APPRO F O N D I ME NT I
LA
STRUMENTAZIONE
COME “SERVA
DELL’ORATIONE”
Benedetto Gennari,
Orfeo suona la sua lira,
1640 c., olio su tela,
Peoria (US),
Peoria Riverfront Museum
A quattrocentocinquanta anni dalla nascita, Claudio Monteverdi continua a proporsi come grande visionario,
modello imprescindibile per tutta la musica successiva. Il suo Orfeo, prototipo eccelso di ogni melodramma, è
anche la prima composizione di vasto respiro in cui siano accuratamente annotate le indicazioni strumentali.
Lo studio di tali indicazioni rivela una concezione straordinariamente moderna, dove gli strumenti, nella loro
specificità timbrica, diventano allo stesso tempo attori del dramma, costruttori del contesto sonoro ed evocatori dei mondi in cui si svolge la vicenda.
di Carlo-Ferdinando de Nardis
l 24 febbraio del 1607, in un salone del Palazzo Ducale di Mantova viene rappresentato l’Orfeo, una favola in musica di Alessandro Striggio su musica di Claudio Monteverdi, per iniziativa
dell’Accademia degli Invaghiti, un gruppo di letterati, artisti e
musicisti che vivevano alla corte di Mantova, protetti dal mecenatismo gonzaghesco. Il mondo delle corti italiane era avvezzo da
tempo alle favole pastorali, che nel loro richiamo arcadico all’Età
dell’Oro erano un mezzo indiretto per magnificare i principi e i signori, e ormai da tempo, e in diversi modi, la musica e la poesia si
erano costituiti insieme in dramma. Ciononostante l’Orfeo traccia il
I
28
confine di un’epoca, cambiando il corso della storia della musica.
Vincenzo Gonzaga, duca di Mantova dal 1587 al 1612, era il protettore e mecenate dell’Accademia degli Invaghiti, e, in particolare,
del musicista Claudio Monteverdi e del poeta Alessandro Striggio.
Il duca è ricordato dalla storiografia come grande amante delle arti,
avendo nella sua cerchia di cortigiani moltissimi musicisti, poeti, pittori – e tra questi il giovane Pieter Paul Rubens –, mai lesinando a
sé e alla sua corte sfarzi e lusso: una sua campagna militare in Ungheria ha più resoconti delle feste che delle gesta guerresche, e gli
intrattenimenti che organizza a Mantova, in particolare in occasione
APPROF OND I ME NT I
del Carnevale, rimangono negli annali per lo stupore che creano e
per la magnificenza che viene messa in campo. Proprio tra questi
intrattenimenti si pone l’Orfeo di Monteverdi, che dopo l’esecuzione
‘domestica’, per la grande impressione creata, viene replicata in un
“gran teatro”, alla presenza di tutta la società mantovana, e ripresa
più volte negli anni successivi. Data la liberalità del principe, l’allestimento scenico è grandioso, e, nella parte musicale, Monteverdi
coinvolge numerosi musicisti: una vera orchestra. Tutti gli strumenti
coinvolti e i loro interventi vengono accuratamente registrati nelle
edizioni a stampa, a maggior ricordo e gloria della grandiosità delle
esecuzioni mantovane – e per il piacere degli studiosi di quattrocento anni dopo.
Perché l’Orfeo di Claudio Monteverdi è la prima grande composizione musicale di cui conosciamo un articolato uso degli strumenti
fin nei dettagli. E inoltre, come la musica si fa “serva dell’oratione”,
la strumentazione diventa parte del dramma. La partitura a stampa
(del 1609 ristampata nel 1615) offre in terza pagina una tavola degli strumenti, a fianco all’elenco dei personaggi, quasi a voler suggerire il ruolo drammaturgico della strumentazione.
Queste indicazioni sono di sommo interesse per chi le studia: rivelano un’idea molto moderna dell’uso degli strumenti, che prendono parte all’ambientazione scenica, acquisiscono una dimensione
spaziale, diventano parte del dramma e commentano le parole del
libretto in veri e propri “madrigalismi strumentali”. La ricerca timbrica in questo è notevole, con gli strumenti usati a gruppi secondo
chiare costruzioni sonore e drammaturgiche.
Una ricerca simile non è un hapax in Monteverdi: un celebre
esempio è Il Combattimento di Tancredi e Clorinda. Qui, se la strumentazione è scarna e immaginata su un’esecuzione domestica –
quattro viole nei quattro registri, contrabbasso e clavicembalo –, le
tecniche strumentali e la scrittura musicale assumono un aspetto
descrittivo quasi scenico: dei veri madrigalismi tecnici, fatti di colpi e
inflessioni d’arco. Il trotto del cavallo, i passi pesanti dei due combattenti, scontri bellicosi e scintille armoniche, ferite, spasimi, commozione e morte: anche senza le parole, la musica dipinge vividamente
la scena in tutti i suoi aspetti.
Nell’Orfeo, che è di molti anni precedente al Combattimento, si ritrovano pochi punti in cui avviene un simile uso di ‘madrigalismi tecnici’. In compenso, la ricca trama timbrica data dai tanti strumenti e descritta nelle didascalie ci mostra un quadro di ‘madrigalismi timbrici’,
dove i personaggi hanno una propria timbrica che cambia e si evolve
secondo quello che dicono, interpretando anch’essa il dramma.
L’orchestra monteverdiana
Tavola dei personaggi
e degli strumenti nella
prima edizione dell’Orfeo
Nel corso delle scene, poi, ci sono frequentissime indicazioni
strumentali, che però appaiono, più che essere vincolanti, descrittive
delle scelte che furono fatte nelle esecuzioni precedenti all’edizione.
Ciò in ottemperanza all’uso dell’epoca di Monteverdi di non prevedere una strumentazione precisa, ma di sfruttare le possibilità offerte dal più o meno ricco investimento nell’allestimento. Pertanto,
frequenti sono formule del tipo “Questo balletto fu cantato…”, “Duoi
Organi di legno & duoi Chitarroni concertorno questo Canto…” e simili,
che dunque si rivelano testimonianze, dalla prescrittività relativa, di
una esecuzione modello, presumibilmente concertata dallo stesso
Monteverdi, e presumibilmente proprio della seconda esecuzione
mantovana che tanto rimase memorabile. In questo, la partitura a
stampa, mostrando la grandiosa strumentazione, potrebbe voler
principalmente mostrare l’opulenza delle messe in scena, sottolineata anche dalle varie fonti documentarie di cui disponiamo.
La scrittura di Monteverdi, come da prassi dell’epoca, ha come
fondamento il basso continuo. Pertanto, nell’elenco della strumentazione, gli strumenti armonici hanno un ruolo importante: vengono elencati due clavicembali, due organi, regale, due chitarroni, oltre
a “ceteroni” nominati nel quarto atto. A questi si aggiunge l’arpa,
strumento che trasmette le suggestioni dell’arcadica cetra, e che
dunque è legato al personaggio di Orfeo, che compare una volta
come strumento di continuo e una volta come strumento solistico.
Gli archi, distinti nelle due famiglie di Viole da braccio e Viole da
gamba vengono usati in modi diversi: le viole da braccio sono dieci, e
si può immaginare divise in due cori a cinque voci, in diversi registri,
con il basso che già acquisisce la fisionomia e il modo di suonarsi
del violoncello e il soprano affine a un violino; delle viole da gamba vengono utilizzati solo i bassi e i contrabbassi, come strumenti
partecipanti al gruppo del continuo. Vengono richiesti anche “due
violini piccoli alla francese”, definizione che lascia aperte le porte
a congetture sulla vera natura degli strumenti, che però vengono
generalmente identificati con “pochette”: piccoli strumenti ad arco
di forma piriforme accordati un’ottava sopra al violino.
Tra i fiati si trovano due cornetti, tromboni e trombe, e poi due
flautini “alla vigesimaseconda”, riconducibili a flauti dolci sopranini. La tavola iniziale degli strumenti mostra un apparente disordine:
gli strumenti non sono raggruppati né per famiglia né per registro,
e neppure procedono in ordine di apparizione come avviene per i
personaggi. In principio dell’elenco si nota il gruppo fondamentale
dei due clavicembali, che potevano supplire altre parti di continuo
e che dal basso continuo acquisivano la missione di riempimento
armonico e di sostituzione delle parti mancanti; a questi fanno seguito i contrabbassi, necessari per dare la profondità e il fraseggio
di un contrabbasso d’arco alle linee del basso, e poi le dieci viole da
braccio per le parti polifoniche e i raddoppi dei cori.
Seguono l’arpa e i due “violini piccoli alla francese”. Poi un secondo gruppo di strumenti di continuo – i due organi e i due chitarroni, usati spesso insieme nell’opera –, e le viole da gamba bassi. Poi
vengono elencati gli strumenti a cui è affidata la timbrica dei due
atti ambientati negli Inferi: dal grave verso l’acuto, il regale, i tromboni e i cornetti. Concludono “Un Flautino alla Vigesima seconda” e
“Un clarino con tre trombe sordine”.
29
APPRO F O N D I ME NT I
Strumenti ad arco in una tavola del Syntagma Musicum di Michael Praetorius (1617).
Si vedono la ‚”pochette”, in alto al centro, e le viole da braccio soprano, tenore e basso
- a 5 corde e con puntale -, rispettivamente ai numeri 4, 5 e 6.
Si percepisce dunque un ragionamento a gruppi sonori, e se ne
individuano quattro, intercalati da altri strumenti scelti per le peculiarità timbriche: oltre al fondamentale gruppo di archi e clavicembalo, un secondo gruppo di continuo, dato da organi di legno, chitarroni e viole da gamba, poi il gruppo strumentale che caratterizza
gli atti terzo e quarto e l’ambientazione infera: tromboni, cornetti e
regale, e infine il gruppo della chiarina e delle trombe, presente solo
nella Toccata iniziale.
Mondi sonori
Escludendo le trombe, il cui unico uso è nella Toccata-richiamo
iniziale e che dunque non hanno ruolo nel dramma, questi gruppi
strumentali corrispondono a dei veri “Mondi sonori”. La storia di
Orfeo è una storia di tre mondi che, nell’arte del semidivino cantore,
vengono a contatto: la terra, gli inferi e il cielo. Orfeo, creatura celeste e terrestre a un tempo, grazie al suo canto che lo rende simile
agli dei, può discendere nell’oltretomba e reclamare a sé Euridice;
pur fallendo in questa prova, la sua divinizzazione è compiuta: egli
infatti, grazie al canto è giunto all’infrazione della legge suprema.
Nel finale dell’edizione veneziana del 1609, si avvalora questa eccezionalità, facendo assumere il cantore tra gli dei celesti, mentre nel
finale del libretto a stampa del 1607, la divinizzazione assume tinte
misteriche, poiché Orfeo viene immolato quale vittima sacrificale,
secondo un primordiale rito di cannibalismo, compiuto dalle menadiche sacerdotesse, eternandosi così in sostanza divina.
Nella trasposizione monteverdiana, i tre mondi sono chiaramente distinti da sonorità diverse, ottenute con i diversi gruppi
strumentali: la terra vede come strumento di basso continuo il clavicembalo, e nei ritornelli, su tempi di danza, intervengono strumenti
30
acuti come i violini piccoli e i flautini. Al primo scorcio di un mondo
ultraterreno, con l’apparizione della Messaggera, il continuo viene
svolto da organo di legno e chitarrone: un altro mondo sonoro che si
presenta. Per una parte consistente del secondo atto, i due mondi,
rappresentati dalla divina Messaggera e dai Pastori terrestri, si confrontano usando diverse ambientazioni sonore: i personaggi divini
cantano sulle sospese e sacerdotali armonie dell’organo e su incensate volute di arpeggi del chitarrone, mentre l’umana inflessione di
uno strumento ad arco, armonizzato dai colpi di plettro del clavicembalo, rappresenta i personaggi umani e il loro caduco vivere.
Il terzo mondo sonoro, naturalmente, è quello che risuona nei
bui antri dell’Orco: il regale sostiene le armonie del continuo, con
le sue ance battenti, e tromboni e cornetti costruiscono la musica
aulica e terribile che risuona nelle sale degli inferi. Da notarsi come
i cori, negli atti di ambientazione infernale, siano esclusivamente di
voci maschili.
Man mano che si procede verso il cielo, inoltre, le armonie sono
più rarefatte: se negli inferi risuonano sette voci di tromboni e cornetti, sulla terra sono cinque voci di archi e nel cielo rimane la voce
sola sul basso continuo dell’organo.
Il basso continuo, nel suo variare, accompagna anche le emozioni: la gioia vuole il clavicembalo, mentre il dolore l’organo. Anche per
i Pastori, nell’Atto Secondo, viene mutato il continuo con l’insorgere
del dolore, ma, più in generale, in tutto l’Orfeo, la scelta degli strumenti per il basso continuo, sembra dettata dagli antichi principi
dell’ethos. La linea del basso vuole clavicembalo e due chitarroni per
tutta la prima parte, per poi, dopo il fatale annuncio della morte
di Euridice, risultare affidata all’organo e ad un chitarrone: il dolore
che diventa sublimazione spirituale e sonora. Nell’Inferno, di contrasto con l’asperità del Regale che accompagna i personaggi ctoni,
si canterà solamente con l’organo di legno. Ritornerà prepotentemente il clavicembalo, con un basso di viola da braccio e chitarrone,
quando Orfeo ritorna umano nel cedere al dubbio e nel violare la
prescrizione: riappare lo strumento che veste il mondo umano. Ma
la sua disperazione per la perdita di Euridice è di nuovo intonata con
l’organo di legno: Orfeo ormai, purificato dal dolore è destinato al
mondo divino, dove ascenderà nell’Atto Quinto, al suono di organo
e chitarrone.
Gli strumenti di Orfeo
Nel libretto, Orfeo viene detto suonare sia la lira che la cetra,
mentre il mito, nelle sue numerose tradizioni, è univoco nell’assegnare al cantore la sola lira, strumento insegnatogli dalla madre, la
ninfa Calliope. All’epoca di Monteverdi, se la cetra era ben chiara agli
studiosi, frequente era la sovrapposizione tra la lira, strumento della
civiltà greca classica, e la lira da braccio, strumento rinascimentale
ad arco, non dissimile da una viola nella forma, ma dotato di sette
corde e di un ponticello poco arcuato, così da essere propensa a
moti accordali. Pertanto, nell’immagine che si aveva allora di Orfeo,
come si può vedere dalle numerose iconografie, il cantore trace suonava sempre una lira da braccio o uno strumento simile.
Monteverdi, nel suo rendere la musica serva dell’orazione, imita,
quando e come può, il suono degli strumenti di Orfeo, per offrire
al pubblico dell’epoca un raffronto strumentale con sonorità che
conosce. Al contempo, però, ci sono frequenti incostanze dovute
evidentemente alla scarsa conoscenza che si aveva degli strumenti
classici, noti grazie alle raffigurazioni pittoriche e scultoree.
Riguardo alla cetra, essa viene identificata con l’arpa, ed è plausibile che Francesco Rasi, primo interprete dell’Orfeo, la suonasse in
scena: è documentato come qualche anno dopo, in un altro melodramma per la corte mantovana, egli apparisse nelle vesti di Nettuno
“suonando un’arpa doppia”, come quella richiesta da Monteverdi,
e dunque poteva farlo anche nel capolavoro monteverdiano, assu-
APPROF OND I ME NT I
Raffaello Sanzio, Il Parnaso, 1510-11, affresco,
Città del Vaticano, Stanza della Segnatura.
Al centro il dio Apollo suona la lira da braccio
e una musa tiene una lira classica; a sinistra Saffo
tiene una fantasiosa cetra.
mendo che fosse uno strumento, se non maneggevole, decisamente più piccolo di un’arpa moderna, trasportabile, utilizzabile e
suonabile in scena. In effetti la cetra compare più volte nel libretto
come strumento di Orfeo: la prima ‘aria’ del cantore viene sollecitata da un pastore “al suon della famosa cetra”, e poi lo strumento
ritorna nel testo dell’atto terzo, quando Orfeo cerca di incantare Caronte e, puntualmente, in questo frangente, viene richiesta l’arpa.
L’altro strumento di Orfeo, come detto, è la lira: essa compare
nel libretto al secondo atto, di nuovo su invito dei pastori, e, secondo il mito raccontato nelle Metamorphoses di Ovidio, quando Orfeo
scende agli inferi e col suo canto cerca di piegare la ferrea volontà
degli abitanti dell’Erebo. Essa dunque viene assimilata alla lira da
braccio, e viene dunque resa in orchestra dagli archi che si muovono omoritmicamente, imitando il procedere accordale della lira. È
anche richiesta una sonorità tenue, indiretta: nel primo punto, in
“Vi ricorda, o boschi ombrosi”, cinque viole suonano “di dentro”;
nel secondo, quando Orfeo canta a Caronte, le viole suonano “pian
piano”.
Un terzo strumento viene poi suggerito nel libretto: quando viene nominato il dio Pan, i due flautini si prodigano in un ritornello in
cui procedono costantemente a distanza di terza, secondo scale e
moti di gradi congiunti, in una fedele imitazione del flauto di Pan,
strumento pastorale per eccellenza.
Un altro mezzo per fornire profondità spaziale, in questo caso
suggerendo le risonanze delle grandi caverne infernali è l’eco: nella
preghiera a Caronte dell’Atto Terzo,
i ritornelli strumentali prevedono
numerose risposte in eco. Un’Eco
dichiarata nella partitura, invece,
nell’Atto Quinto, è interprete della “cortese Eco amorosa” che sola
risponde al poeta dalla bocca della
grotta infernale a cui si rivolge invocando Euridice, oppure, seguendo
la tradizione virgiliana, la risonanza della grotta dove vive per sette
mesi piangendo la sua disgrazia.
La stereofonia inoltre doveva permeare molta parte della scrittura visto che alcuni indizi ci portano a immaginare una disposizione in due cori di alcuni strumenti: oltre ai due gruppi di organo e
chitarrone dislocati a destra e a sinistra nell’Atto Quinto, abbiamo
dieci viole da braccio, due clavicembali e due contrabbassi nelle
prime righe della tavola strumentale iniziale: due “orchestre” costituite ognuna da un clavicembalo, un contrabbasso e cinque linee
di viola, da soprano a basso, per raddoppiare le consuete cinque
parti di scrittura dei numeri strumentali. La stereofonia, in quanto
spazializzazione del suono funzionale a risposte, alternanze ed effetti di contrapposizione, rientra dunque appieno nella concezione
scenico-musicale Monteverdiana.
L’Orfeo, dunque, al suo indubbio ruolo di capolavoro, aggiunge il
carattere di geniale prototipo per la modernità indubitabile nell’uso
degli strumenti. L’evidenza di una concezione drammaturgica del
dato timbrico e strumentale – che diventa parte integrante della
storia, inquadrandola così in un contesto sonoro totalizzante, e
della scena, conferendole dimensioni ulteriori di suggestione – aggiunge un ulteriore tassello all’immagine di Claudio Monteverdi: un
compositore che come pochi altri ha inventato, nella propria opera,
il futuro della Musica.
Spazialità musicale
Una evidenza ulteriore della sapienza monteverdiana e della sua
modernità di concezione nell’uso degli strumenti ci viene dalle indicazioni che abbiamo sulla spazialità musicale. Se la prima esecuzione
dell’Orfeo fu in un salone del Palazzo Ducale di Mantova, non particolarmente ampio (tanto che Monteverdi, a distanza di anni ricorda
l’“angusta scena”), la replica che fu fatta pochi giorni dopo ebbe
luogo “in gran teatro” “con grandissimo apparato”, e dunque con
possibilità di declinare anche spazialmente il ruolo degli strumenti.
Ne sono testimoni alcune indicazioni che abbiamo e alcune particolarità della scrittura: nel secondo atto abbiamo inoltre numerose
indicazioni “da dentro”, che coinvolgono molta parte del complesso
strumentale (compresi due clavicembali), e per il Quinto Atto si richiede una coppia “chitarrone-organo di legno” nell’angolo sinistro
e una nell’angolo destro.
Le indicazioni “da dentro” appaiono quando i pastori sono
nei “boschi ombrosi”, delineando breve contrapposizione tra una
sonorità attenuata e lontana ed una aperta e ordinaria che invece
compare quando vengono evocati il prato e le “erbose sponde”. La
costruzione timbrico-spaziale fornisce così una profondità scenica
ulteriore all’episodio.
Frontespizio della
prima edizione
dell’Orfeo
31
APPRO F O N D I ME NT I
Analisi strumentale
di due scene
ATTO II:
la festa pastorale e il terribile annuncio
I
gioiosi canti di Orfeo e dei pastori che aprono l’Atto II descrivono il locus amoenus arcadico, in cui miticamente si muovono,
con consuete descrizioni stereotipate. Monteverdi però trasforma
questi stilemi in vibranti immagini sonore: quando si parla dei boschi
di faggi, sotto le cui ombre ripararsi, due violini piccoli “da dentro”,
dunque con una sonorità lontana e velata, suggeriscono fruscii silvani di quartine di crome; quando si parla invece di “erbose sponde”,
di “mormorio dell’onde” e di “prato adorno”, sono due violini ordinari,
con campestri figurazioni ternarie, a dipingere il fondale sonoro, stavolta non “da dentro”, ma con la piena sonorità della sala. Quando
invece si parla di Pan, dio dei pastori, e delle Napee, le ninfe arcadiche dai satiri importunate, la mente di un musicista non può non
richiamare il flauto del dio silvestre… e la musica segue il pensiero:
i due flautini, con moti paralleli, quasi sempre per gradi congiunti,
imitano il soffiare in un flauto di Pan, lo scorrere della bocca sulle due
file di canne disposte in scala.
Nei versi successivi i pastori invitano Orfeo a suonare la lira, e il
cantore non si fa pregare: intona l’aria “Vi ricorda, o boschi ombrosi”, in cui rimembra, ora con con spirito allegro e distaccato, i
trascorsi giorni infelici. I ritornelli sono agili danze ternarie, eseguite da cinque viole da braccio, contrabbasso, due clavicembali
e tre chitarroni, da suonarsi di nuovo “di dentro”. L’imponente apparato di basso continuo ha sicuramente una funzione ritmica di
scansione dei tempi di danza. Il suonare “di dentro” richiama “i boschi
ombrosi” in cui già suonavano “di dentro” i due violini piccoli, con
dunque un tono velato e remoto degli strumenti. Considerata l’attenzione imitativa monteverdiana, specialmente dopo il chiaro invito fatto dai pastori a suonare la lira, è evidente, nella specificazione
strumentale delle viole e nella scrittura, una suggestione che rimandi
alla lira da braccio.
Nel panorama gioioso e festivo qualcosa cambia all’improvviso: il
clavicembalo, strumento terreno e vivace, viene sostituito, in un
espressivo cromatismo, da organo di legno e chitarrone, che sostengono il lamento della Messaggera. Gli strumenti sono testimoni
e attori di un cambiamento di emozione e accompagnatori di una
voce divina (la Messaggera è compagna di Euridice, dunque è una
ninfa). Un pastore interloquisce e, significativamente, il suo continuo
è disposto sempre su viola, chitarrone e clavicembalo. Quando però
Orfeo domanda “Donde vieni?”, e poi nel dialogo successivo, il continuo indicato è consequenziale a quello della Messaggera, e dunque
richiede sempre l’organo: il dolore sublima l’animo e impone un’evoluzione timbrica. Ci vuole un po’ prima che anche i pastori elaborino
il dolore della perdita; allora anche essi, nobilitati, cantano sopra al
timbro dell’organo.
Pieter Fris, Orfeo ed Euridice all’Inferno (1657), Olio su tela, Museo del Prado
ATTO III:
“Possente spirto”, Orfeo dinanzi a Caronte
Q
uando Orfeo si ritrova davanti a Caronte, la didascalia strumentale che accompagna il guardiano infero è “Caronte
canta al suono del regale.” Qui l’indicazione strumentale è
assertiva, non descrittiva come i consueti “fu cantato” o “concertossi”,
perché il personaggio di Caronte, infernale com’è, non può avere
come strumento di continuo altro che il regale, per un ragionamento di mondi sonori, come già sostenuto.
La preghiera di Orfeo che segue è incorniciata da una sinfonia suonata ordinariamente all’inizio e “pian piano” al termine, quando il
cantore farà cadere nel sonno Caronte. Tale preghiera, grande pezzo
di bravura vocale, in cui vengono scritte due alternative linee del
canto, più o meno virtuosistiche, segue una forma di strofe di “recitar cantando” inframmezzate da interventi strumentali dove gli
strumenti stessi, nella loro timbrica e nella loro scrittura, si rapportano al libretto con veri “madrigalismi strumentali”. In tali interventi si
riscontrano anche frequenti effetti di eco, a suggerire le risonanze di
grandi caverne infernali.
La captatio benevolentiae “Possente spirito” che apre l’allocuzione
orfeica a Caronte è intercalata dalle punteggiature dei violini, costituite da scale progressivamente più diminuite, vere “sviolinate”
virtuosistiche al traghettatore infernale. Dopo i primi tre interventi,
costituiti da pure ripetizioni in eco, il quarto è un intervento più lungo a due. Quando il discorso cade sulla morte e sul fatto che Orfeo
si ritiene morto assieme a Euridice, con le parole “Non vivo io no…
com’esser puote ch’io viva?”, gli strumenti che interloquiscono con
il canto sono i due cornetti, anch’essi presentati tre volte in risposte
in eco, e una volta con un intervento più lungo a due. La scelta degli
strumenti non è casuale, dato che i cornetti, assieme ai tromboni e al
regale, sono parte della sonorità associata al regno dei morti.
Quando invece, nei versi successivi, Orfeo parla di Euridice, dicendo
che porta il paradiso anche all’inferno, suona l’arpa, lo strumento
più immediatamente associato agli angeli e al paradiso. L’arpa però
ha anche un sicuro legame ideale con la cetra, che verrà nominata
alcuni versi dopo, e forse per questo gli interventi dell’arpa sono nettamente più lunghi e ricchi rispetto a quelli precedenti, in particolare
l’ultimo, vera e propria ‘cadenza’ dello strumento.
Nella parte conclusiva della preghiera a Caronte, al canto si sovrappongono in vari modi le viole da braccio, per poi, dopo un breve
scambio tra i personaggi, conquistarsi uno spazio da sole nella ripresa della sinfonia iniziale, “pian piano”. Sorge però un problema con il
testo dei versi successivi: Orfeo dice che la “cetra non impetra pietà”
nel cuore di Caronte, ma che egli non può evitare di esser preso dal
sonno al suo cantare. Ora, l’ultimo episodio cantato da Orfeo sembra tutt’altro che una canzone per indurre il sonno, con il culmine
della perorazione appassionata “rendetemi il mio ben!”: è dunque la
sinfonia seguente, il momento in cui Orfeo piega Caronte al sonno,
seppur senza canto?
Si potrebbe immaginare il cantore, dopo aver fallito con il canto
nell’impietosire Caronte, intento ad addormentarlo con il suon degli
stromenti. E dunque, vista la scrittura omoritmica e attenuata della
sinfonia, che si rapporta con i precedenti interventi delle viole, e visto
il contesto narrativo, possiamo immaginarvi sublimata la sonorità
della lira da braccio, strumento di Orfeo e delle sue arti sublimi.
Bibliografia
Publius Vergilius Maro, Georgicon, Liber IV.
Publius Ovidius Naso, Matamorphoses, Liber X.
Agostino Agazzari, Del Sonare sopra’l basso con tutti li stromenti. Siena:
Domenico Falconi, 1607.
Claudio Monteverdi, L’Orfeo. Venezia: Ricciardo Amadino, 1609.
Michael Praetorius, Syntagma Musicum.
Robert Graves, I miti greci. Milano: Longanesi, 1983.
Paolo Fabbri. Monteverdi. Torino: EDT, 1985.
Peter Holman. ‘Col nobilissimo esercitio della vivuola’: Monteverdi’s String
Writing. In Early music, Vol. 21, p. 580, Oxford: Oxford University Press,
novembre 1993.
The new Grove - Dictionary of Music and Musicians (2nd edition). Oxford:
Oxford University Press, 2001.
Claudio Gallico. Prefazione e note critiche a Claudio Monteverdi, L’Orfeo.
Mainz: Eulenburg, 2004.
Alessandro Di Profio, L’opera da Monteverdi a Monteverdi e la sua orchestra (perduta). In Music@, anno IV, n. 15, L’Aquila: Conservatorio di Musica
“Alfredo Casella”, 2009.
32