Tecnici e intellettuali dei “saperi speciali” nei movimenti degli anni Settanta a Reggio Emilia
di Christian G. De Vito
Introduzione. I tecnici “dimezzati” a Reggio Emilia
Negli anni Sessanta, il boom economico portò con sé un incremento del numero e delle funzioni dei tecnici
dei “saperi speciali”. Si trattava di figure professionali direttamente inserite all’interno dei luoghi di
produzione, come i medici e gli psicologi del lavoro, o di quegli operatori sociali già presenti da alcuni
decenni nei paesi capitalistici più avanzati e che ora cominciavano ad essere impiegati più frequentemente
anche in Italia: l’espansione del sia pur limitato e frammentato welfare nazionale richiedeva infatti un
numero crescente di assistenti sociali, educatori, insegnanti dei servizi per l’infanzia e psicologi.
Con questo contributo si intende esaminare la vicenda di quei tecnici per il periodo compreso tra il
Sessantotto e la fine del decennio successivo, quando il loro mandato di razionalizzazione dello sviluppo e
moderazione della conflittualità sociale, caratteristico della fase dei governi di centro-sinistra, entrò in
conflitto con un processo di politicizzazione che li condusse alla contestazione radicale dei ruoli e dei saperi
di cui erano portatori. Alle spalle di tale fenomeno stava l’emergere della soggettività operaia, cui si legò,
con effetto amplificante, la contestazione antiautoritaria del movimento studentesco. Il relativo potere
conquistato dai lavoratori nelle fabbriche e le nuove forme assembleari e consiliari che di esso furono la
manifestazione tangibile, portarono alla contestazione della divisione del lavoro e imposero un
rovesciamento del punto di vista sulla presunta neutralità dei saperi implicati nella gestione del meccanismo
produttivo e, più in generale, della società capitalistica. Se la forza propulsiva della contestazione si trovava
nella fabbrica, costante fu lo sforzo di portare all’esterno degli stabilimenti industriali le conquiste ottenute,
inserendole in una più ampia richiesta di riforme strutturali capaci di garantire i diritti sociali dell’intera
popolazione: fu la “strategia delle riforme” che il movimento sindacale italiano portò avanti all’indomani
dell’Autunno Caldo.
Come vennero investiti i tecnici dei “saperi speciali” da questa spinta proveniente dalle fabbriche e dai
territori? In che modo e fino a che punto essi rifletterono sul proprio ruolo? Come trasformarono e
“aprirono” i propri saperi specialistici?
All’irruzione dei “saperi assoggettati” (Foucault) di cui erano portatori i soggetti sociali emergenti,
corrispondeva la contestazione dei “saperi speciali” che delle ideologie dominanti erano la traduzione
tecnico-operativa. Gli operatori, fossero essi impegnati nelle fabbriche o nei servizi sociali, si trovarono al
centro di quella spinta che proveniva dal basso. Una parte di essi si legarono a quelle mobilitazioni,
accettando di diventare quelli che Pierangelo Di Vittorio ha efficacemente descritto come “intellettuali
dimezzati”1: figure di psichiatri, medici, insegnanti, assistenti sociali, che vollero “invertire la delega,
assumendola direttamente dalla classe oppressa”2, mirando coscientemente a rompere il monopolio del
(proprio) sapere egemone, a farlo implodere, costantemente rimandando appunto ai saperi di quanti essi
erano stati delegati a controllare.
A mettersi in discussione, a “dimezzarsi”, non furono peraltro solo i tecnici. Dentro la crisi dell’intellettuale
“umanista”3, sulla scia della contestazione studentesca una rottura profonda si produsse anche tra i
ricercatori/docenti e il mondo accademico, con le sue logiche baronali, i suoi assetti gerarchici di potere, le
sue rigide classificazioni disciplinari. Nei movimenti furono coinvolti così economisti, sociologi, storici,
etnologi, antropologi. La limitatezza delle trasformazioni che ebbero luogo all’interno dell’università fece sì
che fosse soprattutto fuori dall’accademia – attorno alle riviste, ai centri di documentazione, ai collettivi che
fiorirono in quegli anni – che si crearono terreni di incontro con il movimento sindacale, con gli studenti ed
altri gruppi sociali. “Luoghi” da cui scaturirono nuovi modi di concepire la storiografia e sociologie,
etnologie e criminologie “critiche”.
E’ nelle forme dell’inchiesta e della “con-ricerca” – già enunciate nel corso degli anni Sessanta e ora
approfondite e praticate più diffusamente – che si riscontrano le più significative sedimentazioni
metodologiche di quei processi di critica al ruolo dell’intellettuale “puro”; fu in esse che vennero individuati
gli spazi di un programmatico confronto tra individui con ruoli sociali formalmente diversi ma accomunati
da un’idea emancipativa e militante del sapere.
1
Cfr. P. Di Vittorio, Foucault e Basaglia. L'incontro tra genealogie e movimenti di base, Verona, ombre corte, 1999,
pp.38-43.
2
Cfr. Franco Basaglia, Il concetto di salute e malattia, in F.Basaglia, Scritti, Torino, Einaudi, 1981, vol.II, p.379.
3
Su questo aspetto si veda il contributo di Antonio Tricomi nel presente volume.
L’analisi della situazione reggiana mostra le dinamiche generali sopra descritte in maniera esplicita, dato il
protagonismo che i tecnici ebbero all’interno di esperienze di rilievo non solo locale che si svilupparono in
contemporanea sul terreno della medicina del lavoro, della salute mentale, dei servizi per l’infanzia e dei
corsi delle “150 ore”.
Anche a Reggio il Sessantotto segnò una rottura profonda, iniziata con l’irruzione sulla scena di un forte
movimento degli studenti medi che si legò assai presto alla contestazione operaia anche attraverso specifiche
strutture come il Collettivo Lavoratori-Studenti. Si produsse così un collegamento che fu ulteriormente
rafforzato dalla contemporanea scelta di alcuni militanti della FGCI reggiana, che lasciarono il PCI per
portare avanti la propria militanza all’interno del sindacato, più vicino ai nuovi soggetti sociali in
movimento4. Nello stesso tempo, sul processo di politicizzazione dei tecnici influì l’orientamento degli Enti
locali, sin dagli anni Sessanta particolarmente sensibile alla necessità di strutturare una rete di servizi sociali
e che dopo il Sessantotto subì una analoga tendenza alla radicalizzazione.
Infine, uno degli aspetti più appassionanti della vicenda reggiana di quegli anni è nel suo muoversi dentro
una rete diffusa di relazioni che, sia pure non coincidente con la totalità della comunità cittadina, riuscì a
produrre un discorso che restò egemone per oltre un quinquennio. Quella rete di rapporti sarà qui chiamata
“comunità militante”, a sottolineare la sua informalità ed eterogeneità, la condivisione delle tradizioni
politiche cittadine che non escludeva conflitti personali e politici anche forti, la possibilità di incontro in
luoghi molteplici: nei teatri, le librerie, i cortei, alla Camera del Lavoro, alla trattoria “da Italo”, nel poi
famigerato “appartamento”5. Nei primi anni Sessanta il discorso politico prodotto dalla “comunità militante”
passò al setaccio le esperienze provenienti dagli anni precedenti e si legò a nuove tendenze, prima di cedere
di nuovo la scena, attorno al 1974, a differenti modi di concepire la città e la politica. In entrambi i casi, i
tecnici furono tra i protagonisti di quegli avvenimenti.
Paragrafo 1
Soggettività operaia, contestazione della divisione del lavoro, ruolo dei tecnici, inchiesta
La “medicina dei lavoratori”
Nella provincia di Reggio Emilia, nel solo 1965 l’INAIL aveva censito 16.999 infortuni e casi di malattia
professionale, saliti a 18.854 l’anno successivo6. A fronte di quella situazione, già nell’ottobre 1967 la
Commissione Sanità dell’Amministrazione provinciale propose al Consorzio Sanitario Intercomunale la
creazione di un Servizio di medicina scolastica e del lavoro. Il parere contrario espresso dalla Giunta
Provinciale Amministrativa (organo prefettizio di controllo), che addusse obiezioni sulle competenze della
Provincia in materia7, costrinse gli amministratori locali a creare un più informale Comitato esecutivo
medicina del lavoro8, del quale la mobilitazione sindacale sostenne l’operato soprattutto con riferimento al
distretto delle ceramiche”9, dove i lavoratori risultavano particolarmente esposti al rischio della silicosi e del
saturnismo.
4
Cfr. intervista a Tiziano Rinaldini, Bologna, 29 marzo 2006. Cfr. Marica Tolomelli, Grandi conflitti industriali in una
piccola realtà di provincia, in Luca Baldissara, Myriam Bergamaschi, Antonio Canovi, Alberto De Bernardi, Adolfo
Pepe, (a cura di), Un territorio e la grande storia del ‘900. Il conflitto, il sindacato e Reggio Emilia, Roma, Ediesse,
2002, in particolare le pp.295-299, pp.307-308.
5
Cfr. Paolo Pergolizzi, L’appartamento. Br: dal Pci alla lotta armata, Reggio Emilia, Aliberti Editore, 2006.
6
Cfr. La medicina del lavoro e la sua realizzazione nell’ambito del vigente ordinamento giuridico, s.d. [ma 1967], in
ACLT, b.95, f. “Documenti sulla salute e l’ambiente di lavoro (1969-71)” [d’ora in poi “Doc. salute lavoro”].
7
Cfr. Comunicato stampa Divieto della GPA ad effettuare un’indagine sulle condizioni igienico-sanitarie in cui si
svolge il lavoro in provincia di Reggio Emilia, in “Provincia informazioni”, ottobre 1967, in ACLT, b.95, f. “Convegno
salute a Scandiano 1967”.
8
Si veda in particolare: Membri del Comitato esecutivo medicina del lavoro, in ACLT, b.95, f. “Doc. salute lavoro”.
9
Cfr. Programma di ricerca sui problemi della salute nella industria ceramica della provincia di Reggio Emilia , in
Amministrazione della Provincia di Reggio Emilia, Il servizio provinciale di medicina preventiva dei lavoratori e le sue
realizzazioni, luglio 1970, in ACLT, b.95, f. “Doc. salute lavoro”. Si rimanda inoltre a Come è sorto l’intervento della
Amministrazione provinciale per la medicina del lavoro, s.d., in ACLT, b.96, f. “Prevenzione della salute e ambiente di
lavoro”.
Nell’ottobre 1970, come effetto di una vasta mobilitazione sindacale sul tema della salute nei posti di lavoro,
duecento contratti aziendali prevedevano l’ingresso dei tecnici dell’Ente locale in fabbrica10. Ciò diede agli
Amministratori la possibilità di istituire il Servizio provinciale di medicina del lavoro, cui seguì nel marzo
successivo la creazione di un analogo Servizio comunale11.
La “medicina dei lavoratori” reggiana si ispirava ai principi della “non-delega”, della “validazione
consensuale” e del “rifiuto della monetizzazione” elaborati nel corso degli anni Sessanta dalla Commissione
medica della Camera del Lavoro di Torino, dentro la più ampia revisione della strategia sindacale seguita alla
sconfitta nella elezioni di Commissione Interna a Mirafiori nel 195512. Con essi si operava una rottura
profonda sia rispetto alla prassi abituale delle istituzioni preposte ai controlli – Ispettorato del Lavoro, medici
di fabbrica, ENPI, INAIL – sia in relazione all’impianto amministrativo-assicurativo portato avanti sin lì
anche dal sindacato. Quegli elementi di un nuovo “modello operaio” della medicina del lavoro si fondavano
sulla relazione orizzontale tra tecnici e lavoratori che all’interno delle fabbriche si sostanziava
nell’individuazione del “gruppo omogeneo” operaio come unità fondamentale per l’individuazione dei fattori
di nocività e delle misure per eliminarli.
L’esperienza reggiana in quel campo, come si è visto, affondava le radici in una mobilitazione autonoma dei
lavoratori della provincia per la difesa della salute. Recepì dunque precocemente i principi di fondo di quella
elaborazione nazionale attraverso i contatti con il sindacato bolognese13, ma li rielaborò all’interno di prassi
più flessibili rispetto al modello torinese. Su quella specificità influì soprattutto il ruolo svolto dall’Ente
locale, rappresentato dalla figura eclettica dell’assessore alla Sanità di quegli anni, Livio Montanari, ex
operaio delle Officine Reggiane approdato al sindacato dopo la sconfitta dei primi anni Cinquanta: nella lotta
per la salute in fabbrica portò l’irruenza di una scelta di campo precisa dalla parte dei lavoratori, il
riconoscimento della necessità di non sostituirsi alla loro iniziativa autonoma, né da parte dell’Ente locale, né
da parte dei tecnici14.
Quella medesima impostazione militante ebbero i servizi di medicina del lavoro, che anche nella
elaborazione teorica si caratterizzarono per originalità e flessibilità in rapporto ai modelli nazionali. Si
sottolineava l’aspetto preventivo alla base del nuovo modello, del quale il movimento sindacale provò ad
informare l’impianto complessivo del sistema sanitario15. In questo contesto venne esplicitamente teorizzato
un ruolo dei medici del lavoro e dei tecnici di laboratorio corrispondente al protagonismo operaio16. In alcune
relazioni, il consulente del Servizio, Edoardo Gaffuri, sottolineò come “l’intervento del tecnico che rifiuti la
linea autoritaria”17 dovesse riguardare il “lavoro di assemblea”, consistente nella raccolta e discussione di
questionari, e l’elaborazione con gli operai dei gruppi omogenei di “criteri scientifici soggettivi” relativi ai
limiti di tollerabilità delle condizioni ambientali, contrastanti i criteri oggettivi della scienza ufficiale. Quello
dei tecnici doveva divenire quindi un ruolo di supporto specialistico politicamente subordinato al controllo
operaio, e come tale fu inteso dagli operatori dei servizi di medicina del lavoro reggiani, che per l’origine
intrecciata alle lotte operaie e in virtù del ruolo dell’Ente locale ebbero una connotazione fortemente
10
Si veda la relazione di Luigi Lenzarini al Convegno regionale del 6 ottobre 1970 presso la Camera lavoro di Bologna,
Note per lo sviluppo del dibattito e per l’iniziativa della CGIL sui problemi dell’ambiente di lavoro, in ACLT, b.95, f.
“Doc. salute lavoro”.
11
Per le linee di fondo del Servizio comunale di medicina del lavoro, cfr. Proposta: Istituzione di un servizio comunale
di medicina ed igiene del lavoro, s.d., in ACLT, b.95, f. “Doc. salute lavoro”.
12
Per una bibliografia di base: Ivar Oddone, La difesa della salute dalle fabbriche al territorio, in “Inchiesta”, A.II, n.7,
estate 1972, pp.22-34; I.Oddone, Medicina preventiva e partecipazione, Roma, Esi, 1975; I.Oddone, G.Marri e coll.,
Ambiente di lavoro, la fabbrica nel territorio, Roma, Esi, 1977; G.A.Maccacaro, Per una medicina da rinnovare. Scritti
1966-1976, Milano, Feltrinelli, 1979.
13
Sull’esperienza bolognese si veda in particolare i risultati dell’ampia inchiesta che fu condotta a partire dal novembre
1972 su vari settori produttivi, pubblicati in Rapporto dalle fabbriche, Roma, Editori Riuniti, 1973.
14
Si vedano gli appunti manoscritti che iniziano con le parole Cosa abbiamo fatto noi, s.d. [ma 1969-1971], in ACLT,
b.95, f. “Doc. salute lavoro”. Si vedano anche gli appunti manoscritti intitolati “Sanità nostra Provincia”, s.d., in ACLT,
b.95, f. “Ambiente-salute 68/73”.
15
Si veda in particolare: Documento conclusivo del seminario di studio sulla salute, svoltosi a Cison di Valmarino dal
31/1/72 al 5/2/1972, s.d. [ma inizio 1972], in ACLT, b.95, f. “Ambiente-salute 68/73”.
16
Linee metodologiche dell’intervento medico in fabbrica, in Notiziario di medicina preventiva e del lavoro,
supplemento a “la provincia di reggio emilia”, 12, p.3, in APP, b. “1. Camera del Lavoro”, f. “CdLT Archivio
depositato presso la CdL di Cavriago”.
17
Cfr. l’intervento di Edoardo Gaffuri al convegno su “Lotte operaie, enti locali e medicina del lavoro nel quadro della
riforma sanitaria”, cit..
militante, più marcata rispetto ai servizi sorti in quei medesimi anni in altre città e in paragone anche con i
servizi che a Reggio stessa si sviluppavano nel campo della salute mentale e in rapporto all’infanzia.
A ciò contribuì anche la composizione del collettivo degli operatori, formatosi nell’incontro di giovani di
ventiquattro-venticinque anni da poco laureati in medicina e già attivi nei movimenti studenteschi di altre
città, con tecnici di laboratorio coetanei e motivati politicamente: erano chiamati i “tecnici ragazzini”18. A
tale definizione corrispondeva una prassi di lavoro fortemente sperimentale, sulla spinta della necessità e
dell’entusiasmo di inventare ex novo il Servizio, di una esplicita volontà di contrapposizione verso il modello
delle istituzioni tradizionali del settore e di una chiara scelta politica di “stare dalla parte dei lavoratori”. Si
operava quindi in quei primi anni Settanta nella medicina del lavoro con lo spirito con cui si era stati poco
prima militanti dei movimenti studenteschi, puntando a “praticare l’obiettivo” senza badare ad orari e turni,
stabilendo rapporti diretti con gli operai dei Consigli di fabbrica, entrando nelle fabbriche anche senza
autorizzazione e denunciando con un linguaggio privo di mediazioni le condizioni che si riscontravano.
I tecnici della medicina del lavoro reggiana avevano delle figure di riferimento in Edoardo Gaffuri e Sergio
Tonelli19, ma non vi era una struttura gerarchica definita. Ricorda Adele Valcavi, primo tecnico di
laboratorio del Servizio20: “non avevamo una forma mentale istituzionale; pesavamo uguale, perché eravamo
tutte persone che iniziavamo allora, tutti dovevamo imparare, tutti dovevamo studiare”. Si documentavano
quindi quanto più potevano prima di entrare in una fabbrica, assorbendo l’elaborazione teorica che proveniva
dal movimento sindacale e quella estera che il fondatore di Medicina Democratica, Giulio Maccacaro, mise a
disposizione in italiano in quegli stessi anni curando la collana “Medicina e Potere” per l’editore Feltrinelli.
Tra quei volumi, ad occupare un posto centrale nelle biblioteche dei “tecnici ragazzini” fu in particolare
quella autentica “Bibbia” che per essi divenne il libro sui rischi del lavoro in fabbrica di Stellman e Daum21.
Ai motivi politici e ai problemi organizzativi che determinavano il non-funzionamento degli Ispettorati del
Lavoro e degli altri Enti preposti al controllo, gli operatori dei servizi della medicina del lavoro reggiana
furono sostanzialmente disinteressati: vedevano in quelle strutture amministrative delle controparti da
denunciare sul piano politico, quelli che risolvevano tutto il problema a “latte e soldi” e che quindi non
meritavano neppure di essere presi in considerazione a livello operativo. Il loro stile di lavoro e di impegno
erano estranei a quello burocratico e professionale degli ispettori del lavoro e le rotture delle gerarchie, dei
ruoli, dei saperi tradizionali non avevano neppure bisogno di specifici modelli alternativi, avvenivano in
modo quasi scontato nell’attività di tutti i giorni. La collaborazione orizzontale tra medici e tecnici diveniva
in questo senso un fatto ovvio, interno a rapporti anche personali che nascevano nella condivisione di un
impegno quotidiano; il carattere collettivo dell’intervento, la moltiplicazione dei momenti assembleari erano
necessari per un maggiore coordinamento organizzativo e per l’analisi della situazione; l’ampliamento del
concetto di “malattia professionale” e il rapportarsi alla totalità delle conseguenze dell’organizzazione del
lavoro era implicito in quanto si osservava concretamente nelle fabbriche.
Chiamati dai Consigli di fabbrica, i “tecnici ragazzini” arrivavano davanti agli stabilimenti a piedi, in
autostop o in bicicletta e lì iniziava una non rituale tenzone con gli imprenditori e i guardiani. “Ai sensi
dell’articolo tal dei tali vi invito ad uscire” – diceva il datore di lavoro. “Ai sensi del tal dei tali articolo noi
entriamo” – rispondevano, e poi entravano, in alcuni casi prendendo denunce per violazione di domicilio.
Accadeva tutte le volte e anche più volte al giorno. Gli operatori erano pochi, l’organizzazione del Servizio
frenetica: una riunione con i gruppi omogenei alle nove e un’assemblea altrove alle undici, un nuovo gruppo
omogeneo alle quindici e così via fino alla sera. Chi aveva figli li portava con sè, mettendoli a sedere sui
pancali mentre si facevano discussioni e misurazioni.
Non era solo il benessere fisico dei lavoratori e delle lavoratrici ad essere in questione: anche la loro
condizione psicologica richiedeva di intervenire. A livello istituzionale e culturale, del resto, il quadro del
sapere e delle prassi della psichiatria era oggetto di forti trasformazioni e a Reggio Emilia – come si vedrà
L’espressione è di Silvia Candela nel breve scritto intitolato La medicina del lavoro a Reggio alla fine degli anni ’60:
la sanità rivoluzionata?. Si tratta degli appunti di un intervento per un congresso tenutosi a Reggio Emilia il 30
settembre 2004.
19
Dell’importanza del ruolo di Tonelli nel Servizio di medicina del lavoro reggiano è testimonianza il libro a lui
dedicato: Stefano Beccastrini, Marco Biocca, Silvia Candela, Alessandro Martignani, Vent’anni di cultura per la
prevenzione. Contributi di Sergio Tonelli, Regione Emilia Romagna – SEDI/Regione Toscana – CEDOC, Tipografia
Moderna, 1994.
20
La ricostruzione che segue si basa sull’intervista da me effettuata ad Adele Valcavi, Reggio Emilia, 19 gennaio 2007.
21
Cfr. Jeanne M.Stellman, Susan M.Daum, Lavorare fa male alla salute. I rischi del lavoro in fabbrica, Milano,
Feltrinelli, 1975.
18
nel paragrafo seguente – già nel luglio 1969 si giunse all’istituzione di un Servizio Psichiatrico Provinciale
(SPP) con spiccata vocazione per il radicamento nel territorio.
L’intervento congiunto dei due Servizi verteva quindi sugli effetti dell’organizzazione del lavoro sul
benessere psicologico degli operai, unendo gli aspetti strutturali a quelli soggettivi22. Esso accompagnò già i
primi passi del SPP, ebbe una rilevanza primaria per la possibilità di sviluppo di quel Servizio e fu impostato
secondo modalità di inchiesta sempre più precise23. Si procedette infatti da una forma di consulenza
psicologica individuale a discussioni assembleari e con i gruppi omogenei, spesso riuscendo a legare
quell’azione tecnico-politica all’individuazione di rivendicazioni da inserire nelle piattaforme per la
contrattazione aziendale. L’intervento più significativo da questo punto di vista fu quello condotto nel corso
del 1972 alla “Bertolini”, azienda metalmeccanica di Reggio Emilia24. Esso assunse il carattere di modello
ideale di rapporto tra tecnici e operai: i tecnici erano stati infatti chiamati dal Consiglio di fabbrica, avevano
partecipato ai dibattiti con la totalità delle maestranze, avevano contribuito ad individuare fattori di rischio e
danni per la salute dei lavoratori, senza che da parte di questi si sviluppasse alcuna forma di delega.
L’intervento del SPP e del Servizio di Medicina del Lavoro configurarono così sempre più delle vere e
proprie inchieste sulla condizione della salute dei lavoratori e sull’organizzazione complessiva della
produzione. All’interno di un contesto in cui il peso del sapere operaio era pari, se non superiore, a quello del
medico del lavoro e dello psichiatra, l’analisi tecnica diveniva il supporto per una più ampia interpretazione
della situazione e per l’elaborazione collettiva di prassi alternative.
“150 ore”, l’inchiesta e “Inchiesta”
Al fondo della nuova concezione della “costruzione della salute” e alla base, più in generale, dei processi di
“non delega” affermati anche in altri campi, stava la radicale contestazione della divisione del lavoro e il
tentativo di elaborare un modello alternativo di sapere. Esplicitamente si puntava infatti alla “socializzazione
della scienza”, rottura estrema del monopolio delle cognizioni tecniche da parte degli specialisti25. Se dunque
l’obiettivo generale non era semplicemente la sensibilizzazione “subalterna” dei lavoratori da parte dei
tecnici o dei dirigenti sindacali, ma il protagonismo dei lavoratori stessi nella trasformazione della società, si
rendevano necessarie nuove forme di apprendimento collettivo che permettessero loro di appropriarsi
interamente e criticamente dei processi di produzione e trasmissione del sapere.
Uno strumento importante in quel senso furono le cosiddette “150 ore”, ossia il diritto dei lavoratori a fruire
di quel monte ore per coltivare collettivamente gli studi26. Conquistato all’interno del contratto nazionale dei
metalmeccanici nell’aprile 1973 e successivamente anche in quelli delle altre categorie, esso si inseriva nella
strategia sindacale di “inquadramento unico” elaborata dopo l’Autunno Caldo, volta al “superamento di
divisioni profonde” tra operai, impiegati e tecnici e dunque tra lavoro manuale e lavoro intellettuale. Le “150
ore” corrispondevano alla esigenza di “appropriazione del sapere”, a partire da un riconoscimento della
centralità del sapere operaio inscindibilmente legato alla necessità di stimolare la sistematizzazione e
autoriflessione su di esso. L’esperienza diretta dello sfruttamento in fabbrica non significava infatti
automaticamente una piena consapevolezza “dei nessi esistenti tra i vari fenomeni economici, politici,
tecnologici, scientifici”. Tali nessi necessitavano, per essere realmente compresi, di “essere ricostruiti
collettivamente” al fine di maturare anche delle proposte alternative, per “controllare e anticipare, se
possibile, le mosse padronali”27.
Sulla rilevanza attribuita alla “soggettività” anche nell’ambito della salute mentale, si rimanda in particolare a
G.Jervis, Gli stati di sofferenza soggettiva degli operai in rapporto alla condizione di lavoro. Nuove prospettive di
intervento in difesa della salute, pubblicato in “Notiziario di medicina preventiva e del lavoro”, supplemento a “La
Provincia di Reggio Emilia”, 15, marzo 1971.
23
Sull’intervento nelle fabbriche da parte del SPP, cfr. Valeria Pezzi, Assunta Ferretti, L’esperienza dei centri di igiene
mentale. Reggio Emilia (1968-1978), dattiloscritto, Reggio Emilia, Centro di documentazione di Storia della Psichiatria,
s.d., pp.15-17.
24
La fonte più importante a riguardo è rappresentata da: Servizio Psichiatrico Provinciale, Servizio di Medicina del
Lavoro del Comune di Reggio Emilia, Consiglio dei delegati di fabbrica della “Bertolini”, Rapporto di inchiesta sulla
salute nella industria metalmeccanica “Bertolini”, ristampa giugno 1974. Una copia si trova in APP, fuori busta.
25
Cfr. Amministrazione della Provincia di Reggio Emilia – Dipartimento di Igiene Ambientale – Servizio di Medicina
del Lavoro, La medicina del lavoro oggi, s.d., in ACLT, b.96, f. “Sanità-Medicina del Lavoro”.
26
Sui corsi delle “150 ore” a Reggio Emilia si segnala soprattutto il materiale conservato in ACLT, b.535.
27
Si veda ad esempio FLM Emilia-Romagna, Documento FLM Emilia-Romagna sull’utilizzo delle 150 ore, datato 9
novembre 1973, in ACLT, b.535, f. “150 ore”.
22
I corsi dunque non dovevano né essere finalizzati alla mera formazione professionale, né avere carattere
esclusivamente politico-ideologico28. L’esperienza reggiana portava da questo punto di vista un contributo
fondamentale, perché già nei primissimi anni Settanta era stato organizzato all’interno dell’Istituto Tecnico
Industriale della città emiliana un “controcorso” impostato secondo quei medesimi principi29. Ora però, dopo
la conquista contrattuale del 1973, era giunto il tempo per il movimento sindacale reggiano come per quello
nazionale, di inserire i corsi delle “150 ore” dentro la scuola statale30. Essi si legavano in quel modo
strutturalmente alla prospettiva della riforma dell’istruzione e della ricerca, uno dei pilastri della “strategia
delle riforme” del sindacato a livello nazionale. Con l’irruzione degli operai organizzati nella scuola
pubblica, le “150 ore” venivano infatti ad assumere il significato di “aggressione dall’interno della scuola
attuale”, di programmatica apertura di contraddizioni dentro l’istituzione scolastica e i meccanismi di
formazione del sapere, attorno ai nodi dell’autoritarismo, dei programmi e del ruolo degli insegnanti31.
Parallelamente, veniva rovesciato, almeno idealmente, il modo stesso di concepire le unità didattiche e i
rapporti tra le discipline. Al tradizionale sistema incentrato sulla divisione tra le varie “materie” e sul lavoro
isolato dei singoli insegnanti, veniva sostituita una strutturazione che poneva al centro un tema e chiamava i
singoli educatori e altri soggetti esterni al mondo scolastico a collaborare in vista di una comprensione dei
vari aspetti della questione da parte dello studente32. Il tema inoltre aveva attinenza con l’esperienza concreta
degli studenti, pur non essendo necessariamente legato alle tematiche occupazionali, e veniva svolto
attraverso un procedimento che unificava il metodo scientifico, quello ricerca storica e quello dell’inchiesta.
Si mirava così all’acquisizione di un metodo critico, non nell’ottica di una mera esaltazione dell’esperienza
in contrapposizione alle conoscenze già codificate, ma in un processo di apprendimento scaturito dalla
riflessione collettiva, nel quale l’inchiesta sui fenomeni sociali rivestiva un ruolo determinante.
L’inchiesta sembrò infatti rappresentare lo strumento che meglio di altri poteva garantire il processo di
riformulazione e ricomposizione del sapere, a partire proprio dal rapporto tendenzialmente paritario che si
determinava tra quelli che nell’introduzione sono stati definiti “intellettuali dimezzati” e gli individui
portatori dei “saperi assoggettati”. Divenne così pratica diffusa, radicandosi nell’azione dei movimenti e dei
Consigli di Fabbrica, portando nella molteplicità dei luoghi del conflitto sociale quell’idea di con-ricerca che
già era stata formulata nel decennio precedente con l’intento di unire l’approfondimento teorico all’azione
politica.
Nel suo riconoscere il valore di tutti i saperi, l’inchiesta tendeva anche a negare la sovrapposizione del
concetto di sapere con il sapere accademico e intellettuale e in particolare a contestare il monopolio che di
esso avevano le istituzioni universitarie e i centri di ricerca tradizionali. Parallelamente, la contestazione
operaia della divisione del lavoro portava con sé una forte critica al ruolo stesso non solo dei tecnici, ma
anche degli intellettuali. Nel quadro degli stimoli che venivano anche dai movimenti studenteschi in ambito
universitario, un numero non ristretto di storici, etnologi, sociologi, antropologi fecero proprie le ragioni di
quella contestazione, costruendo percorsi di alleanza con i soggetti sociali emergenti e con quei tecnici dei
saperi speciali che, anche da questo punto di vista, ricoprivano un importante ruolo mediano: essi erano
infatti strutturalmente investiti dalle problematiche che emergevano dal lavoro quotidiano sul territorio, ma
contemporaneamente anche dalla necessità di “leggerle” e rielaborarle dentro griglie teoriche e analisi
politiche.
Sul piano dello scambio tra mondo sindacale reggiano e mondo accademico, particolarmente importante fu
l’incontro con Vittorio Capecchi e il più ampio gruppo di giovani intellettuali di area bolognese con lui
promotori di uno dei “luoghi” principali in cui si concretizzò la collaborazione militante tra intellettuali,
sindacato e tecnici: la rivista Inchiesta, che iniziò le pubblicazioni nell’inverno 1971 e che sintetizzava nella
metodologia e nelle tematiche i principi e gli interessi che muovevano anche l’intervento quotidiano degli
operatori reggiani.
Cfr. FLM Reggio Emilia, Note per l’apertura dei corsi, 9 ottobre 1974, in ACLT, b.535, f. “150 ore”.
Cfr. Tiziano Rinaldini, Lauro Sacchetti, documento che inizia con le parole Il rapporto con gli insegnanti e gli
studenti, 19 dicembre 1972, in ACLT, b.535, f. “Studenti 1971-1972”. Nel medesimo fascicolo cfr. Documento dei
lavoratori studenti di Reggio Emilia, s.d.
30
Documento della federazione regionale CGIL-CISL-UIL sulle “150 ore”, s.d. [ma 1973-1974], in ACLT, b.535, f.
“150ore”.
31
Cfr. Collettivo insegnanti dei corsi serali comunali di scuola media, Proposta di programma del corso di studi per il
conseguimento della licenza media per i lavoratori metalmeccanici, s.d. ma fine 1973, in ACLT, b.535, f. “150 ore”.
32
Cfr. Appunti per la riunione sulle 150 ore del 18 maggio – Milano 18 maggio 1973 – presso FIM-CISL via Tadino 21
ore 9.30, maggio 1973, in ACLT, b.535, f. “150 ore”.
28
29
I redattori si proposero infatti, sin dal primo numero, di pubblicare “sia resoconti di esperienze all’interno di
istituzioni specifiche che tentativi più ampi di analisi e di inchieste”, definendo queste ultime come “lo
strumento collegante l’elaborazione teorica con la prassi”33. Scrissero così sulla rivista i protagonisti di
alcune delle più significative esperienze nazionali e reggiane, tra gli altri Ivar Oddone, Giovanni Jervis,
Tiziano Rinaldini, in alternanza con gli interventi di docenti, giovani ricercatori, insegnanti, tecnici e
militanti di gruppi di base. Dall’autunno 1971 poi, all’interno delle pagine della rivista prese forma la rubrica
“Collegamenti tra inchieste”, che si proponeva di “agevolare le aggregazioni di gruppi e collettivi politici
relativamente ad inchieste in corso”. Attorno ad alcuni filoni di ricerca si costituirono dei variegati collettivi
e nelle pubblicazioni successive, la rivista riportava gli aggiornamenti sull’andamento dei lavori di ciascun
gruppo, citando recapiti a cui scrivere e invitando nuovi contatti a farsi avanti.
I tecnici parteciparono attivamente a quelle reti di inchiesta, delle quali un’altra rubrica della rivista
riproponeva anche quel modello di scambio orizzontale dei saperi con più specifico riferimento al loro
lavoro. Era intitolata “Collegamenti tra gli operatori sociali” e a curarla furono gruppi di operatori sociali che
si aggregarono attorno ad un nucleo originario di assistenti sociali ed educatrici protagoniste della
contestazione nei rispettivi campi. La rivista fu così la “voce” della prosecuzione di quelle lotte che già dal
1967-68 avevano visto impegnati in prima fila gli studenti delle scuole di servizio sociale di Bologna,
Trento, Napoli, Torino e Milano.
La connessione tra gli operatori si muoveva contemporaneamente sul piano politico e su quello della ricerca.
Al centro c’era la pratica dell’inchiesta, in grado anche di superare le letture troppo parziali e ideologiche che
alcune parti del movimento tendevano a dare. Ne è un esempio l’importante inchiesta che tre assistenti
sociali bolognesi condussero su oltre l’80% dei 374 assistenti sociali in servizio nella regione Emilia
Romagna, significativamente intitolata “Le rammendatrici del dialogo facile”34. Come nelle inchieste meglio
riuscite, le conclusioni delusero infatti le aspettative iniziali delle autrici, mostrando loro il quadro più
frastagliato dei punti di vista esistenti nel contesto sociale e costringendole a riformulare la propria strategia
di mobilitazione in maniera da coinvolgere gli altri operatori, risultati in larga misura “arroccati su posizioni
conservatrici ad oltranza”. Alla conseguente “tentazione della fuga dal proprio ruolo” esse contrapposero
infatti l’idea della necessità di allargare le alleanze con altri operatori sociali e con i lavoratori in generale,
ribadendo l’importanza dello strumento dell’inchiesta quale “momento teorico-pratico che permette di uscire
sul piano conoscitivo-operativo dalla specificità della propria situazione”. Uno strumento che poneva il
discorso sui saperi e quello della trasformazione sociale in campo aperto, contemporaneamente fuori dalle
scorciatoie ideologiche e da quelle tecnicistiche.
Paragrafo 2
“Conquistiamo il San Lazzaro al territorio”
Alla fine degli anni Sessanta gli Istituti Ospedalieri Neuropsichiatrici “San Lazzaro” erano una delle
istituzioni psichiatriche più rinomate d’Italia35, attraversata da un processo di razionalizzazione organizzativa
voluto dal Presidente del Consiglio di Amministrazione di quell’Opera Pia, Amadei36. Esso era volto
all’ammodernamento delle strutture e alla creazione della “necessaria rete periferica di un ospedale
moderno”37 attraverso l’apertura sul territorio provinciale di tre Centri di Igiene e Profilassi Mentale.
Il 19 luglio 1967, poco dopo la presentazione di quel piano, il Consiglio provinciale approvò l’istituzione dei
Centri di Igiene Mentale, il relativo regolamento e la realizzazione sperimentale dei primi CIM nel
capoluogo, a Scandiano e a Correggio38. Rispetto all’impostazione esclusivamente tecnico-organizzativa che
Cfr. [Editoriale], in “Inchiesta”, I, 1, inverno 1971, p.2.
Cfr. Luana Mulazzani, Renata Tentoni, Luisa Zamboni, Le rammendatrici del dialogo facile, cit., pp.65-77.
35
Si rimanda soprattutto a: Mauro Bertani, Maria Grazia Pini, Storia esemplare di un manicomio, il San Lazzaro, in
Sandro Parmiggiani, (a cura di), Il volto della follia. Cent’anni di immagini del dolore, Ginevra-Milano, Skira, 2005,
pp.93-98. Cfr. anche il documento che inizia con le parole Nell’atto di esprimere il suo parere in merito, in ACLT,
b.95, f. “Ambiente-Salute 68/73”.
36
Sulla politica di “modernizzazione” del “San Lazzaro” negli anni Sessanta si vedano in particolare: S.Chesi, Per una
nuova politica ospedaliera psichiatrica, Reggio Emilia, Editore AGE, 1963; ION S.Lazzaro, Programma di
rinnovamento, in ACLT, b.624, f. “Convegni e documenti vari su psichiatria e sanità 1964-1970”.
37
Cfr. S. Chesi, Per una nuova politica, cit., p.60.
38
La documentazione relativa all’istituzione e al funzionamento del Servizio Psichiatrico Provinciale è conservata nel
fondo Archivio dell’Amministrazione Provinciale di Reggio Emilia [da ora in poi: AAP], presso il complesso
ospedaliero “San Lazzaro”. In particolare si veda AAP, b. “Fascicoli relativi ai Centri di Igiene Mentale” [d’ora in poi:
33
34
si leggeva nei progetti riformatori dell’Amministrazione dell’ospedale psichiatrico, la decisione della Giunta
dava alla razionalizzazione dell’assistenza psichiatra un più esplicito significato politico. Vi era infatti in essa
l’adesione ai modelli di assistenza psichiatrica che, pur preservando un ruolo rilevante per l’istituzione
manicomiale, ne individuavano uno altrettanto importante per l’azione territoriale volta alla prevenzione e al
reinserimento sociale. Era quella la direzione in cui da circa un decennio si erano mossi i sistemi di salute
mentale di paesi quali la Gran Bretagna sulla scia dell’esperienza della comunità terapeutica di Maxwell
Jones39, la Francia con la strutturazione dal 1960 della cosiddetta “psichiatria di settore”40 e gli Stati Uniti
con i Community Mental Health Centers istituiti nel 196341.
Respinto dunque il Programma di Amadei e approvata l’istituzione dei CIM nel luglio 1967, gli
amministratori provinciali non poterono tuttavia dare corso alla decisione. Per quasi due anni anzi,
l’opposizione da parte della Giunta Provinciale Amministrativa ne impedì l’applicazione42. La svolta verso
l’istituzione del Servizio Psichiatrico Provinciale (SPP) si ebbe l’11 marzo 1969, quando il Consiglio
Provinciale approvò il documento programmatico sull’assistenza psichiatrica, affermando il principio
destinato a marcare il decennio successivo per quell’ambito: “il futuro degli Istituti Ospedalieri
Neuropsichiatrici San Lazzaro deve essere strettamente condizionato e collegato alle strutture
extraospedaliere programmate dall’Amministrazione della Provincia di Reggio”. Alla direzione del SPP fu
nominato lo psichiatra Giovanni Jervis, proveniente dalla celebre esperienza di de-istituzionalizzazione
nell’ospedale psichiatrico di Gorizia, dove era direttore Franco Basaglia43.
Il nuovo Servizio poté contare nei primi anni di attività sul sostegno di un composito movimento
manicomiale esplicitamente abolizionista. Al centro di esso furono alcuni comitati territoriali e soprattutto il
Gruppo di studio sulle istituzioni psichiatriche, che seppero cogliere il segnale innovativo che veniva dalla
linea politica della Giunta provinciale e tennero conseguentemente verso di essa un atteggiamento, se non di
appoggio, per lo meno di non ostilità. Sul punto discriminante tra “modernizzazione” e abolizione
dell’istituzione manicomiale – ossia l’affermazione dell’alternatività, e non complementarietà, dei nuovi
servizi territoriali rispetto all’ospedale psichiatrico – essi non ebbero dubbi e individuarono così la
controparte principale nell’Amministrazione del San Lazzaro e, più in generale, nell’istituzione
manicomiale. Per quei militanti il manicomio doveva essere abolito e la denuncia delle effettive condizioni
di vita degli internati costituì pertanto l’aspetto di gran lunga dominante della loro azione tra il 1969 e il
1972.
Una capillare opera di “controinformazione”44 e le storie di vita degli internati45 narrarono così i percorsi
dell’esclusione sociale, la peregrinazione tra collegi, carceri, istituti psichiatrici privati e pubblici. Il “San
Lazzaro” era descritto come una prigione, con i letti di contenzione, le “fascioline”, gli shock insulinici, l’uso
della quartasa 46, ma anche un po’ come un luogo in cui ormai, delle volte dopo decenni di internamento, ci si
era abituati a stare, con i suoi “tavoloni e le panche attaccate al pavimento”. Di esso si ricordavano quelle
porte sempre chiuse, ma anche le gerarchie tra gli internati stessi, le differenziazioni tra i vari reparti: il
“CIM”]. Per una ricostruzione generale della storia del SPP si rimanda in particolare a Valeria Pezzi, Assunta Ferretti,
L’esperienza, cit.
39
Per la politica sull’assistenza psichiatrica in Gran Bretagna si rimanda in particolare a: Kathleen Jones, Asylums and
After. A Revised History of the Mental Health Services: From the Early 18 th Century to the 1990s, London, The Athlone
Press Ltd, 1993; Anne Rogers, David Pilgrim, Mental Health Policy in Britain, Houndmills, MacMillan, 1996.
40
Sulla psichiatria di settore francese si vedano tra gli altri: M.Audisio, La psichiatrie de secteur. Une psychiatrie
militante pour la santé mentale, Toulouse, Privat, 1980; numero speciale della rivista “recherches”, n.17, mars 1975, su
Histoire de la psychiatrie de secteur ou le secteur impossible?.
41
Per una descrizione critica dei servizi di salute mentale negli Stati Uniti si veda ad esempio: Franco Basaglia, Lettera
da New York: il malato artificiale, in F.Basaglia, Scritti, cit., vol.II, pp.96-104.
42
Cfr. V.Pezzi, A.Ferretti, L’esperienza, cit., p.3.
43
Cfr. Franco Basaglia, (a cura di), L’istituzione negata Rapporto da un ospedale psichiatrico, Torino, Einaudi, 1968.
44
Si veda ad esempio l’articolo di Angela Tromellini in “Reggio 15”, IV, 8, 20 aprile 1969, pp.6-7.
45
Alcune storie di ex-internati del “San Lazzaro” sono state successivamente pubblicate in: P.Lalli, C’era una volta un
muro. Storie dal manicomio, Bologna, CLUEB, 1997, pp.167-180; G.Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, cit.,
pp.119-132; AA.VV., Il Mio corpo, questo foglio, questo fuoco. Lettere, diari, poesie dei ricoverati del S.Lazzaro 18711896, Reggio Emilia, Collana Associazione del Museo di Storia della Psichiatria, 2004.
46
La tecnica della quartasa consisteva nel gettare sull’internato “ribelle” una coperta per immobilizzarlo, anche
mediante l’uso della forza.
“Besta” e il “Chiarugi” per i “pensionanti”, che pagavano di più; al “Tanzi” e al “Morselli” gli uomini
appena arrivati, le donne al “Buccola” e al “reparto chiuso”, al Lombroso “gh’era i più matt!”47.
La spinta del movimento antimanicomiale e il forte radicamento del SPP nel territorio favorirono un
processo di politicizzazione degli operatori, molti dei quali avevano del resto già alle spalle una formazione
politica, fosse quella legata al PCI reggiano di diversi infermieri48 o quella più recente e più radicale che i
giovani psichiatri e psicologi avevano acquisito negli anni del movimento studentesco e rispondendo al
desiderio di “andare a vedere Gorizia”. Nel periodo 1969-1973 quegli operatori interpretarono dunque la
“territorializzazione” dei servizi come uno strumento di alternativa al manicomio, di svuotamento e di
contestazione della funzione sociale della psichiatria.
Procedendo in quella direzione, essi fecero leva anche sul coinvolgimento sistematico della popolazione
nella gestione della salute mentale. Il risultato più clamoroso furono le cosiddette “calate popolari” che si
sviluppò attorno al gruppo di operatori del CIM di Castelnuovo ne’ Monti e di cui fu uno dei protagonisti lo
psichiatra Giorgio Antonucci, direttore del “CIM della montagna”49. Guidati dai loro sindaci e dagli
operatori, gruppi di cittadini di Ramiseto, Castelnuovo e altri comuni della zona entrarono tra il novembre
1970 e il marzo successivo all’interno del “San Lazzaro” per accertare le condizioni dei propri compaesani
internati50. Dopo alcune visite, la direzione dell’ospedale psichiatrico procedette alla segnalazione dei fatti
alla Procura, determinando l’imputazione per “interruzione di pubblico servizio” di diciassette persone, tra
cui figuravano, oltre ad Antonucci, anche Giovanni Jervis e l’altro psichiatra del SPP Stefano Mistura,
nonché il capogruppo del PCI in Consiglio provinciale, il sindaco di Castelnuovo e un senatore. Il processo si
svolse in un clima reso incandescente dall’attacco della stampa e delle forze conservatrici locali e, per
contro, dall’appoggio incondizionato agli imputati espresso dalla Giunta provinciale. Esso contribuì a dare
notorietà nazionale a quegli eventi e, più in generale, all’esperienza reggiana51, mentre la mobilitazione sul
territorio costrinse il giudice istruttore ad archiviare infine il procedimento nel maggio 1974, sottolineando
anzi il valore civico delle visite52.
Le “calate” contribuirono ad accendere una discussione nel SPP, che mise in luce il contrasto tra
l’orientamento più legato all’istanza partecipativa, sostenuto da Giorgio Antonucci53, e quello più
“istituzionale” del coordinatore del SPP, Giovanni Jervis54. Alle spalle di tali approcci stava peraltro una
differenza radicale nella concezione della “malattia mentale”55, pur essendo passati entrambi i medici
dall’esperienza goriziana attorno al 1968: prevaleva infatti in Antonucci l’indirizzo anti-psichiatrico maturato
nel corso dell’originale esperienza di Cividale del Friuli, dove l’azione di deistituzionalizzazione del reparto
psichiatrico era stata condotta a partire dall’ospedale civile56. Per contro, la formazione di Jervis, impegnato
già negli anni Cinquanta nella ricerca interdisciplinare sul tarantismo compiuta con Ernesto De Martino57, lo
portava a sottolineare la necessità di affrontare anche a livello tecnico la questione della “malattia mentale”,
Si vedano le testimonianze degli internati in P.Lalli, C’era una volta un muro, cit.
Per la testimonianza di uno degli infermieri del CIM di Reggio Emilia, Ivano Prandi, si veda in particolare I.Prandi,
La mia esperienza come infermiere nel Centro di Igiene Mentale di Reggio Emilia. Appunti autobiografici di Ivano
Prandi, in G.Antonucci, Critica al giudizio psichiatrico, Roma, Sensibili alle Foglie, 1993, pp.79-89.
49
Sulle “calate” si veda la documentazione conservata nel fondo archivistico raccolto da Giorgio Antonucci (da qui in
poi Archivio Giorgio Antonucci – AGA), conservato da Piero Colacicchi (Firenze). Si vedano inoltre: Amministrazione
della Provincia di Reggio nell’Emilia, documenti di una esperienza psichiatrica, cit., pp.56-58; Piero Colacicchi, Le
Calate di Reggio Emilia. Testimonianza di Piero Colacicchi scritta da lui stesso, in G.Antonucci, Critica al giudizio
psichiatrico, cit., pp.69-78.
50
Cfr. la lettera prot.n.1673/I degli ION S.Lazzaro – Direzione Sanitaria, in data 3 marzo 1971, avente per oggetto
“Visita all’istituto da parte di abitanti del Comune di Castelnuovo Monti”, in AGA.
51
Cfr. Collettivo di Reggio Emilia, Un’esperienza di intervento popolare nelle istituzioni, in Inchiesta, A.I, n.2 –
primavera 1971, pp.61-65; L’antipsichiatria nella gabbia degli imputati, in “Vie Nuove”, XXVI, 15, 14 aprile 1971,
p.11.
52
Il testo della sentenza e delle motivazioni, prot.n.900/7I del Giudice Istruttore del Tribunale di Reggio Emilia, datato
9 maggio 1974, è conservato in AGA.
53
Di Giorgio Antonucci si vedano in particolare: I pregiudizi e la conoscenza Critica alla psichiatria, Roma, Edizioni
Coop Apache, 1986; Il pregiudizio psichiatrico, Milano, Elèuthera, 1989; Critica al giudizio psichiatrico, cit.
54
Si veda in particolare: Giovanni Jervis, Il buon rieducatore. Scritti sugli usi della psichiatria e della psicanalisi,
Milano, Feltrinelli, 1977.
55
Si veda la testimonianza di Marisa Bittasi in Giorgio Antonucci, I pregiudizi, cit. , pp.266-272.
56
Cfr. Edelweiss Cotti, Roberto Vigevani, Contro la psichiatria, Firenze, La Nuova Italia, 1970.
57
Cfr. Giovanni Jervis, Il buon rieducatore: scritti sugli usi della psichiatria e della psicoanalisi, Milano, Feltrinelli,
1971, pp.15-16.
47
48
senza negarne l’esistenza come facevano gli “antipsichiatrici” come Antonucci e senza “metterla tra
parentesi” come sostenevano gli “psichiatri democratici” sulla scia della concezione di derivazione
fenomenologica elaborata da Basaglia58. Progetto che si concretizzò poi, in quel 1975 in cui Jervis lasciò la
città emiliana, nel noto Manuale critico di psichiatria 59, che nasceva del resto “dalle lezioni tenute
settimanalmente a Reggio Emilia al personale del Servizio psichiatrico provinciale”.
Al termine del 1972 Giorgio Antonucci venne di fatto rimosso dall’incarico. Con il suo licenziamento veniva
isolata la linea più radicale espressa dal movimento reggiano, ciò che assumeva un valore periodizzante per
la coincidenza di esso con il progressivo riflusso che si riscontrò a partire da quello stesso anno anche al
livello della partecipazione popolare. Gli operatori del SPP seppero comunque approfittare del carattere
innovativo del Servizio di cui facevano parte e portarono in esso pratiche e concezioni che scavalcarono
quelle di altre esperienze anti-manicomiali italiane.
L’assistenza psichiatrica era da loro considerata un fatto politico, non solamente né eminentemente tecnico.
In quell’ottica militante saltavano così, come per gli operatori di altri settori, gli orari fissi, l’esistenza stessa
di un luogo di lavoro definito, la distinzione tra lavoro politico e lavoro clinico60. Si operava ad oltranza, nei
locali dell’ambulatorio come nei bar e nelle case dei pazienti, nelle fabbriche. Si moltiplicavano i momenti di
confronto tra operatori e lavoratori/cittadini, ispirandosi a quella idea di “controllo attivo, continuo e
perentorio della…base popolare” sui tecnici che aveva affascinato Jervis nel suo viaggio nella Cina della
Rivoluzione Culturale61. Parallelamente, vennero messi in discussione gli assetti organizzativi e le tecniche
tradizionali all’interno del Servizio stesso, a partire da una strutturazione collettiva dell’intervento: si
susseguivano le riunioni informali dei singoli CIM nelle case dei medici, gli incontri separati di medici,
infermieri e tirocinanti, le riunioni settimanali delle équipe per la discussione di singole situazioni, le
quindicinali assemblee generali del Servizio62. Le linee operative erano discusse in assemblea, provando
anche a ricercare nuovi meccanismi decisionali, fondati sul “giusto equilibrio organizzativo” che evitasse
insieme l’autoritarismo tradizionale e “un ultrademocraticismo spontaneista e di comodo” 63. Al confronto tra
punti di vista differenti contribuiva la maggiore fluidità dei ruoli professionali che, come nella medicina del
lavoro e nell’esperienza dei servizi comunali per l’infanzia, si sostanziava nel sistema delle “coppie”, ossia
nell’associazione di un paramedico e di un diplomato o di un paramedico e di un tirocinante nell’intervento
svolto a domicilio. Sul piano ideologico-formale e, sia pure in modo certamente più limitato, nella prassi
quotidiana, si cercava così di limitare l’autorità e il potere degli psichiatri e di garantire agli infermieri una
maggiore autonomia e un più rilevante ruolo decisionale64.
Alla strutturazione collettiva del lavoro degli operatori corrispose il tentativo di rompere l’isolamento delle
persone assistite. Rispetto agli ex-degenti del “San Lazzaro” tornati nelle proprie case o ai nuovi assistiti che
rischiavano di essere nuovamente internati o di vivere nell’isolamento completo il proprio disagio, l’azione
fu quindi volta principalmente a favorire un’interazione del paziente con la famiglia e con la collettività
circostante. In questo senso, l’intervento non veniva più ad essere centrato sul “caso-paziente”, bensì
sull’insieme degli individui e delle relazioni sociali che si muovevano attorno a lui. Si contestava così
un’altra delle caratteristiche fondanti della psichiatria tradizionale, ossia il modo in cui questa “costruiva” la
figura stessa del “malato mentale” a partire da un processo di negazione e di spoliazione della persona in
quanto tale65. Era la separazione “dalla vita dell’uomo malato” a permettere l’inserimento di quest’ultimo
nelle categorie diagnostiche e nelle istituzioni predisposte dal sapere psichiatrico in corrispondenza alla sua
funzione di controllo sociale e non in rapporto alle esigenze della persona assistita.
58
Cfr. Mario Colucci, Pierangelo Di Vittorio, Franco Basaglia, Milano, Mondadori, 2001.
Cfr. Giovanni Jervis, Manuale critico di psichiatria, Milano, Feltrinelli, 1975.
60
Sulle trasformazioni operative nel SPP è molto importante il documento di Maria Ponsi intitolato Il Servizio
Psichiatrico nel Territorio, s.d. [ma 1975], conservato in AMP, f. “documenti su Psichiatria e territorio”.
61
Il viaggio ebbe luogo nell’agosto 1971, come si evince dalla lettera del Centro di Igiene Mentale “Reggio 1°” al
Presidente dell’Amministrazione Provinciale, in data 22 luglio 1971, in APP, b. “Fascicoli relativi ai Centri di Igiene
Mentale”, f.1.2.6.
62
Sul ruolo della riunione settimanale dell’équipe si veda M.Ponsi, Il Servizio Psichiatrico nel Territorio, s.d. [ma
1975], conservato in AMP, f. “documenti su Psichiatria e territorio”.
63
Cfr. Amministrazione della Provincia di Reggio nell’Emilia, documenti di una esperienza psichiatrica, cit., p.42.
64
Cfr. M.Ponsi, Il Servizio Psichiatrico nel Territorio, s.d. [ma 1975], conservato in AMP, f. “documenti su Psichiatria
e territorio”.
65
Cfr. Franco Basaglia, Franca Ongaro Basaglia e Maria Grazia Giannichedda, Il concetto di salute e malattia, in
F.Basaglia, Scritti, cit., vol.II, pp.375.
59
Al contrario, né il paziente doveva essere scisso dal suo contesto sociale e familiare, né la sua articolata
storia di vita doveva essere trasformata in una lineare “storia clinica”. All’interno di quel contesto si sviluppò
così quello che gli operatori definivano l’ “uso alternativo delle tecniche”, pratica fortemente eclettica in cui
il colloquio individuale, il confronto con la famiglia o l’allargamento al contesto sociale erano vissuti come
strumenti di comprensione e vicinanza, mentre l’eventuale intervento farmacologico era visto come ausilio
temporaneo rispetto alle manifestazioni del disagio, mai come “soluzione” delle cause effettive di esso66.
Gli operatori del SPP reggiano spostarono l’accento del loro intervento sulla prevenzione e anche durante le
visite domiciliari, al rifiuto di ricorrere a meccanismi di intervento coatto e allo sforzo per evitare i ricoveri,
unirono una capacità di condivisione che talvolta li portava a restare anche ore in quelle case ad “ascoltare” i
silenzi e i movimenti delle persone che gli erano di fronte67. Quell’approccio alternativo permetteva dunque
di intravedere la consistenza fragile della salute mentale, mescolata con la vita e con gli affanni quotidiani,
opposta a quella idea di netta separazione tra “normalità” e “pazzia” che era da sempre al centro del sapere
psichiatrico tradizionale e dell’istituzione manicomiale68. Consentiva ai problemi di emergere nella loro
complessità e dentro il loro contesto specifico, nell’incessante intrecciarsi di problematiche lavorative e
tristezze esistenziali, preoccupazioni banali, conseguenze dell’istituzionalizzazione subita e introiezione delle
concezioni tradizionali dei ruoli familiari. In relazione a quella realtà, le proposte degli operatori non
avevano la forma di “cure” definitive e, sempre che si creassero effettivi spiragli dai quali potessero
emergere temporanee “soluzioni”, si configuravano piuttosto come tentativi continuamente da ripetere, fatti
in primo luogo dalle stesse persone coinvolte e da quanti li circondavano, eventualmente con il sostegno dei
tecnici.
L’azione dei movimenti antimanicomiali unita a quella dimostrazione continua di praticabilità
dell’alternativa all’internamento in manicomio, contribuirono alla radicalizzazione delle posizioni
dell’Amministrazione provinciale, che in modo più netto prese a marcare la non complementarietà delle “due
psichiatrie” presenti nel territorio reggiano. In quel senso spingeva del resto la linea politica elaborata a
livello nazionale dal PCI sulla questione della salute mentale69 e rilevante fu anche il convegno nazionale
“Psichiatria ed Enti Locali” organizzato Reggio nel marzo 197070. L’apice di quella radicalizzazione si ebbe
nel settembre 1973, poco prima che iniziasse quel marcato riflusso che, come si vedrà, avrebbe caratterizzato
il periodo successivo. L’assessore provinciale Velia Vallini, prospettando ormai un’assistenza psichiatrica
completamente territorializzata, affermò infatti esplicitamente che il “San Lazzaro” aveva “esaurito il suo
compito”71.
A quella tendenza in atto nei responsabili politici e negli operatori del SPP si contrapponeva la continuità che
caratterizzava le politiche di gestione interne al San Lazzaro, che anche dopo la sostituzione di Amadei nel
1969 rimasero rivolte alla sola modernizzazione, umanizzazione e razionalizzazione dell’assistenza. Nel
1974, cinque opuscoli in carta patinata prodotti dall’Amministrazione di quel manicomio descrivevano
dettagliatamente il duplice processo di “deospedalizzazione” e di “liberalizzazione” dei malati, ossia la
complessiva riduzione del numero giornaliero dei presenti e l’aumento in valori relativi dei ricoveri volontari
a fronte di quelli coatti72. “Ha cambiato faccia e trattamento questo Ospedale Psichiatrico” era lo slogan
66
Sulla questione della somministrazione di psicofarmaci, si veda ad esempio M.Ponsi, Il Servizio Psichiatrico nel
Territorio, cit.
67
Intervista a Yvonne Bonner, Reggio Emilia, 23 marzo 2006. Si veda anche: M.Ponsi, Il Servizio Psichiatrico nel
Territorio, cit.
68
Per una riflessione ampia su questa problematica, si veda G.Canguilhem, Il normale e il patologico, Torino, Einaudi,
1998.
69
Un ruolo di primo piano nell’elaborazione di quella riflessione sulla salute mentale ebbe Giovanni Berlinguer, per il
quale si rimanda soprattutto: G.Berlinguer, Psichiatria e potere. Le malattie mentali e la manipolazione dell’uomo. I
rapporto fra contestazione psichiatrica e movimento operaio, Roma, Editori Riuniti, 1974. Si veda inoltre:
G.Berlinguer, S.Scarpa, (a cura di), Psichiatria e società, Roma, Editori Riuniti, 1975; S.Mistura, Psichiatria, operatori
sociali e convegni, in “Inchiesta”, VI, 13, gennaio-marzo 1974, pp.62-76.
70
Gli atti del Convegno Nazionale “Psichiatria ed Enti Locali”, Reggio Emilia, 24-25 marzo 1970, furono pubblicati
nella “Rivista Italiana di Sicurezza Sociale”, VIII, 2-3, aprile-settembre 1970. Sul dibattito nel PCI reggiano seguito a
quel convegno, si veda in particolare il documento intitolato Una scelta politica per l’assistenza psichiatrica, ottobre
1970, elaborato dal “gruppo di lavoro per la Sicurezza Sociale” della federazione provinciale del PCI, in AGA.
71
Cfr. la nota prot.n.4432 dell’Amministrazione della Provincia di Reggio Emilia, in data 4 settembre 1973, in ACLT,
b.95, f. “Ambiente – Salute 68/73”.
72
Cfr. “QD”, Quaderno di Documentazione a cura dell’Amministrazione del “S.Lazzaro”, 1-2, 22.2.1974.
posto in cima ad una di quelle pubblicazioni73, che intendeva sintetizzare i progressi di una istituzione
“razionale” che con i suoi tremila “abitanti” (duemila internati e mille dipendenti), a cinque anni
dall’istituzione del SPP era ancora “paragonabile ad un quartiere di città, o a un piccolo Comune” che si
estendeva su quarantacinque ettari di terreno lungo la via Emilia nella frazione di San Maurizio, un tempo
detta “Fuori Porta”.
Le innovazioni continue dell’assetto teorico e istituzionale e l’annuncio stesso di quelle ulteriori
modificazioni continuavano a proiettare all’esterno quell’immagine di un ospedale psichiatrico moderno,
razionale, pienamente corrispondente alle sue finalità istituzionali. Il peso di quella continuità non avrebbe
tardato a farsi sentire, specie a partire dal 1973-74, nel momento in cui si registrò la crisi del SPP a fronte del
più generale “riflusso” determinato dalla crisi economica e finanziaria.
Le “calate” riguardarono anche l’istituto Sante De Sanctis74, reparto per bambini e adolescenti del “San
Lazzaro”. In generale, l’esperienza del settore minorile del SPP presenta alcuni aspetti comuni a quella del
settore adulti, ma mostra anche una connessione più stretta con i movimenti, una maggiore autonomia dagli
equilibri di tipo politico e interni al Servizio e una connotazione più militante nel portare avanti l’azione di
de-istituzionalizzazione75.
Il movimento di contestazione si sviluppò contro la costruzione del “nuovo De Sanctis”, inaugurato nel corso
del 1971 sul lato opposto del tratto della via Emilia che costeggiava il “San Lazzaro”. Una relazione del
presidente del Consiglio di amministrazione del manicomio, Sergio Masini, nel dicembre successivo lo
descriveva come un istituto moderno e altamente specializzato, dalla “struttura multipla differenziata”,
capace di accogliere fino a novanta ragazzi convittori e quaranta semiconvittori76.
Come per il circuito psichiatrico degli adulti, nel contrasto tra il nuovo “De Sanctis” e il processo di deistituzionalizzazione è ravvisabile quindi non la contrapposizione tra un’istituzione “superata” e una
concezione innovativa dell’assistenza territoriale, bensì tra una impostazione tecnicistica dell’assistenza
psichiatrica e un approccio politico-sociale alla salute mentale. Il “De Sanctis” era infatti inserito in un più
ampio circuito di istituzioni assistenziali connesse ad un sapere medico-psico-pedagogico la cui ascesa
appariva pressoché inarrestabile alla vigilia del Sessantotto, come mostrava anche la rapida espansione delle
scuole speciali e delle classi differenziali, che ad esso si ricollegava. Alcuni provvedimenti legislativi
dell’inizio del decennio portarono il numero degli allievi “differenziati” nelle scuole elementari dai 13.673
del 1958-59 ai 52.432 del 1967-68, cui dovevano aggiungersi i 65.624 che in quello stesso anno scolastico
erano istruiti all’interno delle classi speciali, contro i 22.459 di dieci anni prima77.
Il Sessantotto comportò una contestazione frontale di quel sapere e di quelle istituzioni. A Reggio Emilia
essa si concretizzò nel convegno del dicembre 1970 sul tema Il disadattamento scolastico, organizzato dalla
sezione locale della Associazione contro le malattie mentali e che vide la partecipazione del movimento
antimanicomiale reggiano e dei futuri operatori del servizio di salute mentale minorile, di cui esso segnò di
fatto l’atto di nascita.
Il centro dell’azione degli operatori fu nell’opera di svuotamento del “De Sanctis”, che definivano “ghetto
per i bambini con handicap”78, portata avanti congiuntamente alle mobilitazioni in corso in città. La
vicinanza con i movimenti sociali, da un lato, e dall’altro l’essere inseriti in un SPP che complessivamente
aveva una connotazione di servizio territoriale, diedero al servizio “Infanzia” reggiano caratteristiche assai
peculiari rispetto ad analoghi servizi in altre città italiane79. Nel complesso, a connotare quei tecnici fu un
atteggiamento militante ma, insieme, fortemente anti-ideologico, attento a coniugare i principi abolizionisti
con una strategia flessibile di azioni alternative all’internamento, calate nella realtà sociale e politica
Cfr “QD”, Quaderno di Documentazione a cura dell’Amministrazione del “S.Lazzaro”, 3, 22.2.1974.
Cfr. P.Colacicchi, Le calate, cit., pp.76-77.
75
La fonte principale per la storia del settore “Infanzia” del SPP è L.Angelini, D.Bertani, G.Bilancia, Y.Bonner,
V.Confetti, E.Eleuteri, J.Mishto, G.Polletta, C.Tromellini, Deistituzionalizzazione. L’esperienza del “De Sanctis” di
Reggio Emilia, Firenze, La Nuova Italia Editrice, 1977.
76
Cfr. la lettera prot.n.10170 degli ION S.Lazzaro, al Presidente dell’Amministrazione Provinciale, in data 10 dicembre
1972, avente per oggetto “Istituto Medico Psicopedagogico e Centro di Igiene Mentale”, in APP, b. “CIM”, f.1.2.6.
77
Per questi dati si veda in particolare: Collettivo romano sulla scuola, Le classi differenziali, in “Inchiesta”, I, 1,
inverno 1971, pp.38.
78
Cfr. L.Angelini et al., Deistituzionalizzazione, cit. p.19.
79
Si veda ad esempio l’esperienza della de-istituzionalizzazione del padiglione XC dell’ospedale psichiatrico “Santa
Maria della Pietà” di Roma, narrata in dettaglio nel volume Psichiatria Democratica, (a cura di), Bambini in manicomio,
Roma, Bulzoni, 1975.
73
74
contingente. Da tale approccio derivava la capacità di quei tecnici di concepire anche mediazioni
temporanee, sulla base delle quali dialogare con altri operatori e provare a trasformare anche settori meno
toccati dal rinnovamento.
L’attività di inserimento iniziò nel giugno 1971 e portò già nell’anno scolastico 1971-72 alla dimissione dal
“De Sanctis” dei primi quarantotto bambini con handicap lievi o medio-lievi, per accedere a percorsi che si
sostanziavano, in base a quelle caratteristiche e all’età dei minori, nell’inserimento lavorativo o in quello
scolastico80. Rispetto a quest’ultimo, il nodo da affrontare era quello delle scuole speciali e delle classi
differenziali. L’obiettivo degli operatori della salute mentale di Reggio fu esplicitamente quello di superare
tout court quel tipo di istituzioni. Perseguirono e ottennero quindi in tempi rapidi la chiusura delle classi
differenziali istituite negli anni precedenti e puntarono alla creazione di strutture a tempo parziale81. Furono
così creati dei “centri diurni” che dovevano servire ad affrontare problemi e difficoltà di apprendimento o di
adattamento82, concepiti secondo il principio di “non settorializzazione tecnica” corrispondente alla
convinzione che all’origine dei problemi dei bambini con handicap ci fosse soprattutto un deficit di
socializzazione. Per i ragazzi con handicap più gravi si apprestarono invece delle “esperienze ponte”, di cui
le “classi popolari” dislocate nelle scuole medie e i “centri di appoggio” con specifici programmi di
riabilitazione costituirono gli esempi più significativi.
Furono gli stessi operatori, in una importante pubblicazione dell’ottobre 197783, a lasciar trasparire le
difficoltà pratiche e politiche incontrate nel tentativo di inserire i bambini e gli adolescenti nel tessuto
sociale. Il principale ostacolo fu rappresentato dalla chiusura con cui l’istituzione scolastica accolse l’idea
stessa dell’inserimento di quei bambini. Per aggirarlo, gli operatori del servizio pedopsichiatrico cercarono di
stringere rapporti con gli insegnanti più sensibili. Ciò avvenne in modo assai efficace nel caso degli asili e
dalle scuole dell’infanzia, dove un apposito coordinamento provinciale creato tra gli operatori del servizio
minorile permise di gestire direttamente i contatti con i bambini e le loro famiglie, forzando talvolta anche
l’orientamento delle educatrici, ispirato a criteri di maggiore gradualità nell’inserimento84.
Il problema principale rimaneva la scuola dell’obbligo. Con il tempo alle iniziali resistenze individuali di
alcuni insegnanti moderati subentrò una opposizione organizzata ai meccanismi di inserimento dei bambini
handicappati, stimolata in particolare dagli ispettori e dai direttori didattici più legati alla DC e ai partiti
repubblicano, liberale e socialdemocratico. Si costituì un forte Gruppo magistrale in difesa della scuola che
fu all’origine della “lettera dei 509” indirizzata nel 1974 ai giornali cittadini, secondo la quale l’inserimento
dei bambini disabili andava subordinato al mantenimento di un istituto speciale che praticasse la selezione e
alla presenza nelle scuole di équipes tecnicamente qualificate che li seguissero individualmente.
Nel novembre 1974, in seguito all’approvazione dei “decreti delegati”, fu formalmente sancita la chiusura
delle scuole speciali e delle classi differenziali. Rimase invece senza successo o fortemente limitato ogni
tentativo di intaccare l’impianto tradizionale dell’istituzione scolastica a partire da quell’inserimento. Era
l’illustrazione di una questione più generale: l’incapacità di imporre all’apparato scolastico quelle istanze di
trasformazione avanzate non solo da una minoranza di insegnanti e dagli operatori della salute mentale, ma
in primo luogo dal movimento studentesco, da quello sindacale all’interno dei corsi delle 150 ore e, nel caso
reggiano, nella esperienza della “gestione sociale” delle scuole dell’infanzia.
Del resto, il 31 gennaio 1975 terminava il difficile lavoro di de-istituzionalizzazione e si giunse alla
definitiva chiusura del nuovo “De Sanctis”, ma ormai – come scrissero gli operatori del Servizio – “nel
silenzio generale”85.
Paragrafo 3
“Il diritto allo studio comincia a 3 anni!”. Gli asili nido e le scuole dell’infanzia
Diversamente dagli ambiti fin qui considerati, nei quali la nascita dei Servizi si legò direttamente ai
movimenti di contestazione della fine degli anni Sessanta, nel 1968 le scuole dell’infanzia e gli asili reggiani
Si vedano gli appunti manoscritti in ACLT, b.614, f. “De Santis”.
Cfr. la lettera prot.n.178 del Centro di Igiene Mentale “Reggio 1°” al Presidente dell’Amministrazione Provinciale, in
data 20 gennaio 1971, avente per oggetto “Proposta di istituzione di un Centro diurno per adolescenti handicappati”, in
APP, b. “CIM”, f.1.2.6.
82
Cfr. Amministrazione della Provincia di Reggio nell’Emilia, documenti di una esperienza psichiatrica, cit., p.63.
83
Ci si riferisce alla già più volte citata pubblicazione: Cfr. L.Angelini et al., Deistituzionalizzazione, cit.
84
Per questa ricostruzione si rimanda all’intervista da me effettuata ad Yvonne Bonner a Reggio Emilia il 19 luglio
2007.
85
Cfr. L.Angelini et al., Deistituzionalizzazione, cit.p.39.
80
81
avevano già alle spalle una storia significativa86. Più ancora che nell’esperienza del primo Novecento
dell’Asilo di Villa Gaida, ispirata al socialismo riformista87, il riferimento fondante andava in particolare alle
scuole aperte all’indomani della Liberazione dai CLN e dall’UDI locali, al forte radicamento della tradizione
partigiana e alla partecipazione diretta della popolazione – delle donne in particolare88 – che esse
richiamavano.
La rottura del biennio 1968-69 si innestò quindi, per quanto riguarda i servizi per l’infanzia, su un terreno già
maturo sia a livello organizzativo che in rapporto alla circolazione di idee innovative. In virtù di quella
cesura, peraltro, le trasformazioni graduali del quinquennio precedente conobbero una decisa accelerazione,
evidenziata dal fatto che nel periodo 1968-1974 si passò da 12 a 43 sezioni, nacquero scuole importanti per
la successiva storia reggiana come la “Diana” e la “Neruda” e si ebbe anche, il 5 novembre 1971, l’apertura
del nido comunale “Genoveffa Cervi”, anticipando di quattro mesi le disposizioni contenute nella legge
104489. L’incremento quantitativo si accompagnò ad una profonda svolta negli orientamenti pedagogici e
nella concezione stessa del ruolo sociale delle scuole. Al centro di tale trasformazione stava la partecipazione
diretta dei genitori, degli insegnanti, dei bambini e dei cittadini, a partire dal momento e dalle modalità stesse
di nascita delle nuove scuole90, che furono spesso segnate dalla mobilitazione attiva di centinaia di persone.
A dare continuità a questa esperienza “dal basso” contribuì in modo decisivo la strategia sindacale, orientata
alla riforma della scuola e dell’assistenza, che negli scioperi per i servizi sociali nella zona delle ceramiche
anticipò la vertenza dell’ “1%” che si sarebbe poi estesa dal 1973 all’intera regione 91; dall’altra parte forniva
una sponda decisiva l’impostazione politica dell’ente locale, fautrice di una democratizzazione radicale nella
gestione delle scuole stesse. Dalla convergenza di quei tre fattori si sviluppò una delle caratteristiche centrali
dell’esperienza reggiana rispetto ai servizi all’infanzia, la cosiddetta “gestione sociale”, ossia la gestione
delle scuole attraverso la partecipazione organizzata di genitori, educatori, cittadini dei quartieri interessati,
rappresentanti della società civile e dell’amministrazione pubblica.
Si trattò di un percorso di istituzionalizzazione virtuosa, che si concretizzò nei Comitati “Scuola e Città”,
luoghi di quella composita partecipazione che fu posta al centro del convegno tenutosi il 15-16 maggio 1971
a Modena, dove Loris Malaguzzi, punto di riferimento dell’esperienza reggiana, era dal 1968 consulente
pedagogico delle scuole comunali dell’infanzia92. La gestione sociale prefigurava l’avvento di una nuova
concezione della scuola, come un ulteriore avamposto di quell’assedio alla scuola tradizionale che sarebbe
tuttavia rimasto sostanzialmente infruttuoso. Per quanto riguarda le scuole dell’infanzia, si cercò soprattutto
ad intaccare gli assetti della scuola elementare, a partire proprio dal tentativo di generalizzare la prassi della
gestione sociale e di rinnovarne i contenuti pedagogici.
In generale, secondo Malaguzzi nel convegno modenese, l’educazione doveva essere “tirata fuori dai suoi
templi” e l’’insegnante, sotto lo stimolo della partecipazione collettiva, doveva saper “vivere criticamente,
politicamente, la sua professione”, rompere l’isolamento al quale la scuola tradizionale lo condannava,
rinunciare alle coperture “scientifiche” che il titolo di studio e l’ideologia pedagogica gli fornivano, per
Per una bibliografia di base sulle scuole dell’infanzia e gli asili, si rimanda in particolare a: A.H.Planillo, Loris
Malaguzzi biografia pedagogica, Azzano San Paolo, Edizioni Junior, 2004; O.Lorenzi, E.Borghi, A.Canovi, Una storia
presente L’esperienza delle scuole comunali dell’infanzia a Reggio Emilia, Reggio Emilia, RSLibri, 2001; Mario
Mazzaperlini, Storia delle scuola materne reggiane, Reggio Emilia, Ed. Futurgraf, 1977. Si è inoltre effettuata una
intervista preliminare a Carla Rinaldi, Reggio Emilia, 29 marzo 2006.
87
Cfr. E.Borghi, Preludio. Gli anni di Roversi e di Soglia, in O.Lorenzi, E.Borghi, A.Canovi, Una storia presente, cit.,
pp.9-45.
88
Sul ruolo delle donne nei movimenti per la conquista degli asili e delle scuole per l’infanzia, si rimanda in particolare
a Claudia Finetti, Lavoro e maternità. Donne, sindacato e sviluppo dei servizi per l’infanzia a Reggio Emilia (19451971), in Luca Baldissara et al., Un territorio e la grande storia del ‘900, cit., pp.359-404.
89
Sulla legislazione di quegli anni con riferimento agli asili e alle scuole per l’infanzia, si rimanda in particolare a: Enzo
Catarsi, L’asilo e la scuola dell’infanzia. Storia della scuola “Materna” e dei suoi programmi dall’Ottocento ai giorni
nostri, Firenze, La Nuova Italia, 1994.
90
Per la zona delle ceramiche si veda ad esempio il pieghevole CGIL-CISL-UIL, Asili nido. Una rete di costruzioni
nella zona delle ceramiche di Reggio Emilia, 16 marzo 1970, in ACLT, b.143, f. “Documenti sugli asili-nido (19691970)”. Per le due scuole del quartiere “Ospizio” si rimanda invece a: Storia della nascita della Scuola Comunale
dell’Infanzia “La Villetta” scritta dai protagonisti, Reggio Emilia, giugno 1994; Scuola Comunale dell’infanzia
S.Allende, Comune di Reggio Emila, Circoscrizione IV, 1974/75-1994/95. La scuola comunale dell’infanzia Salvador
Allende compie vent’anni, Reggio Emilia, giugno 1995.
91
Su questo tema si rimanda al contributo di Patrizio Tonelli.
92
Cfr. La gestione sociale nella scuola dell’infanzia. Atti del I Convegno regionale tenuto a Modena il 15-16 maggio
1971, Roma, Editori Riuniti, 1971.
86
realizzare invece “con i colleghi e con gli altri adulti chiamati a vivere coi bambini, una coscienza di gruppo,
un vivere e pensare insieme che coinvolgerà profondamente gli stessi contenuti culturali e didattici”.
L’organizzazione quotidiana e la programmazione complessiva delle scuole comunali dell’infanzia e degli
asili reggiani erano concepite per rendere operativi tali principi, improntate ad una “sperimentazione
pedagogica” fortemente anti-ideologica ed eclettica rispetto ai modelli esistenti, ma anche contraria a
qualunque spontaneismo e anzi minuziosamente predisposta93. A fronte della superficialità con cui la classe
dirigente del paese sembrava guardare alla scuola “pre-obbligo”, corollario della funzione puramente
assistenziale e di supplenza ad essa attribuita, andava costruita una scuola “seria”, con precisi orientamenti
didattici e adeguata da ogni punto di vista. L’attenzione per le strutture e la progettazione degli spazi94 si
abbinava così all’insistenza sulla selezione e formazione degli educatori, che contrastava con un meccanismo
di reclutamento nazionale anch’esso sminuente il ruolo dell’istruzione pre-elementare, fondato su una
formazione magistrale anacronistica e poco qualificata.
Si configurò quindi una formazione permanente, che si arricchiva giorno dopo giorno a partire da alcune
novità strutturali introdotte di fatto dalla fine degli anni Sessanta e sancite nel Regolamento del 1972. Da un
lato, si procedette all’introduzione della cosiddetta “coppia educativa”, che garantendo la compresenza di
due educatori per ogni gruppo di bambini ne rompeva l’isolamento e l’autoreferenzialità, creando una stabile
prassi di scambio e cooperazione. Una innovazione che era resa tanto più significativa dalla parallela
introduzione della figura dell’educatore uomo all’interno degli asili e delle scuole dell’infanzia, a sancire una
ulteriore rottura con il modello “materno” e assistenziale che ad esse continuava a venir attribuito dalla
legislazione nazionale95. Dall’altro lato, si procedeva alla moltiplicazione delle figure presenti nelle scuole,
secondo una logica cooperativa corrispondente alle esigenze educative del bambino. In particolare,
l’intervento si rivolse sui due estremi della scala gerarchica tradizionale, da una parte eliminando le figure
dei direttori didattici e dall’altra dando valore pedagogico al ruolo del personale ausiliario e della cucina e
alla relazione da essi stabilita con i bambini. Dell’impostazione cooperativa e della moltiplicazione delle
figure professionali era un momento centrale l’introduzione degli atelieristi, che il Regolamento del 1972
definiva come “insegnanti aggiunti specializzati nelle attività grafico-espressive”96. Figure non solo inedite
nella scuola dell’infanzia, ma che venivano ad avere un ruolo non complementare ma anch’esso
coerentemente inserito nel quadro pedagogico delle scuole reggiane.
L’intero collettivo formato dal personale della scuola era inoltre chiamato ad un lavorio continuo sulle
esperienze proposte e vissute, alla costante osservazione e riflessione sui comportamenti dei bambini, ad una
instancabile “autoinchiesta” sul proprio ruolo e sulle proprie prassi educative. Strumento di tale analisi era
una ampia e variegata documentazione che comprendeva tra l’altro i disegni dei bambini, la registrazione di
dialoghi, le fotografie scattate durante la realizzazione dei progetti, i filmati e le annotazioni sugli stessi. In
essa assumevano inoltre una funzione centrale i “diari di sezione” sui quali gli educatori erano chiamati ad
annotare giornalmente le proprie riflessioni e gli eventi significativi relativi sia a ciascun bambino che
all’intera classe97.
Quel meticoloso lavoro di osservazione e auto-osservazione non restava peraltro all’interno delle mura
scolastiche, ma aveva anche la funzione di comunicare all’esterno – nelle riunioni di sezione, nelle
assemblee dei Comitati Scuola-Città e nelle altre iniziative pubbliche – le attività svolte, le riflessioni fatte, la
programmazione futura. Ciò non solo con lo scopo di informare i genitori e i cittadini sull’andamento della
scuola e dei singoli bambini, ma per mettere loro a disposizione, attraverso la documentazione, gli strumenti
per una comprensione più profonda dei meccanismi didattici, pedagogici e gestionali e per intervenire
eventualmente sulle scelte alla base di essi. Né il confronto restava chiuso a livello cittadino. L’apertura alle
93
Cfr. Loris Malaguzzi, La nuova socialità del bambino, cit., pp.139, 148, 176-177.
Si veda ad esempio su questo: Loris Malaguzzi, Idee per pensare e progettare il nido, in “Zerosei”, a.I, novembre
1976, p.47.
95
Si vedano: Nino Crescenti, (a cura di), Il maschio nella scuola del bambino, in “ZeroSei”, a.I, n.8, maggio 1977,
pp.8-12; L’educatore maschio nel nido cosa rompe e cosa crea, in “ZeroSei”, a.III, n.2, ottobre 1978, pp.56-58.
96
Vea Vecchi Zini, La pittura nella scuola e nell’ “atelier”, in L.Malaguzzi, (a cura di), Esperienze per una nuova
scuola dell’infanzia, cit., p.143-152. Si veda tra l’altro il numero speciale su “Linguaggio grafico pittorico. Lo
scarabocchio, il bambino, l’adulto” di “ZeroSei”, a.II, n.8, aprile 1978.
97
Sui “diari di sezione” si veda A.H.Planillo, Loris Malaguzzi, cit., pp.65-66. Si vedano inoltre: Giuseppe Ricci,
Osservazione: un modo per contribuire al benessere del bambino, in “ZeroSei”, a.III, n.2, ottobre 1978, pp.16-19; Un
taccuino di note per ricordare fatti e impressioni, in “ZeroSei”, a.III, n.2, ottobre 1978, pp.32-35; Laura Benigni,
L’osservazione come partecipazione e metodo, in “ZeroSei”, a.III, n.9, aprile 1979, pp.20-21; Rita Montoli Perani, Per
una dialettica della osservazione, in “ZeroSei”, a.III, n.9, aprile 1979.
94
esperienze nazionali ed estere già dimostrata nel seminario italo-cecoslovacco sul gioco infantile del 1963
veniva ora riproposta su scala ben più vasta e con maggiore continuità, come mostrò tra l’altro il successo del
Convegno Nazionale che si tenne a Reggio nel 1971 sul tema Esperienze per una nuova scuola
dell’infanzia98: “un convegno di fatti e di esperienze” – come sottolineò Malaguzzi nel suo intervento – di
scambio su temi che andarono dal rapporto con i genitori dei bambini alla funzione dell’atelier,
dall’inserimento dei bambini con handicap all’educazione al pensiero logico-matematico.
Nelle scuole comunali dell’infanzia si poneva in atto una esperienza educativa totale, che coinvolgeva il
bambino nella sua interezza, senza sezionarne gli interessi né limitarne le curiosità. Attraverso una pluralità
di stimoli e di modalità corrispondenti, esse miravano a mettere a contatto i bambini stessi con il mondo
reale99. Non che si trattasse di una situazione di puro spontaneismo. A coordinare le attività erano preposti gli
educatori/animatori attraverso “progetti” attentamente programmati in équipe con tutti gli operatori e
successivamente discussi con i genitori nelle riunioni di sezione e nelle assemblee. Così, come ad esempio
nel progetto “Il piccione” (Scuola “Diana”, a.s. 1971/72)100, l’unitarietà fornita dal tema prescelto permetteva
poi il dispiegarsi di attività di vario genere, sia da parte dei bambini che da parte degli educatori/animatori,
mentre l’ “osservazione dei piccioni dal vero” implicava quelle uscite all’esterno della scuola che ponevano
ancor più i bambini nella condizione di osservatori attivi della realtà quotidiana che li circondava101. La non
astrazione e anzi l’immersione dei bambini e degli educatori nella realtà sociale si confermava dunque anche
da questo punto di vista il centro della pedagogia delle scuole dell’infanzia e degli asili reggiani. Le uscite
esterne consentivano a questo proposito di tessere relazioni con i residenti e i commercianti della zona,
permettevano ai bambini di ascoltare il racconto di storie da parte degli anziani del quartiere, si
concretizzavano nella visita dei luoghi di lavoro dei genitori, dei bar, delle case degli altri compagni102. Le
visite all’esterno erano infine concepite come parte integrante di una modalità didattica che proseguiva anche
nelle mura scolastiche privilegiando nel suo insieme questo approccio alla realtà, in cui era inscritta anche
l’attività ludica.
Di questo continuo “costruire e inventare trame tra reale e irreale”103 era testimonianza viva la figura del
“burattinaio municipale”. In questo caso l’innovazione si innestava su una esperienza di lunga durata, quella
del Teatro Sperimentale Burattini e Marionette (TSBM) della famiglia Sarzi, approdata stabilmente nel 1969
a Reggio Emilia, dove ebbe sede nel Teatro Municipale104. Fu in quello stesso anno che uno dei componenti
del TSBM, Mariano Dolci, iniziò la sua pluridecennale collaborazione con le scuole dell’infanzia e gli asili,
divenendo quasi da subito dipendente comunale, “burattinaio municipale”.
Il mondo che Mariano Dolci portava nelle scuole reggiane – come pure nell’istituto psichiatrico “De Sanctis”
– era popolato da un corteo di burattini “a guanto”, “a mano vera” e “a bastone”, da “piedi staccabili” e “nasi
autonomi”, ombre di animali e orecchie di cartapesta105. Era un mondo affascinante, fondato sulla vitalità dei
burattini, sulla loro stessa essenza ambigua di pupazzi “animati” e insieme fantastici, maschere complici alle
quali i bambini, più liberamente che agli adulti e più pienamente che ai propri coetanei, potevano rivelare i
propri bisogni e le proprie paure, esternare i propri taboo, confidare segreti, sussurrare sornioni parole
proibite. Quasi sempre, non era Dolci a muovere quei pupazzi; il suo compito era per lo più rivolto alla
formazione degli operatori delle scuole. Erano questi ad animare i pupazzi dopo averli fabbricati, come pure
i genitori e i bambini stessi, anche quelli dell’asilo. A costruire, insieme ai pupazzi, il proprio processo di
Cfr. Loris Malaguzzi, (a cura di), Esperienze per una nuova scuola dell’infanzia. Atti del seminario di studo tenuto a
Reggio Emilia il 18-19-20 marzo 1971, Roma, Editori Riuniti, 1971.
99
Su questo approccio si vedano ad esempio: Francesco Tonucci, Il bambino autore e coautore della conoscenza, in
“Zerosei”, a.I, n.6, novembre 1976, pp.50-54; Loris Malaguzzi, Un’altra pedagogia del bambino per vivere nel mondo
del suo tempo, in “Zerosei”, a.II, n.5, gennaio 1978.
100
A.H.Planillo, Loris Malaguzzi, cit., p.72
101
Cfr. Luisa Cappucci, La ricerca e la conoscenza dell’ambiente, delle scuole dell’infanzia di Modena, pp.88-95 in
L.Malaguzzi, (a cura di), Esperienze per una nuova scuola dell’infanzia, cit., pp.88-95.
102
Sulle uscite nel quartiere si vedano in particolare: Francesco Tonucci Le uscite nel vicino, in “ZeroSei”, a.I, n.4,
gennaio 1977, pp.21-28; Luisa Camminati, Riprendiamoci il quartiere, in “ZeroSei”, a.III, n.4, dicembre 1978, pp.2031.
103
Cfr. Giovanna Grassi in Giovanna Grassi, Attività pratiche: finzione e realtà, in L.Malaguzzi, (a cura di), Esperienze
per una nuova scuola dell’infanzia, cit., pp.126-134.
104
Fu lo stesso Mariano Dolci a ripercorrere la storia del Laboratorio reggiano in: Mariano Dolci, L’educatore diventa
animatore?, in “ZeroSei”, a.I, n.10, luglio 1977, pp.44-45.
105
Cfr. Mariano Dolci, Il burattino a mano vera, in “ZeroSei”, a.I, novembre 1976, nell’inserto centrale.
98
auto-identificazione tra la sempre più chiara percezione dei confini del “vero” e del “falso” e il gioco ironico
attorno all’ambiguità di quegli stessi confini106.
Il nuovo protagonismo dei bambini scatenò ulteriori invenzioni, nuovi giochi, nuove relazioni educative. Fu
su queste basi che si produsse l’incontro tra le scuole dell’infanzia reggiane e Gianni Rodari. Accadde in
occasione degli Incontri con la Fantastica che si tennero nei giorni tra il 6 e il 10 marzo 1972107. “Alla città
di Reggio Emilia” lo scrittore di Omegna dedicò l’anno seguente la sua celebre Grammatica della
Fantasia 108, che prendeva le mosse da quelle giornate trascorse con una cinquantina tra educatrici delle
scuole dell’infanzia reggiane, studenti e artisti. Le tecniche fantastiche di Rodari, la sua capacità di
interazione con i bambini nelle scuole durante i seminari, la partecipazione attiva di quell’uditorio composito
ben si legavano alla “didattica della immaginazione e della fantasia” teorizzata da Malaguzzi 109 e praticata
quotidianamente nelle scuole reggiane nell’ottica non di una fuga verso l’astratto, ma verso un uso pieno
anche della fantasia per scoprire il mondo reale110.
“Tutti gli usi della parola a tutti – affermava Rodari in quel libro – Non perché tutti siano artisti, ma
perché nessuno sia schiavo”111. L’unitarietà della mente e la necessità di coltivarne la creatività “in tutte le
direzioni” venivano lì legate all’esigenza di formare un “uomo completo”, contrapposto agli “uomini a metà”
prodotti in serie dalla società basata “sul mito della produttività (e sulla realtà del profitto)” 112. Erano
riflessioni analoghe a quelle che gli educatori reggiani venivano sviluppando attorno ai “cento linguaggi dei
bambini”, alla necessità di stimolare nei più piccoli tutte le facoltà attraverso una molteplicità di strumenti e
di esperienze. Comune al maestro di Omegna e alla esperienza reggiana era altresì l’idea di un nuovo ruolo
degli educatori. Nel collegare il “pensiero divergente” alla realtà scolastica, Rodari si rifaceva del resto
esplicitamente all’elaborazione prodotta dal Movimento di Cooperazione Educativa, al quale aderiva e che
anche a Reggio Emilia aveva una non irrilevante influenza su parte degli insegnanti. Il maestro doveva così
trasformarsi in “animatore”, in un “promotore di creatività”, abbandonare il ruolo di colui che trasmette “un
sapere bell’e confezionato”, travolgere la “gerarchia di materie” e assumerne come fondamentale una sola:
“la realtà, affrontata da tutti i punti di vista”.
Paragrafo 4
“Quasi tutti, insomma, si sono cercati il loro rifugio”
La nuova fase politico-sociale che si aprì attorno al 1973-74 segnò una netta cesura con il periodo
precedente, per gli effetti che la crisi economica determinò nel finanziamento delle spese sociali, per le
trasformazioni del quadro politico nella fase della teorizzazione del “compromesso storico” e infine per la
marcata disgregazione che i soggetti sociali subirono a partire da allora. La cesura di quel biennio mostrò la
precarietà delle conquiste ottenute, fondate su un protagonismo operaio che adesso veniva scemando a fronte
del mutato quadro sociale, economico e politico. La direzione politica complessiva ora si capovolgeva e,
seguendo un processo inverso rispetto a quello verificatosi solo un quinquennio prima, l’affievolirsi della
spinta operaia incise anche nel percorso di progressiva de-politicizzazione dei tecnici113.
A Reggio Emilia, furono gli stessi operatori protagonisti delle esperienze citate nei paragrafi precedenti ad
interrogarsi in una serie di articoli e saggi nel 1976-77114 sulle cause della situazione di stallo o comunque di
forte limitazione che riscontravano nel proprio lavoro quotidiano. Il fattore più rilevante lo riconobbero
Cfr. Mariano Dolci, Alla ribalta i fatti di ogni giorno, in “ZeroSei”, a.I, n.4, gennaio 1977, nell’inserto centrale.
Cfr. Marcello Argilli, Gianni Rodari. Una biografia, Torino, Einaudi, 1990, p.105. Si veda anche: Io chi siamo.
Itinerari fantastici con Gianni Rodari e bambini reggiani, realizzato in occasione del Convegno Nazionale di Studi per
il decennale della Grammatica della Fantasia (Reggio Emilia, 10-12 novembre 1982), curato da “InFORMA edizioni”
per conto del Comune di Reggio Emilia.
108
Cfr. Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, Torino, Einaudi, 1997, pp.13-14
109
Cfr. Loris Malaguzzi, Quando l’ombra non sta fuori dalla porta, in “ZeroSei”, a.II, n.3, novembre 1977, pp.54-60.
110
Si veda anche su questo: Francesco Tonucci, I bambini inventano le storie, in “ZeroSei”, a.I, n.7, aprile 1977, pp.3638.
111
Cfr. Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, cit., pp.13-14
112
Cfr. Gianni Rodari, Grammatica della fantasia, cit., pp.178-180
113
Oltre ai contributi del presente volume, si veda anche Luca Baldissara, (a cura di), Le radici della crisi. L’Italia tra
gli anni Sessanta e Settanta, Roma, Carocci, 2001.
114
Si veda soprattutto: F.Asioli, Reggio Emilia: una esperienza da riaprire, in “Fogli di informazione”, nov-dic.1976,
S.Mistura, G.Polletta, Considerazioni attuali sull’esperienza di Reggio Emilia, in “Fogli di informazione”, novdic.1976; G.Jervis, Il buon rieducatore, 1977, G. Jervis, L’esperienza di Reggio Emilia, in “La ragione degli altri”]
106
107
proprio nella crisi economica, non soltanto per gli effetti inflattivi e più propriamente economici che
implicava, ma perché portava le lotte operaie a concentrarsi prioritariamente alla difesa del salario e
dell’occupazione, marginalizzando la mobilitazione rispetto alla tutela della salute.
Lo studio dei documenti conservati presso l’archivio della Camera del Lavoro e lo spoglio della “Gazzetta di
Reggio” confermano quella analisi. Furono gli anni, quelli dal 1974 in poi, del “comitato comunale per
l’occupazione”115, del “fronte unico contro la crisi”116 e della ricetta “produrre di più: consumare di meno”
proposta dall’Associazione industriali reggiana117; gli anni del decuplicarsi dell’uso della cassaintegrazione
nel comparto meccanico, ceramico, commerciale, edile, agricolo118, dell’omelia natalizia del Vescovo
centrata sulle vertenze di lavoro nel settore tessile e dell’abbigliamento119. Fu il periodo della infinita
vertenza del calzificio “Bloch”, rimasta nella memoria collettiva a simboleggiare “la crisi”, con Dario Fo
processato a Reggio per un “Mistero Buffo” che andò tra le operaie dello stabilimento di viale Regina
Elena120 e una infinita teoria di “serate in fabbrica”, delegazioni a Roma e Milano, manifestazioni, scioperi
generali, speranze tradite.
Più immediatamente sensibili nel registrare quelle trasformazioni furono i settori più direttamente impegnati
nell’intervento nelle fabbriche attraverso i contatti con i Consigli di fabbrica. Di ciò la vicenda delle “150
ore” rappresenta un esempio assai chiaro: i corsi, pur proseguendo fino alla fine degli anni Settanta, vennero
sempre più perdendo l’originario valore politico, che vedeva in essi uno strumento di affermazione di
soggettività collettiva e un mezzo di sovversione della scuola e dei saperi tradizionali. Gradualmente poi, con
il decennio successivo, le “150 ore” vennero vissute dai lavoratori come la fruizione di un diritto individuale,
poco più che dei permessi retribuiti per motivi di studio.
Un buon indicatore del progressivo rifluire dei movimenti è anche la rivista Inchiesta, per le stesse
caratteristiche di radicamento nelle lotte sociali di cui si è detto in precedenza. Mentre la sezione relativa ai
“Collegamenti tra inchieste” mostra una graduale tendenza al recupero di una dimensione quasi
esclusivamente accademica delle ricerche, dal numero di aprile-giugno 1973 cessa del tutto la rubrica sul
collegamento tra gli operatori sociali.
I tecnici protagonisti dei movimenti e dei nuovi servizi reggiani ebbero coscienza della trasformazione che si
stava determinando sotto i loro occhi. Molti loro documenti e racconti contrappongono esplicitamente un
“prima” e un “dopo” datando lo spartiacque tra i due periodi attorno al biennio 1973-74. Ne sono un esempio
alcuni appunti di Silvia Candela, lombarda di origine e giunta a Reggio Emilia nei primi anni Settanta attratta
dall’esperienza innovativa nel campo della salute mentale e poi aggregatasi invece al nuovo Servizio
provinciale di medicina del lavoro, “meno ideologico, più operativo, semmai anche più movimentista”121.
Scrisse infatti nel 2004122 di come il sindacato, preso da altre priorità, “si scordò in breve del tema della
fabbrica”, mentre “i tecnici “ragazzini” smisero di esserlo e cercarono la loro strada professionale: chi rimase
fu sempre un po’ emarginato dalla sanità che conta e fu, spesso, sopraffatto dagli eventi”.
A quella memoria soggettiva corrispondono i termini del dibattito che caratterizzò nella seconda metà degli
anni Settanta il mondo sindacale sindacale e l’ambito degli operatori, quale emerge soprattutto da due
convegni del 1975 e del 1978123. Si sottolineava in essi come nessun servizio socio-sanitario risentisse più di
quello della medicina del lavoro delle “variazioni di ‘clima’ generale del paese”, e segnatamente dei processi
di ristrutturazione, di trasformazione tecnologica e di disgregazione del ciclo produttivo in atto nei luoghi di
Cfr. Manifestazioni di lavoratori del settore “abbigliamento”, in “Gazzetta di Reggio”, 21 dicembre 1975.
Cfr. Fronte unico contro la crisi, in “Gazzetta di Reggio”, 11 febbraio 1976.
117
Cfr. Produrre di più: consumare di meno, in “Gazzetta di Reggio”, 4 giugno 1974.
118
Cfr. Più che decuplicato l’uso della Cassa integrazione, in “Gazzetta di Reggio”, 12 dicembre 1975.
119
Cfr. Nel Natale dei reggiani i problemi dei tessili e dell’abbigliamento, in “Gazzetta di Reggio”, 27 dicembre 1975.
120
Cfr. Mobilitazioni per il Bloch, in “Gazzetta di Reggio”, 17 ottobre 1976. Sulla mobilitazione sindacale attorno alla
fabbrica “Bloch”, si vedano ad esempio i documenti conservati in: ACLT, b. “Organizzazione: scioperi e
manifestazioni”.
121
Traggo questa considerazione dai miei appunti del colloquio informale avuto con Silvia Candela e Roberto Poletti in
data 21 gennaio 2007.
122
Si tratta degli appunti dell’intervento intitolato “La medicina del lavoro a Reggio alla fine degli anni ’60: la sanità
rivoluzionata?”, tenuto in un convegno a Reggio Emilia, 30 settembre 2004.
123
Si vedano: documento allegato alla lettera prot.n.21/827 della Federazione CGIL-CISL-UIL, alle Federazioni
Nazionali di Categoria CGIL-CISL-UIL, in data 3 aprile 1975, in ACLT, b.96, f. “ Salute 1973-1976”; Servizi
territoriali di medicina preventiva dei lavoratori, Convegno Nazionale degli Operatori – Bologna 13-14 Maggio 1978,
maggio 1978, in ACLT, b.96, f. “Sanità – Medicina del Lavoro”.
115
116
lavoro. Il pericolo era quello di un doppio processo, che “dal basso” restituisse al tecnico la delega della
tutela della salute dei lavoratori e “dall’alto” vedesse il positivo elemento dell’inserimento della nuova
medicina del lavoro nei servizi pubblici rovesciarsi in una burocratizzazione crescente e inevitabilmente
conservatrice. Da questo secondo punto di vista, fu sottolineata nel 1978 la radicale modificazione della
cornice istituzionale in cui operavano i servizi, perché, a seguito dell’introduzione della nuova legislazione,
“da collettivi di operatori ‘di parte’ ci si ritrova istituzione”. La posizione sempre marginale che la medicina
del lavoro mantenne rispetto ai luoghi centrali del potere e del sapere medico fece sì inoltre che l’inserimento
del Servizio provinciale nei Consorzi Socio-Sanitari nel 1974 e ancor più la riforma sanitaria di quattro anni
successiva, pur formalmente innovativi nel prevedere la territorializzazione dell’assistenza, non solo non
sancissero l’auspicato riconoscimento della soggettività collettiva dei pazienti e la centralità del momento
preventivo, ma finirono per rafforzare di fatto i processi di burocratizzazione di quei Servizi.
Anche nel caso della medicina del lavoro reggiana appare evidente il nesso tra il restringimento degli spazi di
azione degli operatori dei Servizi e il venir meno della spinta operaia e dell’appoggio sindacale come
conseguenza della mutata situazione economica e politica. I collettivi degli operatori si disgregarono, con
rotture personali anche dolorose. Come riferisce Adele Valcavi, delle persone che erano venute da fuori
Reggio, all’inizio degli anni Ottanta non ne rimasero più di quattro124. Quando, nell’inverno 1977 quattro
medici del Servizio ne ripercorsero su Inchiesta la vicenda125, fecero coincidere l’origine della medicina del
lavoro reggiana con l’istituzione nel 1974 dei Consorzi Socio-Sanitari e con il conseguente decentramento
dei tecnici in cinque zone operative. Della fase precedente restava praticamente solo il ricordo di quel
velleitario progredire “con entusiasmo in un lavoro quotidiano molto stimolante senza curarsi di
approfondire ed aggiornare la propria preparazione”, ciò che ben presto – si diceva – avrebbe portato “verso
una progressiva dequalificazione professionale”.
Nel caso degli operatori dei servizi della salute mentale, l’impatto soggettivo della cesura del 1973-74 appare
ancora più marcato che per i medici del lavoro e gli educatori delle scuole dell’infanzia e degli asili126. Su
quel vissuto individuale è particolarmente significativa la testimonianza “a caldo” contenuta in un articolo di
Yvonne Bonner e Maria Ponsi127, rispettivamente psicologa e psichiatra nel SPP. Uno scritto nel quale l’uso
della lingua francese accentua involontariamente il senso di una presa di distanza da quegli eventi,
nonostante la vicinanza temporale, per meglio comprenderli nella loro dimensione insieme personale e
politica:
Mais graduellement le ciel des ‘idées justes et évidentes’ s’obscurcit. Les nuages de la crise énergétique, du
massacre chillen et du ‘compromis historique’ s’amoncellent. Les premières averses tempèrent nos
enthousiasmes et furtivement se lève la brise des premiers scepticismes. On parle beaucoup pour oublier
qu’on ne fait plus grand-chose. Cependent, on ne peut couvrir le silence d’une révolution manquée par les
commérages d’une réformisme absent…
Ainsi, on court, toujours à la recherche des doux rivages de la mer des certitudes. Hier, on se préoccupait de
la subjectivité des autres, aujourd’hui, on s’inquiète de la siénne. Certains camarades, ne sentant plus
l’énergie du Mouvement couler dans leurs veines, se lancent dans la restauration, d’autres se découvrent des
ulcères.
I percorsi esistenziali e professionali che seguirono appaiono molto diversificati, tra l’altro anche in ragione
della diversa collocazione nella gerarchia: alcuni lasciarono Reggio e proseguirono la professione
privatamente, seguendo idealmente l’esempio dello stesso coordinatore del Servizio, Giovanni Jervis,
trasferitosi a Roma nel 1975; altri lasciarono del tutto le professioni che svolgevano a Reggio; altri ancora,
soprattutto tra gli psichiatri, restarono nel Servizio e poterono abbastanza rapidamente reintrodursi nel
meccanismo istituzionale, “fare carriera” all’interno di esso. Per quasi tutti si aprì una stagione di progressiva
124
Si veda la mia intervista ad Adele Valcavi, Reggio Emilia, 19 gennaio 2007.
Cfr. Sergio Tonelli, Michele Oliviero, Silvia Candela, Roberto Poletti, I servizi territoriali di medicina del lavoro
nella provincia di Reggio Emilia, in “Inchiesta”, A.VII, n.30, novembre-dicembre 1977, pp.55-64.
126
Nella ricostruzione della storia dei CIM reggiani fatta da Valeria Pezzi e Assunta Ferretti, il paragrafo relativo al
periodo 1973-1978 è significativamente intitolato “La Normalizzazione”. Cfr. V.Pezzi, A.Ferretti, L’esperienza dei
Centri di Igiene Mentale Reggio Emilia (1968-78), pp.23-24.
127
Cfr. Y.Bonner, M.Ponsi, Interrogations en style télégraphique, in “Cahiers Critiques de Thérapie Familiale et de
Pratiques de Réseaux”, 1979; 1: p.74; cfr. anche i miei colloqui con le due autrici dell’articolo, rispettivamente del 23
marzo 2006 e del 19 luglio 2007 con Yvonne Bonner e del 4 agosto 2006 con Maria Ponsi.
125
specializzazione delle competenze e di nuova acquisizione di un ruolo tecnico all’interno di Servizi sempre
più burocratizzati e frammentati.
“Quasi tutti, insomma, si sono cercati il loro rifugio” – affermò in una intervista del 1983 l’infermiera del
CIM di Reggio Emilia, Marisa Bittasi128 – e anche chi non cambiò radicalmente professione e non si rifugiò
del tutto nella rassicurante routine delle tecniche, visse comunque in larga parte quell’ostinazione come
“soggettivismo incallito”, come scelta individuale rispetto alla precedente stagione di lotte collettive e più
direttamente politiche, capaci di inediti collegamenti tra soggetti sociali. Cioè, vedendo quelle tendenze a
partire dalla situazione attuale, come adattamento tattico ma non etico ad una fase socio-politica ed
economica che non sembrava più consentire un processo di ricomposizione sociale e politica e radicali slanci
contestativi di tipo collettivo.
Se poi un’intima malinconia porta oggi alcuni a descrivere quel periodo a cavallo tra anni Sessanta e Settanta
come una specie di “epoca d’oro” – forse anche per la coincidenza con gli anni giovanili – di essa
nondimeno si guardano con bonaria irrisione e in certi casi anche con marcato distacco quel coinvolgimento
totale e totalizzante, quel volontarismo, il linguaggio fortemente ideologico e, appunto, lo spontaneismo
nell’intervento sociale, il velleitarismo antiscientifico e soggettivista, la mancanza di specializzazione. Una
prova a contrario, per così dire, del cammino di rilegittimazione del ruolo e delle tecniche che è stato
percorso, individualmente, all’interno di più strutturali trasformazioni della società.
Con il riflusso iniziato con il 1973/74, la capacità di inchiesta del SPP sul disagio mentale nelle fabbriche si
ridusse notevolmente e l’azione preventiva si rivolse progressivamente ai singoli operai piuttosto che ai
gruppi omogenei e alle assemblee129. Fu del resto l’intera impostazione del SPP a mutare, conoscendo
anch’esso un passaggio da servizio “militante” a servizio istituzionalizzato, in quel caso favorito dalla citata
“diaspora” di molti tra i precedenti operatori e accelerato dall’ingresso dei CIM nel Consorzio SocioSanitario130. Anche nello specifico reggiano infatti, i Consorzi che avrebbero dovuto prefigurare i principi di
territorializzazione e partecipazione che si intendeva far confluire dopo la riforma sanitaria nelle Unità
Sanitarie Locali finirono per anticipare della realtà di quelle successive strutture del SSN soprattutto la
tendenza al tecnicismo e alla burocratizzazione.
Restando sul terreno della salute mentale, il valore periodizzante di quel biennio emerge anche cogliendo la
“sfasatura” che si determinò a Reggio Emilia, come in altri punti avanzati del movimento antimanicomiale,
al momento dell’approvazione della legge 180, nel 1978. Proprio nei luoghi in cui per la prima volta era stata
concepita e praticata quell’azione di de-istituzionalizzazione fondata sull’intervento territoriale che era posta
al centro della riforma, i nuovi servizi e l’intero movimento antimanicomiale apparivano infatti già allora in
forte crisi, immersi nell’inizio di un lungo riflusso nonostante i rilevanti risultati conseguiti.
A partire dal 1° settembre 1977, per quattro giorni si tenne presso il “San Lazzaro” una “festa popolare” di
incontro tra la cittadinanza e le milletrecento persone ancora internate nell’istituzione. La partecipazione fu
ampia, lo slogan Conquistiamo il San Lazzaro al territorio fu dipinto all’ingresso dell’ospedale psichiatrico
in un bel graffito che riprendeva lo stile di quelli cileni del tempo della Unidad Popular, mentre degenti ed
“esterni” cantarono, ballarono e parteciparono a dibattiti. L’iniziativa ebbe evidentemente un forte valore
simbolico, ma la situazione del “San Lazzaro” in quel medesimo periodo rendeva l’idea della differenza tra
quella impostazione radicale e la gradualità sonnolenta con cui andava avanti il processo di superamento
dell’istituzione.
Il manicomio reggiano, benché passato sotto la gestione diretta dell’Ente provinciale e destinato alla graduale
dismissione, continuava ad essere una istituzione forte, all’interno della quale agivano interessi ancora solidi.
Per contro, i servizi territoriali risentivano dei tagli finanziari che portavano all’impossibilità di aumentare gli
organici in base alle esigenze del territorio e subivano ora anche in maniera diretta un clima
complessivamente mutato. In quel contesto, uno degli psichiatri del servizio territoriale, Fabrizio Asioli,
notava con un certo distacco già alla metà degli anni Settanta che “il ’69 è lontano ormai e la strategia delle
128
La testimonianza è in G.Antonucci, P.Colacicchi, D.Maraini, La psichiatria: quale scienza? Ricerche teoriche e
testimonianze, in “Prassi e teoria”, 8, 1983, p.58.
129
Cfr. Fabrizio Asioli, Il Servizio Psichiatrico Provinciale e l’Ospedale Psichiatrico, s.d. [ma metà anni Settanta], in
ACLT, b.614, f. “S.Lazzaro”.
130
Per lo Statuto del Consorzio e il relativo dibattito in Consiglio comunale si rimanda a: Statuto del Consorzio
Intercomunale per i servizi sanitari facente capo al Comune di Reggio Emilia , in “Unità Locale Servizi Socio Sanitari”,
n.4, luglio 1974, pp.2-34. Il testo del Regolamento del Servizio di Igiene Mentale del Consorzio è conservato in AMP, f.
“Regolamenti”.
riforme ha mostrato la sua improponibilità”131. La classe operaia si confrontava ora con “un duro attacco
padronale all’occupazione, al salario”, di conseguenza “il tema della salute non è più fra gli obiettivi primari
della lotta”. Il “riflusso verso l’assistenza” era quindi scontato, gli operatori erano chiamati a mutare
strategia, ad adottarne una più “realistica”, abbandonando il velleitarismo della prima fase.
La progressiva traduzione della dirompente spinta politica iniziale in questa strategia di “graduale
superamento” dell’istituzione manicomiale132 appare dunque il dato caratterizzante di quel nuovo periodo,
nel quale, conseguentemente, anche a livello operativo l’accento cadde sempre di più sulle dinamiche interne
al “San Lazzaro”. Era in questo contesto complessivamente mutato in senso moderato che si veniva
ridislocando il lavoro quotidiano degli operatori della salute mentale. Un lavoro quotidiano in alcuni casi
ancora ispirato ai principi e alle prassi radicali degli anni precedenti133, ma ormai in posizione difensiva
rispetto alla crescente tendenza a “tecnicizzare” nuovamente il discorso sulla salute mentale, riaffermando la
“scientificità” del sapere psichiatrico e le gerarchie professionali conseguenti.
La brusca restrizione degli spazi di azione politica e rivendicativa, come si è detto, colpì in primo luogo i
nuovi Servizi che più strettamente erano a contatto con la realtà operaia. Essa non risparmiò tuttavia quelli di
più lunga tradizione e sostenuti da una forte volontà politica da parte del Municipio, come le scuole
dell’infanzia e gli asili134.
In verità, rispetto ad un contesto nazionale di servizi per l’infanzia largamente segnato dal disinteresse
politico, le scuole reggiane apparivano indiscutibilmente all’avanguardia, tanto nella qualità che nella
quantità del servizio fornito. Anche a Reggio Emilia, tuttavia, il clima complessivo stava cambiando e
l’andamento delle vertenze sul cosiddetto “1%” costituisce da questo punto di vista un elemento significativo
per valutare gli effetti di esso sui servizi per l’infanzia135: all’ampio impegno dei lavoratori reggiani del
primo periodo seguì il rapido decremento dei contratti conclusi e delle vertenze aperte sull’argomento già nel
corso del 1975 e la completa estinzione della vertenza tra il 1977 e il 1980.
Nel dicembre 1974 l’assessore Loretta Giaroni, riferendosi alla crisi finanziaria degli Enti locali, parlò
chiaramente del “nodo scorsoio che sta rapidamente soffocando i Comuni e i servizi da essi gestiti”136. Esso
si strinse sempre di più e si dovette procedere nella seconda metà degli anni Settanta a due interventi di
“ristrutturazione” relativi alle scuole dell’infanzia137, che comportarono tra l’altro tagli sulle spese per il
personale, la chiusura quasi totale dei servizi il sabato e l’elevazione del numero di bambini per sezione.
Garantita l’apertura nel corso del 1978-79 dei due nidi già in costruzione, si annunciava inoltre il blocco
dell’ulteriore espansione dei Servizi, per la prima volta dopo un decennio di continuo incremento numerico
degli stessi138.
131
Cfr. Fabrizio Asioli, Il Servizio Psichiatrico, cit.
Cfr. lo scritto del dott.Tagliabue intitolato Considerazioni e proposte relative alla riorganizzazione dell’assistenza
psichiatrica, in Bollettino n.15 degli Istituti Ospedalieri Neuro Psichiatrico “San Lazzaro”, giugno 1978, in ACLT,
b.624, f. “Legge 180”.
133
Si vedano in particolare: La posizione degli operatori dei servizi di igiene mentale dei consorzi socio-sanitari della
Provincia di Reggio Emilia sul problema della lungodegenza manicomiale, in ACLT, b.624, f. “Legge 180”; Inchiesta
sugli anziani lungodegenti ricoverati nell’ospedale psichiatrico (al 31 dicembre 1974), in ACLT, b.614, f. “Istituto
neuropsichiatrico “S.Lazzaro” 1974-1976”.
134
Per una ricostruzione dettagliata delle vicende delle scuole dell’infanzia e degli asili reggiani nella seconda metà
degli anni Settanta si rimanda ai documenti conservati in: ACLT, b.89, f. “Scuole materne. Rette e servizio. Vertenza”;
ACLT, b.89, f. “Vertenza scuole materne 1978 e s.d.”.
135
Si rimanda su questo aspetto al contributo di Patrizio Tonelli in questo volume. Sulle vertenze dell’ “1%” si vedano
in particolare i seguenti documenti conservati in ACLT, B.143, f. “Servizi sociali. 1971-1974”.
136
Loretta Giaroni, Per la difesa e lo sviluppo dei servizi sociali, in Comune di Reggio Emilia – Assessorato alle Scuole
e Servizi Sociali, Esperienze. Idee fatti delle scuole comunali dell’infanzia e dei nidi, febbraio 1975. Una copia si trova
nell’archivio della Fondazione Internazionale “Loris Malaguzzi”.
137
Si vedano: Proposte della Giunta Municipale per la ristrutturazione, l’estensione e la generalizzazione della scuola
pubblica dell’infanzia, allegato alla lettera del Municipio di Reggio Emilia, datata 19 maggio 1976, in ACLT, b.89, f.
“Scuole materne. Problemi generali e ristrutturazione” [d’ora in poi “Problemi generali”]; Municipio di Reggio Emilia –
Sezione Scuole e Servizi Sociali, Proposte di ristrutturazione dei servizi dell’infanzia, maggio 1978, in ACLT, b.89, f.
“Vertenza scuole materne 1978 e s.d.”.
138
Per i riepiloghi annuali si veda: Municipio di Reggio nell’Emilia – Sezione Scuole e Servizi Sociali – Scuole
Comunali dell’Infanzia, Contributi alla conoscenza di FATTI, PROBLEMI e PROSPETTIVE delle Scuole Comunali
dell’Infanzia, dicembre 1976, in ACLT, b.89, f. “Problemi generali”; Municipio di Reggio nell’Emilia – Sezione Scuole
e Servizi Sociali – Scuole Comunali dell’Infanzia, Contributi alla conoscenza di FATTI, PROBLEMI e PROSPETTIVE
132
Il piglio deciso con cui l’assessore Giaroni difese in una conferenza stampa i costi e la qualità dei Servizi
Comunali per l’Infanzia nel maggio 1975139 rende l’idea della rivendicazione completa di essi, ma gli
attacchi si facevano sempre più frequenti. Troppo costosi – si diceva – insufficienti e per giunta intrisi di una
educazione laicista. L’assalto più forte fu sferrato a partire dall’11 novembre 1976, quando il GR2 diretto dal
futuro parlamentare missino Gustavo Selva accusò le scuole comunali reggiane di impartire un’educazione
antireligiosa e di prevaricazione nei confronti della scuola privata cattolica.
La veemenza della polemica di “Radio Belva”, come i protagonisti dei servizi dell’infanzia reggiani
rinominarono quella trasmissione, rendeva esplicito il mutato clima. Fu peraltro proprio sul terreno della
trasformazione dei rapporti tra scuole comunali e scuole private dell’infanzia che si sviluppò la strategia di
medio periodo dell’Amministrazione reggiana, in linea con quanto accadeva in altre città italiane. Rigettata
infatti l’ipotesi della statalizzazione, si apriva anche per il capoluogo emiliano quella della costruzione di un
sistema di servizi per l’infanzia che integrasse la rete di scuole comunali a quella delle scuole private
attraverso la stipula di apposite convenzioni140. Una svolta di principio che, nel rompere la storica
contrapposizione politico-pedagogica tra quei due ambiti, preludeva ad ulteriori trasformazioni strutturali del
settore che sarebbero avvenute a partire dalla metà degli anni Ottanta, quando, sempre sulla scia della
necessità di ridurre i costi finanziari gravanti sull’Ente locale, attraverso il principio della “sussidiarietà”
sarebbe entrato nel campo dei servizi all’infanzia un terzo soggetto, le cooperative sociali141
Anche per i servizi per l’infanzia reggiani quindi, la metà degli anni Settanta segnò il momento iniziale di
una complessiva revisione degli assetti e degli equilibri raggiunti nella fase precedente. La tradizione e la
maggiore strutturazione che stavano alle spalle di essi diedero modo comunque agli operatori che vi
lavoravano di subire le conseguenze della crisi in modo più indiretto rispetto ai tecnici della salute mentale e
della medicina del lavoro. Non si ebbero qui né diaspore, né particolari eccessi burocratici. Al contrario, gli
anni Ottanta e Novanta portarono gli operatori dei servizi comunali per l’infanzia ad approfondire anche a
livello teorico le sperimentazioni introdotte nella fase 1968-1974.
Proseguirono i progetti estremamente innovativi e si venne sviluppando una “pedagogia dell’ascolto”, di
dialogo e riconoscimento dell’altro, che ha trovato in alcuni interventi di Carla Rinaldi una sua
sistematizzazione, per quanto sempre considerata “non-finita”142. Con il tempo, i servizi per l’infanzia
reggiani si proiettarono sempre più anche in una dimensione internazionale che ne riconobbe il carattere di
eccellenza. Lo dimostrano le vicende della mostra L’occhio se salta il muro143, esposta per la prima volta a
Reggio dal 6 al 31 maggio 1981 e pochi mesi dopo già trasferita al Moderna Museet di Stoccolma, per
approdare poi a Barcellona, Palma de Mallorca, Madrid e in altre città europee. Nel 1986, in occasione della
sua esposizione a Berlino, la mostra cambiò nome, divenendo I cento linguaggi dei bambini144, rendendo più
esplicito il principio pedagogico che la ispirava, in continuità con le esperienze passate: quello di una
unitarietà del bambino che si esprimeva attraverso una molteplicità di linguaggi espressivi, di bisogni, di
relazioni. I riconoscimenti internazionali non tardarono ad arrivare, come per l’articolo della rivista
statunitense “Newsweek” che nel dicembre 1991 definì la scuola “Diana” la “migliore e più innovativa del
delle Scuole Comunali dell’Infanzia, novembre 1973, in ACLT, b.89, f. “S.M. Comune di RE. Scuole Materne. Asili
Nido. Scuola obbligo” [d’ora in poi: “S.M.”].
139
Cfr. Costi e qualità dei Servizi Comunali per l’Infanzia, 28 maggio 1975, in ACLT, b.89, f. “S.M.”.
140
Si vedano soprattutto: Giorgio Allulli, Scuola materna: vecchi e nuovi equivoci sul rapporto tra pubblico e privato,
in “ZeroSei”, a.III, n.10, maggio 1978, pp.66-68; Loris Malaguzzi, Perché le convenzioni contino, in “ZeroSei”, a.III,
nn.11/12, giugno 1978, pp.34-35; Loris Malaguzzi, Commenti a distanza, in “ZeroSei”, a.III, nn.9/10, maggio 1978,
pp.22-23; Loris Malaguzzi, Tre questioni più una sui servizi sociali e educativi, in “ZeroSei”, a.III, nn.11/12, giugno
1978, pp.10-11.
141
Cfr. O.Lorenzi, E.Borghi, A.Canovi, Una storia presente, cit., pp.74-75.
142
Si veda in particolare la raccolta di saggi, articoli e interventi di Carla Rinaldi pubblicata in lingua inglese in: Carlina
Rinaldi, In Dialogue with Reggio Emilia. Listening, researching and learning, London and New York, Routledge,
2006. Si veda anche la mia intervista a Carla Rinaldi, Reggio Emilia, 29 marzo 2006.
143
Per il primo catalogo della mostra si veda L’occhio se salta il muro, Reggio Emilia, Comune di Reggio Emilia, 1981.
144
Per un catalogo bilingue della mostra si veda ad esempio: I cento linguaggi dei bambini. Narrativa del possibile /
The Hundred Languages of Children. Narrative of the Possible, Reggio Emilia, Reggio Children, 1996. Nella biblioteca
del Centro Internazionale “Loris Malaguzzi” esistono scaffali di pubblicazioni del catalogo o comunque sui servizi
dell’infanzia reggiani in lingue che vanno dall’inglese al giapponese, dal coreano al croato, al tedesco, al danese e
svedese.
mondo”145. Segni dell’affermazione su scala mondiale del modello pedagogico reggiano, cui ormai ci si
riferiva come al Reggio Emilia Approach146.
Nel caso dei servizi per l’infanzia, non fu dunque l’orizzonte interno a mutare per effetto della crisi, quanto
piuttosto il contesto sociale esterno nel quale quelle elaborazioni si collocavano. Se confrontati con la fase
precedente, infatti, quegli sviluppi apparivano ormai inseriti in un quadro che ne faceva delle “buone prassi”
giustapposte ad esperienze ispirate da altri principi, privandoli strutturalmente della possibilità di incidere su
trasformazioni più ampie, esterne al proprio specifico campo di azione. Agivano in questo senso, da un lato,
il permanere di una scarsa volontà politica nazionale per l’estensione dei servizi per l’infanzia, nonostante i
Nuovi orientamenti approvati nel 1991147; dall’altro lo sviluppo parallelo di scuole dell’infanzia private e
gestite dal privato sociale dentro una visione generale dell’istruzione che appariva profondamente mutata
rispetto al passato.
I servizi comunali per l’infanzia reggiani apparivano così complessivamente indeboliti rispetto a quella
capacità egemonica sul piano culturale e sociale che avevano avuto nei primi anni Settanta, quando erano
stati stimolo per una trasformazione radicale della scuola, del sapere pedagogico e della società, un luogo di
incontro e di discussione di una intera comunità in movimento, non solo un punto di eccellenza settoriale. E’
forse anche dalla coscienza di questa situazione che derivava quella “nostalgia del futuro” che gli operatori
misero al centro delle loro comunicazioni in un Seminario Internazionale milanese tenutosi nell’ottobre
1995, pochi mesi dopo la scomparsa di Loris Malaguzzi148.
Conclusioni
Tra la fine degli anni Sessanta e l’inizio del decennio successivo, i tecnici dei saperi speciali furono parte
integrante di quella “comunità militante” reggiana di cui si è scritto già nell’introduzione al presente lavoro e
della quale si è poi cercato di delineare i contorni più precisi nei successivi paragrafi. Provenienti in alcuni
casi da altre città, tutti comunque inseriti anche in reti politiche e personali che li collegavano ai movimenti
che a livello nazionale e internazionale si muovevano negli ambiti della medicina del lavoro, della salute
mentale e dell’educazione, essi frequentarono i luoghi e i dibattiti in cui a Reggio Emilia si stavano facendo
strada idee e pratiche nuove e una concezione dei ruoli sociali, della cultura e del sapere alternative a quelle
tradizionali.
A quella concezione innovativa, anzi, i tecnici diedero un contributo determinante. Ad eccezione degli asili e
delle scuole dell’infanzia, furono essi stessi a fondare i Servizi in cui successivamente si inserirono, vivendo
l’esperienza professionale principalmente come intervento militante nel contesto sociale. Le future équipe si
formarono a partire dall’incontro tra giovanissimi universitari provenienti dal movimento studentesco,
infermieri e tecnici di laboratorio loro coetanei e alcune figure di riferimento che univano ad una età
relativamente più matura, un notevole carisma e una maggiore competenza tecnica e organizzativa derivata
da precedenti esperienze esistenziali, lavorative e di ricerca. Era il caso di Loris Malaguzzi rispetto ai servizi
per l’infanzia, di Giovanni Jervis nella salute mentale e, nella medicina del lavoro, di Livio Montanari,
Edoardo Gaffuri e Sergio Tonelli. La loro autorevolezza, comunque, non arrivò ad offuscare la tendenza al
lavoro collettivo, ad un rapporto con gerarchie e tecniche tradizionali vissuto con pragmatico spirito
dissacratore, al volontarismo appassionato che non concepiva orari di lavoro, moltiplicava freneticamente i
contatti, ignorava mediazioni politiciste.
Quei “tecnici ragazzini”, carichi di una lettura politicizzata della realtà sociale, si immersero completamente
in essa. Per molti versi, essi facevano a Reggio Emilia ciò che in altre città era svolto dagli attivisti di gruppi
extraparlamentari, di centri e collettivi contro la nocività, di gruppi contro i manicomi e le carceri. Il loro
intervento poté però approfittare anche della continuità e della incisività che derivava dall’essere parte di una
istituzione politicamente schierata e da ciò derivava, rispetto ad altre esperienze, un atteggiamento
complessivamente meno ideologico e più pragmatico nell’approccio ai temi sociali e allo stesso rifiuto dei
ruoli e dei saperi specialistici. In generale, nel contesto reggiano, il rifiuto dei ruoli e dei saperi tecnici
Cfr. The 10 best schools in the world, and what we can learn from them, in “Newsweek”, December 2, 1991.
Si veda soprattutto l’importante pubblicazione: Carolyn Edwards, Lella Gandini, Gorge Forman, The Hundred
Languages of Children. The Reggio Emilia Approach – Advanced Reflextions, Westport – London, Ablex Publishing,
1998.
147
Sui Nuovi orientamenti si veda in particolare Enzo Catarsi, L’asilo e la scuola dell’infanzia, cit., pp.335-365.
148
Cfr. Susanna Mantovani, (a cura di), Nostalgia del futuro. Liberare speranze per una nuova cultura dell’infanzia,
Azzano San Paolo, Edizioni Junior, 1998.
145
146
tradizionali ebbe sì il carattere di assolutezza derivato dalla coscienza della “politicità” di essi, ma si
concretizzò poi maggiormente in concrete esperienze quotidiane.
Centrale in questo duplice lavoro di contestazione e di difesa attiva degli spazi apertisi fu la proposizione e la
pratica di alternative che traducessero operativamente i principi de-istituzionalizzanti affermati. In questo
senso ci si mosse in tre direzioni.
In primo luogo, si cercava di rompere l’isolamento e limitare il ruolo di potere dei singoli operatori, e a
questo fine si sperimentarono soluzioni organizzative significativamente analoghe anche se sviluppatesi in
ambiti e momenti diversi. Tra queste: la formazione di collettivi di lavoro che miravano a non riprodurre –
ma talvolta finivano per farlo – le gerarchie tradizionali e che ponevano sullo stesso piano anche il personale
ausiliario e figure innovative come gli atelieristi; la moltiplicazione dei momenti di assemblea, luogo di
confronto, discussione e decisione; le pratiche comparabili della “coppia educativa” nei servizi per l’infanzia,
della coppia psichiatra/infermiere nella salute mentale e di quella medico/tecnico di laboratorio nella
medicina del lavoro.
In secondo luogo, si mirava a stabilire un rapporto non solo individuale ma collettivo rispetto a quelli che,
più che come utenti passivi, erano visti come portatori di una piena soggettività politica. Il modello di quel
rapporto era dato dalla relazione instaurata con i Consigli di fabbrica e con i gruppi omogenei operai; veniva
ora riproposto negli altri ambiti, in particolare stimolando l’autorganizzazione di collettivi attraverso
assemblee di gruppi e sul territorio.
In terzo luogo, un fattore decisivo nel rompere l’autoreferenzialità dei tecnici e nel rafforzare la soggettività
politica degli “utenti” fu dato dalla gestione sociale, ossia dal chiamare in causa potenzialmente l’intera
comunità cittadina nell’esercizio del “controllo” e della direzione sui tecnici. Una comunità attiva, anch’essa
organizzata sia nelle tradizionali strutture partitiche, sia nelle nuove assemblee, comitati, consigli “Scuola e
Città” e nelle aggregazioni informali di cui si è già detto.
Un punto comune dei tre aspetti – collettività del lavoro degli operatori, riconoscimento della soggettività
degli “utenti” e partecipazione dei cittadini – fu spesso rappresentato dell’inchiesta, che rispondeva anche
all’esigenza primaria di dare uguale valore ai diversi tipi di saperi di individui e soggetti collettivi molto
eterogenei.
A Reggio Emilia, a fungere da riferimenti unificanti per i vari ambiti del movimento furono la linea
sindacale da un lato, la politica dell’Ente locale dall’altro. La “strategia delle riforme” del sindacato
reggiano, collegato a quello bolognese e idealmente vicino a quello torinese, fortemente rinnovato a livello
camerale e ben radicato nelle fabbriche, diede continuità alla soggettività e all’organizzazione operaia che si
esprimeva nei Consigli di fabbrica, articolandola in rivendicazioni e obiettivi praticabili e indicando
costantemente la necessità di estendere l’azione dalla fabbrica verso il territorio. I momenti centrali di quella
strategia furono le vertenze per il cosiddetto “1%”, volte al finanziamento dei servizi sociali, quelle tese alla
riforma sanitaria, comprendenti l’intervento sulla medicina del lavoro e della salute mentale, e la
mobilitazione per la riforma della scuola, che impegnava prioritariamente il sindacato nella ricerca di un
contatto con il movimento degli studenti medi e nella gestione politica dei corsi delle “150 ore”, ma che
interessava anche la vicenda dell’inserimento dei minori portatori di handicap e riguardava i servizi per
l’infanzia.
Gli operatori-militanti si impegnarono in prevalenza ciascuno nel proprio specifico campo di intervento, ma
quella sottostante strategia sindacale e la comune lettura politica dei processi sociali li spinsero a cogliere i
nessi politici e operativi tra i vari ambiti. Da ciò derivò la continua circolarità delle esperienze dei tecnici, il
quotidiano interscambio che talvolta creava legami diretti tra i vari operatori e che in generale dava un senso
di continuità e non settorialità alle varie mobilitazioni e, dentro queste, all’azione di contestazione dei ruoli e
dei saperi speciali. Erano legami trasversali a volte fragili e temporanei, come nel caso della connessione tra
l’apertura delle scuole dell’infanzia nel quartiere “Ospizio” e il processo di de-instituzionalizzazione del De
Sanctis. Erano più stretti e continuativi in altre occasioni, come per il lavoro che il “burattinaio municipale”
Mariano Dolci svolgeva sia nei servizi per l’infanzia che nell’ospedale psichiatrico, e ancor più per il
rapporto tra gli operatori della salute mentale e della medicina del lavoro nell’intervento in fabbrica e nei
corsi delle “150 ore”, che furono a loro volta il luogo del significativo incontro dei tecnici con gli operai e
con esponenti del mondo della ricerca. Infine, l’esperienza della gestione sociale legata agli asili e alle scuole
dell’infanzia rappresentava un terreno di confronto ampio nel quale, nella veste di genitori e cittadini, si
incontravano ancora medici, tecnici, sindacalisti, operai, educatori.
La comunità militante – e quella dei “tecnici ragazzini” in particolare – confinava e non di rado si
sovrapponeva nei primi anni Settanta a Reggio Emilia con la comunità politica. In quella fase almeno, agli
Amministratori locali fu generalmente riconosciuto un ruolo di sintesi complessiva delle novità sollevate dai
movimenti, specie nei termini dell’articolazione di una politica sociale innovativa. Una sintesi alla quale
peraltro i movimenti imponevano una radicalità nuova rispetto alle posizioni della prima metà degli anni
Sessanta. Alle giunte comunali e provinciali non fu dunque attribuito, come accadde in altre città, quel ruolo
di controparte che dai movimenti reggiani era semmai riferito ad un governo centrale di segno politico
opposto e che sembrava separato da quelle vicende, forse ancor più che sui contenuti, nella sfera più
profonda della cultura politica.
All’interno del quadro di questa relazione costante tra Enti locali e movimenti, la gradazione di quel rapporto
variava a seconda degli ambiti considerati. Si registrava così un legame particolarmente stretto nel caso dei
servizi per l’infanzia, forse in ragione della storia precedente di quelle strutture e per il ruolo che svolse la
figura carismatica di Loris Malaguzzi, molto accorto ad evitare ogni spontaneismo movimentista e a dare un
solido inquadramento istituzionale allo stesso meccanismo della gestione sociale. Fortemente legata
all’indirizzo politico dell’Amministrazione provinciale appare l’esperienza nel campo della salute mentale,
ma in dialettica con esso gli operatori del SPP seppero ritagliarsi un notevole spazio di autonomia,
interpretando in maniera ampia il concetto stesso di “servizio territoriale”, dando vita a forme di
mobilitazione militante come le “calate” e costruendo alleanze con gli operatori dei servizi per l’infanzia e
con quelli della medicina del lavoro. Furono infine questi ultimi e i Servizi di cui facevano parte, pur legati
anch’essi alle politiche dell’Ente locale, a godere della maggiore autonomia in virtù del più forte legame con
i Consigli di fabbrica e la struttura camerale del sindacato. Non a caso, è ad essi che fu attribuito
l’appellativo di “tecnici ragazzini”, anche per le connotazioni più militanti dei Servizi che crearono.
L’intreccio stretto che si costruì tra istituzionali locali, strutture sindacali e movimenti tra la fine degli anni
Sessanta e l’inizio del decennio successivo fu scosso dalla cesura del 1973/74, che mutò sostanzialmente lo
scenario di riferimento, riducendo contemporaneamente e reciprocamente la forza di tutti i protagonisti della
fase precedente. L’esperienza di Reggio Emilia, proprio in virtù della originalità e radicalità delle iniziative
avutesi negli anni “alti” dei movimenti, mostra con particolare evidenza il carattere complesso e radicale del
riflusso che ad essi seguì. Pur nelle sue evidenti specificità, essa esplicita quelle tendenze che a livello non
solo locale ma nazionale e mondiale individuano negli anni Settanta le “radici della crisi”149, ossia la fase di
incubazione e l’inizio del dispiegarsi di una trasformazione complessiva della società, dell’economia e della
politica.
Con il biennio 1973/74 terminarono infatti contemporaneamente, su scala globale, la fase economica
espansiva apertasi nel dopoguerra e la spinta politico-sociale dei movimenti covati negli anni Sessanta ed
esplosi con il biennio 1968-69. Due crisi inestricabilmente collegate, di cui i tecnici e gli intellettuali dei
saperi speciali furono doppiamente partecipi. Da ciò l’interesse per quelle esperienze, anche dallo specifico
osservatorio reggiano. La loro collocazione mediana tra movimenti e istituzioni li rendeva infatti ora sensibili
alle conseguenze di entrambe le crisi: “dal basso”, in relazione al venir meno della spinta operaia e del più
generale processo di soggettivizzazione su cui era fondata anche la loro stessa capacità di contestare ruoli e
saperi tradizionali; “dall’alto”, in rapporto alla contrazione della spesa sociale da parte del governo nazionale
e degli Enti locali determinata dalla crisi economica e finanziaria e dalla politica dell’austerità.
Nel complesso, quanto accadde dopo il 1974 non può essere considerato semplicemente come
l’annullamento o la prosecuzione delle esperienze precedenti, ma va letto alla luce di quella “torsione” a cui
la nuova situazione politico-sociale sottoponeva ogni tipo di iniziativa. In ogni ambito – dalla medicina del
lavoro alla salute mentale e ai servizi per l’infanzia – qualunque intervento avveniva ora in un contesto
strutturalmente modificato e assumeva per questo un valore e una rilevanza differente. Come nel caso
reggiano, non terminarono quindi tout court le esperienze innovative e i tecnici e gli intellettuali non smisero
di portare avanti, individualmente o in gruppi comunque sempre più ristretti, punti di vista critici e anche
radicali; quelle azioni però, avendo perso il nesso con movimenti non più di massa e ridotti sulla difensiva
dalla crisi, finirono per essere confinate all’interno di settori specialistici, esempi di “buone prassi”
coesistenti con altre di segno opposto.
La rilegittimazione dei ruoli e dei saperi specialistici a cui la riorganizzazione dei servizi spinse gli operatori
fu spesso vissuta individualmente da ciascuno di essi come una necessaria riflessione teorica dopo
l’ubriacatura “movimentista” e, insieme, come strategia difensiva a fronte della burocratizzazione dei servizi
stessi. Ma essi colsero anche con lucidità che alle spalle di quel vissuto soggettivo stavano modificazioni
149
Cfr. Luca Baldissara, (a cura di), Le radici della crisi, cit.
strutturali: il rovesciamento dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro, specie dopo la sconfitta del 1980, la
trasformazione del quadro politico e i processi di ristrutturazione industriale.
Erano le avvisaglie di una modificazione complessiva della concezione stessa del mercato del lavoro e del
welfare che si sarebbe dispiegata nei decenni successivi. Si apriva infatti una fase completamente nuova, che
avrebbe introdotto trasformazioni tali da rendere increduli gli operatori reggiani se avessero potuto vederle
scorrere davanti ai loro occhi di allora. Avrebbero visto, tra l’altro, una profonda modificazione dei gruppi
subalterni, l’avanzare di retoriche e prassi repressive nei confronti di nuovi soggetti sociali come i
tossicodipendenti e degli immigrati, lo svilupparsi di vecchie e nuove istituzioni totali anche negli ambiti in
cui più forti erano state le esperienze di de-istituzionalizzazione150. E avrebbero osservato tutto ciò inserito in
un processo di ristrutturazione del sistema socio-assistenziale posto sotto il segno di un welfare mix che
attraverso una ingegneristica “sussidiarietà” tra Stato, Enti locali, enti privati, privato sociale, operatori e
“utenti” tornava a frammentare e settorializzare l’intervento sociale e i saperi che lo legittimano.
Sviluppi successivi, distanti, ma conseguenti alla cesura di quegli anni che rappresentano proprio per questo
le “radici della crisi”. Del resto, già alla metà degli anni Settanta, anche agli ormai ex “tecnici ragazzini” di
Reggio Emilia il 1969 sembrava molto lontano.
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