Istituzioni di Diritto Romano
Periodo Antico
Dal 754 a.C. – fondazione di Roma- al 242 a.C. –istituzione del praetor peregrinus-.
Diviso in ulteriori due periodi aventi come momento di separazione l’emanazione delle XII tavole.
Come fonti di cognizione di questo periodo ricordiamo:
Leges regiae, emanate dai vari re della tradizione, di contenuto giuridico-religioso ed estraneo al diritto privato.
Norme delle XII tavole, attinenti al diritto privato.
Leges o plebiscita del secondo periodo antico, tra cui la lex Aquilia sulla responsabilità per danneggiamento.
Mores e reperti archeologici.
Quella romana nasce come una civiltà fondata sulla pastorizia e sul’agricoltura estensiva, retta inizialmente da un rex, che era capo militare e religioso, ma dal debole potere a causa della maggior influenza delle gentes.
Durante e dopo la repubblica, più che alle attività lavorative, i romani miravano alla carriera militare.
La religione e il diritto raggiunsero netta separazione solo dopo l’emanazione delle XII tavole, nonostante personaggi come Tiberio Coruncanio fossero insieme primo pontefice e massimo plebeo. E’ da ricordare che per un lungo periodo l’interpretatio delle norme fosse riservata ai pontefici.
Anche la magia era strettamente connessa alla religione, in quanto da essa scaturivano i gesti e le parole con cui rivolgersi agli dei.
Sempre la magia fu fondamento del rigido formalismo, che era necessario e sufficiente per dare validità ed efficacia ad un atto. Solo più tardi il formalismo non sarà da solo sufficiente.
I pontefici mantennero a lungo il segreto sugli schemi formali da impiegare, da qui la connessione magia-religione.
Alla debolezza iniziale dello stato, ovviamente non inteso come quello moderno, si contrapponeva l’importanza delle formazioni sociali a base parentale, ossia delle gentes e delle familiae.
Il rex interveniva solo per risolvere le controversie, lasciando però l’esecuzione dell’atto punitivo alla parte offesa stessa.
Periodo Preclassico e Classico
Dal 242 a.C. –istituzione del praetor peregrinus- al 240d.C –anno di morte dell’ultimo giurista classico Modestino-.
Si possono individuare due sottoperiodi: quello preclassico caratterizzato da una forte carica innovativa ad opera soprattutto del pretore e da grossi fermenti sociali e quello classico, durante il quale si ebbe una forte opera di sistemazione del diritto con pareri relativi ai singoli casi e prevalentemente di tipo casistico.
Come fonti di cognizione di questo periodo ricordiamo:
Iscrizioni, epigrafi e papiri riportanti atti normativi, come la costituzione di Caracalla, con la quale si estese la cittadinanza romana a tutto l’impero.
Le Istituzioni di Gaio.
Tituli Ulpiani.
Le Pauli sententiae.
Digesto o Pandectae.
Cicerone e Plinio il Giovane, le epistulae.
Dopo l’espansione in oriente, i romani fecero propri i principi filosofici, logici e dialettici dei vicini greci, tanto che adottarono alcuni loro istituti.
Attraverso questi principi, i romani con la loro interpretatio delle norme crearono quello che verrà poi chiamato ius civile, che valeva però solo per i cittadini romani, dato che l’unico processo che a Roma esisteva era quello per legis actiones, riservato sempre e solo ai cittadini romani.
Per risolvere questa situazione il senato permise ad un pretore, forse ancora quello urbano, di usare un processo per formulas per risolvere le controversie tra cittadini romani e peregrini, che verrà poi usato per risolvere le controversie di cui non si occupava lo stesso ius civile.
Si crearono così due nuovi insiemi di regole giuridiche: il ius gentium e il ius praetorium o honorarium.
Gli stessi giuristi aiutarono il pretore ad ampliare il ius gentium, tanto da divenire adsessores.
I pretori inizialmente autorizzarono singoli processi fra o con peregrini o relativi a rapporti non regolati dal ius civile e successivamente i magistrati si riservarono con promesse edittali di stabilizzare la loro concessione e la possibilità di autorizzare con loro decreta processi basati su nuove formule.
Periodo Postclassico e Giustinianeo
Dal 240 d.C. – morte del giurista Modestino - al 565 – morte di Giustiniano -.
Possono essere individuati quattro sottoperiodi:
Altopostclassico: dal 240 al 313 – anno dell’editto che permise la professione pubblica del cristianesimo-.
Mediopostclassico: dal 313 al 455 –morte di Valentiniano III e cessazione di scambi di costituzioni tra parte orientale e occidentale dell’impero-.
Bassopostclassico: dal 455 al 527 –ascesa al trono di Giustiniano-.
Giustinianeo: dal 527 al 565 –morte di Giustiniano-.
Come fonti di cognizione di questo periodo ricordiamo:
Scritti di giuristi classici e costituzioni emanate dagli imperatori fino alla morte di Gordiano nel 244.
Costituzioni imperiali successive a Gordiano.
Leggi romano-germaniche emanate per i romani di quei regni.
I testi di Paolo e Gaio.
Il Corpus iuris civilis.
Vengono identificati come ultimi quattro grandi giuristi Papiniano, Ulpiano, Paolo e Modestino e in più Gaio.
Valentiniano III emanò la cosiddetta Legge delle citazioni nel 426.
Per quanto riguarda il volgarismo, esso era un modo per affrontare il rigidismo, il rigore e il tecnicismo dei giuristi classici.
Fonti di Produzione.
Nel periodo Antico:
Mores (mos al singolare): rivelate dal rex e dal collegio pontificale, esse erano manifestazione dell’originaria in distinzione della sfera del diritto da quella della religione e delle forze extraumane in genere, che i romani sentivano in vario modo condizionare e regolare la vita degli uomini. Erano orali e incerte nel loro contenuto.
Leges Regiae: si pensa che fossero leggi fate votare dal rex alle curiae in cui il popolo era diviso, ma potrebbero anche essere esclusive emanazioni del rex.
XII Tavole: redatte da una magistratura straordinaria di dieci magistrati –decemviri- che in due anni formularono una serie organica di norme attinenti al diritto privato e ai loro processi, che fecero scrivere su tavole in numero di dodici.. Regolavano pochissimi aspetti, i cui vuoti erano colmati dai mores. L’interpretatio di queste norme rimase prerogativa esclusiva dei pontefici, fino alla metà del III secolo a.C., quando Tiberio Coruncanio, pontefice massimo ma tribuno della plebe, cominciò a professare in pubblico.
Leges: testi prescrittivi proposti con rogatio all’assemblea popolare da un alto magistrato (lex rogata), la quale assemblea poteva respingerli, ma non modificarli. Era anche possibile che il magistrato le emanasse senza bisogno di voto comiziale (lex data). Entrambe erano attinenti al diritto pubblico.
Plebiscita: deliberazioni dell’assemblea della plebe, proposte dai tribuni o anche da uno solo di esse e che il senato composto dai patrizi doveva approvare. In caso di approvazione esse avrebbero vincolato tutto il popolo.
Nel periodo Preclassico e Classico:
Consuetudine: precedenti giudiziari in materia di interpretazione delle leggi.
Leges e plebiscita: vedi sopra.
Senatoconsulti: deliberazioni dell’assemblea del senato su proposta di un magistrato, di solito dei consoli. Se la proposta veniva dal principe, l’approvazione del senato era scontata ed essa rimase solo come vero atto normativo al posto del senatoconsulto –di qui l’esclusiva riservata al solo princeps di creare diritto-.
Costituzioni imperiali: erano costituite da edicta, aventi carattere normativo, sentenze, denominate decreta da Gaio, risposte alle questioni giuridiche sottopostegli da magistrati e funzionari imperiali –epistulae- o da privati interessati –rescripta-. I decreta furono presto considerati precedenti. Altri provvedimenti di carattere generale e destinati ai governatori delle province vennero chiamati mandata.
Giurisprudenza: dato dal rispondere dei giuristi alle questioni sottopostegli da privati. I giuristi si divisero in Sabiniani e Proculeiani, tantoché nacque il problema del responsum del giudice, che non sempre era giusto, ma coincideva con le idee della secta a cui apparteneva.
Editti dei pretori: nuovi criteri di giudizio per la nuova procedura per formulas, relativa a sentenze per situazioni diverse da quelle affrontate nelle XII tavole. Gli editti rimanevano in vigore per l’intero anno in carica dei pretori e venivano chiamati perpetui, contrapposti agli editti emanati per situazioni di emergenza improvvisa e temporanea, chiamati repentina. In casi ulteriori non previsti si ebbero concessioni mediante decretum.
Nel periodo Postclassico e Giustinianeo:
Consuetudine: costumi a lungo seguiti e convalidati dal consenso di chi li pratica. Non vale se contrasta con una legge o con la ratio –anche se successivamente, quando verrà equiparata alla legge e siccome quest’ultima viola quei principi, allora sarà ammissibile che anche la consuetudine lo faccia-. Poteva essere tanto generale che locale.
Costituzioni imperiali postclassiche: divise in generales –contenuto normativo e creatrici di diritto- e speciales –per una persona, categoria specifica e abilitate ad applicare il diritto vigente-. Non creavano diritto i rescripta e le epistulae.
Codices: Codex Gregorianus, Hermogenianus e Theodosianus e Novus Iustinianus Codex.
Novellae: nuove costituzioni dopo la pubblicazione del codice.
Digesto: creato da una commissione preseduta da Triboniano, costituita da un’ampia scelta di brani di giuristi classici, divisa in libri e titoli e inerente a tutto il diritto pubblico e privato, composta in soli tre anni.
Istituzioni di Giustiniano: riproduzione delle Istituzioni gaiane, era un manuale destinato alle scuole.
Diversi tipi di ius.
Col termine ius si indica la regola giuridica in sé e così con ius est si enuncia la liceità giuridica di una data condotta.
Col termine fas si indica la regola religiosa di controllo sociale e di valutazione della condotta dei singoli e così con fas est si enuncia la liceità religiosa di una data condotta.
Ius Quiritium: era il diritto più antico, strettamente connesso con la religione, formatosi attraverso i mores e rivelato dai pontefici.
Ius Civile: era il diritto derivato dalle XII tavole e dalla loro interpretatio, nonché quello sviluppatosi soprattutto per opera dei giuristi. Si identificava con l’intero diritto vigente nella civitas, applicabile ai soli cittadini romani. Creato regolarmente nei modi previsti per creare il diritto in generale.
Ius Gentium: era un diritto esclusivamente romano applicato in tribunali romani da magistrati romani, nei riguardi sia di cittadini romani, sia di cittadini stranieri a parità di condizioni.
Ius Naturale: individuato da Gaio e Ulpiano come diritto di tutti gli esseri viventi loro insegnato dalla natura.
Ius Honorarium o Praetorium: era il diritto creato dal pretore nell’esercizio della sua iurisdictio. Creato in via giurisdizionale da organi aventi il potere di statuire il ius in concreto. Diritto parallelo al ius civile con il quale non interferisce, avente propri istituti con nomi propri. Se le soluzioni date dai due ius erano diverse, il pretore prediligeva quella del ius honorarium, dato che ne era il creatore.
Ius Publicum: era il diritto creato da fonti pubbliche e riguarda le istituzioni della comunità romana.
Ius Privatum: era il diritto creato da fonti private e riguarda l’interesse dei singoli.
Le situazioni giuridiche soggettive.
Quando la condotta di un soggetto viene regolata, valutata e qualificata dal diritto, questo avviene in funzione di un altro soggetto. Così, ciascun soggetto viene a trovarsi in una particolare situazione giuridica rispetto a un altro o ad altri soggetti. Si delinea così il rapporto giuridico.
Nel periodo Antico.
Nel periodo antico chi era titolare di situazione giuridiche erano solamente le persone libere appartenenti alla comunità romana, ossia i cittadini romani, ossia i patres familias.
Le situazioni giuridiche a loro volta possono essere di vantaggio o di svantaggio –favorevoli o sfavorevoli-.
Le situazioni di vantaggio avevano in questo periodo natura potestativa, consistevano cioè perlopiù in un potere o in un insieme di poteri.
Il pater familias aveva diritto di vita e di morte sui suoi sottoposti –alieni iuris- e era messo in grado dalla comunità di effettuare le pene stabilite in caso di ricevuta offesa.
Si creò un vincolo corporale non tanto sul soggetto dal quale si aspettava una prestazione, quanto sui suoi sottoposti.
Si assunse la necessità per il soggetto vincolato di far ottenere al soggetto titolare di situazione favorevole il risultato stabilito. Nacque così l’oportere, ossia l’essere necessario che quel risultato venisse raggiunto.
Nel periodo Preclassico e Classico.
Le situazioni favorevoli o di vantaggio poterono far capo in questo periodo anche ai peregrini e ai filii familias.
La prerogativa dell’uso della forza rimaneva solo al pater familias nei confronti degli schiavi o in quelli dei soggetti alieni iuris.
Durante il processo per legis actiones e nelle successive formulae, l’essenza delle situazioni soggettive venne enunciata in a) appartenenza di un dato bene, di una data persona alieni iuris o di una data hereditas all’attore, b) la spettanza all’attore di una dato ius relativo al bene appartenete ad un altro soggetto, c) l’esistenza di un oportere del convenuto verso l’attore.
C’era nel periodo classico la tendenza a riassumere sotto il termine ius tutte le situazioni giuridiche favorevoli.
Venne delineandosi anche il ius di usare e godere interamente un bene altrui o un insieme di beni altrui, ma solo per la durata della propria vita.
La situazione soggettiva favorevole simmetrica a quella passiva sfavorevole di oportere era l’actio, intesa come potere di agire in giudizio per ottenere ciò che spettava al suo titolare. Essa poteva essere in personam, diretta esclusivamente contro il debitore e in rem, che perseguiva la res dovunque si trovasse e quindi nei confronti di chiunque. Essa aveva il suo corrispondente anche nel ius honorarium, con denominazioni differenti.
Nel periodo Postclassico e giustinianeo.
In questo periodo si ha una minor distinzione tra cittadini romani e stranieri e un ampliamento della sfera di azione dei filii familias. Diminuirono ulteriormente gli elementi potestativi.
Non vi è nessuna percepibile tendenza a configurare un concetto generale capace di comprendere insieme le situazioni soggettive favorevoli e non si configurò un concetto generale di dovere.
Durante il periodo giustinianeo, il termine ius indicava ormai qualsiasi posizione di vantaggio conferita ad un singolo soggetto, anche relativamente al pieno godimento di beni.
Dal periodo postclassico fu possibile estinguere le azioni –lo poteva fare solo il convenuto , prima esperibili soltanto entro l’anno dal fatto che le aveva prodotte, se non erano esperite entro un dato termine, normalmente trent’anni, tramite l’istituto generale della praescriptio.
La distinzione tra situazioni soggettive di ius civile e ius honorarium rimase, in epoca giustinianea, solo per la successione ereditaria e per le azioni.
Atti costitutivi, modificativi ed estintivi delle situazioni giuridiche soggettive.
Sono factum gli accadimenti naturali, che si identificano come fatti giuridici.
Sono actum gli accadimenti rilevanti per il diritto e quindi produttivi di effetti giuridici e i comportamenti umani, che si identificano come atti giuridici.
La struttura dell’atto può consistere in una pura operazione materiale o in una manifestazione o comunicazione del pensiero.
A loro volta possono anche essere manifestazione di volontà del soggetto, che creano omissione o azione e riconducono al soggetto stesso.
Quando il fatto è voluto dal soggetto, si ha allora un negozio giuridico.
Negozio giuridico.
Nel periodo Antico.
Tanto era forte il formalismo, che bastava aver pronunciato le parole e aver compiuto i gesti prescritti perché l’effetto previsto si producesse.
Si trattava di negozi che modernamente chiamiamo bilaterali, prevedevano cioè la presenza di due soggetti; a volte, come per l’adrogatio o per il testamentum calatis comitiis, era necessaria la partecipazioni dei comizi curiati e dei pontefici.
I negozi possibili erano solo quelli aventi le date forme prestabilite –tipicità-. Salvo gli spazi bianchi non ammettevano aggiunte o varianti ad opera delle parti.
Si rimediò allo scarso numero di tipi negoziali e alla forte rigidità attraverso la sostituzione del bronzo greggio (aes rude) con lingotti di bronzo prepesati e indicanti il loro peso (aes signatum), poi addirittura con la moneta coniata; attraverso la dichiarazione dei soggetti (nuncupatio) con la quale modificavano gli effetti del negozio e attraverso l’utilizzazione di atti non negoziali e di norme estranee alla materia negoziale per creare nuovi negozi.
Nel periodo Preclassico e Classico.
I negozi del ius civile rimasero formali, salvo la traditio e suoi connessi; quelli del ius gentium e del ius honorarium furono essenzialmente non formali, con la presenza di vera e propria flessibilità, dato che le parti furono lasciate libere di manifestare o dichiarare la loro volontà nei modi che ritenessero più opportuni.
Giuristi classici come Ulpiano, parlano di conventiones riguardo a tutti gli accordi bi- o plurilaterali. L’essenza di questi negozi, infatti, era costituita dal consenso delle parti e dalla necessità che sussistesse una causa, che poteva mancare solo in caso di atti estintivi o modificativi e, comunque, solo per opera del pretore.
Nel periodo Postclassico e Giustinianeo.
I giuristi ritennero che anche atti non patrimoniali, come il matrimonio, potessero obbedire a regole simili e rientrare in una categoria di atti che presentava tratti comuni.
Presupposti, elementi e specie dei negozi giuridici.
Un negozio per essere valido doveva essere compiuto da un soggetto capace di agire. L’autore del negozio doveva essere titolare dell’interesse da regolare, si parla oggi di legittimazione.
Gli elementi essenziali generali del negozio erano, a partire dal periodo preclassico, tre: la manifestazione o dichiarazione col relativo regolamento di interessi, la causa e la volontà.
La manifestazione era l’esternazione della volontà senza l’utilizzo delle parole, mentre la dichiarazione prevedeva l’esternazione della volontà attraverso parole pronunziate o scritte.
Nei negozi non formali la dichiarazione poteva essere compiuta in qualunque modo, anche per lettera o per messaggero.
In epoca giustinianea la dichiarazione o manifestazione fu comunicata per mezzo scritto, a volte richiedendo l’intervento di un tabellio –l’antenato del nostro notaio.
I negozi, sempre riguardo alla manifestazione o dichiarazione, potevano essere uni-, bi- e, eccezionalmente, plurilaterali.
La causa era, invece, lo scopo pratico per cui il negozio serviva o per il quale le parti lo concludevano. Era un elemento essenzialmente oggettivo e per evitare interpretazioni in senso soggettivo, essa può essere definita, invece che come scopo pratico, come la funzione tipica svolta dal negozio e per la quale esso veniva tutelato dall’ordinamento.
Se la validità dei negozi estraeva dalla causa, questi negozi erano denominati negozi astratti, che erano sempre formali.
In età postclassica i negozi formali tesero a scomparire a vantaggio dei nuovi negozi causali.
Un’ulteriore distinzione può essere fatta tra negozi inter vivos e negozi mortis causa, i primi da attuarsi durante la vita delle parti, i secondi da attuarsi dopo la morte di una delle parti.
La volontà corrispondeva con l’impegno assunto, alla disposizione data ad uno o a più o a tutti i propri beni, alle determinazioni prese riguardo a proprie situazioni giuridiche.
Nei negozi del ius civile e del ius gentium si iniziò a tener conto della volontà delle parti. I giuristi classici, però, affermarono che era da ricercare ciò che effettivamente le parti avessero voluto dire. Se la volontà non era la stessa della dichiarazione, il negozio era da considerare nullo.
I negozi giuridici erano sottoposti a condizione, cioè era presente una clausola con la quale si facevano dipendere gli effetti del negozio da un avvenimento futuro e incerto. Se l’evento era impossibile, il negozio era nullo sul nascere.
La condizione era sospensiva quando il negozio diveniva efficace soltanto se e quando si verificava l’evento. Era invece risolutiva quando il negozio era da subito efficace, ma vedeva risolversi i suoi effetti col verificarsi dell’evento.
Se il debitore impediva che l’evento si verificasse, esso si aveva comunque per verificato e la condizione per adempiuta.
Dal periodo preclassico si parla di trasmissibilità dei crediti dei negozi inter vivos, non quelli dei negozi mortis causa.
Un’altra clausola era il termine –dies-, con la quale si stabiliva una data o un evento futuro e certo a partire dal quale o fino al quale il negozio doveva produrre effetti – termine iniziale/sospensivo-.
Con il modus, si prescriveva al beneficiario di una donazione o ad un legato una data condotta, spesso attinente all’impiego di tutto o parte dei beni ricevuti, ma non subordinava a tale condotta l’efficacia del negozio.
Era in uso far promettere ai beneficiari, mediante stipulatio, di tenere la prescritta condotta oppure ricorrendo alla fiducia.
Negozi conclusi per conto altrui, la rappresentanza.
Era possibile che si concludessero negozi per conto altrui.
Il soggetto che lo faceva, chiamato spesso rappresentante, facendo produrre gli effetti del negozio in capo al rappresentato.
Molto spesso era necessario far produrre gli effetti del negozio in capo al rappresentante e poi trasferirli al rappresentato tramite un apposito negozio.
Solitamente le persone sui iuris non potevano acquistare per altri; lo facevano per esempio gli schiavi o i filii familias per migliorare la condizione del loro dominus o pater. In epoca giustinianea la legittimazione ad acquistare si ampliò significativamente.
Invalidità ed inefficacia del negozio.
Nullità: per mancanza di uno degli elementi essenziali.
Annullabilità: per vizio di un suo elemento essenziale o per altra ritenuta insufficienza.
Inefficacia: per mancanza di un presupposto o di altra causa estrinseca.
Se l’invalidità viene da dolo, il pretore può impugnare il negozio. I rimedi da lui introdotti sono l’exceptio doli, con cui la vittima provava il dolo dell’avversario, e l’actio doli, con cui si poteva rendere infamis o ignominiosus il condannato.
Le Legis Actiones.
Con lo sviluppo dell’autotutela spettante, com’è ovvio, ai soli patres familias, l’impiego della forza venne regolato attraverso un tipo di processo: quello per legis actiones. La forza poteva essere impiegata solo con l’osservanza di un dato rituale, costituito da parole e gesti prestabiliti e non, come si crede, a discrezione personale dell’offeso.
Le uniche nozioni delle legis actiones che conosciamo ci vengono dalle Istituzioni di Gaio, il quale ci spiega che legis sta ad indicare che tale processo era introdotto da una legge o che le situazioni giuridiche con esse tutelabili si fondavano sui precetti di una legge.
Caratteristiche delle legis actiones erano un formalismo orale –nelle più antiche anche gestuale- e la tipicità –una data struttura che corrispondeva ad un dato tipo, prestabilito prima dai mores, poi dalle XII tavole-.
L’iniziativa di ciascuna legis actio era assunta da chi si affermava titolare della situazione soggettiva fatta valere -attore- nei confronti di chi egli affermava titolare della situazione soggettiva contrapposta –convenuto-; entrambi di necessità liberi, cittadini romani e sui iuris.
Tutte le legis actiones nel periodo antico, tranne la pignoris capio, cominciavano con l’in ius vocatio, ossia l’intimazione da parte dell’attore al convenuto di presentarsi nel luogo in cui il magistrato esercitava la iurisdicio.
Se il vocatus non rispondeva alla chiamata, era concesso all’attore di portarlo in giudizio anche con l’uso della forza.
Era possibile l’intervento di un vindex, che prometteva che il convenuto si sarebbe presentato il giorno prestabilito e in caso ciò non avvenisse, sarebbe stato egli a rispondere al suo posto.
Successivamente si svolgeva nelle legis actiones di cognizione un dibattito in iure, ossia di fronte al magistrato e poi una seconda fase di fronte all’organo giudicante.
In seguito attore e convenuto chiedevano ai presenti di essere testimoni di quanto accaduto –contestari litem o litis contestatio-.
La seconda parte proseguiva con l’intimazione di una delle parti di comparire di fronte all’organo giudicante il dopodomani del giorno del’intimazione. Si faceva a questo punto una presentazione sintetica della lite a cui seguiva la peroratio, ossia la presentazione delle prove, costituite soprattutto dai testimoni.
Se mancava una parte, il giudice doveva dare ragione alla parte presente.
Con la pronuncia della sententia, che poteva dare adito ad una manus iniecto, una nuova legis actio diveniva impossibile.
Legis Actiones di cognizione.
Legis actio sacramento in rem: serviva per far valere i poter del pater familias, dell’erede e del proprietario verso i terzi, per le cause liberales- ossia di liberazione di uno schiavo- e per la tutela di certi diritti sui beni. L’attore doveva condurre in ius la cosa o la persona, anche con l’uso della forza, oppure far venire il rex o il magistrato sull’immobile. La necessità della presenza di entrambe le parti, fece si successivamente che fosse necessaria l’in ius vocatio. Davanti al rex o al magistrato, l’attore con la bacchetta –festuca- affermava di possedere la persona o il bene in questione. Se il convenuto voleva negare l’affermazione dell’attore, doveva necessariamente fare una contravindicatio. Il bene rimaneva all’organo giudicante e l’attore sfidava il convenuto al sacramentum, ossia a giurare in nome di Giove che la propria vindicatio era conforme al ius. Il rex o magistrato dava in affidamento provvisorio il bene a chi avesse dato più praedes –garanzie di restituzione del bene alla parte vincitrice-. Il sacramentum fa pensare che il giudizio fosse religioso, dato anche il numero di riferimenti a prove ordaliche. La sentenza veniva data dal rex o dai soli pontefici in epoca repubblicana. Le parti dovevano depositare 5 pecore o 5 buoi a seconda che il valore del bene fosse inferiore o no ai mille assi. Gli animali della parte soccombente venivano poi dati in sacrificio. In epoca successiva al posto degli animali furono versati 50 o 500 assi. Ancora dopo la somma non fu versata inizialmente, ma solo dopo dalla sola parte soccombente all’erario. Con questo tipo di legis actio, il reale possessore non era tutelato.
Legis actio sacramento in personam: Sorse in relazione all’intervento del vindex a difesa di chi stava subendo una manus iniectio. Il processo iniziava con l’in ius vocatio. L’attore senza chiarire l’entità del danno patrimoniale causato, affermava che il convenuto avesse la necessità di pattuire come ladro la riparazione del danno –intendere- . Il convenuto poteva rispondere con una confessio e così diventava un iudicatus. Se negava l’attore lo sfidava al sacramentum, stabilendo una summa sacramenti in re. Il convenuto era esposto così al rischio delle conseguenze religiose in caso di sacramentum iniustum.
Legis actio per iudicis arbitrive postulationem: si estendeva ai vincoli derivanti da sponsio. Di carattere interamente laico, non esponeva il convenuto che contestava l’affermazione dell’attore a nessun rischio di pena. Il pretore nominava un giudice o,in caso di divisione di eredità di più eredi, un arbiter, di ovvie conoscenze extragiuridiche.
Legis actio per condicionem: istituita dalla lex Silia nella seconda metà del III secolo, serviva per procurare ai creditori qualche vantaggio per i crediti di certa pecunia. L’attore, ottenuta con l’in ius vocatio l’apparizione del convenuto, affermava di essere creditore di una certa somma e il debitore poteva fare una confessio in iure, stabilendo così una sentenza di condanna –se si trattava di certa res servivano ulteriori valutazioni- o contestare; in tal caso l’attore lo intimava –da qui il nome per conditionem- a tornare in ius dopo trenta giorni al fine di ricevere un giudice.
Legis Actiones Esecutive.
Legis actio per manus iniectionem: riguardava un soggetto che per una manus iniectionem diveniva iudicatus. Le XII tavole gli davano trenta giorni per adempiere agli obblighi derivati dalla sentenza; se non lo faceva, l’attore poteva intimargli di venire in ius e trascinarvelo se lo trovava fuori da casa. L’attore di fronte al rex o al magistrato gli metteva una mano addosso e il iudicatus non poteva respingere l’atto. Poteva però intervenire un vindex e diventare egli stesso soggetto passivo, in quanto se non riusciva a dimostrare l’infondatezza della pretesa dell’attore, doveva pagare il doppio o essere soggetto egli stesso alla manus iniectio. Se non interveniva un vindex, il rex o magistrato autorizzava l’attore a portare via con sé il convenuto per sessanta giorni, durante i quali lo esponeva per tre giorni al mercato con l’indicazione del prezzo da lui dovuto, in modo che i familiari potessero pagare il suo debito. Se nessuno pagava il suo debito, l’attore lo poteva vendere trans Tiberim. Fa specie una norma dei decemviri, che autorizzava in caso di più creditori a tagliare a pezzi il convenuto e prenderne ciascuno una parte a piacimento.
Pignoris capio: veniva compiuta extra ius, cioè senza la presenza del rex o del magistrato, anche in assenza dell’avversario. Questa presa di pegno era stabilita solo nei casi indicati dai mores o dalle XII tavole. L’attore poteva così impossessarsi di un bene del debitore e tenerlo con sé finché non fosse stato pagato il debito. Se ciò non avveniva entro un anno, l’attore diventava possessore della cosa mediante usucapio. Era possibile al possessore del bene rivendicare la cosa con una legis actio sacramento in rem o accusare l’attore di furto.
L’agere per sponsionem.
Serviva a sostituire la legis actio sacramento in rem o a rendere tutelabili situazioni non contemplate dal diritto tradizionale o non inquadrabili nello schema di una precisa legis actio.
Consisteva nel farsi promettere con sponsio dal convenuto una somma di denaro se una pretesa dell’attore fosse fondata.
La summa sponsionis poteva essere penale e quindi promessa da entrambe le parti e il soccombente era tenuto a pagarla o praeiudicialis e quindi promessa solo dal convenuto, che se soccombente verrà esentato dal pagamento.
Dopo la satisdatio –promessa-, l’attore agiva contro il convenuto mediante legis actio per iudicis postulationem o con quella sacramento in personam. Se l’accertamento del giudice era positivo, si proseguiva col pagamento della summa.
Il Processo Formulare.
L’inzio del periodo preclassico e classico coincise con l’introduzione di un nuovo processo, ossia quello per formulas o per concepta verba, insieme con l’istituzione del praetor peregrinus, di fronte al quale non era possibile litigare per legis actiones.
Il nuovo processo non ebbe quindi base legislativa, in quanto il praetor urbanus –che già prima del praetor peregrinus iniziò a servirsi delle formulae- basò sul suo imperium i primi elementi rudimentali del nuovo tipo di processo.
Le controversie oggetto del nuovo processo erano estranee sia al ius Quiritium sia al ius civile e senza l’intervento del pretore urbano non sarebbero esistite.
Non erano però mere creazioni del pretore, bensì sentenze su argomenti mai affrontati prima.
Nonostante l’istituzione comiziale del praetor peregrinus, ciò non diede base legislativa al processo formulare da lui applicato e sviluppato. La legge si limitò a istituire il nuovo tipo di pretore e ad autorizzarlo a statuire il diritto tra peregrini e tra romani e peregrini, senza però essere questo processo legalizzato.
Con la caduta delle legis actiones nel II secolo a.C. e con la lex Aebutia del 130 a.C., la vecchia procedura iniziò ad essere smantellata. Si continuò ancora ad usarla, soprattutto quella per condicionem.
Il processo formulare sostituì completamente le legis actiones con la lex Iulia iudiciorum privato rum, dubbia la paternità cesariana o augustea, che soppresse le legis actiones e legalizzò il processo per formulas.
La legalizzazione si aveva per la cittadinanza romana delle parti, per lo svolgimento del processo a Roma da un miglio del suo pomerium e per il giudizio di un singolo giudice cittadino romano. Si aveva così un iudicium legitimum, il quale doveva essere dato entro 18 mesi e i cui effetti erano civili –come quelli delle legis actiones-.
Se una o entrambe le parti erano peregrine o il processo si svolgeva fuori Roma o il giudizio era dato da un giudice peregrino o ad un gruppo di recuperatores, si aveva un iudicio imperio continens, ossia l’organo giudicante poteva pronunziare la sentenza solo finchè il magistrato che l’aveva nominato conservava l’imperium. Gli effetti del giudizio erano perciò pretori o onorari.
Caratteristiche del processo formulare erano la malleabilità e flessibilità dei modelli delle formule, la deferenza del giudizio ad un organo giudicante scelto apposta e accettato dalle parti, di affrontare situazioni soggettive che non appartenevano né al ius Quiritum né nel ius civile.
Con i giudizi si iniziarono diversi modelli e i pretori cominciarono ad indicarli alla fine delle loro clausole edittali.
Quando i cittadini iniziarono a servirsi del processo per formulas anche per situazioni soggettive proprie del ius Quiritum o civile e tutelabili perciò con legis actiones, ci fu una vera svolta.
Il magistrato ottenne sempre più importanza, in quanto divenne arbitro del tenore della formula e della stessa possibilità dell’attore di far svolgere il processo e di ottenere la tutela processuale. Il processo non aveva inizio e non proseguiva se non per la volontà del solo attore. Le parti erano chiamate con la litis contestatio alla scelta della formula e del giudice dopo il rilascio o approvazione del magistrato. Senza la volontà del convenuto, in questo caso, l’organo giudicante non entrava in funzione e non si poteva avere la pronunzia di una sentenza.
Le materie di cui si occupava il nuovo processo per formulas erano tutte quelle attinenti al diritto romano privato –sia che riguardassero cittadini romani, sia peregrini- ed esso fu applicato in Italia, fuori da Roma e nei territori provinciali.
I magistrati erano, ovviamente, i pretori urbano e peregrino e, limitatamente a Roma, anche gli edili curuli. Se la fase in iure si svolge di fronte al magistrato sbagliato, il processo diventava nullo.
Il processo formulare era promosso dal soggetto interessato, purchè capace.
Gli atti del processo non erano più così rigidamente formali e fino all’esaurimento della fase in iure seguivano un certo modello.
Ogni situazione giuridica corrispondeva ad una data actio formulare, che veniva emanata tramite decreto e poi con un editto dai magistrati, radicata o nel campo del ius civile o in quello del ius honorarium. I magistrati potevano far sorgere nuove formule o integrarne di già esistenti con decreti.
I poteri che scaturivano attraverso le actiones per chiunque volesse far valere una situazione giuridica, spettavano in realtà solamente a chi realmente fosse titolare di quella situazione giuridica.
La formula serviva a determinare il compito del giudice, indicandogli che cosa doveva risultargli vero o no per potere e dovere condannare il convenuto e se, in caso, come e a quanto doveva stabilire l’ammontare della condanna.
Gaio individua quattro fondamentali clausole –partes formulas- che facevano parte della formula, che non necessariamente dovevano essere presenti –perlomeno tutte insieme-.
Demonstratio: indicava il fatto o i fatti da cui nasceva la controversia. Veniva inclusa quanto l’intentio o altre clausole non erano sufficienti al giudice per stabilire se il convenuto dovesse essere condannato o assolto.
Intentio: riproduce la pretesa dell’attore, ma è riprodotta come condizione della condanna del convenuto. L’attore doveva stare attento a non commettere pluris petitio –ossia chiede una cosa che non gli apparteneva del tutto- poiché avrebbe potuto perdere la lite. Se la formula risultava incerta, l’intentio doveva essere preceduta da una demonstratio.
Adiudicatio: tipica nelle formule divisorie. Conferiva al giudice –arbiter- il potere di attribuire a ciascuna parte beni e diritti proporzionalmente alla misura in cui essa partecipava all’eredità o alla proprietà comune, ossia di determinare la parte esatta di beni e/o diritti di una determinata porzione materiale del –o di un- bene.
Condemnatio: conclusione logica a cui portavano le altre clausole della formula oggetto della condemnatio era sempre una somma di denaro, a cui il giudice doveva condannare il convenuto. Se l’intentio non indicava la somma di denaro, in questa clausola era indicato il criterio con cui il giudice doveva stabilire la somma di denaro, bonum et aequum per le cose non determinabili materialmente – il pretore poteva indicare una sommam massima per le condemnationes incertae pecuniae-.
Spesso erano sufficienti intentio e condemnatio.
Se l’intentio era incerta, occorreva anche la demonstratio.
Tutte e quattro le formule potevano ricorrere solo nelle formule divisorie.
Vi erano altre formule costituite dalla sola intentio.
Nelle formule senza intentio, la demonstratio, indicando gli elementi essenziali di fatto, poneva la premessa della condemnatio e bastava con essa.
Queste quattro clausole però, spesso non era sufficienti: ne occorrevano altre.
Praescriptio pro reo: serviva alla difesa del convenuto. Qui egli adduceva fatti o circostanze che rendevano non vera l’affermazione dell’attore e che potevano, secondo il convenuto, portare alla sua assoluzione. Il pretore poteva o denegare l’azione o demandare al giudice l’accertamento dei fatti e il conseguente provvedimento.
Exceptio: inserita nel corpo della formula dopo l’intentio e prima della condemnatio, era un allegato che adduceva il convenuto in forma negativa. Il giudice per poter condannare il convenuto doveva accertare la verità di quello che diceva l’attore e che non era vero ciò che aveva allegato il convenuto. Esse erano spesso previste e promesse dall’editto, ma era possibile al magistrato concederne altre, modellate sulla concreta obiezione del convenuto. L’exceptio, a differenza della praescriptio che interrompeva il processo, portava all’assoluzione del convenuto, che era quindi definitivamente liberato. All’exceptio del convenuto poteva seguire una replicatio dell’attore e poi una duplicatio del convenuto e addirittura una triplicatio dell’attore.
Altre clausole:
Praescriptio pro attore: escogitata dai giuristi, completava la demonstratio e iniziava come la praescriptio pro reo, restringendo l’oggetto del concreto processo a quello voluto dall’attore.
Restitutio arbitratu iudicis: il convenuto veniva invitato alla restituzione dell’oggetto della demonstratio dal giudice e dall’attore stesso, evitando così la condanna. Il convenuto aveva interesse a compiere la restitutio, poiché in caso non lo facesse o la rendesse egli stesso impossibile, il giudice autorizzava l’attore a stabilire egli stesso l’ammontare della condanna.
Fictio: era una proposizione ipotetica che condizionava l’intentio, nel senso cioè che quanto essa enunciava sarebbe diventato vero se il fatto ipotizzati in tale proposizione fosse avvenuto. In altri casi ipotizzava che non fosse avvenuto un fatto impeditivo o estintivo. Con esse, un’azione civile veniva adattata in modo da potere tutelare situazioni giuridiche riconosciute soltanto dal ius honorarium.
Le actiones.
Ci sono diversi tipi di actiones:
Actiones in personam: rispecchiano i diritti di obbligazione.
Actiones in rem: rispecchiano i diritti reali.
Actiones populares: riguardavano interessi pubblici, come la riscossione di multe, e potevano essere esperite da chiunque del popolo, ma solo una volta. In caso di azione vittoriosa, l’attore era tenuto a versarne almeno parte al popolo romano o all’altra collettività interessata.
La maggior parte delle azioni tendeva a reintegrare l’interesse patrimoniale dell’attore, altre erano invece penali.
Il processo in iure.
Gli atti di iniziativa e di impulso dell’attore, che costituivano nel loro insieme l’actio, davano inizio e svolgimento al processo. A questi atti il convenuto poteva contrapporre la sua defensio o, più specificatamente, la sua infitiatio. Tutti i provvedimenti invece presi dal magistrato erano esercizio della sua iurisdicio.
L’editto prescriveva a chi volesse agire di render nota preventivamente al convenuto l’azione che intendeva esperire.
La presenza del convenuto in iure –davanti al magistrato- era indispensabile e si aveva tramite in ius vocatio (vadimonium tra persone di un certo livello sociale, che portava al pagamento di una summa vadimonii se il convenuto non si fosse presentato), che l’attore poteva fare ovunque incontrasse il convenuto, tranne in casa sua.
Il vocatus doveva seguire subito il vocans, ma poteva dare un vindex e rinviare dunque la propria comparizione. Se il convenuto non si presenta il giorno stabilito, il vindex era soggetto ad un actio pretoria, cioè al pagamento di quanto doveva il convenuto.
Se il vocatus non compariva o non dava un vindex, poteva essere condotto in ius con la forza.
Comparse le parti di fronte al magistrato, l’attore precisava la sua editio actionis e rivolgeva al magistrato la postulatio actionis, ossia di concedergli l’azione che stava intentando e di approvare la formula indicata nell’editio actionis.
Il convenuto a questo punto poteva riconoscere la fondatezza dell’azione o contestarla.
Se decideva di resistere all’azione, aveva l’interesse di far redigere la formula nel modo che gli apparisse più favorevole e, inoltre, poteva a sua volta intentare un’azione a sua volta -non si è ancora ben capito come i processi venissero riuniti in un solo giudizio-.
Se il convenuto decideva di riconoscere la fondatezza dell’azione, faceva la confessio in iure, ossia un esplicita dichiarazione conforme al contenuto dell’intentio.
Se il convenuto si valeva del non rispondere, avrebbe paralizzato lo svolgimento del processo. Perciò il non rispondere venne messo accanto ai comportamenti negativi del convenuto.
Per abbreviare il processo, l’attore fu autorizzato a far giurare al convenuto di non dovere quella cosa –iusiurandum-. Se giurava il processo non poteva più andare avanti. Anzi, il convenuto poteva a sua volta far giurare l’attore: se quest’ultimo giurava il convenuto era costretto a pagare, se non giurava, non poteva più agire.
Se il convenuto portava a termine la prestazione, si aveva la denegatio actionis e la concessione di un exceptio. Il convenuto veniva condannato sulla base della prova della sua avvenuta prestazione.
In mancanza di confessio, indefensio e iusiurandum, il processo in iure aveva il suo corso normale e portava alla redazione della formula e alla nomina di un giudice o di recuperatores, in vista della datio iudiciis (o actionis) da parte del magistrato e della litis contestatio.
Si aveva un dibattito tra le parti sotto la guida del magistrato sulla base della formula. Il magistrato compiva la causae cognitio, valutava cioè, per stabilire se denegare l’azione, in quanto infondata. Poteva portare anche alla valutazione della concessione ex decreto di una nuova formula e valutava anche l’eventuale postulatio exceptionis del convenuto, poneva cioè le premesse per il suo provvedimento finale, la iudicii datio.
Le parti dovevano dare garanzie –satisdationes- riguardo al loro comportamento apud iudicem e dopo la sentenza.
Il processo in iure terminava con il decreto del magistrato chiamato iudicii o actionis datio, che era praticamente la concessione della formula proposta dall’attore, e con la litis contestatio conclusa dalle parti o con la denegatio actionis.
La litis contestatio era un negozio giuridico con cui l’attore proponeva al convenuto la formula approvata o rilasciata dal magistrato e il convenuto l’accettava. Solo a questo punto la formula e i giudici o recuperatores erano pienamente operanti, poiché è presente la volontà delle parti.
Il giudice aveva così il munus –dovere pubblico- iudicandi e questo era un dovere, non solo un potere.
Col giudice si stabilivano i termini in modo non più modificabile.
Se la formula non indicasse al giudice di riferirsi a un momento diverso, il giudice aveva come punto di riferimento per gli accertamenti il momento della litis contestatio.
Ci sarà così la nascita di una doppia obbligazione a carico del convenuto, la prima derivante dalla litis contestatio, la seconda dalla condanna. Non potendo però un soggetto essere vincolato da due obbligazioni, la seconda obbligazione prendeva il posto della prima e quindi la estingueva. La litis contestatio, perciò, aveva effetti estintivi dell’obbligazione fatta valere e effetti costitutivi di nuovi vincoli.
La situazione fatta valere dall’attore non era sempre un obligatio e non si estingueva con la litis contestatio.
Allora, data l’incapacità della litis contestatio di estinguere l’obbligazione sorta da essa, i magistrati concessero al convenuto un’exceptio per evitare che venisse chiamato in giudizio un’altra volta per una situazione giuridica considerata uguale. L’attore così rinunciava ad agire una seconda volta.
Il iudicium, ossia la fase del processo dinanzi al giudice, poteva essere legitimum o imperio continens e poteva durare fino a 18 mesi o fino all’uscita di carica del magistrato che l’aveva concesso. Esso iniziava con una comperendinatio, ossia un’intimazione a comparire dinanzi al giudice il dopodomani.
Il giudice era sempre sottoposto al potere del magistrato o di chiunque avesse un potere maggiore.
Questa parte del processo poteva avvenire anche in assenza di una delle parti, ma in questo caso il giudice doveva pronunziare la sentenza a favore della parte presente.
Parte essenziale del processo apud iudicem era l’assunzione e discussione delle prove. Qui sorgevano problemi riguardo l’onere della prova; si concluse che l’attore e il convenuto dovessero addurre prove che servissero ciascuna a far valere rispettivamente la propria ragione o la propria innocenza. Stava comunque al giudice stabilire quali prove prendere in considerazione. Le prove consistevano in documenti, che dovevano essere mostrati al giudice e in testimoni.
Se al momento della deliberazione della sentenza il giudice non si sentiva all’altezza per non chiarezza della causa, poteva giurare sibi non liquere ed essere sostituito. Se organo giudicante era un collegio di recuperatores, occorreva la presenza di tutti. Uno poteva comunque astenersi, prestando lo stesso giuramento, e si sarebbe deliberato sulla base della maggioranza, o, in mancanza di essa, si sarebbe deciso per la libertà o per decisione favorevole al convenuto.
La sentenza vista dal lato degli effetti era una res iudicata, in quanto non poteva essere modificata, anzi, se qualcuno provasse a riproporla veniva automaticamente denegata grazie all’exceptio concessa al convenuto.
Un altro effetto della sentenza era la nascita dell’obligatio iudicati. In quanto effetto del ius civile, si produceva solo se la sentenza era stata pronunziata in un iudicium legitimum. Essa si faceva valere con l’actio iudicati o, in ius honorarium in caso di imperio continens, con l’actio in factum, entrambe esperibili solo trenta giorni dopo la pronunzia della sentenza.
La sentenza poteva anche essere nulla per diverse cause, come per esempio l’incompetenza del magistrato. Se il condannato provava a provare la nullità ma ne usciva soccombente, veniva condannato al doppio.
Nel periodo preclassico e classico era ancora possibile l’esecuzione sulla persona. Fino alla lex Iulia iudiciorum privatorum rimase possibile la manus iniectio, che grazie alla lex Vallia permetteva al convenuto di respingere la mano da sé, tranne nei casi di iudicatus e sponsor, dove era ancora necessario l’intervento di un vindex.
Se la condanna era stata pronunziata in un processo formulare, l’attore non poteva ricorrere alla manus iniecto, ma doveva chiedere informalmente al magistrato di condurre con sé il convenuto.
Per quanto riguarda l’esecuzione sui beni, fu possibile la richiesta dell’attore al magistrato di autorizzarlo a immettersi nel possesso di patrimonio – missio in possessiones-. Questa missio serviva a conservare il patrimonio nello stato in cui era. Il convenuto non poteva impedirla o riprendersi i beni, pena una pena pecuniaria perseguibile in actum.
L’attore a questo punto doveva entro 30 giorni fare la proscriptio bonorum, che rendeva nota la presa di possesso anche agli altri creditori del convenuto, e preparava la vendita. L’attore e gli altri creditori nominavano un magister incaricato di vendere il patrimonio. Se il possesso si protraeva troppo, il magistrato nominava un curator bonorum per amministrare i beni.
Il magister predisponeva le condizioni di vendita e il magistrato le approvava e autorizzava la bonorum venditio, mediante asta.
Con la conclusione della bonorum venditio, il debitore risultava espropriato e incorreva nell’infamia.
Il bonorum emptor diveniva successore pretorio e doveva soddisfare i creditori nella misura pattuita, per non incorrere nella stessa azione a cui aveva fatto capo il debitore.
Il debitore poteva evitare l’infamia e l’esecuzione sulla persona facendo la cessio bonorum, prevista dalla lex Iulia, dichiarando questa sua disponibilità al magistrato.
I magistrati utilizzarono altri provvedimenti integrativi:
Interdicta: erano ordini emanati dal pretore urbano, poi da quello peregrino e dopo ancora dai magistrati provinciali, nei confronti di certi soggetti, perché tenessero una certa condotta verso altri soggetti e su richiesta di questi. Nel corso del periodo preclassico i tipi furono fissati in numero di tre, ossia la proibizione di usare violenza per raggiungere un dato risultato, il comando di restituere –ossia di ristabilire un dato stato di fatto-, il comando di exhibere qualcosa che il destinatario dell’interdictum teneva o possedeva. Se il destinatario non lo osservava, bisognava intentare un processo per stabilire la contravvenzione e, in caso, condannare il destinatario contravventore al pagamento di una o più somme di denaro. Se l’interdetto fosse restitutorio o esibitorio, il destinatario poteva chiedere un arbitro che accertasse che l’interdictum era privo di necessari presupposti o che egli lo osservava. Se non chiedeva l’arbiter, invece, veniva sfidato dall’attore a promettere con sponsio una somma di denaro in caso non avesse esibito o restituito il bene. L’attore doveva a sua volta promettere con restipulatio la stessa somma.
In integrum restitutiones: erano provvedimenti del magistrato con cui veniva ripristinato, in base al ius honorarium, lo stato di diritto anteriore ad un certo fatto, atto o negozio giuridico –rescissum-.
Missiones in possessionem: provvedimenti con cui il magistrato autorizzava un soggetto, su sua richiesta a immettersi nei beni di un’altra persona, nell’intero patrimonio o in un dato patrimonio ereditario, con scopo cautelare, coercitivo o preparatorio di ulteriori misure.
Stipulationes praetoriae: erano ordini tramite decreto ad un soggetto di promettere tramite stipulatio di dare una somma di denaro al titolare di dati interessi o di tenere verso di lui una determinata altra condotta conforme ad essi. I suoi effetti erano civili poiché da essa derivavano la normale obligatio e la normale actio. La potevano far concludere non solo i pretori, ma anche gli edili curuli e i magistrati provinciali. Erano chiamate cautiones quando erano documentate per iscritto.
Le Cognitiones Classiche.
In molte province le città e le altre comunità più importanti godevano di autonomia e quindi trattavano le controversie fra i cittadini dinanzi ai propri tribunali, con la propria procedura e con le proprie leggi.
Con la concessione della cittadinanza romana a quasi tutti gli abitanti dell’impero, la procedura romana in linea di principio venne praticata ovunque.
In provincia fu assai frequente il ricorso a cognitiones e, anche a Roma, con l’inizio del principato cominciarono a svolgersi processi che costituivano autentiche cognitiones. I nuovi istituti e i nuovi diritti che si vennero introducendo per opera del principe o del senato, trovarono la loro tutela processuale in una cognitio.
Lo stesso Augusto giudicò in materia penale e civile come giudice di primo grado. I Principi successivi delegarono il giudizio a semplici giudici da essi scelti e nominati, dichiarando le sentenze di tali giudici inappellabili, come fossero state pronunziate da lui stesso.
A partire dalla fine del I secolo, il parere del Principe potè essere chiesto a proposito di una controversia da trattarsi o già trattata in un processo dinanzi all’organo normalmente competente e il Principe, rispondendo con un rescriptum, risolveva la questione in modo vincolante per tale organo.
Il diffondersi dell’appello indusse i principi, nel corso del II secolo, a delegarne la trattazione ai propri funzionari, come il praefectus urbi o quello praetorio e a stabilire una gerarchia tra i vari organi giudicanti.
Le sentenze emanate dal Principe erano i decreta e vennero comprese tra le costituzioni imperiali, valendo come fonti di diritto.
Era possibile il processo in contumacia se il convenuto – contumax- non si fosse presentato in seguito ai tre edicta inviatigli dal magistrato e al finale edictum peremptorium ,col quale lo avvertiva che si sarebbe proceduto senza di lui.
Mancava nella cognitio la divisione del processo in due fasi –in iure e apud iudicem-, che era facoltativa e a discrezione del magistrato.
L’organo giudicante godeva di maggior elasticità nella pronunzia della sentenza, infatti sia in caso di condanna sia in quello di assoluzione del convenuto, chi giudicava aveva un’ampia sfera di apprezzamento.
La Cognitio nel Periodo Postclassico e Giustinianeo.
Nonostante il processo formulare fosse ancora in vigore, le cognitiones vere e proprie si estendevano prima nelle provincie, poi in Italia e infine a Roma.
All’inizio del periodo mediopostclassico, tutti i processi in materia privata erano divenuti cognitiones.
L’accrescimento dei poteri del funzionario esercitante la iurisdicio si manifestò negli atti introduttivi del processo, nella scelta e nomina del giudicante, nell’istruzione probatoria, nelle specie di condanne e nei tipi di esecuzione forzata.
Non era più necessaria la presenza del convenuto, per la possibilità del processo contumaciale.
Il giudizio degli organi giudicanti era soggetto al controllo di un giudice superiore. Il complesso sistema di organi giudicanti fece sì che l’appello si indirizzasse all’organo gerarchico superiore a quello che aveva emanato la sentenza.
Non vi fu quindi un unico appello, ma due: quello all’organo giudicante di grado superiore e quello all’imperatore o a quello delegato a farne le veci e si aggiunse anche la supplicatio all’imperatore.
Il processo era promosso da chi volesse far valere una situazione giuridica soggettiva che riteneva esser sua.
Svolgimento del processo.
L’atto introduttivo del processo era la litis denuntiatio –sostituito dal libellus conventionis in epoca giustinianea, con cui il convenuto veniva mandato a chiamare da un executor-, che consisteva in un libellus – atto scritto- su cui l’attore scriveva le ragioni per cui agiva e dopo che il giudice competente lo autorizzava, lo faceva pervenire al convenuto, intimandogli di comparire.
Entro quattro mesi le parti dovevano comparire dinanzi al giudice. Se le parti comparivano si avviava un dibattimento che attraverso la litis contestatio e l’assunzione delle prove sfociava in una sentenza. Se una delle parti non si presentava si avviava il processo contumaciale.
Comparse le parti inizia la fase di initium e si ponevano al convenuto le alternative di contestare la domanda dell’attore – con un libellus contradictorius- o riconoscerla fondata, prestare giuramento o non prestarlo, negare le affermazioni dell’attore o contrapporgli le proprie.
Il convenuto poteva allegare un fatto o diversi fatti in propria difesa tramite l’exceptio, i cui fatti, se risultanti fondati, poterono dar luogo alla diminuzione della condanna, anziché alla sua assoluzione.
Si arrivava così alla litis contestatio, che fissava i termini della lite. Non poteva essere proposta una seconda azione sullo stesso oggetto –litispendenza-.
Le prove diventarono in quest’epoca regolate dalle costituzioni imperiali, ordinate gerarchicamente (erano ritenute più importanti quelle documentali piuttosto che i testimoni) e con la presenza di una prova legale, come potevano essere la confessio o le presunzioni di sussistenza di dati fatti, che il giudice doveva trarre da altri fatti.
Giustiniano affermò che il giuramento potesse esser fatto in qualsiasi momento del processo.
Si arrivava così alla sentenza.
La definitiva sententia comprendeva la motivazione ed il vero provvedimento del giudice. Accanto a condanne pecuniarie si ebbero condanne a consegnare beni determinati e ad eseguire qualsiasi altra prestazione. Gli effetti della sentenza aprivano la via all’esecuzione forzata e gli effetti si producevano subito, benché la sentenza fosse appellabile. L’appello li sospendeva. Se risultava nulla, l’appello non occorreva.
L’appello serviva a far riformare la sentenza, in quanto asserita ingiusta. Si proponeva con il libellus appellatorius, o anche oralmente, indirizzandolo al giudice che aveva pronunziato la sentenza da tre a cinque giorni dopo – 10 per Giustiniano-.
La sentenza d’appello non era di norma di nuovo appellabile. Si potevano addurre nuovi fatti e concedere nuove exceptiones e la sentenza sostituiva quella di primo grado. Il processo si svolgeva in modo analogo a quello di primo grado.
Un altro tipo di processo che si sviluppò nel corso del III secolo era quello detto per rescriptum, tramite il quale l’imperatore decideva per questioni di diritto e tramite un rescritto, faceva conoscere alle parti la sua soluzione tramite un giudice designato ad opera di un executor.
Un altro processo è quello dell’episcopalis audentia, ossia il processo dinanzi al vescovo, solo in casi inerenti alla religione, compiuto da un organo religioso sulla base di norme etico-religiose.
Le misure concrete per l’esecuzione forzata erano attuate da ausiliari del giudice col concorso, occorrendo, della forza pubblica.
In caso d’appello, l’esecuzione era sospesa fino alla confirmatio della sentenza.
Invece che singoli beni, poteva essere pignorato o venduto all’asta l’intero patrimonio del convenuto, che cominciava con la richiesta di uno o più creditori di poter intervenire nel patrimonio, a volte già messo a disposizione dal convenuto tramite cessio bonorum.
Questi provvedimenti, fin dai tempi di Costantino, non erano appellabili.
Persone e Famiglia.
Presupposto perché una persona fisica potesse considerarsi punto di riferimento di situazioni giuridiche era ovviamente la sua esistenza.
La piena capacità giuridica spettava alle origini soltanto alle persone libere, appartenenti alla comunità romana e che fossero sui iuris.
Nel periodo preclassico e classico gli stranieri divennero generalmente capaci nel campo del ius gentium e del ius honorarium e migliorò sensibilmente la condizione dei filii familias sottoposti al potere paterno.
Il passaggio da uno stato migliore ad uno deteriore era di regola chiamato capitis deminutio.
Alcune persone, pur formalmente capaci, erano subordinate giuridicamente ad altri, a cui dovevano obbedienza e al cui potere di comando e di punizione erano soggette. Si vedano per esempio gli addicti, gli auctorati e i redempti.
Anche le donne erano in netta inferiorità ed erano soggette al potere del padre e del marito.
Lo schiavo.
Lo schiavo non poteva essere titolare di nessuna situazione giuridica, era soggetto perennemente al potere del padrone su di lui, in quanto lo stesso potere era ereditario.
Col passaggio all’epoca preclassica, il potere sugli schiavi divenne invece più nettamente patrimoniale e rese ovvia la loro inclusione tra le res mancipi.
L’epoca postclassica si caratterizzò per la scomparsa dall’istituto della schiavitù. Giustiniano, anche influenzato dalla dottrina cristiana, affermò che esso è contrario al diritto naturale, in quanto all’inizio tutti gli uomini nascevano liberi.
Lo schiavo non poteva essere parte in un processo. Per diventare liberi avevano bisogno di un adsertor in libertatem, ma non in epoca giustinianea, poiché fu consentito ad un soggetto il cui status fosse controverso, di difendersi personalmente.
Per il riconoscimento di essere umani e, in quanto tali, di possedere non solo forza muscolare, ma anche capacità intellettuali, gli fu concesso l’uso e godimento di alcuni beni che i padroni cominciarono a fare ai propri schiavi, come ai propri figli, a titolo di peculium.
Il dominus era responsabile delle obbligazioni assunte dallo schiavo solo per l’ammontare del peculium al momento della pronunzia della condanna a favore del creditore che avesse esperito contro di lui l’actio de peculio.
Il padrone rispondeva dei delitti privati dello schiavo, ma poteva liberarsi di tale responsabilità se faceva la noxae deditio dello schiavo stesso.
Il ius gentium conosceva tre fatti produttivi della schiavitù, che operavano già nel periodo antico:
La nascita da madre schiava, poiché chi nasceva fuori da un legittimo matrimonio, seguiva lo status che aveva la madre al momento della nascita.
La prigionia di guerra (captivitas), poteva operare sia a danno di cittadini romani sia a danno di cittadini stranieri. Un romano non poteva mai esser fatto schiavo a Roma. Era presente un istituto, detto postliminium, che permetteva di riprendere lo status che si aveva prima di essere stati catturati, non si estendevano però al possesso e al patrimonio.
La deditio, ossia la consegna effettuata da una comunità straniera a Roma in seguito alla violazione delle regole giuridico-religiose internazionali da quello commessa.
Nel periodo classico vennero introdotte nuove cause di schiavitù iure civili:
Diventava schiava la donna libera che intratteneva relazioni con uno schiavo, nonostante l’intimidazione a smettere. Giustiniano la abrogò.
Diventava schiavo chi fosse stato condannato ai lavori forzati. Giustiniano la abrogò.
Diventava schiavo il cittadino libero di almeno vent’anni che si facesse vendere come schiavo allo scopo di dividere il prezzo col venditore.
L’atto che permetteva la liberazione dal vincolo di schiavitù era la manumissio, che faceva acquistare al manomesso oltre alla libertà anche lo status di chi lo aveva manomesso.
Le tre forme di manomissione attestate dalle fonti classiche erano tre:
Manumissio vindicta: era un finto processo di libertà in cui l’adsertor libertatis, davanti al magistrato, affermava solennemente che lo schiavo era libero e il padrone taceva.
Manumissio censu: poteva avvenire ogni cinque anni e consisteva nella dichiarazione della propria appartenenza alla civitas, fatta su autorizzazione del padrone, dallo schiavo al censore, il quale lo iscriveva nelle liste dei cittadini. Scomparve nel corso del principato.
Manumissio testamento: era una clausola inserita nel testamento, con la quale il testatore imperativamente disponeva che, dopo la sua morte, lo schiavo fosse libero.
In epoca classica, sotto Augusto, furono emanate le leggi Fufia Caninia e Aelia Sentia per limitare le manomissioni al fine di riequilibrare il rapporto tra cittadini romani nati a Roma e cittadini romani nati fuori dall’Italia e di origine servile.
Nel periodo classico ci fu per esempio il caso del fedecommesso di libertà, con cui il proprietario dello schiavo, facendo testamento, anziché manometterlo direttamente, chiedeva all’erede di manometterlo.
A partire da costantino fu possibile la manumissio in sacrosantis ecclesiis, ossia una dichiarazione fatta dal padrone di fronte al vescovo e all’assemblea dei fedeli.
Giustiniano dispose che lo schiavo abbandonato dal padrone diventasse automaticamente libero.
I liberti.
Il liberto rimaneva condizionato ad un vincolo al vecchio padrone, che era il suo parente più stretto. I doveri nei confronti del padrone si compendiarono nell’obsequium al patrono e ai suoi figli, ossia aiuto spesso concretatesi in ore di lavoro.
I coloni.
In epoca postclassica, con l’istituto del colonato, col quale si vincolavano perpetuamente i lavoratori agricoli al fondo: per essi si vide un trattamento analogo agli schiavi. Le limitazioni colpirono prima i coloni dei fondi imperiali, poi quelli dei fondi privati.
La condizione di colono si acquistava per nascita, poiché era ereditaria.
Cittadini e stranieri.
La cittadinanza romana era il secondo requisito, dopo la libertà, per poter essere pienamente titolari di situazioni giuridiche.
Solo in epoca preclassica vennero riconosciuti titolari di capacità giuridica anche gli stranieri, grazie alla creazione del ius gentium e all’opera del praetor peregrinus.
I latini.
I latini costituivano coi romani una vera e propria unità politica e militare. Essi potevano trasferirsi a Roma e assumere la cittadinanza, potevano votare nei comizi se si fossero trovati a Roma il giorno delle votazioni, potevano compiere atti traslativi e contrarre un valido matrimonio con una romana o un romano.
I latini colonarii si moltiplicarono a causa della fondazione di diverse coloniae latine in territori conquistati.
La cittadinanza romana.
Essa fu concessa nel 212 d.C. da Caracalla col suo editto constitutio Antoniniana a tutti i sudditi dell’impero.
La cittadinanza romana, che si acquistava per nascita da un padre cittadino romano, si perdeva come naturale conseguenza della perdita della libertà.
La familia.
Il più importante dei significati del termine è quello che si riferisce a gruppi di persone unite da vincolo di parentela, che era di due tipi: l’adgnatio, in linea maschile, che comprendeva tutti i sottoposti ad un comune pater familias e la cognatio, ossia la parentela di sangue, in linea femminile, compresi i nati fuori del matrimonio e, dopo, gli emancipati.
La familia aveva un proprio culto, i sacra familiaria.
Dall’epoca preclassica, la moglie non venne più sottoposta alla manus del marito, ma rimane estranea in linea di diritto alla familia di lui.
La patria potestas.
La patria potestas era il potere che spettava al pater familias su tutti i suoi sottoposti e gli permetteva di disporre di loro sia materialmente sia giuridicamente.
Solo alla fine del IV secolo una costituzione riconobbe al padre nei confronti del figlio minore un semplice potere di correzione.
La patria potestas veniva acquistata automaticamente dall’ascendente vivo più anziano sui nati da legittimo matrimonio o attraverso l’assorbimento di una famiglia in un'altra –adrogatio- e si estingueva alla sua morte.
Il nuovo titolare della patria potestas non aveva ereditato un potere, bensì ne aveva creato uno del tutto nuovo.
Ci si poteva liberare dal vincolo della patria potestas attraverso l’emancipazione del figlio.
I filii familias.
Nel corso del periodo preclassico si sviluppò la prassi di attribuire ai filii familias, come agli schiavi, il peculium profeticium. Il filius aveva la facoltà di utilizzare e godere quei beni e anche il potere di disporne a titolo oneroso.
C’era anche il peculium castrense, che comprendeva inizialmente solo il soldo militare, poi anche i donativi ricevuti dal padre o da parenti ed amici al momento in cui iniziava il servizio militare. Augusto riconobbe perciò al filius il potere di testare.
In epoca postclassica si affermò il principio della piena capacità dei filii familias anche in campo patrimoniale.
Mentre in epoca classica se il filius commetteva un delitto, stava al pater decidere se difendere il figlio o farne subito la noxae deditio, in epoca giustinianea il filius era responsabile personalmente dei delitti da lui commessi.
La manus e le persone in mancipio.
La potestas sulla moglie e sulle mogli dei discendenti era la manus.
Le persone in mancipio, invece, erano i filii familias alienati ad un terzo tramite mancipatio, che rimasero in una condizione simile agli schiavi.
La capitis deminutio.
Nel periodo classico esse vennero classificate in tre categorie: maxima in relazione allo status libertatis, media o minor in relazione allo status civitatis, minima in relazione allo status familiae.
Matrimonio e Manus.
Per la costituzione della manus erano previsti due distinti atti: la conferreatio – una sorta di cerimonia religiosa che culminava con un sacrificio a Giove di un pane di farro- e la coemptio – ossia la compera fittizia della donna mediante mancipatio. Poteva poi aversi manus in seguito all’usus, ossia all’esercizio di fatto per un anno della manus sulla donna vivente come moglie nella famiglia.
Il matrimonio si fondava sulla maritalis affectio e si esplicava nella convivenza, nella procreazione e nell’educazione dei figli.
Si poteva operare diffareatio –una sorta di divorzio- solo in caso di manus sorta con conferreatio. In caso di manus sorta con coemptio o usus, era necessaria un’emancipatio, come quella dei figli, considerata un vero e proprio divorzio.
Nel periodo preclassico e classico, il matrimonio venne a fondarsi solamente sulla maritalis affectio ossia sulla volontà continua dei coniugi.
Gli sponsali erano una promessa di matrimonio che si faceva un tempo con la forma della sponsio.
Essi non potevano costringere a contrarre matrimonio, ma non davano luogo a nessuna condanna pecuniaria qualora la promessa non fosse stata adempiuta, poterono concludersi nudo consensu, oralmente o per iscritto.
Affinchè si trattasse di iustum matrimonium, ci dovevano essere tutti presupposti richiesti:
La pubertà.
La sanità mentale.
Il conubium, ossia la capacità di contrarre un valido matrimonio con l’altro nubente, dipendeva dallo status dei nubenti e richiedeva l’assenza di rapporti di parentela tra essi.
Elemento essenziale era la maritalis affectio, che però non bastava, poiché se i soggetti erano sottoposti alla patria potestas, serviva l’assenso del titolare di tale potere.
Il matrimonio si scioglieva per morte, perdita di libertà o perdita della cittadinanza di uno dei due coniugi.
Augusto volle elevare i costumi e, con la lex Iulia de adulteriis, impedì alle donne onorate qualunque rapporto con uomini non legittimato dal marito.
Nel periodo postclassico e giustinianeo, il matrimonio cristiano si basa sul consenso iniziale, che deve risultare da una manifestazione esplicita di volontà.
In questo periodo venne a perdersi la necessità del conubium e si affermò il principio in base al quale ogni individuo libero, dotato della capacità d’intendere e di volere che avesse raggiunto una determinata età, potesse contrarre un’unione legittima con una persona dell’altro sesso.
Si tese all’uguaglianza tra i coniugi e si estese anche al marito il vincolo di fedeltà alla moglie.
Costantino ritenne lecito ripudiare soltanto in presenza di alcune iustae causae, come la moglie adultera, il marito omicida e così via dicendo.
Se è la moglie a ripudiare il marito, perderà la dote e sarà deportata in insulam, se è il marito a ripudiare la moglie, dovrà restituire l’intero ammontare della dote e non potrà più contrarre matrimonio; se lo farà la moglie potrà invadere la casa coniugale e impadronirsi di tutto ciò che appartiene alla seconda moglie.
I reati di bigamia furono puniti severamente in epoca giustinianea.
Il concubinato si presentava in questo periodo come un’unione coniugale, rigorosamente monogamica, che differiva dal matrimonio solo per l’assenza di affectio maritalis.
Era in uso fin dall’epoca preclassica l’uso di costituire una dote sia per il figlio maschio sia per la figlia femmina, rispettivamente la donatio ante nuptias e la dos, che doveva essere restituita in epoca postclassica a meno che non ci fosse stato ripudio senza iustae causae.
I beni parafernali sono quei beni di uso personale o domestico e appartenenti alla donna non costituenti dote.
Tutela e Cura.
Le persone sottoposte a tutela erano possibili tutelari di situazioni giuridiche, ma erano prive di capacità giuridica.
Esse sono:
Le donne sui iuris, cioè che non si trovassero sotto patria potestas, manus o mancipium.
Gli impuberi, le bambine fino ai 12 anni e i bambini fino ai 14.
Le donne puberi, poiché non sarebbe stata libera dai poteri maschili.
Al tempo delle XII tavole i tutori legittimi erano di due tipi:
Tutore legittimo, ossia l’adgnatus proximus – il parente in linea maschile più vicino-, che aveva interesse alla conservazione e all’incremento del patrimonio del tutelato.
Tutore testamentario, ossia qualsiasi cittadino romano designato nel testamento.
La lex Atilia istituì un nuovo tipo di tutore, quello nominato dal pretore urbano a chi non avesse nessuno dei due tipi di tutori già esistenti.
In epoca preclassica la tutela cominciò ad apparire sempre più come un munus, un ufficio ed un dovere posto a carico del tutore nell’interesse dell’incapace, con conseguente decadenza della tutela muliebre, poiché la donna pubere era in grado di gestire da sola i propri affari.
In epoca postclassica la tutela venne considerata come un ufficio e un dovere da esercitarsi nell’interesse dell’incapace.
Se il tutore derubava l’impubere o la donna, si potevano esperire tre azioni:
L’actio rationibus distrahendis, contro il tutor legitimus, lo condannava al doppio del valore dei beni sottratti.
Il crimen suspecti tutoris, contro il tutor testamentarius, che lo portava all’infamia dopo accertamenti.
L’actio tutelae, contro il tutore nominato da pretore, con cui gli si chiedeva il resoconto del suo lavoro.
A sua volta il tutore poteva richiedere il rimborso delle spese sostenute e quanto avesse perso con l’esercizio della sua funzione, tramite l’actio tutelae contraria.
Si cercava di tutelare le mogli, i pazzi, i dissipatori di ricchezze e i minori di 25 anni.
Le persone giuridiche.
Tra le persone giuridiche possiamo ricordare la familia e la gens, il popolus romanus, il principe e il fiscus, municipes e coloni e le chiese cristiane.
I beni.
I beni distinguevano tra res mancipi –valutate come res pretiosiores-, come la terra coltivata intensivamente con la casa o la capanna in cui abitare, gli schiavi, gli animali domati col gioco o con la sella, le strade e i sentieri sulla terra altrui, il canale o la condotta d’acqua per l’irrigazione e che attraversava ugualmente la terra altrui, che si trasferivano mediante mancipatio o in iure cessio, e le res nec mancipi, ossia tutti gli altri beni, da quelli di uso strettamente personale (come gli indumenti) agli ovini, caprini, suini, dagli strumenti di lavoro all’oro, alle gemme, al denaro.
Solo con la scomparsa di mancipatio ed in iure cessio in epoca postclassica e giustinianea, questa distinzione venne scomparendo.
Gaio distingue, inoltre, fra res divini iuris e res humani iuris, le prime costituite dalle res sacrae e le res religiosae riguardo alle quali il ius civile e il ius honorarium rimasero estranei.
In epoca cristiana, le res sacrae vennero a far parte delle res nullius – di nessuno- e identificavano un edificio o uno strumento di culto consacrato dal vescovo.
Le res publicae erano quelle del popolo romano, che si distinguevano in res in patrimonio populi, trasferibili a privati, e res in publico usu.
Il mare, il lido del mare, i fiumi pubblici e i porti erano considerati res comune omnium.
Un’ulteriore distinzione è da farsi tra res corporales, che secondo Gaio erano le cose che si possono toccare e res incorporales, ossia quelle che non si possono toccare.
E ancora tra beni consumabili, che con l’utilizzo si deteriorano, e inconsumabili, cioè quelli suscettibili di diverse utilizzazioni; fungibili, cioè che quantità uguali di cose della medesima specie erano considerate la stessa cosa, come l’olio e il grano e infungibili. Molto spesso le cose consumabili erano anche fungibili.
I beni considerati frutti erano quelli che, se separati da un altro bene che appariva averli prodotti, questo nella sua consistenza originaria o di base, viene apprezzabilmente impoverito.
E poi beni semplici, beni composti e universalità di cose –beni accomunati dalla medesima destinazione, termine che scomparirà in età postclassica-.
Riguardo ai beni mobili e a quelli immobili, possiamo dire che i primi venivano acquistati per usucapio –ossia l’acquisto (capio) della proprietà attraverso il suo esercizio di fatto (usus)- in un anno, mentre per la terra e per l’edificio ad essa unito in due anni. In epoca giustinianea la rilevanza di questa distinzione si accentua ulteriormente.
Nel periodo monarchico, la parte dei fondi considerata ager publicus, veniva destinata alla concessione di sfruttamento e godimento a privati.
La stessa cosa, in termini meno privatistici, vale per l’ager compascuus, sul quale i possessori di terre vicine potevano mandare i propri animali a pascolare.
Le altre terre venivano utilizzate in modo esclusivo da privati, perlopiù patrizi, su fittizia autorizzazione del senato, in realtà il vero titolo era l’appartenenza del pater o della famigli occupante alla classe dominante.
Corrispondendo dei vectigal, una specie di canone, i quaestores potevano ottenere le terre tolte ai popoli vinti.
Rilevante poi divenne in periodo classico l’ager vectigalis, così chiamato perché dato in affitto per cinque anni dietro il pagamento di un vectigal.
Tutti questi possessori privati furono ad un certo punto tutelati dal pretore mediante gli interdicta.
Le terre delle province vennero a loro volta date in godimento a privati sotto vari titoli, da non identificare con la proprietà, dato che li si aveva solo per il pagamento di un canone (stipendium o tributum) , ma che impediva a qualsiasi altro di essere proprietario.
Il Possesso.
Possessio era nel suo significato originario la signoria su una porzione dell’ager publicus, che poteva essere trasferito inter vivos o mortis causa a nuovi possessori, tranne in caso di affitto a breve termine.
Già verso la fine del periodo antico si verificò il processo di assorbimento nella possessio dell’usus.
Si delineò la distinzione tra chi possedeva la cosa come propria, cioè proprio nomine, che veniva tutelato con gli interdetti e chi la possedeva perché altri gliela aveva data o gliela aveva lasciata prendere in vista di un certo uso, cioè possesor alieno nomine, escluso dalla tutela interdittale, ma gli fu concesso di conservare il bene fino alla restituzione al soggetto che glie l’aveva affidato.
La tutela interdittale si aveva però solo per alcuni possessori alieno nomine:
Il precario: era un istituto assai antico in quanto consisteva nella benevola concessione, gratuita e revocabile in qualsiasi momento, di un appezzamento di terra fatta da una gens ad un cliente, in accoglimento di sue preghiere in tal senso.
Il creditore pignoratizio e il sequestratario: il riconoscimento a tali soggetti del possesso, e di conseguenza della tutela interdittale, dipese da valutazioni socio-politiche, che fecero considerare i loro interessi al controllo sulla cosa prevalente su quello del concedente o dei litiganti.
Venne considerata vitiosa e quindi non meritabile di tutela, la possessio la cui causa fosse stata violenta, clandestina o precaria.
Si distinse nel possesso un elemento oggettivo, il corpus ossia la detenzione materiale, e un elemento soggettivo, l’animus ossia la volontà di possedere il bene come proprio.
L’acquisto richiedeva entrambi gli elementi, sia pure in diversi soggetti. Avvenuto il possesso, nel caso di beni immobili, esso può continuare solo animo (es: pascoli invernali ed estivi). Il possesso poteva anche essere perduto solo animo.
Il possessore alieno nomine era ritenuto dotato solo del corpus e non dell’animus. Poteva però possedere in proprio nomine quando faceva un’esplicita dichiarazione di non voler più restituire la cosa e di volerla tenere per è, senza adeguata reazione da parte dell’altro.
Nel periodo postclassico, si venne offuscando la differenza tra proprietà e possesso, nonostante rimase quella fra tutela possessoria e petitoria.
Giustiniano torna, invece, ad una distinzione precisa, anche terminologica, tra proprietà e possesso. Il punto fondamentale infatti non è più la detenzione materiale della res, bensì l’elemento psicologico, l’animus.
Si può infatti conservare il possesso solo animo anche di una res che non si ha più materialmente in possesso (es: servus fugitivus).
Gli interdetti per quanto riguarda la conservazione del possesso e il recupero del possesso sono:
Interdica retinendae possessionis, divisi a loro volta in uti possidetis per gli immobili e utrubi per i mobili. Vinceva chi avesse posseduto per la maggior parte dell’ultimo anno il bene in questione. Entrambi erano proibitori e tutelavano soltanto la iusta possessio.
Interdica recuperandae possessionis, spettavano a chi fosse stato spogliato del possesso di un immobile con la forza e comportavano l’obbligo del restituere diretto all’autore dello spoglio o della deiectio. Quello de vi tutelava il possessore che rispetto all’avversario non fosse né violento, né clandestino, né precario, mentre quello de vi armata tutelava anche l’iniusta possessio. Vi era anche quello de precario, con cui il concedente del bene ad un precario poteva in qualsiasi momento pretenderne la restituzione da parte del precarista.
Lo stesso Giustiniano riporta nel Digesto i testi classici sugli interdetti possessori, considerandoli una particolare categoria di azioni.
La Proprietà.
Nel periodo antico non esisteva il termine proprietà, ma era sostituito da quello di appartenenza: si diceva che la cosa era propria.
Il legame tra bene –res- e persona era talmente stretto che determinava un’identificazione della res con la proprietà della res stessa; così, per esempio, il patrimonio di un pater familias si diceva comprendere res, vale a dire la proprietà di quelle res.
Il termine tecnico lo si aveva per proprietario, il dominus, assai più antico di dominium, di derivazione classica.
Già nel periodo preclassico si comincia a parlare oltre che di proprietario anche di proprietà, con l’utilizzo del termine mancipium.
Nel periodo postclassico tende ad affermarsi un’ampia nozione di proprietà, nella quale rientrano talvolta anche i diritti reali che attribuiscono al titolare l’uso e il godimento dell’intera res.
Nel Digesto ricompare la netta distinzione tra proprietà e possesso e tra proprietà e diritti reali limitati, tra i quali rientrano l’enfiteusi e il ius perpetuum.
Limiti della proprietà.
Nel periodo antico la proprietà era un potere generale ed assoluto e poteva esser fatto valere nei confronti di chiunque.
Non era tuttavia illimitata e non poteva essere equiparata ad una sovranità rispetto al terzo che se ne fosse impossessato, poiché il titolare poteva reagire attraverso il processo legis actio sacramento in rem.
Riguardo all’utilizzo del bene, vi erano limiti posti dalle XII tavole.
Nel periodo preclassico e classico furono posti dei limiti, sia per quanto riguarda l’interesse del vicino –come per esempio le immissioni, lecite solo quelle dipendenti dall’uso normale del fondo e, per quanto riguarda le acque piovane, si poteva esperire un’azione volta all’edificio che impedisse il normale afflusso dell’acqua-.
Ulteriori tre rimedi a tutela della proprietà erano:
La legis actio damni infecti, concessa nel caso in cui il proprietario di un immobile temesse danno dal fondo o edificio vicino e con la quale il vicino si impegnava a pagare la cautio, ove il danno si fosse effettivamente verificato.
L’operis novi nuntiatio, esperibile contro qualsiasi cittadino per le opere che venissero illegittimamente compiute sul suolo pubblico, mirando a far sospendere la prosecuzione dell’opera. Se il destinatario dell’azione si rifiutava, veniva costretto tramite interdetto pretore a demolire tutto ciò che fosse sul fondo, anche se legittimamente costruito.
L’interdictum quod vi aut clam, esperibile nei confronti di colui che ponesse in essere, su suolo altrui, un opus dannoso contro il divieto del proprietario –vi- o clandestinamente –clam-.
Nel periodo preclassico e giustinianeo è percepibile la tendenza a subordinare la proprietà agli interessi collettivi e alle esigenze del potere politico e burocratico, con la conseguente accentuazione dei limiti, come quello dell’espropriabilità di beni per ragioni di pubblica utilità, utilizzata soprattutto per liberare fondi su cui si vogliano costruire opere pubbliche, e quello dell’imposizione fiscale sul regime fondiario, che portava spesso ai proprietari di fondi poco produttivi a vendere la terra.
La propensione del legislatore preclassico era quella di regolare i rapporti tra vicini. La costituzione emanata dall’imperatore Zenone per la città di Costantinopoli, che regolava i rapporti di vicinanza tra edifici urbani, fu presto estesa alle altre città dell’impero da Giustiniano.
Per quanto riguarda l’actio acquae pluviae arcende, venne posto il limite di servirsi dell’acqua che scorre nel proprio fondo solo nei limiti del proprio fabbisogno, restituendo le eccedenze.
La comunione.
Lo stesso bene poteva appartenere insieme a più soggetti, ciascuno dei quali ne era quindi proprietario, almeno in una certa misura. La fonte di questa pluralità di proprietà fu molto probabilmente la successione ereditaria.
Ogni proprietario ha la pienezza di diritti, ma questa era una situazione tendenzialmente temporanea.
Se con la divisione delle quote, l’arbiter divideva in modo non corrispondente all’effettivo diritto di ciascuno per cause superiori –a volte si evitava di spartire edifici-, lo stesso arbiter condannava chi aveva ricevuto di più a pagare un conguaglio in denaro a chi aveva ricevuto di meno o nulla.
Al tempo di Giustiniano, la nozione di comunione esiste ancora, ma viene sostituita dal conferimento alla maggioranza del potere decisionale.
La tutela della proprietà.
La principale tutela della proprietà era quella che consentiva al titolare di recuperare il possesso del bene che ne era oggetto dall’attuale possessore, o di ricevere, in sua vece, una somma di denaro ritenuta equivalente, con la rei vindicatio.
L’attore aveva l’onere di provare di essere il vero proprietario; il giudice emanava il iussum de restituendo e, qualora l’ordine non venisse eseguito, procedeva alla condanna al pagamento di una somma di denaro. L’ordine di restituzione riguardava non soltanto la res, ma anche i frutti posteriori alla litis contestatio.
Giustiniano introduce, rispetto alla rei vindicatio classica, delle modificazioni, facendo sì che l’azione si estendesse anche ai possessori alieno nomine, che potrà liberarsi dalla lite indicando il soggetto per il quale possiede. Venne inoltre legittimata la comparsa in azione di un falso possessore, solo per permettere al vero possessore di acquistare per usucapio la proprietà della res.
Un’ulteriore tutela è l’actio negatoria, una formula munita di clausola restitutoria, , che si esperiva contro chi un terzo che esercitasse un diritto sul bene, non essendone titolare: gli si impediva perciò di esercitarlo.
Gaio afferma che nella sua epoca il dominium per i cittadini romani poteva essere duplex : per nudum ius Quiritium di uno e in bonis habere per un altro soggetto.
Il pretore concedeva l’actio publiciana a chi avesse acquistato la res mancipi mediante traditio ex iusta causa, ossia un’actio ficticia secondo la quale il iudex era chiamato a giudicare come se fosse già trascorso il tempo necessario all’usucapione. Il possessore era in grado di prevalere anche contro il dominus ex iure Quiritum. Era una tutela erga omnes ed il possessore ad usucapionem aveva il bene nel suo patrimonio –in bonis habere-.
Questa tutela si estendeva anche ai casi in cui una res sia mancipi sia nec mancipi fosse stata tradita ex iusta causa da colui che non era il dominus ad un acquirente di buona fede. Il possessore poteva prevalere contro chiunque, tranne contro il vero dominus.
Si aveva in bonis esse, secondo Gaio, anche per il bonorum possessor, al bonorum emptor, per tutti i casi in cui il possessore fosse tutelato erga omnes mediante azioni ed eccezioni, poiché il suo possesso era stato acquistato per una iusta causa.
I modi di acquisto della proprietà.
La tradizione romanistica, riguardo all’acquisto della proprietà, distingue in modi di acquisto originari, per i quali la proprietà sorge ex novo in capo all’acquirente, e modi di acquisto derivativi, per i quali si immagina aversi un trasferimento di proprietà da un principale titolare –alienante- all’acquirente.
Modi di acquisto originari:
Acquisto di beni presi ai nemici.
Occupazione, che consisteva nel materia impossessamento della res nullius, comprese le isole nate nel mare o nei fiumi. Per quanto riguarda le res derelictae, i giuristi avevano idee diverse, poiché c’era chi pensava che fossero occupabili in quanto res nullius e chi diceva che fosse necessaria l’usucapione per togliere il possesso a chi le aveva abbandonate.
Il ritrovamento casuale di tesoro su fondo altrui. In questo caso, Adriano stabilì che metà del tesoro andasse al proprietario del fondo e l’altra metà al ritrovatore. Questo sistema fu accolto da Giustiniano.
Accessione, tramite la quale il proprietario del bene più importante –cosa principale- diveniva proprietario del bene meno importante –cosa accessoria-, che fosse stato materialmente e permanentemente congiunto al primo. I beni immobili erano reputati più importanti dei beni mobili. Così ogni cosa che veniva a trovarsi su un fondo era un’unica proprietà e non poteva essere separata.
Si avevano anche casi di cessione di immobili ad immobili, come nel caso dell’alluvio, quando il fiume arrivava impercettibilmente aggiungeva terra al fondo rivierasco e in conseguenza la proprietà si estendeva – ameno che il fondo non fosse stato limitato-, e quello della nascita di un’isola o di un alveo abbandonato.
Nell’accessione di un bene immobile ad un altro mobile, la determinazione del bene principale dipendeva dal valore o dalla funzione rispettiva dei due beni (es:tela e colore nel quadro).
In epoca giustinianea, chi perde un bene per effetto dell’accessione o per aver eseguito opere su beni altrui a proprie spese, deve essere rimborsato o arricchito per le spese incontrate.
Se cose fungibili della stessa specie (grano, olio) venivano mescolati rendendo impossibile il riconoscimento dei beni, essi venivano ad appartenere in comune ai vari soggetti in proporzione alla quantità dei loro beni originari.
Specificazione, ossia fare di un bene un bene nuovo (uva e vino). Ci si domandava però a chi appartenesse il prodotto. Secondo i Sabiniani al proprietario della materia, secondo i Proculeiani al produttore, secondo la giurisprudenza classica se la trasformazione era reversibile apparteneva al proprietario, se era invece irreversibile apparteneva al produttore.
Modi di acquisto derivati:
Mancipatio: inizialmente una compravendita in contanti, era un negozio formale che richiedeva la presenza di compratore e venditore, di cinque testimoni cittadini romani puberi e di un libripens, che teneva la bilancia di bronzo. Il venditore solitamente taceva, ma poteva anche fare una dichiarazione –nuncupatio- con cui modificava, integrava o limitava gli effetti del negozio. L’effetto è solo il trasferimento del bene dal mancipio dans al mancipio accipiens e una garanzia che il primo doveva al secondo della proprietà che egli trasferiva. Con l’arrivo dell’aes signatum, il vero prezzo venne pagato a parte. Così si potè utilizzare la mancipatio, oltre che per la vendita del bene, anche per la donazione, per la dote, per la garanzia, per trasferimento, casi in cui non si pagava nessun prezzo o se ne pagava uno irrisorio, una sola moneta –nummus unus-. In epoca classica la mancipatio non dava più garanzie per le cause che non comportavano il pagamento di un corrispettivo. Sparisce in epoca giustinianea.
In iure cessio: era un espediente che poteva trovare applicazione riguardo a tutte le situazioni giuridiche tutelabili con la legis actio sacramento in rem, poiché consisteva nella applicazione fittizia della prima parte di essa. L’acquirente e l’alienante andavano in iure davanti al rex o al magistrato col bene da trasferire o con una sua parte simbolica; l’acquirente faceva una vindicatio del bene e l’alienante poteva fare una contravindicatio o tacere. Se mancava la contravindicatio, il rex o magistrato pronunziava l’addictio, riconoscendo formalmente la proprietà all’acquirente. Era astratta e serviva per trasferire sia res mancipi sia quelle nec mancipi.
Traditio: consisteva nella consegna materiale di un bene corporale nec mancipi con la volontà di trasferire la proprietà sulla base di una iusta causa; essa era in ius gentium o ius naturalis. Era un negozio con cause alternative, come la compravendita, la donazione, la costituzione di dote, il prestito di consumo o mutuo, il pagamento. Nel periodo classico si ritenne sufficiente per l’acquisto di un fondo che l’alienante mostrasse il fondo in questione da una torre e dichiarasse all’acquirente di trasmettergliene il libero possesso: questa è la traditio longa manu. Era anche possibile che un possessore alienasse il proprio bene e contemporaneamente si facesse concedere dall’acquirente il bene in locazione o in comodato oppure si riservasse l’usufrutto dello stesso bene: si trasformava in possessore alieno nomine e questo atto si chiamò constitutum possessorium. Era anche possibile il contrario –traditio brevi manu-. Si ammise anche la consegna simbolica per esempio della chiave del magazzino in cui fossero chiusi i beni –traditio simbolica-. Nel periodo postclassico si generalizzano i casi di traditio longa e brevi manu, traditio simbolica e constitutum possessorium. Con Giustiniano si torna a distinguere fra traditio, come negozio ad efficacia reale, e negozi obbligatori, che ne costituiscono la causa.
Usucapio: era un modo di acquisto iuris civilis e aveva le sue radici nel ius Quiritium. Evitava a chi avesse posseduto per il tempo e con i requisiti necessari ed esperisse azione di rivendica, l’insostenibile onere di provare la proprietà di tutta la catena di coloro dai quali il suo diritto derivava. Una norma delle XII tavole prevedeva l’acquisto mediante usus di due anni per i beni immobili, mentre per tutti gli altri beni era sufficiente l’usus di un anno. Si proibiva comunque che l’usucapio potesse giovare ad un ladro o ad un rapinatore o ad un concessionario precario. L’actio Publiciana individuò nella iusta causa e nella bona fides ulteriori requisiti per l’acquisto della proprietà del bene tramite usucapione. In epoca preclassica, riassorbito l’usus nella possessio, ci doveva essere un’assenza di vizi assoluta e non relativa come nella tutela interdittale. All’inizio del periodo classico, l’usucapio richiedeva la possessio nomine proprio, di beni suscettibili di proprietà privata e che non fossero stati oggetto di furto o di uno spossessamento violento, per un tempo ininterrotto di due anni o uno, sulla base di una causa astratta idonea a giustificare l’acquisto del dominio e che nel caso concreto non aveva determinato l’acquisto per il vizio o inidoneità dell’atto traslativo o perché questo era stato posto in essere a non dominio, con la buona fede del possessore al momento dell’acquisto della possessio.
Per i fondi provinciali non era possibile l’usufrutto, ma ci si è chiesto se si potesse addurre come eccezione –praescriptio- la lunga durata del suo possesso. Settimo Severo e Caracalla stabilirono con un rescritto che chi era in possesso con un giusto inizio o una giusta causa, poteva opporre all’azione di chi si affermava vero titolare una praescriptio longi temporis, di venti anni se quegli abitava in un’altra città, di dieci anni se abitava nella stessa.
Giustiniano riordina la disciplina di questa materia, rendendo applicabile a tutti i fondi la longi temporis praescriptio e alle cose mobili l’usucapione, per la quale il tempo viene portato a tre anni. Si richiede per entrambi la buona fede iniziale e il titolo. Mantiene in vigore la prescrizione trentennale per il possesso di buona fede non sorretto dal titolo e la prescrizione quarantennale per il possesso di mala fede.
Diritti reali di godimento.
Verso la fine del periodo antico inizia a delinearsi la concezione per la quale il proprietario di un fondo che poteva attraversare con un carro, un gregge o a piedi il fondo altrui, o che poteva condurvi l’acqua, anziché avere la proprietà della strada, sentiero o acquedotto era titolare del ius ire agere –diritto di passare- o del ius aquam ducere –diritto di condurre acqua-.
I iura praediorum o servitù.
I iura si dividono in iura praediorium rustico e iura praediorum urbanorum.
Le quattro più antiche servitù (iter, via, actus, aquaeductus) erano res mancipi e rimasero tali anche quando vennero assorbite nei ius e concepite come entità incorporali.
Le nuove servitù rustiche riconosciute erano sempre res mancipi e si parlava di iura itinerum e iura aquarum, mentre quelle nuove urbane erano res nec mancipi e si parlava di iura stillicidiorum, iura parietum, iura luminum.
Finì per prevalere comunque la terminologia ispirata all’ottico del proprietario dell’altro fondo, che suole chiamarsi servente, e si parlò quindi di servitutes praediorum rusticorum e servitutes praediorum urbanorum.
Si ebbero anche servitù negative, il cui contenuto consisteva nella negazione al proprietario del fondo servente del ius di esercitare in un certo modo la sua proprietà.
Le servitù erano considerate come una qualità del fondo e avevano doppia inerenza reale, cioè gravavano sul fondo servente e potevano essere fatte valere contro qualunque proprietario o possessore di questo fondo e appartenevano di necessità a chiunque fosse proprietario del fondo dominante.
Vi era inoltre l’esigenza che la servitù fosse economicamente utile al fondo dominante, mentre non potevano formare il contenuto di una servitù le attività che servissero solo all’utilità personale del proprietario.
Le altre caratteristiche delle servitù furono unificate in tre principali regole:
Non era possibile avere la servitù su un fondo proprio.
Una servitù non può diventare oggetto di usufrutto.
Il proprietario del fondo servente aveva di necessità un dovere, ossia quello di tollerare l’attività del proprietario del fondo dominante o di non fare quel che altrimenti come proprietario avrebbe potuto fare.
Le servitù rustiche, in quanto res mancipi, potevano costituirsi mediante mancipatio tra il proprietario del fondo futuro dominante e il proprietario del fondo futuro servente o tramite in iure cessio.
Le servitù urbane, essendo res nec mancipi, potevano costituirsi mediante l’in iure cessio.
Un altro modo era quello per cui il proprietario di due fondi, alienando uno di essi, riservava a sé, come proprietario del fondo conservato, una data servitù su quello alieno.
Era possibile anche una costituzione mortis causa, se il proprietario del fondo futuro servente disponeva nel proprio testamento un legatum per vindicationem a favore del proprietario del fondo futuro dominate.
C’era anche la costituzione detta per destinazione del padre di famiglia, che consisteva nella separazione giuridica di due fondi, fra i quali il proprietario aveva stabilito un rapporto di servizio di fatto, senza farne oggetto di nessuna menzione al momento in cui ne alienava o legava uno o li alienava o legava entrambi a soggetti diversi.
Nel periodo classico era possibile l’usucapio, fino alla lex Scribonia.
In età giustinianea sono le pactiones e le stipulationes a far sorgere direttamente le servitù prediali. Si ammette la costituzione diretta tramite traditio servitutis e patientia, in seguito ad un accordo in cui l’accettazione da parte del proprietario del fondo servente si estrinseca nel suo tollerare che il proprietario del fondo dominante compia le attività corrispondenti al contenuto di una servitù positiva.
Giustiniano inoltre riammette la possibilità di acquisto attraverso l’esercizio di fatto prolungato per dieci o venti anni- longis temporis praescriptio-.
L’estinzione poteva avvenire per:
Rinuncia del proprietario del fondo dominante.
Per coincidenza della proprietà di entrambi i fondi in un solo soggetto.
Per distruzione di uno dei due fondi.
Interruzione dell’esercizio protrattasi per due anni, per le servitù rustiche per il non usus, per quelle urbane solo se il soggetto passivo faceva opere in contrasto con quell’assetto di un edificio rispetto all’altro o svolgeva quell’esplicazione della proprietà che la servitù gli negava e gli edifici e i fondi venivano posseduti nel nuovo stato di fatto per due anni, senza che il titolare della servitù agisse in giudizio per ottenere il ripristino dello stato di fatto conforme alla servitù: si aveva appunto una usucapio libertatis, ossia un acquisto della libertà del fondo.
La tutela delle servitù si attuava con la vindicatio servitutis, la quale dapprima venne esperita nelle forme della legis actio sacramento in rem, poi in quelle dell’agere in rem per sponsionem e infine con la procedura formulare. L’azione si indirizzava normalmente contro il proprietario attuale del fondo servente, ma si ritiene potesse essere legittimato passivo chiunque, stando sul fondo, impedisse l’esercizio della servitù.
L’usufrutto.
In quanto diritto reale limitato, l’usufructus venne istituito all’inizio del periodo preclassico e classico, per opera dell’interpretatio dei giuristi, convalidata dai giudici e dalla consuetudine.
Esso poteva consistere tanto su immobili che su mobili e conferiva al titolare –usufructuarius- facoltà generali di uso e godimento con il conseguente diritto di percepire i frutti della cosa, acquistandone la proprietà. Egli poteva servirsi del bene nel modo che gli sembrasse utile. Questo diritto era divisibile e poteva quindi spettare in comunione a più soggetti ed essere diviso in quote.
Era un diritto limitato perché, essendo personalmente connesso al suo titolare, si estingueva quando egli moriva o subiva una capitis deminutio.
Era inoltre limitato nel contenuto, come conseguenza della limitazione temporale. Questa infatti aveva un senso se, finito l’usufrutto, il bene era ancora esistente e utilizzabile.
L’usufrutto poteva costituirsi:
Inter vivos con in iure cessio.
Con deductio dell’usufrutto dalla mancipatio o in iure cessio relativa al bene, se il proprietario voleva trasferirlo subito ad altri, ma riservarsene l’uso e il godimento fino alla propria morte –non era possibile una deductio dalla traditio-.
Mortis causa mediante legatum per vindicationem.
Obbligando l’erede a costituirlo con legatum per damnationem, costituendo l’usufrutto con in iure cessio.
L’usufrutto non poteva essere trasferito ad altri, ma durante il periodo preclassico se ne ammise la locazione o la vendita.
Con la scomparsa dell’in iure cessio e della mancipatio, si generalizzò la costituzione tramite traditio.
Cause di estinzione dell’usufrutto erano:
Rinuncia attuata mediante in iure cessio.
Morte dell’usufruttuario.
Capitis deminutio dell’usufruttuario.
Riunione dell’usufrutto e della proprietà nella stessa persona.
Distruzione o trasformazione del bene.
Cessazione dell’esercizio per due anni su immobile e un anno su mobile. In epoca giustinianea i tempi sono più lunghi.
Le persone diverse dalle persone giuridiche non potevano acquistare un usufrutto, poiché non erano soggette a morte o a capitis deminutio. Questo si risolse ponendo un limite massimo di cento anni dell’usufrutto attribuito ai municipes.
Alla tutela dell’usufructus serviva la vindicatio usufructus e soggetto passivo era chiunque impedisse l’uso e il godimento del bene a chi se ne pretendesse usufruttuario.
L’usus.
L’usus era il diritto di servirsi di un bene, senza goderlo al fine di percepirne i frutti. Appariva perciò una frazione dell’usufrutto –usus sine fructus-.
Fu istituito originariamente per i beni che non producevano frutti naturali, in particolare edifici.
In epoca giustinianea fu permesso all’usuario di percepire i frutti entro i limiti del quotidiano fabbisogno personale proprio e dei propri familiari.
Le servitù personali nel diritto postclassico e giustinianeo.
Giustiniano, pur ammettendo il trasferimento della proprietà ad tempus, ritorna ad una netta distinzione tra dominium e diritto di usufrutto, che come ius in re aliena, viene ricompreso nella categoria delle servitutes, quale servitus personarum.
La nuova figura introdotta dall’imperatore, quella di habitatio, si avvicina al diritto di usufrutto, in quanto attribuisce al titolare la facoltà di locare o di dare in comodato l’abitazione a terzi, ma non si estingue né per non uso, né per capitis deminutio.
Non rientrano enfiteusi e superficie.
Era possibile affittare un appezzamento di ager publicus sotto il pagamento di un canone chiamato vectigal, ad tempus o in perpetuum. L’affitto veniva chiamato locatio ed era disciplinato dal diritto pubblico, mentre quello delle terre dei municipes e coloni era una locatio conductio privatistica a condizioni diverse.
L’affittuario, chiamato vettigalista, diveniva possessore e aveva la tutela interdittale. Se l’affitto era perpetuo non poteva essere privato del possesso finchè il vectigal veniva pagato.
Egli non poteva però dirsi titolare di un diritto reale, poiché non lo erano i possessori di ager publicus, nonostante il pretore gli permise un’azione in factum che gli permettesse di riprendere il possesso da chi lo avesse spossessato. Diveniva così titolare di un diritto reale pretorio a contenuto generale.
L’enfiteusi.
L’enfiteusi trova fondamento in quelle locazioni a privati che, come si è visto già in epoca classica, attribuivano al concessionario di un ager vectigalis, specie se in perpetuo, la piena disponibilità di un appezzamento dell’ager publicus o di terre municipali o coloniarie dietro il pagamento di un canone periodico e forme analoghe vennero utilizzate anche per le concessioni di fondi imperiali.
Tra le varie forme di concessione di terre imperiali o assimilate emersero quelle di più evidente contenuto dominicale e il ius perpetuum o emphyteusis. Questi ultimi conferivano possessi di tipo dominicale, ma i loro titolari erano soggetti a limiti più rigorosi e ciò contribuirà a farli includere trai diritti reali limitati.
Quando cominciò ad essere costituita anche su terre di soggetti privati, ci si chiese se l’atto costitutivo di essa fosse una locatio conductio o una vendita o un’alienazione in genere. Zenone lo dichiarò, con una costituzione, un contratto a sé stante.
Con Giustiniano, le facoltà dell’enfiteuta continuano a coincidere in massima con quelle del proprietario.
Egli può migliorare la destinazione economico sociale del fondo ma non deteriorarla, è tenuto al pagamento del canone annuo –che se non avviene per tre annualità importa decadenza del diritto-, gli è concessa la subenfiteusi.
La superficies.
E’ il la costruzione posta al suolo e il superficiarius è colui che, senza essere il proprietario del suolo, era autorizzato ad utilizzarla. Fra lui e il proprietario del suolo c’era infatti un contratto di locazione –pagamento di un solarium- che lo autorizzava a costruire e a utilizzare in modo esclusivo la costruzione. Questa apparteneva al proprietario del suolo.
Il superficiarus, essendo possessore alieno nomine, non poteva aggiungere la tutela interdittale.
A questo servì l’interdetto proibitorio del pretore in epoca classica, con cui il superficiarus non poteva essere privato dei suoi diritti di godimento con la forza, poiché essi erano parte del contratto di locatio. In caso di perdita del godimento, però, non poteva recuperarlo.
Con Giustiniano, che riafferma il principio superficies solo cedit, il superficiario ha la piena ed assoluta disponibilità dell’edificio e questo diritto è tutelato da un’actio in rem, che gli spetta senza le limitazioni classiche. Gli vengono inoltre concessi, in relazione all’edificio, i mezzi giudiziari normalmente spettanti al proprietario.
Il diritto di superficie è inalienabile e trasferibile mortis causa. Per l’estinzione in seguito a rinunzia non è chiesto alcun requisito di forma.
Diritti Reali di Garanzia.
Con diritti reali di garanzia si intende il mettere a disposizione del creditore determinati beni in modo che, non ricevendo la prestazione, egli potesse soddisfarsi su di essi.
La fiducia cum creditore.
E’ un negozio di garanzia risalente al periodo antico e scomparso già all’inizio del periodo postclassico, fonte di obbligazioni, in sostanza un contratto.
La fiducia veniva costituita con mancipatio o in iure cessio, qualificata spesso fiduciae causa e accompagnata da un factum fiduciae; costituente era di regola il debitore o un terzo.
Il factum accedente al negozio traslativo cominciò a comprendere la lex venditionis con la quale il creditore, se il credito non veniva soddisfatto nel termine stabilito, era autorizzato, o subito o dopo un ulteriore termine di grazia, a vendere il bene.
Si poteva agire contro il creditore tramite un’actio fiduciae, tramite il quale si chiedeva al creditore se avesse agito onestamente. In caso di valutazioni negative, il creditore doveva restituire il bene e se in caso fosse stato venduto dare il superfluum se il prezzo avesse superato l’ammontare del debito.
Anche il costituente poteva essere perseguito con il contrarium iudicum per il rimborso delle spese sostenute dal creditore o per il risarcimento di eventuali danni da lui subiti.
Il pignus datum.
Risalente anch’esso al periodo antico, si riferiva a beni meno importanti di quelli della fiducia.
Veniva costituito con la dazione del bene a l’accordo di vincolarlo come pegno a garanzia di un dato credito.
Costituente poteva essere lo stesso debitore o un terzo: il bene doveva appartenere a quest’ultimo almeno iure honorario.
Da questo accordo nasceva l’obbligo del creditore di restituire il bene, nascevano obblighi anche per il costituente: era perciò anche il pignus datum un contratto.
Suo oggetto poteva essere qualunque bene immobile o mobile e il pegno si estendeva anche ai possibili frutti che esso produceva, poi ancora diritti di credito, di usufrutto e del conduttore di un ager vectigalis.
Se il credito non veniva pagato, in base alla lex commissoria il bene passava in proprietà del creditore e in base alla lex venditionis poteva essere venduto da questo –vietato da Costantino per i raggiri dei creditori-.
Il pignus conventum o hypoteca.
Alla fine del periodo preclassico alcuni patti determinarono che dati beni rimanevano in possesso del debitore e venivano presi dal creditore solo in caso di inadempimento.
Si trattava degli strumenti di lavoro del colonus e dei mobili nell’abitazione dell’inquilino.
Il locatore era autorizzato ad utilizzare la forza e un interdictum Salvianum tutelò il locatore, ma solo nei confronti del colonus, tranne che nel caso in cui i beni fossero pervenuti a terzi, fino all’actio pretoria in factum chiamata Serviana, che gli permise di recuperare anche questi.
Da alcuni giuristi fu chiamato hypoteca.
La costituzione del diritto avveniva mediante conventio. Era necessario che il costituente fosse proprietario dei beni e che sussistesse il credito da garantire.
Oggetto di questo pignus poteva essere qualsiasi bene o anche un intero patrimonio.
Le Obbligazioni.
Nel periodo antico, le persone , in massima i patres familias, potevano essere astrette da vincoli di diversa origine e natura:
Vincoli consistenti nella mera soggezione ad una pena corporale, che la vittima di un atto illecito era autorizzato ad infliggere all’autore di tale atto. Era possibile fare la pace accordandosi su una composizione pecuniaria da eseguirsi dal colpevole a titolo di riscatto della persona offesa, divenendo così frequente da divenire il vero oggetto della responsabilità da delitto. La persona offesa si aspettava perciò una prestazione dal colpevole: si delineò l’oportere di eseguire quella prestazione.
Vincoli connessi al risultato che un soggetto attendeva che si verificasse. Il soggetto passivo poteva finire in una situazione di asservimento immediata o potenziale, a seconda del verificarsi della prestazione. La prestazione poteva essere eseguita direttamente dal soggetto passivo o da un terzo, che costituiva il garante.
Tipi di garanti sono:
Il nexum era un atto per aes et libram con cui un soggetto vincolava il proprio corpo, a garanzia di una prestazione attesa dal creditore.
I vades erano la specifica funzione di garantire la comparizione del convenuto dinanzi ad un magistrato o ad un organo giudicante, tanto nelle legis actiones, quanto in processi pubblici, soprattutto penali. Fissando o potendo fissare una somma di denaro come oggetto e limite della loro garanzia, essi versandola si liberassero, nonostante l’assenza del soggetto di cui avevano garantito la comparizione.
I praedes intervenivano nella legis actio sacramento in rem sia per garantire la restituzione della cosa controversa al vincitore, sia per garantire il versamento all’erario della summa sacramenti. Si possono trovare anche come garanti di prestazioni dovute al popolus romanus. Il vincolo è ideale e destinato a convertirsi in asservimento corporale solo in seguito al mancato adempimento della prestazione garantita.
La sponsio.
In origine era un atto sacrale e generava un vincolo etico-religioso.
Atto e vincolo assunsero rapidamente precisa efficacia giuridica.
Le XII tavole stabilirono che il creditore non potesse procedere alla manus iniectio senza aver ottenuto un accertamento giudiziale del vincolo dello sponsor e istituirono per questo la legis actio per iudicis postulationem.
Il vincolo per sponsio venne ad essere la prima genuina obbligazione che i romani abbiano conosciuto, in quanto atto con cui si contraeva volontariamente una obligatio.
La forma della sponsio era caratterizzata dalla domanda del futuro creditore e dalla congrua risposta del promittente. Quest’ultimo aveva il vincolo di dare oportere, ossia di dover dare.
Essa poteva fungere anche da garanzia di un vincolo gravante su un altro soggetto, che a sua volta doveva sorgere da sponsio. Si aveva cioè una adpromissio, ossia una promessa accedente alla promessa garantita. Lo sponsor prometteva egli stesso una medesima prestazione e veniva ad essere soggetto passivo dell’oportere ad essa relativo.
Questo vincolo non si poteva estinguere per effetto dell’esecuzione della prestazione, ma doveva essere accompagnato da un atto formale simmetrico alla sponsio, ossia l’acceptilatio.
I giuristi giunsero a riconoscere il vincolo del dare oportere anche nel caso del mutuo e in parecchi altri casi, poiché, nonostante la piena validità dell’atto traslativo, sorgeva sulla conservazione del bene un dare oportere a fini di restituzione.
Vincoli derivanti da atti illeciti.
In caso di delitto privato, la punizione corporale ad opera dell’offeso era ammessa solo se il delitto era flagrante o tale da lasciare sul corpo tracce evidenti e si fece a meno di un vero e proprio giudizio. Si poteva giungere ad una pactio, ma solo in periodo successivo, e evitare la pena corporale contro il pagamento di una somma di denaro.
Escludendo il taglione e rendendo obbligatorio il riscatto, fu possibile punire anche delitti non flagranti o tali da non lasciare tracce corporali evidenti.
Nel caso di delitti degli schiavi o dei filii familias, la loro responsabilità si rifletteva sul dominus o sul pater attuale, non su chi lo era al momento del delitto. Se lo schiavo o il filius moriva, il vincolo del padrone si estingueva.
I vincoli da sponsio e quelli in materia di delitti si concretarono nelle obligationes classiche.
Vennero riconosciute obligationes da atti leciti solo grazie allo sviluppo delle attività economiche che si registrò tra il III secolo a.C. e il I secolo d.C. e che moltiplicò i rapporti tra romani e peregrini.
I pretori urbano e peregrino crearono vincoli, estendendo e integrando obligationes civili oppure facendosi interpreti col loro imperium di nuove esigenze di giustizia, che consistevano in semplici soggezioni all’azione concesse all’avversario dai pretori, che vennero assimilati alle obligationes, per atti leciti e illeciti, con l’intreccio di ius civile e riforme pretorie.
L’obbligazione.
I giuristi non si preoccuparono mai di dare una definizione generale di obligationes, ma giunsero ad individuarne due tipi fondamentali, ossia quelle da atto lecito (ex contractu) e quelle da atto illecito (ex delicto). Per l’età classica si può parlare di tipicità delle obligationes.
Troviamo due definizioni di obligatio nel corpus iuris civilis:
L’obbligazione è un vincolo giuridico per effetto del quale noi ci troviamo costretti dalla necessità di eseguire una prestazione, secondo le norme della nostra civica.
La sostanza delle obbligazioni non consiste nel far nostra una cosa corporale o una servitù, ma nel costringere altri verso di noi a dare, a fare o a prestare.
Entrambe le definizioni alludono ad un vincolo fra creditore e debitore, un vincolo da cui discende la necessità della prestazione.
Obligationes in dando.
Nella formula dell’actio in personam l’espressione rem dare oportere significa che il convenuto è tenuto in base al rapporto obbligatorio a trasferire la proprietà ed il possesso di una cosa corporale e a garantire che la proprietà sia piena.
E’ un’obbligazione di risultato, poiché il suo compimento si verifica solo con l’effettivo trasferimento della proprietà.
Obligationes in faciendo.
Sono obbligazioni di facere tutte quelle in cui non vi sia l’obbligazione di dare e comprendevano anche il non facere o il dare in senso non tecnico di trasferire il possesso di una cosa.
Il compimento non poteva mai essere pienamente verificato, o se era stata fatta bene o male.
Obbligazione di praestare.
Il verbo praestare viene accompagnato da un sostantivo, nel suo significato più stretto indica essere garante, star garante di qualcosa.
In epoca postclassica e giustinianea era ritenuto più importante diversificare tra prestazioni di un certum –dare una somma di denaro o una cosa determinata- e di un incertum –ogni altra prestazione-.
Impossibilità e illiceità della prestazione.
Dalla promessa di una prestazione impossibile non può sorger alcuna obbligazione.
Le impossibilità sono o fisiche –la cosa da dare non esiste in natura- o giuridiche –una norma impedisce la prestazione-, o impossibilità oggettiva o assoluta -che dipende dalla prestazione in sé- o impossibilità soggettiva o relativa –dipende da circostanze relative solo al debitore. I giuristi quindi limitano l’impossibilità come impedimento naturale o come difficoltà –che determina comunque una responsabilità-.
Se la prestazione è contraria a norme del diritto o a quelle del buon costume, ossia illecita, i negozi sono nulli.
L’illiceità può essere sia della prestazione, sia della causa del negozio.
La prestazione deve essere determinata, dalla volontà delle parti al momento della creazione del vincolo obbligatorio- o determinabile – da un arbiter-.
Obbligazioni alternative.
Si ha l’alternativa tra due prestazioni e si sceglie quale dare.
Se perisce una delle due cose, l’obbligo si ha sulla cosa che rimane, sia che la scelta spetti al creditore, sia che spetti al debitore.
Obbligazioni generiche.
Si ha quando è indicato solo il genus della prestazione ossia è presente il riferimento ad una categoria più o meno ampia, che può essere composta sia da cose fungibili sia infungibili. La scelta dell’oggetto specifico della prestazione spetta di norma al debitore.
Obbligazioni solidali.
Sono quelle aventi una pluralità di creditori o di debitori, qualora sia stato convenuto dalle parti o stabilito dal diritto che la prestazione sia dovuta al singolo creditore o dal singolo debitore per intero.
Esse si dividono a loro volta in:
Obbligazione solidale cumulativa, nel campo dei delitti, quando un medesimo fatto illecito è posto in essere da più persone. Il pagamento della pena da parte di uno dei soggetti non estingue le obbligazioni degli altri.
Obbligazione solidale elettiva, per le stipulazioni correali, concluse con l’osservanza di particolari forme da due o più soggetti attivi o passivi o anche per contratto tutelati mediante iudicia bonae fidei.
La funzione economico sociale di entrambe era quella di creare una responsabilità di più soggetti o a favore di più soggetti per l’adempimento di una sola prestazione.
Tutte si estinguevano tramite l’acceptilatio, la novazione o l’impossibilità sopravvenuta.
In epoca giustinianea il versamento della somma da parte di uno dei convenuti aveva efficacia liberatoria anche per tutti gli altri.
Obbligazioni parziarie e obbligazioni indivisibili.
Se vi erano ugualmente più creditori o più debitori e non sussisteva tra essi un vincolo di solidarietà, la prestazione si divideva in modo che ciascun debitore dovesse e ciascun creditore potesse pretendere una parte della prestazione corrispondente alla sua quota di debito o credito. –parziaria-
Se la prestazione era indivisibile, uno qualunque dei creditori poteva pretendere e uno qualunque dei debitori doveva eseguire l’intera prestazione con la conseguente estinzione totale dell’obbligazione.
Obbligazioni naturali.
Non si ha un’obligatio civilis, poiché si ha solo l’esistenza di un debito e manca la responsabilità. Lo stesso aggettivo naturalis attenua la carica giuridica del sostantivo qualificato.
Il primo caso di obbligazione naturale e quello dei debiti contratti dagli schiavi, equiparabili a quelle civili dei filii familias.
Altri casi sono quelli del pupillus che conclude contratti senza l’auctoritas tutoris o quella del debitore che avesse subito una capitis deminutio.
Può essere trasferita a obligatio civilis tramite novatio e può altresì essere garantita da un fideiussore, che si obbligava civilmente.
Fonti delle Obbligazioni.
Gaio distingueva tra obbligazioni sorte da contratto –mutuo, stipulatio, litteris expensilatio, compravendita, locazione, società, mandato- e quelle sorte da delitti –furto, rapina, damnum iniura datum, iniuria.
In epoca postclassica, invece, essere si dicevano nate da contratto, delitto o particolari regole giuridiche da vari tipi di cause.
In epoca giustinianea si tese a riprendere la divisione in derivanti da contratti e derivanti da delitti.