo alla appassionante vicenda che ha riportato in vita una igura emblematica nella storia delle arti e delle scienze del Cinquecento, Gherardo Cibo, del quale si era persa memoria, anche perché molte delle sue opere erano state erroneamente attribuite ad altri personaggi. Membro di una nobilissima famiglia che occupava posizioni di rilievo in molte parti della penisola, pronipote di Innocenzo VIII, avviato ad una brillante carriera ecclesiastica, ricco di numerose esperienze anche internazionali, irresistibilmente attratto dal mondo delle scienza e dell’arte, a soli ventotto anni, nel 1540, Cibo, divenendo marchigiano di adozione, aveva scelto di ritirarsi nell’amena cittadina di Rocca Contrada (oggi Arcevia), dove per sessanta anni si dedicò liberamente e serenamente alle sue passioni scientiiche e artistiche. La storia delle ‘scoperte’ ha inizio ai primi del Novecento, allorché un nucleo di disegni di ‘paesi’ alla iamminga, di erbari dipinti ed essiccati aveva cominciato ad essere percepito come opera di uno stesso autore di cui non si conosceva ancora il nome e perciò veniva attribuita a uomini di scienza o artisti nordeuropei già noti. Contestualmente, anche alcuni trattati e scritti sul colore cui aveva atteso l’eclettico personaggio subirono negli anni la medesima sorte e furono riferiti ad altre igure storiche. Era il 1902 quando Enrico Celani, bibliotecario dell’Angelica di Roma, studiando alcuni documenti (erbari e libri botanici) conservati nella sua biblioteca e confrontandoli tra loro con intelligenza critica, additò alla comunità degli studiosi la igura storica di Gherardo Cibo. Il repertorio dell’opera di questo straordinario artista-scienziato venne poi arricchito negli anni Sessanta, allorché Jaap Bolten ne sintetizzò la personalità, aggregando un consistente corpus di disegni di paesaggio conservati in musei italiani e stranieri, identiicandone tuttavia l’autore con Ulisse Severino, un marchigiano di 6 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Cingoli a cui lo stesso Cibo aveva donato alcuni dei suoi fogli di “paesi”, dei molti in suo possesso che andarono successivamente dispersi in numerose collezioni e italiane e straniere, dalla londinese British Library alle biblioteche Corsiniana, Alessandrina e Angelica di Roma e a quelle di Jesi, Urbania e Fossombrone, e nel Museo di Ascoli Piceno. La personalità e l’identità del personaggio emersero tuttavia con evidente chiarezza a seguito del reperimento da parte di Lucia Tongiorgi Tomasi di tre straordinari codici miniati rinvenuti sul inire degli anni Ottanta del secolo scorso presso la British Library e la Biblioteca Marucelliana di Firenze, anche perché l’autore aveva voluto inserire l’immagine delle piante sullo sfondo di paesaggi, aggregando due soggetti che ino ad allora erano stati considerati separatamente dagli studiosi. Un primo consuntivo su questo personaggio fu offerto da una mostra organizzata nel 1989 da Arnold Nesselrath a San Severino Marche. I curatori del presente volume avevano tentato, nel corso del decennio trascorso, di organizzare, anche a seguito di ulteriori signiicative scoperte, una nuova e più complessiva esposizione atta a documentare in maniera esaustiva l’opera e la igura di questo ‘dilettante’ di botanica, paesaggista, miniatore esperto di pigmenti, ma anche generoso ilantropo, grandemente apprezzato da rinomati uomini di scienza del tempo suoi contemporanei. Ma poiché l’iniziativa non aveva negli anni riscosso interesse, si è ritenuto opportuno offrire comunque un primo bilancio degli studi e delle notizie acquisite su Gherardo Cibo, cercando di delinearne la non comune personalità intellettuale e il complesso proilo scientiico e spirituale. I saggi che scandiscono il presente volume illustrano pertanto, in una visione strettamente correlata, il Cibo artista e botanico (Tongiorgi Tomasi e Rinaldi), cercano di ricostruire i suoi riferimenti culturali, religiosi e scientiici (Mangani), analizzano e rendono accessibili alcuni suoi manuali tecnici (Baroni, Bonizzoni, Mariani, Mascherpa, Salvadori), pubblicando anche documenti e manoscritti inediti recentemente rinvenuti. Il volume è inoltre corredato da un saggio di catalogo (a cura di Stefano Rinaldi) dei disegni e da un dizionario biograico (a cura di Lucio Tribellini) relativo a personaggi noti e meno noti che furono con lui in stretto contatto. Pienamente consapevoli che la ricerca su Gherardo Cibo sconta la pesante diaspora internazionale dei disegni, alcuni dei quali continuano a comparire nelle aste, oltre che la scarsissima documentazione biograica giunta ino a noi (ad esempio risulta grave la perdita di un diario, di cui sono noti solo alcuni stralci che abbiamo voluto riproporre), ci è parso comunque utile raccogliere in questo volume, insieme ad alcune suggestioni interpretative, un apparato documentario, che rivela anche l’inaspettata vivacità culturale di una piccola città del Ducato di Urbino come Rocca Contrada nella seconda metà del XVI secolo. Cibo, anzi, si rivela come una sorta di capostipite, nella storia artistica delle Marche, di una ininterrotta attenzione per il paesaggio già notata anche da Federico Zeri. Un ilo rosso che lo unisce all’urbinate Federico Barocci, disegnatore e pittore ‘ossessionato’ dal palazzo ducale feltresco, al pesarese Francesco Mingucci, al durantino Anton Francesco 7 Gherardo Cibo: un percorso tra arte e scienza Peruzzini, all’anconitano Francesco Foschi, ino ad arrivare, in età contemporanea, al cuprense Luigi Bartolini, alla scuola incisoria urbinate rappresentata da Renato Bruscaglia, ino all’ascolano Tullio Pericoli. La pubblicazione è stata resa possibile dal sostegno della Regione Marche e della Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, ma anche dall’appassionata collaborazione di tutti gli autori e collaboratori. In particolare ringraziamo, oltre alle Biblioteche che hanno cortesemente autorizzato le riproduzioni (i Musei Civici di Ascoli Piceno, la Biblioteca e Museo civico di Urbania, la Biblioteca Angelica di Roma, la Biblioteca “Domenico Passionei” di Fossombrone, la Biblioteca Planettiana di Jesi, la Biblioteca “Romolo Spezioli” di Fermo). Un particolare ringraziamento va ad Aboca Edizioni di Sansepolcro, Therese O’Malley del “Center for Advanced Study in the Visual Arts” della National Gallery of Art di Washington, Kathleen Doyle e David Way della British Library di Londra, Olga Raffo, direttrice dell’Archivio di Stato di Massa, Danielle Canter, Gigetta Dalli Regoli, Fabio Garbari, Margaret Morgan Grasselli, Giuseppe Olmi, Maria Luisa Passeggia, Paola Roncarati e Alessandro Tosi. Settembre 2013 Giorgio Mangani Lucia Tongiorgi Tomasi L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo di Giorgio Mangani 1. La formazione: architettura e giardino umanistico Di Gherardo Cibo sappiamo pochissimo e forse non è un caso, come cercherò di spiegare. Non ci aiuta molto l’elogio funebre scritto dal concittadino rocchense Marco Gilio,1 che lo ritrae secondo gli schemi retorici del nobile guerriero che si ritira a Rocca Contrada dopo aver difeso la fede cristiana in una sorta di romitaggio dedito alle opere pie e alla conciliazione delle dispute civili, come un cavaliere medievale. Degli interessi scientiici non vi è cenno nella apologetica biograia di Gilio, che riesce a presentare in termini eroici anche l’operato di papa Innocenzo VIII, capostipite delle fortune dei Cibo. Gherardo vi viene presentato come esempio di nobiltà e probità: mores, consilia, actiones, sinceritas, probitas sono gli epiteti che lo contraddistinguono in questo ritratto. Gli altri elementi biograici sono quelli che hanno già ispirato le diverse, laconiche ricostruzioni biograiche sinora pubblicate. Il giovane Gherardo avrebbe partecipato alle campagne militari della pianura padana e di Bologna del 1529, al seguito di Francesco Maria I della Rovere, allora Capitano generale delle milizie della Chiesa; sarebbe poi stato alla corte di Carlo V, nel 1532, assieme al padre Aranino, per una missione “familiare” legata a una proposta di matrimonio per Giulia Varano, sua cugina, e poi, nel 1539-40, in Germania, al seguito del Cardinale Alessandro Farnese, per una nuova missione presso Carlo V e il re di Francia Francesco I. Gilio fa riferimento a una adolescenza vissuta a Roma e a una formazione rivolta alla carriera ecclesiastica, interrotta dal Sacco di Roma, che costringe Gherardo a riparare a Camerino, presso Giovanni Maria Varano, che aveva sposato sua zia Caterina Cibo. Anche se la formazione di un ecclesiastico poteva, all’epoca, avere alcuni punti di contatto con quella militare, peraltro coltivata in famiglia, l’orientamento del giovane Gherardo dovette avere qualche mutamento in itinere perché, dopo il Sacco, lo troviamo, a seguire la biograia giliana, al seguito delle campagne militari di Francesco Maria II della Rovere nella Gallia Cisalpina e poi con Alessandro Farnese nelle spedizioni repressive delle insorgenze protestanti, “non postremi ordinis 46 Fig. 14 – Albero genealogico della famiglia Cibo, dal Simolacro dell’antichissima et nobilissima Casa Cybo di Alfonso Ceccarelli (1572), Ms 510, Archivio di Stato di Massa, Massa Carrara Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 47 48 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ eques (…), nullo stipendio aut mercede conductus, sed solo tuendae religionis desiderio ductus”. Queste informazioni fornite da Gilio, che era un professore di retorica, sembrano francamente poco attendibili. Una lettera del Vescovo Marco II Vigerio della Rovere, zio di Gherardo, del 6 marzo 1531, lo presenta all’erede Guidubaldo della Rovere piuttosto come un pittore e possibile collaboratore dell’architetto Gerolamo Genga; e lo fa con un tono che sarebbe fuori luogo nel presentare un giovane che aveva partecipato, fosse pure come gregario, alla campagna lombarda di Francesco Maria I, tra il 1528 e il 1530. “Viene il Signor Aranino Cibo mio cognato per dedicar Ghirardo suo igliolo et mio nipote in eterna servitù cum l’Illustrissimo Signor vostro patre et cum Vostra Signoria. Supplico quella vogli per amor mio vedere l’uno et l’altro volentieri et quantunque io l’habi dato per servitore al Signor Illustrissimo non penso mancho averlo dato a lei, però la si degnerà tenerlo anche per servitor suo et servirsene senza un rispetto al mondo, ché la mi farà gratia singolarissima, persuadendomi li debia esser grato non essendo in tutto nudo di alcuna bona qualità, tra le quale ha il disegnare, ché quando non harà il Gengha apresso, venendogli una voglia più che un’altra di fogie, potrà di esso valersene, così d’ogni altra cosa che la retroverà in esso a servitio suo”.2 Le spedizioni repressive dell’eresia protestante cui sembra riferirsi Gilio avvennero nelle Fiandre, in realtà, nel 1579-85, sotto l’impero di Filippo II, e videro come protagonista un altro Farnese omonimo, Alessandro (1545-1592), più giovane; è quindi molto probabile che Gilio abbia fatto un po’ di confusione circa le esperienze militari di Cibo. Gherardo fu invece probabilmente, nel 1532-34 – come si ricava da alcune note che scrisse molto tempo dopo nella sua copia del Dioscoride (1573) di Pietro Andrea Mattioli3 – insieme al padre Aranino, presso la corte di Carlo V, allora a Ratisbona, su mandato degli zii Innocenzo Cibo, cardinale, e Caterina, duchessa di Camerino, con l’incarico di comunicare all’imperatore l’indisponibilità di Giulia Varano, iglia di Caterina ed erede del Ducato, al matrimonio con il iglio di Carlo di Lannoy, già vicere d’Italia, per il quale l’aveva chiesta in sposa. Giulia era stata infatti già promessa a Guidubaldo, cui non casualmente Marco Vigerio si era rivolto per l’ammissione a corte o come collaboratore del duca del giovane Gherardo. Nel 1539, invece, il Cardinale Alessandro Farnese, detto il grande, anche lui nipote di Paolo III, si era recato in Germania, insieme al suo segretario Marcello Cervini, con il mandato diplomatico di comporre i dissidi tra l’imperatore Carlo V e il re di Francia Francesco I, proponendo un matrimonio tra la iglia di Francesco I e l’imperatore, rimasto vedovo.4 Questa missione diplomatica, che offrì a Gherardo l’occasione per conoscere paesaggi e specie botaniche del nord Europa e probabilmente lo stile artistico caratteristico delle Fiandre, partì da Roma il 28 novembre 1539, attraversò la Francia, L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 49 raggiunse Parigi e Amiens, per poi incontrare l’imperatore a Gand il 23 febbraio 1540, dove il cardinale rimase ino a maggio, per poi rientrare a Roma. Un’altra annotazione di Gherardo, scritta in tarda età sul suo Dioscoride, riferisce di un’escursione botanica e mineralogica avvenuta probabilmente nel 1534 ad Agnano, presso Pisa, e fa pensare a un periodo passato presso lo zio Lorenzo Cibo (cugino di Aranino), marchese di Massa, ritiratosi colà proprio quell’anno.5 Una cesura nel percorso biograico di Gherardo fu però il 1540, quando il Ducato di Camerino venne trasferito per volontà di Paolo III a suo nipote Ottavio Farnese, sottraendolo all’erede Giulia Varano, che aveva nel frattempo sposato Guidubaldo della Rovere. La rottura tra Caterina Cibo e la Curia romana determinò la diaspora di gran parte della famiglia. Caterina, dopo essersi trasferita presso i della Rovere, si ritirò a Firenze; il fratello Giovanni Battista se ne andò in Francia. Gherardo si stabilì a Rocca Contrada, nella diocesi dello zio Marco Vigerio II, cessando ogni attività politicodiplomatica e forse sperando in qualche impiego.63 Qui era, infatti, già vissuto da ragazzo e vi rimase sino alla morte, avvenuta il 30 gennaio 1600, impegnato nelle frequenti attività beneiche di cui parla l’elogio funebre. Poche informazioni quindi, in parte sbagliate e in parte dedotte da appunti e riferimenti spesso casuali, scritti in tarda età, sul ilo della memoria. Di Gherardo Cibo si parla inoltre piuttosto come di persona sincera e semplice, sempre pronta alle opere di bene, ma molto raramente, e solo in documenti privati, viene fatto riferimento alle sue ricerche botaniche, chimiche e mineralogiche, per molti versi pionieristiche, sempre ben documentate, e alla sua abilità nel disegno e nella rappresentazione paesaggistica. È proprio questo carattere intimo e privato del personaggio, tuttavia, a rappresentare e in parte spiegare il mondo nel quale Gherardo si muove e i suoi possibili punti di riferimento culturali. L’abilità nel disegno, che Gherardo condivideva con il padre Aranino, militare di professione come il fratello Scipione,6 faceva parte delle doti del cortigiano e del comandante militare, specie dopo le innovazioni introdotte nella tecnica bellica legate all’impiego delle bocche da fuoco e delle conseguenti modiiche dell’architettura difensiva; un campo nel quale i Montefeltro/della Rovere avevano creato, tra Urbino e Pesaro, una vera scuola di architettura militare. Ma in Gherardo Cibo c’è qualcosa di più; c’è uno sguardo verso la natura, scientiico e artistico insieme, del tutto originale, che abbiamo cercato di ricostruire da sparsi indizi e lacunosi documenti, lavorando soprattutto sul signiicato di certe coincidenze e sulle ipotesi. Ma, pur trattandosi di un ragionamento analogo a un processo indiziario, la quantità e qualità delle coincidenze e dei riscontri ci consente di tentare di ricostruire un proilo meno vago del personaggio, cercando di entrare nel suo mondo. L’elogio funebre di Gilio ci informa che l’educazione di Gherardo sarebbe avvenu- 50 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ ta a Roma (“Traduxit hic puerilem aetatem et adolescentiam Romae, ut optimum moribus, et disciplinis, in quibus non parum profecit, imbutus”).7 Lui era probabilmente nato a Genova intorno al 1512, ma il padre Aranino, dopo aver sposato Bianca Vigerio, sorella del Vescovo di Senigallia Marco Vigerio II, subentrato nel vescovato a suo zio Marco I nel 1513, si era trasferito in quel periodo con la famiglia a Rocca Contrada, città della diocesi. La giovinezza di Gherardo si svolse quindi, probabilmente, tra Rocca Contrada e Roma, città nella quale i Cibo avevano un palazzo nel quartiere di Borgo, dove oggi sorge la piazza San Pietro. La famiglia Cibo non era costituita da persone in odore di santità, né facilmente disponibili ad arrendersi di fronte alle avversità, tuttavia coltivava l’arte e la cultura. Aveva fatto fortuna con l’elevazione al soglio pontiicio di Giovanni Battista Cibo, papa Innocenzo VIII, genovese, con alle spalle una vita da libertino e molti igli, dei quali solo due riconosciuti: Franceschetto e Teodorina. Il cerimoniere del Conclave che lo aveva eletto, Giovanni Burcardo (Johannes Burckardt), lo descriveva chino su un forziere a irmare cambiali ai cardinali che gli avrebbero dovuto dare il voto. Come scriveva il poeta di origini greche Michele Marullo Tarchianota, Otto bastardi e otto fanciulle Nocente (Innocenzo) / ha generato e giustamente Roma può chiamarlo / padre della patria. Dei due igli riconosciuti (gli altri si facevano passare per nipoti), Franceschetto, nominato Governatore di Roma e fatto sposare a Maddalena de’ Medici, iglia di Lorenzo, si faceva pagare per condonare i reati insieme al cognato, il genovese Gherardo Usodimare, che era Tesoriere di Santa Romana Chiesa e aveva sposato Teodorina.8 Innocenzo passerà alla storia come l’iniziatore del costume di vendere le cariche ecclesiastiche e per la persecuzione delle streghe. Il iglio di Franceschetto, Lorenzo Cibo, sposò Ricciarda dei Malaspina, signori di Massa e Carrara. Teodorina e Gherardo Usodimare ebbero cinque igli: Aranino, padre di Gherardo, Giovanni Battista, Francesco, Peretta e Battistina. Aranino era Conte del sacro palazzo lateranense e durante il periodo in cui fu duchessa di Camerino la cugina Caterina, era stato per qualche tempo custode della rocca dei Varano; era abile nel disegno e buon suonatore di liuto, come il iglio Gherardo.9 La cugina Caterina Cibo, iglia di Franceschetto, andò sposa nel 1520 a Giovanni Maria Varano, molto più vecchio dei lei (del quale rimase vedova nel 1527), e fu protagonista di una continua resistenza agli attacchi, anche militari, promossi dagli altri rami della famiglia Varano che rivendicavano il diritto di eredità del feudo. Compito che Caterina esercitò sempre con notevole energia e determinazione non priva di crudeltà. Ma, contrariamente alle abitudini del tempo, era stata educata nelle lettere greche, latine e pare anche ebraiche; era protettrice di letterati e di personalità animate da una spiritualità vicina alla cosidetta devotio moderna, venata da sentimenti vicini alle eresie riformate, come quella di Juan de Valdés, Bernardino Ochino, Marcantonio Flaminio, Pietro Carnesecchi, tutti suoi amici. L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo Fig. 15 – Domenico Luigi Valeri, Ritratto di Caterina Cybo (sec. XVIII), olio su tela, Pinacoteca civica, Camerino 51 52 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Suo fratello Innocenzo, divenuto cardinale a soli ventiquattro anni, nel 1513, era amante della bella vita e spregiudicato nelle relazioni diplomatiche. Dal nonno papa aveva ereditato, oltre al nome, anche la passione per le donne; sembra che fosse l’amante della cognata Ricciarda Malaspina, sposata al nipote Lorenzo Cibo. Volendo eliminare isicamente il cardinale Salviati nel 1535 perché nemico del duca Alessandro de’ Medici di Firenze, suo alleato, pensò di avvalersi dell’aiuto del poeta e cortigiano Francesco Berni, devoto e forse innamorato della sorella Caterina, per avvelenarlo. Ricevuto un riiuto, sembra che lo abbia fatto avvelenare a sua volta per questo motivo. Nel 1522 il cardinale aveva anche rischiato un processo per aver fatto probabilmente assassinare Sigismondo Varano, bellicoso pretendente del Ducato di Camerino. Durante il Conclave del 1534 risulta che Innocenzo avesse tentato di utilizzare il Ducato di sua sorella come merce di scambio per una possibile elezione papale, promettendo la nipote Giulia a diversi pretendenti; circostanza che probabilmente ebbe qualche cosa a che fare con la missione di Aranino e di Gherardo alla corte di Carlo V per rappresentare all’imperatore l’intenzione di Caterina di tenere fede alla promessa fatta a Guidubaldo della Rovere. Dietro questo atteggiamento spregiudicato, il cardinale era però anche amante dell’arte. Aveva avuto come precettore Giuliano da Camerino, esponente dei circoli umanistici romani; nel 1519 offrì un memorabile allestimento de I Suppositi di Ariosto, a Roma, con le scenograie di Raffaello in onore del papa, e, nel 1530, a Mantova, fu lui ad accompagnare l’imperatore Carlo V a palazzo Tè e ad illustrargli i signiicati della Sala dei venti affrescata da Giulio Romano. Cresciuto in questo ambiente, in contatto con la zia Caterina, presso la quale Gherardo si rifugia, nel 1527, durante il tragico Sacco di Roma, Gherardo può avere appreso l’arte del disegno e della musica dal padre Aranino, ma potrebbe avere approittato del precettore dello zio cardinale, Giuliano da Camerino, professore di lingue classiche, che risiedeva a casa di Innocenzo dal 1523 e fu poi ricordato da Pierio Valeriano nel suo De litteratorum infelicitate (ambientato nel 1529, ma pubblicato postumo nel 1620) per essersi buttato dalla inestra durante il Sacco per paura di venire torturato dai Lanzichenecchi.10 Il collegamento con Giuliano, per quanto ipotetico, è strategico perché ci consente di spiegare alcune caratteristiche degli interessi culturali coltivati dal giovane Gherardo nei suoi anni romani. Giuliano faceva parte, infatti, del circolo umanistico creato a Roma da Johann Göritz, detto Corycius, Protonotario apostolico. Göritz aveva acquistato una villa presso il foro di Traiano, dove ospitava incontri poetici e dibattiti umanistici. Il nome latino che aveva adottato richiamava il Corycium antrum del monte Parnaso (che Raffaello aveva dipinto nelle Logge Vaticane), considerato anticamente magico e fonte di ispirazione poetica. Ne facevano parte Pietro Bembo e Iacopo Sadoleto, Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, Egidio da Viterbo, Angelo Colocci, L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 53 Marco Maffei, Baldassarre Castiglione, il poeta anconitano Marco Cavallo, Giulio Lascaris, tra i migliori amici di Colocci, Celso Mellini, procuratore a Roma di Caterina Cibo.11 Se si ricostruisce la iliera delle relazioni di amicizia e di contatti di questo ambiente intellettuale romano, negli anni della formazione di Gherardo Cibo, si scoprono singolari e probabilmente non casuali coincidenze, per noi preziose. Varino Favorino, camerte (era nato a Pieve di Favera, presso Camerino), letterato famoso per aver pubblicato il primo dizionario di greco nel 1523, aveva studiato con Angelo Poliziano ed era stato maestro di Angelo Colocci. Varino si occupava a Roma degli interessi dei Varano. Nel 1520 aveva siglato per loro conto un accordo con il cugino pretendente al titolo del feudo camerte. Nel 1515 era stato presente all’incoronazione a duca di Giovanni Maria Varano, a Camerino, insieme al Cardinale Innocenzo Cibo; titolo che Varino aveva caldeggiato presso la Curia romana a nome dei Varano. Nel 1528, inine, divenne Governatore di Fabriano, carica che era stata tenuta da Innocenzo nel 1515, segno di una certa alleanza politica; nel 1521, allora Vescovo di Nocera Umbra, fece nominare Colocci suo coadiutore per poi lasciargli il vescovato.12 Un’altra famiglia nobile romana legata ai Cibo frequentava questo genere di circoli culturali legati alla rinascita dell’antico; argomento che non va slegato dalle strategie di propaganda e affermazione politica del tempo: i Mellini. Mario Mellini aveva sposato Ginevra Cibo, pronipote di papa Innocenzo VIII. Il iglio Pietro è un letterato che frequenta Caterina Cibo nei suoi soggiorni romani, e sembra ne fosse l’amante, ma è anche suo luogotenente a Camerino nel 1532-33 e segue i suoi interessi a Roma.13 Il fratello Celso è protagonista di un famoso certame retorico-poetico con il belga Christophe de Longueil circa la superiorità degli antichi o dei moderni. Mellini sosteneva ovviamente il primato della romanità, spalleggiato da Pierio Valeriano, che è amico dei Mellini (è a casa Mellini che viene infatti ambientato il suo dialogo De litteratorum infelicitate dove troviamo diversi personaggi probabilmente frequentati da Gherardo a Roma), mentre il belga quella dei moderni. Longueil era uno studioso di antichità, amico di Pietro Bembo e di Reginald Pole, ma aveva anche raccolto una ricca biblioteca di testi di botanica e zoologia antica, poi ereditata da Pole, a sua volta messa a punto acquistando opere che erano state di Niccolò Leoniceno, maestro di Luca Ghini, che fu il probabile professore di botanica di Gherardo a Bologna.14 Nel 1526 Pole, studente a Padova, si era trasferito a Bologna per seguire le lezioni di Romolo Quirino Amaseo. A Padova, Pole aveva studiato con Giovanni Battista Cibo, facendo parte della stessa brigata di amici, e con Marcantonio Flaminio, letterato con una sensibilità religiosa di tipo riformato, frequentatore, insieme a molti altri intellettuali del genere, del circolo di Vittoria Colonna, amica e sodale, a sua volta, di Caterina Cibo. 54 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 16 – Tiziano Vecellio e bottega, Ritratto di Giulia Varano della Rovere (sec. XVI), Galleria Palatina, Firenze L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 55 Fig. 17 – Agnolo di Cosimo Tori detto Bronzino, Ritratto di Guidubaldo della Rovere (1531-32), olio su tavola, Galleria Palatina, Firenze 56 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Interessi antiquari, teoria dell’architettura, arte del disegno, coltivazione del giardino umanistico inteso come luogo dell’otium, della meditazione e dello studio sono il minimo comune denominatore dei personaggi e dei circoli che Gherardo può avere dunque frequentato a Roma. Tra questi è probabilmente centrale la igura dello jesino Angelo Colocci, del quale Giuliano da Camerino era un cliente, anche lui componente del sodalizio umanistico di Göritz.15 Divenuto Segretario apostolico nel 1511, Colocci era diventato uno dei personaggi più importanti e di riferimento per lo studio dell’architettura antica di Roma. Sembra che si debba a lui l’ampliamento degli interessi dell’Accademia Romana di Pomponio Leto ai temi scientiici, ancorché antiquari, della misurazione, delle proporzioni e dei signiicati delle costruzioni antiche, che Bramante e Raffaello avevano cominciato a studiare. Legato a Marco Fabio Calvo, con il quale poi collaborerà alla nuova traduzione di Vitruvio commissionata da Raffaello, che avrebbe dovuto essere pubblicata illustrata, Colocci aveva anticipato gli argomenti vitruviani nella lettera di Raffaello a Leone X sull’architettura, che, secondo Ingrid D. Rowland, fu in parte scritta da lui.16 Angelo fu anche grande amico di Fra Giocondo da Verona, che aveva curato una precedente edizione di Vitruvio, nel 1511. Colocci aveva allestito nei suoi Horti, in un’area oggi prossima alla fontana di Trevi, dopo aver acquistato casa e giardini proprio da Pomponio Leto, una delle prime collezioni di antichità di Roma. In questi Horti colocciani, che rivaleggiavano con quelli antichi di Sallustio, si svolgevano alcuni incontri dell’Accademia Romana dedicati ai temi dell’umanesimo, ma anche alla geometria, l’astronomia, il metodo per misurare le distanze e levare mappe, cui Colocci era particolarmente interessato. Colocci, anzi, era noto a Roma sopratutto per questi interessi e un poeta della Antologia coryciana, legata all’accademia di Göritz, Caius Silvanus, lo deinì in alcuni versi come “studioso delle distanze tra le città”.17 In questo ambiente si coltivava il tema della coerenza tra la tradizione antica pagana e la cultura cristiana, che Raffaello aveva celebrato nella Stanza della Segnatura vaticana. In questo clima, il culto mariano, rilanciato dai francescani e da Sisto IV, era stato piegato a forme che riprendevano i temi arcadici della favola pastorale in forme che possono essere esempliicate da opere come il De partu virginis (1526) di Iacopo Sannazzaro, che trattava l’argomento religioso entro un paesaggio paganeggiante. Colocci aveva conosciuto Sannazaro a Napoli ed era anche lui, come il circolo di Göritz, cultore dei temi arcadici. Sembra tuttavia che i rapporti tra Göritz e Colocci si siano poi interrotti negli anni del pontiicato di Adriano VI, papa contrario al revival umanistico e antiquario, forse per piaggeria, quando Göritz, caduto in disgrazia, fu deinito da Colocci come una specie di Lutero.18 Misurazione dei monumenti e progettazione architettonica, arte di fare rilievi e L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 57 mappe erano comunque, in quel periodo, strettamente connesse al signiicato rappresentato dal giardino umanistico e proprio nei giardini di Colocci era stata impiantata, nell’ambito di una nuova accademia dedicata alla tradizione greca, una tipograia che pubblicò, tra le altre cose, gli Idilli di Teocrito.19 Colocci è dunque un punto di riferimento per diversi aspetti degli interessi giovanili di Gherardo, intorno al quale si muovono alcune personalità legate ai Cibo: Varino Favorino, Giuliano da Camerino, i Mellini, Marcantonio Flaminio, ecc. D’altra parte componenti della famiglia Colocci, insieme ai Mannelli, compaiono tra le più ristrette frequentazioni di Gherardo negli anni successivi al ritiro a Rocca Contrada.20 Un “messer Ipolito” è frequente suo accompagnatore nelle escursioni paesaggistiche e naturalistiche tra Marche e Umbria e, secondo Jaap Bolten, sarebbe da identiicare con Ippolito Colocci, nipote di Angelo. Ma potrebbe anche essere un Ippolito Mannelli, testimone al battesimo della iglia del pittore di Rocca Contrada Ercole Ramazzani, nel 1575, allievo di Lorenzo Lotto, protetto da Gherardo Cibo. Ippolito Colocci dovrebbe essere Ippolito II, nipote dell’Ippolito, cugino di Colocci, che acquisì le sue proprietà romane. Amante della vita solitaria come Gherardo, Ippolito II Colocci pubblicò una raccolta di Rime spirituali di diversi autori edita a Perugia da Baldo Salviani nel 1576. In ogni caso i Colocci e i Mannelli erano fra loro parenti; Flaminio Mannelli fu, negli anni della vecchiaia, tra i più intimi di Gherardo e testimone al suo testamento. Anche lui aveva probabilmente una sensibilità tollerante e di cultura erasmiana; era stato infatti in amicizia con Caterina de’ Medici nel periodo vissuto in Francia e, anche in questa circostanza, i Cibo debbono aver pesato qualche cosa, visto che Caterina Cibo era stata tra le dame che avevano accompagnato Caterina alla corte di Enrico II. Un altro Mannelli, Girolamo, aveva ricevuto, nel 1546, dallo zio Angelo Colocci il vescovato di Nocera Umbra (trasmesso a sua volta ad Angelo, come ricordato, da Varino Favorino, cliente dei Varano-Cibo), nelle proprietà del quale, a volte, Gherardo si recava ad erborizzare insieme ai suoi amici.21 Profondamente connesso con il progetto dell’architettura rinascimentale, il giardino era in quel periodo assai più che un modo per ricreare l’atmosfera classica degli Horti sallustiani di Roma o dei giardini dell’Accademia; era un paradigma urbanistico e politico. Lo stesso Göritz fece costruire dei giardini nella sua villa presso il foro di Traiano, nel 1512, ispirati al Parnasus dipinto da Raffaello nei palazzi vaticani e sono di questi anni la costruzione della villa suburbana voluta da Agostino Chigi a Roma, decorata da Raffaello, e il progetto bramantesco di creare una “seconda Roma” in forma di giardino lungo il Tevere. Costruire ville suburbane e rustiche aveva assunto, in questo periodo, la funzione di ripristinare il modello più puro dell’architettura romana antica. Si era diffusa l’idea, infondata, che lo stile della villa suburbana corrispondesse 58 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 59 Figg. 18, 19 – Disegni di architettura dal taccuino posseduto da Gherardo Cibo (1531 ca), Biblioteca Civica Passionei, Fossombrone, cc. 2r, 17v 60 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ alla forma più pura dello stile romano antico. La villa, celebrata da Petrarca e da Alberti, era pertanto diventata il luogo classico della discussione dotta. Nella villa medicea di Careggi Marsilio Ficino aveva creato l’Accademia Platonica, ricevendo da Cosimo Medici anche un’altra piccola residenza extraurbana nei suoi pressi, chiamata Academiola. Angelo Poliziano era andato ad abitare nella villa iesolana dei Medici per scrivere le Sylvae (1478); vi scrisse nel 1483 anche il Rusticus, a imitazione delle Georgiche di Virgilio, ma era anche cultore di piante vere, che coglieva inviandone dei campioni a Leoniceno. In queste ville si svolgono i primi dibattiti sui temi neoplatonici nei quali gli argomenti botanici vengono trattati in stretto collegamento con la simbologia mitologica ed ermetica delle piante, come avviene nell’apparato simbolico della Primavera di Botticelli.22 Con i ponteici medicei, questa sensibilità raggiunge e conquista Roma. Oltre la metà del secolo XVI, Anton Francesco Doni descrive le caratteristiche che debbono avere le ville, trattando un tema ormai di moda, e Ortensio Lando, suo amico (e forse compagno di studi di Gherardo a Bologna), radicalizza il tema retoricoumanistico della vita solitaria arrivando a sostenere la necessità di abbandonare ogni luogo sociale. Insomma, negli anni che anticipano la Riforma cattolica, la villa umanistica assume il connotato più religioso e meditativo del romitaggio monastico.23 L’interesse per l’architettura antica si era legato subito alla progettazione del giardino botanico anche nel pensiero di Pietro Bembo. Ciò avviene concretamente a Padova, dove viene allestito uno dei primi orti botanici, afidato a un intellettuale che aveva curato una edizione di Vitruvio (1569): Daniele Barbaro, amico di Bembo. Ed è probabilmente proprio Bembo a introdurre Gerolamo Genga alla progettazione della villa suburbana.24 Intorno a Pietro Bembo, Alvise Cornaro, dilettante di architettura anche lui, utilizza il modello di villa Madama per progettare con l’architetto Giovanni Maria Falconetto il giardino e la loggia della sua casa di Padova, visitata dai duchi della Rovere nel 1525, durante il loro forzato esilio, che la utilizzano come modello per il loro nuovo palazzo pesarese e le loro ville.25 Già dal 1522-23 Genga, infatti, era stato incaricato della progettazione della villa L’Imperiale di Pesaro (ig. 31), secondo un progetto di architettura/natura ispirato probabilmente proprio da Bembo, per volontà della duchessa Eleonora Gonzaga, moglie di Francesco Maria I della Rovere, concepito come luogo di ricreazione e riposo del guerriero. Nel 1530-32 l’architetto è impegnato nella progettazione della decorazione pittorica dell’Imperiale, alla quale, secondo Vasari, collaborano, fra gli altri, Bronzino, Raffaellino del Colle, Francesco Menzocchi, Camillo Mantovano. Ed è in questo periodo che lo zio di Gherardo, Marco Vigerio II, scrive a Guidubaldo (promesso sposo di Giulia Varano) per presentare suo nipote Gherardo come possibile aiutante di Genga e pittore di vedute loreali, al centro della decorazione dell’Imperiale; “ché quando non harà il Gengha apresso, venendogli una voglia più che un’altra di fogie, potrà di esso valersene”.26 L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 61 Per quanto non sia documentata la presenza di Gherardo all’Imperiale, la lettera del 1531 dimostra che i Cibo, padre e iglio, erano al corrente degli impegni di Genga nel ciclo decorativo della villa pesarese e consente di valutare la possibilità che il giovane, fresco degli studi botanici bolognesi, possa aver almeno seguito l’attività degli artisti impegnati nella decorazione. Nel 1531, Gherardo potrebbe infatti aver seguito le lezioni di Luca Ghini a Bologna, dove la famiglia Cibo si era trasferita dal 1529 circa, al seguito del Cardinale Innocenzo. Gli specialisti sono concordi nel considerare in questo ciclo decorativo la mano di alcuni allievi di Raffaello e di Giulio Romano, come Camillo Capelli, detto il Mantovano, collaboratore di Giulio, e di Raffaellino del Colle, che aveva fatto parte dell’equipe impegnata con l’Urbinate, nel 1519-24, nella decorazione delle Logge Vaticane.27 Un altro pittore presente all’Imperiale, Camillo Capelli detto il Mantovano, quasi coetaneo di Gherardo, specializzato in paesaggi e decorazioni loreali inserite nella decorazione dell’Imperiale come creazioni artistiche di autonomo valore, quasi delle nature morte, sembra particolarmente afine al gusto di Cibo. Una lettera da Fossombrone del 7 dicembre 1546 di Giulia Varano attesta che Capelli continuò a lavorare per la famiglia ducale anche dopo, sotto la direzione di Genga. Anche Capelli fu collaboratore di Giulio Romano al Palazzo Tè di Mantova.28 All’Imperiale risultano quindi attivi almeno due artisti collegati alla scuola di Raffaello e al suo più diretto erede Giulio Romano. Alla sua morte, nel 1524, Giulio Romano aveva lasciato in eredità a Raffaellino alcune dotazioni e attrezzature della sua bottega, ed è all’anno 1533 che, sia pure a memoria, Gherardo riferisce di aver acquisito (per acquisto o per copiatura da un originale) il suo famoso taccuino, oggi conservato nella Biblioteca civica di Fossombrone, contenente bozzetti e schizzi di architettura che egli attribuisce a Giulio Romano, deinito “meritevole d’ogni laude”, e che fanno parte, secondo gli specialisti, del programma di illustrazioni progettato per l’edizione della traduzione latina dell’architettura di Vitruvio commissionata da Raffaello a Marco Fabio Calvo, nella quale aveva avuto certamente un ruolo Angelo Colocci.29 Nel periodo in cui Gherardo fu al servizio del Cardinale Farnese si possono collocare alcuni incontri che sembrano piuttosto probabili e signiicativi. Giulio Clovio, miniaturista croato venuto in Italia nel 1516, era stato per molto tempo al servizio del Cardinale Domenico Grimani.30 Personaggio di profonda spiritualità, con una venerazione per Michelangelo e per Giulio Romano (in onore del quale aveva scelto di chiamarsi Giulio), Clovio aveva raggiunto Romano a Mantova, dove era impegnato con i Gonzaga, dopo essere stato fatto prigioniero dai Lanzichenecchi, e si era fatto monaco del locale monastero di San Rufino; frequentò poi, di nuovo a Roma, la marchesa Colonna, amica di Caterina Cibo. 62 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 20 – Giulio Clovio, Processione del Corpus Domini, dal Libro d’ore Farnese (sec. XVI), Pierpont Morgan Library, New York, cc. 40v-41r L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 63 Fig. 21– Gherardo Cibo, Veduta di Rocca Costanza (Pesaro) sul fondo della riproduzione dello Scinco, da I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli (Venezia, 1568), per il duca Francesco Maria II della Rovere, Biblioteca Alessandrina, Roma, p. 387 64 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Presso il cardinal Grimani (che era stato, dal 1514 al 1523, Vescovo di Urbino), anche lui vicino per sensibilità ai circoli spiritualisti in odore di eresia, Clovio aveva potuto vedere e studiare una ricca collezione di pittori iamminghi con opere di Dürer, Memling, Bosch, e lui stesso possedeva opere di Brueghel il Vecchio, con il quale ebbe occasione di collaborare negli anni in cui il pittore iammingo fu a Roma.31 Dei contatti reciproci di questo ambiente fa testimonianza un famoso dialogo di Francisco de Hollanda nel quale compaiono la marchesa Vittoria Colonna, Michelangelo, Clovio e un misterioso predicatore (che qualcuno aveva pensato di identiicare con Bernardino Ochino, già generale dei Cappuccini); qui Michelangelo esprime la sua famosa teoria che le vedute dei ‘paesi’ iamminghe piacciono soprattutto alle donnette e sono espressione di una fede interiore.32 Clovio entrò poi, nel 1538-39, al servizio del Cardinale Alessandro Farnese il vecchio, per il quale eseguì il famoso Libro d’ore, espressione di un impiego delle immagini architettoniche e paesaggistiche di grande rafinatezza e complessità teologica, ispirato alle teorie innovative di Francisco de Quinones. Il cardinal Quinones era parente di Carlo V ed era stato Generale dei Francescani dell’Osservanza. Nel 1527 aveva fatto da mediatore tra Carlo V e Clemente VII rinchiuso a Castel Sant’Angelo. Erasmiano, aveva proposto modiiche alla lettura del breviario, accentuando il peso dei vangeli per ripristinare l’antica devozione del Cristianesimo delle origini, ma la sua riforma fu piuttosto contestata e rigettata poi nel 1556.33 Seguendo questo modello, Clovio trasferisce nel libro d’ore alcuni valori legati all’ “età dell’oro” coltivati già da Giovanni Pontano e Iacopo Sannazzaro a Napoli e dai poeti vicini all’antologia Coryciana, in rapporti con Raffaello e Michelangelo.34 Vi si alternano paesaggi ideali con vedute di grande realismo, ispirate alle tecniche dell’arte della memoria cosidetta “locativa”, capaci di muovere l’emozione e la partecipazione interiore del lettore/orante. I giochi di Carnevale al Testaccio, per esempio, o la Processione del Corpus Domini (ig. 20) vengono rappresentati con grande realismo del paesaggio locale, secondo lo stile della predicazione dell’Osservanza francescana del XV secolo, che utilizzava la descrizione di paesaggi urbani noti ai lettori e agli uditori per favorire l’apprendimento e il radicamento mentale dei loro messaggi.35 Come ormai acquisito dagli studi, Clovio fu poi in rapporto, a Roma nel 1553 (un periodo nel quale risulta che anche Gherardo Cibo fosse nella capitale), con Peter Brueghel. Charles de Tolnay ha identiicato nel Lezionario Towneley di Clovio, realizzato in quel periodo (1550-53), due miniature che dovrebbero essere state dipinte da Peter Brueghel il Vecchio. Clovio era referente dei pittori olandesi e nordici a Roma e deve aver sicuramente incontrato Brueghel, del quale possedeva due miniature, come documentato dal suo testamento.36 Sembra abbastanza dificile che un artista con la sensibilità di Gherardo, al servizio del cardinal Farnese negli stessi anni, con un interesse per il paesaggio e la miniatura così vicino alla maniera del nord, e una simile sensibilità evangelica, venata di eresia, non abbia avuto contatti con Clovio e magari anche con Brueghel, conside- L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 65 rato che la presenza di Gherardo a Roma è documentata almeno nel 1540 e 1553.37 Clovio può essere stato anche il tramite di Cibo con il pittore iammingo Michiel De Gast, perché De Gast sembra avesse utilizzato un disegno di Clovio per una sua opera. Questo De Gast è l’autore di una incisione (Porta San Giovanni, Biblioteca Passionei, Fossombrone, ig. 22) appartenuta a Gherardo che ha rappresentato per molto tempo l’unico documento capace di provare un rapporto tra il pittore rocchense e l’ambiente romano dei iamminghi inluenzati dal “romanismo” di Maarten van Heemskerk. In effetti De Gast fu attivo a Roma dal 1538 al 1556. Dal 1544 al 1555 fece parte dell’Accademia di San Luca, dopo aver cominciato la sua esperienza come decoratore di ville romane producendo grottesche e paesaggi di piccole dimensioni, che fu forse il primo a dipingere. 38 Ma De Gast era anche riuscito a integrare l’interesse per le rovine romane e per il disegno di architettura con quello per i paesaggi più ideali, scoscesi, silvani e montani, come alcuni “tondi” con Il re David in un paesaggio con rovine, e la Maddalena in un paesaggio luviale con rovine (ig. 23), recentemente attribuitigli da Nicole Dacos, anch’essi molto in sintonia con alcuni disegni di Cibo, il carattere privato e “meditativo” dei quali è confermato dal fatto che erano probabilmente montati su dei mobili. De Gast, Clovio e Brueghel potrebbero quindi aver trasmesso a Gherardo la sua caratteristica vocazione a una originale sintesi tra paesaggio in chiave realistica e attitudine meditativa, tipica dei paesaggi iamminghi, che già Michelangelo considerava espressione di un senso devozionale popolare. Questo tipo di emozioni era in genere afidato a pitture da cavalletto, di piccole dimensioni e portatili, o montate su mobili, come i citati tondi di De Gast. Nell’ambiente ducale dei Montefeltro una funzione analoga, per quanto laica, era stata introdotta probabilmente dalle “città ideali” oggi a Urbino, Baltimora e Berlino, originariamente montate come decorazioni di “lettucci” collocati nella biblioteca ducale.39 2. La questione delle immagini botaniche Nel lungo viaggio compiuto, nel 1532-34, con il padre Aranino, alla corte di Carlo V per questioni familiari e dinastiche, Gherardo ha avuto modo di conoscere i paesaggi del nord, via Trento e Ingolstadt, ma anche di raccogliere le sue prime informazioni sulle erbe che, nel frattempo, erano entrate nel novero dei suoi interessi. A questo proposito dovette essere decisivo l’incontro con Luca Ghini a Bologna, nel periodo 1528-32. La gran parte degli studiosi ha considerato questo incontro molto probabile, anche se non documentato, per la grande afinità che lega il modo di operare di Gherardo negli studi botanici con quello inaugurato e messo a punto da Ghini nel suo insegnamento bolognese e a Pisa. Allievo probabilmente di Niccolò Leoniceno, che era stato professore a Bologna nel 66 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 22 – Michiel De Gast, Veduta di Porta San Giovanni (sec. XVI), acquaforte appartenuta a Gherardo Cibo (che vi sovrascrive “Di M[aest]ro Michil Gast iandroso”). Biblioteca civica Passionei, Fossombrone, Disegni, vol. 4, c. 54 Fig. 23 – Michiel De Gast, Maddalena in un paesaggio luviale con rovine (sec. XVI), olio su tavola, Collezione privata, Monaco del Principato L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 67 1504-24, Luca Ghini vi aveva cominciato a insegnare la medicina, nel 1527, in maniera del tutto nuova rispetto alla “lettura” accademica medievale, con particolare attenzione per lo studio dei “semplici” e dei rimedi medicamentosi. La sua permanenza all’Università felsinea, dal 1527 al 1544, fu caratterizzata da diversi contrasti con l’autorità, forse per questioni di compensi, e nel 1536-39 la vertenza giunse a motivare il trasferimento di Ghini a Fano, dove andò a esercitare la professione medica. Dopo aver cercato di creare a Bologna un giardino di semplici a supporto del suo insegnamento, che non gli fu concesso costringendolo ad utilizzarne uno privato, Ghini si trasferì a Pisa a insegnare, dove creò il primo orto botanico europeo.40 Caratteristica del lavoro di Ghini è il ribaltamento a favore dell’osservazione diretta dello studio dei semplici, l’attenzione inedita per la pianta come “oggetto di natura” e non solo come strumento terapeutico, l’analisi delle diverse “specie”, l’interesse per la creazione degli orti botanici per lo studio “in vivo” delle piante, recupero di una pratica medievale monastica, ma che passa attraverso la mediazione culturale ed epistemologica del giardino umanistico, inteso come “teatro della memoria” fondato sulle immagini e sulla loro capacità euristica. Accanto alla creazione degli orti botanici, Ghini fu uno dei primi a mettere a punto la tecnica per la preparazione dell’erbario secco, che Gherardo sembra avere seguito, se gli erbari che gli si attribuiscono sono davvero suoi. Accanto a questa innovazione, Ghini, come succedeva per i più avanzati studiosi del tempo, non solo in ambito scientiico, aveva costruito una rete di relazioni e corrispondenze della quale dovette far parte anche Gherardo.41 Questa ampia rete di rapporti è signiicativa anche sul piano teorico, perché rivela una nuova attenzione per le “diversità” delle specie locali che si accompagnava anche alla considerazione dei saperi più diversi, spesso empirici, portati alla ribalta da informatori altrimenti ignoranti, introdotti nel sapere uficiale da donne e dilettanti, interessati prevalentemente e prevedibilmente all’impiego delle erbe nella cucina, nella medicina e nell’uso quotidiano. Un corrispondente marchigiano di Ulisse Aldrovandi, massima autorità botanicozoologica di Bologna, allievo di Ghini anche lui, Costanzo Felici, scrivendogli una lunga Lettera sulle insalate, ribadiva questo concetto nel 1565-72: la cultura alimentare (come la scienza dei semplici) nasce dalla consuetudine e all’uso dei territori.42 Di qui, come aveva già scritto Dioscoride (I,1), ripubblicato da Pietro Andrea Mattioli, amico ed estimatore di Gherardo, la necessità di studiare le piante in tanto che sono vive, per considerarne le mutazioni, la variazione delle foglie in quanto oggetti naturali vivi. L’attenzione per l’habitat era di conseguenza essenziale e questa è la motivazione scientiica che Gherardo segue nel rappresentare le sue piante dipinte entro il loro paesaggio speciico (paesaggio geograico, ma anche temporale, per i riferimenti inseriti nei suoi disegni alle stagioni e al periodo della ioritura), con l’appunto stenograico dei riferimenti alle condizioni astronomico-astrologiche del campione al momento della sua riproduzione o asportazione dal terreno.43 68 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ La conquista di questa consapevolezza della trasparenza e attendibilità scientiica delle immagini, che gli studi positivistici di storia della botanica tendono a descrivere come un naturale processo di affrancamento dalla tradizione medievale ed aristotelica, fu però un processo lento e piuttosto faticoso; né si può considerare l’attenzione per l’osservazione soltanto come l’inesorabile ascesa dell’empirismo contro il dogmatismo. Molti fattori e non tutti di carattere eminentemente scientiico concorsero a rendere possibili queste acquisizioni, e la igura di Gherardo Cibo è particolarmente signiicativa sotto questo proilo perché sembra rappresentare molto eficacemente questa complessità, sia per la sua condizione di nobile prestato agli studi, sia per il rapporto che gli interessi scientiici avevano con la sua sensibilità di artista e di devoto. L’impiego dei documenti botanici in vivo, di quelli raccolti negli erbari secchi o riprodotti a disegno o stampa divenne infatti centrale intorno alla metà del secolo XVI, proprio negli anni successivi al ritiro di Cibo a Rocca Contrada. Qui stavano probabilmente la novità introdotta da Ghini nel suo insegnamento e, in qualche misura, la causa di una certa, costante tensione tra lo studioso e il Senato bolognese, amministratore dell’Università, che cercava di contenere evidentemente l’atteggiamento antidogmatico, rivolto al confronto della tradizione con quanto emergeva dalle specie che egli andava trovando nei suoi viaggi naturalistici, come quello all’Elba o al monte Baldo compiuto insieme ai suoi allievi e amici Alpago, Anguillara, Aldrovandi e Calzolari e da quelle che i suoi corrispondenti gli facevano pervenire da diversi luoghi e che Ghini, a sua volta, offriva ai suoi colleghi, come fece con Fuchs.44 Questa operazione, nelle scienze botaniche, era stata avviata da Niccolò Leoniceno, cui si deve l’impiego critico della casistica e della morfologia a lui contemporanee nella identiicazione e comprensione delle piante ricordate dagli autori antichi. Come era emerso nella polemica sulla scarsa attendibilità di Plinio il Vecchio intercorsa con Pandolfo Collenuccio,45 Leoniceno intendeva utilizzare la conoscenza delle specie contemporanee per identiicare il signiicato dei nomi botanici antichi, nello stesso modo in cui Erasmo aveva restaurato la pronuncia del greco classico della lettera eta (l’etacismo, cioè analoga alla nostra e, che in età bizantina si leggeva i) a partire dal belare delle pecore, trascritto da Aristofane con bh. Elaborato come sistema ilologico critico, il confronto venne poi esteso allo studio scientiico. Leonhart Fuchs per esempio, che aveva studiato con Leoniceno ed è in contatto con Ghini, riprese negli Errata (1530) questo argomento. La rivoluzione sperimentale dei botanici rinascimentali come Ghini non era infatti per una tabula rasa; intendeva piuttosto sviluppare un nuovo metodo critico capace di integrare le informazioni della tradizione antica con i dati sperimentali, ampliicati dalla rete delle corrispondenze scientiiche. Il principio era esempliicato a livello individuale dall’abitudine del naturalista di confrontare le specie incontrate nei propri viaggi di ricerca con le informazioni riportate nei volumi e nei repertori o con quelle annotate nei propri diari. L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 69 Gherardo deve essere stato assai vicino a questo modello epistemologico, assai simile a quello di Fuchs, e si ritrae all’aperto intento a confrontare le proprie scoperte con le documentazioni riportate dal libro che tiene in mano (ig. 25). Restituire autorevolezza al libro della natura, per un riformato come Fuchs, già monaco agostiniano, appariva evidentemente un analogo del progetto luterano di riportare al centro della fede la sacra scrittura e di renderla il più possibile accessibile. In questo sforzo, Fuchs, e nel suo solco Gherardo, avevano però dovuto confrontarsi con il problema della legittimazione del documento iconograico e con quello della riproduzione a stampa. La prima questione stava nella dificoltà con la quale la scienza aristotelica concepiva il fondamento delle proprietà esteriori delle piante, considerate come accidenti e quindi non annoverabili come oggetti di scienza. La scienza poteva fondarsi su una tassonomia che comprendeva generi, differenze e proprietà, non gli accidenti, come sembravano essere le caratteristiche speciiche visibili che i botanici individuavano nelle diverse piante da loro catalogate.46 In questa operazione di mutamento del paradigma epistemologico, la Riforma aiutò Fuchs, che impiegò la retorica di Rodolfo Agricola (De invenzione dialectica, 1479), adottata da Melantone nel nuovo sistema formativo scolastico riformato, che prevedeva l’ammissibilità scientiica degli accidenti nativi, e quindi prevedibilmente permanenti, dei quali si poteva fare scienza (anche se si parlava per lo più di Historia). La cosa fu ovviamente contestata da chi non si discostava dalla logica aristotelica e quindi nutriva forti sospetti sulla capacità documentaria e probante delle immagini; un problema, come è noto, che si protrasse ino ai tempi di Galilei. Il clima teso del dibattito imponeva quindi un metodo di riproduzione che consentisse la massima afidabilità e la capacità di documentare anche le fasi evolutive della pianta, le sue parti, i suoi colori e profumi in quanto oggetto vivo. Queste immagini, che Brian W. Ogilvie ha deinito “panottiche”, Fuchs le deinì absolutissimae.47 Come ha notato Sachiko Kusukawa,48 però, alcune informazioni potevano essere solo richiamate alla memoria di un lettore informato, in quanto non sempre visibili. Questo sistema comunicativo “esperto” creò un metodo nuovo di lettura e di scrittura, una specie di codice già sperimentato nella tradizione ilologia alessandrina, caratterizzato dal continuo confronto tra dati empirici congiunturali e di tradizione, anche recente, favorendo l’abitudine di intervenire con glosse, correzioni, integrazioni e schizzi personali sui volumi di altri autori posseduti, trasformandoli in una sorta di diari personali; abitudine seguita frequentemente da Cibo. Un altro dettaglio essenziale era il colore, la cui resa fedele era impedita dalle tecniche di stampa; di qui la grande attenzione alla coloritura “scientiica” delle piante praticata da Gherardo nei repertori a sua disposizione scritti da altri. Grazie a questo apparato logico-iconograico, i documenti botanici potevano es- 70 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ sere diffusi a un pubblico allargato. Nel 1545 Fuchs aveva pubblicato infatti una edizione in ottavo del suo Stirpium historia con l’intenzione di favorire un generale sforzo di documentazione e ricerca delle varie specie grazie all’apporto di studiosi e cultori della materia che avrebbe poi dovuto essere sistematicamente confrontato. Nel 1543 aveva pubblicato un’altra edizione in folio del suo libro, sempre illustrata ma in tedesco, rivolta a rendere accessibile il proprio lavoro a un pubblico più vasto anche dal punto di vista culturale, fatto di persone di media cultura e di dilettanti, ancora una volta sul solco dello stile luterano. Con questo allargamento editoriale e scientiico, la botanica era nel frattempo diventata una scienza moderna e autonoma: non era più solo una disciplina ausiliaria della ilologia classica. Lo sforzo dei sistematici come Fuchs e Gessner, e poi di Aldrovandi a Bologna, era dunque fondato sulla capacità delle immagini di offrire informazioni accurate e attendibili. Dietro questo lavoro epistemologico e scientiico agiva però anche una iducia, che risale alla elaborazione iciniana del platonismo, circa l’abilità umana di comprendere le strutture profonde, le leggi regolative del creato e la capacità delle immagini di trasferire informazioni attendibili, che risaliva alla scienza stoica antica, ma era stata integrata nella tradizione neoplatonica successiva. Questa tensione era del tutto analoga all’ambizione che i protestanti e le sensibilità religiose eterodosse avevano sviluppato per trovare una forma di comunicazione diretta e individuale con dio. A Bologna, nella seconda metà del secolo, fu l’Accademia di Achille Bocchi, chiamata Accademia Hermathena, a tentare di costruire questa nuova piattaforma epistemologica capace di dare un signiicato fondativo alle immagini scientiiche.49 Ma Bocchi, autorevole personalità dell’establishment bolognese, fu anche amico e protettore di eterodossi come Marco Antonio Flaminio e Camillo Renato, fu legato ai circoli spirituali del cardinal Pole e di Ludovico Beccadelli, tutte personalità che abbiamo già incontrato negli ambienti legati ai Cibo; pur frequentando l’accademia anche fautori dell’ortodossia come Gabriele Paleotti, l’inquisitore Leandro Alberti e il Cardinale Alessandro Farnese, sotto la protezione del quale l’istituzione era stata posta. Di questa accademia fecero parte Luca Ghini, Romolo Quirino Amaseo, Ulisse Aldrovandi e Andrea Alciati, tutti professori all’ateneo di Bologna. L’obiettivo era, nel solco delle enciclopedie in odore di magia e di ermetismo come il teatro della memoria di Giulio Camillo, ed elaborando alcuni temi degli Emblemata di Alciati e dei Hieroglyphica di Pierio Valeriano (anche lui legato a Bocchi), costruire una “philologia symbolica” capace di rappresentare non solo le apparenze della natura, come contestavano gli aristotelici a chi utilizzava le immagini come strumenti euristici, ma persino le sue strutture profonde. Immagini, quindi, come quelle “panottiche” di Fuchs, capaci di dare conto di leggi e processi sottostanti all’apparenza; igure come le mappe, espressione di un alfabeto iconograico sistematico che le rendeva testi e icone al tempo stesso, L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 71 come già accadeva con le carte geograiche e gli atlanti anatomici; oppure come gli emblemi, spesso paragonati alle mappe, nei quali testo e immagine erano strettamente e intimamente connessi ai ini della comprensione di signiicati complessi.50 3. Empirismo scientiico ed evangelismo eterodosso L’incontro tra Carlo V e Clemente VII a Bologna fu un evento di grande notorietà. Avveniva dopo gli orrori e le umiliazioni del Sacco di Roma e assunse anche il signiicato di un evento di paciicazione. Con questa sfumatura fu percepito dalla gran parte di quelle personalità, anche del mondo ecclesiastico, che sostenevano un atteggiamento più liberale e tollerante rispetto alle sensibilità religiose che si andavano manifestando e che, con la scomunica di Lutero nel 1521, avevano incrinato l’Europa cristiana. Molti di questi “riformatori” furono attivi protagonisti del Concilio di Trento e interpreti del tentativo di rilancio della fede promosso dalla Riforma cattolica; ma altri presero altre strade, tollerate dalla gerarchia romana solo ino al 1540 circa e poi decisamente represse.51 In mezzo a questo conine osmotico si era formata la cultura e la sensibilità religiosa di Gherardo Cibo. Di essa partecipavano molti personaggi che ebbero contatti con la sua famiglia e quasi tutti furono presenti a Bologna al grande evento mediatico. Il Cardinale Innocenzo ne fu in qualche modo il regista e il responsabile organizzativo per l’incarico che aveva avuto, dal 1528, di Legato pontiicio a Bologna. Con lui era gran parte della famiglia, come spesso era successo. Lorenzo, suo nipote e cugino di Gherardo, fu incaricato di portare lo stendardo della Chiesa nel corteo solenne che conduceva l’imperatore e il papa a San Domenico, vestito di un saio d’oro. Con lui era il fratello Giovanni Battista Cibo. C’erano anche Pietro Bembo, Francesco Maria I della Rovere e monsignor Angelo Colocci; c’era Ortensio Lando, che fu probabilmente collega studente di medicina con Gherardo. È molto probabile che ci fosse anche Gherardo e abbia avuto occasione, in quel periodo, di frequentare le lezioni bolognesi di Luca Ghini. L’oratore uficiale dell’incontro solenne fu Romolo Quirino Amaseo (1489-1552), professore di retorica all’ateneo felsineo sin dal 1524, che tenne l’orazione dal signiicativo titolo: De pace. Amaseo aveva avuto, in momenti diversi, come allievi a Bologna, Alessandro e Ottavio Farnese (nel 1524, su pressione dei Farnese, era andato a insegnare anche a Roma alla Sapienza); e poi Reginald Pole, Cristoforo Madruzzo, che sarà Vescovo di Trento, Cosimo Gheri, che diverrà Vescovo di Fano, Ortensio Lando, Francesco Rebortello, Camillo e Gabriele Paleotti, Goropio Becano, Ludovico Beccadelli.52 Tra le numerose personalità che Gherardo può avere incontrato a Bologna, una si 72 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 24 – Il corteo imperiale per l’incoronazione di Carlo V a Bologna, 24 febbraio 1530, da Il trionfo dell’imperatore Carlo V, acquaforte di Nicolas Hogenberg, 1530 ca, Biblioteca e Museo Civivo, Urbania, particolare con i vessilli imperiali e della Chiesa e i cappellani papali L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 73 74 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ distingue per afinità, anche se, diversamente da lui, vissuta in maniera radicale, aggressiva ed errante, ed è proprio Ortensio Lando. Anche in questo caso, non abbiamo che alcuni indizi e molte coincidenze sulle quali far conto, ma relativamente suficienti per prendere in considerazione un’afinità e una inluenza che possono essere state signiicative. Ortensio era probabilmente coetaneo di Gherardo; deve essere nato anche lui intorno al 1512 (in un’opera del 1552, il Vari componimenti (Venezia, Giolito), scrive infatti che aveva quarantadue anni). Nel 1538 entrambi erano a Bologna; Lando nel monastero degli Agostiniani, col nome di Geremia, studiava retorica con Amaseo, e forse teologia e medicina. In diverse circostanze viene deinito, o si deinisce, infatti, persona che ha studiato la medicina e la teologia (ma forse senza completare gli studi). Nel 1529, tuttavia, aveva lasciato il monastero e si era sposato. Che abbia studiato con Ghini anche lui non è solo probabile per via della contemporaneità della sua presenza a Bologna con gli anni di Gherardo; sembra un percorso abbastanza naturale per uno studente che aveva avuto, come lui stesso dichiara,53 come precettore di lingua greca e latina, a Milano, Celio Rodigino (che infatti vi insegnò tra 1511 e 1516), a sua volta allievo di Leoniceno a Ferrara, maestro di Ghini, che può averlo indirizzato a Bologna. Lando fu inoltre in rapporto con Giovanni Angelo Odoni, fratello di Cesare Odoni, allievo e successore di Ghini nella cattedra bolognese, anche lui studente di medicina a Bologna (dove si laureò nel 1554), il quale risulta amico dell’eretico Camillo Renato; entrambi facevano parte del cenacolo spiritualista bolognese di Ernesto Renato che seguiva le teorie riformate dell’ex domenicano passato ai luterani Martin Butzer, presso il quale Odoni andò a vivere a Strasburgo.54 Lando cambiava frequentemente nome (Geremia da Milano, Ortensio Tranquillus, Filarete di Utopia, ecc.). A Bologna aveva studiato con un altro eretico, Camillo Renato, che aveva la stessa abitudine (tra i suoi nomi: Fileno Lunardi, Lisia Phileno, ecc.) e si muoveva, itinerante, tra i luoghi che avevano adottato la fede “rhetica” come la Valtellina – dove anche Ortensio fu nel 1542 – e i suoi dintorni come Chiavenna, località dove erano andati a riparare i pastori riformati Francesco Negri e Agostino Mainardi, noti agli storici della Riforma. Camillo aveva cominciato a Napoli come francescano, avvicinandosi anche lui, come Caterina Cibo, Vittoria Colonna e Giulia Gonzaga, al pensiero e alle omelie di Juan de Valdés. Lando era sempre alla ricerca di qualche protettore e sostenitore dei libri e libelli, sempre molto polemici, che pubblicava a ianco di altri piuttosto cortigiani, sul solco dell’evangelismo e dell’erasmismo ancora tollerati; quando non si dichiarava esplicitamente sostenitore di Lutero in Italia, come si deinisce in una lettera del 1529 al borgomastro riformato di San Gallo, Vadianus, anche lui medico.55 Nel 1534 è a Lione, dove lavora come collaboratore di tipograie, poi nel 1535 a Lucca, dove celebra l’ambiente spirituale tollerante e vicino alla Riforma che anima la sua compagnia. Poi forse in Germania; ancora a Venezia, in Svizzera, ad Augsburg nel 1544-45 presso Fugger, cui dedica I sermoni funebri. Nel 1545 si lega L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 75 al Vescovo di Trento Cristoforo Madruzzo; nel 1548, ino al 1552, riceve la protezione di Lucrezia Gonzaga, in un ambiente che respira la spiritualità di Valdés e Flaminio. Nel 1554 le opere di Lando furono registrate tra i libri proibiti, costringendolo a un ultimo, doloroso periodo di miseria. Uno dei massimi studiosi di Lando, Paul Grendler56 ha deinito “evangelismo” questo insieme di sensibilità che accomunava Vittoria Colonna, Juan de Valdés, il cardinal Contarini, Pietro Bembo, il cardinal Pole, il Cardinale Sadoleto, Lucrezia Gonzaga, Ortensio Lando, Anton Francesco Doni e probabilmente anche Gherardo Cibo e sua zia Caterina. Gherardo era cresciuto infatti in un ambiente “libertino” dal punto di vista della sensibilità religiosa. Un ambiente borderline, se non decisamente afine alle sensibilità riformate che si registrano in Italia in quegli anni in contesti spiritualisti, che per un po’ di tempo pensarono di poter esercitare questa libertà all’interno della fede romana. La zia Caterina Cibo, che deve aver esercitato qualche peso nella formazione di Gherardo, come la sua amica, la marchesa Vittoria Colonna (iglia di Agnese di Montefeltro e quindi collegata direttamente con i della Rovere divenuti alleati dei Cibo già prima del idanzamento tra Giulia Varano e Guidubaldo), erano seguaci di Juan de Valdés, erasmiano, alumbrado e vicino alla cultura protestante, orientato a sostenere, come i seguaci del circolo spirituale chiamato “il regno di dio” che aveva creato a Napoli (dove era rappresentante di Carlo V), la cosidetta “giustiicazione per fede”, cioè la predestinazione della salvezza. La duchessa venne infatti deinita dal Santo Ufizio “haeretica, sectatrix haereticorum et doctrix monialum haereticorum”.57 Lo seguivano in questa sensibilità eterodossa, oltre alle due nobildonne, personalità in rapporti reciproci. Pietro Carnesecchi, Protonotario apostolico che subirà tre processi inquisitoriali e inirà condannato a morte nel 1567; Bernardino Ochino, più volte Vicario generale dei Cappuccini, l’ordine sostenuto e protetto da Caterina, passato alla Riforma e fuggito dall’Italia nel 1542, che aveva abbandonato lo stato religioso a Firenze proprio a casa della Cibo. Ochino aveva anche inserito Caterina in quattro dei suoi Dialogi sette, editi nel 1542, come interlocutrice delle delicate discussioni teologiche ivi contenute. Marco Antonio Flaminio, amico di Pietro Bembo e Giulio Camillo, Reginald Pole e Longueil, fu il curatore e per molta parte il vero autore del Beneicio di Cristo, una delle opere eterodosse più stampate e diffuse in Italia nel XVI secolo, condannata dall’Indice già nel 1546. L’opera, attribuita al benedettino Benedetto da Mantova, era stata in realtà scritta da Flaminio, come rivelò Carnesecchi sotto tortura nel 1566.58 Questo ambiente si riunì, dopo il periodo napoletano, nuovamente a Viterbo presso il Cardinale Reginald Pole divenuto nel frattempo amministratore del Patrimonio di San Pietro. Giulia Gonzaga, vicinissima a Carnesecchi, che le aveva dedicato le sue Meditazio- 76 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ ni e orationi formate sopra l’epistola di San Paolo, aveva frequentato l’ambiente sia a Napoli che a Viterbo e sua cugina Lucrezia divenne seguace e allieva di Ortensio Lando. Vivendo nel castello di Fratta, nel Polesine, aveva messo in piedi una piccola corte di letterati che chiamava, in chiave bucolica, dei Pastori Frattegiani, di cui faceva parte anche Lando. Nel Dialogo nel quale si ragiona della consolazione e utilità che si gusta leggendo la Sacra Scrittura (1552), Lando deiniva Lucrezia sua allieva, le aveva dedicato un Panegirico e pubblicato a suo nome alcune lettere.59 Il pensiero degli evangelisti si sintetizzava in alcuni principi elementari: desiderio di riforma religiosa, enfasi sulle scritture, ruolo primario della fede e della giustiicazione come accadeva per i protestanti, ma senza negare il valore delle opere di bene. In Lando, tuttavia, come nelle opere del suo amico, il poligrafo Anton Francesco Doni, venivano spesso mescolate in maniera impropria questioni teologiche complesse, facendo coesistere, per esempio, predestinazione e libero arbitrio. Quello che era prevalente era l’atteggiamento erasmiano e la puntuale critica alla tradizione, religiosa e culturale, che si trascinava dietro i fondamenti del sapere uficiale del tempo. Doni e Lando si scagliano contro la cultura umanistica pedante. Per loro, i libri non hanno nessuna capacità di prepararci a capire e ad affrontare il mondo. Lando condanna senza pietà la vita sociale e urbana; censura, come i riformati, il comportamento dei frati e la religiosità bigotta, lasciando spazio per le “diversità”, anzi le “mostruosità” del mondo, come le deinisce ironicamente nel suo Commentario delle più notabili et mostruose cose d’Italia (1553). In questo atteggiamento, la ilosoia di Lando sembra un repertorio, per quanto stressato e militante, di alcuni dei valori che ispiravano anche Gherardo Cibo, che aveva optato per un ritiro dalla vita attiva, vivendo la propria ricerca artistica e naturalistica senza la pretesa di articolarla in una ossatura scientiica di tipo tradizionale, omettendo di pubblicare trattati. Il tema del romitaggio era connesso, nelle opere di Lando e di Doni, alla critica radicale del sapere e della cultura che prendeva i toni erasmiani paradossali dell’Elogio della pazzia e dell’ignoranza trattato da Cornelio Agrippa nel De vanitate scientiarum, che era stato tradotto da Ludovico Domenichi nel 1547 (Venezia, A. Arrivabene), e Lando saccheggiava nelle proprie opere. Un’opera simile, Lode dell’ignoranza (Venezia, Giolito, 1551), a cura di Doni, era stata pubblicata dal conte Giulio Landi. Landi, Domenichi, Doni e Lando erano componenti di un’accademia, detta Ortolana, fondata a Piacenza, che prevedeva l’adozione per i suoi membri di nomi di piante e di iori.60 L’atteggiamento radicale e pirroniano di Lando utilizzava evidentemente il romitaggio in chiave erboristica come un modo “alternativo” di conoscere, confermando la sensazione che la competenza botanica, empirica e un po’ intrisa di magia, anche se perseguita con metodo scientiico, rappresentasse una forma di sapere libertino e fuori degli schemi tradizionali. I temi al centro degli interessi dell’Ac- L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 77 cademia Ortolana erano poi anche i temi trattati da Lando nel suo Commentario, nel quale le “diversità” del creato venivano rappresentate con lo sguardo di un possibile allievo di Ghini. Nel volume si descrivono infatti con competenza i prodotti alimentari, le ricette di cucina, le piante diverse, con le loro proprietà, che si incontrano lungo un grottesco percorso attraverso l’Italia, che è anche l’occasione per censurare credenze o celebrare personalità singolari e stereotipi regionali. Si parla dei marzapani di Siena, dei mostacciuoli di Napoli, del pane pepato di Firenze, del cervelato di Milano, della carta di Fabriano, dei “piatti di terra igurati” di Urbino, del ciambellotto di Ancona (un tessuto), di piante, spezie e frutta caratteristiche dei luoghi, come le nocelle, la cannella, il serpillo, la nepitella, la citornella (cetronella), le pere moscatelle, le sorbe, ecc.61 La sola coincidenza della presenza a Bologna di Gherardo e di Ortensio negli stessi anni e la comune cultura botanico-medica di imprinting ghiniano possono sembrare un argomento insuficiente per sostenere un rapporto tra i due. Vi sono tuttavia alcuni dati fortemente indiziari che ci portano a sostenere questa tesi. Il primo è il periodo nel quale, il 1542, poco tempo dopo il ritiro di Cibo a Rocca Contrada, Ortensio è per qualche tempo al servizio del Vescovo Marco II Vigerio di Senigallia, zio di Gherardo, dove potrebbe essere arrivato proprio grazie a lui. “Condussimi inalmente a Sinigallia da’ Galli ediicata, scrive Lando sul Commentario, ove era Vescovo il buon padre Marco Vigerio della Rovere, uomo di bontà e dottrina singolarmente ornato, dal quale comodamente albergati in molta consolazione molti giorni presso di lui ci ritenne”.62 È probabile che Lando aspirasse a un rapporto più stabile con Vigerio, tanto che approittò dell’amicizia nata nel frattempo con Pietro Aretino per farsi raccomandare presso di lui, come si evince da una lettera del letterato toscano al Vescovo del dicembre 1542. In questa lettera si fa riferimento a un cavaliere, nipote del Vescovo, accomunato a Ortensio, che dovrebbe essere Gherardo: “Vi scrivo ora per la forza che me ne fanno le dottrine de l’Ortensio, e le generosità del cavaliere. E perché l’uno vi è famigliare, e l’altro nipote, non mi son potuto di non congratularmene con la felicità dell’onore che quello vi acquista al nome, e questo al sangue”.63 Lando mostra nel Commentario di conoscere bene la Marca di Ancona e il Ducato di Urbino. Descrive Ancona “ricetto singolare de Schiavoni, ricapito di Giudei, albergo de Turchi, stanza de Morlacchi e nido de Greci”,64 ma altrove scrive che non aveva voluto abitarci, visto che anche “la Reina del cielo” non aveva voluto fermarsi colà e aveva preferito portare la propria casa a Loreto, riferendosi ironicamente alla storia della santa casa.65 Ricorda di aver incontrato a Pesaro la duchessa di Urbino Eleonora Gonzaga e di essere andato a conoscere a Rocca Contrada la sorella del Vescovo e zia di Gherardo, Maria Vigerio, dove era badessa del monastero di San Sebastiano con il nome di Chiara. Di Gherardo, nella descrizione che appare nel Commentario, non vi è cenno, ma la trattazione è vistosamente cortigiana e avrebbe creato forse imbarazzo citare 78 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ personalità di secondo piano dal punto di vista nobiliare e così appartate come il vecchio compagno di studi.66 L’altro argomento più che indiziario è la presenza di Lando, nella Biblioteca Angelica di Roma, nel fondo Passionei, nel quale sono conluiti i libri di Gherardo, alcuni postillati e annotati. Tra questi troviamo ben quattro sue opere: Lettere di molte valorose donne (Venezia, Giolito, 1549), La sferza (Venezia, Arrivabene, 1550), Lettere della molto illustre sig.a Lucrezia Gonzaga (Venezia, Scotto, 1552), Commentario ecc. (Venezia, Cesano, 1553). Tutte le opere portano il timbro della Biblioteca Passionei, dove transitarono diversi libri appartenuti a Gherardo Cibo, parte dei quali può essere pervenuta all’Angelica per il tramite di Angelo Rocca. Nicoletta Muratore e Paola Munafò, utilizzando anche i precedenti studi di Enrico Celani, bibliotecario dell’Angelica dei primi del Novecento, hanno cercato di rintracciare il percorso d’arrivo all’Angelica di questo importante fondo bibliograico, individuando due itinerari paralleli plausibili che i volumi possono aver compiuto per arrivare nella biblioteca del Cardinale Domenico Passionei (1682-1761).67 Gherardo aveva ereditato la biblioteca di suo cognato Domenico Passionei (un omonimo, laico e Gonfaloniere di Urbino, deceduto prematuramente nel 1560, seguito dalla moglie Maddalena dieci anni dopo). È probabile quindi che parte della sua biblioteca sia tornata, alla morte di Cibo, alla famiglia Passionei; dal 1738, data della nomina a Cardinale, questi volumi sono stati contrassegnati dal timbro con la scritta “Bibliothecae Passioneae” con un cappello cardinalizio. Ma un’altra parte dei volumi potrebbe essere inita all’Angelica, senza contrassegni, attraverso Angelo Rocca, il fondatore, che potrebbe averli ricevuti tra le carte e gli oggetti appartenuti a suor Maria Maddalena (Ortensia) Cibo, sorella di Gherardo, che gli sopravvisse, monaca del monastero di Sant’Agata di Rocca Contrada, dove Rocca (come si capisce dal nome) era nato.68 L’unico testo postillato, anche se non possiamo essere certi che si tratti della mano di Gherardo, è La sferza. Si tratta in genere di sottolineature e richiami degli autori antichi citati, dei quali Lando proclama l’inutilità. A carta 34v una annotazione richiama la “comparatione” a proposito del dotto e l’ignorante come un confronto paradossale tra chi è ancora vivo e capace di pensiero originale e chi è intellettualmente defunto, identiicato con il dotto. Poche pagine prima, alla carta 22v, viene sintetizzato da Lando il confronto tra arte e natura – un concetto evidentemente essenziale per un artista come Cibo, che da giovane aveva avuto modo di studiare Leonardo – con una citazione a mano, a memoria, da Girolamo Muzio: “Natura suol far l’opre sue imperfette: E darle all’Arte che le adorni e limi”. Il brano è tratto dalla Poetica di Muzio, la cui versione stampata (Venezia, Giolito, 1551, I) recita: “e dico che natura / suol far l’opre sue rozze, e tra le mani / lasciarle a l’arte, che le adorni e limi”. L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 79 L’autore dell’annotazione, forse Gherardo, si sofferma dubbiosamente sul confronto tra la versione anarchica e romantica di Lando e quella che invece sostiene il valore e il peso dell’educazione per perfezionare la natura, sostenuta da Muzio. Muzio, letterato e precettore di Francesco Maria II della Rovere, non era stato in gioventù totalmente intollerante, come scriveva in una lettera inviata a Francesco Calvo del 9 luglio 1545: “avanti che io venissi in queste parti et che io vedessi, udissi e sentissi quello che ho visto, udito e sentito, il Luteranesimo alcuna volta mi soleva parere alcuna cosa; hora ho io il tutto per ciance e favole”, ma era diventato con il tempo l’espressione più emblematica della reazione sviluppatasi contro il paradigma libertino di Ortensio Lando.69 Dopo una originaria amicizia con il Vescovo Pietro Paolo Vergerio, originario come lui di Capodistria, che aveva parteggiato, con Pole e Ochino, per gli spirituali, responsabile di aver abbandonato la fede cattolica, Muzio era infatti diventato l’araldo dell’ortodossia, collaboratore del Santo Ufizio e autore di invettive contro il suo ex amico (Vergeriane, Venezia, Giolito, 1550) e contro Bernardino Ochino (Le mentite ochiniane, Venezia, Giolito, 1551). Diventato precettore del giovane erede del Ducato di Urbino, Francesco Maria, alla metà del secolo, al quale aveva dedicato un Principe giovinetto (Venezia, 1572) secondo l’uso dei precettori, Muzio fu anche autore di una Historia del Ducato dei tempi di Federico da Montefeltro (edita solo nel 1605): è quindi molto probabile che Gherardo lo avesse conosciuto e potesse citarne a memoria l’opera.70 Il rapporto arte/natura era un tema centrale del Rinascimento ed era stato evocato a proposito della “grazia” di Raffaello. Veniva trattato negli ambienti colti sulla scorta del passo di Plinio il vecchio che citava il pittore Apelle e la discussione se si dovesse imitare la natura o i grandi artisti. L’argomento verrà utilizzato poi nel nord Europa a proposito di Peter Brueghel il Vecchio, ma Erasmo lo aveva già usato a proposito di Albrecht Dürer nel 1528 con riferimento allo stesso passo di Plinio, secondo uno stile di pensiero che sembra condiviso da Muzio e probabilmente da Cibo. Per Erasmo, Dürer era stato in grado di rappresentare nelle sue opere cioè “ciò che era impossibile dipingere” come le sensazioni, gli atteggiamenti o la voce (per il mistico, collezionista e cartografo anversese del XVI secolo, Abramo Ortelio, la stessa cosa si poteva sostenere di Peter Brueghel, di cui era un patrono). Dunque l’arte poteva superare la natura. Questo argomento era stato centrale anche per i grandi iniziatori della scienza botanica come Conrad Gessner e Leonhart Fuchs, perché entrambi avevano cercato di creare per le piante un metodo capace di comunicare informazioni che andassero oltre le apparenze, mettendo a punto un alfabeto simbolico capace di rappresentare la forma essenziale delle piante. Per entrambi riprodurre una pianta ad vivum signiicava fare questo: andare oltre l’esperienza, non solo muoversi all’aperto alla ricerca di campioni. Immagini pur realistiche, ma che rappresentassero solo la for- 80 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ ma esteriore, vennero deinite da Gessner alla stregua di “pietriicazioni di Medusa”, come ha notato Sachiko Kusukawa. In questa ricerca, i botanici riformati applicavano il metodo già impiegato per la produzione delle immagini devozionali, nelle quali l’osservatore, precedentemente istruito, era messo in condizione di decifrare i riferimenti scritturali delle igure e di aiutarsi nella preghiera silenziosa. Gessner e Fuchs crearono così delle Andachtbild, cioè immagini devozionali, come erano quelle di Brueghel e di Patinir, adattate alla scienza, per la necessità di rappresentare gli aspetti dinamici (storia, ciclo, ioritura) delle piante, quelli non rappresentabili (odore, colore, ecc.), e inine per l’ambizione di celebrare in questo modo la grandezza provvidenziale del creato.71 Pur apprezzando probabilmente le aspirazioni evangeliche di Ortensio Lando, il suo elogio dell’ignoranza e della semplicità (“meglio ignorante che dotto” era il suo motto), che lo portava a considerare con leggerezza gli studi botanici e la propria attività artistica, più dilettante che professionista, Gherardo Cibo non poteva essere insensibile all’argomento che afidava all’arte il compito di completare l’opera della natura nel solco della provvidenza divina, come ricordava anche nel suo Trattato della Miniatura. La natura non produce solo prodotti initi, l’arte la perfeziona e in questo svolge una azione di carità, analoga alle tante prestazioni pie che Gherardo aveva messo in campo nel corso della sua vita. 4. Un’arcadia marchigiana: realismo e idealismo I documenti rimastici che attestano le escursioni botaniche di Gherardo Cibo registrano date successive al 1560, ma è ovvio che disegni precedenti possono essere andati perduti. Tra il ritiro a Rocca Contrada e queste prime documentate testimonianze corrono venti anni. È ragionevole pensare che, nel corso di questo periodo, Gherardo abbia viepiù adottato un metodo più sistematico per la raccolta dei suoi album. In questo percorso fu certamente aiutato dagli studi e dalla rilessione metodologica compiuta dai grandi botanici, alcuni dei quali, come Fuchs e Aldrovandi, erano stati in rapporto con Ghini. Fuchs pubblica il suo Historia stirpium nel 1542 con oltre cinquecento piante riprodotte secondo la sequenza alfabetica, rivolta alla facile consultazione e al superamento delle tassonomie gerarchiche delle specie. Una copia dell’opera è conservata nell’Angelica, ma non ha il timbro del fondo Passionei. Le sue illustrazioni tuttavia sono acquerellate a mano e, secondo Celani, potrebbe aver fatto parte del gruppo di opere botaniche che avrebbero potuto appartenere a Cibo (anche se non tutte si trovano nel fondo), tra le quali C. Plinio, Historia naturalis, Venezia 1536; I Discorsi di P.A. Matthioli, Venezia 1573; P.A. Mattioli, Commentarii, Venezia 1558; P.A. Mattioli, Dioscoride, Venezia 1548, P.A. Mattioli, I discorsi nelli sei libri di Pedacio Dioscoride Anazarbeo, Venezia 1573. L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 81 Una edizione della Historia stirpium di Fuchs (1542) con xilograie colorate e annotazioni di Cibo si è invece conservata presso la Biblioteca Corsiniana di Roma. Il Dioscoride di Mattioli del 1548, dell’Angelica, edizione non illustrata a stampa, contiene illustrazioni di piante a mano sicuramente di Gherardo. L’edizione dei Discorsi del 1573, sempre all’Angelica, ha le illustrazioni a stampa acquerellate a mano e annotazioni di mano di Gherardo.72 Gherardo dedicò quindi alcuni anni a documentarsi sulla scorta delle prime opere che vennero pubblicate, maturando probabilmente il progetto di raccogliere con sistematicità le varietà botaniche che poteva trovare nel proprio circondario, registrandone le caratteristiche, i colori, l’habitat, il periodo di estrazione dal terreno, le proprietà. In questa ricerca, Cibo si spostava per erborizzare tra le Marche e l’Umbria, a San Girolamo di Pascelupo, nei pressi di Gubbio; sul monte Rogedano e a Monte Fano nei pressi di Fabriano; lungo il iume Cesano; a Sasso Cupo, forse vicino Perugia o più probabilmente nei pressi di Massaccio, oggi Cupramontana; alla abbazia di Nocera Umbra, a Piticchio, nei pressi di Rocca Contrada, oggi Arcevia; alla selva della Romita, ancora nei pressi di Massaccio. Questo lavoro ininito era del tutto coerente con il progetto delle corrispondenze avviato da Ghini e da Fuchs, secondo il principio della cooperazione scientiica. Anche questo modello epistemologico aveva una sua origine religiosa. Potremmo infatti considerarlo analogo all’idea della “chiesa invisibile” dei riformati, precedente del “collegio invisibile” degli scienziati baconiani di un secolo dopo (e comunque protestanti anche loro). La chiesa invisibile mirava alla creazione di una sorta di corpo mistico costituito dalle tante singole individualità che si ponevano in contatto reciproco, ma anche in diretto contatto con dio. La chiesa invisibile anticipava e legittimava, specie tra personalità spiritualmente impegnate, l’idea che ci potesse essere anche nella scienza un lavoro collettivo nel quale ogni ricercatore apportava il proprio autonomo contributo. Non fu infrequente che studiosi impegnati in questo genere di progetto come Gessner considerassero la propria opera più signiicativa non quella pubblicata, ma la raccolta sistematica dei loro campioni sperimentali, frutto di una rete ubiquitaria di contatti, un “life work”. Anche qui Erasmo, che aveva inaugurato il genere editoriale dei loci communes nella ilologia, continuava a esercitare il suo magistero nella scienza. Questa sensibilità portava Gherardo Cibo a privilegiare lo sforzo di documentazione da integrare poi in un lavoro più ampio, tenendolo lontano dalla ambizione di pubblicare dei trattati. Anche i suoi manuali tecnici di cui si tratta più avanti nel libro, erano intesi come un corpus di informazioni e ricette provenienti da una rete di corrispondenze e amicizie, pensati soprattutto in termini di servizio pratico. In questo spirito si inquadravano anche le tante attività beneiche di Cibo: la creazione con l’amico Camillo Tarugi di un Monte frumentario per i poveri in tempi di carestia, il sostegno del giovane pittore Ercole Ramazzani di Rocca Contrada, per 82 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ qualche tempo a bottega da Lorenzo Lotto, considerato una specie di iglioccio, persino l’aiuto allo sviluppo locale con l’adattamento dei suoi paesaggi a possibili decorazioni di maioliche, come sembrerebbero far pensare alcuni disegni tondi, forse per la produzione di maioliche sviluppata a Rocca Contrada e a Sassoferrato.73 Anche i disegni di Gherardo non si limitavano alla documentazione delle specie botaniche; essi erano anche, in ogni loro pagina, una celebrazione dei valori della simplicitas morale che anche Brueghel aveva coltivato nell’esaltazione della cultura e della religiosità panica dei contadini delle Fiandre. Ritroviamo questa simplicitas in molte delle opere di Cibo: nelle povere case ricavate nelle rocce, nella placida pesca delle sue marine, nei frequenti eremiti e San Gerolami ritratti dentro le grotte dei suoi paesaggi. C’è sempre, in questi disegni, un’insistenza sulla vita ordinaria di personaggi umili che lavorano, ritratti da lontano con le prospettive alte e azzurre di Brueghel e di Patinir, spesso appena schizzati; placidi pastori con i loro greggi che suonano il lauto, donne che lavano i panni chine sul iume, piccoli antri di campagna che ospitano crociissi celebrati dai lumini accesi della pietà popolare. Si nota il frequente contrasto tra i castelli, le chiese, le rovine antiche, gli abitati arroccati su rocce a picco su laghi e iumi e le piccole igure umane che vivono in basso la loro modesta esistenza quotidiana. Certo, il paesaggio marchigiano è sempre stato collinare e nel XVI secolo risulta molto più luviale e acquitrinoso di oggi, giustiicando il realismo di certi disegni, ma le marine, numerosissime, le rocce bucate, le navi in tempesta o in dificoltà disegnate in lontananza ricordano molto i motivi di Brueghel e le egloghe piscatorie di Sannazzaro.74 Questi paesaggi sono descritti ad vivum, ma probabilmente rispecchiano anche alcuni valori e sentimenti che Gherardo derivava dalla sua formazione negli ambienti evangelici eterodossi, caricati del sentimento arcadico che aveva fatto parte della sua formazione. Ma anche le altre tipologie di disegni celano informazioni più complesse di quel che si potrebbe immaginare considerandole schizzate all’aperto, come in “presa diretta”. Sono immagini legate ai paesaggi urbani, ai proili di abitati, agli studi di rocce e di piante, alle prove di colore, all’attività di erborizzazione all’aperto compiuta con i suoi assistenti, che, a volte, giocano in forma narrativa con informazioni che un “lettore esperto” poteva comprendere a partire da cenni, come nel caso dell’Elleboro negro (Ms Additional della British Library, c. 95, ig. 7), nel quale i due erboristi avvistano un’aquila. Secondo una antica leggenda riportata da Mattioli, l’Elleboro non doveva, infatti, essere colto in presenza di un’aquila, forse per l’azione curativa contro la malinconia cui era associato. L’erborista è rappresentato mentre caccia un serpente nel disegno dedicato all’Eringio (British Library, Ms Additional, c. 47, ig. 140), che si riteneva fosse curativo contro i morsi di serpente. L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 83 Fig. 25 – Gherardo Cibo, ‘Elleboro bianco’: Polygonatum sp., Ms Additional 22332, British Library, Londra, c. 96 84 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Una pianta di Celidonia (Ms Additional, British Library, c. 91, ig. 1, particolare), nome che Dioscoride aveva spiegato venire dal greco chelidòn, rondine, viene rappresentata sotto un cielo blu nel quale volano delle rondini.75 Il realismo dei luoghi, a volte descrizione preziosa e unica di paesaggi scomparsi o profondamente mutati, quando siamo in grado di identiicarli, è sempre però abitato da una sensibilità artistica e spirituale, come denota, in un certo senso, l’eccesso di bellezza e amenità degli habitat botanici rappresentati rispetto a quel che sarebbe stato suficiente alla sola annotazione scientiica, che tuttavia non prevarica il dato sperimentale. Jaap Bolten, pensando che l’autore fosse un Ulisse Severino da Cingoli, cui invece Cibo li aveva regalati, aveva notato in questi disegni l’assenza di idealismo arcadico accademico. “Nei suoi paesaggi e studi, scriveva, non vi è traccia della pastorale e del paesaggio eroico alla Giulio o Domenico Campagnola, Tiziano o Polidoro. Solo una o due volte un tema religioso come san Francesco in preghiera, copiato da un dipinto di Lavinia Fontana o san Gerolamo. (…) I suoi paesaggi non appartengono alle vedute ideali e non oltrepassano i conini del proprio tempo” (tr. mia).76 Ma l’arcadia è presente, anche se stemperata nel mito della simplicitas evangelica. Gherardo possedeva certamente l’Arcadia di Sannazzaro; la sua copia è ancora all’Angelica, personalizzata da una nota di possesso, nel fondo che raccoglie parte dei suoi libri, tra i quali si registrano, pur senza la certezza che siano passati tutti per le sue mani, diversi altri testi bucolici. Testimonianza di questa attenzione per una sorta di “arcadia spirituale”, ancora viva negli anni della vecchiaia, è la nota che Gherardo scrive, il 21 maggio 1591, in una raccolta di disegni, oggi in collezione privata, nella quale sono citati per la particolare vicinanza (“li tengo cari”, scrive) due “sonetti spirituali” del medico eugubino Annibale Niccolini, autore del “dramma boschereccio” Il nuovo pastor ido (Venezia, Battista Dembini, 1608).77 Un rapporto correva anche tra questa celebrata simplicitas e la vocazione che i Cappuccini avevano cercato trovando rifugio a Camerino presso la zia Caterina Cibo, dove avevano costruito i loro primi monasteri-eremitaggi. Il rapporto con i Cappuccini non si era infatti interrotto con la ine del Ducato di Giulia Varano. I Cappuccini restarono nell’ambito della protezione dei Cibo, intrecciando con la famiglia un cauto, ma costante, rapporto, dopo lo scandalo della fuga di Bernardino Ochino, loro Vicario Generale. Il nipote di Gherardo, Marco Passionei, vestì, nonostante una certa ostilità dell’ordine, il saio cappuccino nel 1585 col nome di Benedetto, e la famiglia fu in prima linea, nel 1630, per sostenere l’avvio del processo di beatiicazione, dopo la sua morte nel 1625. Lo stesso Gherardo lasciò, alla sua morte, cinque iorini alla chiesa di San Pietro dei Cappuccini di Rocca Contrada.78 Questa sensibilità per il realismo venato di idealismo faceva parte della cultura che Gherardo aveva respirato nella sua formazione, nelle letture e nell’ambiente L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 85 Fig. 26 – Frontespizio del De curativis, ac mittendi sanguinem scopis disputationes in genere di Annibale Niccolini da Gubbio, Perugia, Pietro Giacomo Petruzi, 1591, Biblioteca Oliveriana, Pesaro 86 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 27 – (Francesco Mingucci, attr.), Veduta di fantasia di una villa roveresca (sec. XVII), Musei civici, Pesaro L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 87 Fig. 28 – Veduta del “Parchetto” di Pesaro, dal Stati dominii città terre e castella dei serenissimi Duchi e Principi della Rovere (1626) di Francesco Mingucci, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms Barb. Lat. 4434, c. 10 88 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ cortigiano dei della Rovere. Il tema dell’Utopia di Moro, per esempio, era un altro argomento che Gherardo può aver condiviso con Ortensio Lando. Proprio Lando e Doni avevano introdotto, infatti, in Italia l’opera di Moro.79 Il tema era stato trattato anche alla corte pesarese da Ludovico Agostini in un’opera rimasta inedita per molto tempo, ma che doveva essere ben nota nell’ambiente cortigiano, Le giornate soriane, signiicativa anche per la celebrazione arcadica della vita ducale tra le ville del monte San Bartolo di Pesaro.80 L’opera fu composta tra 1572 e 1574 guardando al Cortigiano di Castiglione, ma trasferendo le conversazioni della corte urbinate nelle passeggiate, i giochi, le cacce e i pic-nic all’aperto, tra le ville ducali del monte San Bartolo, che si richiamano esplicitamente ai modelli della favola pastorale. Nel 1543 inoltre, il fabrianese Mambrino Roseo aveva tradotto il Reloix de principes di Antonio de Guevara (1529) con il titolo L’institutione del prencipe cristiano (Roma, Calzolari), opera presente nel fondo Passionei dell’Angelica, presentata come manuale per i governanti che, come l’Utopia di Moro, celebrava la vita semplice dei Garamanti, popolo tanto immaginario quanto esemplare per moralità. Mambrino era un letterato specializzato nella traduzione dei poemi cavallereschi spagnoli, aveva lavorato nel 1529 nel partito ilomediceo, quindi dalla parte dei Cibo, e, nel 1531-42 era stato a Roma nell’ambito di papa Paolo III e di suo nipote il Cardinale Alessandro Farnese, come Gherardo, che quindi può averlo conosciuto.81 Il tema dell’età dell’oro era stato già centrale per Sannazzaro, poeta in rapporto con Angelo Colocci; era stato coltivato da Egidio da Viterbo (autore di un De aurea aetate, pubblicato nel 1508), da Bramante a da Raffaello, e aveva rappresentato un genere rivolto a fondere la poesia bucolica pagana con la pietà religiosa mariana, frequentato dal poeta napoletano nel suo De partu virginis, che era, a sua volta, il tema di riferimento dei poeti dell’antologia Coryciana promossa dal circolo umanistico romano di Göritz.82 Il giardino e la selva sembrano diventare, nella seconda metà del secolo XVI, un paradigma della sensibilità controriformata e, nel Ducato di Urbino, persino un modello geopolitico della nuova fase di rifeudalizzazione e di progettazione urbana, strettamente connessa all’utopia.83 Il tema del giardino e della selva sono fra loro connessi e si può sostenere che quello che era stato il signiicato umanistico del giardino e il suo carattere di luogo di conversazione e di incontro culturale diventa, nel pieno della Controriforma, il luogo della meditazione individuale afine all’orazione silenziosa. Ludovico Agostini deinisce ne Le giornate soriane, con l’espressione “Il ben vive tra’ boschi”, questa forte connotazione spirituale che il modello pastorale arcadico ha acquisito anche nell’ambiente laico della corte roveresca. Il tema del giardino resta invece un argomento importante soprattutto sul versante della rappresentazione del potere dei della Rovere. L’alternarsi di immagini architettoniche tipiche della domus romana a stanze decorate come selve e pergole è L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 89 Fig. 29 – Giacomo Lauro, Rocca Contrada (1608), acquaforte. Riedizione della edizione 1594 dedicata al Cardinale Rusticucci. In alto lo stemma del Cardinale Bandini. In basso, a sinistra, lo stemma di Rocca Contrada. In basso a destra lo stemma di Angelo Rocca. Comune di Arcevia, Palazzo comunale 90 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 30 – Frontespizio del manoscritto Historiarum libri duo (1596-1601) di Pietro Ridoli da Tossignano, Biblioteca Comunale Antonelliana, Senigallia L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 91 Fig. 31 – La Villa, detta “l’Imperiale”, di Pesaro sul fondo della riproduzione della Sepa, da I discorsi di M. Pietro Andrea Matthioli (Venezia, 1568), per il duca Francesco Maria II della Rovere, Biblioteca Alessandrina, Roma, libro II, cap. LVIII Fig. 32 – La chiesa e il convento di Santa Maria delle Grazie di Senigallia come compare in un disegno di Gherardo Cibo sull’Historiarum libri duo (1596- 1601) di Pietro Ridoli da Tossignano, Biblioteca comunale Antonelliana, Senigallia, c. 43r 92 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ una caratteristica della Villa Imperiale di Pesaro e l’ultimo duca Francesco Maria II si ritira spesso a Casteldurante in un casino da caccia, la villa di Monteberticchio, decorata con immagini loreali dipinte dal iammingo Giovanni Scheper, pittore in corrispondenza con Gherardo e impegnato nei cosidetti “Botteghini” ducali di Pesaro.84 In alcune sale come quella delle Cariatidi dell’Imperiale i riferimenti all’architettura scompaiono entro una galleria di laghetti, ruderi, pitture di paesi; ma in altre la dimensione architettonica del palazzo (colonne, architravi, ecc.) è insistita, come a segnalare un dialogo tra il palazzo signorile e la villa extraurbana (parallelo a quello tra Cortegiano e Giornate soriane), confermato dal trasferimento sul colle San Bartolo della vita di corte. La stessa città di Pesaro assume per volontà dei della Rovere le caratteristiche di una “città giardino”. Dopo Genga e Filippo Terzi, trasferitosi in Spagna, è Girolamo Arduini l’architetto che interpreta questo stile ducale progettando ville e intervenendo sulla struttura urbanistica della città. Di nobile famiglia, è deinito da Agostini come matematico, e, in veste di architetto civile, progetta i giardini della villa Miraliore di Pesaro, acquistata da Guidubaldo nel 1559, e poi condotte, giochi d’acqua, fontane per le ville roveresche del San Bartolo come la “Duchessa” e la “Vedetta”. Progetta il nuovo “Barchetto” (piccolo barco/parco, ig. 28) di Francesco Maria II, area recintata ai limiti della città, allestita come una “ruina” teatralmente utilizzata come “luogo selvatico” (giardino e selva assieme), corredata di un piccolo ediicio che ospitò, nel 1577, Bernardo e Torquato Tasso, che vi scrisse parte dell’Amadigi.85 La sistemazione del Barchetto era connessa al più ampio progetto del cosiddetto “Portanile”, operazione che prevedeva il collegamento di un casino e della vecchia porta (oggi nota come “Porta Rimini”) con i giardini sottostanti nei pressi della riva del iume Foglia. Arduini, forse insieme allo stesso duca, interpretava quindi il disegno progettuale di creare anche nell’area urbana di Pesaro uno stretto rapporto tra giardino ed ediicato, ripreso dalle decorazioni degli interni degli ediici. “Pesaro giardino” diventerà poi, un secolo dopo, un topos dei “versi di città” come “Pisa pendente, e Pesaro giardino, / Ancona dal bel porto pellegrino”, apparso sul Teatro delle città d’Italia di Francesco Bertelli (Padova 1629). Arduini era anche il coordinatore dei “Botteghini” ducali, creati nei pressi dello stesso palazzo pesarese, che coinvolgevano decoratori, maiolicari, pittori di paesaggi, per lo più iamminghi, e inventori di horiuoli, per una produzione di meraviglie che doveva dare lustro al Ducato, per i quali Cibo redige probabilmente i suoi manuali tecnici sul Modo di colorire e far paesi, sulla miniatura, ecc. trattati nel presente volume. Forse con questo ruolo, ma certamente nel quadro di un rapporto che tradisce grande stima, afinità e reverenza, protraendosi per diversi anni, Arduini è in frequenti rapporti con Gherardo: gli procura libri e ne prende a sua volta a prestito, come il Libro L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 93 grande de paesi a penna che Lucia Tongiorgi ha suggerito di identiicare con il manoscritto Additional conservato alla British Library di Londra, gli fa pervenire disegni e ricette di colori. I due avevano molti interessi in comune come l’architettura e la decorazione, la comune formazione militare e cortigiana, la competenza nel rilievo e nella tecnica cartograica. Cibo si cimenta nella pianta prospettica di Rocca Contrada presente nell’Historiarum libri di Pietro Ridoli, probabile fonte del disegno eseguito nel 1594 da Ercole Ramazzani, su richiesta del Comune e per iniziativa di Angelo Rocca, poi fatta incidere in rame a Giacomo Lauro (igg. 29, 33)e inserita nel Theatrum urbium italicarum dei Bertelli (Venezia, 1599). Nel 1584 era stato incaricato dai Priori di Rocca Contrada di compiere misurazioni dei conini tra la località di Monte Calvo e le proprietà di Ippolito della Rovere, signore di Castelleone e di San Lorenzo in Campo. Arduini, per parte sua, scrisse un trattato per levare mappe nel 1597, oggi conservato manoscritto alla Biblioteca del Dipartimento di architettura dell’Università di Montreal, in Canada.86 Il rapporto tra l’architetto militare e dei giardini e l’artista botanico è particolarmente utile a comprendere quanto il lavoro solitario e appartato di Cibo fosse in realtà interprete, e forse anche ispiratore, di una sensibilità arcadica che permeava la corte e le strategie di comunicazione roveresche, rimasta per molto tempo un carattere del paesaggio marchigiano.87 Ma Gherardo, sulla scia di una sensibilità diffusa nel XV e XVI secolo, interpretava anche la rappresentazione della natura e del paesaggio, naturale ed ediicato, come atto di carità e di celebrazione della provvidenza divina. Le vedute urbane erano state utilizzate, sin dal XV secolo, come veicolo e aiuto per la preghiera silenziosa e come strumenti eficaci di persuasione retorica nelle predicazioni dei frati dell’Osservanza; una abitudine particolarmente diffusa e radicata nelle Marche e nell’Umbria, come ha dimostrato Barbara Pasquinelli. I frati utilizzavano infatti, nelle loro orazioni, immagini di luoghi noti al pubblico per ambientare la trattazione di temi evangelici ed ediicanti e questa tecnica retorica venne introdotta poi, tra Quattro e Cinquecento, nella pratica della preghiera silenziosa, come si evince da manuali devozionali quali il Zardino de oration attribuito al padre Nicola da Osimo (Venezia 1493).88 Nel contempo, la rappresentazione dei paesaggi urbani poteva diventare una forma di adempimento delle prescrizioni tridentine rivolte al rilancio della “residenza” dei parroci e dei vescovi, della cura animarum e della valorizzazione dei santi e beati locali, tutti strumenti che avevano il compito di recuperare, sul modello della sensibilità protestante, ma entro la tradizione romana, una vocazione religiosa più intima ed emotiva che le Confraternite andavano promuovendo. A questo scopo erano rivolti gli Historiarum libri duo del Vescovo di Senigallia Pietro Ridoli da Tossignano, successore dei Vigerio, che alla Riforma cattolica avevano ispirato con rigore la loro azione pastorale, dedicati alla illustrazione della storia e delle caratteristiche della diocesi, per il quale Gherardo, ormai anziano, disegnò, con mano ormai malferma, le vedute delle chiese, degli oratori e dei monasteri che la componevano.89 94 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Un progetto analogo fu messo in campo dall’ordine degli Agostiniani di cui Angelo Rocca, amico ed estimatore di Gherardo, era Segretario. Inseguendo la funzione propagandistica che offrivano gli atlanti cartograici del tempo, l’ordine promosse una raccolta di informazioni e vedute di città dell’Italia centro-meridionale sulla scia di una visita pastorale nel Regno delle due Sicilie compiuta, tra 1583 e 1584, dal Priore generale Spirito Anguissola. L’intenzione era rappresentare le condizioni di vita, i costumi, le origini delle città e degli insediamenti di quell’area ancora una volta nello stile delle prescrizioni tridentine: una operazione di propaganda e di carità. Forse Rocca chiese a Cibo di fornirgli disegni e vedute e tra le carte di questo progetto, rimasto inedito, conservate in parte all’Angelica, compaiono alcuni disegni di paesaggi rocciosi di Gherardo, forse initi là per caso.90 L’assemblaggio di attenzione per il mondo reale, vissuto come esercizio umile della carità e con forte spiritualità interiore, come prova della grandezza e provvidenzialità del creato, è forse la chiave per comprendere la sintesi, compiuta da Gherardo Cibo, tra la precisione ilologica nella rappresentazione delle piante e dei loro contesti e l’atmosfera arcadica, da età dell’oro, ma stemperata nei toni di un’arcadia quotidiana e umile, evangelica, dei suoi disegni. Analoga alle relazioni di amicizia e sodalità di Rocca Contrada, costituite in genere da personalità di sensibilità assai afini, ben diversa da quella manierata e teatrale della vita cortigiana italiana e roveresca. Un atteggiamento che il padre cappuccino Lodovico della Rocca sintetizzava, nella Vita del nipote, il beato Benedetto Passionei, come di “uomo di molta sincerità e bontà”.91 Ma la sintesi del realismo e idealismo di Cibo aveva anche una sua origine scientiica: era intimamente contenuta nei ritratti di piante nei quali il disegno stava assumendo la dimensione epistemologicamente nuova di illustrazione botanica, redatta secondo un metodo e un codice che la allontanavano dall’essere solo schizzo mnemotecnico, trasformandola in documento capace di richiamare alla memoria della comunità scientiica, come diceva Gessner, “i gerogliici della natura”; simboli ben più eloquenti dei misteriosi gerogliici egiziani, idolatrati dalla cultura manierista e barocca. L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo 95 Fig. 33 – Gherardo Cibo, Veduta di Rocca Contrada, dall’Historiarum libri duo (1596-1601) di Pietro Ridoli da Tossignano, Biblioteca comunale Antonelliana, Senigallia, c. 77v 96 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Fig. 34 – Frontespizio del Simolacro dell’antichissima et nobilissima Casa Cybo di Alfonso Ceccarelli (1572), Ms 510, Archivio di Stato di Massa, Massa 97 L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo Note 1 Marco Gilio, presente al testamento di Gherardo Cibo nel 1599, scrisse il suo elogio funebre (conservato nel Ms Ottoboniano 3135, cc. 215-222, della Biblioteca Apostolica Vaticana) che risulterebbe essere stato stampato con il titolo Oratio Marcii Lilii a Rocca Contrada habita in patria die 30 Januarii, at in funere ex D. Gerardi Cybo, Jesi, P. Farri, 1600, ma di questo libro non è rimasta traccia. Traiamo le nostre informazioni e citazioni dal testo dell’elogio pubblicato in Galletti 1762, pp. 79-83, n. 1 che tratta anche dei parenti del Passionei. Gilio scrisse anche, ricorda Lelio Tasti nella sua storia di Rocca Contrada manoscritta (De situ et origine Rocchae Contradae, 1636) presso la Biblioteca civica di Arcevia, l’elogio funebre per alcuni membri della famiglia Mannelli, amici di Gherardo: Flaminio e Claudio; risulta a stampa quello per Girolamo Mannelli, successore di Angelo Colocci, suo zio, nel vescovato di Nocera Umbra (Oratio habita Rocchae in funere perillustrissimi ac reverendissimi D. Hieronymi Mannelli, episcopi Nocerini in nonas Martii 1592, Roma, D. Basae, 1592). Archivio di Stato di Firenze, Ducato di Urbino, Cl.I, Div. G, Filza 254/II, c. 653. 2 Celani 1902, pp. 25-26; Nesselrath 1989a, pp. 9-11. Il libro è P.A. Mattioli, I discorsi (…) nelli sei libri di Pedacio Dioscoride, Venezia, Valgrisi, 1573 (Biblioteca Angelica, Roma). Alla p. 129, a proposito della pimpinella maggiore, Gherardo scrive “Io l’ho veduta in Germania per la campagna o di Ratisbona overo di Iglestad”. 3 Celani 1902, pp. 26-27; Nesselrath 1989a, pp. 10-11. Cervini, poi papa Marcello II, era originario di Montefano, nelle Marche, ed era il migliore amico di Colocci, suo esecutore testamentario. Si conferma così il probabile ruolo di Angelo Colocci nel giovanile apprendistato romano di Gherardo. 4 “Pietra asia. Una polvere sottile che si può chiamare iore, ritrovai in una grotta sopra di quei sassi a Agnano, loco del S. marchese di Massa presso a Pisa tre o quattro miglia”, annotazione di Gherardo al Dioscoride di Mattioli (Venezia, 1548), Biblioteca Angelica, alla p. 742, cfr. Celani 1902, p. 17. 5 La famiglia Cibo, impegnata nella coltivazione dell’arte militare, aveva probabilmente proprie raccolte di disegni e rilievi di architettura. Secondo Francesco Benelli la rappresentazione della Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Senigallia 6 (Benelli 2002), di Baccio Pontelli, promossa nel 1491 da Giovanni della Rovere, divenuto signore di Senigallia nel 1474, dell’Historiarum libri di Pietro Ridoli da Tossignano (1596, ig. 32), rappresenta l’aspetto che essa aveva cento anni prima, probabilmente nel 1495-97. Gherardo, ormai anziano, riproduce quindi probabilmente la chiesa da un disegno, evidentemente in suo possesso o fornitogli, e non dal vero. 7 Galletti 1762, n. 1, p. 82. La citazione di Marullo è tratta da Rendina 2011 al capitolo dedicato a Innocenzo VIII. 8 Il riferimento alla nomina a Conte palatino è contenuta nel diploma (presso l’Archivio storico comunale di Arcevia) di laurea in utroque iure che Aranino Cibo conferisce nel 1512, in virtù dei poteri di tale rango, a Paolo Emilio Tasti di Rocca Contrada. Sulle competenze musicali di Gherardo cfr. Dinko Fabris, Una composizione per liuto di Gherardo Cibo in Nesselrath 1989a, pp. 49-51. 9 Cfr. Conte 1991, I, p. 5; Gaisser 1999, pp. 294295. 10 11 Ubaldini Fanelli 1969. 12 Ubaldini Fanelli 1969, p. 30 n. 36. Ubaldini Fanelli 1969, p. 39, n. 40; Zarri 2008; Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Caterina Cybo (on line). 13 Christophe de Longueil (1488 ca – 1522), militare di formazione, estimatore di Cicerone, si era appassionato alle scienze naturali leggendo Plinio il Vecchio. Dopo aver studiato all’Università di Valencia, perfezionò la sua conoscenza del greco a Roma, dove arrivò nel 1519, con Lascaris, entrando in rapporti con Pietro Bembo, presso il quale visse nel 1520 a Padova, aderendo all’Accademia romana di Pomponio Leto e di Angelo Colocci e al sodalizio umanistico di Göritz. Divenne poi familiare di Reginald Pole, presso il quale continuò a vivere a Padova, dove morì prematuramente. Era in rapporti con Guillaume Budé e con Erasmo. Longueil raccolse una ricca biblioteca con testi di medicina e le traduzioni di Galeno fatte da Niccolò Leoniceno con il quale sia Pole che Longueil erano in ottimi rapporti, testi dell’Aristotele naturalista e di Alessandro di Afrodisia, che erano serviti per alcune edizioni aldine. La biblioteca passò poi in eredità a Pole. Studente a Padova, Pole frequentava Iacopo Sadoleto e Marcantonio Flaminio, poi componenti dell’ala spiritualista e tollerante della Chiesa, e 14 98 Giovanbattista Cibo. Cfr. Woolfson 1998, p. 93; Mugnai Carrara 1991. 15 Ubaldini Fanelli 1969. 16 Rowland 1998, pp. 221-233. “Quantis oppida terminis recedant” (Caius Silvanus Germanicus, in Coryciana, Roma, 1524, II-4r); cfr. Rowland 1998, p. 296. 17 18 Ubaldini Fanelli 1969, p. 74, n. 131. La tipograia fu afidata a G. Mazzocchi, che pubblicò nel 1519, per la cura del fratello Piero, le celebrazioni per le esequie di Mario Mellini (Lacrimae in Celsi Archelai Mellini funere amicorum) morto quell’anno per annegamento. Sugli interessi arcadici di Colocci si veda la canzone pubblicata da Ubaldini Fanelli 1969, pp. 104-106; da riferimenti epistolari sintetizzati nell’Appendice XII del volume si evince che anche Colocci era in rapporti con Marcantonio Flaminio. 19 “Messer Ipolito” è citato nei viaggi ad Albacina il 23.6.1570 (cat. n. 23), alla Romita il 20.6.1572 (cat. n. 231), e ancora il 19.6.1570 (cat. nn. 252, 253, 256). La “Badia” di proprietà del Vescovo di Nocera Umbra, allora Girolamo Mannelli, fu visitata da Cibo e compagni il 20.6.1567 (cat. n. 190). 20 Sui Mannelli cfr. Federici 1995. L’albero genealogico dei Mannelli è presso la Biblioteca civica Planettiana di Jesi. 21 22 Anche il fratello di Niccolò Leoniceno, il letterato Bernardino (da Lonigo, Vicenza) voleva farsi costruire una villa a Monticello di Lonigo, ispirata alle idee umanistiche di Pietro Bembo e della sua scuola (Gobbi Sica 2007, p. 25, n.15; Puppi 1969). La Primavera di Botticelli rivela, secondo Burroughs 2012, un collegamento con gli studi botanici di Poliziano, suo amico, e l’esegesi in chiave ermetica dei Fasti di Ovidio promossa da Ludovico Lazzarelli, cui Poliziano aveva dedicato un corso allo Studio Fiorentino nel 1481-82. Per Ovidio la dea Flora era la quintessenza della romanità e questa associazione consentiva di creare un paragone tra Augusto e Lorenzo de Medici, tra il clima georgico della offensiva mediatica augustea e il revival ruralista delle ville medicee. I iori disseminati nel dipinto sono realistici e costruiscono un discorso simbolico parallelo alle igure. Poliziano coltivava anche gli studi botanici, aveva studiato Dioscoride e il suo allievo Marcello Virgilio Ariani ne fece una edizione nel 1518. Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ Urbino presso l’Archivio di Stato di Firenze, lettere di Stefano Vigerio al Duca, 1533 e 1534-42) di Stefano Vigerio della Rovere, fratello di Marco, Governatore del Ducato di Urbino e stretto collaboratore del duca Guidubaldo II, si ricostruisce la ricerca che fu fatta per dotare la Villa Imperiale di ogni specie di piante, anche medicinali, dell’area mediterranea, coltivate nel giardino superiore. I Vigerio erano quindi ben al corrente del progetto. L’Imperiale viene riprodotta come sfondo della pianta chiamata Sepa, nelle miniature a colori che Gherardo fece sull’edizione di Dioscoride di Mattioli, nella edizione 1568 (oggi alla Biblioteca Alessandrina di Roma, ig. 31), per il duca Francesco Maria II della Rovere. La costruzione della chiesa e del convento di Santa Maria delle Grazie di Senigallia (cfr. n. 6), passò da Baccio Pontelli a Gerolamo Genga, che, proprio negli anni Trenta del Cinquecento (gli stessi anni della lettera di Vigerio a Guidubaldo) iniziò una collaborazione con il Vescovo Marco II Vigerio. La pianta utilizzata da Gherardo negli anni Novanta per il disegno della chiesa, che compare sull’Historiarum libri del Vescovo Ridoli da Tossignano, potrebbe pertanto provenire dagli archivi di Genga, confermando un rapporto tra i due (cfr. Benelli 2002, p. 100). Dal Poggetto (2004) ha notato che Raffaellino potrebbe essere entrato in contatto con il pittore sassoferratese Pietro Paolo Agabiti, ritiratosi nel 1531 in un convento a Cupramontana, dove morì intorno al 1540. Cibo sembra conoscere di Agabiti una Natività (ig. 11), nella chiesa di S. Maria del Ponte del Piano di Sassoferrato, dalla quale trae forse il motivo dell’angelo in volo che compare sul suo disegno dell’Asarum europaeum (ig. 12), come ha notato Lucia Tongiorgi (1989b). 27 Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Giulia Varano (on line). 28 Dal Poggetto 2004; Nesselrath 1993, p. 3; Rowland 1998, pp. 221-233. 29 30 Giononi Visani 1993. 31 Ivi; De Tolnay 1965. 32 Bradley 1891, pp. 50-60. 33 Calvillo s.d. 23 A.F. Doni, Le Ville, Bologna, Benacci, 1566. 24 Dal Poggetto 2004; Miotto 2008. Sabbatino 2009. Göritz aveva commissionato a Raffaello la decorazione dell’altare di Sant’Anna a Sant’Agostino, a Roma, ma ne era sorto un contenzioso sul compenso che si dice fosse stato risolto dal giudizio di Michelangelo, chiamato a dirimere la questione (Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Johann Göritz, on line). 25 Dal Poggetto 2001; Sikorski, 2001; Fiocco 1965. 35 Pasquinelli 2012; Bolzoni 2002; Mangani 2006. 26 Cfr. nota 2. Dall’epistolario (fondo Ducato di 36 De Tolnay 1965. 34 99 L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo Gherardo risulta a Roma nel 1553 da un’annotazione al Dioscoride di Mattioli, edizione 1573 all’Angelica (“Il dì ultimo di novembre mi partii dalla Rocca Contrada assieme al conte Antonio Maurutio mio cognato, per Tolentino, il 16 dicembre 1553 partii per Roma, et il 20 detto giunsi a Roma”), cfr. Celani 1902, p. 9. Tornando a Roma dal viaggio con il Cardinale Alessandro Farnese, nel maggio-giugno 1540, può essersi fermato per un po’ di tempo. Cfr. De Ferrari 1960. 37 38 Risultano rapporti tra De Gast, Brueghel il Vecchio e Clovio. Uno dei paesaggi con velieri di De Gast nel palazzo oggi Sacchetti deriva dai disegni che Brueghel aveva fatto a Roma nel 1553, un altro, San Giorgio e il drago, deriva da un’incisione di Cornelis Cort da un disegno di Clovio (Dacos 2001, p. 49). Nicole Dacos (ivi, pp. 47-53) sostiene che l’incontro, nel 1539-40, tra De Gast e Cibo sarebbe stato essenziale nella formazione di Gherardo. Ma, a quella data, Cibo risulta aver già sviluppato la propria personalità. In ogni caso la proprietà dell’incisione di De Gast conferma il contatto fra loro a Roma offrendo una evidenza a quello con altri pittori iamminghi o nordici cultori del “romanismo”. I pannelli recentemente attribuiti a De Gast da Nicole Dacos sono due tondi, uno ad Anversa (Koninklijk Museum voor Schone Kunsten), e l’altro in una Collezione privata del Principato di Monaco, databili al 1540. Presentano le caratteristiche usate da De Gast per le decorazioni di ville e palazzi nelle quali si era specializzato a Roma. I pittori italiani usavano infatti normalmente legno di pioppo, De Gast legno di noce, come nei due tondi. Dacos in Collection Lingenamber (www.collection-lingenamber.org, on line). Per le “città ideali” cfr. Mangani 2012a. 39 40 L. Tongiorgi, in Luca Ghini 1992, pp. 37-47. La rete di relazioni scientiiche di Gherardo Cibo è trattata da Lucia Tongiorgi nel suo saggio. In area locale queste corrispondenze ricalcavano i rapporti di famiglia e le amicizie come Annibale Nicolini da Gubbio, Felice Pellegrini da Perugia, Ulisse Severino da Cingoli, come abbiamo cercato di sintetizzare nel dizionario in calce al volume. Anche il medico e falsario Alfonso Ceccarelli da Bevagna, che procura a Cibo un erbario, rientra nei rapporti di famiglia. Ceccarelli fornisce alcuni disegni di piante a Cibo raccolte in un erbario dipinto oggi in collezione privata (cat. pp. 227-230), tra queste la Lunaria, pianta tradizionalmente utilizzata nelle pratiche alchemiche. Ceccarelli era entrato in rapporto con Alberico Cibo Malaspina, principe di Massa, interessato a raccogliere informazioni sulla storia della famiglia sin 41 dal 1571. Per lui Ceccarelli redasse un Simolacro dell’antichissima e nobilissima Casa Cybo (ig. 34), manoscritto presso l’Archivio di Stato di Massa, nel quale utilizza fonti in gran parte inventate come era sua abitudine, sostenendo origini antichissime della famiglia; tra le altre personalità, un Carolus e Henricus Cybo avrebbero militato al servizio di re Artù nel 454 ed altre amenità. Il carteggio con Alberico, che ebbe sempre molti dubbi sulla fondatezza del lavoro dello studioso, proseguì ino all’imprigionamento di Ceccarelli nel 1583, con l’accusa di aver falsiicato documenti, testamenti, idecommissi di molte altre famiglie cui aveva offerto il proprio servizio, che gli procurò la condanna a morte nello stesso anno. Cfr. Sforza 1895, pp. 276-287. 42 Cfr. Felici 1977; Findlen 1994, pp. 163-170. Questo sistema di annotazione era in uso nella cosidetta “astrologia botanica” e consentiva di tenere in considerazione il rapporto tra le piante e i cicli astronomici, in relazione ai quali in genere si decideva il periodo in cui piantare o asportare la pianta dal suo habitat. Cibo possedeva anche un erbario trecentesco manoscritto, dipinto, oggi alla Biblioteca comunale “Romolo Spezioli” di Fermo (cfr. pp. 239-242), che gli era pervenuto da parte di “certi militari piemontesi”. Il documento fa parte di una tradizione medievale editorialmente piuttosto stabile sia nel testo che nell’apparato di immagini, diffusa nell’Italia centro-settentrionale. Anche Aldrovandi risulta ne avesse quattro copie. Le piante vengono trattate spesso dal punto di vista astrologico, in relazione alla loro capacità di favorire la trasmutazione dei metalli, come la Lunaria. Cfr. Segre Rutz 2000. Gherardo, insieme con Gaspare Marchetti e Berardo Bianchi, risulta essere andato in una località deinita “grotta dell’Aracoeli” alla ricerca della Lunaria odorata o greca il 14 agosto 1584 (Celani 1902, p. 30). 43 44 Fuchs ricevette da Ghini molti campioni e forse parte della sua collezione di piante secche alla sua morte. Cfr. N. Galassi, Luca Ghini, una vita per la scienza, in Luca Ghini 1992, pp. 187-205. Il viaggio sul monte Baldo fu poi pubblicato da Calzolari nel 1556. Leoniceno aveva apprezzato gli studi ilologici sui testi antichi, anche scientiici, di Poliziano e aveva sottoposto la documentazione medicoscientiica antica a una revisione sistematica riscontrando innumerevoli errori e corruzione dei testi in Plinio e nella successiva tradizione araba e medievale. Per questo motivo aveva dichiarato Plinio il Vecchio inattendibile, difeso invece da Pandolfo Collenuccio (1444-1504), letterato e diplomatico al servizio degli Sforza di Pesa45 100 ro. L’interesse ilologico di Leoniceno, in questa prima fase di revisione della tradizione scientiica antica, era tuttavia propedeutico alla individuazione dei veri signiicati delle espressioni antiche, con obiettivi pratici che andavano ben oltre la ricostruzione ilologica dei testi. Questa attenzione per la scoperta delle res dietro ai verba creò le condizioni epistemologiche per trasformare lo studio dei testi botanici antichi in una scienza a base empirica. Leoniceno fu professore a Ferrara, tra 1512 e 1515, anche di Philippus Theophrastus Bombast von Hohenheim, detto Paracelso (1493-1541), che condivide con gli altri suoi allievi un atteggiamento fortemente attento all’osservazione originale del dato sperimentale, anche se nel quadro, nel suo caso, di una architettura scientiica interna alla tradizione ermetica, e con una decisa critica per la tradizione. 46 Cfr. Ogilvie 2006; Kusukava 2011, pp. 163-177. “Quod ad picturas ipsas attinet, quae certe singulae ad vivarum stirpium lineamento et efigies expresseae sunt, unice curavimus ut essent absolutissimae, atque adeo ut quaevis stirps suis pingeretur radicibus, caulibus, foliis, loribus, seminibus ac fructibus, summam adhibuimus diligentiam” (L. Fuchs, De historia stirpium, Basilea, 1542, c. 6v, cfr. Kusukawa 2011, pp. 114-115). 47 48 Kusukawa 2011, pp. 249-258. 49 Angelini 2003, p. 12 e ss. Secondo Angelini 2003, Bocchi e i suoi colleghi accademici dell’Hermathena seguivano, in questa ambizione, il pensiero di Daniele Barbaro (iglio di Ermolao), che ne aveva trattato nel Dell’eloquenza (Venezia, Ruscelli, 1557). Barbaro, curatore dell’edizione del De architectura di Vitruvio edita a Venezia nel 1556, era anche responsabile dell’Orto botanico di Padova. La coincidenza tra retorica, architettura, impiego delle immagini e botanica non era casuale. Cesare Odoni, successore di Ghini alla cattedra dei “Semplici” di Bologna, fonda nel 1563 l’Accademia dei Secondi Affamati per proseguire il progetto dell’Accademia di Bocchi, scioltasi l’anno prima in seguito alla morte del suo fondatore. 50 A Bologna c’era anche un altro eterodosso con interessi botanici e medici come Michele Serveto, al seguito del Cardinale Juan de Quintana, confessore di Carlo V. 51 La sola familiarità studentesca non giustiica il legame che si è creato fra molti di questi personaggi, spesso anche tra professori e studenti, che si nutre probabilmente di un comune sentire religioso, vicino agli “spirituali”, e di una condivisa propensione alla tolleranza politica e al 52 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ dialogo con i riformati, rappresentato per qualche tempo dal Cardinale Reginald Pole. Lando sarà protetto da Madruzzo nel 1545; Longueil e Pole sono amici di Leoniceno, maestro di Ghini, che, a sua volta, è in corrispondenza con Fuchs, di fede riformata. Lo stesso Ghini si rifugiò a Fano proprio quando, tra 1536 e 1539, Cosimo Gheri, grande amico di Beccadelli e di Pole, ne assume il vescovato. Il rapporto con Bologna di Cibo non è ancora stato suficientemente chiarito. Una lettera del 1673 dello storico dell’arte Filippo Baldinucci, richiesto di raccogliere informazioni su Gherardo Cibo come artista, lo aveva deinito, nel sostenere che non se ne trovavano, come “bolognese” (cfr. Tongiorgi Tomasi 1989a). 53 Lando 1553, n. 416. Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Angelo Odoni (on line). Odoni che dopo gli studi di medicina a Bologna si era trasferito a Strasburgo per studiare le lingue antiche, presso Butzer, era un entusiasta della Riforma ed ammiratore di Erasmo e molto vicino a Lando, cfr. Grendler 1969, p. 25. Martin Butzer (o Bucer), 1491-1551, già domenicano alsaziano, era passato con Lutero sin dal 1518. Il suo pensiero teologico si caratterizzava per un certo sincretismo tra le idee dei cattolici e dei riformati e per una attitudine alla tolleranza sulle questioni dottrinali. Lando era in stretti rapporti con Butzer; nel 1535 era andato a Lione presso il tipografo calvinista Jean de Tournes, portando con sé lettere per il leader riformatore. 54 55 Grendler 1969, pp. 20-38. 56 Grendler 1969, pp. 104-108. Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Caterina Cybo (on line). 57 58 Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. M. Antonio Flaminio (on line). Nel fondo Passionei dell’Angelica risultano conservati i seguenti titoli: B. Ochino, Il catechismo o vero Institutione christiana (Basilea, P. Perna, 1561); R. Pole, Discorso di pace a Carlo V imperatore (Roma, A. Blado, 1555); R. Pole, Ad Henricum Octavium Britanniae regem (Strasburgo, W. Rihel, 1555); R. Pole, Liber de Concilio (Venezia, Ziletti, 1562); R. Pole, Reformatio Angliae (Roma, P. Manuzio, 1562); R. Pole, Epistola de sacramento Eucharistiae (Cremona, Ch. Draconium, 1584); C. de Longueil, Epistolarum libri quattro (Colonia, P. Horst, 1591). Lettere di molte valorose donne (Venezia, Giolito, 1548); Dialogo nel quale si ragiona della consolazione e utilità che si gusta leggendo la Sacra Scrittura (Venezia, Comin da Trino, 1552); Lettere della molto illustre sig. la s.ra donna Lucretia Gonzaga da Ga59 101 L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo zuolo con gran diligentia raccolte (Venezia, Scotto, 1552); Due panegirici nuouamente composti, de quali l’vno è in lode della S. Marchesana della Padulla et l’altro in comendatione della S. Donna Lucretia Gonzaga da Gazuolo (Venezia, Giolito, 1552). na Vigerio, nata Gastodengo, di nobile famiglia di Savona, era andata sposa a Stefano Vigerio, fratello del Vescovo Marco II, Governatore dello Stato di Urbino, e viveva a Montalboddo (oggi Ostra), vicino Senigallia. Lando è considerato il traduttore dell’edizione italiana dell’Utopia di Moro, edita nel 1548: La Repubblica nuovamente ritrovato, governo dell’isola Eutopia (…) opra di Thomaso Moro (Venezia, 1548). Cfr. Grendler 1969. 64 Lando 1553, p. 30. 65 Ivi, p. 78. 60 61 Lando 1553, pp. 15, 82, passim. 62 Lando 1553, p. 31. P. Aretino, Lettera al Sinigaglia (Marco II Vigerio della Rovere), in Il terzo libro delle lettere di M. Pietro Aretino (Parigi, Matteo il Maestro, 1609). Nella lettera in realtà Aretino si riferisce a due persone: a Ortensio e a un “nipote cavaliere” di Vigerio, rappresentati come particolarmente devoti al Vescovo, con un tono che sembrerebbe raccomandare entrambi presso di lui, oppure utilizzando l’affetto verso il congiunto per corroborare il possibile rapporto con Lando. È piuttosto probabile che questo cavaliere fosse Gherardo, deinito eques nell’orazione funebre di Gilio (cfr. nota 1). Marco Vigerio aveva infatti solo tre nipoti maschi: Gherardo, suo fratello Scipione e Urbano Vigerio, che poi gli succederà nella cattedra vescovile di Senigallia nel 1560 (Coadiutore “eletto” già dal 1550). Scipione era nato nel 1531 e Urbano nel 1533, erano dunque entrambi troppo giovani nel 1542 per poter essere accomunati con Ortensio Lando. Aretino sembra conoscere il congiunto di Vigerio: aveva vissuto a Roma nel 1520-21 e poi dopo il 1523, negli anni in cui la città fu frequentata anche da Cibo. Era stato amico di Raffaello, Bembo e nella cerchia di Leone X Medici che lo proteggeva, poi amico e cliente di Giulio de Medici e di Giovanni della Rovere, lo stesso ambiente frequentato dai Cibo. Quando Marcantonio Raimondi fu incarcerato perché aveva inciso, nel 1524, alcuni disegni erotici di Giulio Romano, i famosi Modi, dedicati alle posizioni erotiche, pensati originariamente come modelli per alcune decorazioni del palazzo Tè di Mantova, Aretino si adoperò per farlo scarcerare. Alcuni di questi disegni sono riprodotti nel taccuino forsempronese di Gherardo, forse di sua mano. I due quindi potrebbero ben essersi conosciuti. Nelle sue vite dei santi Aretino aveva celebrato la semplicità evangelica del Cristianesimo delle origini. Lando conosceva comunque i Vigerio. Una lettera attribuita a Caterina Vigerio sulle virtù del matrimonio (ma probabilmente scritta da Lando) compare nel suo libro Lettere di molte valorose donne (Venezia, Giolito, 1548, 1549; l’edizione 1549 è presente tra le opere nel fondo Passionei). Cateri63 Un altro indizio cospira nella direzione di un rapporto tra Lando e Cibo, come abbiamo visto in qualche relazione con Giulio Romano e gli eredi della scuola di Raffaello. Lando fu per qualche tempo, a metà del secolo, a Teglio, in Valtellina, presso la famiglia Besta, ispirando il ciclo iconograico degli affreschi del palazzo omonimo in base alle sue idee sulla tolleranza religiosa. Anna Travers, iglia di un calvinista di Zuoz, sposò infatti nel 1576 Carlo I Besta, che era invece di fede ortodossa. I pittori impiegati in questo ciclo decorativo, con storie ispirate ai temi ariosteschi e alle storie della creazione, furono Vincenzo e Michele de Barberis. Vincenzo aveva collaborato nel 1531 con Giulio Romano a Palazzo Tè e tutto il ciclo di Teglio rientra nello stile della sua scuola. Cfr. Galletti Mulazzani 1983, pp. 163-181; Bolzoni Girotto 2012, pp. 129-130. 66 N. Muratore, P. Munafò, Il fondo Cibo nella Biblioteca Angelica: contributo per una ricerca, in Nesselrath 1989a, pp. 55-58. Ulteriore evidenza che delle carte e dei libri di Gherardo siano tornate alla famiglia Passionei è la presenza presso la Biblioteca comunale “Domenico Passionei” di Fossombrone di diversi disegni di Cibo e del suo noto “taccuino”, cfr. Nesselrath 1993. 67 Angelo Rocca (1545-1620), probabilmente un trovatello cresciuto dai frati agostiniani, prese il nome dal luogo di nascita. Lavorò per molto tempo alla Tipograia vaticana e nel 1605 fu fatto Vescovo di Tagaste. Fu studioso degli alfabeti antichi, di storia delle biblioteche e grande collezionista di libri, che donò nel 1614 al convento di Sant’Agostino di Roma. Fece parte dell’Accademia dei dispersi, fondata a Rocca Contrada nel 1590. Cfr. Serrai 2004a. 68 Muzio 2000, libro II, p. 193. Muzio conosceva Lando, al quale aveva indirizzato una lettera (libro III delle Lettere). 69 Cfr. Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Girolamo Muzio (on line). Muzio divenne un teorico dell’arte e delle procedure del duello e sembra essersi occupato, sotto questo aspetto, di una vicenda capitata a un componente della famiglia Arduini, che era prevalentemente di militari; cosa che supporterebbe un rapporto anche con Cibo, che di Girolamo Arduini era amico. Cfr. 70 102 G. Muzio, Giustiicatione di G. Gaudenzio Arduini intorno alle cose passate al capitano Giovanni Maria Postumo, (s.i.l.), 1559. Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 34, 79-89. Per Ortelio, cfr. Mangani 1998, p. 169. Un’idea della visione religiosa e provvidenziale della natura di Cibo la si può dedurre da alcuni versi del suo amico Annibale Niccolini da Gubbio, che Cibo considerava particolarmente “cari” (cfr. nota 77), pubblicati nel suo De curativis, ac mittendi sanguinem scopis disputationes (Perugia, Pietro Giacomo Petrucci, 1591, p. 171): “Sommo fattor che con mirabil cura / con ininita providenza, e zelo / l’abisso, gl’animai, le piante, il cielo / gli elementi governi, e la natura. / Pregoti homai da me la nube oscura / dilegui, e squarci il tenebroso velo / che si m’offusca l’intelletto, e’l gelo / scacci, ch’ogn’hor più il cuor m’affredda e indura. / Tal ch’io possa al tuo grande obligo in parte / renderne gratie, e quel dovuto honore; con altri versi, e con più larga vena; / E fa ch’io senta una millesma parte / del dolce fuoco tuo, divino amore / come à Pietro facesti, è à Maddalena”. Sulla competizione arte/natura Cibo si sofferma nel Trattato della Miniatura (Ms Bibl. Capit., Verona, CCCCXXX-3, c. 85v). 71 Roberta Fano e Claudia Menna della Biblioteca Angelica, in un piccolo catalogo dattiloscritto di una mostra tenuta nel 1985 (Anthologia botanica 1985), elencano alcuni di questi titoli che, secondo Enrico Celani, anche in base a note di possesso e annotazioni a lui attribuibili, potevano essere appartenuti a Gherardo Cibo (non tutti fanno parte del fondo Passionei): Plinius, Historia naturalis (Venezia, N. Jenson, 1476); Hortus sanitatis (Magonza, J. Meydenbach, 1491); P.A. Mattioli, I discorsi (Venezia, Valgrisi, 1573); P.A. Mattioli, Commentarii (…) in libros sex Pedacii Dioscoridis Anazerbei (Venezia, Valgrisi, 1558); L. Fuchs, De historia stirpium (Basilea, Oficina Isingriniana, 1542); P.A. Mattioli, Il Dioscoride (Venezia, Valgrisi, 1548); Herbarum, arborum, fruticum (…) imagines, ad vivum recens depictae (Francoforte, Ch. Egenolph, 1552). L’Historia stirpium (Basilea, 1542) di Fuchs conservata alla Biblioteca Corsiniana di Roma, con coloriture delle xilograie e annotazioni, è stata attribuita da Lucia Tongiorgi Tomasi (1993) a Cibo e ci troviamo probabilmente di fronte al volume di studio di Gherardo negli anni di ritiro a Rocca Contrada. 72 Cfr. i disegni in forma di tondo al cat. nn. 114, 285. L’idea che si possa trattare di disegni per maioliche è stata proposta da Nesselrath (1989a, pp. 28-29). La bottega pittorica di Ramazzani, a Rocca Contrada, avrebbe attivato anche una produzione per maioliche, attività documentata in loco già da XV secolo. Girolamo Mannelli era proprietario di 73 Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’ una fabbrica di maioliche a Santa Maria del piano di Sassoferrato (cfr. Santini 2005b, pp. 44 e 46). 74 Il disegno con le olive e la relativa raccolta (British Library, Ms Additional, c. 182, cfr. ig. 162) assomiglia alla Giornata invernale di Brueghel (Vienna, Kunsthistorishes Museum). Le frequenti rocce squarciate da archi e buchi presenti nei disegni di Cibo sono simili agli “archi naturali” di De Bles, forse utilizzati come modelli da Brueghel, in particolare nella miniatura che egli eseguì, secondo De Tolnay 1965, per Giulio Clovio, nel Lezionario Towneley nel 1553. Nella miniatura la nave è simile a quella della Veduta del porto di Napoli di Brueghel alla Galleria Doria Pamphilj di Roma. 75 Cfr. ig. 1. Il rapporto Celidonia/rondini era confortato anche dalla credenza che questi uccelli avessero l’abitudine di stroinarne dei rametti sulle palpebre dei loro piccoli per far aprire loro gli occhi, a causa della virtù oftalmiche della piante celebrate negli erbari del Rinascimento (cfr. Cattabiani 1996, pp. 555-556). 76 Cfr. Bolten 1969. I due sonetti compaiono in calce al volume di Niccolini (morto nel 1636), De curativis, ac mittendi sanguinem scopis disputationes, Perugia, Pietro Giacomo Petrucci, 1591 (Sonetti del molto ecc.te Sig. Annibale Niccolini da Gubbio, p. 171). La pagina del quaderno cibiano con l’annotazione è riprodotta da Nesselrath 1993, ig. 249 (debbo questa informazione alla cortesia di Stefano Rinaldi). L’opera fu evidentemente inviata dall’autore a Gherardo fresca di stampa. Tra i libri del fondo Passionei dell’Angelica di carattere bucolico registriamo: A. Poliziano, Sylva (Basilea 1518); L’Arcadia annotata da M.F. Sansovino (Venezia, 1585); Teocrito, Boukolika (Firenze, 1515); G.M. Avanzi, Il Satiro, favola pastorale (Venezia, 1587); G.B. Guarini, Il verato secondo (…) in difesa del Pastor ido (Firenze, 1593). 77 78 Testamento dell’8.12.1599, Codice Ottoboniano 3135, c. 208v, Biblioteca Apostolica Vaticana; cfr. Urbanelli 1978-84, P. I, vol. II, p. 48, n. 61; Gieben 1975. Dopo una vita considerata esemplare, viene avviato il processo canonico di beatiicazione di Benedetto Passionei, nel 1630, conclusosi solo nel 1867, su iniziativa di Domenico e del fratello Gianfrancesco, Vescovo di Cagli. Per questa occasione fu probabilmente redatta la Vita scritta dal padre Lodovico della Rocca (Contrada), che ricorda la parentela con Gherardo, presentato come “uomo di molta sincerità e bontà”, e il ritratto afidato al pittore forsempronese Giovan Francesco Guerrieri, all’origine di una iconograia devozionale a stampa. È signiicativo che il nipote Marco, coerentemente con la spiritualità venata di Riforma che aveva lambito i 103 L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo Cappuccini sin dai tempi di Bernardino Ochino, sia costretto a chiarire la propria ortodossia per essere ammesso all’ordine, con la redazione di un saggio sul De libero arbitrio di Agostino, nel quale premette una lettera di pentimento dei suoi precedenti peccati. Cfr. Avarucci 2012, pp. 171-255. 79 Cfr. nota 60 per Lando; le opere I Marmi (Venezia, Marcolini, 1552-53); e I Mondi (Venezia, Marcolini, 1552-53), erano inluenzate dall’opera di De Guevara e di Moro. 80 Agostini 2004 (l’opera è rimasta inedita e manoscritta presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro ino a questa edizione) e Firpo 1957. 81 Cfr. Grendler 1969, pp. 164-165. Ubaldini Fanelli 1969 p. 74, nn. 131, 181; Sabbatino 2009, pp. 1-27. 82 L’argomento utopistico della “città felice” deve essere stato un tema caro anche a Urbano Vigerio della Rovere, che ereditò il vescovato di Senigallia dallo zio Marco Vigerio II nel 1560. Urbano era cugino di Gherardo. Il volume La città felice di Francesco Patrizi da Cherso, un classico dell’utopia rinascimentale, edito a Venezia nel 1553, si apre con una epistola dedicatoria indirizzata a lui, con il quale aveva studiato a Padova. Specularmente al progetto della “città giardino”, il Ducato dei della Rovere cercava di rappresentarsi, come ho cercato di analizzare nel mio Lo Stato Paesaggio. Città terre e castella del Ducato di Urbino, in Mangani 2012b, pp. 60-116, come una sorta di “Stato Paesaggio”, cioè come un insieme di città e di “meraviglie” legate in maniera bilaterale con il Duca. Invece di tentare la costruzione di uno stato organico, i della Rovere, nel timore di urtare la suscettibilità dei ponteici, di cui erano feudatari, contrari alla nascita di uno stato urbinate con possibili velleità autonomistiche, puntavano a una rappresentazione frammentata del Ducato come quella che si ricava dal codice Stati Dominii Città terre e castella dei serenissimi Duchi e Prencipi della rovere (1626), Ms 4434 della Biblioteca Apostolica Vaticana, messo a punto quando il Ducato stava tornando allo Stato Pontiicio per estinzione della dinastia roveresca. Il codice rappresenta tutto il territorio come un insieme di vedute urbane nel paesaggio e lo stesso Ducato con una carta d’insieme che privilegia la veduta prospettica dal mare, invece che una riproduzione cartograica dei vari distretti amministrativi. L’autore del codice, il pesarese Francesco Mingucci, era un pittore di animali e piante, al servizio degli Horti romani dei Barberini, cfr. Città e castella 1991. 83 84 Eiche 1995; su Scheper (Anversa 1558 ca – Casteldurante 1603) cfr. Leonardi 1993; Bottaccin 2012. Il Barchetto è rafigurato da Mingucci, cfr. ig. 28. Martui 2003-2004; Paccapelo 2012. 85 86 In una lettera del 21 giugno 1562 Cibo e Arduini si scambiano informazioni a proposito del colore della “rosetta” (Archivio di Stato di Firenze, Ducato di Urbino, Cl. I, Div. G, Filza 268, c. 87; cfr. Celani 1902, p. 42; Eiche 1993-2000). Il 27 settembre 1579 Arduini prende a prestito il “libro grande de’ paesi a penna” (come si evince dalla trascrizione dal diario perduto di Cibo fatta da Celani 1902, p. 10); nel 1586 procura per lui e il fratello Scipione due copie del volume Due libri dell’historia de’ semplici di Garzia dall’Orto, (Venezia, Ziletti, 1582), ancora nel fondo Passionei dell’Angelica, schedato da Gherardo tra i libri posseduti, in previsione di un passaggio di proprietà, nel 1597 (nota di possesso: “1586. Ghirardo Cibo: questo libro co(n) u(n) altro simile, ch’ vog... mio fratello lo ricevej d’... li 5 d(i) giugno 1586 mandat[om]i dal S.r Cavalier Gironimo Ardoino, portatomi da Paolo già hebreo:- jl costo dell’un[o è] paoli 5 1/2 ch’ t[r]a tutti dua sono Pa[ol]i ondici”. Sul verso del primo foglio di guardia anteriore nota ms.: “D(a)to jn lista ge(nna)ro 1597)”. Nel 1591 Arduini invia a Cibo un disegno di paesaggio del pittore iammingo Giovanni Scheper; rif. cat. n. 119). Il paesaggio marchigiano, dall’Arcadia di Cibo al ruralismo di Fabio Tombari e Paolo Volponi, è stato percepito in questa chiave con continuità. Alla fondazione dell’accademia dell’Arcadia, a Roma, nel 1690, troviamo una presenza signiicativa di agrari marchigiani che elegge uno di loro, il maceratese Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728), come principe. Su questo argomento cfr. il mio Le Marche giardino, in Mangani 2012b, pp. 31-116. 87 Su questo tema cfr. Bolzoni 2002; Pasquinelli 2012; Mangani 2012a. 88 89 P. Ridoli da Tossignano, Historiarum libri duo (1596), Ms, Biblioteca comunale Antonelliana, Senigallia. La raccolta fu messa assieme da Rocca e ovviamente conservata nella sua biblioteca; consta di novantadue piante e centottantasette descrizioni di città e paesi. Al momento del passaggio della Biblioteca Angelica allo Stato italiano, parte della documentazione rimase all’Archivio centrale degli Agostiniani. Oggi è possibile conoscere questa raccolta in maniera integrata grazie al lavoro svolto da Nicoletta Muratore e Paola Munafò, edito in Muratore Munafò 1991. 90 Lodovico della Rocca, Vita del beato Benedetto, in Avarucci 2012, pp. 217-255 (citazione a p. 219). 91 Bibliografia AA. VV. 1623 Erbolario, in Vocabolario degli Accademici della Crusca, 1623 AA. VV. 1975 Agazzi, Evandro, Cappelletti, Vincenzo, Geymonat, Ludovico, Grmek, Mirko Drazen, Quilico, Adolfo, Silvestri, Mario, Scienziati e tecnologi. Dalle origini al 1875, Milano, Mondadori, 1975, 3 voll. AA. VV. 1976a Amelia, in Enciclopedia Europea Garzanti, vol. 1, Milano, Garzanti, 1976 AA. VV. 1976b Istrice, in Enciclopedia Europea Garzanti, vol. 6, Milano, Garzanti, 1976 AA. VV. 1978 Il volto storico di Brescia, vol. 1, Comune di Brescia, Grafo, 1978, pp. 140-145 AA. 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La vendita avrà luogo in Parigi il giovedì 18 febbraio 1858 e nei giorni seguenti… Casa Silvestre, Bons Enfant 28, Bologna, presso Marsigli e Rocchi e Gaetano Romagnoli Libraj in Bologna - Parigi, presso J. Demichelis Libraio, 1858 Coturri 1975 Coturri, Enrico, Aldrovandi Ulisse, in Scienziati e tecnologi. Dalle origini al 1875, Milano, Mondadori, 1975, I, pp. 36-38 Cozza Luzi 1894 Cozza Luzi, Giuseppe, Il Paradiso Dantesco nei bozzetti di Giulio Clovio, Roma, Tipograia Sociale, 1894 Cristofolini 1991 Cristofolini, Giovanni, Luca Ghini a Bologna: la nascita della scienza moderna, in “Museologia scientiica”, n. 8, 1991, pp. 207-221 Dacos 1964 Dacos, Nicole, Les peintres belges à Rome au XVIe siècle. Etudes d’Histoire del ‘Art publiées par l’Institut Historique Belge à Rome, I, Bruxelles-Rome, Institut Historique Belge de Rome, 1964, pp. 49-87 Dacos 2001 Dacos, Nicole, Roma quanta fuit. 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III, Disegni dell’Otto e Novecento, Roma, Istituto storico dei Cappuccini, 1998 Webster 2008 Webster, Charles, Paracelsus, Medicine, Magic and Mission at the End of Time, New Haven, Londra, Yale University Press, 2008 Vanzolini 1864 Vanzolini, Giuliano, Guida di Pesaro, Pesaro, Nobili, 1864 Weddingen 1992 Weddingen, Erasmus, Una veduta dallo studio di Tintoretto a Venezia, in Case d’artista. Dal rinascimento a oggi, a cura di Eduard Hüttinger, Torino, Bollati Boringhieri, 1992 (ed. or. 1985), pp. 61-74 Vasoli 1975 Vasoli, Cesare, Gerolamo Cardano, in Scienziati e Tecnologi, Milano, Mondadori, 1975 Vecchietti 1790-1796 [Vecchietti, Filippo], Biblioteca picena o sia Notizie istoriche delle opere e degli scrittori piceni, Osimo, Quercetti, 1790-1796, 5 voll. Villani 2002 Villani, Virginio, L’età della Controriforma nella Marca e i suoi rilessi nel contesto politico e sociale di Rocca Contrada, in Matteucci 2002, pp. 21-34 Volpe 1983 Volpe, Gianni, Case-torri-colombaie. 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Goethes italienisches Museum; Zeichnungen aus dem Bestand der Graphischen Sammlung der Kunstsammlungen zu Weimar ergänzt durch seltene Antikenwerke der Herzogin-Anna-Amalia-Bibliothek Weimar, a cura di Hermann Mildenberger et al., catalogo della mostra (Weimar, Vaduz, München 1999-2000), Berlin, G+ H, 1999 Williamson 1921 Williamson, George Charles, Daniel Gardner, painter in pastel and gouache: a brief account of his life and works, Londra, Lane, 1921 Wilson 1984 Wilson, Edward, Biophilia: The human bond with other Species, Cambridge, 1984 Woolfson 1998 Woolfson, Jonathan, Padua and the Tudors. 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