Gherardo Cibo
Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Gherardo Cibo
dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Arte, scienza e illustrazione botanica nel XVI secolo
A cura di
Giorgio Mangani e Lucia Tongiorgi Tomasi
il lavoro editoriale
Pubblicazione edita con il contributo
dell’Assessorato alla Cultura della Regione Marche
della Fondazione Cassa di Risparmio
di Fabriano e Cupramontana
e del Comune di Arcevia
Nella pagina precedente
Fig. 1 - Gherardo Cibo, Celidonia minore (Ranunculus icaria)
Ms Additional 22332, British Library, Londra, c. 91
Il catalogo delle opere (pp. 131-206)
è stato redatto da Stefano Rinaldi
Traduzione degli abstract (pp. 333-337)
di Isabelle Riviere
© Copyright 2013 by il lavoro editoriale (Progetti Editoriali srl)
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Da Ulisse a Gherardo, una piccola odissea
Nota introduttiva
In un lucido saggio pubblicato nel lontano 1979 dal titolo Spie. Radici di un para-
digma indiziario, Carlo Ginzburg sosteneva che il metodo indiziario riesce a chiarire
momenti storici ino ad ora “muti”; un metodo che deve essere considerato non
ine a sé stesso, né inalizzato all’esclusivo piacere della scoperta, ma che risulta
valido in quanto permette di “decifrare”, di “leggere”, insomma di “capire” la
storia.
È quanto è successo alla appassionante vicenda che ha riportato in vita una igura
emblematica nella storia delle arti e delle scienze del Cinquecento, Gherardo Cibo,
del quale si era persa memoria, anche perché molte delle sue opere erano state
erroneamente attribuite ad altri personaggi.
Membro di una nobilissima famiglia che occupava posizioni di rilievo in molte
parti della penisola, pronipote di Innocenzo VIII, avviato ad una brillante carriera
ecclesiastica, ricco di numerose esperienze anche internazionali, irresistibilmente
attratto dal mondo delle scienza e dell’arte, a soli ventotto anni, nel 1540, Cibo,
divenendo marchigiano di adozione, aveva scelto di ritirarsi nell’amena cittadina
di Rocca Contrada (oggi Arcevia), dove per sessanta anni si dedicò liberamente e
serenamente alle sue passioni scientiiche e artistiche.
La storia delle ‘scoperte’ ha inizio ai primi del Novecento, allorché un nucleo di
disegni di ‘paesi’ alla iamminga, di erbari dipinti ed essiccati aveva cominciato ad
essere percepito come opera di uno stesso autore di cui non si conosceva ancora il
nome e perciò veniva attribuita a uomini di scienza o artisti nordeuropei già noti.
Contestualmente, anche alcuni trattati e scritti sul colore cui aveva atteso l’eclettico
personaggio subirono negli anni la medesima sorte e furono riferiti ad altre igure
storiche.
Era il 1902 quando Enrico Celani, bibliotecario dell’Angelica di Roma, studiando
alcuni documenti (erbari e libri botanici) conservati nella sua biblioteca e confrontandoli tra loro con intelligenza critica, additò alla comunità degli studiosi la igura
storica di Gherardo Cibo.
Il repertorio dell’opera di questo straordinario artista-scienziato venne poi arricchito negli anni Sessanta, allorché Jaap Bolten ne sintetizzò la personalità, aggregando un consistente corpus di disegni di paesaggio conservati in musei italiani e
stranieri, identiicandone tuttavia l’autore con Ulisse Severino, un marchigiano di
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Cingoli a cui lo stesso Cibo aveva donato alcuni dei suoi fogli di “paesi”, dei molti in suo possesso che andarono successivamente dispersi in numerose collezioni
e italiane e straniere, dalla londinese British Library alle biblioteche Corsiniana,
Alessandrina e Angelica di Roma e a quelle di Jesi, Urbania e Fossombrone, e nel
Museo di Ascoli Piceno.
La personalità e l’identità del personaggio emersero tuttavia con evidente chiarezza a seguito del reperimento da parte di Lucia Tongiorgi Tomasi di tre straordinari
codici miniati rinvenuti sul inire degli anni Ottanta del secolo scorso presso la
British Library e la Biblioteca Marucelliana di Firenze, anche perché l’autore aveva
voluto inserire l’immagine delle piante sullo sfondo di paesaggi, aggregando due
soggetti che ino ad allora erano stati considerati separatamente dagli studiosi.
Un primo consuntivo su questo personaggio fu offerto da una mostra organizzata nel 1989 da Arnold Nesselrath a San Severino Marche. I curatori del presente
volume avevano tentato, nel corso del decennio trascorso, di organizzare, anche
a seguito di ulteriori signiicative scoperte, una nuova e più complessiva esposizione atta a documentare in maniera esaustiva l’opera e la igura di questo ‘dilettante’ di botanica, paesaggista, miniatore esperto di pigmenti, ma anche generoso
ilantropo, grandemente apprezzato da rinomati uomini di scienza del tempo suoi
contemporanei. Ma poiché l’iniziativa non aveva negli anni riscosso interesse, si è
ritenuto opportuno offrire comunque un primo bilancio degli studi e delle notizie
acquisite su Gherardo Cibo, cercando di delinearne la non comune personalità
intellettuale e il complesso proilo scientiico e spirituale.
I saggi che scandiscono il presente volume illustrano pertanto, in una visione strettamente correlata, il Cibo artista e botanico (Tongiorgi Tomasi e Rinaldi), cercano
di ricostruire i suoi riferimenti culturali, religiosi e scientiici (Mangani), analizzano e rendono accessibili alcuni suoi manuali tecnici (Baroni, Bonizzoni, Mariani,
Mascherpa, Salvadori), pubblicando anche documenti e manoscritti inediti recentemente rinvenuti. Il volume è inoltre corredato da un saggio di catalogo (a cura di
Stefano Rinaldi) dei disegni e da un dizionario biograico (a cura di Lucio Tribellini) relativo a personaggi noti e meno noti che furono con lui in stretto contatto.
Pienamente consapevoli che la ricerca su Gherardo Cibo sconta la pesante diaspora internazionale dei disegni, alcuni dei quali continuano a comparire nelle aste,
oltre che la scarsissima documentazione biograica giunta ino a noi (ad esempio
risulta grave la perdita di un diario, di cui sono noti solo alcuni stralci che abbiamo voluto riproporre), ci è parso comunque utile raccogliere in questo volume,
insieme ad alcune suggestioni interpretative, un apparato documentario, che rivela anche l’inaspettata vivacità culturale di una piccola città del Ducato di Urbino
come Rocca Contrada nella seconda metà del XVI secolo. Cibo, anzi, si rivela come
una sorta di capostipite, nella storia artistica delle Marche, di una ininterrotta attenzione per il paesaggio già notata anche da Federico Zeri. Un ilo rosso che lo
unisce all’urbinate Federico Barocci, disegnatore e pittore ‘ossessionato’ dal palazzo ducale feltresco, al pesarese Francesco Mingucci, al durantino Anton Francesco
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Gherardo Cibo: un percorso tra arte e scienza
Peruzzini, all’anconitano Francesco Foschi, ino ad arrivare, in età contemporanea,
al cuprense Luigi Bartolini, alla scuola incisoria urbinate rappresentata da Renato
Bruscaglia, ino all’ascolano Tullio Pericoli.
La pubblicazione è stata resa possibile dal sostegno della Regione Marche e della
Fondazione Cassa di Risparmio di Fabriano e Cupramontana, ma anche dall’appassionata collaborazione di tutti gli autori e collaboratori. In particolare ringraziamo, oltre alle Biblioteche che hanno cortesemente autorizzato le riproduzioni (i
Musei Civici di Ascoli Piceno, la Biblioteca e Museo civico di Urbania, la Biblioteca
Angelica di Roma, la Biblioteca “Domenico Passionei” di Fossombrone, la Biblioteca Planettiana di Jesi, la Biblioteca “Romolo Spezioli” di Fermo). Un particolare
ringraziamento va ad Aboca Edizioni di Sansepolcro, Therese O’Malley del “Center for Advanced Study in the Visual Arts” della National Gallery of Art di Washington, Kathleen Doyle e David Way della British Library di Londra, Olga Raffo,
direttrice dell’Archivio di Stato di Massa, Danielle Canter, Gigetta Dalli Regoli,
Fabio Garbari, Margaret Morgan Grasselli, Giuseppe Olmi, Maria Luisa Passeggia,
Paola Roncarati e Alessandro Tosi.
Settembre 2013
Giorgio Mangani
Lucia Tongiorgi Tomasi
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
di Giorgio Mangani
1. La formazione: architettura e giardino umanistico
Di Gherardo Cibo sappiamo pochissimo e forse non è un caso, come cercherò di
spiegare.
Non ci aiuta molto l’elogio funebre scritto dal concittadino rocchense Marco Gilio,1
che lo ritrae secondo gli schemi retorici del nobile guerriero che si ritira a Rocca
Contrada dopo aver difeso la fede cristiana in una sorta di romitaggio dedito alle
opere pie e alla conciliazione delle dispute civili, come un cavaliere medievale.
Degli interessi scientiici non vi è cenno nella apologetica biograia di Gilio, che
riesce a presentare in termini eroici anche l’operato di papa Innocenzo VIII, capostipite delle fortune dei Cibo.
Gherardo vi viene presentato come esempio di nobiltà e probità: mores, consilia,
actiones, sinceritas, probitas sono gli epiteti che lo contraddistinguono in questo ritratto. Gli altri elementi biograici sono quelli che hanno già ispirato le diverse,
laconiche ricostruzioni biograiche sinora pubblicate. Il giovane Gherardo avrebbe
partecipato alle campagne militari della pianura padana e di Bologna del 1529, al
seguito di Francesco Maria I della Rovere, allora Capitano generale delle milizie
della Chiesa; sarebbe poi stato alla corte di Carlo V, nel 1532, assieme al padre
Aranino, per una missione “familiare” legata a una proposta di matrimonio per
Giulia Varano, sua cugina, e poi, nel 1539-40, in Germania, al seguito del Cardinale Alessandro Farnese, per una nuova missione presso Carlo V e il re di Francia
Francesco I.
Gilio fa riferimento a una adolescenza vissuta a Roma e a una formazione rivolta
alla carriera ecclesiastica, interrotta dal Sacco di Roma, che costringe Gherardo a
riparare a Camerino, presso Giovanni Maria Varano, che aveva sposato sua zia
Caterina Cibo.
Anche se la formazione di un ecclesiastico poteva, all’epoca, avere alcuni punti di
contatto con quella militare, peraltro coltivata in famiglia, l’orientamento del giovane Gherardo dovette avere qualche mutamento in itinere perché, dopo il Sacco,
lo troviamo, a seguire la biograia giliana, al seguito delle campagne militari di
Francesco Maria II della Rovere nella Gallia Cisalpina e poi con Alessandro Farnese nelle spedizioni repressive delle insorgenze protestanti, “non postremi ordinis
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Fig. 14 – Albero
genealogico della
famiglia Cibo, dal
Simolacro dell’antichissima et nobilissima Casa Cybo di
Alfonso Ceccarelli (1572), Ms 510,
Archivio di Stato
di Massa, Massa
Carrara
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
eques (…), nullo stipendio aut mercede conductus, sed solo tuendae religionis desiderio ductus”.
Queste informazioni fornite da Gilio, che era un professore di retorica, sembrano
francamente poco attendibili. Una lettera del Vescovo Marco II Vigerio della Rovere, zio di Gherardo, del 6 marzo 1531, lo presenta all’erede Guidubaldo della Rovere piuttosto come un pittore e possibile collaboratore dell’architetto Gerolamo
Genga; e lo fa con un tono che sarebbe fuori luogo nel presentare un giovane che
aveva partecipato, fosse pure come gregario, alla campagna lombarda di Francesco Maria I, tra il 1528 e il 1530.
“Viene il Signor Aranino Cibo mio cognato per dedicar Ghirardo suo igliolo et
mio nipote in eterna servitù cum l’Illustrissimo Signor vostro patre et cum Vostra
Signoria. Supplico quella vogli per amor mio vedere l’uno et l’altro volentieri et
quantunque io l’habi dato per servitore al Signor Illustrissimo non penso mancho
averlo dato a lei, però la si degnerà tenerlo anche per servitor suo et servirsene
senza un rispetto al mondo, ché la mi farà gratia singolarissima, persuadendomi li
debia esser grato non essendo in tutto nudo di alcuna bona qualità, tra le quale ha
il disegnare, ché quando non harà il Gengha apresso, venendogli una voglia più
che un’altra di fogie, potrà di esso valersene, così d’ogni altra cosa che la retroverà
in esso a servitio suo”.2
Le spedizioni repressive dell’eresia protestante cui sembra riferirsi Gilio avvennero nelle Fiandre, in realtà, nel 1579-85, sotto l’impero di Filippo II, e videro come
protagonista un altro Farnese omonimo, Alessandro (1545-1592), più giovane; è
quindi molto probabile che Gilio abbia fatto un po’ di confusione circa le esperienze militari di Cibo.
Gherardo fu invece probabilmente, nel 1532-34 – come si ricava da alcune note
che scrisse molto tempo dopo nella sua copia del Dioscoride (1573) di Pietro Andrea Mattioli3 – insieme al padre Aranino, presso la corte di Carlo V, allora a
Ratisbona, su mandato degli zii Innocenzo Cibo, cardinale, e Caterina, duchessa
di Camerino, con l’incarico di comunicare all’imperatore l’indisponibilità di Giulia Varano, iglia di Caterina ed erede del Ducato, al matrimonio con il iglio di
Carlo di Lannoy, già vicere d’Italia, per il quale l’aveva chiesta in sposa. Giulia
era stata infatti già promessa a Guidubaldo, cui non casualmente Marco Vigerio
si era rivolto per l’ammissione a corte o come collaboratore del duca del giovane
Gherardo.
Nel 1539, invece, il Cardinale Alessandro Farnese, detto il grande, anche lui nipote
di Paolo III, si era recato in Germania, insieme al suo segretario Marcello Cervini,
con il mandato diplomatico di comporre i dissidi tra l’imperatore Carlo V e il re di
Francia Francesco I, proponendo un matrimonio tra la iglia di Francesco I e l’imperatore, rimasto vedovo.4
Questa missione diplomatica, che offrì a Gherardo l’occasione per conoscere paesaggi e specie botaniche del nord Europa e probabilmente lo stile artistico caratteristico delle Fiandre, partì da Roma il 28 novembre 1539, attraversò la Francia,
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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raggiunse Parigi e Amiens, per poi incontrare l’imperatore a Gand il 23 febbraio
1540, dove il cardinale rimase ino a maggio, per poi rientrare a Roma.
Un’altra annotazione di Gherardo, scritta in tarda età sul suo Dioscoride, riferisce di
un’escursione botanica e mineralogica avvenuta probabilmente nel 1534 ad Agnano, presso Pisa, e fa pensare a un periodo passato presso lo zio Lorenzo Cibo (cugino di Aranino), marchese di Massa, ritiratosi colà proprio quell’anno.5
Una cesura nel percorso biograico di Gherardo fu però il 1540, quando il Ducato
di Camerino venne trasferito per volontà di Paolo III a suo nipote Ottavio Farnese,
sottraendolo all’erede Giulia Varano, che aveva nel frattempo sposato Guidubaldo
della Rovere.
La rottura tra Caterina Cibo e la Curia romana determinò la diaspora di gran parte
della famiglia. Caterina, dopo essersi trasferita presso i della Rovere, si ritirò a Firenze; il fratello Giovanni Battista se ne andò in Francia. Gherardo si stabilì a Rocca
Contrada, nella diocesi dello zio Marco Vigerio II, cessando ogni attività politicodiplomatica e forse sperando in qualche impiego.63 Qui era, infatti, già vissuto da
ragazzo e vi rimase sino alla morte, avvenuta il 30 gennaio 1600, impegnato nelle
frequenti attività beneiche di cui parla l’elogio funebre.
Poche informazioni quindi, in parte sbagliate e in parte dedotte da appunti e riferimenti spesso casuali, scritti in tarda età, sul ilo della memoria.
Di Gherardo Cibo si parla inoltre piuttosto come di persona sincera e semplice,
sempre pronta alle opere di bene, ma molto raramente, e solo in documenti privati,
viene fatto riferimento alle sue ricerche botaniche, chimiche e mineralogiche, per
molti versi pionieristiche, sempre ben documentate, e alla sua abilità nel disegno e
nella rappresentazione paesaggistica.
È proprio questo carattere intimo e privato del personaggio, tuttavia, a rappresentare e in parte spiegare il mondo nel quale Gherardo si muove e i suoi possibili
punti di riferimento culturali.
L’abilità nel disegno, che Gherardo condivideva con il padre Aranino, militare di
professione come il fratello Scipione,6 faceva parte delle doti del cortigiano e del
comandante militare, specie dopo le innovazioni introdotte nella tecnica bellica
legate all’impiego delle bocche da fuoco e delle conseguenti modiiche dell’architettura difensiva; un campo nel quale i Montefeltro/della Rovere avevano creato,
tra Urbino e Pesaro, una vera scuola di architettura militare.
Ma in Gherardo Cibo c’è qualcosa di più; c’è uno sguardo verso la natura, scientiico e artistico insieme, del tutto originale, che abbiamo cercato di ricostruire da
sparsi indizi e lacunosi documenti, lavorando soprattutto sul signiicato di certe
coincidenze e sulle ipotesi. Ma, pur trattandosi di un ragionamento analogo a un
processo indiziario, la quantità e qualità delle coincidenze e dei riscontri ci consente di tentare di ricostruire un proilo meno vago del personaggio, cercando di
entrare nel suo mondo.
L’elogio funebre di Gilio ci informa che l’educazione di Gherardo sarebbe avvenu-
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
ta a Roma (“Traduxit hic puerilem aetatem et adolescentiam Romae, ut optimum
moribus, et disciplinis, in quibus non parum profecit, imbutus”).7 Lui era probabilmente nato a Genova intorno al 1512, ma il padre Aranino, dopo aver sposato
Bianca Vigerio, sorella del Vescovo di Senigallia Marco Vigerio II, subentrato nel
vescovato a suo zio Marco I nel 1513, si era trasferito in quel periodo con la famiglia a Rocca Contrada, città della diocesi.
La giovinezza di Gherardo si svolse quindi, probabilmente, tra Rocca Contrada
e Roma, città nella quale i Cibo avevano un palazzo nel quartiere di Borgo, dove
oggi sorge la piazza San Pietro.
La famiglia Cibo non era costituita da persone in odore di santità, né facilmente disponibili ad arrendersi di fronte alle avversità, tuttavia coltivava l’arte e la cultura.
Aveva fatto fortuna con l’elevazione al soglio pontiicio di Giovanni Battista Cibo,
papa Innocenzo VIII, genovese, con alle spalle una vita da libertino e molti igli, dei
quali solo due riconosciuti: Franceschetto e Teodorina. Il cerimoniere del Conclave
che lo aveva eletto, Giovanni Burcardo (Johannes Burckardt), lo descriveva chino
su un forziere a irmare cambiali ai cardinali che gli avrebbero dovuto dare il voto.
Come scriveva il poeta di origini greche Michele Marullo Tarchianota, Otto bastardi
e otto fanciulle Nocente (Innocenzo) / ha generato e giustamente Roma può chiamarlo /
padre della patria. Dei due igli riconosciuti (gli altri si facevano passare per nipoti),
Franceschetto, nominato Governatore di Roma e fatto sposare a Maddalena de’
Medici, iglia di Lorenzo, si faceva pagare per condonare i reati insieme al cognato, il genovese Gherardo Usodimare, che era Tesoriere di Santa Romana Chiesa e
aveva sposato Teodorina.8
Innocenzo passerà alla storia come l’iniziatore del costume di vendere le cariche
ecclesiastiche e per la persecuzione delle streghe.
Il iglio di Franceschetto, Lorenzo Cibo, sposò Ricciarda dei Malaspina, signori di
Massa e Carrara. Teodorina e Gherardo Usodimare ebbero cinque igli: Aranino,
padre di Gherardo, Giovanni Battista, Francesco, Peretta e Battistina.
Aranino era Conte del sacro palazzo lateranense e durante il periodo in cui fu duchessa di Camerino la cugina Caterina, era stato per qualche tempo custode della
rocca dei Varano; era abile nel disegno e buon suonatore di liuto, come il iglio
Gherardo.9
La cugina Caterina Cibo, iglia di Franceschetto, andò sposa nel 1520 a Giovanni
Maria Varano, molto più vecchio dei lei (del quale rimase vedova nel 1527), e fu
protagonista di una continua resistenza agli attacchi, anche militari, promossi dagli altri rami della famiglia Varano che rivendicavano il diritto di eredità del feudo.
Compito che Caterina esercitò sempre con notevole energia e determinazione non
priva di crudeltà. Ma, contrariamente alle abitudini del tempo, era stata educata
nelle lettere greche, latine e pare anche ebraiche; era protettrice di letterati e di personalità animate da una spiritualità vicina alla cosidetta devotio moderna, venata da
sentimenti vicini alle eresie riformate, come quella di Juan de Valdés, Bernardino
Ochino, Marcantonio Flaminio, Pietro Carnesecchi, tutti suoi amici.
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
Fig. 15 – Domenico Luigi Valeri, Ritratto di Caterina Cybo (sec. XVIII), olio su tela, Pinacoteca civica, Camerino
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Suo fratello Innocenzo, divenuto cardinale a soli ventiquattro anni, nel 1513, era
amante della bella vita e spregiudicato nelle relazioni diplomatiche. Dal nonno
papa aveva ereditato, oltre al nome, anche la passione per le donne; sembra che
fosse l’amante della cognata Ricciarda Malaspina, sposata al nipote Lorenzo Cibo.
Volendo eliminare isicamente il cardinale Salviati nel 1535 perché nemico del duca
Alessandro de’ Medici di Firenze, suo alleato, pensò di avvalersi dell’aiuto del poeta e cortigiano Francesco Berni, devoto e forse innamorato della sorella Caterina,
per avvelenarlo. Ricevuto un riiuto, sembra che lo abbia fatto avvelenare a sua
volta per questo motivo. Nel 1522 il cardinale aveva anche rischiato un processo
per aver fatto probabilmente assassinare Sigismondo Varano, bellicoso pretendente del Ducato di Camerino.
Durante il Conclave del 1534 risulta che Innocenzo avesse tentato di utilizzare il
Ducato di sua sorella come merce di scambio per una possibile elezione papale,
promettendo la nipote Giulia a diversi pretendenti; circostanza che probabilmente
ebbe qualche cosa a che fare con la missione di Aranino e di Gherardo alla corte
di Carlo V per rappresentare all’imperatore l’intenzione di Caterina di tenere fede
alla promessa fatta a Guidubaldo della Rovere.
Dietro questo atteggiamento spregiudicato, il cardinale era però anche amante
dell’arte. Aveva avuto come precettore Giuliano da Camerino, esponente dei circoli umanistici romani; nel 1519 offrì un memorabile allestimento de I Suppositi di
Ariosto, a Roma, con le scenograie di Raffaello in onore del papa, e, nel 1530, a
Mantova, fu lui ad accompagnare l’imperatore Carlo V a palazzo Tè e ad illustrargli i signiicati della Sala dei venti affrescata da Giulio Romano.
Cresciuto in questo ambiente, in contatto con la zia Caterina, presso la quale Gherardo si rifugia, nel 1527, durante il tragico Sacco di Roma, Gherardo può avere
appreso l’arte del disegno e della musica dal padre Aranino, ma potrebbe avere
approittato del precettore dello zio cardinale, Giuliano da Camerino, professore
di lingue classiche, che risiedeva a casa di Innocenzo dal 1523 e fu poi ricordato da
Pierio Valeriano nel suo De litteratorum infelicitate (ambientato nel 1529, ma pubblicato postumo nel 1620) per essersi buttato dalla inestra durante il Sacco per paura
di venire torturato dai Lanzichenecchi.10
Il collegamento con Giuliano, per quanto ipotetico, è strategico perché ci consente
di spiegare alcune caratteristiche degli interessi culturali coltivati dal giovane Gherardo nei suoi anni romani.
Giuliano faceva parte, infatti, del circolo umanistico creato a Roma da Johann
Göritz, detto Corycius, Protonotario apostolico. Göritz aveva acquistato una villa
presso il foro di Traiano, dove ospitava incontri poetici e dibattiti umanistici. Il
nome latino che aveva adottato richiamava il Corycium antrum del monte Parnaso
(che Raffaello aveva dipinto nelle Logge Vaticane), considerato anticamente magico e fonte di ispirazione poetica. Ne facevano parte Pietro Bembo e Iacopo Sadoleto, Alessandro Farnese, poi papa Paolo III, Egidio da Viterbo, Angelo Colocci,
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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Marco Maffei, Baldassarre Castiglione, il poeta anconitano Marco Cavallo, Giulio
Lascaris, tra i migliori amici di Colocci, Celso Mellini, procuratore a Roma di Caterina Cibo.11
Se si ricostruisce la iliera delle relazioni di amicizia e di contatti di questo ambiente intellettuale romano, negli anni della formazione di Gherardo Cibo, si scoprono
singolari e probabilmente non casuali coincidenze, per noi preziose.
Varino Favorino, camerte (era nato a Pieve di Favera, presso Camerino), letterato
famoso per aver pubblicato il primo dizionario di greco nel 1523, aveva studiato
con Angelo Poliziano ed era stato maestro di Angelo Colocci.
Varino si occupava a Roma degli interessi dei Varano. Nel 1520 aveva siglato per
loro conto un accordo con il cugino pretendente al titolo del feudo camerte. Nel
1515 era stato presente all’incoronazione a duca di Giovanni Maria Varano, a Camerino, insieme al Cardinale Innocenzo Cibo; titolo che Varino aveva caldeggiato
presso la Curia romana a nome dei Varano. Nel 1528, inine, divenne Governatore
di Fabriano, carica che era stata tenuta da Innocenzo nel 1515, segno di una certa
alleanza politica; nel 1521, allora Vescovo di Nocera Umbra, fece nominare Colocci
suo coadiutore per poi lasciargli il vescovato.12
Un’altra famiglia nobile romana legata ai Cibo frequentava questo genere di circoli
culturali legati alla rinascita dell’antico; argomento che non va slegato dalle strategie di propaganda e affermazione politica del tempo: i Mellini.
Mario Mellini aveva sposato Ginevra Cibo, pronipote di papa Innocenzo VIII. Il
iglio Pietro è un letterato che frequenta Caterina Cibo nei suoi soggiorni romani, e
sembra ne fosse l’amante, ma è anche suo luogotenente a Camerino nel 1532-33 e
segue i suoi interessi a Roma.13
Il fratello Celso è protagonista di un famoso certame retorico-poetico con il
belga Christophe de Longueil circa la superiorità degli antichi o dei moderni.
Mellini sosteneva ovviamente il primato della romanità, spalleggiato da Pierio
Valeriano, che è amico dei Mellini (è a casa Mellini che viene infatti ambientato il suo dialogo De litteratorum infelicitate dove troviamo diversi personaggi
probabilmente frequentati da Gherardo a Roma), mentre il belga quella dei
moderni.
Longueil era uno studioso di antichità, amico di Pietro Bembo e di Reginald Pole,
ma aveva anche raccolto una ricca biblioteca di testi di botanica e zoologia antica,
poi ereditata da Pole, a sua volta messa a punto acquistando opere che erano state
di Niccolò Leoniceno, maestro di Luca Ghini, che fu il probabile professore di botanica di Gherardo a Bologna.14
Nel 1526 Pole, studente a Padova, si era trasferito a Bologna per seguire le lezioni
di Romolo Quirino Amaseo. A Padova, Pole aveva studiato con Giovanni Battista
Cibo, facendo parte della stessa brigata di amici, e con Marcantonio Flaminio, letterato con una sensibilità religiosa di tipo riformato, frequentatore, insieme a molti
altri intellettuali del genere, del circolo di Vittoria Colonna, amica e sodale, a sua
volta, di Caterina Cibo.
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 16 – Tiziano Vecellio e bottega, Ritratto di Giulia Varano della Rovere (sec. XVI), Galleria Palatina, Firenze
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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Fig. 17 – Agnolo di Cosimo Tori detto Bronzino, Ritratto di Guidubaldo della Rovere (1531-32), olio su tavola, Galleria
Palatina, Firenze
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Interessi antiquari, teoria dell’architettura, arte del disegno, coltivazione del giardino umanistico inteso come luogo dell’otium, della meditazione e dello studio
sono il minimo comune denominatore dei personaggi e dei circoli che Gherardo
può avere dunque frequentato a Roma.
Tra questi è probabilmente centrale la igura dello jesino Angelo Colocci, del quale
Giuliano da Camerino era un cliente, anche lui componente del sodalizio umanistico di Göritz.15
Divenuto Segretario apostolico nel 1511, Colocci era diventato uno dei personaggi più importanti e di riferimento per lo studio dell’architettura antica di Roma.
Sembra che si debba a lui l’ampliamento degli interessi dell’Accademia Romana
di Pomponio Leto ai temi scientiici, ancorché antiquari, della misurazione, delle
proporzioni e dei signiicati delle costruzioni antiche, che Bramante e Raffaello
avevano cominciato a studiare.
Legato a Marco Fabio Calvo, con il quale poi collaborerà alla nuova traduzione di
Vitruvio commissionata da Raffaello, che avrebbe dovuto essere pubblicata illustrata, Colocci aveva anticipato gli argomenti vitruviani nella lettera di Raffaello
a Leone X sull’architettura, che, secondo Ingrid D. Rowland, fu in parte scritta da
lui.16 Angelo fu anche grande amico di Fra Giocondo da Verona, che aveva curato
una precedente edizione di Vitruvio, nel 1511.
Colocci aveva allestito nei suoi Horti, in un’area oggi prossima alla fontana di Trevi,
dopo aver acquistato casa e giardini proprio da Pomponio Leto, una delle prime
collezioni di antichità di Roma. In questi Horti colocciani, che rivaleggiavano con
quelli antichi di Sallustio, si svolgevano alcuni incontri dell’Accademia Romana dedicati ai temi dell’umanesimo, ma anche alla geometria, l’astronomia, il metodo per
misurare le distanze e levare mappe, cui Colocci era particolarmente interessato.
Colocci, anzi, era noto a Roma sopratutto per questi interessi e un poeta della Antologia coryciana, legata all’accademia di Göritz, Caius Silvanus, lo deinì in alcuni
versi come “studioso delle distanze tra le città”.17
In questo ambiente si coltivava il tema della coerenza tra la tradizione antica pagana e la cultura cristiana, che Raffaello aveva celebrato nella Stanza della Segnatura
vaticana. In questo clima, il culto mariano, rilanciato dai francescani e da Sisto IV,
era stato piegato a forme che riprendevano i temi arcadici della favola pastorale
in forme che possono essere esempliicate da opere come il De partu virginis (1526)
di Iacopo Sannazzaro, che trattava l’argomento religioso entro un paesaggio paganeggiante.
Colocci aveva conosciuto Sannazaro a Napoli ed era anche lui, come il circolo di
Göritz, cultore dei temi arcadici. Sembra tuttavia che i rapporti tra Göritz e Colocci
si siano poi interrotti negli anni del pontiicato di Adriano VI, papa contrario al
revival umanistico e antiquario, forse per piaggeria, quando Göritz, caduto in disgrazia, fu deinito da Colocci come una specie di Lutero.18
Misurazione dei monumenti e progettazione architettonica, arte di fare rilievi e
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
57
mappe erano comunque, in quel periodo, strettamente connesse al signiicato rappresentato dal giardino umanistico e proprio nei giardini di Colocci era stata impiantata, nell’ambito di una nuova accademia dedicata alla tradizione greca, una
tipograia che pubblicò, tra le altre cose, gli Idilli di Teocrito.19
Colocci è dunque un punto di riferimento per diversi aspetti degli interessi giovanili di Gherardo, intorno al quale si muovono alcune personalità legate ai Cibo:
Varino Favorino, Giuliano da Camerino, i Mellini, Marcantonio Flaminio, ecc.
D’altra parte componenti della famiglia Colocci, insieme ai Mannelli, compaiono
tra le più ristrette frequentazioni di Gherardo negli anni successivi al ritiro a Rocca
Contrada.20
Un “messer Ipolito” è frequente suo accompagnatore nelle escursioni paesaggistiche e naturalistiche tra Marche e Umbria e, secondo Jaap Bolten, sarebbe da identiicare con Ippolito Colocci, nipote di Angelo. Ma potrebbe anche essere un Ippolito
Mannelli, testimone al battesimo della iglia del pittore di Rocca Contrada Ercole
Ramazzani, nel 1575, allievo di Lorenzo Lotto, protetto da Gherardo Cibo. Ippolito
Colocci dovrebbe essere Ippolito II, nipote dell’Ippolito, cugino di Colocci, che acquisì le sue proprietà romane. Amante della vita solitaria come Gherardo, Ippolito
II Colocci pubblicò una raccolta di Rime spirituali di diversi autori edita a Perugia da
Baldo Salviani nel 1576.
In ogni caso i Colocci e i Mannelli erano fra loro parenti; Flaminio Mannelli fu, negli anni della vecchiaia, tra i più intimi di Gherardo e testimone al suo testamento.
Anche lui aveva probabilmente una sensibilità tollerante e di cultura erasmiana;
era stato infatti in amicizia con Caterina de’ Medici nel periodo vissuto in Francia
e, anche in questa circostanza, i Cibo debbono aver pesato qualche cosa, visto che
Caterina Cibo era stata tra le dame che avevano accompagnato Caterina alla corte
di Enrico II. Un altro Mannelli, Girolamo, aveva ricevuto, nel 1546, dallo zio Angelo Colocci il vescovato di Nocera Umbra (trasmesso a sua volta ad Angelo, come
ricordato, da Varino Favorino, cliente dei Varano-Cibo), nelle proprietà del quale,
a volte, Gherardo si recava ad erborizzare insieme ai suoi amici.21
Profondamente connesso con il progetto dell’architettura rinascimentale, il giardino era in quel periodo assai più che un modo per ricreare l’atmosfera classica
degli Horti sallustiani di Roma o dei giardini dell’Accademia; era un paradigma
urbanistico e politico.
Lo stesso Göritz fece costruire dei giardini nella sua villa presso il foro di Traiano,
nel 1512, ispirati al Parnasus dipinto da Raffaello nei palazzi vaticani e sono di
questi anni la costruzione della villa suburbana voluta da Agostino Chigi a Roma,
decorata da Raffaello, e il progetto bramantesco di creare una “seconda Roma” in
forma di giardino lungo il Tevere.
Costruire ville suburbane e rustiche aveva assunto, in questo periodo, la funzione
di ripristinare il modello più puro dell’architettura romana antica.
Si era diffusa l’idea, infondata, che lo stile della villa suburbana corrispondesse
58
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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Figg. 18, 19 – Disegni di architettura dal taccuino posseduto da Gherardo Cibo (1531 ca), Biblioteca Civica Passionei, Fossombrone, cc. 2r, 17v
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
alla forma più pura dello stile romano antico. La villa, celebrata da Petrarca e da
Alberti, era pertanto diventata il luogo classico della discussione dotta. Nella villa
medicea di Careggi Marsilio Ficino aveva creato l’Accademia Platonica, ricevendo
da Cosimo Medici anche un’altra piccola residenza extraurbana nei suoi pressi,
chiamata Academiola. Angelo Poliziano era andato ad abitare nella villa iesolana
dei Medici per scrivere le Sylvae (1478); vi scrisse nel 1483 anche il Rusticus, a imitazione delle Georgiche di Virgilio, ma era anche cultore di piante vere, che coglieva
inviandone dei campioni a Leoniceno. In queste ville si svolgono i primi dibattiti
sui temi neoplatonici nei quali gli argomenti botanici vengono trattati in stretto
collegamento con la simbologia mitologica ed ermetica delle piante, come avviene
nell’apparato simbolico della Primavera di Botticelli.22
Con i ponteici medicei, questa sensibilità raggiunge e conquista Roma. Oltre la
metà del secolo XVI, Anton Francesco Doni descrive le caratteristiche che debbono avere le ville, trattando un tema ormai di moda, e Ortensio Lando, suo amico
(e forse compagno di studi di Gherardo a Bologna), radicalizza il tema retoricoumanistico della vita solitaria arrivando a sostenere la necessità di abbandonare
ogni luogo sociale. Insomma, negli anni che anticipano la Riforma cattolica, la villa
umanistica assume il connotato più religioso e meditativo del romitaggio monastico.23
L’interesse per l’architettura antica si era legato subito alla progettazione del giardino botanico anche nel pensiero di Pietro Bembo. Ciò avviene concretamente a
Padova, dove viene allestito uno dei primi orti botanici, afidato a un intellettuale
che aveva curato una edizione di Vitruvio (1569): Daniele Barbaro, amico di Bembo. Ed è probabilmente proprio Bembo a introdurre Gerolamo Genga alla progettazione della villa suburbana.24
Intorno a Pietro Bembo, Alvise Cornaro, dilettante di architettura anche lui, utilizza il modello di villa Madama per progettare con l’architetto Giovanni Maria
Falconetto il giardino e la loggia della sua casa di Padova, visitata dai duchi della
Rovere nel 1525, durante il loro forzato esilio, che la utilizzano come modello per
il loro nuovo palazzo pesarese e le loro ville.25
Già dal 1522-23 Genga, infatti, era stato incaricato della progettazione della villa
L’Imperiale di Pesaro (ig. 31), secondo un progetto di architettura/natura ispirato
probabilmente proprio da Bembo, per volontà della duchessa Eleonora Gonzaga,
moglie di Francesco Maria I della Rovere, concepito come luogo di ricreazione e
riposo del guerriero. Nel 1530-32 l’architetto è impegnato nella progettazione della
decorazione pittorica dell’Imperiale, alla quale, secondo Vasari, collaborano, fra gli
altri, Bronzino, Raffaellino del Colle, Francesco Menzocchi, Camillo Mantovano.
Ed è in questo periodo che lo zio di Gherardo, Marco Vigerio II, scrive a Guidubaldo (promesso sposo di Giulia Varano) per presentare suo nipote Gherardo come
possibile aiutante di Genga e pittore di vedute loreali, al centro della decorazione
dell’Imperiale; “ché quando non harà il Gengha apresso, venendogli una voglia
più che un’altra di fogie, potrà di esso valersene”.26
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
61
Per quanto non sia documentata la presenza di Gherardo all’Imperiale, la lettera
del 1531 dimostra che i Cibo, padre e iglio, erano al corrente degli impegni di
Genga nel ciclo decorativo della villa pesarese e consente di valutare la possibilità
che il giovane, fresco degli studi botanici bolognesi, possa aver almeno seguito
l’attività degli artisti impegnati nella decorazione.
Nel 1531, Gherardo potrebbe infatti aver seguito le lezioni di Luca Ghini a Bologna, dove la famiglia Cibo si era trasferita dal 1529 circa, al seguito del Cardinale
Innocenzo.
Gli specialisti sono concordi nel considerare in questo ciclo decorativo la mano
di alcuni allievi di Raffaello e di Giulio Romano, come Camillo Capelli, detto il
Mantovano, collaboratore di Giulio, e di Raffaellino del Colle, che aveva fatto parte
dell’equipe impegnata con l’Urbinate, nel 1519-24, nella decorazione delle Logge
Vaticane.27
Un altro pittore presente all’Imperiale, Camillo Capelli detto il Mantovano, quasi
coetaneo di Gherardo, specializzato in paesaggi e decorazioni loreali inserite nella decorazione dell’Imperiale come creazioni artistiche di autonomo valore, quasi
delle nature morte, sembra particolarmente afine al gusto di Cibo.
Una lettera da Fossombrone del 7 dicembre 1546 di Giulia Varano attesta che Capelli continuò a lavorare per la famiglia ducale anche dopo, sotto la direzione di
Genga. Anche Capelli fu collaboratore di Giulio Romano al Palazzo Tè di Mantova.28
All’Imperiale risultano quindi attivi almeno due artisti collegati alla scuola di Raffaello e al suo più diretto erede Giulio Romano.
Alla sua morte, nel 1524, Giulio Romano aveva lasciato in eredità a Raffaellino
alcune dotazioni e attrezzature della sua bottega, ed è all’anno 1533 che, sia pure
a memoria, Gherardo riferisce di aver acquisito (per acquisto o per copiatura da
un originale) il suo famoso taccuino, oggi conservato nella Biblioteca civica di Fossombrone, contenente bozzetti e schizzi di architettura che egli attribuisce a Giulio
Romano, deinito “meritevole d’ogni laude”, e che fanno parte, secondo gli specialisti, del programma di illustrazioni progettato per l’edizione della traduzione latina dell’architettura di Vitruvio commissionata da Raffaello a Marco Fabio Calvo,
nella quale aveva avuto certamente un ruolo Angelo Colocci.29
Nel periodo in cui Gherardo fu al servizio del Cardinale Farnese si possono collocare alcuni incontri che sembrano piuttosto probabili e signiicativi.
Giulio Clovio, miniaturista croato venuto in Italia nel 1516, era stato per molto
tempo al servizio del Cardinale Domenico Grimani.30 Personaggio di profonda spiritualità, con una venerazione per Michelangelo e per Giulio Romano (in onore del
quale aveva scelto di chiamarsi Giulio), Clovio aveva raggiunto Romano a Mantova, dove era impegnato con i Gonzaga, dopo essere stato fatto prigioniero dai Lanzichenecchi, e si era fatto monaco del locale monastero di San Rufino; frequentò
poi, di nuovo a Roma, la marchesa Colonna, amica di Caterina Cibo.
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 20 – Giulio Clovio, Processione del Corpus Domini, dal Libro d’ore Farnese (sec. XVI), Pierpont Morgan Library,
New York, cc. 40v-41r
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
63
Fig. 21– Gherardo Cibo, Veduta di Rocca Costanza (Pesaro) sul fondo della riproduzione dello Scinco, da I discorsi
di M. Pietro Andrea Matthioli (Venezia, 1568), per il duca Francesco Maria II della Rovere, Biblioteca Alessandrina,
Roma, p. 387
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Presso il cardinal Grimani (che era stato, dal 1514 al 1523, Vescovo di Urbino), anche lui vicino per sensibilità ai circoli spiritualisti in odore di eresia, Clovio aveva
potuto vedere e studiare una ricca collezione di pittori iamminghi con opere di
Dürer, Memling, Bosch, e lui stesso possedeva opere di Brueghel il Vecchio, con
il quale ebbe occasione di collaborare negli anni in cui il pittore iammingo fu a
Roma.31
Dei contatti reciproci di questo ambiente fa testimonianza un famoso dialogo di
Francisco de Hollanda nel quale compaiono la marchesa Vittoria Colonna, Michelangelo, Clovio e un misterioso predicatore (che qualcuno aveva pensato di identiicare con Bernardino Ochino, già generale dei Cappuccini); qui Michelangelo
esprime la sua famosa teoria che le vedute dei ‘paesi’ iamminghe piacciono soprattutto alle donnette e sono espressione di una fede interiore.32
Clovio entrò poi, nel 1538-39, al servizio del Cardinale Alessandro Farnese il vecchio, per il quale eseguì il famoso Libro d’ore, espressione di un impiego delle immagini architettoniche e paesaggistiche di grande rafinatezza e complessità teologica, ispirato alle teorie innovative di Francisco de Quinones. Il cardinal Quinones era parente di Carlo V ed era stato Generale dei Francescani dell’Osservanza.
Nel 1527 aveva fatto da mediatore tra Carlo V e Clemente VII rinchiuso a Castel
Sant’Angelo. Erasmiano, aveva proposto modiiche alla lettura del breviario, accentuando il peso dei vangeli per ripristinare l’antica devozione del Cristianesimo
delle origini, ma la sua riforma fu piuttosto contestata e rigettata poi nel 1556.33
Seguendo questo modello, Clovio trasferisce nel libro d’ore alcuni valori legati all’
“età dell’oro” coltivati già da Giovanni Pontano e Iacopo Sannazzaro a Napoli e
dai poeti vicini all’antologia Coryciana, in rapporti con Raffaello e Michelangelo.34
Vi si alternano paesaggi ideali con vedute di grande realismo, ispirate alle tecniche
dell’arte della memoria cosidetta “locativa”, capaci di muovere l’emozione e la partecipazione interiore del lettore/orante. I giochi di Carnevale al Testaccio, per esempio, o la Processione del Corpus Domini (ig. 20) vengono rappresentati con grande
realismo del paesaggio locale, secondo lo stile della predicazione dell’Osservanza
francescana del XV secolo, che utilizzava la descrizione di paesaggi urbani noti ai
lettori e agli uditori per favorire l’apprendimento e il radicamento mentale dei loro
messaggi.35 Come ormai acquisito dagli studi, Clovio fu poi in rapporto, a Roma
nel 1553 (un periodo nel quale risulta che anche Gherardo Cibo fosse nella capitale), con Peter Brueghel. Charles de Tolnay ha identiicato nel Lezionario Towneley di
Clovio, realizzato in quel periodo (1550-53), due miniature che dovrebbero essere
state dipinte da Peter Brueghel il Vecchio. Clovio era referente dei pittori olandesi e
nordici a Roma e deve aver sicuramente incontrato Brueghel, del quale possedeva
due miniature, come documentato dal suo testamento.36
Sembra abbastanza dificile che un artista con la sensibilità di Gherardo, al servizio
del cardinal Farnese negli stessi anni, con un interesse per il paesaggio e la miniatura così vicino alla maniera del nord, e una simile sensibilità evangelica, venata di
eresia, non abbia avuto contatti con Clovio e magari anche con Brueghel, conside-
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
65
rato che la presenza di Gherardo a Roma è documentata almeno nel 1540 e 1553.37
Clovio può essere stato anche il tramite di Cibo con il pittore iammingo Michiel
De Gast, perché De Gast sembra avesse utilizzato un disegno di Clovio per una
sua opera. Questo De Gast è l’autore di una incisione (Porta San Giovanni, Biblioteca Passionei, Fossombrone, ig. 22) appartenuta a Gherardo che ha rappresentato
per molto tempo l’unico documento capace di provare un rapporto tra il pittore
rocchense e l’ambiente romano dei iamminghi inluenzati dal “romanismo” di
Maarten van Heemskerk.
In effetti De Gast fu attivo a Roma dal 1538 al 1556. Dal 1544 al 1555 fece parte
dell’Accademia di San Luca, dopo aver cominciato la sua esperienza come decoratore di ville romane producendo grottesche e paesaggi di piccole dimensioni, che
fu forse il primo a dipingere. 38
Ma De Gast era anche riuscito a integrare l’interesse per le rovine romane e per
il disegno di architettura con quello per i paesaggi più ideali, scoscesi, silvani e
montani, come alcuni “tondi” con Il re David in un paesaggio con rovine, e la Maddalena in un paesaggio luviale con rovine (ig. 23), recentemente attribuitigli da Nicole
Dacos, anch’essi molto in sintonia con alcuni disegni di Cibo, il carattere privato e
“meditativo” dei quali è confermato dal fatto che erano probabilmente montati su
dei mobili.
De Gast, Clovio e Brueghel potrebbero quindi aver trasmesso a Gherardo la sua
caratteristica vocazione a una originale sintesi tra paesaggio in chiave realistica e
attitudine meditativa, tipica dei paesaggi iamminghi, che già Michelangelo considerava espressione di un senso devozionale popolare.
Questo tipo di emozioni era in genere afidato a pitture da cavalletto, di piccole dimensioni e portatili, o montate su mobili, come i citati tondi di De Gast. Nell’ambiente ducale dei Montefeltro una funzione analoga, per quanto laica, era stata introdotta
probabilmente dalle “città ideali” oggi a Urbino, Baltimora e Berlino, originariamente montate come decorazioni di “lettucci” collocati nella biblioteca ducale.39
2. La questione delle immagini botaniche
Nel lungo viaggio compiuto, nel 1532-34, con il padre Aranino, alla corte di Carlo
V per questioni familiari e dinastiche, Gherardo ha avuto modo di conoscere i paesaggi del nord, via Trento e Ingolstadt, ma anche di raccogliere le sue prime informazioni sulle erbe che, nel frattempo, erano entrate nel novero dei suoi interessi.
A questo proposito dovette essere decisivo l’incontro con Luca Ghini a Bologna,
nel periodo 1528-32. La gran parte degli studiosi ha considerato questo incontro
molto probabile, anche se non documentato, per la grande afinità che lega il modo
di operare di Gherardo negli studi botanici con quello inaugurato e messo a punto
da Ghini nel suo insegnamento bolognese e a Pisa.
Allievo probabilmente di Niccolò Leoniceno, che era stato professore a Bologna nel
66
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 22 – Michiel De Gast, Veduta di Porta San Giovanni (sec. XVI), acquaforte appartenuta a Gherardo Cibo (che vi
sovrascrive “Di M[aest]ro Michil Gast iandroso”). Biblioteca civica Passionei, Fossombrone, Disegni, vol. 4, c. 54
Fig. 23 – Michiel De Gast, Maddalena in un paesaggio luviale con rovine (sec. XVI), olio su tavola, Collezione privata,
Monaco del Principato
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
67
1504-24, Luca Ghini vi aveva cominciato a insegnare la medicina, nel 1527, in maniera del tutto nuova rispetto alla “lettura” accademica medievale, con particolare
attenzione per lo studio dei “semplici” e dei rimedi medicamentosi.
La sua permanenza all’Università felsinea, dal 1527 al 1544, fu caratterizzata da
diversi contrasti con l’autorità, forse per questioni di compensi, e nel 1536-39 la
vertenza giunse a motivare il trasferimento di Ghini a Fano, dove andò a esercitare
la professione medica.
Dopo aver cercato di creare a Bologna un giardino di semplici a supporto del suo
insegnamento, che non gli fu concesso costringendolo ad utilizzarne uno privato,
Ghini si trasferì a Pisa a insegnare, dove creò il primo orto botanico europeo.40
Caratteristica del lavoro di Ghini è il ribaltamento a favore dell’osservazione diretta dello studio dei semplici, l’attenzione inedita per la pianta come “oggetto di
natura” e non solo come strumento terapeutico, l’analisi delle diverse “specie”,
l’interesse per la creazione degli orti botanici per lo studio “in vivo” delle piante,
recupero di una pratica medievale monastica, ma che passa attraverso la mediazione culturale ed epistemologica del giardino umanistico, inteso come “teatro
della memoria” fondato sulle immagini e sulla loro capacità euristica.
Accanto alla creazione degli orti botanici, Ghini fu uno dei primi a mettere a punto
la tecnica per la preparazione dell’erbario secco, che Gherardo sembra avere seguito, se gli erbari che gli si attribuiscono sono davvero suoi.
Accanto a questa innovazione, Ghini, come succedeva per i più avanzati studiosi
del tempo, non solo in ambito scientiico, aveva costruito una rete di relazioni e
corrispondenze della quale dovette far parte anche Gherardo.41
Questa ampia rete di rapporti è signiicativa anche sul piano teorico, perché rivela
una nuova attenzione per le “diversità” delle specie locali che si accompagnava
anche alla considerazione dei saperi più diversi, spesso empirici, portati alla ribalta da informatori altrimenti ignoranti, introdotti nel sapere uficiale da donne
e dilettanti, interessati prevalentemente e prevedibilmente all’impiego delle erbe
nella cucina, nella medicina e nell’uso quotidiano.
Un corrispondente marchigiano di Ulisse Aldrovandi, massima autorità botanicozoologica di Bologna, allievo di Ghini anche lui, Costanzo Felici, scrivendogli una
lunga Lettera sulle insalate, ribadiva questo concetto nel 1565-72: la cultura alimentare
(come la scienza dei semplici) nasce dalla consuetudine e all’uso dei territori.42
Di qui, come aveva già scritto Dioscoride (I,1), ripubblicato da Pietro Andrea Mattioli, amico ed estimatore di Gherardo, la necessità di studiare le piante in tanto che
sono vive, per considerarne le mutazioni, la variazione delle foglie in quanto oggetti
naturali vivi. L’attenzione per l’habitat era di conseguenza essenziale e questa è la
motivazione scientiica che Gherardo segue nel rappresentare le sue piante dipinte entro il loro paesaggio speciico (paesaggio geograico, ma anche temporale, per
i riferimenti inseriti nei suoi disegni alle stagioni e al periodo della ioritura), con
l’appunto stenograico dei riferimenti alle condizioni astronomico-astrologiche del
campione al momento della sua riproduzione o asportazione dal terreno.43
68
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
La conquista di questa consapevolezza della trasparenza e attendibilità scientiica
delle immagini, che gli studi positivistici di storia della botanica tendono a descrivere come un naturale processo di affrancamento dalla tradizione medievale ed
aristotelica, fu però un processo lento e piuttosto faticoso; né si può considerare
l’attenzione per l’osservazione soltanto come l’inesorabile ascesa dell’empirismo
contro il dogmatismo. Molti fattori e non tutti di carattere eminentemente scientiico concorsero a rendere possibili queste acquisizioni, e la igura di Gherardo Cibo
è particolarmente signiicativa sotto questo proilo perché sembra rappresentare
molto eficacemente questa complessità, sia per la sua condizione di nobile prestato agli studi, sia per il rapporto che gli interessi scientiici avevano con la sua
sensibilità di artista e di devoto.
L’impiego dei documenti botanici in vivo, di quelli raccolti negli erbari secchi o
riprodotti a disegno o stampa divenne infatti centrale intorno alla metà del secolo
XVI, proprio negli anni successivi al ritiro di Cibo a Rocca Contrada.
Qui stavano probabilmente la novità introdotta da Ghini nel suo insegnamento e,
in qualche misura, la causa di una certa, costante tensione tra lo studioso e il Senato bolognese, amministratore dell’Università, che cercava di contenere evidentemente l’atteggiamento antidogmatico, rivolto al confronto della tradizione con
quanto emergeva dalle specie che egli andava trovando nei suoi viaggi naturalistici, come quello all’Elba o al monte Baldo compiuto insieme ai suoi allievi e amici
Alpago, Anguillara, Aldrovandi e Calzolari e da quelle che i suoi corrispondenti
gli facevano pervenire da diversi luoghi e che Ghini, a sua volta, offriva ai suoi
colleghi, come fece con Fuchs.44
Questa operazione, nelle scienze botaniche, era stata avviata da Niccolò Leoniceno, cui si deve l’impiego critico della casistica e della morfologia a lui contemporanee nella identiicazione e comprensione delle piante ricordate dagli autori antichi.
Come era emerso nella polemica sulla scarsa attendibilità di Plinio il Vecchio intercorsa con Pandolfo Collenuccio,45 Leoniceno intendeva utilizzare la conoscenza
delle specie contemporanee per identiicare il signiicato dei nomi botanici antichi,
nello stesso modo in cui Erasmo aveva restaurato la pronuncia del greco classico
della lettera eta (l’etacismo, cioè analoga alla nostra e, che in età bizantina si leggeva i) a partire dal belare delle pecore, trascritto da Aristofane con bh.
Elaborato come sistema ilologico critico, il confronto venne poi esteso allo studio
scientiico. Leonhart Fuchs per esempio, che aveva studiato con Leoniceno ed è in
contatto con Ghini, riprese negli Errata (1530) questo argomento.
La rivoluzione sperimentale dei botanici rinascimentali come Ghini non era infatti
per una tabula rasa; intendeva piuttosto sviluppare un nuovo metodo critico capace
di integrare le informazioni della tradizione antica con i dati sperimentali, ampliicati dalla rete delle corrispondenze scientiiche. Il principio era esempliicato a
livello individuale dall’abitudine del naturalista di confrontare le specie incontrate
nei propri viaggi di ricerca con le informazioni riportate nei volumi e nei repertori
o con quelle annotate nei propri diari.
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
69
Gherardo deve essere stato assai vicino a questo modello epistemologico, assai simile a quello di Fuchs, e si ritrae all’aperto intento a confrontare le proprie scoperte
con le documentazioni riportate dal libro che tiene in mano (ig. 25).
Restituire autorevolezza al libro della natura, per un riformato come Fuchs, già
monaco agostiniano, appariva evidentemente un analogo del progetto luterano di
riportare al centro della fede la sacra scrittura e di renderla il più possibile accessibile.
In questo sforzo, Fuchs, e nel suo solco Gherardo, avevano però dovuto confrontarsi con il problema della legittimazione del documento iconograico e con quello
della riproduzione a stampa.
La prima questione stava nella dificoltà con la quale la scienza aristotelica concepiva il fondamento delle proprietà esteriori delle piante, considerate come accidenti e quindi non annoverabili come oggetti di scienza. La scienza poteva fondarsi
su una tassonomia che comprendeva generi, differenze e proprietà, non gli accidenti,
come sembravano essere le caratteristiche speciiche visibili che i botanici individuavano nelle diverse piante da loro catalogate.46
In questa operazione di mutamento del paradigma epistemologico, la Riforma
aiutò Fuchs, che impiegò la retorica di Rodolfo Agricola (De invenzione dialectica,
1479), adottata da Melantone nel nuovo sistema formativo scolastico riformato,
che prevedeva l’ammissibilità scientiica degli accidenti nativi, e quindi prevedibilmente permanenti, dei quali si poteva fare scienza (anche se si parlava per lo più
di Historia).
La cosa fu ovviamente contestata da chi non si discostava dalla logica aristotelica e
quindi nutriva forti sospetti sulla capacità documentaria e probante delle immagini; un problema, come è noto, che si protrasse ino ai tempi di Galilei.
Il clima teso del dibattito imponeva quindi un metodo di riproduzione che consentisse la massima afidabilità e la capacità di documentare anche le fasi evolutive
della pianta, le sue parti, i suoi colori e profumi in quanto oggetto vivo. Queste
immagini, che Brian W. Ogilvie ha deinito “panottiche”, Fuchs le deinì absolutissimae.47
Come ha notato Sachiko Kusukawa,48 però, alcune informazioni potevano essere
solo richiamate alla memoria di un lettore informato, in quanto non sempre visibili. Questo sistema comunicativo “esperto” creò un metodo nuovo di lettura e di
scrittura, una specie di codice già sperimentato nella tradizione ilologia alessandrina, caratterizzato dal continuo confronto tra dati empirici congiunturali e di tradizione, anche recente, favorendo l’abitudine di intervenire con glosse, correzioni,
integrazioni e schizzi personali sui volumi di altri autori posseduti, trasformandoli
in una sorta di diari personali; abitudine seguita frequentemente da Cibo.
Un altro dettaglio essenziale era il colore, la cui resa fedele era impedita dalle tecniche di stampa; di qui la grande attenzione alla coloritura “scientiica” delle piante
praticata da Gherardo nei repertori a sua disposizione scritti da altri.
Grazie a questo apparato logico-iconograico, i documenti botanici potevano es-
70
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
sere diffusi a un pubblico allargato. Nel 1545 Fuchs aveva pubblicato infatti una
edizione in ottavo del suo Stirpium historia con l’intenzione di favorire un generale
sforzo di documentazione e ricerca delle varie specie grazie all’apporto di studiosi
e cultori della materia che avrebbe poi dovuto essere sistematicamente confrontato. Nel 1543 aveva pubblicato un’altra edizione in folio del suo libro, sempre illustrata ma in tedesco, rivolta a rendere accessibile il proprio lavoro a un pubblico
più vasto anche dal punto di vista culturale, fatto di persone di media cultura e di
dilettanti, ancora una volta sul solco dello stile luterano.
Con questo allargamento editoriale e scientiico, la botanica era nel frattempo diventata una scienza moderna e autonoma: non era più solo una disciplina ausiliaria della ilologia classica.
Lo sforzo dei sistematici come Fuchs e Gessner, e poi di Aldrovandi a Bologna, era
dunque fondato sulla capacità delle immagini di offrire informazioni accurate e
attendibili. Dietro questo lavoro epistemologico e scientiico agiva però anche una
iducia, che risale alla elaborazione iciniana del platonismo, circa l’abilità umana
di comprendere le strutture profonde, le leggi regolative del creato e la capacità
delle immagini di trasferire informazioni attendibili, che risaliva alla scienza stoica
antica, ma era stata integrata nella tradizione neoplatonica successiva.
Questa tensione era del tutto analoga all’ambizione che i protestanti e le sensibilità
religiose eterodosse avevano sviluppato per trovare una forma di comunicazione
diretta e individuale con dio.
A Bologna, nella seconda metà del secolo, fu l’Accademia di Achille Bocchi, chiamata Accademia Hermathena, a tentare di costruire questa nuova piattaforma epistemologica capace di dare un signiicato fondativo alle immagini scientiiche.49
Ma Bocchi, autorevole personalità dell’establishment bolognese, fu anche amico e
protettore di eterodossi come Marco Antonio Flaminio e Camillo Renato, fu legato
ai circoli spirituali del cardinal Pole e di Ludovico Beccadelli, tutte personalità che
abbiamo già incontrato negli ambienti legati ai Cibo; pur frequentando l’accademia anche fautori dell’ortodossia come Gabriele Paleotti, l’inquisitore Leandro Alberti e il Cardinale Alessandro Farnese, sotto la protezione del quale l’istituzione
era stata posta.
Di questa accademia fecero parte Luca Ghini, Romolo Quirino Amaseo, Ulisse
Aldrovandi e Andrea Alciati, tutti professori all’ateneo di Bologna. L’obiettivo
era, nel solco delle enciclopedie in odore di magia e di ermetismo come il teatro
della memoria di Giulio Camillo, ed elaborando alcuni temi degli Emblemata
di Alciati e dei Hieroglyphica di Pierio Valeriano (anche lui legato a Bocchi),
costruire una “philologia symbolica” capace di rappresentare non solo le apparenze della natura, come contestavano gli aristotelici a chi utilizzava le immagini come strumenti euristici, ma persino le sue strutture profonde. Immagini, quindi, come quelle “panottiche” di Fuchs, capaci di dare conto di leggi
e processi sottostanti all’apparenza; igure come le mappe, espressione di un
alfabeto iconograico sistematico che le rendeva testi e icone al tempo stesso,
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
71
come già accadeva con le carte geograiche e gli atlanti anatomici; oppure come
gli emblemi, spesso paragonati alle mappe, nei quali testo e immagine erano
strettamente e intimamente connessi ai ini della comprensione di signiicati
complessi.50
3. Empirismo scientiico ed evangelismo eterodosso
L’incontro tra Carlo V e Clemente VII a Bologna fu un evento di grande notorietà.
Avveniva dopo gli orrori e le umiliazioni del Sacco di Roma e assunse anche il
signiicato di un evento di paciicazione. Con questa sfumatura fu percepito dalla
gran parte di quelle personalità, anche del mondo ecclesiastico, che sostenevano
un atteggiamento più liberale e tollerante rispetto alle sensibilità religiose che si
andavano manifestando e che, con la scomunica di Lutero nel 1521, avevano incrinato l’Europa cristiana.
Molti di questi “riformatori” furono attivi protagonisti del Concilio di Trento e
interpreti del tentativo di rilancio della fede promosso dalla Riforma cattolica; ma
altri presero altre strade, tollerate dalla gerarchia romana solo ino al 1540 circa e
poi decisamente represse.51
In mezzo a questo conine osmotico si era formata la cultura e la sensibilità religiosa di Gherardo Cibo. Di essa partecipavano molti personaggi che ebbero contatti
con la sua famiglia e quasi tutti furono presenti a Bologna al grande evento mediatico.
Il Cardinale Innocenzo ne fu in qualche modo il regista e il responsabile organizzativo per l’incarico che aveva avuto, dal 1528, di Legato pontiicio a Bologna. Con
lui era gran parte della famiglia, come spesso era successo. Lorenzo, suo nipote e
cugino di Gherardo, fu incaricato di portare lo stendardo della Chiesa nel corteo
solenne che conduceva l’imperatore e il papa a San Domenico, vestito di un saio
d’oro. Con lui era il fratello Giovanni Battista Cibo.
C’erano anche Pietro Bembo, Francesco Maria I della Rovere e monsignor Angelo
Colocci; c’era Ortensio Lando, che fu probabilmente collega studente di medicina
con Gherardo. È molto probabile che ci fosse anche Gherardo e abbia avuto occasione, in quel periodo, di frequentare le lezioni bolognesi di Luca Ghini.
L’oratore uficiale dell’incontro solenne fu Romolo Quirino Amaseo (1489-1552),
professore di retorica all’ateneo felsineo sin dal 1524, che tenne l’orazione dal signiicativo titolo: De pace.
Amaseo aveva avuto, in momenti diversi, come allievi a Bologna, Alessandro e
Ottavio Farnese (nel 1524, su pressione dei Farnese, era andato a insegnare anche a
Roma alla Sapienza); e poi Reginald Pole, Cristoforo Madruzzo, che sarà Vescovo
di Trento, Cosimo Gheri, che diverrà Vescovo di Fano, Ortensio Lando, Francesco
Rebortello, Camillo e Gabriele Paleotti, Goropio Becano, Ludovico Beccadelli.52
Tra le numerose personalità che Gherardo può avere incontrato a Bologna, una si
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 24 – Il corteo imperiale per l’incoronazione di Carlo V a Bologna, 24 febbraio 1530, da Il trionfo dell’imperatore
Carlo V, acquaforte di Nicolas Hogenberg, 1530 ca, Biblioteca e Museo Civivo, Urbania, particolare con i vessilli
imperiali e della Chiesa e i cappellani papali
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
distingue per afinità, anche se, diversamente da lui, vissuta in maniera radicale,
aggressiva ed errante, ed è proprio Ortensio Lando.
Anche in questo caso, non abbiamo che alcuni indizi e molte coincidenze sulle
quali far conto, ma relativamente suficienti per prendere in considerazione un’afinità e una inluenza che possono essere state signiicative.
Ortensio era probabilmente coetaneo di Gherardo; deve essere nato anche lui intorno al 1512 (in un’opera del 1552, il Vari componimenti (Venezia, Giolito), scrive
infatti che aveva quarantadue anni). Nel 1538 entrambi erano a Bologna; Lando nel
monastero degli Agostiniani, col nome di Geremia, studiava retorica con Amaseo,
e forse teologia e medicina. In diverse circostanze viene deinito, o si deinisce, infatti, persona che ha studiato la medicina e la teologia (ma forse senza completare
gli studi). Nel 1529, tuttavia, aveva lasciato il monastero e si era sposato.
Che abbia studiato con Ghini anche lui non è solo probabile per via della contemporaneità della sua presenza a Bologna con gli anni di Gherardo; sembra un
percorso abbastanza naturale per uno studente che aveva avuto, come lui stesso
dichiara,53 come precettore di lingua greca e latina, a Milano, Celio Rodigino (che
infatti vi insegnò tra 1511 e 1516), a sua volta allievo di Leoniceno a Ferrara, maestro di Ghini, che può averlo indirizzato a Bologna. Lando fu inoltre in rapporto
con Giovanni Angelo Odoni, fratello di Cesare Odoni, allievo e successore di Ghini
nella cattedra bolognese, anche lui studente di medicina a Bologna (dove si laureò
nel 1554), il quale risulta amico dell’eretico Camillo Renato; entrambi facevano
parte del cenacolo spiritualista bolognese di Ernesto Renato che seguiva le teorie
riformate dell’ex domenicano passato ai luterani Martin Butzer, presso il quale
Odoni andò a vivere a Strasburgo.54
Lando cambiava frequentemente nome (Geremia da Milano, Ortensio Tranquillus,
Filarete di Utopia, ecc.). A Bologna aveva studiato con un altro eretico, Camillo Renato, che aveva la stessa abitudine (tra i suoi nomi: Fileno Lunardi, Lisia Phileno,
ecc.) e si muoveva, itinerante, tra i luoghi che avevano adottato la fede “rhetica”
come la Valtellina – dove anche Ortensio fu nel 1542 – e i suoi dintorni come Chiavenna, località dove erano andati a riparare i pastori riformati Francesco Negri
e Agostino Mainardi, noti agli storici della Riforma. Camillo aveva cominciato a
Napoli come francescano, avvicinandosi anche lui, come Caterina Cibo, Vittoria
Colonna e Giulia Gonzaga, al pensiero e alle omelie di Juan de Valdés.
Lando era sempre alla ricerca di qualche protettore e sostenitore dei libri e libelli,
sempre molto polemici, che pubblicava a ianco di altri piuttosto cortigiani, sul
solco dell’evangelismo e dell’erasmismo ancora tollerati; quando non si dichiarava
esplicitamente sostenitore di Lutero in Italia, come si deinisce in una lettera del
1529 al borgomastro riformato di San Gallo, Vadianus, anche lui medico.55
Nel 1534 è a Lione, dove lavora come collaboratore di tipograie, poi nel 1535 a
Lucca, dove celebra l’ambiente spirituale tollerante e vicino alla Riforma che anima la sua compagnia. Poi forse in Germania; ancora a Venezia, in Svizzera, ad
Augsburg nel 1544-45 presso Fugger, cui dedica I sermoni funebri. Nel 1545 si lega
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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al Vescovo di Trento Cristoforo Madruzzo; nel 1548, ino al 1552, riceve la protezione di Lucrezia Gonzaga, in un ambiente che respira la spiritualità di Valdés e
Flaminio.
Nel 1554 le opere di Lando furono registrate tra i libri proibiti, costringendolo a un
ultimo, doloroso periodo di miseria.
Uno dei massimi studiosi di Lando, Paul Grendler56 ha deinito “evangelismo”
questo insieme di sensibilità che accomunava Vittoria Colonna, Juan de Valdés, il
cardinal Contarini, Pietro Bembo, il cardinal Pole, il Cardinale Sadoleto, Lucrezia
Gonzaga, Ortensio Lando, Anton Francesco Doni e probabilmente anche Gherardo
Cibo e sua zia Caterina.
Gherardo era cresciuto infatti in un ambiente “libertino” dal punto di vista della
sensibilità religiosa. Un ambiente borderline, se non decisamente afine alle sensibilità riformate che si registrano in Italia in quegli anni in contesti spiritualisti, che
per un po’ di tempo pensarono di poter esercitare questa libertà all’interno della
fede romana.
La zia Caterina Cibo, che deve aver esercitato qualche peso nella formazione di
Gherardo, come la sua amica, la marchesa Vittoria Colonna (iglia di Agnese di
Montefeltro e quindi collegata direttamente con i della Rovere divenuti alleati dei
Cibo già prima del idanzamento tra Giulia Varano e Guidubaldo), erano seguaci
di Juan de Valdés, erasmiano, alumbrado e vicino alla cultura protestante, orientato
a sostenere, come i seguaci del circolo spirituale chiamato “il regno di dio” che
aveva creato a Napoli (dove era rappresentante di Carlo V), la cosidetta “giustiicazione per fede”, cioè la predestinazione della salvezza. La duchessa venne infatti
deinita dal Santo Ufizio “haeretica, sectatrix haereticorum et doctrix monialum
haereticorum”.57
Lo seguivano in questa sensibilità eterodossa, oltre alle due nobildonne, personalità in rapporti reciproci. Pietro Carnesecchi, Protonotario apostolico che subirà tre
processi inquisitoriali e inirà condannato a morte nel 1567; Bernardino Ochino,
più volte Vicario generale dei Cappuccini, l’ordine sostenuto e protetto da Caterina, passato alla Riforma e fuggito dall’Italia nel 1542, che aveva abbandonato lo
stato religioso a Firenze proprio a casa della Cibo. Ochino aveva anche inserito
Caterina in quattro dei suoi Dialogi sette, editi nel 1542, come interlocutrice delle
delicate discussioni teologiche ivi contenute. Marco Antonio Flaminio, amico di
Pietro Bembo e Giulio Camillo, Reginald Pole e Longueil, fu il curatore e per molta
parte il vero autore del Beneicio di Cristo, una delle opere eterodosse più stampate
e diffuse in Italia nel XVI secolo, condannata dall’Indice già nel 1546. L’opera, attribuita al benedettino Benedetto da Mantova, era stata in realtà scritta da Flaminio,
come rivelò Carnesecchi sotto tortura nel 1566.58
Questo ambiente si riunì, dopo il periodo napoletano, nuovamente a Viterbo presso il Cardinale Reginald Pole divenuto nel frattempo amministratore del Patrimonio di San Pietro.
Giulia Gonzaga, vicinissima a Carnesecchi, che le aveva dedicato le sue Meditazio-
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
ni e orationi formate sopra l’epistola di San Paolo, aveva frequentato l’ambiente sia a
Napoli che a Viterbo e sua cugina Lucrezia divenne seguace e allieva di Ortensio
Lando. Vivendo nel castello di Fratta, nel Polesine, aveva messo in piedi una piccola corte di letterati che chiamava, in chiave bucolica, dei Pastori Frattegiani, di cui
faceva parte anche Lando. Nel Dialogo nel quale si ragiona della consolazione e utilità
che si gusta leggendo la Sacra Scrittura (1552), Lando deiniva Lucrezia sua allieva, le
aveva dedicato un Panegirico e pubblicato a suo nome alcune lettere.59
Il pensiero degli evangelisti si sintetizzava in alcuni principi elementari: desiderio
di riforma religiosa, enfasi sulle scritture, ruolo primario della fede e della giustiicazione come accadeva per i protestanti, ma senza negare il valore delle opere di
bene.
In Lando, tuttavia, come nelle opere del suo amico, il poligrafo Anton Francesco
Doni, venivano spesso mescolate in maniera impropria questioni teologiche complesse, facendo coesistere, per esempio, predestinazione e libero arbitrio. Quello
che era prevalente era l’atteggiamento erasmiano e la puntuale critica alla tradizione, religiosa e culturale, che si trascinava dietro i fondamenti del sapere uficiale
del tempo.
Doni e Lando si scagliano contro la cultura umanistica pedante. Per loro, i libri
non hanno nessuna capacità di prepararci a capire e ad affrontare il mondo. Lando
condanna senza pietà la vita sociale e urbana; censura, come i riformati, il comportamento dei frati e la religiosità bigotta, lasciando spazio per le “diversità”, anzi
le “mostruosità” del mondo, come le deinisce ironicamente nel suo Commentario
delle più notabili et mostruose cose d’Italia (1553).
In questo atteggiamento, la ilosoia di Lando sembra un repertorio, per quanto
stressato e militante, di alcuni dei valori che ispiravano anche Gherardo Cibo, che
aveva optato per un ritiro dalla vita attiva, vivendo la propria ricerca artistica e
naturalistica senza la pretesa di articolarla in una ossatura scientiica di tipo tradizionale, omettendo di pubblicare trattati.
Il tema del romitaggio era connesso, nelle opere di Lando e di Doni, alla critica radicale del sapere e della cultura che prendeva i toni erasmiani paradossali
dell’Elogio della pazzia e dell’ignoranza trattato da Cornelio Agrippa nel De vanitate scientiarum, che era stato tradotto da Ludovico Domenichi nel 1547 (Venezia,
A. Arrivabene), e Lando saccheggiava nelle proprie opere. Un’opera simile, Lode
dell’ignoranza (Venezia, Giolito, 1551), a cura di Doni, era stata pubblicata dal conte
Giulio Landi. Landi, Domenichi, Doni e Lando erano componenti di un’accademia, detta Ortolana, fondata a Piacenza, che prevedeva l’adozione per i suoi membri di nomi di piante e di iori.60
L’atteggiamento radicale e pirroniano di Lando utilizzava evidentemente il romitaggio in chiave erboristica come un modo “alternativo” di conoscere, confermando la sensazione che la competenza botanica, empirica e un po’ intrisa di magia,
anche se perseguita con metodo scientiico, rappresentasse una forma di sapere
libertino e fuori degli schemi tradizionali. I temi al centro degli interessi dell’Ac-
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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cademia Ortolana erano poi anche i temi trattati da Lando nel suo Commentario,
nel quale le “diversità” del creato venivano rappresentate con lo sguardo di un
possibile allievo di Ghini.
Nel volume si descrivono infatti con competenza i prodotti alimentari, le ricette di
cucina, le piante diverse, con le loro proprietà, che si incontrano lungo un grottesco
percorso attraverso l’Italia, che è anche l’occasione per censurare credenze o celebrare personalità singolari e stereotipi regionali. Si parla dei marzapani di Siena, dei
mostacciuoli di Napoli, del pane pepato di Firenze, del cervelato di Milano, della carta
di Fabriano, dei “piatti di terra igurati” di Urbino, del ciambellotto di Ancona (un
tessuto), di piante, spezie e frutta caratteristiche dei luoghi, come le nocelle, la cannella, il serpillo, la nepitella, la citornella (cetronella), le pere moscatelle, le sorbe, ecc.61
La sola coincidenza della presenza a Bologna di Gherardo e di Ortensio negli stessi
anni e la comune cultura botanico-medica di imprinting ghiniano possono sembrare un argomento insuficiente per sostenere un rapporto tra i due. Vi sono tuttavia
alcuni dati fortemente indiziari che ci portano a sostenere questa tesi.
Il primo è il periodo nel quale, il 1542, poco tempo dopo il ritiro di Cibo a Rocca
Contrada, Ortensio è per qualche tempo al servizio del Vescovo Marco II Vigerio
di Senigallia, zio di Gherardo, dove potrebbe essere arrivato proprio grazie a lui.
“Condussimi inalmente a Sinigallia da’ Galli ediicata, scrive Lando sul Commentario, ove era Vescovo il buon padre Marco Vigerio della Rovere, uomo di bontà e
dottrina singolarmente ornato, dal quale comodamente albergati in molta consolazione molti giorni presso di lui ci ritenne”.62
È probabile che Lando aspirasse a un rapporto più stabile con Vigerio, tanto che
approittò dell’amicizia nata nel frattempo con Pietro Aretino per farsi raccomandare presso di lui, come si evince da una lettera del letterato toscano al Vescovo del
dicembre 1542. In questa lettera si fa riferimento a un cavaliere, nipote del Vescovo,
accomunato a Ortensio, che dovrebbe essere Gherardo: “Vi scrivo ora per la forza
che me ne fanno le dottrine de l’Ortensio, e le generosità del cavaliere. E perché
l’uno vi è famigliare, e l’altro nipote, non mi son potuto di non congratularmene
con la felicità dell’onore che quello vi acquista al nome, e questo al sangue”.63
Lando mostra nel Commentario di conoscere bene la Marca di Ancona e il Ducato
di Urbino. Descrive Ancona “ricetto singolare de Schiavoni, ricapito di Giudei,
albergo de Turchi, stanza de Morlacchi e nido de Greci”,64 ma altrove scrive che
non aveva voluto abitarci, visto che anche “la Reina del cielo” non aveva voluto
fermarsi colà e aveva preferito portare la propria casa a Loreto, riferendosi ironicamente alla storia della santa casa.65 Ricorda di aver incontrato a Pesaro la duchessa
di Urbino Eleonora Gonzaga e di essere andato a conoscere a Rocca Contrada la
sorella del Vescovo e zia di Gherardo, Maria Vigerio, dove era badessa del monastero di San Sebastiano con il nome di Chiara.
Di Gherardo, nella descrizione che appare nel Commentario, non vi è cenno, ma
la trattazione è vistosamente cortigiana e avrebbe creato forse imbarazzo citare
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
personalità di secondo piano dal punto di vista nobiliare e così appartate come il
vecchio compagno di studi.66
L’altro argomento più che indiziario è la presenza di Lando, nella Biblioteca Angelica di Roma, nel fondo Passionei, nel quale sono conluiti i libri di Gherardo,
alcuni postillati e annotati. Tra questi troviamo ben quattro sue opere: Lettere di
molte valorose donne (Venezia, Giolito, 1549), La sferza (Venezia, Arrivabene, 1550),
Lettere della molto illustre sig.a Lucrezia Gonzaga (Venezia, Scotto, 1552), Commentario
ecc. (Venezia, Cesano, 1553).
Tutte le opere portano il timbro della Biblioteca Passionei, dove transitarono diversi libri appartenuti a Gherardo Cibo, parte dei quali può essere pervenuta all’Angelica per il tramite di Angelo Rocca.
Nicoletta Muratore e Paola Munafò, utilizzando anche i precedenti studi di Enrico
Celani, bibliotecario dell’Angelica dei primi del Novecento, hanno cercato di rintracciare il percorso d’arrivo all’Angelica di questo importante fondo bibliograico,
individuando due itinerari paralleli plausibili che i volumi possono aver compiuto
per arrivare nella biblioteca del Cardinale Domenico Passionei (1682-1761).67
Gherardo aveva ereditato la biblioteca di suo cognato Domenico Passionei (un
omonimo, laico e Gonfaloniere di Urbino, deceduto prematuramente nel 1560, seguito dalla moglie Maddalena dieci anni dopo). È probabile quindi che parte della
sua biblioteca sia tornata, alla morte di Cibo, alla famiglia Passionei; dal 1738, data
della nomina a Cardinale, questi volumi sono stati contrassegnati dal timbro con
la scritta “Bibliothecae Passioneae” con un cappello cardinalizio.
Ma un’altra parte dei volumi potrebbe essere inita all’Angelica, senza contrassegni, attraverso Angelo Rocca, il fondatore, che potrebbe averli ricevuti tra le carte e
gli oggetti appartenuti a suor Maria Maddalena (Ortensia) Cibo, sorella di Gherardo, che gli sopravvisse, monaca del monastero di Sant’Agata di Rocca Contrada,
dove Rocca (come si capisce dal nome) era nato.68
L’unico testo postillato, anche se non possiamo essere certi che si tratti della mano
di Gherardo, è La sferza.
Si tratta in genere di sottolineature e richiami degli autori antichi citati, dei quali
Lando proclama l’inutilità. A carta 34v una annotazione richiama la “comparatione” a proposito del dotto e l’ignorante come un confronto paradossale tra chi è
ancora vivo e capace di pensiero originale e chi è intellettualmente defunto, identiicato con il dotto.
Poche pagine prima, alla carta 22v, viene sintetizzato da Lando il confronto tra arte
e natura – un concetto evidentemente essenziale per un artista come Cibo, che da
giovane aveva avuto modo di studiare Leonardo – con una citazione a mano, a memoria, da Girolamo Muzio: “Natura suol far l’opre sue imperfette: E darle all’Arte
che le adorni e limi”.
Il brano è tratto dalla Poetica di Muzio, la cui versione stampata (Venezia, Giolito,
1551, I) recita: “e dico che natura / suol far l’opre sue rozze, e tra le mani / lasciarle
a l’arte, che le adorni e limi”.
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
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L’autore dell’annotazione, forse Gherardo, si sofferma dubbiosamente sul confronto tra la versione anarchica e romantica di Lando e quella che invece sostiene il valore e il peso dell’educazione per perfezionare la natura, sostenuta
da Muzio.
Muzio, letterato e precettore di Francesco Maria II della Rovere, non era stato in
gioventù totalmente intollerante, come scriveva in una lettera inviata a Francesco
Calvo del 9 luglio 1545: “avanti che io venissi in queste parti et che io vedessi,
udissi e sentissi quello che ho visto, udito e sentito, il Luteranesimo alcuna volta mi
soleva parere alcuna cosa; hora ho io il tutto per ciance e favole”, ma era diventato
con il tempo l’espressione più emblematica della reazione sviluppatasi contro il
paradigma libertino di Ortensio Lando.69
Dopo una originaria amicizia con il Vescovo Pietro Paolo Vergerio, originario come
lui di Capodistria, che aveva parteggiato, con Pole e Ochino, per gli spirituali, responsabile di aver abbandonato la fede cattolica, Muzio era infatti diventato l’araldo dell’ortodossia, collaboratore del Santo Ufizio e autore di invettive contro
il suo ex amico (Vergeriane, Venezia, Giolito, 1550) e contro Bernardino Ochino (Le
mentite ochiniane, Venezia, Giolito, 1551).
Diventato precettore del giovane erede del Ducato di Urbino, Francesco Maria,
alla metà del secolo, al quale aveva dedicato un Principe giovinetto (Venezia, 1572)
secondo l’uso dei precettori, Muzio fu anche autore di una Historia del Ducato dei
tempi di Federico da Montefeltro (edita solo nel 1605): è quindi molto probabile
che Gherardo lo avesse conosciuto e potesse citarne a memoria l’opera.70
Il rapporto arte/natura era un tema centrale del Rinascimento ed era stato evocato
a proposito della “grazia” di Raffaello. Veniva trattato negli ambienti colti sulla
scorta del passo di Plinio il vecchio che citava il pittore Apelle e la discussione se si
dovesse imitare la natura o i grandi artisti.
L’argomento verrà utilizzato poi nel nord Europa a proposito di Peter Brueghel il
Vecchio, ma Erasmo lo aveva già usato a proposito di Albrecht Dürer nel 1528 con
riferimento allo stesso passo di Plinio, secondo uno stile di pensiero che sembra
condiviso da Muzio e probabilmente da Cibo.
Per Erasmo, Dürer era stato in grado di rappresentare nelle sue opere cioè “ciò
che era impossibile dipingere” come le sensazioni, gli atteggiamenti o la voce (per
il mistico, collezionista e cartografo anversese del XVI secolo, Abramo Ortelio, la
stessa cosa si poteva sostenere di Peter Brueghel, di cui era un patrono). Dunque
l’arte poteva superare la natura.
Questo argomento era stato centrale anche per i grandi iniziatori della scienza botanica come Conrad Gessner e Leonhart Fuchs, perché entrambi avevano cercato
di creare per le piante un metodo capace di comunicare informazioni che andassero oltre le apparenze, mettendo a punto un alfabeto simbolico capace di rappresentare la forma essenziale delle piante. Per entrambi riprodurre una pianta ad vivum
signiicava fare questo: andare oltre l’esperienza, non solo muoversi all’aperto alla
ricerca di campioni. Immagini pur realistiche, ma che rappresentassero solo la for-
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Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
ma esteriore, vennero deinite da Gessner alla stregua di “pietriicazioni di Medusa”, come ha notato Sachiko Kusukawa.
In questa ricerca, i botanici riformati applicavano il metodo già impiegato per la
produzione delle immagini devozionali, nelle quali l’osservatore, precedentemente
istruito, era messo in condizione di decifrare i riferimenti scritturali delle igure e di
aiutarsi nella preghiera silenziosa. Gessner e Fuchs crearono così delle Andachtbild,
cioè immagini devozionali, come erano quelle di Brueghel e di Patinir, adattate alla
scienza, per la necessità di rappresentare gli aspetti dinamici (storia, ciclo, ioritura)
delle piante, quelli non rappresentabili (odore, colore, ecc.), e inine per l’ambizione
di celebrare in questo modo la grandezza provvidenziale del creato.71
Pur apprezzando probabilmente le aspirazioni evangeliche di Ortensio Lando, il
suo elogio dell’ignoranza e della semplicità (“meglio ignorante che dotto” era il suo
motto), che lo portava a considerare con leggerezza gli studi botanici e la propria
attività artistica, più dilettante che professionista, Gherardo Cibo non poteva essere
insensibile all’argomento che afidava all’arte il compito di completare l’opera della
natura nel solco della provvidenza divina, come ricordava anche nel suo Trattato
della Miniatura. La natura non produce solo prodotti initi, l’arte la perfeziona e in
questo svolge una azione di carità, analoga alle tante prestazioni pie che Gherardo
aveva messo in campo nel corso della sua vita.
4. Un’arcadia marchigiana: realismo e idealismo
I documenti rimastici che attestano le escursioni botaniche di Gherardo Cibo registrano date successive al 1560, ma è ovvio che disegni precedenti possono essere
andati perduti. Tra il ritiro a Rocca Contrada e queste prime documentate testimonianze corrono venti anni. È ragionevole pensare che, nel corso di questo periodo,
Gherardo abbia viepiù adottato un metodo più sistematico per la raccolta dei suoi
album.
In questo percorso fu certamente aiutato dagli studi e dalla rilessione metodologica compiuta dai grandi botanici, alcuni dei quali, come Fuchs e Aldrovandi, erano
stati in rapporto con Ghini.
Fuchs pubblica il suo Historia stirpium nel 1542 con oltre cinquecento piante riprodotte secondo la sequenza alfabetica, rivolta alla facile consultazione e al superamento delle tassonomie gerarchiche delle specie. Una copia dell’opera è conservata nell’Angelica, ma non ha il timbro del fondo Passionei. Le sue illustrazioni
tuttavia sono acquerellate a mano e, secondo Celani, potrebbe aver fatto parte del
gruppo di opere botaniche che avrebbero potuto appartenere a Cibo (anche se non
tutte si trovano nel fondo), tra le quali C. Plinio, Historia naturalis, Venezia 1536; I
Discorsi di P.A. Matthioli, Venezia 1573; P.A. Mattioli, Commentarii, Venezia 1558;
P.A. Mattioli, Dioscoride, Venezia 1548, P.A. Mattioli, I discorsi nelli sei libri di Pedacio
Dioscoride Anazarbeo, Venezia 1573.
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
81
Una edizione della Historia stirpium di Fuchs (1542) con xilograie colorate e annotazioni di Cibo si è invece conservata presso la Biblioteca Corsiniana di Roma.
Il Dioscoride di Mattioli del 1548, dell’Angelica, edizione non illustrata a stampa,
contiene illustrazioni di piante a mano sicuramente di Gherardo. L’edizione dei
Discorsi del 1573, sempre all’Angelica, ha le illustrazioni a stampa acquerellate a
mano e annotazioni di mano di Gherardo.72
Gherardo dedicò quindi alcuni anni a documentarsi sulla scorta delle prime opere
che vennero pubblicate, maturando probabilmente il progetto di raccogliere con
sistematicità le varietà botaniche che poteva trovare nel proprio circondario, registrandone le caratteristiche, i colori, l’habitat, il periodo di estrazione dal terreno,
le proprietà.
In questa ricerca, Cibo si spostava per erborizzare tra le Marche e l’Umbria, a San
Girolamo di Pascelupo, nei pressi di Gubbio; sul monte Rogedano e a Monte Fano
nei pressi di Fabriano; lungo il iume Cesano; a Sasso Cupo, forse vicino Perugia
o più probabilmente nei pressi di Massaccio, oggi Cupramontana; alla abbazia di
Nocera Umbra, a Piticchio, nei pressi di Rocca Contrada, oggi Arcevia; alla selva
della Romita, ancora nei pressi di Massaccio.
Questo lavoro ininito era del tutto coerente con il progetto delle corrispondenze
avviato da Ghini e da Fuchs, secondo il principio della cooperazione scientiica.
Anche questo modello epistemologico aveva una sua origine religiosa. Potremmo
infatti considerarlo analogo all’idea della “chiesa invisibile” dei riformati, precedente del “collegio invisibile” degli scienziati baconiani di un secolo dopo (e comunque protestanti anche loro). La chiesa invisibile mirava alla creazione di una
sorta di corpo mistico costituito dalle tante singole individualità che si ponevano
in contatto reciproco, ma anche in diretto contatto con dio. La chiesa invisibile anticipava e legittimava, specie tra personalità spiritualmente impegnate, l’idea che
ci potesse essere anche nella scienza un lavoro collettivo nel quale ogni ricercatore
apportava il proprio autonomo contributo.
Non fu infrequente che studiosi impegnati in questo genere di progetto come
Gessner considerassero la propria opera più signiicativa non quella pubblicata,
ma la raccolta sistematica dei loro campioni sperimentali, frutto di una rete ubiquitaria di contatti, un “life work”. Anche qui Erasmo, che aveva inaugurato il genere
editoriale dei loci communes nella ilologia, continuava a esercitare il suo magistero
nella scienza.
Questa sensibilità portava Gherardo Cibo a privilegiare lo sforzo di documentazione da integrare poi in un lavoro più ampio, tenendolo lontano dalla ambizione
di pubblicare dei trattati. Anche i suoi manuali tecnici di cui si tratta più avanti nel
libro, erano intesi come un corpus di informazioni e ricette provenienti da una rete
di corrispondenze e amicizie, pensati soprattutto in termini di servizio pratico.
In questo spirito si inquadravano anche le tante attività beneiche di Cibo: la creazione con l’amico Camillo Tarugi di un Monte frumentario per i poveri in tempi di
carestia, il sostegno del giovane pittore Ercole Ramazzani di Rocca Contrada, per
82
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
qualche tempo a bottega da Lorenzo Lotto, considerato una specie di iglioccio,
persino l’aiuto allo sviluppo locale con l’adattamento dei suoi paesaggi a possibili
decorazioni di maioliche, come sembrerebbero far pensare alcuni disegni tondi,
forse per la produzione di maioliche sviluppata a Rocca Contrada e a Sassoferrato.73
Anche i disegni di Gherardo non si limitavano alla documentazione delle specie
botaniche; essi erano anche, in ogni loro pagina, una celebrazione dei valori della
simplicitas morale che anche Brueghel aveva coltivato nell’esaltazione della cultura
e della religiosità panica dei contadini delle Fiandre.
Ritroviamo questa simplicitas in molte delle opere di Cibo: nelle povere case ricavate nelle rocce, nella placida pesca delle sue marine, nei frequenti eremiti e San
Gerolami ritratti dentro le grotte dei suoi paesaggi. C’è sempre, in questi disegni, un’insistenza sulla vita ordinaria di personaggi umili che lavorano, ritratti da
lontano con le prospettive alte e azzurre di Brueghel e di Patinir, spesso appena
schizzati; placidi pastori con i loro greggi che suonano il lauto, donne che lavano
i panni chine sul iume, piccoli antri di campagna che ospitano crociissi celebrati
dai lumini accesi della pietà popolare.
Si nota il frequente contrasto tra i castelli, le chiese, le rovine antiche, gli abitati
arroccati su rocce a picco su laghi e iumi e le piccole igure umane che vivono in
basso la loro modesta esistenza quotidiana.
Certo, il paesaggio marchigiano è sempre stato collinare e nel XVI secolo risulta
molto più luviale e acquitrinoso di oggi, giustiicando il realismo di certi disegni,
ma le marine, numerosissime, le rocce bucate, le navi in tempesta o in dificoltà
disegnate in lontananza ricordano molto i motivi di Brueghel e le egloghe piscatorie
di Sannazzaro.74
Questi paesaggi sono descritti ad vivum, ma probabilmente rispecchiano anche alcuni valori e sentimenti che Gherardo derivava dalla sua formazione negli ambienti evangelici eterodossi, caricati del sentimento arcadico che aveva fatto parte
della sua formazione.
Ma anche le altre tipologie di disegni celano informazioni più complesse di quel
che si potrebbe immaginare considerandole schizzate all’aperto, come in “presa
diretta”. Sono immagini legate ai paesaggi urbani, ai proili di abitati, agli studi
di rocce e di piante, alle prove di colore, all’attività di erborizzazione all’aperto
compiuta con i suoi assistenti, che, a volte, giocano in forma narrativa con informazioni che un “lettore esperto” poteva comprendere a partire da cenni, come
nel caso dell’Elleboro negro (Ms Additional della British Library, c. 95, ig. 7), nel
quale i due erboristi avvistano un’aquila. Secondo una antica leggenda riportata
da Mattioli, l’Elleboro non doveva, infatti, essere colto in presenza di un’aquila,
forse per l’azione curativa contro la malinconia cui era associato. L’erborista è
rappresentato mentre caccia un serpente nel disegno dedicato all’Eringio (British
Library, Ms Additional, c. 47, ig. 140), che si riteneva fosse curativo contro i morsi
di serpente.
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
83
Fig. 25 – Gherardo Cibo, ‘Elleboro bianco’: Polygonatum sp., Ms Additional 22332, British Library, Londra, c. 96
84
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Una pianta di Celidonia (Ms Additional, British Library, c. 91, ig. 1, particolare),
nome che Dioscoride aveva spiegato venire dal greco chelidòn, rondine, viene rappresentata sotto un cielo blu nel quale volano delle rondini.75
Il realismo dei luoghi, a volte descrizione preziosa e unica di paesaggi scomparsi
o profondamente mutati, quando siamo in grado di identiicarli, è sempre però
abitato da una sensibilità artistica e spirituale, come denota, in un certo senso,
l’eccesso di bellezza e amenità degli habitat botanici rappresentati rispetto a quel
che sarebbe stato suficiente alla sola annotazione scientiica, che tuttavia non prevarica il dato sperimentale.
Jaap Bolten, pensando che l’autore fosse un Ulisse Severino da Cingoli, cui invece
Cibo li aveva regalati, aveva notato in questi disegni l’assenza di idealismo arcadico accademico. “Nei suoi paesaggi e studi, scriveva, non vi è traccia della pastorale
e del paesaggio eroico alla Giulio o Domenico Campagnola, Tiziano o Polidoro.
Solo una o due volte un tema religioso come san Francesco in preghiera, copiato da
un dipinto di Lavinia Fontana o san Gerolamo. (…) I suoi paesaggi non appartengono alle vedute ideali e non oltrepassano i conini del proprio tempo” (tr. mia).76
Ma l’arcadia è presente, anche se stemperata nel mito della simplicitas evangelica. Gherardo possedeva certamente l’Arcadia di Sannazzaro; la sua copia è ancora
all’Angelica, personalizzata da una nota di possesso, nel fondo che raccoglie parte
dei suoi libri, tra i quali si registrano, pur senza la certezza che siano passati tutti
per le sue mani, diversi altri testi bucolici.
Testimonianza di questa attenzione per una sorta di “arcadia spirituale”, ancora
viva negli anni della vecchiaia, è la nota che Gherardo scrive, il 21 maggio 1591,
in una raccolta di disegni, oggi in collezione privata, nella quale sono citati per la
particolare vicinanza (“li tengo cari”, scrive) due “sonetti spirituali” del medico
eugubino Annibale Niccolini, autore del “dramma boschereccio” Il nuovo pastor
ido (Venezia, Battista Dembini, 1608).77
Un rapporto correva anche tra questa celebrata simplicitas e la vocazione che i Cappuccini avevano cercato trovando rifugio a Camerino presso la zia Caterina Cibo,
dove avevano costruito i loro primi monasteri-eremitaggi.
Il rapporto con i Cappuccini non si era infatti interrotto con la ine del Ducato di
Giulia Varano. I Cappuccini restarono nell’ambito della protezione dei Cibo, intrecciando con la famiglia un cauto, ma costante, rapporto, dopo lo scandalo della
fuga di Bernardino Ochino, loro Vicario Generale. Il nipote di Gherardo, Marco
Passionei, vestì, nonostante una certa ostilità dell’ordine, il saio cappuccino nel
1585 col nome di Benedetto, e la famiglia fu in prima linea, nel 1630, per sostenere
l’avvio del processo di beatiicazione, dopo la sua morte nel 1625. Lo stesso Gherardo lasciò, alla sua morte, cinque iorini alla chiesa di San Pietro dei Cappuccini
di Rocca Contrada.78
Questa sensibilità per il realismo venato di idealismo faceva parte della cultura
che Gherardo aveva respirato nella sua formazione, nelle letture e nell’ambiente
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
85
Fig. 26 – Frontespizio del De curativis, ac mittendi sanguinem scopis disputationes in genere di Annibale Niccolini da
Gubbio, Perugia, Pietro Giacomo Petruzi, 1591, Biblioteca Oliveriana, Pesaro
86
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 27 – (Francesco Mingucci, attr.), Veduta di fantasia di una villa roveresca (sec. XVII), Musei civici, Pesaro
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
87
Fig. 28 – Veduta del “Parchetto” di Pesaro, dal Stati dominii città terre e castella dei serenissimi Duchi e Principi della
Rovere (1626) di Francesco Mingucci, Biblioteca Apostolica Vaticana, Ms Barb. Lat. 4434, c. 10
88
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
cortigiano dei della Rovere. Il tema dell’Utopia di Moro, per esempio, era un altro
argomento che Gherardo può aver condiviso con Ortensio Lando. Proprio Lando
e Doni avevano introdotto, infatti, in Italia l’opera di Moro.79
Il tema era stato trattato anche alla corte pesarese da Ludovico Agostini in un’opera rimasta inedita per molto tempo, ma che doveva essere ben nota nell’ambiente
cortigiano, Le giornate soriane, signiicativa anche per la celebrazione arcadica della
vita ducale tra le ville del monte San Bartolo di Pesaro.80
L’opera fu composta tra 1572 e 1574 guardando al Cortigiano di Castiglione, ma
trasferendo le conversazioni della corte urbinate nelle passeggiate, i giochi, le cacce e i pic-nic all’aperto, tra le ville ducali del monte San Bartolo, che si richiamano
esplicitamente ai modelli della favola pastorale.
Nel 1543 inoltre, il fabrianese Mambrino Roseo aveva tradotto il Reloix de principes
di Antonio de Guevara (1529) con il titolo L’institutione del prencipe cristiano (Roma,
Calzolari), opera presente nel fondo Passionei dell’Angelica, presentata come manuale per i governanti che, come l’Utopia di Moro, celebrava la vita semplice dei
Garamanti, popolo tanto immaginario quanto esemplare per moralità.
Mambrino era un letterato specializzato nella traduzione dei poemi cavallereschi
spagnoli, aveva lavorato nel 1529 nel partito ilomediceo, quindi dalla parte dei
Cibo, e, nel 1531-42 era stato a Roma nell’ambito di papa Paolo III e di suo nipote
il Cardinale Alessandro Farnese, come Gherardo, che quindi può averlo conosciuto.81
Il tema dell’età dell’oro era stato già centrale per Sannazzaro, poeta in rapporto
con Angelo Colocci; era stato coltivato da Egidio da Viterbo (autore di un De aurea
aetate, pubblicato nel 1508), da Bramante a da Raffaello, e aveva rappresentato un
genere rivolto a fondere la poesia bucolica pagana con la pietà religiosa mariana,
frequentato dal poeta napoletano nel suo De partu virginis, che era, a sua volta, il
tema di riferimento dei poeti dell’antologia Coryciana promossa dal circolo umanistico romano di Göritz.82
Il giardino e la selva sembrano diventare, nella seconda metà del secolo XVI, un
paradigma della sensibilità controriformata e, nel Ducato di Urbino, persino un
modello geopolitico della nuova fase di rifeudalizzazione e di progettazione urbana, strettamente connessa all’utopia.83
Il tema del giardino e della selva sono fra loro connessi e si può sostenere che
quello che era stato il signiicato umanistico del giardino e il suo carattere di luogo
di conversazione e di incontro culturale diventa, nel pieno della Controriforma, il
luogo della meditazione individuale afine all’orazione silenziosa.
Ludovico Agostini deinisce ne Le giornate soriane, con l’espressione “Il ben vive
tra’ boschi”, questa forte connotazione spirituale che il modello pastorale arcadico
ha acquisito anche nell’ambiente laico della corte roveresca.
Il tema del giardino resta invece un argomento importante soprattutto sul versante
della rappresentazione del potere dei della Rovere. L’alternarsi di immagini architettoniche tipiche della domus romana a stanze decorate come selve e pergole è
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
89
Fig. 29 – Giacomo Lauro, Rocca Contrada (1608), acquaforte. Riedizione della edizione 1594 dedicata al Cardinale
Rusticucci. In alto lo stemma del Cardinale Bandini. In basso, a sinistra, lo stemma di Rocca Contrada. In basso a
destra lo stemma di Angelo Rocca. Comune di Arcevia, Palazzo comunale
90
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 30 – Frontespizio del manoscritto Historiarum libri duo (1596-1601) di Pietro Ridoli da Tossignano, Biblioteca
Comunale Antonelliana, Senigallia
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
91
Fig. 31 – La Villa, detta “l’Imperiale”, di Pesaro sul fondo della riproduzione della Sepa, da I discorsi di M. Pietro
Andrea Matthioli (Venezia, 1568), per il duca Francesco Maria II della Rovere, Biblioteca Alessandrina, Roma, libro
II, cap. LVIII
Fig. 32 – La chiesa e il convento di Santa Maria delle Grazie di Senigallia come compare in un disegno di Gherardo Cibo sull’Historiarum libri duo (1596- 1601) di Pietro Ridoli da Tossignano, Biblioteca comunale Antonelliana,
Senigallia, c. 43r
92
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
una caratteristica della Villa Imperiale di Pesaro e l’ultimo duca Francesco Maria II
si ritira spesso a Casteldurante in un casino da caccia, la villa di Monteberticchio,
decorata con immagini loreali dipinte dal iammingo Giovanni Scheper, pittore
in corrispondenza con Gherardo e impegnato nei cosidetti “Botteghini” ducali di
Pesaro.84
In alcune sale come quella delle Cariatidi dell’Imperiale i riferimenti all’architettura scompaiono entro una galleria di laghetti, ruderi, pitture di paesi; ma in altre
la dimensione architettonica del palazzo (colonne, architravi, ecc.) è insistita, come
a segnalare un dialogo tra il palazzo signorile e la villa extraurbana (parallelo a
quello tra Cortegiano e Giornate soriane), confermato dal trasferimento sul colle San
Bartolo della vita di corte.
La stessa città di Pesaro assume per volontà dei della Rovere le caratteristiche di
una “città giardino”. Dopo Genga e Filippo Terzi, trasferitosi in Spagna, è Girolamo Arduini l’architetto che interpreta questo stile ducale progettando ville e intervenendo sulla struttura urbanistica della città.
Di nobile famiglia, è deinito da Agostini come matematico, e, in veste di architetto
civile, progetta i giardini della villa Miraliore di Pesaro, acquistata da Guidubaldo
nel 1559, e poi condotte, giochi d’acqua, fontane per le ville roveresche del San
Bartolo come la “Duchessa” e la “Vedetta”. Progetta il nuovo “Barchetto” (piccolo
barco/parco, ig. 28) di Francesco Maria II, area recintata ai limiti della città, allestita come una “ruina” teatralmente utilizzata come “luogo selvatico” (giardino
e selva assieme), corredata di un piccolo ediicio che ospitò, nel 1577, Bernardo e
Torquato Tasso, che vi scrisse parte dell’Amadigi.85
La sistemazione del Barchetto era connessa al più ampio progetto del cosiddetto
“Portanile”, operazione che prevedeva il collegamento di un casino e della vecchia
porta (oggi nota come “Porta Rimini”) con i giardini sottostanti nei pressi della
riva del iume Foglia.
Arduini, forse insieme allo stesso duca, interpretava quindi il disegno progettuale
di creare anche nell’area urbana di Pesaro uno stretto rapporto tra giardino ed ediicato, ripreso dalle decorazioni degli interni degli ediici.
“Pesaro giardino” diventerà poi, un secolo dopo, un topos dei “versi di città” come
“Pisa pendente, e Pesaro giardino, / Ancona dal bel porto pellegrino”, apparso sul
Teatro delle città d’Italia di Francesco Bertelli (Padova 1629).
Arduini era anche il coordinatore dei “Botteghini” ducali, creati nei pressi dello
stesso palazzo pesarese, che coinvolgevano decoratori, maiolicari, pittori di paesaggi, per lo più iamminghi, e inventori di horiuoli, per una produzione di meraviglie che doveva dare lustro al Ducato, per i quali Cibo redige probabilmente i
suoi manuali tecnici sul Modo di colorire e far paesi, sulla miniatura, ecc. trattati nel
presente volume.
Forse con questo ruolo, ma certamente nel quadro di un rapporto che tradisce grande
stima, afinità e reverenza, protraendosi per diversi anni, Arduini è in frequenti rapporti con Gherardo: gli procura libri e ne prende a sua volta a prestito, come il Libro
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
93
grande de paesi a penna che Lucia Tongiorgi ha suggerito di identiicare con il manoscritto Additional conservato alla British Library di Londra, gli fa pervenire disegni
e ricette di colori. I due avevano molti interessi in comune come l’architettura e la
decorazione, la comune formazione militare e cortigiana, la competenza nel rilievo e
nella tecnica cartograica. Cibo si cimenta nella pianta prospettica di Rocca Contrada
presente nell’Historiarum libri di Pietro Ridoli, probabile fonte del disegno eseguito
nel 1594 da Ercole Ramazzani, su richiesta del Comune e per iniziativa di Angelo
Rocca, poi fatta incidere in rame a Giacomo Lauro (igg. 29, 33)e inserita nel Theatrum
urbium italicarum dei Bertelli (Venezia, 1599). Nel 1584 era stato incaricato dai Priori di
Rocca Contrada di compiere misurazioni dei conini tra la località di Monte Calvo e le
proprietà di Ippolito della Rovere, signore di Castelleone e di San Lorenzo in Campo.
Arduini, per parte sua, scrisse un trattato per levare mappe nel 1597, oggi conservato manoscritto alla Biblioteca del Dipartimento di architettura dell’Università di
Montreal, in Canada.86
Il rapporto tra l’architetto militare e dei giardini e l’artista botanico è particolarmente utile a comprendere quanto il lavoro solitario e appartato di Cibo fosse in
realtà interprete, e forse anche ispiratore, di una sensibilità arcadica che permeava
la corte e le strategie di comunicazione roveresche, rimasta per molto tempo un
carattere del paesaggio marchigiano.87
Ma Gherardo, sulla scia di una sensibilità diffusa nel XV e XVI secolo, interpretava
anche la rappresentazione della natura e del paesaggio, naturale ed ediicato, come
atto di carità e di celebrazione della provvidenza divina. Le vedute urbane erano state
utilizzate, sin dal XV secolo, come veicolo e aiuto per la preghiera silenziosa e come
strumenti eficaci di persuasione retorica nelle predicazioni dei frati dell’Osservanza;
una abitudine particolarmente diffusa e radicata nelle Marche e nell’Umbria, come
ha dimostrato Barbara Pasquinelli. I frati utilizzavano infatti, nelle loro orazioni, immagini di luoghi noti al pubblico per ambientare la trattazione di temi evangelici ed
ediicanti e questa tecnica retorica venne introdotta poi, tra Quattro e Cinquecento,
nella pratica della preghiera silenziosa, come si evince da manuali devozionali quali
il Zardino de oration attribuito al padre Nicola da Osimo (Venezia 1493).88
Nel contempo, la rappresentazione dei paesaggi urbani poteva diventare una forma di adempimento delle prescrizioni tridentine rivolte al rilancio della “residenza” dei parroci e dei vescovi, della cura animarum e della valorizzazione dei santi e
beati locali, tutti strumenti che avevano il compito di recuperare, sul modello della
sensibilità protestante, ma entro la tradizione romana, una vocazione religiosa più
intima ed emotiva che le Confraternite andavano promuovendo.
A questo scopo erano rivolti gli Historiarum libri duo del Vescovo di Senigallia Pietro
Ridoli da Tossignano, successore dei Vigerio, che alla Riforma cattolica avevano
ispirato con rigore la loro azione pastorale, dedicati alla illustrazione della storia e
delle caratteristiche della diocesi, per il quale Gherardo, ormai anziano, disegnò,
con mano ormai malferma, le vedute delle chiese, degli oratori e dei monasteri che
la componevano.89
94
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Un progetto analogo fu messo in campo dall’ordine degli Agostiniani di cui Angelo Rocca, amico ed estimatore di Gherardo, era Segretario. Inseguendo la funzione
propagandistica che offrivano gli atlanti cartograici del tempo, l’ordine promosse
una raccolta di informazioni e vedute di città dell’Italia centro-meridionale sulla
scia di una visita pastorale nel Regno delle due Sicilie compiuta, tra 1583 e 1584,
dal Priore generale Spirito Anguissola.
L’intenzione era rappresentare le condizioni di vita, i costumi, le origini delle città
e degli insediamenti di quell’area ancora una volta nello stile delle prescrizioni
tridentine: una operazione di propaganda e di carità.
Forse Rocca chiese a Cibo di fornirgli disegni e vedute e tra le carte di questo progetto, rimasto inedito, conservate in parte all’Angelica, compaiono alcuni disegni
di paesaggi rocciosi di Gherardo, forse initi là per caso.90
L’assemblaggio di attenzione per il mondo reale, vissuto come esercizio umile della carità e con forte spiritualità interiore, come prova della grandezza e provvidenzialità del creato, è forse la chiave per comprendere la sintesi, compiuta da
Gherardo Cibo, tra la precisione ilologica nella rappresentazione delle piante e
dei loro contesti e l’atmosfera arcadica, da età dell’oro, ma stemperata nei toni di
un’arcadia quotidiana e umile, evangelica, dei suoi disegni. Analoga alle relazioni
di amicizia e sodalità di Rocca Contrada, costituite in genere da personalità di
sensibilità assai afini, ben diversa da quella manierata e teatrale della vita cortigiana italiana e roveresca. Un atteggiamento che il padre cappuccino Lodovico
della Rocca sintetizzava, nella Vita del nipote, il beato Benedetto Passionei, come
di “uomo di molta sincerità e bontà”.91
Ma la sintesi del realismo e idealismo di Cibo aveva anche una sua origine scientiica: era intimamente contenuta nei ritratti di piante nei quali il disegno stava
assumendo la dimensione epistemologicamente nuova di illustrazione botanica,
redatta secondo un metodo e un codice che la allontanavano dall’essere solo schizzo mnemotecnico, trasformandola in documento capace di richiamare alla memoria della comunità scientiica, come diceva Gessner, “i gerogliici della natura”;
simboli ben più eloquenti dei misteriosi gerogliici egiziani, idolatrati dalla cultura
manierista e barocca.
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
95
Fig. 33 – Gherardo Cibo, Veduta di Rocca Contrada, dall’Historiarum libri duo (1596-1601) di Pietro Ridoli da Tossignano, Biblioteca comunale Antonelliana, Senigallia, c. 77v
96
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Fig. 34 – Frontespizio del Simolacro dell’antichissima et nobilissima Casa Cybo di Alfonso Ceccarelli (1572), Ms 510,
Archivio di Stato di Massa, Massa
97
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
Note
1
Marco Gilio, presente al testamento di Gherardo Cibo nel 1599, scrisse il suo elogio funebre
(conservato nel Ms Ottoboniano 3135, cc. 215-222,
della Biblioteca Apostolica Vaticana) che risulterebbe essere stato stampato con il titolo Oratio
Marcii Lilii a Rocca Contrada habita in patria die
30 Januarii, at in funere ex D. Gerardi Cybo, Jesi, P.
Farri, 1600, ma di questo libro non è rimasta traccia. Traiamo le nostre informazioni e citazioni
dal testo dell’elogio pubblicato in Galletti 1762,
pp. 79-83, n. 1 che tratta anche dei parenti del
Passionei. Gilio scrisse anche, ricorda Lelio Tasti
nella sua storia di Rocca Contrada manoscritta
(De situ et origine Rocchae Contradae, 1636) presso la Biblioteca civica di Arcevia, l’elogio funebre per alcuni membri della famiglia Mannelli,
amici di Gherardo: Flaminio e Claudio; risulta
a stampa quello per Girolamo Mannelli, successore di Angelo Colocci, suo zio, nel vescovato di
Nocera Umbra (Oratio habita Rocchae in funere perillustrissimi ac reverendissimi D. Hieronymi Mannelli, episcopi Nocerini in nonas Martii 1592, Roma,
D. Basae, 1592).
Archivio di Stato di Firenze, Ducato di Urbino,
Cl.I, Div. G, Filza 254/II, c. 653.
2
Celani 1902, pp. 25-26; Nesselrath 1989a, pp.
9-11. Il libro è P.A. Mattioli, I discorsi (…) nelli sei
libri di Pedacio Dioscoride, Venezia, Valgrisi, 1573
(Biblioteca Angelica, Roma). Alla p. 129, a proposito della pimpinella maggiore, Gherardo scrive
“Io l’ho veduta in Germania per la campagna o
di Ratisbona overo di Iglestad”.
3
Celani 1902, pp. 26-27; Nesselrath 1989a, pp.
10-11. Cervini, poi papa Marcello II, era originario di Montefano, nelle Marche, ed era il migliore amico di Colocci, suo esecutore testamentario.
Si conferma così il probabile ruolo di Angelo
Colocci nel giovanile apprendistato romano di
Gherardo.
4
“Pietra asia. Una polvere sottile che si può chiamare iore, ritrovai in una grotta sopra di quei
sassi a Agnano, loco del S. marchese di Massa
presso a Pisa tre o quattro miglia”, annotazione
di Gherardo al Dioscoride di Mattioli (Venezia,
1548), Biblioteca Angelica, alla p. 742, cfr. Celani
1902, p. 17.
5
La famiglia Cibo, impegnata nella coltivazione
dell’arte militare, aveva probabilmente proprie
raccolte di disegni e rilievi di architettura. Secondo Francesco Benelli la rappresentazione della
Chiesa di Santa Maria delle Grazie di Senigallia
6
(Benelli 2002), di Baccio Pontelli, promossa nel
1491 da Giovanni della Rovere, divenuto signore di Senigallia nel 1474, dell’Historiarum libri
di Pietro Ridoli da Tossignano (1596, ig. 32),
rappresenta l’aspetto che essa aveva cento anni
prima, probabilmente nel 1495-97. Gherardo,
ormai anziano, riproduce quindi probabilmente
la chiesa da un disegno, evidentemente in suo
possesso o fornitogli, e non dal vero.
7
Galletti 1762, n. 1, p. 82.
La citazione di Marullo è tratta da Rendina 2011
al capitolo dedicato a Innocenzo VIII.
8
Il riferimento alla nomina a Conte palatino è
contenuta nel diploma (presso l’Archivio storico
comunale di Arcevia) di laurea in utroque iure che
Aranino Cibo conferisce nel 1512, in virtù dei poteri di tale rango, a Paolo Emilio Tasti di Rocca
Contrada. Sulle competenze musicali di Gherardo cfr. Dinko Fabris, Una composizione per liuto di
Gherardo Cibo in Nesselrath 1989a, pp. 49-51.
9
Cfr. Conte 1991, I, p. 5; Gaisser 1999, pp. 294295.
10
11
Ubaldini Fanelli 1969.
12
Ubaldini Fanelli 1969, p. 30 n. 36.
Ubaldini Fanelli 1969, p. 39, n. 40; Zarri 2008;
Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Caterina
Cybo (on line).
13
Christophe de Longueil (1488 ca – 1522), militare di formazione, estimatore di Cicerone, si era
appassionato alle scienze naturali leggendo Plinio il Vecchio. Dopo aver studiato all’Università
di Valencia, perfezionò la sua conoscenza del
greco a Roma, dove arrivò nel 1519, con Lascaris,
entrando in rapporti con Pietro Bembo, presso il
quale visse nel 1520 a Padova, aderendo all’Accademia romana di Pomponio Leto e di Angelo Colocci e al sodalizio umanistico di Göritz.
Divenne poi familiare di Reginald Pole, presso
il quale continuò a vivere a Padova, dove morì
prematuramente. Era in rapporti con Guillaume
Budé e con Erasmo. Longueil raccolse una ricca
biblioteca con testi di medicina e le traduzioni di
Galeno fatte da Niccolò Leoniceno con il quale
sia Pole che Longueil erano in ottimi rapporti, testi dell’Aristotele naturalista e di Alessandro di
Afrodisia, che erano serviti per alcune edizioni
aldine. La biblioteca passò poi in eredità a Pole.
Studente a Padova, Pole frequentava Iacopo Sadoleto e Marcantonio Flaminio, poi componenti
dell’ala spiritualista e tollerante della Chiesa, e
14
98
Giovanbattista Cibo. Cfr. Woolfson 1998, p. 93;
Mugnai Carrara 1991.
15
Ubaldini Fanelli 1969.
16
Rowland 1998, pp. 221-233.
“Quantis oppida terminis recedant” (Caius
Silvanus Germanicus, in Coryciana, Roma, 1524,
II-4r); cfr. Rowland 1998, p. 296.
17
18
Ubaldini Fanelli 1969, p. 74, n. 131.
La tipograia fu afidata a G. Mazzocchi, che
pubblicò nel 1519, per la cura del fratello Piero,
le celebrazioni per le esequie di Mario Mellini
(Lacrimae in Celsi Archelai Mellini funere amicorum) morto quell’anno per annegamento. Sugli
interessi arcadici di Colocci si veda la canzone
pubblicata da Ubaldini Fanelli 1969, pp. 104-106;
da riferimenti epistolari sintetizzati nell’Appendice XII del volume si evince che anche Colocci
era in rapporti con Marcantonio Flaminio.
19
“Messer Ipolito” è citato nei viaggi ad Albacina il 23.6.1570 (cat. n. 23), alla Romita il 20.6.1572
(cat. n. 231), e ancora il 19.6.1570 (cat. nn. 252, 253,
256). La “Badia” di proprietà del Vescovo di Nocera Umbra, allora Girolamo Mannelli, fu visitata
da Cibo e compagni il 20.6.1567 (cat. n. 190).
20
Sui Mannelli cfr. Federici 1995. L’albero genealogico dei Mannelli è presso la Biblioteca civica
Planettiana di Jesi.
21
22
Anche il fratello di Niccolò Leoniceno, il letterato Bernardino (da Lonigo, Vicenza) voleva farsi
costruire una villa a Monticello di Lonigo, ispirata
alle idee umanistiche di Pietro Bembo e della sua
scuola (Gobbi Sica 2007, p. 25, n.15; Puppi 1969).
La Primavera di Botticelli rivela, secondo Burroughs 2012, un collegamento con gli studi botanici
di Poliziano, suo amico, e l’esegesi in chiave ermetica dei Fasti di Ovidio promossa da Ludovico
Lazzarelli, cui Poliziano aveva dedicato un corso allo Studio Fiorentino nel 1481-82. Per Ovidio
la dea Flora era la quintessenza della romanità e
questa associazione consentiva di creare un paragone tra Augusto e Lorenzo de Medici, tra il clima
georgico della offensiva mediatica augustea e il
revival ruralista delle ville medicee. I iori disseminati nel dipinto sono realistici e costruiscono
un discorso simbolico parallelo alle igure. Poliziano coltivava anche gli studi botanici, aveva
studiato Dioscoride e il suo allievo Marcello Virgilio Ariani ne fece una edizione nel 1518.
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
Urbino presso l’Archivio di Stato di Firenze, lettere di Stefano Vigerio al Duca, 1533 e 1534-42) di
Stefano Vigerio della Rovere, fratello di Marco,
Governatore del Ducato di Urbino e stretto collaboratore del duca Guidubaldo II, si ricostruisce la
ricerca che fu fatta per dotare la Villa Imperiale di
ogni specie di piante, anche medicinali, dell’area
mediterranea, coltivate nel giardino superiore. I
Vigerio erano quindi ben al corrente del progetto. L’Imperiale viene riprodotta come sfondo della pianta chiamata Sepa, nelle miniature a colori
che Gherardo fece sull’edizione di Dioscoride di
Mattioli, nella edizione 1568 (oggi alla Biblioteca
Alessandrina di Roma, ig. 31), per il duca Francesco Maria II della Rovere. La costruzione della
chiesa e del convento di Santa Maria delle Grazie
di Senigallia (cfr. n. 6), passò da Baccio Pontelli a
Gerolamo Genga, che, proprio negli anni Trenta
del Cinquecento (gli stessi anni della lettera di
Vigerio a Guidubaldo) iniziò una collaborazione
con il Vescovo Marco II Vigerio. La pianta utilizzata da Gherardo negli anni Novanta per il disegno
della chiesa, che compare sull’Historiarum libri del
Vescovo Ridoli da Tossignano, potrebbe pertanto
provenire dagli archivi di Genga, confermando un
rapporto tra i due (cfr. Benelli 2002, p. 100).
Dal Poggetto (2004) ha notato che Raffaellino
potrebbe essere entrato in contatto con il pittore sassoferratese Pietro Paolo Agabiti, ritiratosi
nel 1531 in un convento a Cupramontana, dove
morì intorno al 1540. Cibo sembra conoscere di
Agabiti una Natività (ig. 11), nella chiesa di S.
Maria del Ponte del Piano di Sassoferrato, dalla
quale trae forse il motivo dell’angelo in volo che
compare sul suo disegno dell’Asarum europaeum
(ig. 12), come ha notato Lucia Tongiorgi (1989b).
27
Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Giulia Varano (on line).
28
Dal Poggetto 2004; Nesselrath 1993, p. 3;
Rowland 1998, pp. 221-233.
29
30
Giononi Visani 1993.
31
Ivi; De Tolnay 1965.
32
Bradley 1891, pp. 50-60.
33
Calvillo s.d.
23
A.F. Doni, Le Ville, Bologna, Benacci, 1566.
24
Dal Poggetto 2004; Miotto 2008.
Sabbatino 2009. Göritz aveva commissionato
a Raffaello la decorazione dell’altare di Sant’Anna a Sant’Agostino, a Roma, ma ne era sorto un
contenzioso sul compenso che si dice fosse stato
risolto dal giudizio di Michelangelo, chiamato a
dirimere la questione (Dizionario Biograico degli
Italiani, s.v. Johann Göritz, on line).
25
Dal Poggetto 2001; Sikorski, 2001; Fiocco 1965.
35
Pasquinelli 2012; Bolzoni 2002; Mangani 2006.
26
Cfr. nota 2. Dall’epistolario (fondo Ducato di
36
De Tolnay 1965.
34
99
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
Gherardo risulta a Roma nel 1553 da un’annotazione al Dioscoride di Mattioli, edizione 1573
all’Angelica (“Il dì ultimo di novembre mi partii
dalla Rocca Contrada assieme al conte Antonio
Maurutio mio cognato, per Tolentino, il 16 dicembre 1553 partii per Roma, et il 20 detto giunsi
a Roma”), cfr. Celani 1902, p. 9. Tornando a Roma
dal viaggio con il Cardinale Alessandro Farnese,
nel maggio-giugno 1540, può essersi fermato per
un po’ di tempo. Cfr. De Ferrari 1960.
37
38
Risultano rapporti tra De Gast, Brueghel il Vecchio e Clovio. Uno dei paesaggi con velieri di De
Gast nel palazzo oggi Sacchetti deriva dai disegni che Brueghel aveva fatto a Roma nel 1553,
un altro, San Giorgio e il drago, deriva da un’incisione di Cornelis Cort da un disegno di Clovio
(Dacos 2001, p. 49). Nicole Dacos (ivi, pp. 47-53)
sostiene che l’incontro, nel 1539-40, tra De Gast
e Cibo sarebbe stato essenziale nella formazione
di Gherardo. Ma, a quella data, Cibo risulta aver
già sviluppato la propria personalità. In ogni
caso la proprietà dell’incisione di De Gast conferma il contatto fra loro a Roma offrendo una
evidenza a quello con altri pittori iamminghi o
nordici cultori del “romanismo”.
I pannelli recentemente attribuiti a De Gast da
Nicole Dacos sono due tondi, uno ad Anversa
(Koninklijk Museum voor Schone Kunsten), e
l’altro in una Collezione privata del Principato
di Monaco, databili al 1540. Presentano le caratteristiche usate da De Gast per le decorazioni di
ville e palazzi nelle quali si era specializzato a
Roma. I pittori italiani usavano infatti normalmente legno di pioppo, De Gast legno di noce,
come nei due tondi. Dacos in Collection Lingenamber (www.collection-lingenamber.org, on line).
Per le “città ideali” cfr. Mangani 2012a.
39
40
L. Tongiorgi, in Luca Ghini 1992, pp. 37-47.
La rete di relazioni scientiiche di Gherardo
Cibo è trattata da Lucia Tongiorgi nel suo saggio.
In area locale queste corrispondenze ricalcavano
i rapporti di famiglia e le amicizie come Annibale
Nicolini da Gubbio, Felice Pellegrini da Perugia,
Ulisse Severino da Cingoli, come abbiamo cercato
di sintetizzare nel dizionario in calce al volume.
Anche il medico e falsario Alfonso Ceccarelli da
Bevagna, che procura a Cibo un erbario, rientra
nei rapporti di famiglia. Ceccarelli fornisce alcuni
disegni di piante a Cibo raccolte in un erbario dipinto oggi in collezione privata (cat. pp. 227-230),
tra queste la Lunaria, pianta tradizionalmente
utilizzata nelle pratiche alchemiche. Ceccarelli
era entrato in rapporto con Alberico Cibo Malaspina, principe di Massa, interessato a raccogliere informazioni sulla storia della famiglia sin
41
dal 1571. Per lui Ceccarelli redasse un Simolacro
dell’antichissima e nobilissima Casa Cybo (ig. 34),
manoscritto presso l’Archivio di Stato di Massa,
nel quale utilizza fonti in gran parte inventate
come era sua abitudine, sostenendo origini antichissime della famiglia; tra le altre personalità,
un Carolus e Henricus Cybo avrebbero militato al
servizio di re Artù nel 454 ed altre amenità. Il carteggio con Alberico, che ebbe sempre molti dubbi
sulla fondatezza del lavoro dello studioso, proseguì ino all’imprigionamento di Ceccarelli nel
1583, con l’accusa di aver falsiicato documenti,
testamenti, idecommissi di molte altre famiglie
cui aveva offerto il proprio servizio, che gli procurò la condanna a morte nello stesso anno. Cfr.
Sforza 1895, pp. 276-287.
42
Cfr. Felici 1977; Findlen 1994, pp. 163-170.
Questo sistema di annotazione era in uso nella
cosidetta “astrologia botanica” e consentiva di tenere in considerazione il rapporto tra le piante e i
cicli astronomici, in relazione ai quali in genere si
decideva il periodo in cui piantare o asportare la
pianta dal suo habitat. Cibo possedeva anche un
erbario trecentesco manoscritto, dipinto, oggi alla
Biblioteca comunale “Romolo Spezioli” di Fermo
(cfr. pp. 239-242), che gli era pervenuto da parte
di “certi militari piemontesi”. Il documento fa
parte di una tradizione medievale editorialmente
piuttosto stabile sia nel testo che nell’apparato di
immagini, diffusa nell’Italia centro-settentrionale.
Anche Aldrovandi risulta ne avesse quattro copie. Le piante vengono trattate spesso dal punto
di vista astrologico, in relazione alla loro capacità
di favorire la trasmutazione dei metalli, come la
Lunaria. Cfr. Segre Rutz 2000. Gherardo, insieme
con Gaspare Marchetti e Berardo Bianchi, risulta essere andato in una località deinita “grotta
dell’Aracoeli” alla ricerca della Lunaria odorata o
greca il 14 agosto 1584 (Celani 1902, p. 30).
43
44
Fuchs ricevette da Ghini molti campioni e forse parte della sua collezione di piante secche alla
sua morte. Cfr. N. Galassi, Luca Ghini, una vita
per la scienza, in Luca Ghini 1992, pp. 187-205. Il
viaggio sul monte Baldo fu poi pubblicato da
Calzolari nel 1556.
Leoniceno aveva apprezzato gli studi ilologici sui testi antichi, anche scientiici, di Poliziano
e aveva sottoposto la documentazione medicoscientiica antica a una revisione sistematica riscontrando innumerevoli errori e corruzione dei
testi in Plinio e nella successiva tradizione araba
e medievale. Per questo motivo aveva dichiarato Plinio il Vecchio inattendibile, difeso invece
da Pandolfo Collenuccio (1444-1504), letterato
e diplomatico al servizio degli Sforza di Pesa45
100
ro. L’interesse ilologico di Leoniceno, in questa
prima fase di revisione della tradizione scientiica antica, era tuttavia propedeutico alla individuazione dei veri signiicati delle espressioni
antiche, con obiettivi pratici che andavano ben
oltre la ricostruzione ilologica dei testi. Questa
attenzione per la scoperta delle res dietro ai verba
creò le condizioni epistemologiche per trasformare lo studio dei testi botanici antichi in una
scienza a base empirica. Leoniceno fu professore a Ferrara, tra 1512 e 1515, anche di Philippus
Theophrastus Bombast von Hohenheim, detto
Paracelso (1493-1541), che condivide con gli altri
suoi allievi un atteggiamento fortemente attento
all’osservazione originale del dato sperimentale,
anche se nel quadro, nel suo caso, di una architettura scientiica interna alla tradizione ermetica, e con una decisa critica per la tradizione.
46
Cfr. Ogilvie 2006; Kusukava 2011, pp. 163-177.
“Quod ad picturas ipsas attinet, quae certe
singulae ad vivarum stirpium lineamento et efigies expresseae sunt, unice curavimus ut essent
absolutissimae, atque adeo ut quaevis stirps suis
pingeretur radicibus, caulibus, foliis, loribus,
seminibus ac fructibus, summam adhibuimus
diligentiam” (L. Fuchs, De historia stirpium, Basilea, 1542, c. 6v, cfr. Kusukawa 2011, pp. 114-115).
47
48
Kusukawa 2011, pp. 249-258.
49
Angelini 2003, p. 12 e ss.
Secondo Angelini 2003, Bocchi e i suoi colleghi
accademici dell’Hermathena seguivano, in questa ambizione, il pensiero di Daniele Barbaro (iglio di Ermolao), che ne aveva trattato nel Dell’eloquenza (Venezia, Ruscelli, 1557). Barbaro, curatore dell’edizione del De architectura di Vitruvio
edita a Venezia nel 1556, era anche responsabile
dell’Orto botanico di Padova. La coincidenza tra
retorica, architettura, impiego delle immagini e
botanica non era casuale. Cesare Odoni, successore di Ghini alla cattedra dei “Semplici” di Bologna, fonda nel 1563 l’Accademia dei Secondi
Affamati per proseguire il progetto dell’Accademia di Bocchi, scioltasi l’anno prima in seguito
alla morte del suo fondatore.
50
A Bologna c’era anche un altro eterodosso con
interessi botanici e medici come Michele Serveto, al seguito del Cardinale Juan de Quintana,
confessore di Carlo V.
51
La sola familiarità studentesca non giustiica
il legame che si è creato fra molti di questi personaggi, spesso anche tra professori e studenti,
che si nutre probabilmente di un comune sentire
religioso, vicino agli “spirituali”, e di una condivisa propensione alla tolleranza politica e al
52
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
dialogo con i riformati, rappresentato per qualche tempo dal Cardinale Reginald Pole. Lando
sarà protetto da Madruzzo nel 1545; Longueil e
Pole sono amici di Leoniceno, maestro di Ghini,
che, a sua volta, è in corrispondenza con Fuchs,
di fede riformata. Lo stesso Ghini si rifugiò a
Fano proprio quando, tra 1536 e 1539, Cosimo
Gheri, grande amico di Beccadelli e di Pole, ne
assume il vescovato. Il rapporto con Bologna di
Cibo non è ancora stato suficientemente chiarito. Una lettera del 1673 dello storico dell’arte
Filippo Baldinucci, richiesto di raccogliere informazioni su Gherardo Cibo come artista, lo aveva
deinito, nel sostenere che non se ne trovavano,
come “bolognese” (cfr. Tongiorgi Tomasi 1989a).
53
Lando 1553, n. 416.
Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Angelo Odoni (on line). Odoni che dopo gli studi di
medicina a Bologna si era trasferito a Strasburgo per studiare le lingue antiche, presso Butzer,
era un entusiasta della Riforma ed ammiratore
di Erasmo e molto vicino a Lando, cfr. Grendler
1969, p. 25. Martin Butzer (o Bucer), 1491-1551,
già domenicano alsaziano, era passato con Lutero sin dal 1518. Il suo pensiero teologico si caratterizzava per un certo sincretismo tra le idee
dei cattolici e dei riformati e per una attitudine
alla tolleranza sulle questioni dottrinali. Lando
era in stretti rapporti con Butzer; nel 1535 era andato a Lione presso il tipografo calvinista Jean
de Tournes, portando con sé lettere per il leader
riformatore.
54
55
Grendler 1969, pp. 20-38.
56
Grendler 1969, pp. 104-108.
Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Caterina
Cybo (on line).
57
58
Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. M. Antonio Flaminio (on line). Nel fondo Passionei
dell’Angelica risultano conservati i seguenti titoli: B. Ochino, Il catechismo o vero Institutione christiana (Basilea, P. Perna, 1561); R. Pole, Discorso
di pace a Carlo V imperatore (Roma, A. Blado,
1555); R. Pole, Ad Henricum Octavium Britanniae
regem (Strasburgo, W. Rihel, 1555); R. Pole, Liber
de Concilio (Venezia, Ziletti, 1562); R. Pole, Reformatio Angliae (Roma, P. Manuzio, 1562); R. Pole,
Epistola de sacramento Eucharistiae (Cremona, Ch.
Draconium, 1584); C. de Longueil, Epistolarum
libri quattro (Colonia, P. Horst, 1591).
Lettere di molte valorose donne (Venezia, Giolito,
1548); Dialogo nel quale si ragiona della consolazione
e utilità che si gusta leggendo la Sacra Scrittura (Venezia, Comin da Trino, 1552); Lettere della molto
illustre sig. la s.ra donna Lucretia Gonzaga da Ga59
101
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
zuolo con gran diligentia raccolte (Venezia, Scotto,
1552); Due panegirici nuouamente composti, de quali
l’vno è in lode della S. Marchesana della Padulla et
l’altro in comendatione della S. Donna Lucretia Gonzaga da Gazuolo (Venezia, Giolito, 1552).
na Vigerio, nata Gastodengo, di nobile famiglia di
Savona, era andata sposa a Stefano Vigerio, fratello del Vescovo Marco II, Governatore dello Stato
di Urbino, e viveva a Montalboddo (oggi Ostra),
vicino Senigallia.
Lando è considerato il traduttore dell’edizione
italiana dell’Utopia di Moro, edita nel 1548: La
Repubblica nuovamente ritrovato, governo dell’isola
Eutopia (…) opra di Thomaso Moro (Venezia, 1548).
Cfr. Grendler 1969.
64
Lando 1553, p. 30.
65
Ivi, p. 78.
60
61
Lando 1553, pp. 15, 82, passim.
62
Lando 1553, p. 31.
P. Aretino, Lettera al Sinigaglia (Marco II Vigerio
della Rovere), in Il terzo libro delle lettere di M. Pietro Aretino (Parigi, Matteo il Maestro, 1609). Nella
lettera in realtà Aretino si riferisce a due persone: a
Ortensio e a un “nipote cavaliere” di Vigerio, rappresentati come particolarmente devoti al Vescovo, con un tono che sembrerebbe raccomandare
entrambi presso di lui, oppure utilizzando l’affetto
verso il congiunto per corroborare il possibile rapporto con Lando. È piuttosto probabile che questo
cavaliere fosse Gherardo, deinito eques nell’orazione funebre di Gilio (cfr. nota 1). Marco Vigerio
aveva infatti solo tre nipoti maschi: Gherardo, suo
fratello Scipione e Urbano Vigerio, che poi gli succederà nella cattedra vescovile di Senigallia nel
1560 (Coadiutore “eletto” già dal 1550). Scipione
era nato nel 1531 e Urbano nel 1533, erano dunque
entrambi troppo giovani nel 1542 per poter essere
accomunati con Ortensio Lando. Aretino sembra
conoscere il congiunto di Vigerio: aveva vissuto a
Roma nel 1520-21 e poi dopo il 1523, negli anni
in cui la città fu frequentata anche da Cibo. Era
stato amico di Raffaello, Bembo e nella cerchia
di Leone X Medici che lo proteggeva, poi amico
e cliente di Giulio de Medici e di Giovanni della
Rovere, lo stesso ambiente frequentato dai Cibo.
Quando Marcantonio Raimondi fu incarcerato
perché aveva inciso, nel 1524, alcuni disegni erotici di Giulio Romano, i famosi Modi, dedicati alle
posizioni erotiche, pensati originariamente come
modelli per alcune decorazioni del palazzo Tè di
Mantova, Aretino si adoperò per farlo scarcerare.
Alcuni di questi disegni sono riprodotti nel taccuino forsempronese di Gherardo, forse di sua mano.
I due quindi potrebbero ben essersi conosciuti.
Nelle sue vite dei santi Aretino aveva celebrato la
semplicità evangelica del Cristianesimo delle origini. Lando conosceva comunque i Vigerio. Una
lettera attribuita a Caterina Vigerio sulle virtù del
matrimonio (ma probabilmente scritta da Lando)
compare nel suo libro Lettere di molte valorose donne (Venezia, Giolito, 1548, 1549; l’edizione 1549 è
presente tra le opere nel fondo Passionei). Cateri63
Un altro indizio cospira nella direzione di un
rapporto tra Lando e Cibo, come abbiamo visto
in qualche relazione con Giulio Romano e gli eredi della scuola di Raffaello. Lando fu per qualche
tempo, a metà del secolo, a Teglio, in Valtellina,
presso la famiglia Besta, ispirando il ciclo iconograico degli affreschi del palazzo omonimo in
base alle sue idee sulla tolleranza religiosa. Anna
Travers, iglia di un calvinista di Zuoz, sposò
infatti nel 1576 Carlo I Besta, che era invece di
fede ortodossa. I pittori impiegati in questo ciclo
decorativo, con storie ispirate ai temi ariosteschi
e alle storie della creazione, furono Vincenzo e
Michele de Barberis. Vincenzo aveva collaborato nel 1531 con Giulio Romano a Palazzo Tè e
tutto il ciclo di Teglio rientra nello stile della sua
scuola. Cfr. Galletti Mulazzani 1983, pp. 163-181;
Bolzoni Girotto 2012, pp. 129-130.
66
N. Muratore, P. Munafò, Il fondo Cibo nella Biblioteca Angelica: contributo per una ricerca, in Nesselrath 1989a, pp. 55-58. Ulteriore evidenza che
delle carte e dei libri di Gherardo siano tornate
alla famiglia Passionei è la presenza presso la
Biblioteca comunale “Domenico Passionei” di
Fossombrone di diversi disegni di Cibo e del suo
noto “taccuino”, cfr. Nesselrath 1993.
67
Angelo Rocca (1545-1620), probabilmente un
trovatello cresciuto dai frati agostiniani, prese
il nome dal luogo di nascita. Lavorò per molto
tempo alla Tipograia vaticana e nel 1605 fu fatto Vescovo di Tagaste. Fu studioso degli alfabeti
antichi, di storia delle biblioteche e grande collezionista di libri, che donò nel 1614 al convento di
Sant’Agostino di Roma. Fece parte dell’Accademia dei dispersi, fondata a Rocca Contrada nel
1590. Cfr. Serrai 2004a.
68
Muzio 2000, libro II, p. 193. Muzio conosceva
Lando, al quale aveva indirizzato una lettera (libro III delle Lettere).
69
Cfr. Dizionario Biograico degli Italiani, s.v. Girolamo Muzio (on line). Muzio divenne un teorico
dell’arte e delle procedure del duello e sembra
essersi occupato, sotto questo aspetto, di una vicenda capitata a un componente della famiglia
Arduini, che era prevalentemente di militari;
cosa che supporterebbe un rapporto anche con
Cibo, che di Girolamo Arduini era amico. Cfr.
70
102
G. Muzio, Giustiicatione di G. Gaudenzio Arduini
intorno alle cose passate al capitano Giovanni Maria
Postumo, (s.i.l.), 1559.
Plinio il Vecchio, Naturalis historia, 34, 79-89.
Per Ortelio, cfr. Mangani 1998, p. 169. Un’idea
della visione religiosa e provvidenziale della
natura di Cibo la si può dedurre da alcuni versi del suo amico Annibale Niccolini da Gubbio,
che Cibo considerava particolarmente “cari”
(cfr. nota 77), pubblicati nel suo De curativis, ac
mittendi sanguinem scopis disputationes (Perugia,
Pietro Giacomo Petrucci, 1591, p. 171): “Sommo
fattor che con mirabil cura / con ininita providenza, e zelo / l’abisso, gl’animai, le piante, il
cielo / gli elementi governi, e la natura. / Pregoti homai da me la nube oscura / dilegui, e squarci il tenebroso velo / che si m’offusca l’intelletto,
e’l gelo / scacci, ch’ogn’hor più il cuor m’affredda e indura. / Tal ch’io possa al tuo grande
obligo in parte / renderne gratie, e quel dovuto
honore; con altri versi, e con più larga vena; /
E fa ch’io senta una millesma parte / del dolce
fuoco tuo, divino amore / come à Pietro facesti,
è à Maddalena”. Sulla competizione arte/natura
Cibo si sofferma nel Trattato della Miniatura (Ms
Bibl. Capit., Verona, CCCCXXX-3, c. 85v).
71
Roberta Fano e Claudia Menna della Biblioteca
Angelica, in un piccolo catalogo dattiloscritto di
una mostra tenuta nel 1985 (Anthologia botanica
1985), elencano alcuni di questi titoli che, secondo
Enrico Celani, anche in base a note di possesso e
annotazioni a lui attribuibili, potevano essere appartenuti a Gherardo Cibo (non tutti fanno parte
del fondo Passionei): Plinius, Historia naturalis (Venezia, N. Jenson, 1476); Hortus sanitatis (Magonza,
J. Meydenbach, 1491); P.A. Mattioli, I discorsi (Venezia, Valgrisi, 1573); P.A. Mattioli, Commentarii
(…) in libros sex Pedacii Dioscoridis Anazerbei (Venezia, Valgrisi, 1558); L. Fuchs, De historia stirpium
(Basilea, Oficina Isingriniana, 1542); P.A. Mattioli,
Il Dioscoride (Venezia, Valgrisi, 1548); Herbarum,
arborum, fruticum (…) imagines, ad vivum recens
depictae (Francoforte, Ch. Egenolph, 1552). L’Historia stirpium (Basilea, 1542) di Fuchs conservata
alla Biblioteca Corsiniana di Roma, con coloriture
delle xilograie e annotazioni, è stata attribuita da
Lucia Tongiorgi Tomasi (1993) a Cibo e ci troviamo probabilmente di fronte al volume di studio
di Gherardo negli anni di ritiro a Rocca Contrada.
72
Cfr. i disegni in forma di tondo al cat. nn. 114,
285. L’idea che si possa trattare di disegni per maioliche è stata proposta da Nesselrath (1989a, pp.
28-29). La bottega pittorica di Ramazzani, a Rocca
Contrada, avrebbe attivato anche una produzione
per maioliche, attività documentata in loco già da
XV secolo. Girolamo Mannelli era proprietario di
73
Gherardo Cibo. Dilettante di botanica e pittore di ‘paesi’
una fabbrica di maioliche a Santa Maria del piano
di Sassoferrato (cfr. Santini 2005b, pp. 44 e 46).
74
Il disegno con le olive e la relativa raccolta (British Library, Ms Additional, c. 182, cfr. ig. 162) assomiglia alla Giornata invernale di Brueghel (Vienna, Kunsthistorishes Museum). Le frequenti rocce
squarciate da archi e buchi presenti nei disegni di
Cibo sono simili agli “archi naturali” di De Bles,
forse utilizzati come modelli da Brueghel, in particolare nella miniatura che egli eseguì, secondo
De Tolnay 1965, per Giulio Clovio, nel Lezionario
Towneley nel 1553. Nella miniatura la nave è simile
a quella della Veduta del porto di Napoli di Brueghel
alla Galleria Doria Pamphilj di Roma.
75
Cfr. ig. 1. Il rapporto Celidonia/rondini era
confortato anche dalla credenza che questi uccelli avessero l’abitudine di stroinarne dei rametti
sulle palpebre dei loro piccoli per far aprire loro
gli occhi, a causa della virtù oftalmiche della
piante celebrate negli erbari del Rinascimento
(cfr. Cattabiani 1996, pp. 555-556).
76
Cfr. Bolten 1969.
I due sonetti compaiono in calce al volume
di Niccolini (morto nel 1636), De curativis, ac
mittendi sanguinem scopis disputationes, Perugia,
Pietro Giacomo Petrucci, 1591 (Sonetti del molto
ecc.te Sig. Annibale Niccolini da Gubbio, p. 171).
La pagina del quaderno cibiano con l’annotazione è riprodotta da Nesselrath 1993, ig. 249
(debbo questa informazione alla cortesia di Stefano Rinaldi). L’opera fu evidentemente inviata
dall’autore a Gherardo fresca di stampa. Tra i
libri del fondo Passionei dell’Angelica di carattere bucolico registriamo: A. Poliziano, Sylva
(Basilea 1518); L’Arcadia annotata da M.F. Sansovino (Venezia, 1585); Teocrito, Boukolika (Firenze, 1515); G.M. Avanzi, Il Satiro, favola pastorale
(Venezia, 1587); G.B. Guarini, Il verato secondo
(…) in difesa del Pastor ido (Firenze, 1593).
77
78
Testamento dell’8.12.1599, Codice Ottoboniano
3135, c. 208v, Biblioteca Apostolica Vaticana; cfr. Urbanelli 1978-84, P. I, vol. II, p. 48, n. 61; Gieben 1975.
Dopo una vita considerata esemplare, viene avviato il processo canonico di beatiicazione di Benedetto Passionei, nel 1630, conclusosi solo nel 1867, su
iniziativa di Domenico e del fratello Gianfrancesco,
Vescovo di Cagli. Per questa occasione fu probabilmente redatta la Vita scritta dal padre Lodovico
della Rocca (Contrada), che ricorda la parentela con
Gherardo, presentato come “uomo di molta sincerità e bontà”, e il ritratto afidato al pittore forsempronese Giovan Francesco Guerrieri, all’origine
di una iconograia devozionale a stampa. È signiicativo che il nipote Marco, coerentemente con la
spiritualità venata di Riforma che aveva lambito i
103
L’arcadia marchigiana di Gherardo Cibo
Cappuccini sin dai tempi di Bernardino Ochino, sia
costretto a chiarire la propria ortodossia per essere
ammesso all’ordine, con la redazione di un saggio
sul De libero arbitrio di Agostino, nel quale premette
una lettera di pentimento dei suoi precedenti peccati. Cfr. Avarucci 2012, pp. 171-255.
79
Cfr. nota 60 per Lando; le opere I Marmi (Venezia, Marcolini, 1552-53); e I Mondi (Venezia,
Marcolini, 1552-53), erano inluenzate dall’opera
di De Guevara e di Moro.
80
Agostini 2004 (l’opera è rimasta inedita e manoscritta presso la Biblioteca Oliveriana di Pesaro ino a questa edizione) e Firpo 1957.
81
Cfr. Grendler 1969, pp. 164-165.
Ubaldini Fanelli 1969 p. 74, nn. 131, 181; Sabbatino 2009, pp. 1-27.
82
L’argomento utopistico della “città felice” deve
essere stato un tema caro anche a Urbano Vigerio
della Rovere, che ereditò il vescovato di Senigallia dallo zio Marco Vigerio II nel 1560. Urbano
era cugino di Gherardo. Il volume La città felice di
Francesco Patrizi da Cherso, un classico dell’utopia rinascimentale, edito a Venezia nel 1553, si apre
con una epistola dedicatoria indirizzata a lui, con
il quale aveva studiato a Padova. Specularmente al
progetto della “città giardino”, il Ducato dei della
Rovere cercava di rappresentarsi, come ho cercato
di analizzare nel mio Lo Stato Paesaggio. Città terre e
castella del Ducato di Urbino, in Mangani 2012b, pp.
60-116, come una sorta di “Stato Paesaggio”, cioè
come un insieme di città e di “meraviglie” legate
in maniera bilaterale con il Duca. Invece di tentare
la costruzione di uno stato organico, i della Rovere,
nel timore di urtare la suscettibilità dei ponteici, di
cui erano feudatari, contrari alla nascita di uno stato urbinate con possibili velleità autonomistiche,
puntavano a una rappresentazione frammentata
del Ducato come quella che si ricava dal codice Stati Dominii Città terre e castella dei serenissimi Duchi e
Prencipi della rovere (1626), Ms 4434 della Biblioteca
Apostolica Vaticana, messo a punto quando il Ducato stava tornando allo Stato Pontiicio per estinzione della dinastia roveresca. Il codice rappresenta tutto il territorio come un insieme di vedute
urbane nel paesaggio e lo stesso Ducato con una
carta d’insieme che privilegia la veduta prospettica
dal mare, invece che una riproduzione cartograica
dei vari distretti amministrativi. L’autore del codice, il pesarese Francesco Mingucci, era un pittore
di animali e piante, al servizio degli Horti romani
dei Barberini, cfr. Città e castella 1991.
83
84
Eiche 1995; su Scheper (Anversa 1558 ca – Casteldurante 1603) cfr. Leonardi 1993; Bottaccin
2012.
Il Barchetto è rafigurato da Mingucci, cfr. ig.
28. Martui 2003-2004; Paccapelo 2012.
85
86
In una lettera del 21 giugno 1562 Cibo e Arduini si scambiano informazioni a proposito del colore della “rosetta” (Archivio di Stato di Firenze,
Ducato di Urbino, Cl. I, Div. G, Filza 268, c. 87;
cfr. Celani 1902, p. 42; Eiche 1993-2000). Il 27 settembre 1579 Arduini prende a prestito il “libro
grande de’ paesi a penna” (come si evince dalla trascrizione dal diario perduto di Cibo fatta
da Celani 1902, p. 10); nel 1586 procura per lui
e il fratello Scipione due copie del volume Due
libri dell’historia de’ semplici di Garzia dall’Orto,
(Venezia, Ziletti, 1582), ancora nel fondo Passionei dell’Angelica, schedato da Gherardo tra
i libri posseduti, in previsione di un passaggio
di proprietà, nel 1597 (nota di possesso: “1586.
Ghirardo Cibo: questo libro co(n) u(n) altro simile, ch’ vog... mio fratello lo ricevej d’... li 5 d(i)
giugno 1586 mandat[om]i dal S.r Cavalier Gironimo Ardoino, portatomi da Paolo già hebreo:- jl
costo dell’un[o è] paoli 5 1/2 ch’ t[r]a tutti dua
sono Pa[ol]i ondici”. Sul verso del primo foglio
di guardia anteriore nota ms.: “D(a)to jn lista
ge(nna)ro 1597)”. Nel 1591 Arduini invia a Cibo
un disegno di paesaggio del pittore iammingo
Giovanni Scheper; rif. cat. n. 119).
Il paesaggio marchigiano, dall’Arcadia di Cibo
al ruralismo di Fabio Tombari e Paolo Volponi, è
stato percepito in questa chiave con continuità.
Alla fondazione dell’accademia dell’Arcadia, a
Roma, nel 1690, troviamo una presenza signiicativa di agrari marchigiani che elegge uno di
loro, il maceratese Giovanni Mario Crescimbeni (1663-1728), come principe. Su questo argomento cfr. il mio Le Marche giardino, in Mangani
2012b, pp. 31-116.
87
Su questo tema cfr. Bolzoni 2002; Pasquinelli
2012; Mangani 2012a.
88
89
P. Ridoli da Tossignano, Historiarum libri duo
(1596), Ms, Biblioteca comunale Antonelliana,
Senigallia.
La raccolta fu messa assieme da Rocca e ovviamente conservata nella sua biblioteca; consta di
novantadue piante e centottantasette descrizioni
di città e paesi. Al momento del passaggio della
Biblioteca Angelica allo Stato italiano, parte della documentazione rimase all’Archivio centrale
degli Agostiniani. Oggi è possibile conoscere
questa raccolta in maniera integrata grazie al
lavoro svolto da Nicoletta Muratore e Paola Munafò, edito in Muratore Munafò 1991.
90
Lodovico della Rocca, Vita del beato Benedetto,
in Avarucci 2012, pp. 217-255 (citazione a p. 219).
91
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Città e castella 1991
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Conte 1991
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Costabili 1858
Catalogo della prima parte della Biblioteca appartenuta
al Sig. March. Costabili di Ferrara composta da libri rari
e preziosi di diverso genere, manoscritti, libri impressi in
pergamena, quattrocentisti, aldi, elzeviri e opuscoli. La vendita avrà luogo in Parigi il giovedì 18 febbraio 1858 e nei
giorni seguenti… Casa Silvestre, Bons Enfant 28, Bologna,
presso Marsigli e Rocchi e Gaetano Romagnoli Libraj
in Bologna - Parigi, presso J. Demichelis Libraio, 1858
Coturri 1975
Coturri, Enrico, Aldrovandi Ulisse, in Scienziati e tecnologi. Dalle origini al 1875, Milano, Mondadori, 1975, I,
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Cozza Luzi 1894
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Cristofolini 1991
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Dacos 2012
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