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Fogli38/2017 Rivista dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati di Lugano Contributi Jacques Dalarun, La ritrovata “Vita beatissimi patris nostri Francisci (Vita brevior)” di Tommaso da Celano [p. 1] / Luigi Pellegrini, Considerazioni sulla “Vita brevior” ritrovata [p. 13] / Risposte di Jacques Dalarun a quattro domande di Luigi Pellegrini [p. 17] / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone in un codice umanistico milanese della Biblioteca cantonale di Lugano [p. 19] / Marco Sampietro, ‘Nuovi’ esemplari a stampa della prima raccolta poetica del Parini [p. 50] / Mauro Jöhri, I Cappuccini fra storia e nuove sfide [p. 58] / Valeria Badasci, Innovazione e tradizione nel ‘Repertorio italianodialetti’ [p. 62] / Giancarlo Reggi, Postilla a “Filologia classica nella Svizzera italiana dal 1852 ad oggi” [p. 68] / Per Giovanni Pozzi Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini: «tu sei, bestemmiando, dalla parte di zia Domenica». Lo sviluppo di un racconto e la sua ultima svolta [p. 70] / Rara et curiosa Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum, Milano, Gottardo da Ponte, 1510. L’esemplare BSF 75 Ga 9: provenienze marsigliesi e parigine [p. 103] / In biblioteca Fernando Lepori, Incontri in biblioteca [p. 116] /Alessandro Soldini, Le esposizioni nel porticato della biblioteca [p. 124] / Marina Bernasconi Reusser, La mostra “Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi” [p. 133] / Cronaca sociale Relazione del Comitato [p. 139] / Conti [p. 146] / Nuove accessioni Pubblicazioni entrate in biblioteca nel 2016 [p. 149] Fogli Rivista dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati di Lugano. Esce di regola una volta all’anno; ogni fascicolo costa 7 franchi; ai membri dell’Associazione è inviato gratuitamente. È consultabile sul sito della biblioteca ISSN Edizione stampata: 2235-4697 Edizione online: 2235-5189 Redazione Mila Contestabile Claudio Giambonini Fernando Lepori Giancarlo Reggi (caporedattore) Fabio Soldini Amministrazione Associazione Biblioteca Salita dei Frati Salita dei Frati 4A ch-6900 Lugano telefono +41(0)91 923 91 88 telefax +41(0)91 923 89 87 e-mail bsf-segr.sbt@ti.ch sito web www.bibliotecafratilugano.ch conto corrente postale 69-68-1 Progetto grafico Marco Zürcher studio CCRZ, Balerna www.ccrz.ch Impaginazione Andrea Novali Stampa e confezione Progetto Stampa, Chiasso Carte Gobi, 140 g/m2 Munken Lynx, 80 g/m2 Tiratura 1’200 copie In copertina Dettaglio del frontespizio (riprodotto a p. 105) del Liber Conformitatum (editio princeps del 1510) di Bartolomeo da Pisa Fogli 38/2017 Presentazione Quando riemerge un’opera letteraria perduta, l’emozione è sempre forte. Nell’ambito della letteratura latina medioevale, è del 2014 la scoperta di uno scritto di Tommaso da Celano, il più antico biografo francescano: si tratta di una Vita brevior intermedia fra la Vita prima (1229) e la Vita seconda (12461250). Essa è contenuta in un codice duecentesco acquisito dalla Bibliothèque nationale de France. Sul suo ritrovamento l’Associazione Biblioteca Salita dei Frati ha organizzato il 27 settembre 2016 un incontro tra Jacques Dalarun, editore critico della Vita brevior, e il medioevista cappuccino Luigi Pellegrini: i primi tre articoli costituiscono gli atti di quella serata. Anche l’articolo successivo, di Giancarlo Reggi, riguarda un manoscritto, ma quattrocentesco e umanistico: si tratta di un codice milanese delle Epistulae ad familiares di Cicerone, conservato alla Biblioteca cantonale di Lugano. Lo descrisse Remigio Sabbadini nel 1908, rendendosi conto che esso era una copia del codice di Parigi BnF lat. 8528 fatto confezionare dall’umanista Guiniforte Barzizza per Alfonso d’Aragona. La nuova indagine ha permesso di accertare che ciò è vero solo per la prima metà del manoscritto; poi avviene un cambio di mano, e con esso cambia anche l’antìgrafo, cioè il codice ‘padre’, che potrà eventualmente essere individuato con ulteriori ricerche. Un articolo di Marco Sampietro riguarda un’edizione luganese del Settecento: Alcune poesie di Ripano Eupilino, la raccolta poetica giovanile di Giuseppe Parini, pubblicata con la falsa data di Londra 1752. È stato Callisto Caldelari, con argomenti bibliologici, l’ultimo a rivendicarne l’edizione agli Agnelli e la sua tesi è stata accolta dagli studiosi più recenti. Ai dieci esemplari recensiti da Maria Cristina Albonico per l’edizione critica dell’opera (2011), Marco Sampietro ne aggiunge altri cinque. Segue una panoramica di Mauro Jöhri tra passato, presente e futuro dell’Ordine dei Cappuccini, di cui è Ministro generale in carica, guardando al mondo intero. Chiudono la sezione Contributi l’articolo di una giovane italianista dell’Università di Losanna, Valeria Badasci, sul Repertorio italiano-dialetti (edito dal Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona), e una postilla di Giancarlo Reggi all’articolo Filologia classica nella Svizzera italiana dal 1852 ad oggi, uscito in «Fogli», 37 (2016). Il contributo Per Giovanni Pozzi è un articolo di Alessandro Martini, allievo di Pozzi e suo successore alla cattedra di italianistica dell’Università di Friburgo. L’autore, fondandosi sull’archivio di casa, illustra e pubblica il carteggio fra suo padre, Plinio Martini, e il suo maestro a proposito del romanzo Requiem per zia Domenica, uscito nel 1976. Il carteggio inizia nel 1974 e permette di seguire le varie fasi di elaborazione del romanzo da parte di Martini, oltre che di valutare l’influenza esercitata dalle valutazioni di Pozzi. In Rara et curiosa, Giancarlo Reggi descrive un esemplare dell’editio princeps (1510) del Liber Conformitatum di Bartolomeo da Pisa. Si tratta di un’agiografia francescana in cui si elencano quaranta conformità della vita di Francesco con quella di Cristo. L’opera incontrò grande fortuna fino al Settecento, tanto che a Wittenberg il luterano Erasmus Alber ne fece un’epitome polemica, altrettanto fortunata. L’esemplare acquisito nel 2013 dalla Biblioteca Salita dei Frati è unico per le note manoscritte sul frontespizio e altri segni di provenienza: appartenne dapprima al convento dei Cappuccini di Marsiglia, soppresso nel 1791, poi alla Casa generalizia degli Oblati di Maria Immacolata, a Parigi fino al 1904, quando i chierici della Congregazione furono espulsi dalla Francia. Ciò permette di seguire l’itinerario carsico dell’esemplare fino all’acquisto da parte della bsf. La sezione In biblioteca comprende il rendiconto di Fernando Lepori su due cicli di conferenze (sul modernismo e su Bibbia e letteratura), quello di Alessandro Soldini sulle mostre nel Porticato, e il discorso di Marina Bernasconi Reusser per l’inaugurazione della mostra Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi, che la bsf ha organizzato in quanto Centro di competenza per il libro antico. Completano il fascicolo la Cronaca sociale e l’elenco delle Nuove accessioni, curato da Claudio Giambonini. Contributi Jacques Dalarun La ritrovata “Vita beatissimi patris nostri Francisci (Vita brevior)” di Tommaso da Celano * ** * Jacques Dalarun, storico del medioevo, è direttore di ricerca al Centre national de la recherche scientifique francese, nel cui ambito lavora all’Institut de recherche et d’histoire des textes a Parigi. È membro della Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. ** Questo contributo e i due che seguono costituiscono gli atti di una serata organizzata dalla Biblioteca Salita dei Frati nell’ambito della propria attività culturale sulle fonti francescane e sulle tematiche riguardanti il libro antico (27 settembre 2016). Il primo intervento, di Jacques Dalarun, rifletteva in buona misura quanto il medesimo aveva scritto nella premessa all’edizione italiana della Vita ritrovata (Id., La Vita ritrovata del beatissimo Francesco. La leggenda sconosciuta di Tommaso da Celano, trad. di Filippo Sedda, Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2015, pp. 5-28); qui se ne ripropone il testo, riveduto e aggiornato dall’autore. 1 Francesco d’Assisi morì nella notte tra il 3 e il 4 ottobre 1226. Il 16 luglio 1228 fu solennemente canonizzato da papa Gregorio ix, che ordinò a Tommaso, un frate Minore originario di Celano in Abruzzo, di comporre la biografia del nuovo santo; si tratta della Vita del beato Francesco, che fu approvata il 25 febbraio 1229 dal sommo pontefice. Successivamente, nel 1244, il Capitolo generale dell’Ordine dei frati Minori e il suo ministro generale, Crescenzio da Iesi, chiesero ai frati di raccogliere i loro ricordi sul fondatore e affidarono a Tommaso l’incarico riordinarli; ciò che lui fece dal 1246 al 1247 nel Memoriale in desiderio dell’animo, completato verso il 1250 con un’abbondante raccolta di miracoli. Nacque così la consuetudine, a partire dal xiii secolo, di dire che Tommaso da Celano era l’autore di una prima e poi di una seconda ‘leggenda’ di san Francesco: la Vita prima e la Vita seconda, due delle più importanti biografie tra le decine che furono consacrate al Poverello nell’epoca medievale. Nel 2007, confrontando diversi frammenti di manoscritti, avevo ipotizzato l’esistenza di una leggenda che ripercorreva la biografia di Francesco solo dalla stigmatizzazione sulla Verna nel 1224 alla traslazione del corpo verso la basilica d’Assisi nel 1230, e che poi si prolungava con una raccolta di miracoli postumi. In mancanza di meglio, l’avevo chiamata Leggenda umbra. Su basi essenzialmente stilistiche, ne avevo attribuito la paternità a Tommaso da Celano e, dopo aver esplorato diversi scenari, mi ero soffermato sull’idea che essa fosse stata composta su richiesta di frate Elia, durante il suo mandato di mini- stro generale dal 1232 al 1239. Nel corso della stessa ricerca, avevo scoperto uno strano breviario presso la Biblioteca Apostolica Vaticana, in cui le letture dell’Ufficio di san Francesco erano state parzialmente raschiate per renderle illeggibili. Ciononostante, avevo identificato il loro contenuto come simile a quello delle letture di un altro breviario dello stesso fondo, che coprivano solo gli inizi della conversione di Francesco. Anche in questo caso avevo proposto di attribuire questa leggenda liturgica a Tommaso da Celano. Nell’insieme, le mie ipotesi furono abbastanza ben accolte. Passarono sette anni. Il 15 settembre 2014, ricevetti dal Vermont un messaggio del mio amico Sean L. Field che mi segnalava un manoscritto in vendita sul sito “Les Enluminures”: conteneva una Vita di san Francesco, includendo nello stesso tempo le letture dei breviari della Biblioteca Apostolica Vaticana e la Leggenda umbra. Nella sua eccellente descrizione in linea, Laura Light sottolineava l’importanza di questo testo. Concludeva prudentemente domandandosi se fosse stato compilato da un autore sconosciuto, usando delle due fonti di cui avevo trattato nel 2007, o se non si trattasse di una Vita dovuta a Tommaso da Celano fino ad oggi sconosciuta, essa stessa fonte di due testi frammentari. Consultai in fretta la riproduzione in linea della prima pagina della Vita e vi decifrai, non senza difficoltà, una lettera di dedica che inizia con queste parole: Al venerabile e reverendo padre frate Elia, ministro generale dei frati Minori. La Vita del gloriosissimo padre nostro Francesco che, per ordine del signor papa Gregorio, ma istruito da te, padre, da un certo tempo già ho composto in un’opera più completa, a causa di quelli che adducono come motivo, forse a ragione, la moltitudine delle parole, su tuo ordine ora l’ho sintetizzata in un opuscolo più breve e ho procurato di scrivere in un discorso succinto almeno le cose essenziali e alcune cose utili, ommettendo le più. 2 Quindi, non vi era alcun dubbio che si era in presenza di un profondo rimaneggiamento della prima Vita del beato Francesco, abbreviata dal suo autore in persona, Tommaso da Celano, su richiesta di frate Elia allora Ministro generale. Le mie ipotesi del 2007 trovavano improvvisamente una conferma insperata. Segnalai questa scoperta a Isabelle Le Masne de Chermont, direttrice del Dipartimento dei manoscritti presso la Bibliothèque nationale de France e l’istituzione decise di acquistare il manoscritto. Questo volume di assai piccole dimensioni (120 × 82 mm), privo di coperta, formato da centoventidue fogli di pergamena di cattiva qualità, fu certamente copiato nel secondo terzo del Duecento in prossimità di Assisi, ad uso di frati Minori. Sciupato, piegato, sgualcito, macchiato, non bello a vedersi, rappresenta certamente, da questo punto di vista, un’immagine della semplicità e della povertà francescana, anche se, a un esame approfondito, il codice risulta più accurato di quanto a prima vista si sarebbe indotti a pensare. Esso cela un tesoro di testi sconosciuti. Quindi è ormai l’oggetto di una ricerca congiunta del Dipartimento dei manoscritti della Bibliothèque nationale de France e dell’Institut de recherche et d’histoire des textes del cnrs. Concentriamoci, al momento, sulla leggenda francescana inedita. 3 1 Periodo di otto giorni che segue una determinata festa religiosa. Fogli 38/2017 Contributi / Jacques Dalarun, La ritrovata “Vita beatissimi patris nostri Francisci (Vita brevior)” Diedi l’annuncio della sua scoperta il 16 gennaio 2015 presso l’Académie des Inscriptions et Belles-Lettres. La notizia suscitò una certa emozione, ben al di là dei circoli degli studiosi: «Il san Francesco ritrovato», titolò L’Osservatore Romano. Bisogna dire che una tale scoperta non è così frequente. L’ultima in ordine di tempo risale al 1922, con la messa in luce della Compilazione di Assisi, che raccoglie essenzialmente i ricordi di frate Leone. L’idea generalmente ammessa, che la mia scoperta veniva a contraddire, era che il corpus di leggende francescane fosse chiuso, che il tempo delle scoperte fosse finito. La smentita è oggi senza appello. Vediamo anzitutto l’apporto del nuovo testo sotto il profilo quantitativo. Le mie ricostruzioni precedenti non ne restituivano che il 40%. Nella sua integralità, la nuova Vita del beato padre nostro Francesco – questo il suo titolo nel manoscritto – è dunque per il 60% del testo inedita. In quanto compendio della Vita del beato Francesco (la Vita prima di Tommaso da Celano), essa è forzatamente più breve del suo modello, ma ne rappresenta comunque più della metà. È più lunga di altre leggende francescane, come la Vita di san Francesco di Giuliano da Spira, la Leggenda dei tre compagni o la Leggenda minore di Bonaventura. Con i particolari che essa restituisce, la Vita del beato padre nostro Francesco chiarisce la genealogia così controversa delle leggende, oggetto del grande dibattito ormai più che secolare, conosciuto sotto la formula di ‘questione francescana’. Fino ad oggi si era tentato di ricostruire un puzzle di cui mancava almeno un pezzo decisivo. Grazie alla lettera di dedica, si apprende che, se la prima Vita del beato Francesco è stata certo composta da Tommaso da Celano per ordine di papa Gregorio ix, è stato tuttavia frate Elia, sebbene in quel periodo non fosse a capo dell’Ordine, a offrire all’agiografo informazioni e istruzioni di prima mano: «Domino papa Gregorio iubente, sed te, pater, edocente» (’Per ordine del signor papa Gregorio, ma istruito da te, padre’). Questa composizione ufficiale, di cui Tommaso aveva tutte le ragioni di essere fiero, aveva tuttavia suscitato una critica: troppo ampia, andava ridotta. La richiesta venne questa volta dal ministro generale, non più dal sommo pontefice. La questione era interna all’Ordine, perché anche le critiche erano certamente sorte al suo interno. La Vita del beato padre nostro Francesco: un tale titolo esprime (oggi come allora) senza mezzi termini la destinazione della nuova leggenda ad indirizzo dei figli spirituali del padre in questione, i frati Minori. Ora, quale uso può avere un ‘breve opuscolo’ agiografico in seno ad un Ordine religioso? La risposta s’impone da sé: provvedere alle nove letture dell’ufficio liturgico del fondatore, in un’epoca in cui la sua festa non era ancora accompagnata da un’ottava1. Come prova, nel manoscritto ritrovato, l’inizio della Vita di Francesco è divisa in nove letture, numerate e segnalate come tali. Ma rileggiamo la lettera-prologo: ne traspare che Tommaso da Celano assume questo nuovo incarico a malincuore: non ha abbreviato la sua precedente redazione quanto avrebbe dovuto fare: alla fine della nona lettura, il racconto è appena arrivato al reclutamento dei primi compagni! Uno dei breviari della Biblioteca Apostolica Vaticana ha tentato di rispondere allo stesso uso, con un taglio leggermente differente delle letture: non riesce comunque a restituire la vita del santo nella sua integralità, anzi ne è ben lontano. Allora si chiarisce il breve prologo della prima leggenda liturgica realmente concepita e diffusa come tale nell’Ordine dei frati Minori, la Leggenda ad uso del coro: Tu mi hai domandato, frate benedetto, di estrarre certi elementi dalla Leggenda del nostro beatissimo padre Francesco e di ordinarli in une serie di nove letture, perché queste devono essere inserite nei breviari: cosicché a motivo della loro brevità tutti possano averle. 4 La leggenda, da cui questo frater benedictus («frate Benedetto» o «frate benedetto»?) domanda ad un anonimo abbreviatore di estrarre nove letture per uso liturgico, non è la Vita prima di Tommaso da Celano, come si è sempre creduto, ma il suo stesso tentativo di abbreviazione che continua a peccare di prolissità. Il parallelo scrupoloso dei tre testi lo prova: la Leggenda ad uso del coro non ha alcun bisogno di riferirsi alla più lunga prima Vita; essa è esclusivamente l’abbreviazione dell’abbreviazione. Quanto alla Vita di san Francesco di Giuliano da Spira, che ha conosciuto un notevole successo in Francia, si può osservare che essa a sua volta è redatta attingendo alle due opere di Tommaso da Celano, la lunga e la breve: la lunga per aver più particolari; la breve perché, più recente, offre informazioni – sulla traslazione del 1230, per esempio – che mancavano al suo modello. Vita del beato padre nostro Francesco di Tommaso da Celano, Leggenda ad uso del coro, Vita di san Francesco di Giuliano da Spira: questi tre testi, intimamente legati, furono tutti composti tra il 1232 e il 1239, sotto il generalato di frate Elia. Ma la Vita ritrovata assume un valore aggiunto quando si afferma – come credo di poter fare – che sia, in assoluto, la seconda biografia mai scritta su Francesco di Assisi e la prima mai scritta per uso specifico dei frati Minori. La brutale deposizione di Elia nel 1239, bersaglio dell’opposizione interna dei frati universitari e privato del sostegno di papa Gregorio ix, trascinò la Vita del beato padre nostro Francesco nella damnatio memoriae del suo committente. Il testo ebbe tuttavia un recupero d’interesse quando, nel 1244, la riforma liturgica dell’Ordine dei frati Minori impose di celebrare un’ottava nella settimana seguente la festa di San Francesco del 4 ottobre: non erano più nove, ma sessantatré le letture che bisognava produrre. La stessa lunghezza del testo, troppo poco abbreviato, gli conferì allora un valore, seppure effimero. La maggior parte dei frammenti che avevo ricucito sotto il titolo di Leggenda umbra, quasi tutti estratti da breviari, ha origine in questo momento. Il poco che circolava ancora della Vita del beato padre nostro Francesco scomparve, definitivamente o quasi, nel 1266, quando il capitolo generale di Parigi, presieduto dal ministro generale Bonaventura, decretò di eliminare le leggende liturgiche precedenti quella che il ministro in persona aveva composto per mettere fine alle discordanze nell’Ordine: la Leggenda minore. Il breviario della Biblioteca Apostolica Vaticana con le letture raschiate fu Incipit della Vita brevior. Paris, Bibliothèque nationale de France, nal 3245, c. 69r, con il consenso della BnF. vittima di questa decisione: i frati non distrussero un volume così prezioso, ma tuttavia, obbedendo al comando, resero illeggibili gli estratti di una Vita ormai proibita. A tutti gli effetti, la sopravvivenza del manoscritto della Vita del beato padre nostro Francesco, sepolto in una collezione privata fino alla sua messa in vendita e oggi riemerso, ha del miracoloso; per fugare questa impressione, si dovrà tentare di ricostruire la sua storia dal 1230 al 2014, un compito per il quale gli indizi sembrano flebili. Nel frattempo, la Vita del beato padre nostro Francesco aveva direttamente influito sulla Leggenda dei tre compagni e soprattutto sul Memoriale che Tommaso da Celano compose dal 1246 al 1250 circa. Con quest’ultima compilazione impropriamente chiamata Vita seconda, l’agiografo era in realtà alla sua terza redazione della Vita di Francesco! Le ultime parole che consacra al suo eroe, a chiusura della raccolta dei miracoli che termina lo stesso Memoriale, furono per lungo tempo interpretate come una reticenza da parte sua a produrre dei racconti miracolosi. L’idea è assurda e totalmente anacronistica: un agiografo che tentenna a scrivere dei miracoli è un pianista che rifiuta di suonare Chopin, un panettiere a cui ripugna cuocere il pane. Rileggiamo questa conclusione nella prospettiva del lavoro agiografico completo di Tommaso, oggi ricostituito: Non possiamo inventare ogni giorno delle novità, noi non possiamo cambiare in tondo quello che è quadrato, non possiamo applicare ad una diversità così molteplice di epoche e di volontà quello che noi abbiamo ricevuto in un sol uomo. Non ci siamo per nulla impegnati a scrivere per il vizio della vanità e non ci siamo immersi in una così grande varietà di parole su istigazione della nostra stessa volontà; ma l’importunità dei frati che ce lo domandavano l’ha estorto e l’autorità dei nostri responsabili ci ha ordinato di compierlo. 6 Ora che si conosce la lettera-prologo della Vita del beato padre nostro Francesco, non si ritrova la medesima delusione da un testo all’altro, spinto qui – una quindicina d’anni più tardi – al parossismo dell’amarezza? ‘Ma che cosa rimproverate esattamente alla mia prima Vita, dove io avevo messo tutta la mia arte, tutto il mio cuore e tutta la mia anima’, sembra ribadire Tommaso. «Benché alcuni vogliano forse che si dicano certe cose diversamente e che altre non si dicano», dichiara polemicamente già in apertura della sua seconda versione. L’autore ferito recalcitra, denuncia gli importuni. Ma si deve essere loro grati di averlo costretto a riprendere la penna, perché, in ciascuna delle sue riscritture, nonostante tutto, lui aggiunge del nuovo. Senza dubbio questa è la domanda che mi è stata più spesso posta – e molto legittimamente – dopo l’annuncio della scoperta della Vita del beato padre nostro Francesco: che cosa essa apporta alla nostra conoscenza di Francesco di Assisi? Cose nuove sul Poverello, uno dei personaggi meglio documentati del medioevo, con biografi innumerevoli? La sfida non è da poco. Ho paura di deludere gli amanti del sensazionale e gli adepti della teoria del complotto: Francesco d’Assisi non era un cripto-eretico, né un ribelle alla Chiesa romana e frate Elia non ha perforato le mani e i piedi del suo cadavere per simulare a posteriori le stigmate. Ma alla gente con giudizio, vorrei provare a rispondere Fogli 38/2017 Contributi / Jacques Dalarun, La ritrovata “Vita beatissimi patris nostri Francisci (Vita brevior)” 7 in modo conveniente: senza sopravvalutare o sottovalutare la portata della scoperta. Che cosa si intende per «nuovo»? O più esattamente, nuovo in rapporto a cosa? Qual è la novità che il testo riesumato apporta oltre il mio tentativo di ricostituzione editato sotto il titolo di Leggenda umbra? Qual è la novità in rapporto alla sola biografia francescana precedente, la Vita del beato Francesco dello stesso Tommaso da Celano? Quali sono le informazioni inedite rispetto a tutto quello che noi sappiamo già su Francesco dal corpus completo delle sue biografie? Prendiamo l’esempio dei miracoli postumi: ne avevo raccolti trentanove nella Leggenda umbra. La Vita ritrovata ne conta settantuno: trentadue in più, si dirà. Ma al momento in cui Tommaso pubblicò la sua nuova raccolta, aggiunge in realtà trentatré miracoli ignorati dalla Vita prima. Il guadagno si accresce di un’unità. Ma, ahimè, dal momento che tutti questi nuovi prodigi degli anni 1230 furono ripresi nella grande raccolta del Memoriale verso il 1250, il guadagno in assoluto è ridotto a zero. Niente che non sia logico: essendo la seconda leggenda francescana l’ultima riscoperta, bisogna attendersi che la maggior parte dei suoi contributi siano stati alterati dalle versioni ulteriori che vi hanno attinto. Non è pertanto indifferente sapere che un’informazione che si credeva ritornata alla memoria verso il 1250 in realtà era già stata consegnata una quindicina d’anni prima. E quando la Vita del beato padre nostro Francesco porta la prima versione di un episodio, è assai probabile che la sua formulazione sia più esatta, che i suoi dettagli siano più vicini alla realtà, prima che, di rimaneggiamento in rimaneggiamento, il racconto sia stato deformato ed edulcorato. La Vita ritrovata non è solamente un’abbreviazione della Vita prima, suo modello, ma ne è anche un’attualizzazione. Così la traslazione del santo corpo dalla chiesa di San Giorgio verso la nuova basilica di San Francesco, che avvenne il 25 maggio 1230 e che è debitamente riportata nella Vita del beato padre nostro Francesco, non avrebbe potuto essere riferita nella Vita del beato Francesco, terminata all’inizio dell’anno precedente; allo stesso modo, il cardinal Rainaldo, futuro papa Alessandro iv, non avrebbe potuto essere designato come vescovo di Ostia, un titolo che ricevette solo nel 1231; non ci sarebbe potuta essere neppure l’allusione alla canonizzazione di Antonio di Padova, proclamata il 30 maggio 1232, né l’elogio funebre di Giovanni Parenti, che era stato ministro generale dal 1227 al 1232. La principale novità della Vita ritrovata è costituita dai suoi trentatré nuovi miracoli postumi. Un miracolo che si produce dopo la morte di un santo, ma per sua intercessione, è senz’altro la prova dell’attualità della sua santità, della resistenza della sua fama all’usura del tempo, della sua potenza presente e sempre efficace, attiva e attuale. Questo discorso è difficilmente comprensibile ai nostri giorni. I miracoli non interessano molto, si preferisce il vissuto, non il meraviglioso! Addirittura, essi mettono a disagio: i credenti temono di essere sospettati di credulità, quando se ne interessano mentre gli altri non sanno che farsene di queste attestazioni soprannaturali delle fonti medievali, con tanto di garanzie formali quanto l’ammontare di un censo o il risultato di una battaglia. In fondo, i miracoli imbarazzano tutti. 8 Prendiamo però il tempo di leggere questi micro-racconti, che rivelano nel volgere di un istante tanti particolari di vite quotidiane e dolorose: vediamo il dolore dei genitori che credono il loro figlio annegato nel Volturno, o schiacciato sotto il crollo di una casa a Sessa Aurunca o sotto un torchio per il vino in Sicilia; la loro gioia quando il fanciullo riprende vita. Vediamo l’uomo accusato di eresia a Roma, confinato sotto la custodia del vescovo di Tivoli, coperto di catene, e che riesce tuttavia a fuggire mentre il prelato è svenuto per lo spavento – un episodio che si può molto precisamente datare nel 1231, grazie a stretti controlli incrociati con la documentazione esterna. Veniamo a conoscere la reclusa romana che aveva molto ben conosciuto Francesco in vita, che fa appello a lui quando non può rialzarsi da una terribile caduta nel suo eremo e rischia di morire, se nessuno la soccorre. Non ci sono effetti speciali in questi episodi palpitanti, ma una tensione estrema tra la vita e la morte, la paura e la speranza, il dubbio e la fede; e Francesco che improvvisamente appare in sogno, per affermare che il peggio non è sempre certo e per insegnare, come nell’episodio del frate con la pelliccia, che la conversione dell’anima e del cuore è ben più importante della guarigione del corpo che la manifesta. Ritorniamo al santo ancora in vita: una serie di episodi inediti della leggenda ritrovata tratta della povertà. Uno di questi, che non fu mai ripreso in seguito e che dunque costituisce una novità assoluta, descrive le vesti di Francesco, preoccupato di conformarsi «in tutto ai poveri»: «La tonaca di cui era vestito, che condivideva frequentemente con loro e portava alla maniera dei poveri, lui la riparava spesso non con fili ma con cortecce di alberi o di piante». Questo vestito in parte vegetale è in stretta consonanza con l’habitat di Francesco, sovente decritto nella Compilazione di Assisi: povere capanne amovibili di canne o giunchi. Nei due casi, la connotazione sociale è chiara per i lettori e uditori del xiii secolo: essi identificano immediatamente l’habitat e i vestiti tipici dei contadini a giornata, braccianti stagionali itineranti in cerca di lavoro che, con il prezzo del loro sudore, si mantengono sulla soglia della sopravvivenza. Un altro aneddoto, ripreso anch’esso nella Compilazione di Assisi e nel Memoriale, mette in scena Francesco in un eremo: deplorando la cura apportata dai frati alla tavola, che «non era quella dei poveri, ma dei ricchi», si rifugia in un angolo e, accovacciato, domanda l’elemosina. Un episodio ammirabile, reimpiegato solo nel Memoriale dello stesso Tommaso da Celano, racconta l’incontro di Francesco e di un contadino che, dopo essersi assicurato del suo nome, l’apostrofa: «Cerca, o frate, di essere così come ti annunciano gli uomini. Molti, infatti, confidano in te. Ti esorto che di te non sia mai diversamente da quanto si spera». Francesco scende dal suo asino e, pieno di riconoscenza, si prostra ai piedi del contadino. Senza dubbio la più eloquente delle novità su questo tema è l’episodio della basilica di San Pietro, conosciuto dalla Leggenda dei tre compagni, ma registrato qui in una versione più autentica, più gustosa e ben più profonda. Francesco si reca a Roma «da mercante con mercanti» – e non in pellegrinaggio come vorrebbe poi far credere la Leggenda dei tre compagni per suggerire l’idea di una conversione in germe, di una traiettoria progressiva verso la santità. Fogli 38/2017 Contributi / Jacques Dalarun, La ritrovata “Vita beatissimi patris nostri Francisci (Vita brevior)” 9 La realtà è più cruda: Francesco è in viaggio d’affari, ancora totalmente inserito nel secolo. Lo sconcerto è ancora più forte. Lui vede i poveri che mendicano presso la basilica di San Pietro e vuole allora «sperimentare le loro privazioni, se sarebbe stato capace sopportarle almeno una volta». Cambia i suoi vestiti con i loro e condivide con loro il cibo mendicato, affermando che «mai aveva mangiato qualcosa di più dilettevole». Il latino è luminoso, di una formulazione che sembra quasi moderna: «volens miserias experiri». Non solamente compatire, nemmeno alleviare, ma condividere una condizione reale, farne l’esperienza fisica. Sono persuaso che questi episodi fin qui sconosciuti non sorgano per caso sotto la penna di Tommaso da Celano dopo il 1232. Mentre l’Ordine cresce numericamente con l’arrivo di frati chierici e universitari, l’agiografo, certamente in accordo con il ministro committente frate Elia e una parte dei compagni prossimi alla fraternità originaria, vuole ricordare che la povertà francescana non è una disposizione spirituale o una figura simbolica, come potevano pensare questi intellettuali che vivevano in conventi sempre più confortevoli, sollevati da tutti i compiti materiali dai frati laici che li servivano, circondati di libri che, senza dubbio, non appartenevano loro, ma costavano una fortuna agli occhi dei veri poveri. Ci sono delle attese ‘politiche’ in questo recupero della memoria: sono convinto che questi episodi siano storicamente fondati, che Francesco li abbia veramente vissuti, che alcuni compagni se ne siano opportunamente ricordati e li abbiano riportati a Tommaso da Celano, perché l’evoluzione dell’Ordine sembrava loro un tradimento del messaggio ricevuto dal maestro, nelle parole e più ancora negli atti. Al contrario, se nella Vita del beato padre nostro Francesco l’agiografo omette di riportare la spogliazione del figlio di Pietro di Bernardone davanti al vescovo di Assisi (di cui lo stesso biografo aveva fatto uno dei pezzi di bravura della sua Vita prima) non è perché improvvisamente ha dubbi sulla veridicità dell’episodio, ma semplicemente perché non ha più voglia di riattivarne il ricordo. Niente a che vedere con un eccesso di pudore di fronte allo spettacolo del giovane che si denuda in pubblico! È la tappa immediatamente successiva che Tommaso vuole mantenere occulta: il momento in cui il vescovo copre Francesco «del mantello di cui era rivestito». Perché questo gesto non è ispirato da un movimento di pudicizia o da uno slancio di compassione, ma costituisce un atto giuridico: il penitente sfugge alla giurisdizione comunale e, da allora in poi, rientra nelle competenze del foro ecclesiastico, sotto la giurisdizione del prelato che l’accoglie. Ora né Elia, né Gregorio ix si auguravano di dare ai vescovi argomenti per sostenere che i frati Minori, come il loro fondatore, dovessero essere sottomessi ai prelati ordinari delle diocesi in cui si erano stabiliti. Il ministro e il papa, concordi, tenevano ad affermare l’esenzione dell’Ordine, la sua diretta affiliazione alla Sede Romana senza alcun intermediario; così come lo era «la basilica del beato Francesco» celebrata in conclusione della Vita ritrovata; era quindi meglio tralasciare tutto ciò che poteva mettere in discussione questa strategia condivisa. Su un ultimo punto la Vita ritrovata apporta una piccola luce supplementare. Quando Tommaso scrisse la sua Vita prima, non avendo vissuto nella familiarità di Francesco come frate Elia o frate Leone, aveva sotto gli occhi il 10 Cantico di frate Sole, questa magnifica poesia in volgare umbro che celebra la fraternità delle creature in lode all’Altissimo e inaugura, di fatto, la letteratura italiana. Conoscendo il solo testo, Tommaso immagina dunque Francesco che contempla «nelle creature la saggezza del Creatore, la sua potenza e la sua bontà» e prova una «gioia stupefacente e ineffabile» quando guarda il sole, la luna, le stelle, il firmamento, i vermi della terra, le api, i fiori, i campi, le vigne, le pietre, le foreste, l’acqua delle fontane, la vegetazione del giardino, la terra e il fuoco, l’aria e il vento. L’agiografo non manca evidentemente di notare che il santo «chiamava tutte le creature con il nome di fratello». Quello che Tommaso non sapeva, e che Leone consegna solo tra il 1244 e il 1246, e di cui si ha traccia unicamente nella Compilazione di Assisi, è che Francesco non poteva materialmente estasiarsi alla vista di questo spettacolo: al momento della composizione del Cantico di frate Sole, egli era a San Damiano, malato, perseguitato dai topi, cieco, devastato dai dolori. Quando riprende la penna dopo il 1232 per abbreviare la Vita del beato padre nostro Francesco, Tommaso non ha informazioni supplementari sui fatti ma ha avuto modo di riflettere. Come il lievito nella pasta, il testo del Cantico lo ha fatto reagire. Nella sua redazione precedente, aveva tratteggiato un Francesco felice e aveva tentato di trascinare, con il suo estro pittoresco, il lettore in questo rapimento. Ora l’agiografo comprende progressivamente che nell’amore del Poverello per tutte le creature si trova un motivo più profondo, le cui implicazioni teologiche gli erano in parte sfuggite. Nella sua versione abbreviata, Tommaso avrebbe potuto saltare qualcuno degli episodi relativi agli animali, che sono molti e potrebbero anche apparire ripetitivi. Invece ne riassume alcuni ma non ne omette nessuno. Soprattutto non elimina il commento, che torna in modo insistente da un episodio all’altro. Francesco si rivolge agli uccelli di Bevagna «come se fossero dotati di ragione» e dopo questo momento decide di esortare «anche le creature insensibili». Le rondinelle d’Alviano tacciono a sua richiesta «come capaci di ragione». Le bestie selvagge comprendono l’affetto che Francesco ha per loro «come se avessero l’uso della ragione». «L’uomo di Dio abbondava di spirito di carità, recando viscere di pietà non solo verso gli uomini, ma anche verso i muti e bruti animali e le altre creature». «Infine, chiamava tutte le creature con il nome di fratello propter unum principium». L’idea del principio unico (una sola e comune origine), che fa di tutti gli esseri dei fratelli, non era presente nella Vita prima. Tutti fratelli e sorelle perché tutti figli e figlie dello stesso Padre: Tommaso, nella sua riscrittura, ha prodotto questo piccolo passo avanti. Esso era ovvio, si dirà; invece vi giunse solo alla fine di questo percorso. Ora, è precisamente questa dimensione verticale di una filiazione universale al medesimo Padre che ignorano o che trascurano coloro che vogliono credere che Francesco cantasse il fascino della natura. Si è liberi di amare la natura, ma citare come testimone di questo amore l’autore del Cantico di frate Sole è possibile solo a causa di un malinteso o di cattiva fede. Per prolungare la meditazione medievale, per attualizzarla a otto secoli di distanza nella nostra stessa lingua, io direi che il discorso di Francesco, come il suo agiografo a poco a poco intuisce, è risolutamente anti-identita- 11 2 Jacques Dalarun, Thome Celanensis Vita beati patris nostri Francisci (Vita brevior). Présentation et édition critique, «Analecta Bollandiana», 133 (2015), pp. 23-86. 3 Jacques Dalarun, Tommaso da Celano, La Vita del beato padre nostro Francesco, «Frate Francesco», 8 (2015), pp. 289-386. Fogli 38/2017 Contributi / Jacques Dalarun, La ritrovata “Vita beatissimi patris nostri Francisci (Vita brevior)” rio – e dunque particolarmente salutare per i tempi che corrono. Francesco non si trincera nell’identico: aveva fratelli di sangue, l’altro o gli altri figli di Pietro di Bernardone, se ne era volontariamente allontanato, a sua volta era stato ripudiato dai suoi. Aveva poi compagni della sua terra: i concittadini di Assisi, con cui aveva condiviso la spensierata giovinezza e che ora, ostili alle sue idee, gli gettavano fango e pietre. Si era però formata attorno a lui una calorosa fraternità di cuore, una famiglia spirituale, elettiva, presto costituita nell’Ordine dei frati Minori. Avrebbe potuto limitare il suo sentimento fraterno a questa milizia di mendicanti superbi, che gli rinviavano l’immagine lusinghiera del suo successo al rovescio. I suoi fratelli e sorelle animali sono esattamente ciò che non sono i suoi simili; i quali, nonostante le apparenze e i pregiudizi, partecipano tuttavia alla ragione universale, e ai quali egli si sente strettamente legato per quel principio unico che, come a lui, ha dato loro la vita. In realtà, l’abbreviazione della Vita si rivela essere una reductio nel senso teologico del termine: riduzione non materiale ma all’essenziale: reductio ad Christum. I nuovi appellativi di Francesco nella Vita ritrovata lo provano: «amico di Cristo», «servitore di Cristo», «signifero di Cristo», «santo di Cristo». Ed è il motivo per cui la Vita del beato padre nostro Francesco appare più di una volta come il laboratorio della Leggenda maggiore di Bonaventura. Questa breve presentazione è lontana dall’esaurire il significato della Vita ritrovata: spero solo che abbia convinto il lettore che merita di essere letta. L’edizione critica latina è stata pubblicata in «Analecta Bollandiana»2, con le necessarie precisazioni storiografiche, la presentazione del manoscritto, la discussione stemmatica, l’apparato delle varianti e delle fonti. Sono già state pubblicate le traduzioni francese, spagnola, inglese, tedesca, portoghese e ungherese; quelle in polacco, croato e cinese sono invece in preparazione. Una traduzione italiana a cura di Filippo Sedda, annotata, provvista di un’indispensabile tavola di concordanze tra la Vita ritrovata e undici altre leggende francescane primitive, è uscita nelle pagine della rivista «Frate Francesco»3. Per renderlo accessibile a un più largo pubblico, il testo è stato pubblicato dalle Edizioni Biblioteca francescana di Milano in versione italiana senza alcun apparato. Seguirà certamente un dibattito internazionale, che permetterà di approfondire l’importanza del rinvenimento della Vita ritrovata. Sono convinto che anche le altre parti del manoscritto riserveranno belle sorprese: la leggenda ha attirato le luci della ribalta, ma essa occupa poco più di un ottavo del manoscritto, che rappresenta probabilmente il più antico testimone delle Ammonizioni di Francesco d’Assisi. Il commento del Padre nostro, che segue, non manca di suscitare interesse. E anche il resto, un apparente guazzabuglio di sermoni, florilegi, trattati, libri biblici apparentemente incoerente, avrà bisogno di essere studiato: da dove sono stati estratti, dove e da chi sono stati copiati, per quale uso? Quale frate Minore portava nella tasca della sua tunica, durante le sue peregrinazioni, questo vademecum rovinato dall’usura nei primi e negli ultimi fogli? Con chi lo condivideva? Il nostro gruppo di ricerca si sta impegnando per saperne di più. La conservazione del manoscritto nel fondo pubblico della Bibliothèque nationale de France e la messa in rete sul sito Gallica della sua riproduzione integrale, digitalizzata in alta definizione, ne garantiscono a tutti l’accesso. L’avventura è solo all’inizio. 12 Contributi Luigi Pellegrini Considerazioni sulla “Vita brevior” ritrovata * * Fra Luigi Pellegrini, dell’Ordine dei Frati minori cappuccini, dal 1990 al 2006 è stato professore ordinario di Storia medioevale all’Università degli Studi “Gabriele D’Annunzio” di Chieti e Pescara. 1 Dominique Poirel, Un écrit inédit de François d’Assise? Le commentaire du Pater dans le manuscrit BnF, NAL 3245, «Académie des Inscriptions & Belles-Lettres. Comptes rendus des séances de l’année 2016», janvier-mars, p. 415-485. 2 Si è notato che uno dei primi a utilizzare i sermoni è stato frate Sopramonte da Varese, successore di Antonio alla guida della provincia minoritica di Lombardia, forse fin dal 1230 (vedi in proposito Antonio Rigon, La fortuna dei Sermones nel Duecento, in Id., Dal Libro alla folla: Antonio di Padova e il francescanesimo medievale, Roma, Viella, 2002, pp. 69-88). 3 Amandine Postec, Un Nouveau témoin des Sermons d’Antoine de Padoue, Padova, Centro Studi Antoniani, 2016, fornisce la trascrizione dei testi dei sermoni riprodotti nel manoscritto e il confronto con i passaggi analoghi dell’edizione critica Sancti Antonii Patavini [...] Sermones [...], a cura di Diego Ciccarelli, Patavii, Edizioni del Messaggero, 1979-1980 (3 vol.). Una nuova edizione è stata curata da Leonardo Frasson, Laura Gaffuri e Cecilia Passarin, In nome di Antonio: 13 Lasciando all’amico e collega Jacques Dalarun il compito di entrare dettagliatamente nel merito della Vita beati Francisci e della sua riscoperta, mi limiterò a dare sintetiche indicazioni sugli altri contenuti del codice, perché mi sembrano di notevole interesse. In seguito porrò alcune quaestiones allo studioso francese, che ha editato la ‘Vita ritrovata’. Tra i numerosi scritti riportati, va innanzitutto segnalata la più antica raccolta di testi di frate Francesco. Nel manoscritto, infatti, sono riprodotti: la Regola, inglobata nella lettera con la quale Onorio iii l’aveva approvata, le Admonitiones e un commento al Pater noster, redatto e fatto scrivere, probabilmente, dello stesso Francesco, ma diverso da quello tradizionalmente trasmesso1. Altre opere sono state inserite in questa collezione, con netta preferenza per i sermonari: indice evidente della destinazione del manoscritto quale materiale per la predicazione. Tra essi spiccano numerosi e corposi estratti dei sermones di Antonio di Padova. Particolarmente interessante è questa precoce riproduzione, forse la prima in ordine di tempo2, segno che la fissazione sulla pergamena della predicazione del frate recentemente canonizzato aveva avuto un’ampia e immediata circolazione ed esercitava un’attrattiva particolare sui confratelli che intendevano dedicarsi alla pastorale della parola3. Il frate lusitano era stato canonizzato di fresco, il giorno di Pentecoste del la miscellanea del codice del tesoro (XIII in.) della Biblioteca Antoniana di Padova, Padova, Centro Studi Antoniani, 1996. 4 Luciano Bertazzo, Un Antonio ritrovato nella “Vita ritrovata”, «Il Santo», 56 (2016), pp. 221-230. 14 1232, a solo undici mesi dalla morte: il più breve processo canonico nella storia delle canonizzazioni. Frate Antonio è, appunto, qualificato dal trascrittore con il titolo di beato4. Si noti la coincidenza: nel Capitolo generale di Pentecoste di quell’anno era stato eletto Ministro di tutto l’Ordine frate Elia, il committente della Vita beati patris nostri Francisci riportata nel codice. La serie dei testi raccolti nel manoscritto evidenzia gli interessi culturali di un frate Minore negli anni Trenta del Duecento, un decennio, o forse meno, dalla morte di frate Francesco. Brani e libri scelti della Bibbia: Giobbe, Zaccaria, Atti degli Apostoli e relativi commentari; estratti dal Vangelo di Matteo. Tali testi, posti accanto alla nutrita raccolta di sermoni, evidenziano lo spazio dell’attenzione ai prodotti della attività intellettuale, trasmessa da una secolare tradizione, che si va ampliando all’interno dell’Ordine, distanziandosi dalla proposta di frate Francesco di semplice essenzialità evangelica. Diamo un’occhiata agli scritti collezionati nel codice: vi sono sermoni di noti autori ecclesiastici dei secoli precedenti. Fra essi spicca il principale sermocinatore della tradizione cistercense, Bernardo di Chiaravalle. Non mancano, né potevano mancare, estratti dall’allora più famosa e utilizzata opera di ricostruzione storica: la Historia ecclesiastica di Pietro il Mangiatore (Petrus Comestor). Il trascrittore risale di diversi secoli nel tempo riproducendo il Liber de virtutibus et vitiis di Alcuino: una ‘guida morale’, particolarmente interessante per un predicatore francescano, il quale leggeva nel capitolo ix del testo definitivo della Regola (la così detta Regula bullata): «annuncino ai fedeli i vizi e le virtù, la pena e la gloria con brevità di discorso». Forse il nostro predicatore, che aveva fatto raccogliere e che, comunque, utilizzava i testi trascritti nel codice, non si atteneva alla «brevità di discorso». Particolarmente significativo di ‘quanto bolliva nella pentola’ dei frati Minori di quel decennio e dei successivi il testo delle Revelationes dello pseudo Metodio: non siamo ancora nell’effervescenza di quel gioachimismo che procurò non pochi problemi all’Ordine, comprese le dimissioni del Ministro generale frate Giovanni da Parma. Si sta, però, già navigando nel mare dell’interpretazione ‘mistico-esoterica’ della storia della Chiesa. Estesi brani della Bibbia, Antico e Nuovo Testamento, testi di predicazione, con l’abbondante ricupero dei sermones di Antonio, opere di carattere morale, ricostruzioni storiche, reinterpretazioni della vicenda della Chiesa: il tutto costituisce un chiaro indice della cultura che ormai circola tra i Minori. Si noti che frate Salimbene de Adam attribuisce proprio a frate Elia il merito di aver sollecitato e organizzato gli studi all’interno dell’Ordine, pur fra tante colpe che il cronista gli attribuisce ricalcando pesantemente le dure contestazioni a suo carico che formeranno il bagaglio della sua damnatio memoriae, con la quale verrà consegnato alla storia, in seguito alla sua deposizione. Nel nostro manoscritto sono riportati alcuni testi di e su frate Francesco: la Regula bullata, patente di autenticazione minoritica di colui che riunì in un solo codice i vari scritti; la Vita beati Francisci, qui inserita – per nostra fortuna Fogli 38/2017 Contributi / Luigi Pellegrini, Considerazioni sulla “Vita brevior” ritrovata 15 – a preferenza della biografia, precedentemente redatta da Tommaso da Celano; le Admonitiones; una sconosciuta parafrasi al Pater noster che, posta di seguito alla Regula e alle Admonitiones, sembra che il copista la intenda attribuita allo stesso autore, frate Francesco. L’insieme dei testi riprodotti dimostra che essi furono fatti trascrivere – da vari amanuensi e in tempi diversi, ma molto ravvicinati – a uso di un predicatore; certamente un frate Minore: la Regola con la lettera pontificia di approvazione fungeva da identificazione e ‘patente’ di appartenenza all’Ordine. Gli estratti dei sermoni di frate Antonio, assieme alle Admonitiones (delle quali è la copia più antica che possediamo, risale, infatti, a un decennio dalla morte di frate Francesco), danno un ‘sapore francescano’ al contenuto e alla funzione del complesso dei pezzi collezionati nel manoscritto. Il tutto appare funzionale alla costituzione di un piccolo bagaglio personale, trasportabile e utilizzabile all’occorrenza per l’elaborazione di sermoni. Il frate Minore che aveva ‘commissionato’ il manoscritto, o vi aveva raccolto i diversi testi, rimane nell’anonimato, ma egli aveva probabilmente conosciuto frate Francesco; era comunque un suo contemporaneo e forse un conterraneo; oppure originario dalle confinanti Marche, terra con la quale il santo aveva avuto una buona consuetudine e dove i frati Minori avevano costituito un elevato numero di comunità. Da una di queste proviene molto probabilmente il codice. Mi si consenta, a titolo di conclusione, qualche considerazione sul contesto ‘liturgico’, da cui nasce la Vita brevior, oggetto del nostro incontro. È il primo, parziale tentativo fra i diversi redatti antecedentemente alla Legenda minor di frate Bonaventura, giunti fino a noi: la Legenda choralis umbra, la Legenda ad usum chori. Esse furono compilate tutte negli anni Trenta e sono frutto dell’iniziativa liturgica di frate Elia per celebrare san Francesco. Bisognerà attendere il suo secondo successore, Aimone di Faversham, per un’organizzazione sistematica dell’azione liturgica nell’Ordine minoritico; proprio colui che aveva promosso la deposizione di Elia ne continuò, e non solo in questo settore, l’opera promotrice. Ma la storia della rivisitazione e revisione della vicenda umana di frate Francesco non si limitò alle esigenze delle celebrazioni festive del santo. Nel decennio successivo si volle riformulare l’immagine stessa del fondatore. ‘Vittima designata’ di tale gravoso impegno fu Tommaso da Celano, al quale nel giro di due decenni vennero commissionati sei testi agiografici: la Vita beati Francisci in occasione della canonizzazione (1228); la Vita brevior, la Legenda choralis Umbra, probabilmente la Legenda ad usum chori negli anni Trenta del Duecento. Date le mutate situazioni ed esigenze all’interno dell’Ordine, gli venne richiesta (o imposta) una nuova biografia: il Memoriale in desiderio anime. Ma il suo nuovo lavoro non incontrò la soddisfazione dei frati: bisognava rivederlo e aggiungere i miracoli operati per intercessione del santo. Ecco allora una seconda stesura del Memoriale con l’aggiunta del Tractatus de miraculis. Nel giro di 25 anni sei opere con cinque diversi committenti: Gregorio ix, frate Elia, frate Benedetto, Crescenzio da Iesi, Giovanni da Parma. Una nuova biografia ad ogni cambio di gestione. La desolata conclusione del Tractatus de miraculis è l’espressione di una evidente protesta: Non possiamo sempre forgiare cose nuove, non possiamo sempre far diventare quadrato ciò che è rotondo, né applicare alle varietà così molteplici di tempi e tendenze ciò che abbiamo ricevuto come unica verità. Certo non siamo stati spinti a scrivere per vanità, né ci siamo lasciati sommergere dall’istinto della nostra volontà fra tanta diversità di espressioni. Ci ha estorto questo l’importunità dei frati. Più chiaro di così! 16 Contributi Risposte di Jacques Dalarun a quattro domande di Luigi Pellegrini 17 lp Hai accennato alla composizione della Legenda choralis umbra. Potresti riassumere i problemi circa autore e caratteristiche di tale testo e accennare ai suoi rapporti con la Vita brevior e la Legenda ad usum chori? jd Nel 2007 mi ero interessato alla disputatio erudita avviata negli anni Trenta tra due grandi studiosi frati minori, Giuseppe Abate e Michael Bihl, a proposito di una leggenda francescana frammentaria, conosciuta sotto i titoli (peraltro fittizi) di Legenda neapolitana, poi di Legenda choralis umbra. Dopo di loro la pista era stata abbandonata, ma avevo trovato altri frammenti che mi avevano permesso di dare più consistenza al testo. Avevo proposto di attribuirlo a Tommaso da Celano e di datarlo al generalato di frate Elia (1232-1239), di cui la Legenda fa un elogio notevole. Nel 2014, quando l’amico Sean Field mi ha segnalato un codice francescano in vendita negli Stati Uniti, mi sono reso conto che esso conteneva una leggenda francescana corrispondente al testo completo di cui la Legenda cosiddetta umbra comprendeva solo alcuni estratti. Se si legge la lettera di dedica della leggenda francescana scoperta nel codice ritrovato, si capisce che è opera di Tommaso da Celano ed è un riassunto aggiornato della sua Vita beati Francisci (la Vita cosiddetta prima): di qui il mio appellativo di Vita brevior per questa Vita beati patris nostri Francisci (è il titolo nel codice). Dunque, le Vite conosciute sotto i titoli di Legenda neapolitana e Legenda choralis umbra non sono testi a sé stanti ma solo frammenti della Vita brevior utilizzati in contesto liturgico. Invece, tutte le mie ipotesi basate su questi frammenti nel 2007 sono state confermate nel 2014: la Vita brevior fu scritta da Tommaso da Celano, sotto il generalato di frate Elia e a gloria sua. lp La Vita brevior delle tre è la più estesa, ma presenta una struttura strana. Le nove lectiones, trascritte su quattro pagine (due carte), s’interrompono all’arrivo dei primi sette compagni. Perché il seguito non è stato strutturato ‘liturgicamente’? jd La presenza di nove rubriche indicanti nove lezioni liturgiche ‘tagliate’ nell’inizio della Vita brevior è una realtà codicologica nel manoscritto francescano ritrovato. Come spiegarla? Due le ipotesi. La prima: può essere un’iniziativa 18 del copista; le nove lezioni portano fino al reclutamento dei primi compagni di Francesco (ben prima della fine del suo percorso terreno); si potrebbe immaginare che il resto della Legenda potesse essere utilizzato per le lezioni liturgiche durante l’ottava della festa di san Francesco, un’ottava introdotta solo nel 1244. Seconda ipotesi: la partizione in nove lezioni è opera originaria di Tommaso da Celano. Ciò significherebbe che aveva ricevuto da frate Elia la committenza di una Legenda brevior ad uso liturgico, ma che ha solo finto di obbedire con nove lezioni iniziali che non permettono di conoscere il percorso di Francesco. Tutto il resto della leggenda è in eccesso, perché Tommaso non voleva troppo abbreviare la sua Vita prima. La Legenda ad usum chori, conosciuta da molto tempo, offre davvero tutto il percorso biografico di Francesco in nove lezioni. È una buona leggenda liturgica anteriore all’introduzione dell’ottava, dunque al 1244. Come ho dimostrato filologicamente, la Legenda ad usum chori è il riassunto non della Vita prima (come si credeva), bensì della Vita brevior, quindi, il riassunto del riassunto che, finalmente, perviene alle dimensioni di una leggenda liturgica prima dell’introduzione dell’ottava. Questa produzione, secondo me, rinforza la seconda ipotesi suaccennata sulla genesi della Vita brevior. lp I due fascicoli di seguito (cc. 69r-84v) nei quali è trascritta la Vita costituivano inizialmente un’unità codicografica autonoma, vergata da un unico amanuense? jd I due quaderni viii e ix (cc. 69-78 e 80-85) corrispondono rispettivamente alla parte biografica della Vita brevior e alla raccolta di miracoli. Sono opera di due amanuensi diversi, ma il cambiamento di mano avviene nel corso della stesura della raccolta di miracoli; quindi, i due quaderni corrispondono bene ad un’unica unità di produzione codicologica. lp Il codice fa pensare a uno scriptorium o a più scriptoria, già attivi nei conventi dei frati Minori nei primi anni Trenta del sec. xiii. La diversità delle mani è testimone di unità codicologiche originariamente diverse oppure si tratta di vari frati che scrivono in seguito a un’unica commissione? In pratica: il codice è nato così o è stato confezionato in seguito? jd Il nostro gruppo di ricerca dell’Institut de recherche et d’histoire des textes presso la Bibliothèque nationale de France ha identificato una mano principale nell’insieme di questo codice di 122 fogli, con interventi più brevi di altre mani. Il formato del codice (mm 122 x 80) fa propendere per un progetto unitario (sarebbe stato difficile raccogliere a posteriori quaderni che, per caso, avessero dimensioni tanto piccole). La diversità dei testi raccolti fa pensare a una raccolta protratta nel tempo, forse nel corso di più anni, e realizzata da un gruppetto di frati itineranti da un monastero all’altro. Certe parti del codice (come i quaderni che contengono la Vita brevior o libri biblici) tradiscono un’organizzazione di tipo micro-scriptorium; altre una produzione più aleatoria e opera di copisti solitari. Quindi, secondo noi, il codice stesso, nella sua produzione come nel suo uso, testimonia della vita di un gruppetto di frati minori che era desideroso di vivere secondo la forma primitiva della fraternitas minoritica: povertà, itineranza, predicazione penitenziale. Contributi Giancarlo Reggi Le “Ad familiares” di Cicerone in un codice umanistico milanese della Biblioteca cantonale di Lugano * ** Che la Biblioteca cantonale di Lugano possegga un cospicuo patrimonio di incunaboli è cosa nota1. Invece è assai meno noto che possegga anche tre manoscritti del xv secolo, già descritti da Remigio Sabbadini nel 19082. Si tratta di: – un codice membranaceo di Cicerone, Epistolae ad familiares; – un codice cartaceo di Paolo Veneto, Summa naturalium Aristotelis; – un piccolo codice membranaceo intitolato Quaestiones Christianae, mutilo all’inizio e alla fine, contenente testi di Zenone, vescovo di Verona nel iv secolo d.C. e passi del Breviloquium di Bonaventura da Bagnoregio. Su questi ultimi mi riprometto di tornare in futuro, qui mi limiterò a un riesame del manoscritto delle Ad familiares, necessario per due ragioni. Innanzitutto, rispetto ai tempi di Sabbadini, disponiamo di studi molto più vasti e approfonditi sulla cultura umanistica milanese d’età viscontea e sforzesca3 ; le Epistulae ad familiares, infatti, ebbero particolare fortuna nella 19 * Giancarlo Reggi, già professore di latino e greco al Liceo cantonale di Lugano 1 (1977-2013), attualmente è cultore della materia presso la cattedra di Letteratura latina all’Università Statale di Milano. È membro scientifico della Société Internationale des Amis de Cicéron. ** Desidero ringraziare quanti in un modo o nell’altro mi hanno aiutato nella ricerca: innanzitutto i proff. Mirella Ferrari e Marco Petoletti, dell’Università Cattolica di Milano, che mi hanno sciolto dubbi, attirato l’attenzione su particolari importanti, integrato la ricerca bibliografica; inoltre il prof. Massimo Zaggia, dell’Università di Bergamo, per il giudizio espresso sulla problematica qui affrontata. Ringrazio infine il dr. Luca Saltini, responsabile del fondo antico della Biblioteca cantonale di Lugano, che mi ha agevolato il lavoro in tutti i modi, fra l’altro facendo digitalizzare il manoscritto, ora gratuitamente a disposizione del pubblico all’indirizzo www.tectel.services/dbook/BibliotecaLugano/Varia 1 Basti pensare al libro fondamentale di Adriana Ramelli, Catalogo degli incunaboli della Biblioteca cantonale di Lugano, Firenze, Olschki, 1981 (Biblioteca di bibliografia italiana, 92). Oggi sia la Biblioteca Salita dei Frati (e il Centro di competenza per il libro antico, che ne è un servizio) sia la Biblioteca cantonale di Lugano collaborano con il progetto internazionale MEI, che permetterà importanti aggiornamenti; per una sua descrizione si veda Alessandro Ledda, Lettori, possessori, biblioteche. Gli incunaboli attraverso il database MEI (Material Evidence in Incunabula), «Fogli», 36 (2015), pp. 11-18. 2 Cit. infra, p. 24, in calce alla descrizione tecnica. 3 Della vasta bibliografia di cui disponiamo oggi, interessano strettamente la presente indagine: Mirella Ferrari, La “littera antiqua” à Milan, 1417-1439, in Renaissance- und Milano del Quattrocento e furono più volte copiate4. In secondo luogo, Sabbadini, ingannato dall’uniformità dell’inchiostro, non si avvide che sul codice lavorarono due diversi amanuensi, con cambio di mano alla c. 57r l. 11; è un dato importante perché, come vedremo, al cambio di mano si accompagnò un cambio di antigrafo. Dopo la presente indagine, a Remigio Sabbadini resterà un merito importante: avere individuato la dipendenza del codice luganese da quello che Guiniforte Barzizza fece copiare a Milano per Alfonso d’Aragona, l’attuale codice di Parigi BnF latin 8528. Ciò però vale soltanto per la parte scritta dalla prima mano; il secondo amanuense copiò da un codice diverso, che si potrà eventualmente identificare con una collazione più vasta di quella che mi è stata possibile a tutt’oggi. Su questo, e sui problemi di cronologia connessi, tornerò nel corso dell’articolo. Prima di esporre per sommi capi la storia della tradizione delle Ad familiares, e prima di proporre una collazione aggiornata del nostro codice, conviene presentarne le caratteristiche paleografiche. 1. Descrizione tecnica e commento Indico i dati principali in una descrizione tecnica sul modello di quelle presentate dalla piattaforma e-codices, il servizio dell’Università di Friburgo (ch) che cura la messa in linea dei codici posseduti dalle biblioteche svizzere. Farò seguire alcuni approfondimenti in un commento, posto subito dopo. Sede e collocazione: Lugano, Biblioteca cantonale, d.2.e.18. Titolo del codice: s.t. [«Epistolạẹ | Ciceronis» manoscritto nel primo compartimento sul dorso della legatura, disposto parallelamente a cuffia e nervatura; la prima parola non è abbreviata, ma delle ultime tre lettere restano soltanto tracce; sul cartiglio novecentesco incollato sulla controguardia anteriore si legge: «Cicero (m.t.), Epistolae ad familiares»]. Luogo d’origine: s.l. [Milano]. Datazione: s.d. [secondo quarto del xv secolo]. Segnature precedenti: non più leggibile la più antica; b.212 quella primitiva della 20 Humanistenhandschriften, a cura di Johanne Autenrieth e Ulrich Eigler, München, Oldenburg, 1988, pp. 13-29 (illustrazioni alle pp. 165-169); Massimo Zaggia, Copisti e committenti di codici a Milano nella prima metà del Quattrocento, «Libri e documenti», 21 (1995) n. 3, pp. 1-45; Giliola Barbero, Manoscritti e scrittura in Lombardia nel secondo quarto del secolo XV, in Palaeography, Manuscript Illumination and Humanism in Renaissance Italy: Studies in Memory of A. C. de la Mare, a cura di Robert Black, Jill Kraye e Laura Nuvoloni, London, Warburg; Turin, Aragno, 2016, pp. 149-168 (l’articolo è utile anche per la bibliografia aggiornata a p. 150 n. 3). Sui titoli relativi alle biblioteche d’età viscontea e sforzesca, occorre ricordare almeno Élisabeth Pellegrin, La bibliothèque des Visconti et des Sforza Ducs de Milan au XVe siècle, Paris, cnrs, 1955 (19752); Ead., La bibliothèque des Visconti et des Sforza Ducs de Milan. Supplément avec 175 planches, Firenze, Olschki; Paris, De Nobele, 1969 (19752); Edoardo Fumagalli, Appunti sulla biblioteca dei Visconti e degli Sforza nel Castello di Pavia, «Studi Petrarcheschi», 7 (1990), pp. 93-211. 4 Oltre a quelli di cui si tratta qui, i manoscritti di Oxford Magdalen College lat. 83 (datato 1428), New York Columbia University x87.c48 (anteriore al 1450), Biblioteca Capitolare di Monza cod. d-12/168, ecc.; frammenti da reimpiego in legature: Biblioteca Capitolare di Milano, c/17/295 (comprende viii, 12, 3 - 13, 2; 14, 1-3; 15, 2, 4-5; descrizione in Mirella Ferrari, Archeologia del libro: frammenti di Cicerone nella biblioteca del Capitolo Metropolitano di Milano, in Archeologia classica e post-classica tra Italia e Mediterraneo. Scritti in ricordo di Maria Pia Rossignani, a cura di Silvia Lusuardi Siena, Claudia Perassi, Furio Sacchi, Marco Sannazaro, Milano, Vita e Pensiero, 2016, pp. 627-633). Incipit delle Epistulae ad familiares nel codice di Lugano, c. 1r. Le immagini del manoscritto sono state fornite dalla Biblioteca cantonale di Lugano. 22 Biblioteca cantonale di Lugano (dal catalogo a stampa del 1882). Supporto materiale: pergamena. Dimensioni: un volume di 105 fogli + coperta + foglio di guardia posteriore (foglio di guardia anteriore asportato per strappo). Formato: 207 x 273 mm. Numerazione delle pagine: fogli originariamente non numerati, tranne la c. Aiiiij, segnata con un inchiostro rosso scuro; numerazione moderna a matita sul recto in alto a destra: 1-105; sulla c. 105r si legge in alto a destra, a inchiostro nero moderno, 106, o per errore, o per aver tenuto conto del foglio di guardia anteriore, oggi asportato. Composizione dei fascicoli: 13 quaternioni, più un ultimo foglio aggiuntivo, cucito all’atto dell’indorsatura originale; richiamo non decorato del tipo Derolez 1 (orizzontale sul margine inferiore al centro) in calce a ciascuno dei primi 12 fascicoli, nella stessa scrittura del testo principale: c. 8v: «Sera gratulatio»; 16v: «meos peniteat»; 24v: «coniuratione»; 32v: «Sed q(ui)a»; 40v: «Scripsit»; 48v: «existimatio»; 56v: «quid est»; 64v: «quod michi»; 72v: «semper»; 80v: «sed neque»; 88v: «Alicinius» (sic); 96v: «Sed me». I fascicoli iniziano con il lato carne; è rispettata la regola di Gregory, per cui il lato pelo, più scuro, combacia con il lato pelo della carta successiva e il lato carne combacia con il lato carne. Disposizione della pagina: a piena pagina; dimensioni dello specchio: 165 x 205 mm; 39 linee di testo entro 40 righe per pagina (testo below top line); rigatura del tipo Derolez 11 (a piena pagina con una sola linea di margine verticale a sinistra e a destra dello specchio), con righe verticali a piombo (rilevabili alle cc. 2v-3r, 4v-7r, 11v-12r, 13v-19r, 20v-23r, 24v-25r, 26v-29r, 30v-33r, 34v-35r, 36v-37r, 38v-39r, 40v-41r, 42v-43r, 47r, 48v-49r, 50v-53r, 54v-55r, 56v, 58v-61r, 62r-65r, 71r, 72v-73r, 74v, 76v-77r, 78v-79r, 80v-83r, 84v-86v, 87v, 89v-90v, 91v, 92v, 95v, 96v-98r), righe orizzontali a inchiostro bruno probabilmente tracciate con un pecten (rilevabili alle cc. 44r, 50r, 51v-52r, 66r, 68r, 69r, 70r, 71v-72r, 73v-74r, 75v-76r, 77v-78r, 80r, 81v-84r, 85v-86r, 87r-88r, 89v-90r, 91v-92r, 93v-94r, 95v-96r, 97v-98r, 99v-102r, 104r); interlinea: mm 5; non si vedono fori sui margini esterni, la cui rifilatura è certa (cfr. infra, Legatura). Tipo di scrittura e mani: scrittura umanistica lombarda, opera di due amanuensi, con cambio di mano nella c. 57r l. 11, senza cambio di scriptorium; le rubriche sono tutte della seconda mano. Decorazione: sul frontespizio capolettera «E» di stile gotico, blu su un fondo intrecciato di fregi rossi (cm 6,2 x 4,8); da lì il fregio si diparte in due rami e recinge la pagina sui margini sinistro, superiore e inferiore; in basso al centro è interrotto da un blasone bipartito, il cui disegno interno (con in capo una croce a otto punte circinate, in punta tre rosette) è seriore. Un capolettera blu su sfondo a fregi rossi, ma di dimensioni minori (cm 3 x 2 ca.) si trova all’inizio di ciascuno dei sedici libri delle Epistulae ad familiares: ora in scrittura capitale tendente al quadrato (cc. 7v «Q», 12v «S», 24v «S», 39r «S», 45v «Q», 67v «Q»), ora in gotica (cc. 19r «G», 32r «E», 51r «E», 58r «E», 81r «E», 92v «E», 95v «E», 101v «V»). Le lettere non in apertura di libro hanno invece un capolettera rosso, come le rubriche, quasi mai in scrittura propriamente capitale. Aggiunte: integrazioni, varianti e glosse marginali o interlineari, correzioni sul testo dopo rasura ad opera di varie mani, non sempre facili da distinguere. Le più antiche sono in inchiostro bruno simile a quello del testo, ma più chiaro; sono tutte in scrittura umanistica lombarda e si trovano alle cc. 2r, 3v, 8r, 9r-12v, 13v-22v, 23v, 24v-26v, 27v, 41v, 52v, 58v, 60v, 61v-62r, 64r, 65r-65v, 66v-67r, 69r-v, 71v, 74v, 78r, 79r, 83v, 95r, 96r-97v, 103r, 104r, 105r. Altre sono in inchiostro nero: è possibile distinguere una mano in scrittura umanistica 23 Contenuto – cc.1r r. 1 - 45v r. 18, Cicero, Ad familiares i, 1, 1 - vii, 23, 2 >Marci Tullij Cicero(n)is ep(isto)la(rum) ad publium lentulu(m) liber primus incipit< | Ego omni officio ac pocius pietate erga te ceteris satisfacio omnibus [...] ac uelim post hac sic statuas tuas m(ihi) l(itte) ras lo(n)gissimas quasq(ue) gratissimas fore. | >M(arci) Tullij Ciceronis ad M(arcum) mariu(m) et cet(er)os liber septim(us) explicit.< – cc. 45v r. 18 - 46r r. 12, ivi, viii, 1, 1 - 2, 1 > eiusdem ad M(arcum) Celium liber octau(us) incipit. Celius Ciceroni salute(m).< | Qvod tibi decede(n)s pollicit(us) sum me om(ni)s res urbanas diligentissi(m)e tibi perscriptu(rum), data op(er)a p(ar)aui qui sic o(mn)ia p(er)seq(ue)retur [...]. >Celius Ciceroni sal(utem)< | Certe inq(uam) absolut(us) est me rep(re)sentare [sic] pronu(n)ciatum est et q(ui)d(em) o(mn)ibus ordinib(us) s(ed) singulis i(n) uno quoq(ue) g(e)n(er)e s(e)nt(ent)ijs. Vide m(od)o inq(ui)s – cc. 46r r. 12 - 48v r. 5, ivi, viii, 9, 3 -17, 2 m(ih)i l(itte)ris ostenderis, me isto missu(rum) alios. [...] n(ost)ri ualde depug(na)re & facile algere & exurire (con)sueru(n)t. | [5 linee bianche] | – cc. 48v r. 6 - 51r r. 31, ivi, viii, 2, 1 - 9, 3 puto etia(m) si nullam spem. | >M(arci) Tullij Ciceronis epistola(rum) ad M(arcum) celiu(m) et ceteros liber octau(us) explicit.< – cc. 51r r. 31 - 105v r. 4, ivi, ix, 1, 1 - xvi, 27, 2 >Eiusdem ad M(arcum) Varrone(m) liber nonus incipit. Cicero M(arco) Varroni salute(m)< | Ex his lit(teri)s quas atticus a te missas m(ihi) legit [...] ego uos ad iij k(alendas) uidebo tuosq(ue) oculos etia(m) si te ueniens in medio foro uidero dissaniabor me ama. Vale. | [1 linea bianca] | – c. 105v rr. 5-17, Gellius, Noctes Atticae iii, 8, 8 >[non rubricato] Ep(isto)la C(ai) fabricij et Emilii consulum Romano(rum) super proditione scripta ad regem Pirrhum [...] s(e)c(un)d(u)m alias [sic] Nicias q(ui) co(n)sulibus obtulerat regem uenenis necare.< | Nos pro tuis iniurijs co(n)tinuo a(n)imo com(m)oti inimiciter bellare tecum studem(us). [...] et q(uo)d nob(is) non placet p(re)tio Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone lombarda, una in littera antiqua di corpo maggiore, una in umanistica corsiva, e forse una in scrittura seriore coeva alle prove di penna; si trovano alle cc. 1r-1v, 4r, 6v-8r, 10r, 11r-12r, 13r, 14v, 20v, 22v, 27r, 29r, 30v, 32v, 35v-37r, 47r, 51v-52v, 53v-54v, 58v-59r, 62r, 64r, 65v, 67r, 68r, 69r-v, 72r, 73v-74r, 75r, 76r-77v (greco supplito malamente nella c. 77r), 81r-81v, 85r, 88r, 92v, 94r, 95r, 98v-99r,101v, 103v-104r, 105r; rasura semplice nelle cc. 14r r. 19 («Lentulum clodium» è stato ridotto a «L· clodium», tracce della scrittura primitiva rimangono visibili) e 94r (eraso «scripsi» dittografico); manicula nell’inchiostro originario alla c. 9r; prove di penna seriori in inchiostro nero alle cc. 18r, 31r, 33v, 42v, 44v, 45v, 46v, 51r, 56v, 64r, 69r, 70v («Omni vitio carere debetis [sic] qui in alterum dicere paratus est | Papis librarius mediolanensis est mea sentenzia [sic]»), 71r, 80v, 84r, 85r, 92v-93r, 94v, 103r, 105r-v. Legatura: pergamena priva di decorazione, di borchie e di cantonali, montata su piatti di cartone, con controguardie e guardie di carta bianca; 3 nervature sul dorso, capitelli semplici; il foglio di guardia anteriore è stato asportato per strappo. La coperta riveste un codice che in origine ne era privo, con danno per la c. 1r, oggi molto sbiadita, e la c. 105r-v, che presenta un taglio nella pergamena. In occasione della legatura è stato rifilato il foglio, e la rifilatura ha mozzato alcune note marginali in scrittura semigotica (cc. 11v, 12r, 15v, 17v, 20r, 21v, 22v, 23v, 41v, 52v, 62r, 97r) e umanistica rotonda (c. 36v, 62r, 76v). Datazione presumibile: xvii secolo. aut premis aut dolis pugnare. Tu nisi caues iacebis. | >[non rubricato] Pirrhus rex. Consulibus et p(o)p(u)lo Romano laudes gratiasq(ue) scripsit. Captiuosq(ue) omnes quos secum h(ab)ebat Consulibus restituit reddiditq(ue) | [2 linee bianche] | Deo Gratias Amen | [2 linee bianche] | Marci Tullij Ciceronis ep(istu)la(rum) ad Tironem liber ultimus explicit feliciter.< Bibliografia – Catalogo delle opere esistenti nella Biblioteca del Liceo Cantonale in Lugano, [a cura di Lucio Mari], Bellinzona, Tipografia cantonale, 1882, p. 129: «Ciceronis M.T. Omnes Epistolas... (sic) – Un vol. in 4°, b.212 (manoscritto in pergamena senza data)». – Remigio Sabbadini, Manoscritti di Cicerone, San Zenone e Paolo Veneto nella Biblioteca Cantonale di Lugano, «Bollettino Storico della Svizzera Italiana», 30 (1908), pp. 79-83. – Catalogo generale della Biblioteca Cantonale fino a tutto il 1912, ordinato per materie, Bellinzona, Tipografia e litografia cantonale, 1915, p. 39. – Paul Oskar Kristeller, Iter Italicum. Accedunt alia itinera. A Finding List of Uncatalogued or Incompletely Catalogued Humanistic Manuscripts of the Renaissance in Italian and Other Libraries, v (Alia itinera III and Italy III): Sweden to Yougoslavia, Utopia, Supplement to Italy (a-f), London, Warburg; Leiden, Brill, 1990, p. 121. 5 Franca Petrucci Nardelli, Guida allo studio della legatura libraria, Milano, Sylvestre Bonnard, 2009, pp. 59-65, in particolare a p. 63. 6 Petrucci Nardelli, Guida allo studio, cit., p. 63. 24 Parto dalla legatura, seriore rispetto al codice. In origine esso non era protetto da una coperta, ma soltanto indorsato, ed era conservato appoggiato sul verso dell’ultimo foglio; lo si evince dal cattivo stato di conservazione della prima e dell’ultima carta. Perciò va escluso che sia appartenuto a una biblioteca pubblica o principesca, perché in quel caso sarebbe stato coperto con assi lignee e sarebbe stato incatenato al pluteo di lettura o allo scaffale sottostante; la coperta sarebbe stata necessaria anche perché il libro collocato sul piano inclinato del pluteo avrebbe scaricato parte del peso sul piede, e l’unghiatura della coperta avrebbe evitato che l’appoggio avvenisse direttamente sui fogli5. È più probabile che sia appartenuto a un privato a scopo di libera fruizione o di studio; questi lo conservò, probabilmente, in posizione orizzontale, in un armadio o in un cassone6. In occasione della rilegatura i bordi dei fogli furono rifilati, cosicché risultarono mozzate alcune note marginali quattrocentesche, vergate in una scrittura ancora debitrice della littera textualis gotica, e anche alcune in umanistica rotonda. Quelle in umanistica corsiva e le prove di penna settecentesche non sono mozzate. L’attuale coperta pergamenacea, priva di decorazioni, è sostenuta da piatti di cartone, con guardie e controguardie di carta bianca. Il titolo «Epistolae Ciceronis», posto nel compartimento superiore del dorso, scritto parallelamente al capitello e alla prima nervatura, ma assente sul taglio davanti, fa pensare che dopo la rilegatura il libro sia stato conservato in posizione verticale così come è conservato oggi: con il dorso rivolto verso l’esterno. Quest’uso da parte dei privati può essere già cinquecentesco, ma a Milano fu l’Ambrosiana, aperta nel 1609, la prima biblioteca pubblica a conservare i libri 25 7 Petrucci Nardelli, Guida allo studio, cit. pp. 95-96. Cfr. anche ead., La legatura italiana. Storia, descrizione, tecniche (XV-XIX secolo), Roma, La Nuova Italia Scientifica, 1989, pp. 17-18, 29; utile anche, per la nomenclatura, Federico e Livio Macchi, Dizionario illustrato della legatura, in collaborazione con Milena Alessi, Milano, Sylvestre Bonnard, 2002. 8 Lo annotai in un mio appunto per uso personale che redassi prima della chiusura temporanea della Biblioteca cantonale per restauro e ampliamento (giugno 2004 - novembre 2005, cfr. Gerardo Rigozzi, Progetto Biblioteca, in Progetto Biblioteca. Spazio, storia e funzioni della Biblioteca cantonale di Lugano, Lugano, Biblioteca cantonale - Losone, elr, 2005, pp. 17-33, alle pp. 18-19); ne trascrivo la parte che interessa qui: «Segnatura sul dorso non più leggibile, ma con qualche traccia di inchiostro rosso». 9 A meno che il codice ciceroniano non sia stato compreso, magari per svista, fra le le 1568 «Opere non complete, e di un solo volume di poco valore compresovi 43 dizionari <di> diverse lingue, e fatti illustri» (f. 31), perciò non inventariate minutamente. Ringrazio il dr. Pietro Montorfani, direttore dell’Archivio, dell’aiuto generosamente prestatomi. Esisteva anche un inventario del 1722, completo per l’epoca; lo vide Gabriel Rudolf Ludwig von Sinner (in francese Louis de Sinner), autore di un rapporto datato 16 aprile 1853 a Stefano Franscini, allora Consigliere federale, cioè ministro del governo centrale svizzero (leggibile in Epistolario di Stefano Franscini, a cura di Mario Jäggli, Bellinzona, Istituto editoriale ticinese, 1937, pp. 385-386, n. 1 [ristampa anastatica: Lugano, Aurora, 1984]; non lo riporta, purtroppo, Stefano Franscini, Epistolario, a cura di Raffaello Ceschi, Marco Marcacci e Fabrizio Mena, ii: 1848-1857 [vedere alle pp. 10321033, n. 7]). Nel medesimo rapporto, von Sinner parla anche dell’inventario del 1841 e di una sua appendice del 1842, nonché di una «liste des livres du C. Abbondio (feuillet volant)» contenente un totale di 11 libri, di cui due soli non ecclesiastici. Ultimo a vedere e citare l’inventario del 1722 fu Isidoro Marcionetti, Chiesa e convento di Santa Maria degli Angeli in Lugano, Lugano, Edizioni Banca del Sempione, 1975, pp. 175-178. Ne dichiara il successivo smarrimento Paola Costantini, Il Fondo antico, in Progetto Biblioteca, cit. (2005), pp. 107-123, a p. 115. Il prof. don Giorgio Paximadi, attuale co-parroco degli Angeli, me lo ha confermato, soggiungendo che esso riguarda l’intero archivio antico della parrocchia. È introvabile anche l’Appendice all’inventario della biblioteca dei pp. Min. Riformati della Madonna degli Angeli in Lugano, dell’anno 1722, che Paola Costantini dice conservato nell’archivio diocesano; tuttavia l’archivista Gabio Figini non ha confermato tale possesso. 10 Sabbadini, Manoscritti di Cicerone, cit., p. 79. 11 L’errore di Sabbadini si riverberò nel Catalogo generale della Biblioteca Cantonale, cit., nello schedario cartaceo della stessa biblioteca e nel cartiglio a stampa incollato sulla contro- Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone in quel modo, e l’uso divenne normale nelle biblioteche francesi del xvii secolo. Al contrario, la biblioteca del Monastero di San Lorenzo all’Escorial, voluta da Filippo ii e aperta nel 1585, conservava i volumi con rivolto verso l’esterno il taglio anteriore, e lo stesso avveniva in Inghilterra7. Ciò considerato, senza escludere perentoriamente una datazione più antica, propendo per ascrivere l’attuale legatura al Seicento. Sempre sul dorso, ma in basso, fino al 2004 si potevano ancora vedere a occhio nudo tracce di inchiostro rosso; queste potevano essere un residuo della lettera che contrassegnava lo scaffale nella biblioteca dei Francescani di S. Maria degli Angeli in Lugano, soppresso nel 18488 ; in tal caso palchetto e numero d’ordine erano segnati rispettivamente con un numero romano e un numero arabico neri, indicazioni che oggi potrebbero essere nascoste dall’etichetta con la segnatura della Biblioteca cantonale. La provenienza è tuttavia problematica, perché l’Inventario del Convento de’ Minori Riformati di Lugano, del 1841, oggi conservato dall’Archivio Storico della Città di Lugano, non ne attesta il possesso9 ; esso, per contro, lo attesta per il sopra citato codice di Paolo Veneto, al f. 22 num. progressivo 396. Quanto agli aspetti propriamente paleografici, Remigio Sabbadini, come già accennavo, parlava di «scrittura italiana, tutta di una sola mano»10. Si tratta, più precisamente, di una scrittura umanistica lombarda, opera non di una, bensì di due mani11, che tuttavia lavorarono nel medesimo scriptorium, come si evince Codice di Lugano, cc. 56v-57r. Si osservi il cambio di mano nella c. 57r l. 11. guardia. Invece il cambio di mano è ravvisato in un appunto manoscritto incollato nel 1974 sulla stessa controguardia (su di esso riferisco nella descrizione tecnica). Kristeller, Iter italicum, cit., p. 121, si avvede del carattere semigotico della scrittura. 12 Su quanto dirò ora, vedere Ferrari, La “littera antiqua” à Milan, cit., e soprattutto Barbero, Manoscritti e scrittura in Lombardia, cit., che si sofferma anche sulle tecniche di scrittura e rigatura. 13 Da essa deriva la scrittura normalmente usata nella stampa di libri e giornali. Ricordo d’aver conosciuto, ai tempi della mia gioventù, un maestro tipografo che la chiamava ‘romana antica’. Per saperne di più: Giulio Battelli, Lezioni di paleografia, Città del Vaticano, Pontificia scuola vaticana di paleografia e diplomatica, 19493, pp. 245-254, oppure Bernhard Bischof, Paleografia latina. Antichità e medioevo, a c. di Gilda P. Mantovani e Stefano Zamponi, Padova, Antenore, 1992 (Medioevo e umanesimo, 81), pp. 336-340 e tav. 29-30. 14 Cioè a forma di H maiuscola larga con un terzo tratto verticale che si diparte verso il basso dal centro del tratto orizzontale. 15 Con rare eccezioni nella scrittura della prima mano, dove c’è qualche esempio di ‘e’ caudata, a meno che non si tratti di interventi del correttore: è il caso dell’incipit del libro vii, che do in trascrizione diplomatica (c. 39r ll. 3-4): «Si te dolor aliq(ui)s corporis aut i(n)firmitas valitudinis tuę tenuit quomin(us) ad ludos ve(n)ires fortu(n)ę mag(is) tribuo q(uam) sap(ient)ię tuę»; 28 dall’inchiostro, che non varia fra una parte e l’altra. La mano cambia alla c. 57r l. 11, ma sono della seconda mano le rubriche dell’intero codice. Per ‘scrittura umanistica lombarda’ si intende una scrittura usata a Milano e in Lombardia per i testi degli autori latini classici12. Essa era diversa dalla scrittura umanistica introdotta da Poggio Bracciolini e progressivamente irradiata da Firenze all’Italia intera; gli umanisti la chiamavano littera antiqua perché erano convinti che si trattasse della scrittura romana antica, anche se, in realtà, la leggevano su codici del ix-x secolo in scrittura carolina13. Caratteristici della littera antiqua fiorentina sono il tratteggio con la penna a punta sottile, l’impiego parco di segni abbreviativi, le forme rotonde e regolari, l’uso costante della scrittura capitale per le maiuscole, l’uso della ‘g’ a due anelli separati da un breve tratto curvilineo discendente, della ‘a’ onciale, della ‘r’ e della ‘d’ esclusivamente diritte, della ‘s’ diritta (ſ ) anche in fine di parola, del nesso ‘et’ in due lettere o legato (&), dei nessi ‘ct’ e ‘st’ legati, dei dittonghi ‘ae’ ed ‘oe’ o, in alternativa, della e caudata (ę). La scrittura umanistica lombarda, invece, conserva caratteristiche della scrittura gotica italiana detta littera textualis, più larga e tondeggiante di quelle d’oltr’Alpe, ma scritta a punta larga, con l’uso della ‘a’ rotonda (detta anche ‘chiusa’) accanto a quella onciale, con l’uso della ‘d’ onciale o rotonda (con asta inclinata all’indietro invece che verticale), con l’uso della ‘s’ rotonda specialmente in fine di parola, con l’uso dell’abbreviazione tironiana (⁊), con la persistenza della semplice ‘e’ in luogo dei dittonghi, con la ‘m’ finale a forma di 3. Nel codice luganese sono tratti caratteristici della littera antiqua: – nella scrittura della prima mano l’uso di ‘et’ legato; l’impiego esclusivo della ‘a’ onciale; – nella scrittura della seconda mano e nelle rubriche, l’uso di ‘et’ prevalentemente in due lettere distinte; l’uso della ‘m’ maiuscola di stile bizantino14 ; la bassa frequenza di segni abbreviativi. Per contro risentono della tradizione della littera textualis: – in tutto il testo la scrittura con penna a punta larga, ma con un’angolosità più marcata nella scrittura della seconda mano; l’uso di ‘g’ con il tratto inferiore aperto, non chiuso ad anello; l’uso di ‘e’ senza segni diacritici per i dittonghi ‘ae’ e ‘oe’15; la facile confondibilità delle lettere ‘c’ e ‘t’, il cui trattino verticale 29 nella scrittura della seconda mano le ‘e’ caudate sono frequenti in certe pagine, per esempio alla c. 103r, ma almeno in taluni casi si direbbe che l’inchiostro usato (nero o tendente al nero) sia diverso da quello del testo. 16 A p. 39. 17 Si tratterebbe di un pecten grande, tale da tracciare almeno una ventina di righe a intervalli regolari; purtroppo la rifilatura subita dal codice quando fu rilegato (cfr. infra) ha eliminato i fori lasciati dallo strumento. Specificamente sulla tecnica della rigatura vedere Maria Antonietta Casagrande Mazzoli, Foratura, rigatura e pectines in codici italiani tardomedioevali, «Aevum», 71 (1997), pp. 423-440, alle pp. 430 (fig. 1), 432-439; per la classificazione Albert Derolez, Codicologie des manuscrits en écriture humanistique sur parchemin, 2 vol., Turnhout, Brepols, 1984; sulla rigatura dei codici umanistici lombardi Barbero, Manoscritti e scrittura, cit. 18 Derolez, Codicologie des manuscrits, cit., i, pp. 65-83; Barbero, Manoscritti e scrittura, cit. 19 Barbero, Manoscritti e scrittura, cit., p. 161. Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone supera appena e spesso non supera affatto il trattino orizzontale; l’uso promiscuo di ‘r’ diritta e rotonda; l’uso promiscuo di ‘s’ diritta e rotonda; l’uso saltuario della ‘m’ finale in forma di 3 (sporadico nella seconda mano); l’uso di lettere maiuscole raramente in capitale. – nella scrittura della prima mano l’alta frequenza di segni abbreviativi; l’impiego saltuario della lettera ‘d’ onciale. – nella scrittura della seconda mano l’alternanza di ‘a’ onciale con ‘a’ rotonda; l’uso abbastanza frequente dell’abbreviazione tironiana per la congiunzione et, l’uso di capilettera non rigidamente in scrittura capitale, anzi, più spesso goticizzanti. Quelle elencate non sono le sole differenze fra le due mani. La più importante è d’ortografia: la prima mano è abbastanza rigorosa nella scrittura delle scempie e delle geminate, inoltre, quando non abbrevia, scrive «mihi» e «nihil»; la seconda mano scrive «michi» e «nichil» e non ha rigore ortografico. Si tratta di una spia rivelatrice dell’influenza o della non influenza di un mondo culturale. Su questo tornerò più avanti16. C’è anche una terza mano, che scrive nello stesso scriptorium, integra (per lo più in margine) le parti di testo saltate meccanicamente ed è autrice di alcune glosse. Anche questa mano presenta caratteri fortemente goticizzanti, in particolare la ‘g’ aperta in basso, la ‘d’ onciale, la ‘et’ tironiana e la ‘s’ rotonda. Vi sono infine note marginali o interlineari scritte con inchiostro nero e di epoche differenti. Quelle di mano più antica presentano ancora caratteristiche goticizzanti; distinguerle dalla mano del correttore principale è problematico. Il carattere lombardo del codice si vede anche dalla rigatura dei fogli e dall’impaginazione, con le righe verticali a piombo e le righe orizzontali a inchiostro bruno, tracciate a intervalli regolari, con ogni probabilità per mezzo di un pecten17. Il testo, inoltre, inizia below top line, sotto la prima riga dello specchio; insomma l’impaginazione è del tipo Derolez 11, in questo come in molti altri codici umanistici lombardi18. Questi caratteri arcaizzanti, come ha osservato acutamente Giliola Barbero, non sono il segno di una transizione lenta dalla scrittura gotica a quella umanistica, ma il contrassegno di un ambiente umanistico che aveva orizzonti propri. Ne trascrivo per esteso l’importante conclusione19. Anche se nel xx secolo l’Umanesimo è stato talvolta descritto da studiosi eminenti come un movimento culturale, esso non fu un’esperienza omogenea. [...] Anche nella cultura scritta la littera antiqua fiorentina non costituì uno standard universale in Italia e – confrontando queste scritture con quella di Guarino Veronese – perfino l’idea di una scrittura semitestuale ‘padana’ risulta troppo generica. A Milano, nell’ambiente specifico che abbiamo analizzato qui sopra, durante il secondo quarto del secolo xv, la littera antiqua coesistette con uno stile di scrittura textualis rinnovata che fu utilizzata per divulgare le nuove letture dei classici latini, soprattutto i testi retorici ciceroniani riscoperti a Lodi, la gloria milanese del momento. Questa scrittura risulta condivisa dal maestro del primo Umanesimo lombardo, Gasparino Barzizza, che gestì direttamente la circolazione del vetus Laudensis, assumendo un ruolo quasi simbolico relativamente a quella scoperta, e il cui legame con la tradizione petrarchesca fu forte e significativo. Questa scrittura ha molte forme in comune con quelle di Francesco Petrarca, il quale continuava a essere presente e vivo in Lombardia tramite la propria biblioteca. Per tutti questi motivi, allo stato attuale delle conoscenze, ritengo lecito ipotizzare che nella Lombardia del secondo quarto del Quattrocento, e soprattutto a Pavia e a Milano, la scrittura ibrida testimoniata dai codici analizzati in questo contributo non sia un proseguimento delle forme tradizionali avvenuto per forza d’inerzia, ma piuttosto il frutto di una scelta consapevole e costituisca un importante elemento distintivo rispetto alla littera antiqua fiorentina e alla cultura che essa stava prepotentemente veicolando. 20 Sabbadini, Manoscritti di Cicerone, cit., p. 81 n. 2. 21 Si sono espressi in tal senso Mirella Ferrari e Claudio Petoletti, in una comunicazione privata. 22 Si tratta del Codice Trivulziano 1360, oggi consultabile in facsimile: Stemmario Trivulziano, a cura di Carlo Maspoli, Milano, Niccolò Orsini De Marzo, 2000; lo stemma dei Della Croce si trova a p. 134; per la datazione del codice, da situare prudenzialmente fra il 1450 e il 1466, ivi, pp. 49-50. I blasoni bipartiti o con croce a punte circinate ascrivibili ai Della Croce, sono cinquecenteschi; è bipartito quello dei Della Croce di Riva San Vitale, risalente a Bernardino, che fu segretario del cardinale Alessandro Farnese (poi papa Paolo iii), in seguito, nel 1546, vescovo di Casale Monferrato, infine, nel 1548, vescovo di Como (notizie in GianAlfonso Oldelli, Dizionario storico ragionato degli uomini illustri del Canton Ticino, Lugano, Veladini, 1807 [ristampa anastatica, Bologna, Forni, 1988], pp. 78-81, e da Pablo Crivelli, Della Croce, Bernardino, in Dizionario storico della Svizzera, s.v. [2000]); da allora lo stemma dei Della Croce di Riva San Vitale è bipartito, con in capo i gigli farnesiani e in punta la croce a otto punte che conosciamo dallo Stemmario Trivulziano (lo assume erroneamente come blasone di tutta la famiglia Vittorio Spreti, s.v. Croce (Della), in Enciclopedia storico-nobiliare 30 Vedremo più avanti che il nostro codice, nella sua prima metà, riflette l’influenza culturale di Gasparino Barzizza e di suo figlio Guiniforte anche per certi aspetti filologici. Prima devo porre il problema dello stemma sul margine inferiore del frontespizio. Entro una cornice rossa, parte del fregio che contorna il testo in alto, a sinistra e in basso, è disegnata a inchiostro bruno una croce a otto punte circinate che sormonta tre rosette. Sabbadini riteneva che si trattasse di un blasone ascrivibile a un membro della famiglia Della Croce20. Credo che sia sbagliato, anche se al mio ‘no’ non ho un ‘sì’ da contrapporre. Innanzitutto il disegno appare posticcio, anche per la tonalità dell’inchiostro bruno, più chiara rispetto a quello usato per il testo21; inoltre il tratteggio appare frettoloso e maldestro. Inoltre, nello Stemmario Trivulziano, coevo del nostro codice, il blasone dei Della Croce di Milano non è bipartito e la croce ha le otto punte dritte, non circinate22. Forse in origine lo Codice di Lugano, c. 15r. Nelle ll. 21-22 è distinguibile l’integrazione ad opera del correttore antico. scudo raffigurato sul codice luganese era puramente decorativo, o forse era destinato a ospitare un blasone che poi non fu integrato. Di più non mi sento di dire. Occorre discutere brevemente anche la prova di penna della c. 70v, che nella scheda tecnica ho dato in trascrizione diplomatica. Qui ne ripropongo il testo ripulito dagli errori, con la mia interpretazione: “Omni vitio carere debet is qui in alterum dicere paratus est” Papis librarius Mediolanensis est mea sententia. (’“È tenuto ad essere moralmente ineccepibile chi è pronto ad accusare l’altro” secondo me è Papis, il libraio di Milano’). La frase è una citazione approssimativa dall’iscrizione «Carere debet omni vitio qui in alterum dicere paratus est», che si trova su un monumento milanese23. Essa è incisa sul suggestum raffigurato su un rilievo romano del i secolo d.C. che rappresenta la figura togata di un magistrato anonimo (la testa è d’epoca tardoantica, ma ciò per noi qui non conta). Il rilievo si trova in Corso Vittorio Emanuele, e il magistrato raffigurato è popolarmente noto, in dialetto, come Omm de preja e come sciur Carera24. Quest’ultima è un’evidente deformazione comica della prima parola dell’iscrizione, un nome per burla. La scrizione sul codice estende il nome burlato all’intera frase; è come se lo scrivente, ponendo mente al volto del sciur Carera, ravvisasse non so quale somiglianza con il Papis libraio, a noi totalmente ignoto. Sia come sia, la prova di penna è inimmaginabile al di fuori dell’ambiente milanese, perciò aveva ragione Remigio Sabbadini di inferirne un indizio della lunga permanenza a Milano del manoscritto, giunto a Lugano al più presto nel corso del Settecento25. Questo, tuttavia, non basta per confermare che il codice sia stato confezionato a Milano. Ciò, peraltro, è assai probabile, e certamente milanese è il mondo culturale in cui bisogna situarne lo scriptorium, ma l’assunto può essere dimostrato incrociando argomenti propriamente paleografici come il tipo di scrittura usato, la rigatura, la decorazione (molto limitata, nel caso nostro), con quanto insegna la storia della tradizione del testo. 32 italiana. Famiglie nobili e titolate viventi e riconosciute dal R. governo d’Italia, compresi città, comunità mense vescovili, abazie, parrocchie ed enti nobili e titolati riconosciuti, a cura di Id., ii: BE- D, Milano, Enciclopedia storico-nobiliare italiana, 1929, pp. 580-581). Invece la croce a punte circinate, ma entro uno stemma a un solo campo, si trova, per i Della Croce, nel codice di Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Cod.Icon. 270 (Italia, 1550-1555), c. 165r. 23 Questa, a sua volta, non è che il textus receptus in età umanistica di Pseudo-Cicerone, In Sallustium invectiva 8, 21, il cui testo in edizione critica, basata sui codici migliori, suona: «Carere decet omni vitio qui in alterum dicere parat» (’Sarebbe elegante che chi si appresta a inveire contro l’altro fosse moralmente ineccepibile’); l’ho letto in Pseudo-Salluste, Lettres à César. Invectives, a cura di Alfred Ernout, Paris, Les Belles Lettres, 1962 (Collection des universités de France), p. 61, e in Anna A. Novokhatko, The Invectives of Sallust and Cicero, Berlin - New York, de Gruyter, 2009, p. 188 r. 9. L’iscrizione milanese invece riflette il testo che è dato, per esempio, negli incunaboli curati da Pomponio Leto e stampati a Venezia, Bernardino Benaglio, 1493 (c. [g8]r); ivi, Cristoforo de’ Pensi, 1496 (c. tr). 24 Fotografia del monumento e indicazioni di didascalia in Donatella Caporusso, Maria Teresa Donati, Sara Masseroli e Thea Tibiletti, Immagini di Mediolanum. Archeologia e storia di Milano dal v secolo a.C. al v secolo d.C., Milano, Civiche Raccolte archeologiche e Numismatiche, 2007, p. 41 fig. 37. 25 Sabbadini, Manoscritti di Cicerone, cit., p. 81. 33 26 Il titolo è improprio, perché solo una piccola parte delle lettere, quelle dall’esilio al genero Dolabella (libro ix) e alla moglie Terenzia (libro x), nonché quelle al proprio liberto e segretario Marco Tullio Tirone (libro xvi), hanno per destinatari veri e propri familiari, e le Lettere ad Attico, che di Cicerone fu l’amico più stretto, costituiscono un corpus a sé stante. In tal senso aveva ragione Martin Schanz, Geschichte der römischen Litteratur bis zum Gesetzgebungswerkdes Kaisers Justinian, i: Die römische Litteratur in der Zeit der Republik, München, Beck, 1890, pp. 238-239, a distinguere fra «Generalkorrespondenz» e «Spezialkorrespondenzen». 27 Su cronologia e modalità della pubblicazione gli indizi certi sono estremamente scarsi. Uniche fonti sono Cic. Att. xvi, 5, 5 (del 9 luglio 44 a.C.) e Nepote xxv, 16, 3 (Vita di Tito Pomponio Attico). Dalla lettera di Cicerone sappiamo che l’autore aveva l’idea di pubblicare, un giorno, il proprio epistolario, non senza averlo minutamente riveduto e corretto. Ciò di fatto non avvenne, anzi, alla morte di Attico, avvenuta il 31 marzo 32 a.C. (Nep. xxv, 22, 3), le lettere a lui indirizzate erano ancora inedite. 28 Citazione di passi precisi in Sen. Epist. 97, 4 (è citato Cic. Att. i, 10, 7); 118, 1 (è citato Cic. Att. i, 12, 4); allusioni generiche in 118, 2 (ma con la menzione del fenerator Cecilio, zio materno di Tito Pomponio Attico, Seneca allude a Cic. Att. i, 1, 3-4; 12, 1); giudizio generale sul valore dell’opera in 21, 4 («Nomen Attici perire Ciceronis epistulae non sinunt»). 29 Gell. i, 22, 19 cita la frase «nam neque desse neque superesse rei publicae volo» (’ché non intendo né tradire lo stato repubblicano né sopravvivergli’) da Cic. Fam. x, 33, 5. Gellio indica il riferimento nel modo seguente: «ita enim scriptum est in libro epistularum M. Ciceronis ad L. Plancum et in epistula M. Asini Pollionis ad Ciceronem» (’così in effetti si trova scritto nel libro di Marco Cicerone a Lucio Planco [il x delle Ad familiares, appunto], e precisamente in una lettera di Marco Asinio Pollione a Cicerone’ [la 33, ultima del trittico 31-33]). 30 Generalmente si pensa all’età costantiniana, ma cfr. Paolo Gatti, Introduzione all’edizione critica citata nella nota seguente. 31 Nonio, pp. 83 r. 30 M. (Cic. Fam. ix, 20, 3 «ad Varronem C. Paeti»); 109 r. 16 (ii, 2 «ad Curionem»); 259 r. 24 (xv, 14, 5 «ad Cassium»); 264 r. 33 (xv, 4, 2 «ad M. Catonem»); 273 r. 31 (Fam. xv, 3, 2 «ad M. Catonem»); 274 r. 2 (xv, 2, 2 «ad senatum»); 278, r. 5 (xv, 16, 3 «ad Cassium liber i»); 291 r. 9 (xv, 16, 1 «ad Cassium»); 421 r. 33 (ix, 14, 5 «ad Dolabellam»). Impaginazione di riferimento è quella della Nonii Marcelli nova editio [...], [a cura di Josias Mercier], Parisiis, ex officina Hadriani Perier, 1614 (nello stesso anno anche: Sedani, sumptibus Hadriani Perier]. Nell’Ottocento l’edizione parigina fu ristampata in facsimile con il titolo: Nonius Marcellus, De proprietate sermonis [...], ex recensione et cum notis Iosiae Mercerii, Lipsiae, in bibliopolio Hahniano, 1826. L’edizione critica a cura di Wallace M. Lindsay, 3 vol., Leipzig, Teubner, 1903, ne riprende la numerazione per pagine e righi, ma con errori minimi che si ripercuotono sulle citazioni che si rifanno ad essa. Nuova edizione critica, ancora parziale: Nonio Marcello, De Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone 2. Tradizione del testo. Dall’antichità al ix secolo Le cosiddette Epistulae ad familiares di Cicerone26 furono pubblicate postume, forse qualche decennio dopo l’assassinio dell’autore, perpetrato nel 43 a.C.27 Si tratta di un corpus suddiviso in sedici libri, cioè, approssimativamente, in sedici rotoli di papiro. La più antica di queste lettere, scritta a Pompeo nel 62, è la settima del decimo libro (x, 7), la più recente, scritta al cesaricida Cassio nel 43, è la decima del dodicesimo libro (xii, 10). La fortuna dell’epistolario ciceroniano nella letteratura latina inizia a manifestarsi in età imperiale. Il primo a menzionarlo, ma limitatamente alle Lettere ad Attico, è Seneca nelle Lettere a Lucilio, dunque intorno al 60 d.C.28 ; in seguito le attestazioni, anche di missive non pervenuteci, si fanno numerose, ma solo a partire da Aulo Gellio (ii secolo d.C.) si trovano citazioni puntuali di lettere tramandate nel medioevo come Familiares o Epistolae familiares29. Dopo Gellio, il primo in cui si trovino riferimenti puntuali è il grammatico Nonio, il cui trattato De compendiosa doctrina è databile, sulla base dell’uso del latino, a cavaliere fra il iv e il v secolo30 , ed è comunque anteriore a Prisciano, che all’inizio del vi secolo lo cita. Vi si trovano nove citazioni delle Ad familiares, sempre con il nome dell’occasionale corrispondente31. Certo è, per quanto riguarda l’antichità, che l’intero carteggio ciceroniano fosse assai letto, ammirato e studiato. Ne troviamo attestazioni all’inizio del ii secolo d.C. in Tacito e Svetonio, fra il ii e il iii secolo in Frontone, nel iv secolo in Diomede e in Carisio, nel v secolo in Macrobio, fra il v e il vi secolo in Pompeo e Prisciano32. Va da sé che lo abbiano letto e studiato anche quei grandi epistolografi che furono Ambrogio, Gerolamo e Agostino, anche se mancano le citazioni dirette; tutti e tre, infatti, furono in vario modo affascinati da Cicerone33. L’epistolario ciceroniano, inizialmente tramandato su rotoli di papiro, nella tarda antichità fu trascritto su codici pergamenacei, in scrittura maiuscola e continua, cioè senza interruzioni fra una parola e l’altra. Di questo lavoro editoriale ci resta, per le Epistulae ad Familiares, un frammento palinsesto di Torino in scrittura onciale34 riferibile al vi secolo d.C., che contiene Fam. vi, 9, 1 - 10, 6 («hunc a puero [...] quid etiam polliceri»). Il codice medioevale più antico delle Ad familiares è invece il Mediceo Laurenziano 49, 9, del ix secolo, in una scrittura minuscola carolina ancora semicontinua; esso, come si evince dalle varianti testuali, apparteneva a una tradizione diversa e generalmente più autorevole rispetto al palinsesto torinese35. 3. Tradizione del testo Dalla riscoperta del codice Mediceo 49, 9 al codice luganese Il Mediceo 49, 9, siglato m nelle edizioni critiche, non è l’unico codice medioevale che tramandi le Ad familiares, ma è l’unico a tramandare l’intero corpus oggi a noi noto36. Fu scoperto nella Biblioteca Capitolare di Vercelli dal cancelliere visconteo Pasquino Capelli (o de’ Capelli), che su incarico di Coluccio Salutati, cancelliere di Firenze soggiornante pro tempore a Padova, vi aveva cercato un manoscritto delle Lettere ad Attico. Subito dopo la scoperta, nel 1392, Pasquino ne fece confezionare un apografo per Coluccio, ed è il codice in scrittura gotica corsiva conosciuto oggi come Mediceo Laurenziano 49, 7, siglato p nelle edizioni critiche. Serve all’editore critico perché occasionalmente sana guasti di m con felici congetture37; non solo: presenta varianti marginali 34 compendiosa doctrina, i: Libri I - III, a cura di Rosanna Mazzacane, con la collaborazione di Elisa Magioncalda; introduzione di Paolo Gatti; iii: Libri V-XX, a cura di Paolo Gatti e Emanuela Salvatori, Firenze, sismel - Edizioni del Galluzzo, 2014. 32 Rispettivamente Tac. Dial. 18, 5; Suet. Gramm. 14; 16; Iul. 9, 1; 49, 3; Aug. 3, 2; Tib. 7, 2; Front. Caes. 3, 15; Antonin. 3, 7-8; Diom. i p. 381 r. 26 Keil; Charis. i, 17 (p. 160 r. 18 Barwick). 33 Mi limito a ricordare il De officiis ministrorum di Ambrogio, che è una rivisitazione del De officiis ciceroniano, al punto da risultare utile per costituirne il testo critico; il «Ciceronianus es, non Christianus» rimproverato a Gerolamo (Hier. Epist. 22, 30); il fascino che esercitò sul giovane Agostino la lettura dell’Hortensius (Aug. Conf. iii, 4, 7). 34 Collocazione nello schedario cartaceo: A ii 2*. Sul palinsesto lo scritto più completo è l’articolo di Paul Krüger, Ciceroniana, «Hermes», 5 (1871), pp. 146-149. La scrittura onciale era sì maiuscola, ma presentava lettere che più tardi sarebbero state usate come minuscole, come la ‘a’ e la ‘d’. Dalla più antica e prestigiosa scrittura capitale, a sua volta distinguibile in forme stilisticamente differenti, deriva direttamente il nostro alfabeto maiuscolo. 35 Krüger, Ciceroniana, cit., pp. 147-149, seguito dagli editori successivi. 36 Gli altri sono, per i libri i-viii, i codici Harleiano 2773 (xii secolo), Parigino BnF lat. 17812 (xii secolo), più il fragmentum Hamburgense (xii secolo, tramanda solo v, 10a, 1); per i libri ix-xvi, i codici Harleiano 2682 (xi secolo), Berlinese lat. fol. 252 (xii-xiii secolo), Palatino 598 (xv secolo), Parigino 14761 (xv secolo), più il fragmentum Heilbronnense (forse del xii secolo). 37 Angelo Maria Bandini, Catalogus codicum Latinorum Bibliothecae Mediceae Laurentianae [...], ii, Florentiae, [s.n.], 1775, col. 464-465, lo indica come opera di mano di Francesco Certe, inquam, absolutus est – me †repraesentare† pronuntiatum est – et quidem omnibus ordinibus sed singulis in uno quoque ordine sententiis. “Ride modo” inquis. Non me hercules; nihil umquam enim tam praeter opinionem, tam quod videretur omnibus indignum, accidit. †repraesentare†] repraesentante p2 : ride Wesenberg] vide i ‘codices antiqui’. Dopo la dislocazione, invece, ecco che cosa si legge nei codici: Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone che difficilmente sono divinationes, ma sembrano risalire a un ramo perduto della tradizione manoscritta. Infine, presenta note marginali di mano di Coluccio Salutati e di Niccolò Niccoli, che ne fu l’ultimo proprietario prima che il codice passasse alla Biblioteca Laurenziana38. Oggi, per merito del Poliziano, il codice p si presenta con l’ordinamento corretto dei fascicoli e delle pagine. In origine però, anche a causa di un errore nella scrizione dei richiami, durante la legatura il fascicolo comprendente le cc. 115r-122v fu dislocato di due quaternioni. In tal modo Cic. Fam. viii, 2, 1 - 9, 3 («non me hercules [...] puto etiam si ullam spem»), che contiene, come il resto del libro viii, lettere di Marco Celio Rufo a Cicerone, venne a trovarsi inserito fra ix, 15 e ix, 16. Il libro viii risultò fortemente accorciato, il libro ix assai allungato. L’incipit corretto di viii, 2, 1 si presenta così39 : Certe, inquam, absolutus est (me †repraesentare† pronuntiatum est) et quidem omnibus ordinibus et singulis in uno quoque ordine sententiis. “Vide modo” inquis. [viii, 9, 3] mihi litteris ostenderis, me isto missurum alios. Angelo Poliziano si rese conto del guasto perché poté confrontare il textus receptus con la lezione di p e di m. Il grande umanista capì che i manoscritti derivati da p presentavano il medesimo disturbo del testo, e che lo stesso p era stato copiato da m. Ecco il testo polizianeo, che riporto per esteso nella sua parte più importante perché è una pagina di filologia metodologicamente esemplare40 : Petrarca, ma si tratta di un errore, perché Petrarca morì nel 1374, diciotto anni prima della scoperta vercellese di Pasquino Capelli. L’errore tuttavia si ripercuote nella presentazione del codice digitalizzato in teca.bmlonline.it e nel nuovo portale mss.bmlonline.it 38 Su tutto questo rimando all’eccellente edizione critica con traduzione italiana e commento di Marco Celio Rufo, Lettere (Cic. fam. l. VIII), a cura di Alberto Cavarzere, Brescia, Paideia, 1983 (Testi classici, 6), pp. 89-91. 39 Il testo latino corrisponde a quello stabilito da Håkan Sjögren (Lipsiae, in aedibus B.G. Teubneri, 1923-1925, 4 vol., nel vol. ii, 1924, p. 235); è l’edizione con l’apparato critico più probo e, a mio avviso, con il testo più convincente. 40 Angeli Politiani Miscellaneorum centuria prima, Firenze, Antonio Miscomini, 1489, c. 5r-v. 35 Nactus sum Ciceronis epistolarum familiarium volumen antiquissimum, de quo supra dixi, tum ex eo ipso alterum descriptum sicuti quidam putant Francisci Petrarchae manu; descriptum autem ex ipso liquet multis argumentis quae nunc omiserim. Sed hic posterior quem dixi codex ita est ab indiligente bibliopola conglutinatus uti una transposita paginarum decuria contra quam notata sit numeris depraehendatur. Est autem liber in publica gentis Medicae bibliotheca. Per cogliere appieno il valore di questo testo si consideri che con il suo ragionamento Angelo Poliziano precorse di quattro secoli il principio metodologico della eliminatio codicum descriptorum cioè dell’eliminazione, ai fini della costituzione del testo critico, dei codici copiati (descripti) da manoscritti esistenti42. Il Poliziano, insomma, pensava che i codici e le edizioni a stampa del suo 41 Politiani Miscellaneorum, cit., cap. 18, c. [d6]v: «[...] cum verior scriptura maneat adhuc in libro pervetere quondam doctissimi viri Philelphi, nunc Laurenti Medicis patroni litterarii simulque in libro altero de vetere (ut apparet) exscripto qui nunc in bibliotheca publica Medicae familiae» (‘ [...] però il testo più corretto si conserva in un libro antichissimo appartenuto in passato all’insigne umanista Filelfo, ora invece appartiene al patrono delle lettere Lorenzo de’ Medici; si conserva altresì nell’altro libro, copiato dall’antico (come risulta evidente) che ora sta nella biblioteca pubblica della famiglia Medici’). 42 Così Leighton D. Reynolds - Nigel G. Wilson, Copisti e filologi. La tradizione dei classici 36 De hoc itaque uno quantum coniciam cuncti plane quotquot extant adhuc epistolarum earundem codices ceu de fonte capiteque manarunt inque omnibus praeposterus et perversus lectionis ordo qui mihi nunc loco restituendus quasique instaurandus. [...] Igitur in libro octavo Caeli epistola ad Ciceronem sic incipit: «Certe, inquam, absolutus est! (me repraesentante pronuntiatum est) et quidem omnibus ordinibus et singulis in uno quoque ordine sententiis. “Vide modo” inquis», hucusque ordo nondum interpellatus. Quae autem statim sequuntur verba, «litteris ostenderis» et cetera, diversa prorsus a superioribus atque alterius epistolae invenias. Perge porro ab ea ipsa epistola deinceps numerare sequentis ad eam quae sit quarta et vigesima, cuius erit ita principium: «Non mehercules. Nihil unquam enim». Quae cum superiore continuatur, ut legas ita: «Certe, inquam, absolutus est! (me repraesentare pronuntiatum est) et quidem omnibus ordinibus et singulis in uno quoque genere sententiis. “Vide modo” inquis. Non me hercules! Nihil umquam enim» [...]. (’Mi sono imbattuto in un codice antichissimo delle Epistole familiari di Cicerone, quello di cui ho già detto in precedenza41, poi nell’altro, suo apografo, di mano – ritengono certuni – di Francesco Petrarca; che però quest’ultimo sia apografo dell’altro risulta da molti indizi certi, su cui ora preferisco sorvolare. Peraltro, questo codice seriore, appunto, fu legato da un libraio inaccurato in guisa tale che una decuria di pagine [scil. ‘due quinterni’, al caso ‘due quaternioni’] risulta spostata, come colta in flagrante, contro la numerazione data dei fascicoli. Il libro si trova nella biblioteca della famiglia Medici aperta al pubblico. Pertanto, a mia stima, sostanzialmente tutti i codici ancora superstiti del citato epistolario sono derivati da quest’unico codice come da un’unica fonte e sorgente, e in tutti si trova l’ordine delle frasi sovvertito e bislacco. Io ora devo rimetterlo a posto e, vorrei dire, rifarlo daccapo. [...] Dunque, nel libro ottavo una lettera di Celio a Cicerone così comincia: «’Come no?’ dico, ‘È stato assolto! La sentenza è stata pronunciata †me rappresentante†, e per giunta da tutti e tre gli ordini di giudici e con la maggioranza di un solo voto entro ciascun ordine! ‘Ma guarda un po’!’ dirai». Fin qui l’ordine non si presenta ancora interrotto. Le parole che seguono, invece, «mostrerai per lettera» eccetera, a leggerle le diresti incompatibili, da lì in poi, con il testo antecedente, e proprie di una lettera altra. Prosegui, partendo proprio da quella lettera lì, e conta le seguenti, fino alla ventiquattresima; inizierà così: «Eh no, corpo di Bacco! Mai niente, infatti...». Queste ultime parole sono la continuazione con la parte antecedente, cosicché nell’insieme si legge: «‘Come no?’ dico, ‘È stato assolto! La sentenza è stata pronunciata †me repraesentare†, e per giunta da tutti e tre gli ordini di giudici e con la maggioranza di un solo voto entro ciascun ordine!’ ‘Ma guarda un po’!’ dirai. Eh, no, corpo di Bacco! Mai niente, infatti...» [...]’) . Hic nichil deficit quod ab aliis habeatur, sed ea que per evidentissimum errorem sunt translata in librum sequentem et incorporata in epistolis ad Petum cum sint Celii ad hunc locum magis congruum sunt reducta. Deficit tamen principium epistole cuius ressiduum fragmentum hic subicitur. Suntque omnes he Celii quemadmodum et superiores eiusdem, valde incorrecte. Guinifortus Brazizius. (’Qui non manca nulla che sia attestato da altri codici. Invece le lettere che per un errore evidentissimo sono state spostate nel libro seguente (e incorporate nelle lettere a Peto, quando invece sono di Celio) sono state riportate in questo punto, più congruo. Manca tuttavia l’inizio della lettera di cui qui si presenta il frammento residuo. Eh sì, tutte queste lettere sono di Celio, esattamente come le precedenti! Grave errore! Guiniforte Barzizza’). dall’antichità al Rinascimento, traduzione di Mirella Ferrari, Padova, Antenore, 1969 (Medioevo e umanesimo, 7), pp. 126-127 e 148-151 (originale inglese: Scribes and Scholars. A Guide to the Transmission of Greek and Latin Literature, Oxford, Clarendon Press, 1968 [testo verificato alle pp.144 e 210-213 della 3a ed., ivi, 1974]). È ignoto quando M sia stato portato da Vercelli a Firenze, ma certamente prima del 1481, anno di morte del Filelfo. 43 La firma di Thomas Guarimbertus si trova nel colophon finale del codice. 44 La trascrizione non è diplomatica, ma è aderente all’ortografia dell’autore; la punteggiatura è moderna. La scrittura di Guiniforte Barzizza è umanistica (con la ‘g’ chiusa in basso alla maniera della littera antiqua) ma con elementi d’ascendenza gotica (per esempio la ‘d’ onciale). 45 Con ciò non escludo che ce ne siano altri. Non ho visto, perché ne ho avuto notizia troppo tardi, il manoscritto della Biblioteca Capitolare di Monza, cod. d-12/168, segnalatomi da Mirella Ferrari. Non sono riuscito a ottenere una riproduzione digitale del ms. x87.c4 della Columbia University di New York e del ms. lat. 83, datato del 1428, del Magdalen College di Oxford. La Bibliothèque nationale de France, per contro, mi ha sollecitamente inviato una nitida copia digitale in scala di grigi del suo manoscritto latino 8528, e a un prezzo assai contenuto; la menzione è doverosa, perché si tratta di un servizio eccellente per gli studiosi. 46 Élisabeth Pellegrin, Jeannine Fohlen, Colette Jeudy e Yves-François Riou (con la collaborazione di Adriana Marucchi), Les manuscrits classiques de la Bibliothèque Vaticane, i: 37 Per quanto ho potuto accertare, presentano le stesse caratteristiche, ma senza la nota marginale, tre codici45: – il nostro codice di Lugano d.2.e.18, alla c. 48v; – l’Ambrosiano a 235 inf., anch’esso in scrittura umanistica lombarda ma cartaceo, alla c. 87r; – il codice Vaticano Ottoboniano latino 1581, pergamenaceo, fortemente lacunoso, ma integro nel libro viii46 . Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone tempo non avessero valore perché copie di p inevitabilmente deteriores, e che anche p fosse di scarso valore perché copia di m, conservato integro. Un certo exploit, peraltro, era stato compiuto circa cinquant’anni prima a Milano da Guiniforte Barzizza che, senza disporre di m, per puro senso del testo si era reso conto che la seconda parte del carteggio con Celio non poteva stare nel ix libro e, faute de mieux, l’aveva spostata in calce al libro viii. Ne dà documento il codice oggi a Parigi, BnF Latin 8528, curato da Barzizza e materialmente copiato in una bella scrittura umanistica rotonda (o littera antiqua) da Thomas Guarimbertus per Alfonso d’Aragona43. In quel codice il libro viii si presenta come negli altri manoscritti discendenti da p, ma dopo l’explicit della lettera 17, l’ultima («et facile algere et esurire consuerunt»), nella pagina, alla c. 79v, si osserva un salto di cinque linee. Segue la parte della corrispondenza con Celio che ha per incipit «Non me hercules». Barzizza giustifica l’operazione con la seguente nota marginale, che firma44 : 38 Codice di Lugano, c. 48v. Il salto di cinque linee mostra la separazione fra l’explicit del libro viii e la parte qui ricollocata secondo l’indicazione di Guiniforte Barzizza nel codice Parigino lat. 8528. Nel margine inferiore, richiamo del tipo Derolez 1. Fonds Archivio San Pietro à Ottoboni, Paris, cnrf, 1975, pp. 689-690, che indica la sequenza viii, 1 - 2, 1; 9, 3 - 17; 2, 1 - 9, 3 alle cc. 41v-52v. 47 Con ciò metto in discussione, per l’Ambrosiano a 235 inf., la datazione suggerita dalle caratteristiche paleografiche e comunemente accettata, fra il 1420 e il 1440. 48 Su questi problemi cronologici ho consultato con molto profitto Massimo Zaggia, Copisti e committenti di codici a Milano nella prima metà del Quattrocento, «Libri e documenti», 21 (1995) f. 3, pp. 1-45, alle pp. 36-38 e nn. 196-198, un articolo risalente al tempo in cui la Biblioteca Ambrosiana era chiusa. 49 Ho letto quanto riporto qui in Barbero, Manoscritti e scrittura, cit. 50 Si tratta del Codex Laudensis, oggi perduto, ricostruibile attraverso i suoi apografi. 51 Verificato in Gasparini Pergamensis Orthographiae liber, [Parigi], [1470], passim. 52 Verificato ivi, cc. [16r], [26r]. 53 Verificato ivi, c. [32v]. 54 Ciò non sorprende: si legga Giuseppe Billanovich, Un esercizio di cultura umanistica in casa Barzizza, in Forme e vicende. Per Giovanni Pozzi, a cura di Ottavio Besomi, Giulia Gianella, Alessandro Martini e Guido Pedrojetta, Padova, Antenore, 1988 (Medioevoe e umanesimo, 72), pp. 67-73. 39 4. Il mondo culturale intorno allo scriptorium del codice di Lugano Guiniforte Barzizza curò un codice che per caratteristiche ortografiche non corrisponde alle norme codificate da suo padre Gasparino. Questi49 aveva iniziato la composizione del suo De orthographia nel 1416, ma poi lo aveva riveduto dopo il 1421, in seguito alla scoperta, nella Biblioteca Capitolare di Lodi, di un codice contenente l’Orator, il De oratore e il Brutus di Cicerone50. Ebbene, Gasparino Barzizza aveva stabilito tre principî fondamentali: – regole rigorose nell’uso delle geminate e delle scempie51; – che i dittonghi ‘ae’ ed ‘oe’ dovessero essere scritti o per esteso o con la ‘e’ caudata52 ; – che, nonostante la pronuncia del tempo, mihi e nihil dovessero essere scritti senza la ‘c’ davanti alla ‘h’ (non michi e nichil)53. Invece il codice Parigino lat. 8528 delle Ad familiares dimostra sì una certa cura nell’uso di geminate e scempie, però non distingue i dittonghi (segnati come ‘e’ semplici) e presenta le grafie michi e nichil. In questo il figlio Guiniforte si scosta dalla norma voluta dal padre Gasparino54. Nella prima parte del codice di Lugano, a parte la scrittura ibrida (in Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone Dunque, tutti e tre sono posteriori al codice della BnF lat. 852847. Ebbene, per il manoscritto parigino si può fissare un terminus post quem al 1432, tempo a cui risalgono i primi rapporti di Guiniforte Barzizza con Alfonso d’Aragona, e un terminus ante quem nel 1458, anno della morte di Alfonso. È probabile, tuttavia, che la confezione del codice sia da ascrivere al tempo della prigionia di Alfonso a Milano, nella seconda metà del 1435, oppure agli anni immediatamente successivi; nel 1440, infatti, Guiniforte affidò a Iñigo di Avalós codici da consegnare ad Alfonso, ormai a Napoli (dove sarebbe divenuto stabilmente re delle Due Sicilie nel 1443), ed è probabile che il codice delle Ad familiares vi fosse compreso48. Pertanto, sia per il codice Ambrosiano sia per la prima parte del luganese, converrà stimare il 1440 come terminus ante quem, perché è necessario che i due manoscritti siano stati descripti quando il codice Barzizza era ancora a Milano. La collazione, infatti, dimostra che i due codici in scrittura umanistica lombarda, pur molto simili, sono indipendenti l’uno dall’altro. Ne riparlerò nel capitolo finale. parte antiqua, in parte textualis), si può osservare un certo rigore ortografico e l’uso di mihi e nihil; i dittonghi, per contro, sono segnati come ‘e’ semplici. Anche da questo punto di vista le caratteristiche sono quelle osservabili nel codice Ambrosiano a 235 inf.55 Se ne può concludere che i due codici apografi — l’uno in tutto, l’altro in parte — si attengano alle norme di Gasparino Barzizza più che il loro antigrafo, curato da Guiniforte. L’uno e l’altro riflettono una cultura umanistica che a Milano si era affermata, anche se non aveva dato luogo a una prassi scrittoria d’uso generale. 5. Collazione del codice di Lugano (prima parte) con il Parigino lat. 8528 e con l’Ambrosiano a 235 inf. La concordanza in errore dei codici Parigino lat. 8528 (b), Ambrosiano a 235 inf. (a) e Luganese d.2.e.18 (l) contro il Mediceo Laurenziano 49, 9 (m) e il Mediceo Laurenziano 49, 7 (p) si può osservare spesso, anzi, come abbiamo visto, è dirimente nella sistemazione del libro viii. Può capitare però che b e i suoi apografi concordino con il codice Harleyano 2773 (g) e il codice Parigino lat. 17’812 (r), ambedue del xii secolo (e risalenti a un subarchetipo altomedioevale comune). Qui presenterò una selezione di due lettere: Fam. iii, 7 e vii, 2656. Ecco i passi che ci interessano. 55 Il codice Ambrosiano tuttavia presenta una spaziatura e un’interlinea larghe, quello di Lugano un’interlinea ridotta con 40 righe per pagina, ancora alla maniera gotica. 56 Nell’edizione Sjögren, cit., rispettivamente nei vol. i (1923), pp. 74-76, e ii (1924), pp. 224-225. 57 La precedente amministrazione di Appio Claudio, infatti, era stata dissanguante per la provincia; questo almeno è il giudizio che emerge soprattutto da Cic. Att. vi, 1, 2. 58 Cfr. Cic. Off. ii, 8, 26-31 (fonte Panezio); iii 22, 87-88 (fonte Atenodoro). 59 Cicerone afferma che l’urbanitas per gli Stoici è virtù pensando a paradossi come «all’anima del gentiluomo (ταῖς τῶν ἀστείων [...] ψυχαῖς) non sopravvengono passioni’ (SVF iii 465), dove appare evidente che l’ἀστεῖος (’urbano’ o ‘gentiluomo’) coincide con il σοφός (’sapiente’). Pertanto non condivido la sostanziale sospensione del giudizio da parte di Raffaella Tabacco 40 5.1 Cic. Fam. iii, 7 Si tratta di una lettera del 50 a.C., inviata da Cicerone ad Appio Claudio Pulcro, suo predecessore nel governo della Cilicia. Si tratta di uno scritto di dura contrapposizione politica, giocata però in punta di fioretto. Contro le pretese dei clientes di Appio Claudio, che speravano di poter proseguire nello sfruttamento della provincia57, e contro quelle del loro patronus (che li appoggiava), Cicerone fa valere i principî etici dello stoicismo di mezzo, che ebbe i suoi esponenti in Panezio, in Posidonio e, al tempo della lettera, in Atenodoro il Calvo; questi esortavano i detentori degli imperî a impedire le ingiustizie verso e fra i sudditi, e sono princìpi che Cicerone stesso avrebbe codificato nel suo ultimo trattato, il De officiis, del 4358. Alle pretese del nobile di sangue Appio Claudio, addirittura un patrizio, Cicerone oppone la virtù stoica; lui che era assurto sì al consolato, ma da homo novus (cioè, essendo privo di antenati consoli). Lui che non era romano di Roma, ma proveniva da Arpino, nell’attuale Ciociaria, chiamava urbanitas non l’appartenenza all’Urbe per lignaggio, ma ciò che gli Stoici chiamavano τὸ ἀστεῖον, cioè la signorilità che connota l’uomo di cultura; la prima, dal punto di vista stoico, è bene di fortuna, cioè moralmente indifferente, la seconda è virtù59. Dove Cicerone Par. 2 Legati Appiani mihi volumen a te plenum querelae iniquissimae reddiderunt quod eorum aedificationem litteris meis impedissem61. querelae iniquissimae] querelis iniquissimis a L’ablativo «querelis iniquissimis» di a è isolato rispetto al genitivo «querelae iniquissimae» di tutti gli altri codici. Il significato del testo non cambia, perché i costrutti di genitivo annominale e di ablativo strumentale con plenus sono concorrenziali; però si banalizza, perché l’ablativo fa perdere il doppio cretico. Per quel che importa a noi qui, l, che dà la lezione corretta, non dipende da a. Par. 5 Quaeso, etiamne tu has ineptias, homo mea sententia summa prudentia, multa etiam doctrina, plurimo rerum usu, addo urbanitatem, quae est virtus, ut Stoici rectissime putant? Ullam Appietatem aut Lentulitatem valere apud me plus quam ornamenta virtutis existimas? Cum ea consecutus nondum eram quae sunt hominum opinionibus amplissima, tamen vestra ista nomina numquam sum admiratus; viros eos qui ea vobis reliquissent magnos arbitrabar. Postea vero quam ita et cepi ed gessi maxima imperia, ut mihi nihil neque ad honorem neque ad gloriam adquirendum putarem, superiorem quidem numquam sed parem vobis me speravi esse factum. Nec mehercule aliter vidi existimare vel Cn. Pompeium, quem omnibus qui umquam fuerunt, vel P. Lentulum, quem mihi ipsi antepono. Tu, si aliter existimas, nihil errabis si paulo diligentius, ut quid sit ευγένεια [quid sit nobilitas] intellegas, Athenodorus Sandonis filius quid de his rebus dicat adtenderis. In questo passo, rispetto ad «adquirendam putarem» di mp (ma «acquirendam» p), lezione comune di bal è «adcquirendam deesse putavi» (ma «acquisulla possibilità di individuare precise fonti stoiche: vedi Epistole di Marco Tullio Cicerone, iv-v: Ad familiares, a cura di Giovanna Garbarino e Raffaella Tabacco, Torino, utet, 2008 (nel vol. iv, p. 560, n. 13); dico questo pur riconoscendo acribia e probità dell’edizione, della traduzione e del commento. 60 Doppiamente tali, perché vengono dalla città di Appia in Frigia e perché sono legati ad Appio Claudio 61 Non si sa di che provvedimento si tratti. 41 acquirendum putarem] adquirendam deesse putarem bal (ma acq- a) : quidem numquam] equidem numquam a : vobis me] me vobis bal : qui umquam fuerunt] qui nu(n)q(uam) fueru(n)t l: P. Lentulum] publium lentulum b (p. lent- a pu. lent- l) : diligentius ut quid sit εὐγένεια] diligentius quid sit excellentia b (ma ex- seguito da rasura b, corr. b2 ) diligentius quid sit existentia a (ma excelentia s.l. a 2 ) diligentius quid sit excellentia l: Athenodorus] et si athenodorus bl et si Anthenodorus a Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone bolla di querela iniquissima l’atteggiamento dei «legati Appiani»60 , usa un doppio cretico («querēlae ĭnīquīssĭmāe»), metro che connota parole scandite con gravità (è il giudizio morale del governatore in carica), seguito da un ditrocheo («rēddĭdērūnt»), che invece è di leggerezza asiana, intonato con la leggerezza morale degli ‘Appiani’ e, sottinteso, di Appio stesso. Par. 6 Sed ut ad rem redeam, me tibi non amicum modo verum etiam amicissimum existimes velim. Profecto omnibus meis officiis efficiam ut ita esse vere possis iudicare. Tu autem si id agis ut minus mea causa, dum ego absim, debere videaris quam ego tua laborarim, libero te ista cura: παρ’ ἔμοιγε καὶ ἄλοι οἵ κέ με τιμήσουσι, μάλιστα δὲ μητίετα Ζεύς. Si autem natura es φιλαίτιος, illud non perficies, quo minus tua causa velim; hoc adsequere, ut quam in partem tu accipies minus laborem. Haec ad te scripsi 62 È però «adquiro» la forma preferita da Gasparino Barzizza, De orthographia, cit., c. [5r]. 63 L’esempio più antico si trova in Simmaco, Epistolae 81 (lettera al praefectus urbi Costanzo), dunque nel iv secolo, ma ha le prime ricorrenze frequenti (52) nelle Epistolae di papa Gregorio i Magno (vi-vii secolo). 42 rendam» a); la variazione nel preverbio fra l’etimologico «ad-» e l’assimilato «ac-» è trascurabile; 62 nello stesso paragrafo b inverte meccanicamente «vobis me» in «me vobis», come accadeva spesso, e l’errore passa ad a e ad l. Inoltre bal divergono da mp con la lezione «etsi Athenodorus» invece che «Athenodorus», a tuttavia aggiunge un errore: «Anthenodorus» invece che «Athenodorus». I confronti più istruttivi sono però quelli che riguardano l’omissione di parole o frasi greche riportate più o meno correttamente da m e p, ma sostituite in b dal segno abbreviativo «·g·», che sta per «graecum»; in b questo segno abbreviativo è dello stesso corpo del testo e occupa lo spazio strettamente indispensabile: tre caratteri. Non così in a ed l, che tendono a lasciare spazi bianchi; quelli in a sono spesso angusti, in l sono più adeguati e talora, anzi, sovrabbondanti. Più raramente b, a ed l inseriscono traduzioni latine d’età umanistica, e anche in questo caso è utile valutare le varianti. Nel paragrafo che stiamo esaminando, ometto la discussione del testo greco, limitandomi alle sue traduzioni in latino. La nota marginale di m 2, «nobilitas εὐγένεια», è una glossa con la traduzione latina corretta. In p due mani successive, entrambe siglate convenzionalmente p2, appongono l’una la glossa supra lineam «bona generatio» (calco insoddisfacente dal punto di vista semantico), l’altra in margine «nobilitas eugenia», dove si vede che, a parte la traslitterazione della parola greca, è stata copiata la glossa marginale di m2. Nel testo di b ed l, invece, in luogo del greco si legge «excellentia», che è appellativo d’uso tardoantico, medioevale e moderno per gli alti dignitari63. In a, sempre in luogo del greco, si legge, nel testo originario, «existentia», strano per noi, ma che va inteso come sinonimo del nostro ‘eminenza’. Ebbene, in b «excellentia» è frutto di una correzione in rasura, cioè a dire, sono state raschiate e sovrascritte le lettere dopo «ex-»; se interpreto bene, b originariamente dava «existentia», come a, ma in un secondo tempo è stato corretto, e la correzione si riflette in l. Se è così, a è una copia di b cronologicamente prossima all’originale, l (o meglio, la sua prima parte) è una copia successiva, descripta prima che il codice Barzizza fosse portato a Napoli e consegnato ad Alfonso d’Aragona, cui era destinato fin dall’inizio. La datazione probabile del primo codice va situata fra il 1435 e il 1440; quella del secondo nello stesso intervallo d’anni, ma subito dopo il primo; la prima parte del codice luganese, per contro, verso la fine di quell’intervallo d’anni. videaris] videris mp videaris grbal : παρ’ ἔμοιγε [...] μητίετα Ζεύς p2] adsunt mihi et alii qui me honorabunt maxime autem consilii plenus Iupiter p2 l2 (spazio bianco in l) adsunt mihi et alii qui me orabunt [...] b adsunt etiam mihi alii qui me honorabunt [...] a : φιλαίτιος] querulosus φιλαίτιος p2 querulosus bal2 (spazio bianco l) Al par. 6 si trova una citazione omerica da Il. i, 174-175: «παρ’ ἔμοιγε καὶ ἄλοι / οἵ κέ με τιμήσουσι, μάλιστα δὲ μητίετα Ζεύς» (’io ho anche altri che mi onoreranno, e più di tutti il saggio Zeus’). Anche qui ometto la discussione del testo greco. In p le due mani siglate p2 annotano varianti marginali e versioni latine: una più antica, cancellata a penna da una mano posteriore, ha scritto in scrittura minuscola, oltre a un greco mal redatto, «penes me et alii qui me honorant maxime autem consultor Iupiter»; una più recente ha scritto un greco corretto e la resa latina «adsunt mihi et alii qui me honorabunt maxime autem consilii plenus Iupiter». b non riprende il testo greco, ma solo questa seconda versione latina, con un errore meccanico («orabunt» invece che «honorabunt»); a ripristina «honorabunt» ma inverte «et alii» con «alii etiam»; l’amanuense di l, infine, lasciò uno spazio bianco adeguato per un eventuale inserimento del greco, poi però la mano del correttore antico (l2) inserì senza errori la seconda versione latina di p2. Qualche cosa del genere si può osservare subito dopo, a proposito di φιλαίτιος (’recriminoso’). p2 annota a margine «querulosus φιλαίτιος». In b e a si legge «querulosus» entro il testo, in l invece c’era uno spazio bianco fra fine linea e l’inizio della linea successiva, successivamente riempito da l 2 : nella linea superiore con un trigramma illeggibile chiuso dal segno abbreviativo per «-us» finale, nella linea inferiore con «querulosus». Anche in questo caso è forte l’impressione che il curatore del codice intendesse inserire il greco, poi vi abbia rinunciato e, faute de mieux, si sia attenuto al testo risalente a p2. Par. 1 cicero s. d. gallo Cum decumum iam diem graviter ex intestinis laborarem neque iis qui mea opera uti volebant me probarem non valere quia febrim non haberem, fugi in Tusculanum, cum quidem biduum ita ieiunus fuissem ut ne aquam quidem gustarem. itaque confectus languore et fame magis tuum officium desideravi quam a te requiri putavi meum. ego autem quom omnis morbos reformido tum – 43 5.2 Cic. Fam. vii, 26 La seconda lettera qui proposta è utile a titolo complementare. Si tratta di un testo molto spiritoso in cui l’autore si diverte a giocare con il linguaggio medico, naturalmente greco. In questo caso in a ed l restano gli spazi bianchi, che in l sembrano più adeguati a ricevere gli inserimenti necessari; invece in b, loro antigrafo di lusso, destinato a un principe, la rinuncia a inserire il greco è assoluta. Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone liberius fretus conscientia officii mei benevolentiaque quam a me certo iudicio susceptam quoad tu voles conservabo. Codice di Lugano, cc. 101v-102r. Incipit del libro xvi. quod Epicurum tuum Stoici male accipiunt, quia dicat στραγουρικὰ καὶ δυσεντερικὰ πάθη sibi molesta esse; quorum alterum morbum edacitatis esse putant, alterum etiam turpioris intemperantiae – sane δυσεντερίαν pertimueram; sed visa est mihi vel loci mutatio vel animi etiam relaxatio vel ipsa fortasse iam senescentis morbi remissio profuisse. languore] langore bal : putavi meum] meum putavi a : quia dicat] quia dicant bal : στραγουρικὰ καὶ δυσεντερικὰ πάθη] ·g· b grecum in spazio bianco A spazio bianco l: δυσεντερίαν] ·g· b grecum in spazio bianco a spazio bianco l Par. 2 Ac tamen ne mirere unde hoc acciderit quo modove commiserim, lex sumptuaria quae videtur λιτότητα attulisse, ea mihi fraudi fuit. nam dum volunt isti lauti terra nata quae lege excepta sunt in honorem adducere, fungos helvellas herbas omnis ita condiunt ut nihil possit esse suavius. in eas cum incidissem in cena augurali apud Lentulum, tanta me διάρροια adripuit ut hodie primum videatur coepisse consistere. ita ego, qui me ostreis et murenis facile abstinebam, a beta et a malva deceptus sum. posthac igitur erimus cautiores. mirere] mirer bal : λιτότητα] ·g· b grecum in spazio bianco a spazio bianco abbondante l: dum volunt] cum volunt bal : helvellas] helvelas bal : διάρροια] ·g· b grecum in spazio bianco A spazio bianco l: et a malva] etiam et malva pl Par. 3 Tu tamen cum audisses ab Anicio (vidit enim me nauseantem) non modo mittendi causam iustam habuisti sed etiam visendi. ego hic cogito commorari quoad me reficiam, nam et viris et corpus amisi; sed si morbum depulero, facile, ut spero, illa revocabo. ab Anicio] ab initio bl ab Anitio a : non modo mittendi] non mittendi l: viris] vires pbal 5.3 Cic. Fam. ix, 22 Tutto cambia, nel codice luganese, dalla c. 57 l. 11 in poi. Già le prime parole scritte dal secondo amanuense rivelano che anche l’antigrafo non è più il medesimo. Riporto l’intera frase; la doppia barra verticale indica il punto del cambio di mano (par. 3): Socraten fidibus || docuit nobilissimus fidicen; is ‘Connus’ vocitatus est; num id obscaenum putas? nobilissimus fidicen is] nobilissimusfidicenis m nobilissimus fidicenis p (ma fidicenIs p2 ) nobilissimus fidicen is b nobilissimis (o nobilissinus) fidicinis l 46 Nei tre paragrafi si vedono esempi della reciproca indipendenza di a ed l: nel par. 1 l’inversione «meum putavi» è del solo a. Nel par. 3, invece, l è il solo a presentare la lezione erronea «non mittendi» invece della corretta «non modo mittendi». Ancora: il solo a torna sulla lezione corretta di mp «ab Anicio» (la sua variante «ab Anitio» è di scarso rilievo dal punto di vista paleografico). itaque non modo in comoediis res ipsa narratur, ut ille in Demiurgo: “modo forte...” [...]. Totus est sermo verbis tectus, re impudentior; sed etiam in tragoediis [...]. Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone Di Conno, maestro di musica di Socrate, parla Platone, Eutidèmo 272c e 295d. Cicerone gioca sul fatto che in latino connus o cunnus è parola molto volgare per dire ‘vulva’; non così il greco κόννος, che vale ‘ciondolo’ o ‘ninnolo’, e che può essere anche la barba. Cicerone, con tono serio-comico (σπουδαιογέλοιον), fa notare che non ha senso attribuire connotazioni oscene a parole greche somiglianti solo foneticamente a quelle latine. Nel testo, errore fondamentale è «fidicinis», derivante da un fraintendimento di scrittura continua che il subarchetipo m e il suo immediato apografo p permettono di verificare. In m, codice in scrittura carolina ancora semicontinua, si legge «nobilissimusfidicenis», separato in «nobilissimus fidicenis» in p; un correttore di p corregge la ‘i’ di «-is» in maiuscola, lasciando intendere, correttamente, che in quel punto non vadano soltanto separate le parole, ma si debbano distinguere due periodi sintatticamente differenti. È quanto fa b. Invece il nostro codice l, o il suo antigrafo, corregge «fidicenis» nel genitivo «fidicinis» (in modo plausibile, dal punto di vista strettamente paleografico), ma poi, nell’impossibilità di dare un senso alla frase, corregge anche «nobilissimus» in «nobilissimis», concordando l’aggettivo con il precedente «fidibus». Il cambio d’antigrafo qui si palesa. Non è così nella parte antecedente della stessa lettera, per esempio verso la fine del par. 1, dove Cicerone dice: in Demiurgo modo] indemiurgomodo m in demiurgomodo p in demiurgo modo p2 inde tu uirgo modo b uide tu uirgo modo l Qui l incorre nello stesso errore di b, aggiungendone uno in più per l’estrema somiglianza fra ‘in’ e ‘ui’ se non si trova il puntino sulla ‘i’. Se si lasciano da parte gli errori meccanici di l, puramente aggiuntivi rispetto a b, un’altra coincidenza in errore si trova poco più sotto, al par. 2: penicillus] peniculus bl La variante di b passata ad l, «peniculus» vale ‘spazzola’, perciò dà un senso altrettanto soddisfacente che «penicillus» (’pennello’) di mp. Insomma, fino al par. 3a, cioè fin che fu all’opera il primo amanuense, antigrafo fu il codice della BnF lat. 8528, scritto da Thomas Guarimbertus e curato da Guiniforte Barzizza. Dopo, dal par. 3b in poi, non più. 64 Bisogna pensare a mentula (cfr. Catullo 29, 13; 94, 1-2; 105, 1; 114, 1; 115, 1 e 8), vocabolo che Cicerone, per decentia, non usa mai. 47 Caudam antiqui ‘penem’ vocabant, ex quo est propter similidudinem ‘penicillus’; ad hodie penis est in obscenis. at vero Piso ille Frugi in Annalibus suis queritur adulescentis ‘peni deditos’ esse. quod tu in epistula appellas suo nomine, ille tectius penem; sed quia multi, factum est tam obscenum quam id verbum quo tu usus es64. 5.4 Cic. Fam. xvi, 5 Il cambio di antigrafo appare evidente anche nella lettera xvi, 5, che nel codice Mediceo 49, 9 (m) e in tutti i suoi apografi è quella d’apertura dell’ultimo libro65. Par. 1 tvllivs et cicero et q. q. tironi humanissimo et optimo s. p. d. Vide quanta sit in te suavitas. Duas horas Thyrrei fuimus. Xenomenes hospes tam te diligit quasi vixerit tecum. Is omnia pollicitus est quae tibi essent opus; facturum puto. Mihi placebat, si firmior esses, ut te Leucadem deportaret, ut ibi te plane confirmares. Videbis quid Curio, quid Lysoni, quid medico placeat. Volebam ad te Marionem remittere quem, cum meliuscule tibi esset, ad me mitteres; sed cogitavi unas litteras Marionem adferre posse, me autem crebras exspectare. suavitas] humanitas l : duas] duras mp duas p2bl : Thyrrei] thirrei ml thirei pb : Xenomenes] xenomones l : hospes tam] hospestam m hospectam p hospes tam p2bl : quasi] quasi ml quamsi m3 qua si p quam si p2 quam b : mihi] michi pb2l nichil b : ut ibi] ut ubi mp ut tibi b ut ibi p2 b2l : Lysoni] lisoni pl : placeat] placeat mp2b placebat p placebit l : mitteres] remitteres l Par. 2 Poteris igitur et facies, si me diligis, ut cotidie sit Acastus in portu. Multi erunt quibus recte litteras dare possis, qui ad me libenter perferant; equidem Patras euntem neminem praetermittam. Ego omnem spem tui diligenter curandi in 65 Questa è la sequenza: 5, 7, 1-4, 6, 8-9, 11-12, 10, 15, 14, 13, 16-27. 66 m1 indica le correzioni della stessa mano del copista, m 2 quelle di una mano successiva, ma anteriore a p, m3 quelle posteriori a p. 48 Nell’incipit si legge «quanta sit in te suavitas», che nel nostro codice diventa «quanta sit in te humanitas»; in b «svavitas» è in scrittura capitale, perciò l’errore non ha quell’origine; caso mai può essere indotto da «humanissimo» nell’indirizzo di saluto, oppure derivare da un ‘ſuauitas’, in lettere minuscole e con ‘s’ iniziale diritta, scambiato per ‘hūanitas’; solo una collazione più vasta potrebbe chiarire il problema. L’indipendenza di l da b risulta evidente, per contro, in «quasi vixerit». Lezione genuina dell’archetipo era «quasi», attestato anche dalla scrittura originaria di m; anche la lezione originaria di p è «qua si». Successivamente p2 espunge «ua» e segna l’abbreviazione di quam sulla ‘q’ e un trattino sovrascritto per ‘m’ è tracciato in m (per questo la mano è chiamata m3: poiché è posteriore a p2) 66. Orbene, b legge «q(uam)», come p2, ma omettendo «si», l invece legge «q(uas)i», riflettendo uno stato del testo più antico e, al caso, migliore. Che l’antigrafo della seconda mano di l riflettesse una lettura umanistica più antica, rispetto a b, del testo ciceroniano è confermato da un errore interessante: «placebit», derivato indirettamente dall’erroneo «placebat» di p. Invece p2 ripristina la lezione corretta «placeat». L’antigrafo di l fu copiato da p prima che questo fosse corretto; allo stato, non posso dire se a congetturare il futuro sia stato chi curò l’antigrafo o chi curò il codice luganese. Solo una collazione più vasta potrà gettare ulteriore luce. sit Acastus] sit acastus mp2b si ita captus p sit a castris l : perferant equidem] perfer ante quidem p perferant equidem p2bl : Patras] patratis m pa transeuntem p patras euntem p2 pertranseuntem bl : ei te totum trade] eitotum trade mp ei totum trade p2 ei totum tradere bl ei totum trade te l 2 : paulo post valentem] paulo valentem mpbl paulo post valentem m3l3 : nisi ut tu valeas] nisiuttua valeas mp nisi ut tu valeas p2bl : vii idus novembres] vii idus maii l. Quest’ultimo paragrafo non permette osservazioni importanti; è appena il caso di notare che il restauro di «post» fra «paulo» e «valentem» è comune a m3 e a un correttore in littera antiqua di l. La variante di l sulla data di spedizione deriva dal fraintendimento di un id. nou., scambiato per «id. maii». 6. 49 Conclusione Probabile data di composizione del codice e problemi ancora aperti Quanto si è potuto accertare fin qui permette comunque una prima conclusione: per il manoscritto di Lugano, il momento in cui il codice Barzizza fu portato a Napoli è il probabile terminus ante quem per quanto riguarda l’opera della prima mano e il probabile terminus post quem per quanto riguarda l’opera della seconda mano. Se Massimo Zaggia, come credo, ha ragione, esso va fissato al 1440. Deve indurre a cautela il fatto che la causa per il cambio di antigrafo potrebbe anche essere un’altra, a noi sconosciuta, e questo potrebbe anticipare, piuttosto che ritardare, la datazione del nostro codice. Comunque sia, per ragioni paleografiche il codice di Lugano va datato entro il secondo quarto del Quattrocento; la collazione permette una stima ancora più precisa, tra gli ultimi anni Trenta e i primi anni Quaranta di quel secolo. Rimane aperto il problema del secondo antigrafo. Per cercarlo occorrerà una collazione di tutti i codici di origine milanese o lombarda delle Ad familiares. Non servono, per contro, i manoscritti quattrocenteschi fiorentini della Laurenziana, che, come ho potuto verificare facilmente, appartengono a un altro ramo della famiglia di m e p rispetto al codice di Lugano. Dall’indagine condotta fin qui, e non ancora conclusa, emerge una linea milanese nella tradizione delle Ad familiares, in rapporto diretto con p, cioè con il codex descriptus nel 1392 dall’umanista visconteo Pasquino Capelli per Coluccio Salutati, oggi Mediceo Laurenziano 49, 7, apografo immediato di m, oggi Mediceo Laurenziano 49, 9, che è il codex antiquus in scrittura carolina scoperto dallo stesso Pasquino nella Biblioteca Capitolare di Vercelli. Di questa linea milanese il nostro codice è un testimone importante, anche se non fu confezionato per un principe né per una biblioteca principesca, e anche se oggi si trova in una sede periferica rispetto alle grandi biblioteche che custodiscono codici tardoantichi, medioevali e umanistici. Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Le “Ad familiares” di Cicerone Curio habeo. Nihil potest illo fieri humanius, nihil nostri amantius. Ei te totum trade. Malo te paulo post valentem quam statim imbecillum videre. Cura igitur nihil aliud nisi ut valeas; cetera ego curabo. Etiam atque etiam vale. Leucade proficiscens vii Id. Nov. Contributi Marco Sampietro ‘Nuovi’ esemplari a stampa della prima raccolta poetica del Parini * ** Nel 1752 veniva pubblicata la prima opera poetica di Giuseppe Parini (17291799), alias Ripano Eupilino1, che consentì al poeta ‘milanese’ di Bosisio, nonostante uno scarso riscontro di pubblico, il suo ingresso ufficiale nell’Accademia dei Trasformati assumendo in seguito lo pseudonimo arcadico di Darisbo Elidonio. Il libretto (che dovette molto probabilmente rappresentare il risultato di una cernita di più numerosi componimenti, come il titolo implicitamente rivela) è una raccolta di novantaquattro testi poetici, divisa in due parti: la prima sezione non ha titolo e contiene cinquantaquattro sonetti, per lo più di argomento religioso e amoroso; la seconda, intitolata Poesie Piacevoli (un genere corrente in Arcadia), comprende quaranta testi: trentatré sonetti, di cui diciannove caudati, di carattere burlesco e satirico, secondo la tradizione bernesca, tre capitoli in terza rima, un’epistola in endecasillabi sdruccioli, e infine tre egloghe, cosiddette ‘piscatorie’, in terza rima. Il tutto per un totale di ben duemilatrecento versi. 50 * Marco Sampietro è professore di latino e greco al Liceo “Alessandro Manzoni” di Lecco ed è cultore della materia in Letteratura latina e Storia della lingua latina presso l’Università Cattolica di Milano, dove si è laureato in lettere classiche. I suoi interessi di ricerca prevalenti vertono sulla storia locale della Valsassina, dell’Alto Lario e della Valtellina, incluso lo studio del libro antico in quell’area geografica. ** Desidero innanzitutto esprimere profonda gratitudine a Paolo Bartesaghi, William Spaggiari e Gianfranco Scotti per avere condiviso con me questa mia prima ricerca pariniana e per essermi stati prodighi di utili critiche e di suggerimenti preziosi. Un particolare ringraziamento va poi ai ‘custodi’ degli esemplari a stampa di questa raccolta di poesie del Parini per avermeli messi a disposizione con rara liberalità unitamente a preziose informazioni e competenti osservazioni che hanno agevolato e di gran lunga migliorato questo mio lavoro di ricerca: Marco Albertario (direttore dell’Accademia di belle arti Tadini, Lovere), Simonetta Santucci e Marco Petrolli (Biblioteca Museo Archivio Casa Carducci, Bologna), Pedro Nari (Bibliothèque de l’Université de Genève), Susan Halpert (Houghton Library Harvard University), Giuseppe Vanzella (Libreria antiquaria Vanzella, Treviso), e infine, ma non da ultimo, il bibliofilo Giancarlo Valera. Un grazie di cuore infine a Mirella Ferrari che non si è mai stancata di guidare con pazienza e illuminato rigore questa mia ricerca. 1 Ripano Eupilino è lo pseudonimo scelto da Parini per firmare la sua prima raccolta di poesie: ‘Eupilino’ è aggettivo che deriva da Eupili, nome latino del lago di Pusiano; ‘Ripano’, che probabilmente è anche aggettivo derivato dal latino ripa (’riva’), e indicherebbe l’abitazione del poeta sulle rive del Pusiano, è anagramma di ‘Parino’, il cognome originario della famiglia del poeta, da lui mutato in Parini. 51 Frontespizio dell’esemplare di Lovere, Accademia di belle arti Tadini, con il consenso dell’Accademia. Pubblicata grazie all’aiuto economico fornitogli da amici e conoscenti del suo ristretto entourage provinciale, in particolare dal canonico Candido Agudio di Malgrate2, questa prima opera pariniana dal titolo Alcune poesie di Ripano Eupilino è un volumetto uscito per i tipi chiaramente apocrifi di un improbabile stampatore, Giacomo Tomson, e con l’indicazione tipografica altrettanto improbabile di Londra3. A seguito degli studi di Callisto Caldelari che, sulla base dell’incisione (medaglione con il volto di Cristo) che orna il frontespizio del libretto pariniano, ha dimostrato l’origine ticinese della stampa4, sembrerebbe ormai accertato e pacificamente accettato dalla critica odierna5 che quest’opera giovanile del Parini sia proprio uscita dai torchi della storica tipografia dei fratelli Agnelli di Lugano, non già dai torchi milanesi di Giovan Battista Bianchi, come invece sostenuto dal Carducci6 e con lui da altri studiosi, tra cui Guido Mazzoni, curatore di una edizione benemerita che, sia pure uscita nel 1925, resta a tutt’oggi insostituibile sul piano di una maggiore completezza testuale delle opere del Parini7. 52 2 Carlo Antonio Vianello, Il canonico Agudio e il Parini, Como, Tipografia Editrice Ostinelli di Cesare Nani, 1930. 3 «Appresso C. Thompson» a Londra sono stati pubblicati nel 1786 anche i tre volumi del Nuovo progetto d’una riforma d’Italia di Carlo Antonio Pilati (cfr. Callisto Caldelari, Bibliografia luganese del Settecento. Le edizioni Agnelli di Lugano. Libri, periodici, Bellinzona, Casagrande, 1999, pp. 343-345). Per altre edizioni Agnelli pubblicate a Londra con falsa indicazione tipografica cfr. Ivi, p. 226, n. 173; p. 246, n. 200; p. 263, n. 224; p. 324, n. 285; pp. 340-344, n. 298; pp. 363-364, n. 325; sulle false edizioni luganesi in generale, cfr. Ivi, pp. 431-532, 567-572, 684-689. 4 «L’incisione che orna il frontespizio è identica ad altre che figurano su edizioni Agnelli» (Caldelari, Bibliografia luganese, cit., pp. 332-333). Cfr. inoltre Id., Bibliografia luganese del Settecento. Le edizioni Agnelli di Lugano. Fogli. Documenti. Cronologia, Bellinzona, Casagrande, 2002, p. 712; Id., Editoria e Illuminismo fra Lugano e Milano, Milano, Edizioni Sylvestre Bonnard, 2005, pp. 173-179. Il fregio, ascrivibile alla tipografia Agnelli, è pubblicato in Caldelari, Bibliografia luganese, cit., p. 521: lo troviamo sul frontespizio di un volume di Angelo Maria da Lugano stampato a Lugano nel 1752 (n. 8, pp. 74-75) e di un volume di Francesco Innocenzo Fileppi stampato a Lucca ma in realtà a Lugano nel 1757 (n. 158, p. 218). 5 Cfr. da ultimo Giuseppe Nicoletti, Parini, Roma, Salerno Editrice, 2015, p. 37. 6 Giosue Carducci, Studi su Giuseppe Parini. Il Parini minore, Bologna, Zanichelli, 1922, p. 4. Nel suo Parini principiante, apparso per la prima volta nella «Nuova Antologia», serie iii, fasc. lv (1 gennaio 1886) e ripreso ‘con emendazioni’ nel 1913 da Zanichelli nel vol. xiii delle Opere, Bologna 1889-1919 (in venti volumi) e nel 1937, con lo stesso titolo e lo stesso marchio editoriale, nel vol. xvi della ‘Edizione Nazionale delle Opere di Giosue Carducci’, Bologna 1937, pp. 1-51, nonché nell’edizione critica di ‘Alcune poesie di Ripano Eupilino’ a cura di Dante Isella (Milano, Fondazione Pietro Bembo – Parma, Guanda, 2006, pp. 179-218), il Carducci scrive: «Alcune poesie di Ripano Eupilino è un libretto in piccolo ottavo, pubblicato nel 1752. L’onomastico locale ricorda a tutti il Bell’Eupili mio, cioè il laghetto di Pusiano su le cui rive era nato un ventitre anni prima a’ 23 maggio del 1729, l’autore del Giorno: Ripano suona anagramma di Parino, come il poeta è cognominato in una raccolta di versi del ’53 e in lettere del ’54, e come è cognominato il padre di lui, messer Francesco Maria, nell’atto battesimale del figliolo. Questo immascheramento di nomi, e la data della stampa da Londra “presso Giacomo Tomson” (sic), quando il libro uscì in Milano dai torchi di Giovan Battista Bianchi, e l’assenza d’ogni Imprimatur ecclesiastico e regio, sveglierebbe, ripensando i tempi, qualche sospetto di contrabbando politico o religioso, se una dichiarazione non venisse nell’ultima facciata a rassicurarci, che tutte le espressioni le quali possano in quei versi suonar male a orecchi delicati devono recarsi alla libertà della poesia e non già ai sentimenti dell’autore, “che crede da buon cattolico, e in ogni luogo e tempo vuol essere figliuolo ubbidiente della Santa Chiesa”» (Studi su Giuseppe Parini. Il Parini minore nell’Edizione Nazionale, cit., xvi, pp. 3-4). 7 Giuseppe Parini, Tutte le opere edite ed inedite, raccolte da Guido Mazzoni, Firenze, Barbèra, 1925, p. 288. Per approfondimenti cfr. William Spaggiari, Parini e la scuola storica, in L’amabil rito. Società e cultura nella Milano di Parini, a cura di Gennaro Barbarisi, Carlo Descrizione bibliografica Prima di presentare le schede descrittive dei cinque nuovi esemplari, si fornisce qui di seguito una descrizione bibliografica generale dell’opuscolo pariniano al fine di comprendere la struttura dell’oggetto editoriale, indicando, in forma discorsiva, la collazione, la descrizione, nonché alcune note all’edizione12. Quanto al formato, il volume è in 8°, cioè il foglio di risma è stato piegato tre volte a formare 16 pagine. Le pagine sono in totale 130: le prime quattro e le ultime due non sono numerate; le altre sono numerate in cifre romane tra parentesi tonde poste al centro del margine bianco superiore (i-cxxiv). A queste 130 pagine in quasi tutti gli esemplari finora studiati è stata inserita tardivamente una carta numerata xx.ii-xx.iii con due sonetti (uno al recto, I’ Muojo, alfine, alfine o cruda Eumolpi, l’altro al verso, Lungo ‘l Sagrin mentre i pastor le gote), che però non tiene conto delle parole guida da pagina a pagina: il richiamo Pendi in calce a p. xx non trova, infatti, riscontro nell’incipit del sonetto successivo, ma solo in quello di p. xxi (Pendi mia cetra umil 53 Capra, Francesco Degrada, Fernando Mazzocca, Bologna, Cisalpino, 2000, pp. 693-727 (con ampia bibliografia). 8 Opere di Giuseppe Parini pubblicate ed illustrate da Francesco Reina, Milano, Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico, 1801, i, p. vi. Sul Reina cfr. Pietro Dettamanti, Francesco Reina: un patriota cisalpino amico di Stendhal, in «Archivi di Lecco», 1990, n. 4, pp. 298-334. Fondamentale resta, inoltre, lo studio di William Spaggiari, F. Reina editore del Parini (1998), in William Spaggiari, L’eremita degli Appennini. Leopardi e altri studi di primo Ottocento, Milano, Unicopli, 2000, pp. 133-172. 9 Cfr. Nicoletti, Parini, cit., p. 42, n. 10. Padre Francesco Antonio Zaccaria scriveva: «Di quanto diverso Soggetto sono alcune Poesie di Ripano Eupilino colla data di Londra uscite in Italia nel 1752!» (Storia letteraria d’Italia sotto la protezione del serenissimo Francesco III, Duca di Modena ec. ec. Volume VI, Dal Marzo 1752 al Settembre 1752, vi, Modena, Per gli Eredi di Bartolomeo Soliani, 1754, lib. i, cap. ii, p. 60); così pure le «Novelle della Repubblica letteraria» di Venezia (per il dì 6 del 1753). Ringrazio William Spaggiari e Paolo Bartesaghi per avermi gentilmente passato questa preziosa notizia. 10 Due esemplari, quello di Casa Carducci e quello di Lovere, sono citati in sbn. 11 Giuseppe Parini, Alcune poesie di Ripano Eupilino, a cura di Maria Cristina Albonico, introduzione di Anna Bellio, presentazione di Giorgio Baroni, Edizione Nazionale delle opere di Giuseppe Parini, Pisa-Roma, Serra, 2011, pp. 25-39. Gli esemplari della Biblioteca Nazionale Braidense, della Biblioteca Comunale Centrale di Milano, della Biblioteca Trivulziana e della Biblioteca Universitaria di Pisa sono citati in sbn; la Albonico cita in più i quattro esemplari dell’Ambrosiana, l’esemplare della Biblioteca Comunale di Como e un esemplare, incompleto, appartenente alla collezione privata di Giovanni Biancardi. 12 In questa descrizione bibliografica si è tenuto conto di Edoardo Barbieri, Guida al libro antico. Conoscere e descrivere il libro tipografico. Premessa di Luigi Balsamo, Firenze, Le Monnier Università, 2006, pp. 35-85. Fogli 38/2017 Contributi / Marco Sampietro, ‘Nuovi’ esemplari a stampa della prima raccolta poetica del Parini Non è questa la sede per disquisire sulla vexata quaestio del luogo di stampa, visto che già a ridosso dell’uscita dell’opera circolava la notizia che il volume fosse stato stampato ora a Lugano, come sosteneva nel 1801 Francesco Reina, primo editore del Parini nonché suo primo biografo8, ora a Milano, come riteneva, già nel 1754, il gesuita Francesco Antonio Zaccaria9. Scopo del presente contributo è quello di descrivere cinque ‘nuovi’ esemplari a stampa10 di questa prima opera poetica del Parini, da aggiungere ai dieci già presi in esame e studiati da Maria Cristina Albonico per la sua edizione critica di Alcune poesie di Ripano Eupilino apparsa nella prestigiosa Edizione Nazionale delle Opere di Giuseppe Parini (Pisa-Roma, Serra, 2011-), diretta da Giorgio Baroni11. da questo salce). Quando questa carta aggiunta si trova inserita tra la p. xx e la p. xxi e quindi in modo sequenziale, si parla di variante a; quando invece la carta si trova inserita tra la p. xxii e la p. xxiii, di variante b. A causa dell’inserimento della carta xx.ii-xx.iii, compare una brachetta tra la p. xxviii e la p. xxix negli esemplari di variante a, mentre negli esemplari di variante b, la brachetta sporge tra la p. xxvi e la p. xxvii13 . Allo stato attuale degli studi, la variante b risulta essere più rara della variante a: dei quindici esemplari finora reperiti, fatta eccezione per quello di Harvard che manca della carta xx.ii-xx.iii, appartengono alla variante a ben otto esemplari contro i sei della variante b. Nonostante l’inserimento di questa carta e quindi di questa variante, ci troviamo comunque di fronte ad un prodotto editoriale che è frutto di una sola edizione e di una sola emissione14. Per quanto riguarda la fascicolatura, il volume risulta formato dalle pagine liminari, quindi da otto fascicoli marcati da segnatura consistente in una lettera maiuscola seguita da cifra araba15, inserita da ultimo la carta con l’errata corrige. Tenendo conto dell’inserimento di una carta nel fascicolo b, ora dopo b2 (variante a), ora dopo b3 (variante b), e conteggiando le carte non numerate indicate con asterico tra quadre [*], la serie dei fascicoli risulta essere la seguente: [*]3 a8 b9 c-g8 h6 [*]1. Il carattere del testo è romano e corsivo. In calce ad ogni pagina sono segnate le parole di rinvio. Il frontespizio recita: «alcune || poesie || di || ripano || eupilino. || [fregio: medaglione con il volto di Cristo] || londra || [segno tipografico] || c i i cclii. || [linea di asterischi] || Presso Giacomo Tomson.» 13 Nel volume sono altresì presenti altre brachette, in particolare quelle che rispondono al frontespizio e all’errata corrige, che variano da esemplare a esemplare. 14 Sul concetto di edizione e di emissione cfr. Barbieri, Guida al libro antico, cit., pp. 115-127. 15 a, a 2, a3, a 4 ; b, b2, [b3], b4 ; c, c2, c3, c4 ; d, d2, d3, d4 ; e, e2, e3, e4 ; f (molto sbiadita), f2, f3, [f4]; g, g2, g3, g4 ; h, h 2, h3 .Tra parentesi quadre sono indicate le segnature di fatto non stampate. 16 Essa recita: «Tutte l’espressioni, che a qualunque orecchio più delicato possano suonar male, si attribuiscano alla libertà della Poesia sì Amorosa, che Satirica, Berniesca, o di qual altra specie essa sia, non già a’ sentimenti dell’animo dell’Autore, che crede da buon Cattolico, e in ogni luogo e tempo vuol essere Figliuolo ubbidiente della Santa Chiesa». 54 Per quanto riguarda infine le note all’edizione, si forniscono qui di seguito notizie sulla partizione dell’opera: dopo il frontespizio [*1] r seguono l’introduzione A’ leggitori ([*2] r-[*3] v), la prima sezione senza titolo con cinquantaquattro sonetti (pp. i-lii, compresa la carta aggiunta), la seconda sezione intitolata Poesie Piacevoli (pp. liii-lxxxxiii), Capitoli i (pp. lxxxxivlxxxxvii), ii (pp. lxxxxviii-cii), iii (pp. ciii-cvi), Pistola (cvii-cix), Egloga pescatoria Licone (pp. cx-cxiv), Egloga pescatoria Sebeto (pp. cxv-cxviii), Egloga pescatoria Nilalga, Alceo, Telgone (pp. cxix-cxxiv), l’errata corrige finale ([*] r) e la celebre dichiarazione conclusiva dell’autore ([*] v)16. Esemplare 2 Ubicazione: Harvard, University Houghton Library Collocazione: *IC 7 P2183 752a. Variante: manca la carta xx.ii-xx.iii Misure: 20 x 12,5 cm (legatura 20,5 x 13 cm) Legatura: legatura moderna marrone-verdastro marocco, con decorazioni dorate sui bordi interni e risguardi marmorizzati. Non sono presenti carte di guardia. Note storiche: già di proprietà di Giovanni Puccinelli Sannini18, come risulta dall’ex libris incollato sul risguardo marmorizzato del piatto anteriore19 , il volumetto entrò a far parte del patrimonio librario della Harvard University Houghton Library nel 195820 quando venne acquistato dal libraio antiquario di Milano, Carlo Alberto Chiesa21, grazie al lascito di Amy Lowell di Brookline, 55 17 Si tratta de «I nuovi goliardi: periodico mensuale di storia, letteratura, arte», i, fasc. 1-2 (feb.-mar. 1877), Firenze, Tip. dell’arte della stampa, 1877. Una copia, donata con dedica «dei cinque Goliardi» a G. Carducci, è conservata presso la Biblioteca Museo Archivio Casa Carducci, Bologna (collocazione: 5. a. V. 150). 18 Dovrebbe essere un collezionista e libraire a Roma tra il 1922 e il 1936 (cfr. Grand Palais. Salon du livre ancien. Paris, du 27 au 29 avril 2012, Saint-Jean-Pied-de-Port, Librairie ancienne Séverine Hervelin, 2012). Una sua lettera su carta intestata, datata 1934 e indirizzata a Giuseppe Gentili, è conservata alla Biblioteca Nazionale Centrale di Roma (Arc 21. 59/2). In rete esistono diversi volumi che riportano il suo ex libris. 19 L’ex libris rappresenta un cane collarinato che rimanda all’arme araldica della famiglia dei Puccinelli di Lucca (cfr. Giovanni Battista Di Crollalanza, Dizionario storico-blasonico delle famiglie nobili e notabili italiane estinte e fiorenti, ii, Sala Bolognese, Forni, 1986, p. 384). Il cognome Puccinelli risulta essere il 14° cognome per frequenza a Lucca e provincia e il cognome Sannini, assai meno numeroso di Sannino, si trova in Campania e a Roma (cfr. Enzo Caffarelli-Carla Marcato, I cognomi d’Italia. Dizionario storico ed etimologico, ii, Milano, Garzanti, 2008, pp. 1392, 1512). 20 Notizia gentilmente fornitami da Susan Halpert dell’Houghton Library Harvard University. 21 Libraio antiquario tra i più importanti del Novecento, Carlo Alberto Chiesa (1926-1998) è stato per molti anni un punto di riferimento non solo per bibliofili e collezionisti, ma anche Fogli 38/2017 Contributi / Marco Sampietro, ‘Nuovi’ esemplari a stampa della prima raccolta poetica del Parini Esemplare 1 Ubicazione: Bologna, Biblioteca Museo Archivio Casa Carducci Collocazione: 2. d. 294 Variante: b Misure: 19,5 x 12,5 cm Legatura: legatura in cartone. Sul dorso sono impressi i dati dell’edizione su tassello rosso ma senza nessuna etichetta o timbro. Non sono presenti carte di guardia. Note storiche: l’esemplare proviene dalla biblioteca personale di Giosuè Carducci che lo acquisì il 25 luglio 1865, come risulta da annotazioni manoscritte, in parte carducciane, riportate sul risguardo incollato al piatto anteriore. In alto a sinistra è indicata a penna la segnatura: «2.d.294». Un’altra mano ha scritto al centro: «Sono queste le Rime / giovanili dell’ab. / Giuseppe Parini / divenuto poi celeberrimo». Segue una nota manoscritta di Carducci: «Vedi articolo di Severino Ferrari / in I nuovi Goliardi (Firenze 1877) / pag. 51-61»17. In basso a destra altra annotazione carducciana: «Bologna 25 luglio 1865 / cent. 20 leg. ag. 1882 cent. 20 / Giosue Carducci». Sul frontespizio vi è in basso al centro un timbro rotondo con la scritta «Biblioteca Casa Carducci». Su molte pagine segni (sottolineature), interventi a matita verosimilmente di Carducci. come risulta dalla etichetta incollata sul risguardo marmorizzato: «harvard college / library / [stemma con il motto “veritas” ripetuto tre volte] / purchased with the / income of / the bequest of / amy lowell / of Brookline». L’esemplare, pesantemente rilegato, non conserva più le brachette originarie all’interno dei singoli fascicoli e manca della carta aggiunta. Presenta qua e là vicino ad alcuni versi delle linee tracciate a matita. L’esemplare, pur essendo incompleto, è la versione riprodotta nella risorsa elettronica a pagamento Eighteenth century collection online (consultabile nelle biblioteche che vi sono abbonate) 22. Esemplare 3 Ubicazione: Lovere (bg), Biblioteca dell’Accademia di belle arti Tadini Collocazione: o.vii.12 Variante: a Misure: 20,5 x 13 cm Legatura: legatura probabilmente originale in cartone floscio. Sul dorso è evidente l’ancoraggio dei fascicoli attraverso due corde. È presente solo una carta di guardia tra il risguardo e il frontespizio. Note storiche: il volume faceva parte della biblioteca del conte Luigi Tadini (1745-1829), ma in precedenza era di proprietà della famiglia loverese dei Gaja23, come risulta dalla doppia nota di possesso «Gaja» vergata a inchiostro bruno sul frontespizio ai lati del medaglione con il volto di Cristo. Il volume in oggetto è menzionato nei due cataloghi ottocenteschi della biblioteca Tadini e segnatamente nel Catalogo alfabetico nomenclativo degli Autori, opere dei quali esistono nella Biblioteca Tadini 24 e nel Catalogo delle opere esistenti nella Biblioteca Tadini25. Sul dorso della coperta una mano settecentesca ha riportato in alto una scritta a 56 per gli storici del libro e i filologi più illustri. Cfr. Carlo Alberto Chiesa, ‘Un mestiere semplice’. Ricordi di un libraio antiquario: per i novant’anni di Gianni Antonini, Milano, Officina libraria, 2016. 22 Questa versione elettronica è consultabile nelle seguenti biblioteche svizzere: Ginevra, Neuchâtel, Friburgo, Berna e Basilea (cfr. swissbib.ch). È possibile altresì consultarla, exempli gratia, anche nelle seguenti biblioteche: Universitätsbibliothek Eichstätt - Zentralbibliothek und Teilbibliotheken in Eichstätt (Sigel: 824); Universitätsbibliothek Bayreuth (Sigel: 703); Landesbibliothek Coburg (Sigel: 70); Universitätsbibliothek Bamberg (Sigel: 473); Universitätsbibliothek Augsburg (Sigel: 384); Bibliothek der Ludwig-Maximilians-Universität München (Sigel: 19); Bayerische Staatsbibliothek München (Sigel: 12); Universitätsbibliothek ErlangenNürnberg - Hauptbibliothek (Sigel: 29); Staatliche Bibliothek Regensburg (Sigel: 155); Universitätsbibliothek Regensburg (Sigel: 355). 23 Sui De Gaja di Lovere cfr. Giovanni Conti, Cronologia di Lovere. Particolarità notabili e sue vicende. Compilate ed accresciute da Conti Prete Giovanni nell’anno MDCCCXL dietro la scorta degli antichi manoscritti del M.R. Sig. D. Rusticiano Barboglio fu già Parroco di Lovere, a cura di Giovanni Silini e Vincenzo Mosca, [Clusone], Ferrari, 2002, p. 102. La famiglia donò un bellissimo ostensorio d’argento alla chiesa di Lovere: cfr. Adriano Peroni, L’oreficeria dei secoli XV e XVI, in Storia di Brescia, iii, Brescia, Morcelliana, 1964, p. 751, n. 2; Nel lume del Rinascimento. Dipinti, sculture ed oggetti dalla Diocesi di Brescia, catalogo della mostra (Brescia, Museo Diocesano), Brescia, Museo Diocesano, 1997, pp. 89-90. 24 Direzione dell’Accademia Tadini, registro senza segnatura, manoscritto, sec. xix, s.v. EU: «(i il cognome, ed il nome dell’Autore) Eupilino Ripano, (ii il titolo dell’opera) Poesie, (iii il luogo, ove è seguita l’Edizione) Londra, (iv l’anno dell’edizione) 1752, (v il nome, ed il cognome dell’editore), manca, (vi la scansia ove trovasi l’Autore) 0 (vii la casella nella scansia) 6». 25 Direzione dell’Accademia Tadini, registro senza segnatura, manoscritto, sec. xix, s.v. Poeti d’ogni genere. Poeti Seri a tutto il 1700 in più: «(i il cognome e nome dell’Autore) Eupilino Rip., (ii il titolo dell’opera) Poesie, (iii il luogo, ove seguita l’edizione) Londra, (iv l’anno dell’edizione ) 1752, (v il nome, ed il cognome dell’editore) Giac. Tomson, (vi la scansia in cui trovasi l’opera) 0 (vii la casella nella scansia medesima) 6». Esemplare 4 Ubicazione: Treviso, Libreria antiquaria Vanzella Variante: b Misure: 20,8 x 13,8 cm Legatura: cartonato alla rustica con dorso in cuoio in parte avulso. È presente solo una carta di guardia tra il risguardo e il frontespizio. Note storiche: sul risguardo incollato al piatto anteriore è vergata a inchiostro bruno una nota di possesso: «D. Duini» o «D. Puini», non altrimenti noto. Sul frontespizio, a completamento del titolo, sono riportate le seguenti note a matita: una mano, del sec. xx, ha scritto: «e traduzioni dal Greco e dal Latino»; un’altra mano, sempre del sec. xx, ha scritto: «ossia Giuseppe Parini che sotto al suddetto nome egli / pubblicò per / la prima volta un / tal lavoro / avendo 23 anni / V(edi) tutto il volume 13° / delle opere di Carducci». L’esemplare è completo. 57 Esemplare 5 Ubicazione: Collezione privata milanese Variante: b Misure: 20 x 12,7 cm Legatura: legatura originale in cartone floscio. Sui piatti è evidente l’ancoraggio dei fascicoli. Non sono presenti carte di guardia. Note storiche: l’esemplare appartiene alla collezione privata del bibliofilo Giancarlo Valera che lo acquistò nel 2014 sul mercato antiquario. Sul risguardo incollato al piatto posteriore è riportata a matita la collazione dell’esemplare: «3cc, 124 pp, 1c / 1c tra le pp. 22/23 / [parini]». L’esemplare è in un buono stato di conservazione. Non vi sono timbri né alcuna postilla o annotazione. Fogli 38/2017 Contributi / Marco Sampietro, ‘Nuovi’ esemplari a stampa della prima raccolta poetica del Parini inchiostro: «Ripano / Eupilino»; in basso è incollata una etichetta otto-novecentesca con l’indicazione della precedente segnatura: «2162». Sul recto del primo foglio di guardia è indicata a matita in alto a destra l’attuale segnatura: «o vii 12». L’ultima pagina reca in basso a destra in matita il numero dell’inventario: «n. inv. 2038». L’esemplare è in un buono stato di conservazione. Non vi sono timbri della biblioteca e non presenta alcuna postilla o annotazione. Giova ricordare che presso la Biblioteca Tadini sono conservate altre due edizioni delle opere del Parini e precisamente: Odi dell’abate Giuseppe Parini già divolgate, Milano 1791, Nella Stamperia di Giuseppe Marelli, Con approvazione (collocazione: o.iii.1); i sei volumi delle Opere di Giuseppe Parini pubblicate ed illustrate da Francesco Reina, Milano, Presso la Stamperia e Fonderia del Genio Tipografico, 1801-1804 (collocazione: o.vii.13, 1-6). Le Odi non presentano note di possesso, mentre l’edizione del Reina apparteneva al Tadini come risulta dalla firma «Tadini» sulla coperta anteriore del quarto volume. Contributi Mauro Jöhri I Cappuccini fra storia e nuove sfide * ** * Fra Mauro Jöhri, di Bivio (Grigioni), dal 2006 è Ministro generale dell’Ordine dei Frati minori cappuccini. ** Si pubblica qui il testo della conferenza tenuta il 21 settembre 2016 da fra Mauro alla Biblioteca Salita dei Frati nell’ambito dell’attività culturale sulla storia del francescanesimo. 1 Sono le sigle che contraddistinguono i tre Ordini francescani: ofm sta Ordo Fratrum Minorum (sono i frati dell’Osservanza), ofmConv sta per Ordo Fratrum Minorum Conventualium, ofmCap sta per Ordo Fratrum Minorum Cappuccinorum. 58 In questo contributo intendo parlare brevemente del passato, del presente e delle sfide cui l’Ordine dei Cappuccini è chiamato a far fronte in questo preciso momento storico. Il nostro fondatore è certamente San Francesco di Assisi. Noi siamo sorti a due secoli di distanza, poco dopo il tentativo avvenuto sotto Papa Leone x di unificare le varie correnti esistenti nel Francescanesimo, ancora agli inizi del Cinquecento. Nel 1517 infatti venne promulgata una Bolla, dal titolo Ite vos, che doveva segnare la riunificazione dell’Ordine sotto un solo Ministro generale. Tale data segnò invece l’inizio della divisione definiva tra i frati dell’Osservanza e i frati Conventuali. Noi Cappuccini siamo sorti pochi anni dopo quella Bolla. Prima di entrare nel merito, mi fa piacere ricordare un aneddoto di qualche anno fa. Papa Francesco venne per la prima volta ad Assisi il 4 ottobre del 2013 e, incontrando i vari Ministri degli Ordini francescani presso la tomba di San Francesco, esclamò: «Ma allora esiste anche un ecumenismo francescano?» E poi aggiunse: «Rimanete uniti!». Oggi esiste una bella collaborazione tra i tre Ordini (ofm, ofmConv, ofmCap)1 e stiamo lavorando per un avvicinamento progressivo. Ma torniamo alla storia! Otto anni dopo la Bolla di cui sopra, un frate osservante delle Marche, frate Matteo da Bascio, lasciò il convento; semplificò il saio, dotandolo di un cappuccio un po’ più grande di quello abituale, e si mise a percorrere le borgate predicando alla gente sulle piazze. I suoi superiori si allarmarono e lo fecero incarcerare. Intervenne a suo favore, presso Papa Clemente vii, la 59 2 I Camaldolesi sono una suddivisione dell’ordine benedettino, a sua volta distinta in due congregazioni, una dedita alla vita eremitica, l’altra dedita alla vita cenobitica; prendono il nome da Camaldoli, in provincia di Arezzo, nell’Appennino Tosco-romagnolo, dove il ravennate Romualdo fondò intorno al 1012 dapprima un eremo poi, tre km. più a valle, un cenobio. 3 Fu il quarto della Provincia religiosa di Milano e il primo in territorio elvetico. Fogli 38/2017 Contributi / Mauro Jöhri, I Cappuccini fra storia e nuove sfide contessa di Camerino, Caterina Cybo, ottenendo che venisse scarcerato. Fu allora che si unirono a lui i due fratelli Tenaglia, Ludovico e Raffaele, anche loro marchigiani. Il loro ideale era quello di un ritorno stretto alla Regola di San Francesco e scelsero, come luoghi di vita, degli eremi abbandonati. Anch’essi vennero perseguitati dai loro superiori del tempo ed andarono per questo a rifugiarsi dai Camaldolesi2. Comunque, già nel 1528, su intervento sempre della contessa di Camerino, ottennero da Clemente vii la bolla Religionis zelus, che praticamente sanciva la loro indipendenza dai frati dell’Osservanza. Si erano distinti in particolare per la cura prestata agli appestati e agli incurabili in genere. Le loro fila si infoltirono velocemente, e si moltiplicarono per questo anche gli eremi da loro occupati. Non per nulla in un primo tempo li chiamarono ‘Frati della vita eremitica’. Nel 1529 decisero di precisare il loro proposito di vita e stesero quelle che conosciamo come Le Ordinazioni di Albacina. Volevano vivere una vita ritirata e di penitenza. Le celle dove abitavano dovevano sembrare piuttosto dei sepolcri che luoghi di abitazione. Ci si preparava quotidianamente alla morte! Ludovico venne eletto quale Vicario del nuovo Ordine. A Roma si distinsero in particolar modo nella cura degli appestati. Potevano avvalersi dell’appoggio di un’altra influente signora di quel tempo, Vittoria Colonna. Prima di proseguire nella descrizione, ritengo opportuno soffermarmi un momento a considerare il contesto in cui tutto ciò avvenne. Siamo nella prima metà del Cinquecento, un secolo effervescente, ricco di colpi di scena e segnato da un gran desiderio di rinnovamento. Pensate semplicemente a Martin Lutero e alla Riforma Protestante! Accanto ai Cappuccini stavano sorgendo altri Ordini di rilievo; mi riferisco in particolare alla Compagnia di Gesù, cioè ai Gesuiti. I papi dell’epoca, in particolare Leone x e Clemente vii, entrambi della famiglia de’ Medici di Firenze, erano preoccupati più delle sorti della loro città che non della riforma della Chiesa. Comunque fu proprio uno di loro a permettere ai primi Cappuccini di diventare autonomi. Nel 1535 – l’anno in cui fu fondato il convento del Bigorio3 – venne convocato a Roma il primo Capitolo generale. Ludovico da Fossombrone venne sostituito da Bernardino d’Asti. Ludovico non gradì il fatto e lasciò l’Ordine. L’anno seguente i frati si riunirono una seconda volta a Capitolo e stilarono in poco tempo le prime Costituzioni dell’Ordine, un testo che rimase pressoché inalterato fino ai tempi del Concilio Vaticano ii. Si stavano preparando tempi burrascosi! In quegli anni entrò nell’Ordine frate Bernardino Ochino da Siena, un brillante predicatore, conosciuto in tutta Italia. Nel 1542 venne eletto Ministro generale dell’Ordine al posto di Bernardino d’Asti. Essendo vicino idealmente alle correnti che anche in Italia proponevano con insistenza una 60 riforma della Chiesa, venne sospettato di eresia. Stava predicando nel nord e lo citarono a Roma. Temendo di doversi sottoporre all’Inquisizione, con tutte le conseguenze nefaste del caso, preferì prendere la strada del nord. Si recò a Ginevra da Calvino e, in seguito, lo troviamo a Zurigo quale cappellano delle famiglie locarnesi passate alla riforma. Di fronte a questo fatto, il Papa del tempo, Paolo iii, era deciso a sospendere l’Ordine da poco sorto. Di fatto, i frati continuavano a distinguersi per la loro cura disinteressata degli appestati, godendo della stima di molti. A Roma, per altro, ci fu la figura di un frate questuante che tutti reputavano un santo, frate Felice da Cantalice. Tutto ciò concorse al fatto che l’Ordine non venne soppresso, ma gli venne comminata la proibizione di oltrepassare le Alpi. Una trentina di anni più tardi, grazie all’intervento del Cardinale di Milano, Carlo Borromeo, il divieto venne tolto e così l’Ordine poté espandersi velocemente in tutta Europa. Nel 1581 i frati arrivarono ad Altdorf. Nel Seicento, grazie soprattutto all’opera di frate Lorenzo da Brindisi, aprirono un convento a Praga. Godevano della stima tanto dei nobili che delle frange più povere di quei tempi. Non per nulla la Casa d’Austria volle che i membri della famiglia imperiale venissero sepolti sotto il convento dei Cappuccini, in quella che è conosciuta ancor oggi come la Kapuzinergruft. Il Seicento, come pure il secolo seguente, vide la partenza dei frati per l’Africa, in particolare per le regioni attuali del Congo e dell’Angola, e poi anche per il Tibet. Il clima e le malattie tropicali erano motivo di morte prematura, ma questo non fu di impedimento all’invio di nuovi gruppi di frati. Nel Settecento l’Ordine raggiunse la sua espansione numerica massima, con oltre 37’000 membri. Lo stesso secolo segnò tuttavia anche la sua drastica diminuzione, sia per il massiccio intervento dell’imperatore Giuseppe ii, sia, sul finire del secolo, per la Rivoluzione francese e le numerose soppressioni di conventi, che perdurarono fino agli inizi del Novecento. Spesso i frati dovettero abbandonare i loro conventi e partire per paesi lontani, come la Mesopotamia, dandosi da fare per riuscire a rendersi utili e guadagnarsi di che vivere. Così in mezzo alle popolazioni di fede islamica si industriarono anche a fare i medici, consentendo loro di sopravvivere. Questo mi permette di far notare che l’Ordine non ha mai avuto un tipo di opere che lo contraddistinguesse in particolare. Pensate ai Gesuiti con le università, ai Salesiani con il lavoro giovanile, ai Camilliani con gli ospedali. Sta di fatto che incontrando un bisogno urgente al quale nessuno faceva fronte, i Cappuccini si misero pure a fondare Università; prova ne è l’università di Pasto in Colombia, una zona periferica ai confini con l’Ecuador. Ciò che le varie soppressioni non riuscirono a fare, cioè ridurre considerevolmente la presenza dei frati cappuccini fino alla loro sparizione, oggi praticamente sta avvenendo con il diffondersi della secolarizzazione. Un profondo cambiamento di mentalità, il benessere e uno stile di vita improntato al provvisorio, stanno minando le basi della vita consacrata alla radice. Chi si sente ancora di impegnarsi per tutta una vita? Si assiste ad una diminuzione senza precedenti del numero dei frati e delle loro presenze in Europa. Anche la chiusura del Convento di Lugano è dovuta Fogli 38/2017 Contributi / Mauro Jöhri, I Cappuccini fra storia e nuove sfide a questo fatto. La mancanza di vocazioni sta portando a questo fenomeno che tocca praticamente larghi settori sia della vita consacrata, sia dell’appartenenza alle Chiese, nei paesi dell’Europa e dell’America del nord. Oggi la sfida consiste nel salvaguardare alcuni luoghi significativi in Europa, accettando la scomparsa di molte strutture e presenze a cui altre faranno seguito. È corretto segnalare, tuttavia, che la diminuzione è in progressivo rallentamento e che l’Ordine sta fiorendo in Asia, Africa e in America del Sud. Oggi più della metà dei frati vive nell’emisfero sud del mondo. Ciò comporta inevitabilmente un cambiamento del volto stesso dell’Ordine. Il saio rimane quello di sempre, ma lo si porta sempre meno. Stanno scomparendo i conventi tradizionali, con la chiesetta povera e il chiostro. L’attività principale si concentra praticamente nel lavoro pastorale, come la cura delle parrocchie e la predicazione. Non mancano presenze dedite alla promozione dei ceti meno abbienti e opere di tipo sociale. La sfida più grande consiste certamente nella trasmissione integrale di un carisma consistente soprattutto in una disponibilità a tutto campo: frati pronti a dare la loro vita per il Vangelo e per stare accanto all’appestato, prestandogli tutte le cure di cui era capace. Le nuove generazioni sono segnate dalle comodità della vita di oggi e, pur essendo generose, non vorrebbero lasciarsi sfuggire alcune delle tante comodità che la vita moderna offre. L’Ordine dei Cappuccini – ma non solo noi, direi tutta la vita consacrata – è ad una svolta, alla ricerca della sua identità, in contesti del tutto nuovi e, per il momento, è assai difficile dire in quale direzione questa si svilupperà. Per saperne di più – Mariano D’Alatri, I Cappuccini. Storia d’una famiglia francescana, Roma, Istituto Storico dei Cappuccini - Edizioni Collegio S. Lorenzo da Brindisi, 1994. – Giovanni Pozzi, Devota sobrietà. L’identità cappuccina e i suoi simboli, Bologna, edb, 2015. 61 Contributi Valeria Badasci Innovazione e tradizione nel Repertorio italiano-dialetti pubblicato nella Svizzera italiana * * Lavoro eseguito nell’ambito del progetto di ricerca Svizzera italiana: storia linguistica di un’espressione geografica (coordinatore: Lorenzo Tomasin, Università di Losanna), finanziato dal Fondo Nazionale Svizzero, 10012_156355. Nello stesso ateneo Valeria Badasci ha conseguito nel 2014 il Baccalauréat universitaire ès Lettres in italiano e storia dell’arte, e nello stesso anno ha iniziato la Maîtrise universitaire ès Lettres in italiano, ciclo che concluderà entro il semestre primaverile 2017. 1 www4.ti.ch/decs/dcsu/ac/cde/pubblicazioni/repertorio-italiano-dialetti 2 Repertorio italiano-dialetti, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2013. 62 «L’opera si rivolge agli specialisti e agli appassionati di dialetto, a coloro che lo parlano come a quelli che desiderano conoscerlo. Può essere consultata autonomamente o insieme al Lessico; le due pubblicazioni, affiancate l’una all’altra, compongono una sorta di dizionario bilingue, con la particolarità che all’italiano, da una parte, corrispondono, dall’altra, tutte le varietà dialettali della Svizzera italiana. Rispetto al Lessico esso permette di scoprire o ritrovare voci sconosciute o dimenticate e offre una visione sinottica dei vari modi con cui si nomina un oggetto o si esprime un concetto in vari dialetti»1. Sono le parole di presentazione del Repertorio italiano-dialetti (rid)2, edito dal Centro di dialettologia e di etnografia di Bellinzona. Si tratta di un’opera che per forma e struttura rappresenta un’eccezione nel panorama dei vocabolari dialettali. Il rid si inserisce, infatti, nella grande tradizione della lessicografia dialettale, ampliandola e innovandola con un’impostazione decisamente originale. La Svizzera, come i Paesi limitrofi, conosce nel corso dell’Ottocento un forte interesse verso lo studio delle varietà linguistiche regionali; nascono così, tra il xix e il xx secolo, vari dizionari, improntati a diverse concezioni delle lingue locali e del loro rapporto con le grandi lingue di cultura. In Italia, la realizzazione di vocabolari dialettali ha inizio già nel Settecento, quando almeno sette compilazioni importanti, che interessano quasi tutte le regioni italiane, giungono a pubblicazione (Michele Del Bono, Dizionario siciliano italiano latino, 1751; Bartolommeo Pellizzari, Vocabolario bresciano e toscano, 1759; Giuseppe Antonio Compagnoni, Raccolta di voci romane e marchiane, 1768; Gasparo Patriarchi, Vocabolario veneziano e padovano, 1775; Maurizio Pipino, Vocabolario piemontese, 1783; Michele 63 3 Manlio Cortelazzo, I dialetti e la dialettologia in Italia (fino al 1800), Tübingen, Gunter Narr Verlag, 1980, p. 105. 4 Claudio Marazzini, L’ordine delle parole. Storia di vocabolari italiani, Bologna, Il Mulino, 2009, p. 313. 5 Stampato dapprima a Lugano, dal 1952, in seguito a Bellinzona, dal1997. 6 Lessico dialettale della Svizzera italiana, Bellinzona, Centro di dialettologia e di etnografia, 2004. 7 www4.ti.ch/decs/dcsu/ac/cde/collezioni/archivi-lessicali Fogli 38/2017 Contributi / Valeria Badasci, Innovazione e tradizione nel Repertorio italiano-dialetti Pasqualino, Vocabolario siciliano etimologico, italiano e latino, 1785; Vocabolario delle parole del dialetto napoletano che più si scostano dal dialetto toscano, 1789)3. Nel corso dell’Ottocento, però, i dizionari dialettali assumono un’altra ambizione e importanza, grazie all’acuito interesse verso le lingue locali, il cui studio si accompagna alla curiosità per le tradizioni popolari, per la cultura orale, per canti e racconti. Il vocabolario dialettale diventa così anche lo strumento per meglio comprendere il materiale popolare, poetico e letterario4. Con questo stesso spirito si sviluppano sia il Vocabolario dei dialetti della Svizzera Italiana (vsi)5, sia i suoi ‘derivati’. Infatti, a causa del lungo periodo di gestazione richiesto per la compilazione del vsi, e vista la necessità di uno strumento completo, si decise, verso la fine del secolo scorso, di dare avvio a un’opera che si basasse sugli stessi materiali del vsi, ma che ne costituisse una versione ridotta, facilmente consultabile e soprattutto pronta per le stampe in un tempo più breve. Nacque così il Lessico dialettale della Svizzera italiana (lsi) 6. A partire dal lsi è stato poi creato quello che si può considerare il suo ‘rovesciamento’ (per usare un termine già impiegato dalla lessicografia italiana), almeno nella struttura: il rid. Quest’ultimo si sviluppa in seguito all’elaborazione della versione informatica del lsi, avviata nel 2007. Vi convergono gli stessi materiali che sono alla base del progetto maggiore (vsi) ma, in quanto prodotto successivo, esso accoglie sia le informazioni raccolte nel lsi, sia quelle aggiunte allo schedario dopo il 2006. Questi materiali sono, infatti, in continuo aumento e vengono costantemente rivisti, in modo tale da arricchire l’Archivio Lessicale7. Questo, in gran parte cartaceo, è composto dai materiali raccolti con l’inizio del progetto del vsi: si calcola che il numero di schede sia complessivamente di 2 milioni e mezzo. Nuove informazioni, costantemente inserite, concorrono ad accrescere e aggiornare l’archivio lessicale informatico, il quale contiene attualmente circa 300’500 schede. Il rid consta di due volumi, annoverando pressappoco 24’000 lemmi italiani, cui corrispondono all’incirca 103’000 termini e 35’000 locuzioni vernacolari. Strutturalmente, si basa su entrate in italiano di cui vengono offerte le relative traduzioni dialettali. La particolare attenzione prestata ai modi di dire e ai giochi di parole, attraverso cui si valorizza l’elemento folklorico legato al territorio e alle peculiarità della regione, unita alla descrizione onomasiologica offerta, concorrono a riunire in una stessa opera un dizionario, un atlante linguistico e un repertorio etnografico. Si tratta, come detto, di una novità: già nell’Ottocento si trovano elenchi di voci italiane con la relativa traduzione dialettale, posti in appendice ad alcuni vocabolari, come ad esempio quello presente nella seconda edizione del dizionario veneziano di Giuseppe Boerio (1856) o quello del vocabolario bolognese-italiano di Carolina Coronedi Berti (1869-1874). Il rid segue lo 8 Il tipo lessicale è la forma a cui vengono ricondotti i termini che condividono la stessa origine, ma che possono presentare varianti fonetiche. Si tratta quindi di una forma tipizzata, di un ‘termine tetto’, che presenta la realizzazione più diffusa, ma non l’unica variante fonetica possibile. 9 Il lemmario è l’insieme delle voci, poste come entrate, di un dizionario. 10 Dafne Genasci, Il Repertorio italiano-dialetti (RID): genesi e struttura, in Dialetto parlato, scritto, trasmesso, a cura di Gianna Marcato, Padova, Cleup, 2015, pp. 294-297. 11 Locuzioni e sintagmi non vengono formalmente distinti nel rid. 64 stesso principio, ampliando però il campo di indagine e quindi la mole, divenendo un lavoro a sé. L’opera è pensata come complementare al lsi (il quale, proponendo la forma fonetica di ogni variante dialettale, è necessario per sapere come si realizza un tipo lessicale8), ma essendosi sviluppata in modo diverso rispetto al progetto iniziale di semplice indice, è andata distanziandosi, in corso d’opera, dall’idea originaria, raggiungendo una sua autonomia. Data la mancanza di un lemmario9 del lsi, uno dei problemi riscontrati durante la redazione del rid consisteva nell’impossibilità di sapere quante e quali sarebbero state le voci italiane poste come entrate lessicali. Per questo motivo i dati del lsi sono stati trasferiti dapprima in un’applicazione informatica e in seguito in una tabella Excel. Questa operazione ha permesso di comporre una lista di circa 165’000 definizioni italiane ordinate alfabeticamente, e delle corrispondenti monorematiche o polirematiche dialettali. Con l’esportazione del risultato nell’applicazione informatica è stato dunque possibile creare un lemmario di circa 23’000 parole italiane, che avrebbero potuto quindi essere riorganizzate e riordinate direttamente on line. L’operazione di lemmatizzazione ha interessato sia definizioni perifrastiche o sintagmatiche, che sono state ridotte a termine unico, sia voci dialettali ritenute particolarmente significative per una determinata realtà locale10. Oltre ad alcuni regionalismi, sono state inserite, sotto un lemma italiano, accezioni che non trovano riscontro nei dizionari. In entrambe le situazioni, il significato particolare viene espresso fra parentesi, come ad esempio per ‘smungere’ (spremere le mammelle fino all’ultima goccia di latte), ‘sterzo’ (diradamento, sfoltimento di un bosco), ‘picchiotto’ (martelletto di legno usato per sdiricciare o smallare). La redazione del rid ha operato nell’ottica di disperdere la quantità minore di materiale dialettale, ricorrendo anche a sintagmi italiani11 per la traduzione di parole dialettali. Soltanto il 17% dei materiali estrapolati dal lsi non è stato tradotto nel rid: si tratta di perifrasi che risultavano troppo vaghe, perlopiù corrispondenti a denominazioni botaniche e zoologiche. Le diverse accezioni che uno stesso lemma poteva avere erano state divise già in fase di traduzione, ma alcune sfumature erano sfuggite: è stato necessario, dunque, distinguerle, a seconda del genere o della funzione grammaticale (questo è il caso di ‘mangiare’, che ha due accezioni, ‘cibarsi’ e ‘atto del mangiare’, e che rinvia anche a ‘cibo’). L’istituzione di un sistema di rimandi che raggruppasse sotto un solo lemma i traducenti sinonimici è stata necessaria, poiché più redattori avevano lavorato simultaneamente sulla traduzione dei dati per il rid giungendo a risultati diversi per termini dialettali tra loro sinonimi: questo sistema permette di evitare la ridondanza all’interno del vocabolario. 12 Per maggiori spiegazioni e esempi rimando all’articolo di Rosanna Zeli, La «Gotthardbahn» nella «Sonnenstube»: gli alemannismi nella vita quotidiana del Ticino di ieri e di oggi, in Elementi stranieri nei dialetti italiani, Atti del xiv Convegno del c.s.d.i (Ivrea, 17-19 ottobre 1984), ii, Pisa, Pacini Editore, 1988, pp. 176-195. 13 Nicola Arigoni, Biglietti prego! In viaggio nella realtà dialettale attraverso il Repertorio italiano-dialetti (RID) della Svizzera italiana, in Dialetto parlato, scritto, trasmesso, cit., p. 285. 65 svizzero svizzer svizzero naturalizzato svizzer da carta ◊ svizzar cun / dala cúa (Chiasso), svizzer da Cóm (Vaglio) svizzero tedesco 1. tedésch 2. (persona nativa o abitante della Svizzera tedesca) cabis; maiacráuti; tognín; züchín ◊ tèsta quadra ◊ patatócch (ArbedoCastione, Lumino); plófer (SopraC., Lug., Moes., Poschiavo); sciüsciavínerli (Vaglio); slifer (Moleno); töden (circ. Tesserete); tóndar (Biasca); tötet (Malc.); tubar (Posch.); túderli (Bell., SottoC.); zubrú (circ. Tesserete); zücöö (Gudo, Bedigliora, Viganello, Riva S. Vitale) – pl. snizz (Airolo) ◊ crapa dólza (Ascona) 3. (dialetto svizzero tedesco) svizzer (Mendrisio). Fogli 38/2017 Contributi / Valeria Badasci, Innovazione e tradizione nel Repertorio italiano-dialetti L’ultima fase di redazione del rid è consistita nell’esportazione dei dati dal supporto informatico a quello cartaceo. Il risultato finale è dato dalla parola italiana, posta a lemma, cui corrispondono i traducenti dialettali, che si organizzano secondo quattro gruppi: si hanno dunque, in sequenza, monorematiche generali, polirematiche generali, monorematiche localizzate, polirematiche localizzate. Il rid evidenzia la situazione dialettale della Svizzera italiana, bipartita tra la regione settentrionale e quella meridionale, divise fisicamente dal Monte Ceneri. Il contatto linguistico nelle due zone, dovuto sia all’influsso delle aree italiane attigue, sia a quello delle regioni allofone della Svizzera, segue varie fasi, legate a diversi momenti della storia elvetica. Le relazioni commerciali della fine del secolo xii tra i cantoni germanofoni e l’attuale Svizzera italiana, il periodo dei baliaggi e gli scambi in epoca più recente, sono all’origine del riflesso linguistico consistente nella larga diffusione di voci alemanniche nei dialetti del Ticino e delle valli italofone della Svizzera12. Inoltre, il Repertorio consente un approccio onomasiologico particolarmente attento alla geografia linguistica13, grazie all’inserimento di 22 tavole nomenclatorie, che riportano le varianti diatopiche di denominazioni di cibi, attrezzi e soprannomi, e di 25 carte geolinguistiche, che mostrano la diffusione sul territorio di esiti particolari dei vari tipi lessicali designanti oggetti o concetti (ad esempio ‘arcobaleno’, ‘caldarrosta’, ‘casa’, ‘coccinella’, ‘granoturco’, ‘lucertola’, ‘mirtillo’, ‘nebbia’, ‘nonna’, ‘panna’, ‘patata’, ‘talpa’). Questa originale compilazione permette di apprezzare l’estro inventivo popolare, particolarmente ampio e fantasioso, per esempio, nella definizione di qualità negative: la trattazione di termini come ‘stupido’, ‘avaro’, ‘incapace’, ‘sempliciotto’, si estende su più colonne, invece parole come ‘intelligente’, ‘gentile’, ‘bello’ presentano un numero inferiore di traducenti. La ricchezza di definizioni, basate anche su giochi di parole, si vede nei casi di soprannomi di abitanti, sia di paesi della Svizzera italiana, come si può notare dall’elenco dei Soprannomi degli abitanti di paesi, circoli e distretti della Svizzera italiana, sia delle zone limitrofe (il carattere corsivo indica termini o locuzioni tipizzate): italiano 1. italián ◊ d’in giü ◊ francés (circ. Tesserete, Mendrisio); lía gerg.(VColla); resóngia gerg. (VColla, Sonvico) 2. (persona nativa o abitante dell’Italia) badín; badóla; nápoli; terón ◊ badolígn (Biasca); bedüín (circ. Tesserete); bògia (Lev.); cirle gerg. (VColla); códega (circ. Tesserete); códegh (circ. Tesserete); codeghín (circ. Tesserete); copín (circ. Tesserete); falcín (Medeglia, Malvaglia, Locarno, circ. Tesserete, gerg. VColla, Mendrisio); grill (Bedigliora, Castaro); maiamá (circ. Tesserete); maiaramina (Tic.); nòlu (Isone); piüma (Biasca); ramina (Lumino, SottoC.); saltaramina (Colla); sciüsciagèra (Lugano); sciüsciamanübri (Vaglio); sciüsciaramina (SopraC.); sullo (Biasca; SottoC.); tèra (Loc.) – pl. polénta e scigull (Brione Verz.) 3. (lingua italiana) italián ◊ léngua bóna (Gudo, Intragna, Cimo, Balerna); léngua giüsta (Minusio, Capolago, Cabbio). Da un’analisi incrociata tra vsi, rid e il primo volume del lsi risulta evidente la volontà dei redattori di garantire la fruibilità del rid anche ai non addetti ai lavori. Come per le altre opere edite dal Centro di dialettologia e di etnografia, lo scopo principale di questo lavoro è quello della preservazione della memoria. Nella Presentazione al lsi, infatti, Dante Isella aveva messo in evidenza come una realtà, di cui la parola si fa portavoce, già alla fine del Novecento poteva considerarsi in via d’estinzione14 : Ma quale patrimonio, le parole dei nostri dialetti! […] Parole in cui ciascuno può ritrovare la vita di chi le ha usate in passato; su su, di generazione in generazione, fino ai padri dei nostri padri, i quali continuano a vivere in noi anche in virtù di esse; così che quando qualcuna ne cade è come se di colpo si disattivasse una sinapsi della nostra memoria collettiva e una piccola parte di noi si estinguesse per sempre. L’importanza di mantenere una memoria culturale che sta svanendo è testimoniata anche dalla citazione incipitaria del rid: In verità, s’as pénza e quist’istòria, a s’a da dir ch l’è dégna da memòria15. 66 In linea con questo principio, grazie alla forma che i redattori hanno voluto dare al rid, al suo lemmario da un lato e alla sua organizzazione interna dall’altro, esso risulta essere un utile strumento linguistico per gli studiosi, nonché un’opera capace di suscitare l’interesse dei non specialisti e un’importante attestazione di realtà locali16. Già nella Prefazione al vsi del 1952, Silvio Sganzini definiva l’opera: 14 Dante Isella, Presentazione di LSI, cit., I, p. 10. Il passo è stato ripreso ultimamente da Felice Milani, Dal “Lessico dialettale” al “Repertorio italiano-dialetti”, «Il Cantonetto», 68 (2016), pp. 59-65, a p. 63. 15 Giacomo Maurizio, La Stria ossia i stinqual da l’amur: tragicomedia nazionale bargaiota, Bergamo, Tipografia fratelli Bolis, 1875, p. 167. Traduzione: ‘In verità, se si pensa a questa storia / c’è da dire che è degna di memoria’. 16 Così Arigoni, Biglietti prego! cit., p. 291. Le tre opere lessicografiche rispecchiano proprio questo principio, permettendo l’approccio non solo alle parlate locali, ma anche alla cultura, alle tradizioni e alla letteratura in dialetto, e fornendo un valido aiuto nell’analisi dei testi della tradizione della Svizzera italiana. Fogli 38/2017 Contributi / Valeria Badasci, Innovazione e tradizione nel Repertorio italiano-dialetti Nata dal popolo e per il popolo, di cui si propone di illustrare la vita nelle sue espressioni del passato e di oggi, essa è piuttosto manifestazione collettiva: autore, più che collaboratore per quanto importante ed anzi necessario, ne è il popolo stesso. 67 Contributi Giancarlo Reggi Postilla a “Filologia classica nella Svizzera italiana dal 1852 ad oggi” * * («Fogli», 37, 2016, pp. 30-65). 68 Nella rassegna pubblicata nel 2016 sono incorso in una svista; quando me ne sono reso conto era troppo tardi per rimediare. Ho omesso i titoli di Richard John Howden Matthews, alumnus dell’Università di Auckland, in Nuova Zelanda. Matthews dal 1972 risiede nel Canton Ticino, dove è stato per più di trent’anni insegnante di inglese al Liceo di Lugano 1; inoltre, per qualche anno, ha insegnato anche latino e greco al Liceo di Mendrisio. Dunque le sue pubblicazioni rientrano a pieno titolo in una rassegna sugli studi di filologia classica prodotti nella Svizzera italiana, anche se sono uscite tutte in Oceania e Australia, donde l’autore proviene. Inoltre, occorre ricordare la tesi dottorale On the Epitaphios Adonidos, or, Lament for Adonis (Diss. Bern 1991), che non è segnalata da «L’année philologique» perché è rimasta in forma di Hochschulschrift, di pro manuscripto, ma è reperibile in alcune biblioteche (in Svizzera a Berna, Friburgo, Basilea e Zurigo). Sull’argomento sono però usciti, intorno a quell’anno, due articoli sulla rivista australiana «Antichthon». Questi lavori e due recensioni (a Bionis Smyrnaei Adonidis epitaphium, a cura di Marco Fantuzzi, Leeds, Cairns, 1985, in «Classical Review», n.s. 38, 1988, pp. 217-219, e a Bion of Smyrna, The Fragments and the Adonis, a cura di Joseph D. Reed, Cambridge - New York, Cambridge University Press, 1997, sempre in «Classical Review», n.s. 48, 1998, pp. 13-15) fanno di Matthews l’unico filologo residente nella Svizzera italiana che si sia occupato di poesia bucolica greca. I suoi studi precedenti sono d’altro ambito, etnografico e patristico, e sono stati pubblicati in «Prudentia», rivista dell’Università di Auckland. Infine, occorre citare una monografia sulla fortuna dell’antico nella poesia neozelandese, pubblicata a Dunedin nel 1985. Approfitto di questa necessaria postilla per aggiungere uno studio recente che mi era totalmente ignoto, opera di un giovane italianista ticinese, Joël F. Vaucher-de-la-Croix ; interessa la fortuna della poesia satirica di Aulo Persio Flacco fra Sette e Ottocento. Fogli 38/2017 Contributi / Giancarlo Reggi, Postilla a “Filologia classica nella Svizzera italiana dal 1852 ad oggi” Bibliografia Richiamo i criteri con cui è allestita la bibliografia. Essa comprende tutti i titoli di filologia classica, lingua e letteratura greca, lingua e letteratura latina, escluse le recensioni. Inoltre, i titoli di studi di storia antica fondati essenzialmente su fonti letterarie o epigrafiche, i titoli di filologia neotestamentaria e patristica se citati ne «L’année philologique», nonché i titoli che riguardino esplicitamente la fortuna dell’antico. I riferimenti sono in ordine alfabetico per autore e, internamente, in ordine di data. I titoli citati ne «L’année philologique» sono preceduti da un asterisco (*). – *Matthews Richard J.H., Romans and Germans, «Prudentia», 3 (1971), pp. 110-117. – *Matthews Richard J.H., A Linguistic Commentary on the NiceoConstantinopolitan Creed, «Prudentia», 14 (1982), pp. 23-37. – *Matthews Richard J.H., A Commentary on Canon XXVIII on the Council of Chalcedon, «Prudentia», 16 (1984), pp. 109-120. – *Matthews Richard J.H., New Zealand Poetry Based on Greek and Latin Models, Dunedin, University of Otago, 1985. – *Matthews Richard J.H., The Lament for Adonis. Questions of Authorship, «Antichthon», 24 (1990), pp. 32-52. – *Matthews Richard J.H., A Sylloge of Minor Bucolic, «Antichthon», 28 (1994), pp. 25-51. – Vaucher-de-la-Croix Joël, Le “Satire di Persio” tradotte da Vincenzo Monti, edizione critica e commento, Firenze, Società Editrice Fiorentina, 2015 («Quaderni Aldo Palazzeschi»). 69 Per Giovanni Pozzi Alessandro Martini Giovanni Pozzi a Plinio Martini: «tu sei, bestemmiando, dalla parte di zia Domenica». Lo sviluppo di un racconto e la sua ultima svolta * ** * Alessandro Martini è professore emerito di letteratura italiana all’Università di Friburgo (Svizzera). ** Ringrazio di cuore Pia Gianella per aver messo a mia disposizione le lettere di mio padre a sua sorella Giulia, utili anche a questo contributo, Maurilia Minoli e mia figlia Valeria per altre attenzioni che lo hanno favorito. 1 Sui vari titoli immaginati per il romanzo da Martini si veda Matteo Ferrari, Genesi di un titolo: «Il fondo del sacco» di Plinio Martini, in Variante et Variété. Actes du VIe Dies Romanicus 70 Giovanni Pozzi, ancora Paolo Pozzi, conobbe Plinio Martini durante le vacanze estive trascorse con la famiglia a Cavergno. Erano coetanei ed ebbero modo di gareggiare da chierichetti nella sagrestia della chiesa parrocchiale per il maneggio del turibolo, ossia per assumere il compito di provvedere a una buona combustione dell’incenso e persino a qualche incensamento, in occasione dei rosari quotidiani seguiti da benedizione o dei più solenni vespri domenicali. Fu Pozzi stesso a ricordare la circostanza cominciando la sua presentazione del Requiem per zia Domenica alla Biblioteca cantonale di Lugano, il 5 maggio 1977 (ma non ne resta traccia nella resa scritta). Ai tempi di Cavergno in quella gara era normale che l’indigeno avesse la meglio sul foresto, ma, aggiunse Pozzi, venendo al proposito, «oggi il turibolo ce l’ho in mano io». Exemplum minimo, non privo di una sua moralità e ben rappresentativo di chi l’ha raccontato. Chi l’ha conosciuto di persona vi riconoscerà il carattere tanto generoso quanto combattivo del Maestro. Il rapporto adulto e fecondo tra i due si stabilì molti anni dopo, quando io, figlio primogenito di Plinio Martini, nell’autunno del 1966 cominciai a studiare lettere all’università di Friburgo ed ebbi in Giovanni Pozzi il docente della mia materia principale, sotto la cui direzione feci la tesi e di cui poi fui assistente. Fui infatti diretto e indiretto tramite di quei contatti, quando e in che modi precisamente non ricordo, ma di quel che ne è nato parlano diversi documenti in mio possesso. Manca purtroppo il primo, relativo all’elaborazione del Fondo del sacco, che mio padre avviò alla fine del 1965 e concluse, in quella che però finì per essere soltanto la prima delle varie redazioni dell’opera, nell’estate del 1967, intitolata Addio, monti1 . Padre Pozzi ne lesse una redazione dattiloscritta sicuramente più avanzata. Quale delle molte che oggi Matteo Ferrari sta 71 Turicensis, Zurich, 24-25 juin 2011, a cura di Cristina Albizu, Hans-Jörg Döhla, Lorenzo Filipponio, Marie-Florence Sguaitamatti, Harald Völker, Vera Ziswiler e Reto Zöllner, Pisa, ets, 2013, pp. 177-188. 2 Sandro Bianconi, L’italiano lingua popolare. La comunicazione scritta e parlata dei “senza lettere” nella Svizzera italiana dal Cinquecento al Novecento, Firenze, Accademia della Crusca; Bellinzona, Casagrande, 2013. 3 Si veda l’attenta ricostruzione di questo rapporto da parte di Matteo Ferrari, Plinio Martini - Enrico Filippini: storia di un incontro impossibile, «Archivio storico ticinese», 152 (2012), pp. 277-299. Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini studiando in vista di un’edizione critica, è meno facile dire. Ricordo che a Pozzi piacque il titolo che il libro allora aveva, una volta accantonato quello manzoniano: Gesù Maria, con riferimento a una iscrizione bavonese resa appunto celebre da Plinio Martini. Anche questo titolo fu accantonato, certo perché era difficile coglierne l’intonazione, a meno di dare la riproduzione fotografica dell’iscrizione, alla quale pure l’autore aveva pensato (e come avviene ai nostri giorni nella copertina di un importante libro di Sandro Bianconi, dove sta a indicare l’antica realtà di una pratica in lingua troppo a lungo dimenticata)2. Dapprima, nel novembre del ’67, il titolo manzoniano è cambiato in GIESV MARIA, forma più aderente all’iscrizione, poi in quella di Gesummaria, attestata in una redazione conclusa dalla data 14 febbraio 1968, mentre una del 1° giugno 1969 porta il titolo definitivo. È dunque probabile che Pozzi leggesse un testo fornitogli dopo il febbraio del ’68 (gradito il titolo, avvertì infatti di abbandonarne il non lombardo raddoppiamento fonosintattico) e che entro quell’anno ne scrivesse all’autore (e, se la memoria non mi inganna, gli restituisse anche il dattiloscritto con qualche annotazione). La lettera è persa. Ricordo per lo meno che in quella Pozzi suggeriva di soprassedere alla pubblicazione, riflettendo e rivedendo. Il suggerimento e più le puntuali osservazioni, non so se espressi prima o dopo la sentenza negativa sul libro emessa da Enrico Filippini nel maggio del ’68, contribuirono certo, forse più di quel viscerale diniego, a una proficua revisione del testo che ancora non aveva trovato editore, Mondadori essendosi dichiarato non interessato già nell’ottobre del 1967 e l’accesso a Feltrinelli, via quell’autorevole consulente, essendosi chiuso dopo troppo lunga attesa, appunto nel maggio del ’683. La ricerca di un editore italiano, che, vedremo, anche Pozzi riteneva di primaria importanza, non diede il risultato sperato. Il fondo del sacco fu finalmente pubblicato a Bellinzona da Casagrande, nel settembre del 1970. Tra le prime copie inviate in omaggio dall’autore sta quella a p. Pozzi, che ringraziò Martini da Friburgo già il 25 di quel mese, senza avere il tempo di rileggere il libro a stampa, ma ribadendo, per nostra fortuna, due linee essenziali di quel primo parere (lett. 2). La prima tocca una possibile diversa impostazione della materia. A mio ricordo si trattava della prima persona del narratoreprotagonista, che risolta nella terza a Pozzi sarebbe risultata meno compromessa con la grande tradizione memorialistica novecentesca (quella che fa capo alla Recherche di Proust: questo il nome illustre avanzato). La seconda tocca la scelta dell’«area culturale entro cui agire», ossia riguarda, beninteso, la scelta dell’editore e ribadisce una persuasione profonda dello studioso, che certo la riteneva «opinabile» ma che sempre opinò nel senso affermato in termini perentori: «nulla merita di essere fatto a livello esclusivamente ticinese». Mio padre provvide in seguito, ma abbastanza presto, alla revisione, anzi in parte riscrittura, del romanzo per la seconda edizione (finita di stampare il 5 maggio 1973), obbedendo a sue nuove esigenze e a sollecitazioni di altri lettori4. L’influsso del primo parere di Pozzi, ricostruibile solo per sommi capi, sull’elaborazione del Fondo del sacco è difficile da misurare e quello sulla revisione in occasione della seconda edizione è, direi, da escludere, Pozzi essendosi a suo tempo espresso su elementi non più in discussione. Le carte di casa permettono invece di accertare l’impatto che ebbe la sua lettura del Requiem per zia Domenica sull’ultima elaborazione del libro. Ma per valutarne meglio la portata, è bene risalire alle origini e allo sviluppo di quel racconto, più complessi di quanto risulti da una pur ricca e attenta bibliografia in merito5. Il 15 marzo del 1973, dunque appena terminata la revisione del Fondo del sacco, Martini riceve la proposta dell’editore Armando Dadò, rivolta a lui oltre che a Piero Bianconi, Giovanni Bonalumi, Giorgio e Giovanni Orelli, di stendere «20/30 pagine dattiloscritte ognuno» per il 30 marzo 1974. Ne verranno i «cinque racconti di paese» dei cinque autori contattati, ciascuno seguito da fotografie di Alberto Flammer a quelli intonate, raccolti sotto il titolo bianconiano di Pane e coltello e pubblicati soltanto alla fine del 1975. Fra di essi stanno I funerali di zia Domenica: 18 pagine su due colonne a stampa, corrispondenti a un dattiloscritto di 24/25 cartelle, che ha a sua volta una sua storia. Fu consegnato poco dopo la scadenza fissata, probabilmente in aprile, come vedremo più avanti, ma (lo si sa e lo si vedrà qui, spero, anche meglio) è subito sottoposto a nuovi sviluppi, lungo più di un anno, fino ad assumere la dimensione di un romanzo. L’avvio della scrittura è dell’inizio del 1974. Il 20 febbraio mio padre mi aveva infatti inviato a Friburgo una Descrizione di Sonlerto di 9 cartelle, che inizia «Nella grande cucina di zia Domenica» (incipit rimasto inalterato in tutte le versioni): 4 Matteo Ferrari, «Il fondo del sacco» tra prima e seconda edizione. Ragioni e modi di una revisione, «Versants», 60, 2 (2013), pp. 19-28. 5 Mi riferisco a due pregevoli lavori rimasti inediti: Dionisia Maggini, Dai «Funerali» al «Requiem» di Plinio Martini. Lavoro personale svolto per l’ottenimento della patente di scuola maggiore: ciclo di studi 1978-1980, Biasca, luglio 1980 (consultabile alla Biblioteca Salita dei Frati di Lugano e al Centro di Documentazione del Dipartimento Formazione e Apprendimento di Locarno) e Ilario Domenighetti, Metamorfosi di uno stile. Saggio sull’opera di Plinio Martini «Requiem per zia Domenica». Mémoire de licence présenté à la Faculté de Lettres, Université de Genève, août 1980. La Maggini, attraverso un confronto metodologicamente esemplare delle due redazioni a stampa, già dà un’idea precisa della crescita per digressioni dell’opera. Ai risultati della sua analisi questo mio contributo non fa che aggiungere la dimensione cronologica e fornire le motivazioni esterne di alcune importanti modificazioni. Il primo lavoro su Martini di Domenighetti contiene una vera e propria edizione critica del testo, svolta tenendo conto di tre testimoni dattiloscritti dell’opera, su cui tornerò. La parte bio-bibliografica del mémoire, rielaborata, è confluita nella monografia dello stesso Domenighetti, Plinio Martini. I giorni. Le opere, Lugano, Edizioni Cenobio, 1987; l’edizione critica nonché il saggio sul romanzo hanno sorretto l’edizione commentata dello stesso studioso: Requiem per zia Domenica, Locarno, Dadò, 2003, edizione alla quale rinvio in questo studio. 72 Caro Sandro, fammi sapere se si può continuare così, se si può leggere. Ciao, grazie papà Non mi devi rimandare la copia. Giovanna lo aspettava fuori, a pochi passi dal cancello, e si misero da parte a lasciar passare gli altri. – Mi piacerebbe proprio sapere cosa ti è saltato in mente! – Non essere così amaro, ti prego. Se tu sapessi cosa vuol dire la carità di un collegio di suore convinte che devono salvarti l’anima... E insieme alla mia, la tua, Marco. Oh, Marco, non parliamone adesso, ti prego. Eravamo ragazzi indifesi. – Non ti commuovere troppo, ci guardano. Dopotutto ci siamo ancora, e c’è questo bel sole... – La prese per un braccio incamminandosi verso la chiesa: era tremante ma non rigida, e gli parve di sentire lo stesso profumo che l’aveva 6 Così ancora in I funerali di zia Domenica, in Piero Bianconi, Giovanni Bonalumi, Plinio Martini, Giorgio Orelli e Giovanni Orelli, Pane e coltello. Cinque racconti di paese, Locarno, Dadò, 1975, p. 79, e non più nel passo corrispondente in Requiem, p. 87. 7 Nella redazione definitiva del Requiem a p. 105. 73 a. Il 19 marzo 1974 Martini firma e così data un dattiloscritto di 24 cartelle dal titolo Sonlerto, arricchito da ampie citazioni in nota di testi devozionali come Il Giovane Provveduto di don Bosco, La Giovane Cristiana, la Filotea dei Defunti, del «lunario» Il Pescatore di Chiaravalle, quasi a prova o ad appoggio di quanto affermava nel testo. Il racconto primo (la messa) e il racconto secondo (gli amori contrastati dei due giovani intrecciati a quelli altrettanto impicciati dei due adulti Maria e Giacomo) sono portati a termine. Il racconto primo finisce con una pagina di conversazione tra Marco e Giovanna fuori del cimitero. Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini Oggi posso dirmi contento di avergli risposto presto, il 23, se pur in un linguaggio da neodottore poco adatto a una lettera familiare, che mi piaceva «il periodare complesso, ad ampio respiro, prospettico, allontanantesi dal modello dialettale a semplice giustapposizione di elementi», ma ero perplesso di fronte all’«eterea Giovanna, pur in tanto nerore d’occhi, perfezione d’archi e paurose dolcezze. Immagino che per te la figura sia essenziale e irrinunciabile, ma se deve restare deve epifanizzarsi in tutt’altro modo». E si epifanizzava, noto adesso, all’avviarsi del corteo funebre, con il viso non «mortificato dal velo monacale»6. L’avventura fra i due giovani non era ancora raccontata in quelle pagine, che giungevano fino alla rilettura campestre del passero di Catullo da parte di Marco7, ma la punizione per quella infrazione (il collegio dalle suore) aveva conseguenze ben più gravi di quelle che conosciamo: monacazione e smonacamento (in quelle prime pagine non esplicitati, ma impliciti nella nota sulla mancanza del velo). Dopo questo inizio il lavoro ferve. Lo posso seguire grazie a quattro diverse stesure a macchina del racconto, complete, datate, firmate e conservate in casa, che chiamerò a, b, c e d. La consuetudine di datare e firmare, già ben attestata per alcune redazioni del Fondo, è ovviamente molto preziosa per lo studio dei testi, non tanto per stabilire una successione che con qualche attenzione si imporrebbe in ogni modo, ma per fissarla nel tempo e per renderci attenti a un fatto di qualche rilievo: quelle che per noi sono tappe del lavoro, sono state agli occhi dell’autore veri e propri traguardi. incantato a Sonlerto. Ne fu stupidamente (pensò) ma irresistibilmente commosso. Quasi senza volerlo gli uscì di bocca: sono vent’anni che ti aspetto; e in questo momento era vero. – Non sarei venuta, non mi avessero detto che eri separato dalla moglie. No, forse non è vero, avevo paura... “On peut quelquefois retrouver un être, mais non abolir le temps”. – Proust, credo. – L’ho trovata ieri sera per caso, e ho capito che la mia paura aveva quella motivazione. – Sorrise. – I sonniferi che avevo una volta erano peggiori di Proust. Si fermarono di nuovo senza motivo; nel camposanto un gruppetto di persone stava ancora avviandosi all’uscita; accanto alla fossa erano rimasti i due becchini e pochi ragazzi a guardare riempirla con frettolose palate. Il padre di Marco, solo, sul cancello, accese una sigaretta e si fermò a raddrizzare un piolo di legno che avrebbe dovuto indirizzare la crescita di un alberello. È l’unica menzione di Proust caduta sotto la penna di Martini, sicuramente sbirciata nella Recherche, edizione economica Folio, che allora io stavo percorrendo per la prima volta8. Marco l’intellettuale riconosce l’autore e Giovanna pesantemente commenta, entrambi voci dell’autore ideale. Ricordo questi dettagli perché nella lettera di risposta a p. Pozzi (lett. 4), a dimostrare che su quell’«ultima travagliatissima pagina» rimessa in causa dallo studioso, aveva già lavorato in levare, mio padre si riferirà a questo dialogo, che caratterizza quella che è per lui la «seconda redazione» (mentre, a stare alle carte di casa, direi proprio trattarsi della prima). Giovanna lo aspettava fuori, a pochi passi dal cancello, e la prese per il braccio, tremante ma non rigida, per scostarla dagli altri e indirizzarla verso una scaletta di pietra che portava alla campagna soprastante. Si fermarono, lei si lasciò guardare senza dir nulla; era diversa di come la ricordava, il volto teso e dimagrito, gli occhi più pensosi, forse più bella; poi si voltarono entrambi a guardare il camposanto che era ormai vuoto: l’ultimo gruppetto di persone stava avviandosi all’uscita, lasciando alle spalle quattro ragazzi intorno ai becchini che riempivano la fossa con palate frettolose. Il padre di Marco, solo, fu sul cancello, oltrepas8 Disperso oramai l’economico Folio, rinvio all’edizione allora di referenza: Marcel Proust, À la recherche du temps perdu, édition établie et présentée par Pierre Clarac et André Ferré, Paris, Gallimard, 1973 (19541), ii, p. 883 (Sodome et Gomorrhe ii). 9 Già in a p. 10, poi in Requiem, p. 105. 74 b. Il 10 aprile 1974 Martini firma e così data un dattiloscritto della stessa misura del precedente ma che porta il titolo Due cose sole al mondo (allusione e citazione a memoria dell’a sua volta proverbiale «Due cose belle ha il mondo / amore e morte» del Consalvo leopardiano, ben rispondente ai «sospiri per Silvie e Nerine inesistenti» che il giovane Marco trae nella solitaria estate di Sonlerto9 e, certo, ai due temi portanti del racconto). Le citazioni dai manuali devozionali e popolari sono trasferite a testo. Alla fine Giovanna continua ad aspettare Marco fuori del cimitero, ma i due se ne stanno zitti a guardare quel che avviene attorno alla fossa nel nuovo finale che, pur con qualche ritocco, sostanzialmente resisterà sino alla lettura di Pozzi: Scompare la conversazione satura di nuove aspettative, ma un passo prima, ancora in chiesa, dopo il Benedictus, con il girare della cassa «in modo che zia Domenica, o chi la guardava o la portava, chissà, avessero ancora l’illusione di un ultimo volontario procedere verso l’attesa resurrezione dei corpi» nasce la rappresentazione di quello «splendido terribile giorno», ossia una delle pagine più memorabili del libro e meglio messe in luce da Pozzi nella sua analisi10. c. Il 19 aprile 1974 (sono passati solo nove giorni) Martini torna a firmare quella che è essenzialmente la messa in pulito della precedente versione, sempre con il titolo Due cose sole al mondo, sempre di 24 cartelle, con pochissimi interventi a penna, a correggere quattro refusi. Il paragrafo finale non muta, se non nella rinuncia all’inerte «a pochi passi dal cancello» (occupato più avanti dal padre) e all’inutile tramite della «scaletta di pietra». d. Il 24 aprile 1974 (cinque giorni dopo) un dattiloscritto di 25 cartelle (una in più) non si discosta molto dal precedente (ne è in gran parte la fotocopia), ma si intitola Funerali di zia Domenica (senza articolo) e soprattutto al verso dei fogli dattiloscritti porta varie sostanziali aggiunte manoscritte, non comprese nella stampa degli stessi Funerali, probabilmente consegnati all’editore poco prima di questo intervento amplificante. Infatti, a prescindere dalle aggiunte e da interventi vari a penna, il testo dattiloscritto è esattamente quello che si legge in Pane e coltello11. Sulle bozze di quella stampa, conservate, l’autore si limiterà a correggere i refusi, astenendosi dall’aggiornare un racconto a quel punto (se la pubblicazione di Pane e coltello, ricordiamo, è della fine dell’anno successivo) più che triplicato nella sua mole, fattosi ormai romanzo e romanzo concluso, distinto dal racconto almeno a partire da questo 24 aprile. Sono molto occupato perché, oltre alla scuola, vorrei poter finire al più presto un nuovo racconto, la cui prima stesura è ormai terminata, con il titolo (provvisorio) di “Requiem per zia Domenica”. Con l’aiuto di eccellenti critici come Isella, Dionisotti e Pozzi, spero questa volta di poter apparire in Italia. Ma per l’edizione in lingua tedesca, se Lei vorrà interessarsene, non mi rivolgerò ad altri. È la prima attestazione del titolo definitivo. Pozzi sappiamo in che termini si era espresso sul Fondo del sacco, fra i primi, il 25 ottobre 1970, e certo ne parlò 10 In b p. 23, corrispondente a Requiem, pp. 197-201. 11 Dunque anche privo del gesto simbolico del padre (un «richiamo alla vita» ben illustrato nella lett. 4), resistente sino a c e tolto su suggerimento di Vincenzo Snider (che ha dubbi anche sul titolo leopardiano), come risulta da alcuni appunti («Vincenzo su “Due cose sole”») in un «Quaderno Ufficiale - Cantone Ticino» di colore grigio, fitto anche di altri preziosi appunti. 75 Il 19 ottobre 1974 Martini ringrazia il suo editore zurighese Werner Classen, che gli ha inviato le prime copie della traduzione tedesca del Fondo, e aggiunge: Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini sando il quale si fermò per accendere una sigaretta; poi lo videro chinarsi e raddrizzare il piolo di legno cui era legata la crescita di un giovane noce. 12 Ringrazio Silvia Isella di questa conferma. 13 La lettera è pubblicata da Ottavio Besomi, Dante Isella e il Ticino, «Archivio storico ticinese», 143 (2008), pp. 67-94 (a 93-94). In base al timbro postale Besomi deduce che possa trattarsi del 5.9.1970. In realtà l’anno è di lettura incerta e non può trattarsi del 1970, in quanto le prime copie del libro (benché questo risulti stampato il 10 agosto) giungono in mano all’autore soltanto il 10 settembre. Si tratterà del 5 settembre 1972, poiché il timbro postale non consente di pronunciarsi per il 1971, in tempo comunque perché le indicazioni di Isella («Dovessimo incontrarci, potrei forse indicarLe poche pagine che, a mio giudizio, sono meno valide, ma basterà accennare ai dialoghi dell’avvocato e a certa America un po’ di maniera») possano avere avuto un influsso sulla seconda edizione, come ipotizza Besomi. 14 L’ho resa nota nel mio contributo Dionisotti e i moderni, attraverso la Svizzera, in Carlo Dionisotti. Geografia e storia di uno studioso, a cura di Edoardo Fumagalli, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2001, pp. 135-49 (a p. 139). 15 Domenighetti, Metamorfosi di uno stile, pp. 73-76 (descrizione dei testimoni). Vi accenna più brevemente nella nota al testo di Requiem, pp. 35-36. 76 a colleghi e amici. Isella, fra questi uno dei primi, ricevuto il libro in prima edizione, che sta ancora nella sua biblioteca12, un 5 settembre scrive anche a Martini in termini lusinghieri, e generosamente aggiunge: «Non so che cosa si potrà farne in Italia: voglio dire che non so se sia possibile trovargli un editore intelligente disposto a farlo uscire dalla Svizzera. Ne parlerò, per quel che io conto in quel settore, agli amici della Mondadori. Se ci sarà qualcosa da dirLe, mi rifarò vivo»13. Dionisotti scrive pure una commovente lettera di ringraziamento per aver ricevuto il libro, presumibilmente in seconda edizione (maggio 1973), l’8 ottobre 197314 , ma non si pronuncia sull’aspetto editoriale. Le speranze di Martini di pubblicare il nuovo libro in Italia erano fondate sulle parole di Isella e sul rapporto stabilito con Pozzi. Ed entrambi, si vedrà, si mossero in quel senso. Posso dedurre a che punto fosse il Requiem al momento in cui Martini ne parla a Werner Classen dalla versione dattiloscritta di 74 cartelle che tre settimane dopo firma e data 10 novembre 1974, con interventi a penna, non conservata nella sua interezza in casa, ma sì presso una persona amica (Agnese Dalessi) e primo di tre testimoni (denominato a) dell’edizione critica preparata da Ilario Domenighetti15. È certamente la versione che Plinio Martini fece avere in quel novembre a Giulia Gianella, docente di italiano al Liceo di Bellinzona, già allieva di Pozzi e amica mia. Ne ebbe il primo dicembre un dettagliatissimo parere, che pone, a non dir altro, l’Ite missa est («La messa era finita», inizio del decimo e ultimo tratto del libro) a p. 71, ossia a tre pagine dalla fine di quella versione. È la lettura che provoca il maggiore sconvolgimento del testo, prima e più radicalmente, e soprattutto minutamente, di quel che faccia l’ultima scossa, più netta e più breve, dovuta al parere di Pozzi nel maggio successivo. Se il testimone a in casa sussiste solo a spezzoni e a fogli sparsi, ciò è dovuto quasi certamente al fatto che l’autore vi ha rimesso le mani dopo aver ricevuto la lettera della Gianella. Una lettera in due parti: una di considerazioni generali, l’altra di minuti rinvii alle pagine del testo con relativi commenti di tipo linguistico, stilistico, narratologico e ideologico. Se ne potrà parlare in altra sede, valutandone i minuti effetti sulle pagine del Requiem. Riguardo alla sostanza, di cui qui solo intendo trattare, anche perché è il piano ideologico sul quale si incontrano e scontrano tutti gli interlocutori (la Gianella, p. Pozzi e soprattutto Martini nelle sue risposte), l’acuta quanto pungente studiosa scrive: 16 Requiem, pp. 87-92 (cartelle 22-35 di b e c). 77 Il 5 dicembre, Martini ringrazia, accettando pressoché tutte le minute osservazioni (una quarantina), anche perché rispondenti, dice, «a dubbi che già tenevo dentro di me», ma difendendo la commistione tra stilnovismo e carnalità, criticata fino all’irrisione dalla Gianella. «Ciò che mi turba di più è l’osservazione che fai a proposito dell’intelligenza delle suore». La Gianella a sua volta ribadisce il 9 dicembre: «Mantengo le mie obiezioni al convento: per me basterebbe il collegio». L’autore, sappiamo, se ne è pure persuaso, togliendo quanto di romantico e persino di gotico (e nel suo caso di forzatamente manzoniano) la mossa narrativa suggeriva, non senza sentire l’esigenza di un compenso. Alla tardiva resipiscenza (la smonacazione) fece corrispondere, nello stesso tratto del racconto (l’inizio del terzo), una precoce rivolta da parte della ragazza in collegio, contro il fervore del suo amico reduce dagli esercizi spirituali appena seguiti nel suo, di collegio, ossia inserì quel dialogo sul «trenino valfondese», dove (memore dell’accusa rivoltagli dalla Gianella, che si muta dunque in suggerimento) fa dire a Giovanna furente: «perché non vai anche tu a farti frate?»16. Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini si direbbe proprio che tu hai una mania punitiva nei confronti delle gentilissime che diciamo «cedono». La Maddalena l’hai fatta morire (sì, anche per altre ragioni, ma insomma) e questa la mandi a far la dura espiazione fra le suore (espiazione è parola tua). Sai, la Giovanna, così tranquillamente spudorata, non mi pare il tipo da farsi rincretinire da una superiora qualsiasi e neppure mi risulta che nel xx secolo le suorette siano use a rimpolparsi le file attirando nell’ordine tutte le «gentilissime» che si son fatte beccare in flagrante con il loro ragazzo. Dio buono, lo sanno anche le suore che quando una comincia, se non lo decide lei è un bel rischio pretendere che smetta. Sono più oculate di quanto si pensi, le suore. Quindi a me l’intreccio appare poco probabile per quel poco che si dice del personaggio e per i possibili rimandi extratestuali. Ne deduco che la Giovanna è spedita in convento non dai suoi genitori, non dalle suore, ma proprio per esigenze interne del Plinio Martini. Il quale del resto si guarda bene dal far andare a frate Marco. Eh, no, queste esigenze il Plinio Martini non le sente… Bisogna che la fanciulla sia punita da un’inesorabile forza (la Morte, la società) senza che il protagonista ne sappia nulla (aveva avuto la fortuna di non averla mai vista vestita da suora) e poi la pianga morta o sia lì a plaudire quando «riacquista se stessa alla libertà»… Ce ne vorranno di concilii e di benedizioni e di sinodi per cambiare le cose, caro mio. Ti immagino abbastanza furibondo e quindi mi affretto subito a dirti che sono stata faziosamente femminista per divertirmi un po’ (il Sandro capirebbe), anche se poi non sarei affatto disposta a ritrattare proprio tutto. Bene ora sono stanca di battere a macchina e mi pare di averti dimostrato se non altro che ho letto coscienziosamente il tuo racconto e che un pochino ci ho pensato su. Quanto al valore di queste mie divagazioni tieni presente che la botte dà il vino che ha e il mio, specialmente se istigata, volta subito in aceto. Il tuo racconto nel complesso mi è piaciuto molto, ma non ti darò la soddisfazione di tesserne le lodi. Saluta tutti lì a Cavergno e, se ce ne sono ancora, specialmente le zie Domeniche. Erano donne tutte sbagliate, ma uno sente l’impulso di render loro omaggio. Siamo migliori noi post cristiani, post freudiani, post marxisti e post tutto quello che non sia grana e merce? E con questi eletti sentimenti ti saluto e sono / la Giulia La revisione porta alla redazione datata 3 marzo 1975, di 87 cartelle, 13 in più rispetto a quella letta dalla Gianella, ossia al testimone b dell’edizione critica di Domenighetti. Io lo possiedo soltanto nell’esemplare controfirmato e ridatato 20 maggio 1975, che palesemente porta al testimone c, suggellato da questa sola ultima data, che caratterizza anche la stampa. Ora va detto che quel 20 maggio è anche la data in cui Martini è raggiunto dalle osservazioni di un ultimo autorevolissimo lettore del manoscritto: Giovanni Pozzi. Il quale, il 19 maggio, il giorno prima di quel sigillo, dopo aver letto il libro nella redazione b, ne dà una sintesi degna della lucidità e della determinazione delle sue migliori pagine (lett. 3). Vide subito l’essenziale di quanto avrebbe più distesamente ragionato in sede di presentazione e che in seguito avrebbe elaborato (non ribadito: la critica che ribadisce gli era invisa), estendendo il discorso all’assieme della narrativa di Martini; lo fissò in parole di cui l’autore andò fierissimo, ricopiandole a vari corrispondenti, fra i quali l’editore Werner Classen (il 30 settembre) e l’editore italiano nella persona di Rodolfo Molo (il 25 gennaio 1976), ai quali suggerì di citarle, con il consenso dell’autore, per favorire la diffusione del libro: In mezzo a tanti libri noiosi, eccone uno che sa divertire. Dico divertire nel senso serio della parola; avvince, per la passione e il calore con cui son viste cose tanto grandi quanto la vita e la morte, il di qua e l’aldilà. Lì non c’è astio, ma collera; non sufficienza, ma dubbio doloroso; non odio, ma amore. È il più bel libro ch’io conosca sulla crisi di un certo cattolicesimo, del nostro cattolicesimo. […] Qui [nella figura di zia Domenica] sei scrittore quali pochi ne ha la narrativa italiana di oggi; e lì, in quel mostro, c’è tutto il tuo amore e il tuo rancore. Zia Domenica è Cavergno tutta intera; e tu sei, bestemmiando, dalla parte di zia Domenica. ah, sì? Le lettere di San Paolo? Le Confessioni di Sant’Agostino? Uffa! Ne aveva fin sopra i capelli, lei, e dei preti e della loro morale ipocrita e delle suore di Königshofen che avevano in cura l’educazione sua e di cento altre disgraziate come lei. Vederle, le suore, in cappella, ricamare le modulazioni graziose del Salve Regina, le mani in orazione con gli occhi in su, tanti angeli rapiti in estasi, e poi uscire umilmente in fila una dopo l’altra in ordine di anzianità, con gli occhi in giù… Con quel che segue a p. 24, in crescendo di furore, sino al «perché non vai anche tu a farti frate», ma non di sostanza17. Nel passo, a dir vero, il lettore attuale e non teologo ravvisa difficilmente l’empietà. Il risentito indiretto libero di Giovanna è contro le magagne suorili, la loro doppia morale, sfiora 17 Corrisponde a Requiem, pp. 90-92. 78 Tra l’uno e l’altro altissimo riconoscimento, Pozzi tornò a puntare l’occhio critico, se non il dito inquisitore, come il contesto suggerisce, su Giovanna, e proprio sull’ultima sua mutazione: sull’allieva ribelle delle suore. «Le dichiarazioni volterrianamente empie di Giovanna a p. 23 investono il personaggio di una funzione allegorica che travisa lo stato profondo del sentimento tuo verso la crisi ideologica». Ecco quanto, in merito, Pozzi leggeva a p. 23 della versione che aveva sotto gli occhi: Di un’altra minima rinuncia è spia nella lettera quella «desiderabile strisciola bianca e basta», alla quale l’autore sin troppo facilmente riduce la sua protagonista a seguito della barocca ironia di Pozzi («un nastro bianco, povera Venere da fienile»), dettata da un preciso dettaglio del testo che gli era stato sottoposto, là dove Giovanna sale la scaletta del fienile e Marco distoglie «lo sguardo dal nastro bianco, secondo la promessa fatta». Punto sul vivo, c’è da credere quattro giorni prima, sempre in quel decisivo 20 maggio, aveva espunto dal testo il nastro bianco19. Accetta persino l’idea che sarebbe meglio togliere del tutto Giovanna dal racconto primo, ossia di non farla apparire al funerale, ma, 18 In b e c, p. 82, corrispondente a Requiem, p. 193. 19 In b e c, p. 54, corrispondente a Requiem, p. 144. 79 Marco ora sapeva che Giacomo si era poi confidato con un amico: stai vent’anni in un ranch a sognare la ragazza che hai lasciato in paese, e quando torni trovi l’asse degli gnocchi e la dentiera18. Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini appena i loro supporti dottrinali. Si capisce come il suo autore, nella risposta del 24 maggio (lett. 4) la difendesse e ne rigettasse la qualifica di volteriana (in questa occasione e poi anche a seguito della presentazione del libro da parte di Pozzi, l’anno successivo). Rimase invece persuaso che quella stessa «Giovanna libera pensatrice incontrata sulla porta del cimitero» diventava «la liberazione del libero pensiero dalle catene della bigotta zia Domenica» e che come tale stonava nel suo Requiem, al punto che, con mossa che sentiamo matura e felice, provvide a comporre un nuovo finale, già molto ridotto rispetto a quella che chiama «seconda stesura» (per così dire proustiana) e che «ora» ha «cambiato del tutto», rinunciando all’incontro di Marco e Giovanna all’uscita dal cimitero, negli esatti termini che trascrive nella lettera e che andranno a stampa (salvo la lieve variante segnalata in nota). Concretamente sbarrò a penna blu le otto righe del finale (immutate sin dai Funerali congedati per la stampa) e, riinserendo il foglio nella macchina da scrivere, le sostituì con le otto righe ricopiate anche nella risposta a Pozzi, dove Giovanna si riduce alla sua mano senza epiteti, la mano che compie il gesto rituale della sua gente, e del testo primitivo non rimangono che i «quattro ragazzi» a guardare «i becchini riempire con energiche palate la fossa di zia Domenica». L’unico e nuovo epiteto (le «energiche palate») è breve compenso alla grande ma felice rinuncia; se quello non era il luogo opportuno per esaltare la vita, lo fosse almeno di un congedo definitivo da quella morta. Ed è nell’assieme una nuova prova di quello sguardo cinematografico di cui l’autore si mostra consapevole e del quale lo stesso Pozzi lo gratificò in morte. Martini rinuncia quindi a proporre come risolta sul piano narrativo quella che Pozzi chiama «la crisi di un certo cattolicesimo» vissuta da Marco. Rinuncia poi all’impietoso commento di Giacomo dopo il suo incontro con Maria (la «bella facezia» nei termini di Pozzi). Tra la rampogna di zia Domenica («ecco, te l’avevo detto che non dovevi farti illusioni!») e la triste fine di zia Maria («povero automa ricaricato a chiavetta per tre giorni di vita») si leggeva in b (sbarrato a penna blu con lo stesso tratto del finale, e ancora si legge in c, cassato, ma non senza un ultimo debole tentativo di recupero): Siamo in una situazione tutt’altro che semplice, che magari ti illusterò a voce, e di cui mi è testimone il comune amico Dante Isella. Cercheremo di considerare globalmente il tuo lavoro, anche tenendo conto del libro precedente. Spero di non dover far passare, questa volta, troppo tempo. Passò un semestre e riscrisse il 9 dicembre che «in altri tempi avremmo potuto decidere liberamente e rapidamente la pubblicazione del tuo libro, e con piena convinzione», ma che nella situazione, fattasi ora «strana» non v’è spiraglio di riuscita. Nel frattempo Stefano Jacini, per la sua casa editrice, mi ha chiesto di leggere il tuo testo e io non ho esitato a mandarglielo. Gli è piaciuto come mi aspettavo 80 essendo mutamento più strutturale, non se la sente di operarlo, perché stanco e bisognoso di liberarsi dal libro «per qualche mese almeno». I due (tre con il «nastro bianco») mutamenti sono iscritti (con altri fitti interventi a pressoché ogni pagina, ma di carattere meno ideologico e comunque non immediatamente riconducibili ai pareri di Pozzi) nella versione dattiloscritta di 87 pagine che porta sull’ultima pagina la firma e la data cassate «Cavergno, 3 marzo 1975» (come nel testimone b dell’edizione critica Domenighetti) ma anche, dopo il mutato finale, la firma e la data «Cavergno, 20 maggio 1975», che sola sta nel testimone c e nella stampa. La data del 20 maggio tuttavia segna quella importante decisione ed esecuzione, non il ne varietur del libro: fra le carte di casa proprio il testimone c, dove l’intervento sul finale non è più percepibile in pagina ma integrato nel testo, è portatore di non poche nuove correzioni e varianti a penna (per esempio l’accennato tentativo di salvare la battuta di Giacomo) e di cui varie pagine sono state ribattute a macchina. Eppure quest’ultima versione, che ha certo richiesto giornate intere di lavoro, ribadisce la data «Cavergno, 20 maggio 1975», a quel punto certamente superata. Il bisogno di sospendere il lavoro «per qualche mese almeno», manifestato nella lettera del 24 maggio, è stato soddisfatto e il lavoro è stato ripreso in un’ultima fase, più tranquilla per quanto minuziosa, e probabilmente molto più breve, ma come si trattasse di rifiniture a edificio ormai concluso. Nell’urgenza del confronto con Pozzi, come anche in altre occasioni simili, colpisce il fatto che Martini non difenda il libro ma la propria posizione ideologica. Lo dice esplicitamente: non parla «in difesa del racconto o di Giovanna» ma stende «una confessione da amico scettico e deluso ad amico credente», salvo poi il ritorno al racconto e a Giovanna in quanto portatrice di quell’ideologia. Il discorso su quella che per lui è «l’involuzione paolina della Chiesa» è quello che da lui ci si aspetta e non è qui il caso di dilungarvisi. Pozzi afferma (lett. 3) di aver scritto a Sereni per promuovere il Requiem in Italia. Martini gli risponde (lett. 4) di averlo nel frattempo conosciuto a Lugano (non saprei dire in che occasione) e di aver fatto subito amicizia con lui. Difatti pochi giorni dopo, il 29 maggio, gli invia il dattiloscritto, accompagnato da una bella lettera. Sereni risponde il 12 giugno, su carta intestata della Mondadori: Nel frattempo in effetti Jacini aveva sottoposto un contratto a Martini, datato 5 dicembre, e faceva spedire a Cavergno le bozze del libro il 12 marzo 1976. Nel giugno il Requiem era a stampa. Ricevutolo dall’editore, p. Giovanni ne scrisse a Plinio il 3 luglio (lett. 5), già reagendo contro chi nel libro leggeva soprattutto la nostalgia del passato (nel caso la segnalazione di Paolo Milano sull’ «Espresso» del 27 giugno, ma rimase l’interpretazione prevalente in Italia) per insistere sul fatto che si trattasse di «un libro sul presente». La lunga attesa aveva fatto sì che il romanzo apparisse prima nella traduzione tedesca, dovuta a Trude Fein, sempre presso l’editore Werner Classen di Zurigo, nel novembre del 1975, prima dell’originale italiano presso il Formichiere e addirittura prima, se pur di pochi giorni, della sua forma breve presso Dadò. Vi fu una presentazione del libro da parte di Dante Isella a Milano, a una data che non riesco a recuperare20 e vi fu poi quella di p. Pozzi alla biblioteca cantonale di Lugano, il 5 maggio 1977, che per il suo taglio sottilmente apologetico, ottenuto tramite rovesciamento di ogni più immediata reazione di lettura, suscitò la meraviglia (madre, si sa, del sapere) dello stesso autore, per non dire d’altri21. Fu stampata il 7 luglio in «Cooperazione»; in questa forma, devo credere poco tempo dopo, comunque sempre in quel mese, Martini la rimeditò, dando atto della sua soddisfazione, ma soprattutto di un disaccordo che non poteva sottacere: non aveva inteso ordire il trionfo di zia Domenica: «Io non la pensavo così, e, malgrado l’acutezza delle tue argomentazioni, non riesco ancora a crederlo oggi» (lett. 6). La sua polemica politica e sociale, indistinguibile per lui da quella religiosa, messa in second’ordine da Pozzi22, con un giudizio che la mia rilettura odierna non può che condividere, faceva parte irrinunciabile del messaggio che l’autore voleva trasmettere. Sono certamente le ultime distese pagine che Martini ebbe modo di scrivere, la lettera più lunga, a mia conoscenza, da lui mai scritta. Ebbe ancora modo di ribadire le sue persuasioni in un paio di memorabili interviste e di scrivere qualche 81 20 Recupero invece un preciso ricordo di Martini del discorso che vi tenne Isella e lo trascrivo nelle note alla lett. 6. 21 Una sorpresa espresse anche Dionisotti, in risposta alla lettera in cui p. Pozzi il 16 ottobre 1977 gli annunciava un miglioramento della salute della sorella, che già aveva tenuto la famiglia «in grande angoscia», e la malattia di mio padre: «è stato operato di tumore al cervello e sta riprendendo, ma sono cose queste disperate»: «Che dire del papà di Martini? Quell’articolo che lei mi aveva mandato a Romagnano mi aveva riproposto il romanzo in figura diversa da come lo ricordavo, e mi propongo di riguardarlo» (7.11.77); in Carlo Dionisotti – Giovanni Pozzi, Una degna amicizia, buona per entrambi. Carteggio 1957-1997, a cura di Ottavio Besomi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, pp. 202-203. 22 «Non c’è dubbio che la preminenza in questo settore ideologico-simbolico vada riconosciuta all’elemento religioso. Ci sono indubbiamente dei dati che non si riducono alla religione. Fatti politico-sociali, come l’evocazione di certi aspetti della vita contadina; la sua dispersione, sotto il sopravvento di un mondo industriale; lo sfruttamento del contadino da parte del ceto borghese; la diversità di classe dell’intellettuale; il decadimento dell’ambiente in seguito alla spinta della civiltà di massa; l’idiozia di un certo mondo politico appartenente a un determinato partito. Sono dati che non si inseriscono nella viva circolazione del racconto come invece vi si inseriscono gli altri, che ho genericamente indicato come religiosi» (Giovanni Pozzi, Per il «Requiem» di Plinio Martini, «Cooperazione», 7 luglio 1977, pp. 5-6, poi «Humanitas», 37, 1, febbraio 1981, pp. 79-89, la citazione a p. 83). Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini e ha chiesto di pubblicarlo. Dico subito che ti conviene : il «Formichiere» svolge un’azione utile rispetto alla produzione più recente, di giovani o poco noti. 23 Plinio Martini, Corona dei Cristiani, Locarno, Dadò, 1996. 24 Giovanni Pozzi, Postface a Martini, Requiem pour tante Domenica. Traduction et notes de Christian Viredaz, Lausanne, Éditions de l’Aire, 1987, pp. 151-62. 25 Giovanni Pozzi, Tempi cristiani nei romanzi di Martini, in Plinio Martini. Dieci anni dopo. Testi di Plinio Martini, Alessandro Martini, Giovanni Pozzi, Ilario Domenighetti, Francesco Guardiani. Disegni di Fra Roberto del Convento di Santa Maria del Bigorio, Lugano, Edizioni Cenobio, 1989, pp. 23-31 (la citazione a p. 23). Memore dei molti anni friburghesi per lui appena conclusi, in cui la mia famiglia aveva avuto una certa qual parte, il saggio di Pozzi è dedicato «a Olivia oggi Martini / riandando a memorie diverse / ugualmente care». Non senza significato il fatto che citi il testo del Fondo del sacco rinviando alle pagine della prima edizione (1970). 82 commovente messaggio di congedo, ma la malattia, dichiaratasi a fine agosto, con l’operazione al cervello del 31 agosto al Kantonspital di Zurigo, la successiva diagnosi, la caduta dal letto d’ospedale che comportò una lunga degenza in stato comatoso e poi una semiparalisi, non gli permisero, nonostante ogni sforzo, di riprendere il lavoro nei due anni di vita che gli rimasero. Anche il libro postumo da me pubblicato appartiene al fervore creativo che il Requiem e la sua crescita manifestano e protraggono ancora per un paio d’anni oltre la data cardine del 20 maggio 197523. Padre Giovanni accompagnò il calvario di Plinio con i vari messaggi che qui rendo noti: dopo l’operazione, il 4 settembre 1977, esprimendo «il desiderio profondo di vederti superare il difficile passaggio nel tuo cammino esistenziale così poderoso e sicuro» (lett. 7), augurando un buon rientro a casa il 28 settembre (lett. 8) e poi il buon Natale 1978 (lett. 9) e infine con una cartolina che vuole associare l’amico all’evolversi della mia situazione universitaria il 15 gennaio 1979 (lett. 10). Plinio Martini morì nel suo letto il 6 agosto 1979, a 56 anni appena compiuti. Nel diario culturale radiofonico (rsi) di quel giorno Pozzi, sollecitato in merito, lo ricordò brevemente ma a tutto tondo, per la sua forza linguistica e narrativa («con un’impaginazione così mossa da far pensare qualche volta ai montaggi del cinema»), caratterizzando il suo racconto come «esemplare», in quanto radicato nella moralità e nella religiosità: «Una moralità di interazione sicuramente evangelica tesa alla simpatia verso i poveri in senso lato si scontra talora anche con le forme della religione positiva, e che si proietta in una prospettiva politica di riscatto. Ed una religiosità che permea tutto il senso dell’esistenza, ma che, lontanissima dall’essere indeterminata e vaga, si lega consciamente a delle verità di ordine ideologico». Parole nelle quali spicca la nuova formula nella quale riafferma la sua interpretazione (il racconto esemplare) e in quella la considerazione degli elementi più cari all’autore, da lui rivendicati nella lettera del luglio 1977. In occasione della traduzione francese del Requiem Pozzi stese una postface che non è la traduzione della presentazione orale di dieci anni prima, ma, pur conservando le linee portanti di quella, una rilettura del libro, con nuovi prelievi24 ; una rilettura già intonata a quei «tempi cristiani» ai quali intitolò il successivo intervento sui due romanzi, estendendo dunque al Fondo del sacco il partecipe e penetrante colpo d’occhio religioso che per primo aveva dedicato al Requiem: «Mentre l’uno, il Requiem, imprigiona la storia dentro la trama stretta e obbligata d’un rito, l’altro, Il fondo, la sprigiona in una serie tentacolare di anacronie» 25. L’ultimo contributo, I novissimi di Plinio Martini, come avverte la nota introduttiva ad Alternatim, «nasce dalla fusione di Per il Requiem di Plinio Martini […] e Tempi cristiani nei romanzi di Marti- Sulla cultura religiosa e teologica di Martini ho già discusso: non trascurabile ma datata; trasmessa da fonti professionali ma mediocri, ferme ai dati di casistica e alle pigre sistemazioni dei manuali neoscolastici. Perfino la sua informazione in materia di religione praticata è folta di dati, ma riduttiva nelle fonti (si veda la sparuta e incolore serie di manuali di preghiere e comportamento della p. 21 [73-74]), tanto da non consentirgli una valutazione culturalmente esatta del vero humus religioso del suo popolo, distratto anche da un accanito anelito a sottrarre sé e gli altri all’asfissia clericale. La sua lettura liturgica della messa da requiem è povera […] 27. Vi rinuncia perché, come conclude in entrambi i contributi: «il concetto di tempo soteriologico non deriva da una speculazione astratta, ma appartiene ai modi con cui il credente vive la fede»28. A Pozzi non sfuggì dunque mai l’evidente «accanito anelito a sottrarre sé e gli altri all’asfissia clericale», ma ritenne ben più interessante ascrivere i due libri «nella loro intima organizzazione mentale […] come pochi altri ch’io sappia nell’Italia di oggi, a quelli che con felice sigla una vecchia collana chiamava “i libri della fede”»29. Infine p. Giovanni sentì ancora risonare la voce di Plinio in Grammatica e retorica dei santi, là dove ricordò le interminabili aggiunte di «pater ave gloria» ai rosari di zia Domenica e «il coro di voci montanare use a trovare nell’antico gregoriano le loro scorciatoie collettive e individuali, come lungo i sentieri alpestri»30 . E in quel coro i due pedemontani tanto diversamente inurbati e acculturati li sentiamo idealmente cantare all’unisono. Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini ni», ossia della presentazione del 1977 con il saggio a dieci anni dalla morte: fusione, non semplice sovrapposizione26, con una rinuncia anche significativa. Affermava in Tempi cristiani: 83 26 Giovanni Pozzi, I novissimi di Plinio Martini, in Id., Alternatim, Milano, Adelphi, 1996, pp. 437-48. 27 Tempi cristiani, pp. 30-31. 28 Alternatim, p. 447; Tempi cristiani, p. 31 (ma esordendo: «Quella nozione di tempo non deriva» ecc.). 29 Alternatim, p. 448; Tempi cristiani, p. 31. 30 Giovanni Pozzi, Grammatica e retorica dei santi, Milano, Vita e pensiero, 1997, pp. 29-30, 340 (citando da Requiem, pp. 134-35 e 94-95). Lo sottolinea la dedica autografa apposta nell’esemplare di casa: «A Olivia e Sandro / dove ancora risuona / la voce di Plinio / p. Giovanni / 25.i.98». 1. Cavergno, 15 ott. 70 Caro Giovanni, Ho incontrato per caso Don Martino. Dice che telefonare al Papio è un guaio, visto che non c’è portinaio. Crede che dev’essere senz’altro possibile fare un buon lavoro sulla nostra popolazione dalla fine del Settecento in su. Tutti i comuni nella prima metà dell’Ottocento istituiscono i ruoli della popolazione, che sono conservati tutti (salvo incendio), e che elencano anche i nati nella fine del secolo precedente. Inoltre le parrocchie conservano in archivio i libri dei battesimi. Ci vuole soltanto molta pazienza. I comuni più indicativi potrebbero essere Campo, Cerentino, Maggia e Cevio. Cavergno e Bignasco potrebbero essere indicativi per la ragione opposta: per aver meglio resistito allo spopolamento. Ciao, con molto affetto, Plinio ps Se puoi, dì a Sandro che martedì 11 sarò a Bigorio, dove alle 14.30 ci riuniremo per fondare il gruppo Marino in Ticino, trattare del Trissino e fare il programma della riunione a Bigorio per il 30-31 agosto dell’anno prossimo. 84 2. Friburgo, 25.x.70 Caro Plinio, ho ricevuto con grande piacere il tuo libro. Sarà per te una bella soddisfazione. Io te ne scrissi a tempo suo; in questi giorni non ho avuto tempo di riprenderlo e prevedendo di non averne per qualche settimana non voglio tardare a ringraziarti dell’omaggio. Che il libro sia sincero e profondamente sentito mi risultava chiarissimo a quella lettura; che la materia fosse nuova o elaborata con novità d’animo mi pareva anche fuori di dubbio. Che poi si potesse impostare in altro modo era cosa opinabile cui tu solo potevi rispondere. Come tua doveva essere la scelta dell’area culturale entro cui agire. Mie riserve o mie critiche allora fatte si basavan sulla persuasione che nulla merita di essere fatto a livello esclusivamente ticinese. Ma è materia opinabile. Ora non mi resta che augurarti / i successi migliori, le soddisfazioni più autentiche. Ti ringrazio anche molto delle informazioni sugli archivi: saranno utilissime per la ricerca che Ruffieux intende fare. Spero che Sandro passi un anno felice e fruttuoso a Milano. Io credo che, pur nella sua riservatezza, farà molta strada. Finezza di gusto e chiarezza di pensiero, modestia di lavoratore e finezza di artista si uniscono bene nella sua forma mentis; se avrà le opportune occasioni, andrà molto avanti. Questa mi pare una; ed egli saprà senz’altro prenderla per i capelli. Invio anche i miei ossequi alla tua signora, ricordando la sua gentile ospitalità. Spero l’anno venturo di tornare a Roseto: diventerà il nostro punto d’incontro tradizionale. Coi più cari saluti tuo P. Giovanni Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini 85 3. Giov. Pozzi 235 Rue de Morat, Fr. 037/22.67.69 Friburgo, 19.v.75 Caro Plinio, ho letto con gran gusto il tuo racconto. In mezzo a tanti libri noiosi, eccone uno che sa divertire. Dico divertire nel senso serio della parola; avvince, per la passione e il calore con cui son viste cose tanto grandi quanto la vita e la morte, il di qua e l’aldilà. Lì non c’è astio, ma collera; non sufficenza, ma dubbio doloroso; non odio, ma amore. È il più bel libro ch’io conosca sulla crisi di un certo cattolicesimo, del nostro cattolicesimo. Per questo mi piaccion meno le parti dove la crisi è intravista come risolta, sia sul piano ideologico che del narrato. Le dichiarazioni volterrianamente empie di Giovanna a p. 23 investono il personaggio di una funzione allegorica che travisa lo stato profondo del sentimento tuo verso la crisi ideologica. Giovanna libera pensatrice incontrata sulla porta del cimitero è la liberazione del libero pensiero dalle catene della bigotta zia Domenica. Se questo è il tuo stato d’animo ed il tuo credo novello, sia; nel libro però ciò [1v] sta malissimo, non tanto perché la soluzione sia piattamente banale, ma perché risolve ex machina la crisi che invece fa ribollire le pagine migliori. Anche l’incontro amoroso con Giovanna assume in quella prospettiva una piega ingenua e sgradevole: il luogo comune, per cui al libero pensiero sempre si accoppia il libertinismo (che oltre tutto è un luogo comune della parte avversa, quella di zia Domenica). Insomma questa Beatrice rovesciata sarebbe meglio che lasciasse per sempre il suo Dante nel suo purgatorio, e non comparisse del tutto nel racconto primo, né accanto alla bara, né al funerale, né men che meno sulla porta del cimitero; e vivesse tutta e sola nel ricordo di Marco e nel desiderio e speranza di vederla al funerale; speranza frustrata, che sarebbe in linea con la funzione che essa ha. Tra le caratteristiche della poesia c’è preminente il disinganno teso al lettore con l’inganno. Non è perch’io sia credente che faccio questi appunti o perché ammicchi ad un ritorno all’ovile di zia Domenica. Io parlo dal punto di vista della tua invenzione poetica e della sua funzio-[2r]nalità. Lo stesso peccato del finale offerto al lettore torna nella conclusione della vicenda di Maria: l’asse dei gnocchi e la dentiera è una bella facezia, ma sta malissimo nel racconto. Lo dirige verso la formula più banale, fa sapere che anche lui, merlo, aveva atteso per esser banalmente frustrato. Perché non lasciare al lettore stesso di sciogliere il dilemma? La macchina narrativa non asseconda, così stando le cose, lo sviluppo descrittivo del funerale e lirico-evocativo, sia esso di natura nostalgica che irosa, dei ricordi che è la parte viva dello scritto; dove Gadda ha insegnato in modo trasparente, ma lo scrivente ha imparato in modo originale e sentito. Ah ma come è possibile dopo la grande sfuriata del giudizio trovare una [2v] qualunque Giovanna e prenderla a braccetto? in confronto a zia Domenica, la povera Giovanna svanisce; diavoletto nero per chi sta di qua, mefistofelino in 24° per chi di là. Ed anche le sue grazie carnali sono proprio da poco: un nastro bianco, povera Venere da fienile. Meglio dunque lasciarla una larva, di contro alla figura tanto riuscita di zia Domenica; qui sei scrittore quali pochi ne ha la narrativa italiana di oggi; e lì, in quel mostro, c’è tutto il Lettera di Giovanni Pozzi a Plinio Martini (19 maggio 1975), recto. 87 4. Cavergno, 24 maggio 1975 A Padre Giovanni Pozzi Caro Giovanni, Grazie per la tua lettera bella e utile, e grazie per l’appoggio presso la Mondadori. Le cose andranno bene, penso; ho conosciuto Sereni a Lugano e ci siamo subito fatti amici. È però chiaro che il consenso tuo e di Isella sono per me molto importanti: è sempre difficile sfondare. La tua è una prova di amicizia che mi ha fatto un grande piacere: ma ti devo essere riconoscente anche per l’aiuto che hai sempre dato a Sandro. Purtroppo devo ammettere che tu hai molte ragioni di criticare il personaggio Giovanna, e soprattutto il suo incontro con Marco a funerale compiuto (cosa per fortuna rimediabile) come elemento che abbassa a un livello banale il racconto del funerale e le relative meditazioni sull’aldiqua e l’aldilà. Comincio subito a dirti che quell’incontro, per me, era soltanto una sciocca concessione all’aspettativa dei lettori comuni, quelli per cui scrivo, se non sbaglio d’indirizzo. Una chiusura da film americano: i quali qualche volta sarebbero anche passabili, non finissero immancabilmente con un dolciastro confetto moralistico o con una caccarella umoristica (pulita caccarella di capra, se ricordi ancora). Era anche il pretesto per vedere il cimitero dall’alto: adottando anche qui, come mi capita spesso, un procedimento cinematografico. Tu hai caricato quell’incontro di significati che io non avevo previsto e che non sento di portare dentro di me: è quindi un mio errore. Sentivo Giovanna, in quel momento, come un semplice richiamo alla vita: è ciò che mi succedeva sempre, quando, come giudice di pace, dopo aver frugato un cadavere ancora tiepido e schifoso, o già freddo perché dissanguato da orribili squarci, ritornavo in mezzo alla gente comune, viva, con donne dalle movenze flessuose. La mia crisi religiosa non si è affatto conclusa con una soluzione libertaria, volterriana. Mi sento distaccato dalla Chiesa cattolica, ne respingo l’involuzione paolina, non posso [2] credere che la Verità sia sempre di destra, dalla parte dei ricchi e del potere. Da quella parte, se storicamente non sbaglio, è sempre stata la Chiesa dopo l’editto di Teodosio, salvo eccezioni: ma quando i papi erano d’accordo con il popolo, si trattava ancora sempre di una scelta di potere, e non di amore per i diseredati. Non è Alessandro VI che mi scandalizza. I papi venivano sempre dalle classi sociali più elevate, oppure di quelle Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini tuo amore e il tuo rancore. Zia Domenica è Cavergno tutta intiera; e tu sei, bestemmiando, dalla parte di zia Domenica. Ho scritto due parole a Sereni; altre ne dirò ad Isella; e farò in modo che il libro possa trovare la sua giusta strada in Italia. Mi ha detto Sandro del male che ha colpito il papà. Gli sono vicino con la preghiera. Capisco il vostro dolore, tanto più in vicinanza d’una lieta ricorrenza. Ma il rinvio renderà la festa più bella e la ripresa più cara. Scusami la tirata lunga e disordinata. Salutami la tua signora e ricordami. Aff.mo P. Giovanni Pozzi 88 classi avevano accettato il punto di vista e sposato la causa: penso al monaco Ildebrando, all’appoggio papale dato ai comuni contro il Barbarossa, ecc. Le pagine migliori del mio Requiem credo siano la prova di quanto affermo, e cioè di non aver risolto il mio travaglio accettando le facili formule dell’anticlericalismo ottocentesco, liberal-massonico, volterriano o garibaldino: non avrei studiata tanta teologia, quella ortodossa, più qualche scappata nei moderni. Questo naturalmente non lo dico in difesa del racconto o di Giovanna; è una confessione da amico scettico e deluso ad amico credente. Anch’io credo ancora in un Dio totaliter alter; e se non sono più sicuro che Cristo sia il Verbo, il Figlio-pensiero-del-Padre al quale è unito dall’Amore, i Vangeli, soprattutto quello giovanneo, continuano a commuovermi. E trovo motivi, soprattutto in quest’ultimo, dalla prima pagina all’imprevedibile colloquio con Pilato, che non sono mai comparsi nella predicazione che ho dovuto subire in trent’anni di fedele pratica religiosa (non conto l’infanzia). Per me, il problema non è mai stato l’erotismo, o la repressione ecclesiastica in materia di sesso, di evidente eredità veterotestamentaria. Cioè: il problema c’è stato, ma prima; e quando ero ancora membro dell’a.c. l’avevo già risolto convincendo me stesso che quel peccato non poteva essere preso proprio così sul serio; confortato dalle mie letture, dallo studio di alcune opere sull’evoluzione e sulla psicanalisi, e, più tardi, anche da Chardin, mi ero creata una scala di valori morali diversa da quella ufficialmente accettata. Credevo più necessario operare verso il bene che fuggire con tremore le occasioni dei fienili. La mia crisi religiosa, il mio rifiuto vengono dal potere e dalla ricchezza della Chiesa ufficiale, che è quella che conta, che prende le decisioni: non esistendo nel suo interno, [3] nemmeno oggi, nessuna forma di democrazia (il Sinodo non è evidentemente una cosa seria). E vengono, crisi e rifiuto, dalla repressione di ogni libertà di ricerca al di fuori degli schemi già fissati e collaudati, magari con dogmi alla cui formazione si era giunti dopo secolari diatribe dove la politica temporale aveva avuto un peso determinante. (Il Filioque…) Anche la scelta dei Santi ubbidiva a criteri politici: e la povera gente accorrere davanti alle loro reliquie… Inquisizione, guerre religiose, monsignori, destre fedeli, Franco, il partito cattolico che deve combaciare i padroni con gli sfruttati, ai quali occorre dare «giusta mercede»… E i cardinali protettori di mafiosi, e l’inchino come norma di vita. Per salire le scale della gerarchia aiutava, e forse aiuta ancora, la tendenza all’ossequio più che la castità dell’anima. Ripeto cose certamente dolorose per te; per me lo furono fino all’ulcera. Tu certamente hai trovato altre risposte: sono tuttavia contento che tu stia nell’ordine di San Francesco: quello almeno era un santo davvero. E non era nemmeno prete… Ma torniamo al libro. Giovanna sul trenino valfondese non è volterriana, almeno per me: è una ragazza delusa nella sua aspettativa di femmina, e aggredisce il maschio in quel modo. È una povera cosa Giovanna, una desiderabile strisciola bianca e basta; nella seconda stesura del racconto l’ultima travagliatissima pagina si dilungava in un colloquio che doveva precisarne la psicologia, ma mi sono subito accorto che era un errore imperdonabile. Ho ridotto quelle pagine a poche righe, e ora le ho cambiate del tutto, così: Plinio Martini, Requiem per zia Domenica, ultima pagina della versione b. «Si scostò per cedere il posto agli altri, sostando a guardare le mani che si protendevano nella ripetizione del rito: la mano grassoccia di Margherita, quelle nodose del padre e delle vecchie amiche della zia, la mano di Giovanna, le manine dei piccoli raccogliere e gettare una brancatella di quell’humus di trapassati riemerso per un’ora di sole. Sfilarono tutti, avviandosi poi verso l’uscita, lasciando alle spalle quattro ragazzi che guardavano i becchini riempire con energiche palate la fossa di zia Domenica.» Ciò che mi rincresce è di non aver pensato prima che lasciar [4] fuori Giovanna dal funerale sarebbe stata soluzione migliore, come tu ora mi suggerisci. Dovrei rifare tutto, e sono troppo stanco. Ho bisogno di liberarmi del libro, ho bisogno di vivere in altro modo, per qualche mese almeno. L’errore mio deriva dal fatto che la prima idea del racconto (che doveva essere di circa venti pag. per la Tip. Stazione) mi è venuta proprio da Giovanna e da zia Maria, dalle due avventure legate nel tempo e opposte nel contenuto umano; zia Domenica, entrata nel racconto per il pretesto di avviarlo, mi è poi cresciuta fra le mani, diventando la vera protagonista del racconto. È stata lei, prepotente, con la sua ferrea volontà, a chiedere quel posto: che le spettava. Anche l’asse degli gnocchi e la dentiera a me non sembravano una boutade, ma la rappresentazione della tragica insensibilità dell’americano che si sente il solo defraudato, dopo vent’anni di lavoro. Comunque ho tolto le tre righe. Grazie, quindi, del tuo aiuto. E grazie anche per il ricordo che hai di mio padre: sapessi che effetto mi ha fatto vederlo frastornato da quella prima e improvvisa aggressione della morte… È stata una leggera trombosi cerebrale, e ora migliora di giorno in giorno, è già uscito dal letto. Con il più grande affetto, Plinio 90 5. Friburgo, 3. vij. 76 Caro Plinio, ho ricevuto dall’editore il tuo romanzo. Tu già sai cosa ne pensi; che questo lavoro ti porti al primo rango dell’attuale letteratura ticinese, è cosa fra le meno significative delle molte provocate dall’evento. Importerà il posto che tu hai fra gli scrittori italiani: e importerà chi tu sia, lo scrittore non professionale, ma non dilettante; il maestro di scuola secondaria e non delle scuole privilegiate; l’uomo estraneo al mercato librario, ai salotti ed alle conventicole. Il ticinese, razza d’uomo linguisticamente stento e imbellettato, che possiede un registro linguistico ricco e corposo; e poi il portatore e interprete di una crisi spirituale / che tutti interessa e che nessuno ha saputo sinora esprimere in Italia così: da laico e non da chierico od ex-chierico, ma da laico non laicista, che conosce la pietà e l’amor di Dio. Ho visto di gran fretta, perché, benché sia abbonato, il numero non mi è giunto, la recensione dell’Espresso. Mi compiaccio assai di questa apparizione, ma debbo dire che quello lì non ha capito niente. No no, non è un libro di memorie il tuo; è, al rovescio, un libro sul presente: dove precisamente il doppio registro temporale non 91 6. Al Prof. Giovanni Pozzi Rue de Morat 235 Friburgo Caro Giovanni, sono veramente contento che tu abbia permesso la pubblicazione del tuo lavoro critico sul mio Requiem; mi hanno già telefonato alcuni lettori per esprimermi la loro meraviglia per i numerosi significati che erano loro sfuggiti in prima lettura. Era importante per me che il libro fosse presentato da un religioso; questo non tanto per ovvii motivi provinciali, per la solita stupidità del giornalismo locale, culturalmente refrattario, e per l’idiozia dei tanti che mi vorrebbero anticlericale per partito preso e quasi per dispetto; ma soprattutto perché soltanto un critico teologicamente e liturgicamente informato era in grado di valutare la mia testimonianza sulla nostra cultura popolare religiosa, testimonianza che, malgrado l’ironia, la satira, le varie denunce, l’affiorante scetticismo messo in evidenza da Mario Forni in Dialoghi 46 (impossibilità di credere oltre nella capacità di crescita e di miglioramento degli uomini), è tuttavia un’onesta e rispettosa testimonianza, spesso anche colma di affetto e di nostalgia. La pubblicazione è adesso per me l’occasione di rileggere e di rimeditare il racconto. Posso, ora, spiegare meglio le riserve che avevo fatto a Lugano, ringraziandoti con molto affetto ma tuttavia in modo maldestro, impacciato, come mi capita spesso quando devo improvvisare, forse per l’abitudine dello scrittore di stare attento a non lasciar sfuggire l’occasione di una variante utile. Perché, certi punti di resistenza che avevo incontrato ascoltandoti, rimangono ancora, e cerco ora di spiegarli: senza tuttavia avere la pretesa di essere un lettore più qualificato. Uno scrittore sa da che punto iniziare, ma non sa di solito dove arriverà, ciò vale soprattutto per un racconto come il Requiem, e mi pare risponda alla logica dell’invenzione. Credo cioè che la lettura che un autore fa di se stesso sia una delle tante possibili, e non necessariamente la più valida. Ti scrivo | quindi cercando di capire meglio me stesso, e non con la pretesa di toglierti il turibolo, per ricordare la tua divertente battuta iniziale, a Lugano. Posso d’altro canto dire subito che sono d’accordo con te sul nòcciolo centrale delle tue argomentazioni: il Requiem è un racconto dove «il funerale, nonché il supporto, è la parte integrante di un unico racconto»: e l’aggettivo unico mi sembra di particolare importanza. Isella, Gibellini e Forni, per citare i tre che, lasciando da parte la tua mirabile presentazione, si sono occupati con maggior attenzione critica del mio Requiem, hanno scoperto piuttosto l’intreccio di due racconti, uno sul piano presente del funerale, ricco di meditazioni, di connotazioni, di excursus liturgici, teologici, letterari, ecc., e Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini serve al vagheggiamento d’un passato, bensì all’urto del presente al di là della presenza della morte. Sandro vive? Ricordami a tutto l’entourage e specialmente alla tua Signora e credimi il tuo aff.mo P. Giovanni Pozzi Ricordati d’inviare il libro a Dionisotti e Contini 92 l’altro, sul piano della memoria, denso di affetti nostalgici e di amore per la vita, e anche per una forma di vita che appartiene definitivamente al passato. Quello era proprio stato il mio punto di partenza, e tu, avendo letto per primo la prima stesura completa del racconto, già lo sai. Originariamente io avevo l’intenzione di raccontare la storia di un fresco amore adolescente, favorito dai temporali che possono anche essere una grazia di Dio, ma represso dalla terribile zia dal naso borromeo; il funerale doveva essere il pretesto per la rievocazione dell’accaduto, e magari anche l’occasione di un nuovo incontro a lieto fine dei due. (Una volta si concludeva con il matrimonio; oggi sarebbe stato più à la page lasciar intravvedere la possibilità di una notte in albergo. Tempora mutantur malgrado le zie). Tu sai benissimo che, proprio ubbidendo alla spinta iniziale, in quella prima stesura avevo ancora inserito un incontro, anche se muto, dei due non più giovani amanti sopra il camposanto, a guardare i becchini riempire la fossa, quasi a dire che quel lavoro era la rimozione dell’ostacolo che impediva il proseguimento della loro avventura amorosa. Sei stato tu ad avvertirmi dell’errore che stavo commettendo; e se ho immediatamente tolto quel passo, sostituendolo con il rito delle mani che gettano | brancatelle di terra sopra la cassa (azione più gentile e affettuosa, durante la quale i nostri due rimangono staccati), non è stato certo per farti un piacere, ma perché avevo subito capito che sarebbe stato un grosso errore, visto che la conclusione del racconto vero era già tutta nel giudizio universale. Certo, nessuno può impedire che il lettore desideroso di tenerezze immagini i due riuniti a funerale finito: ma questo, dal punto di vista della coerenza creativa, poteva essere l’inizio di una nuova storia, non la conclusione di quella raccontata nel Requiem. Quindi, il racconto è veramente la celebrazione della vita e della morte della famula Domini: la quale, proprio durante la stesura, si è prepotentemente imposta con il suo naso, fino a diventare eroica come un cavaliere antico, e mettendo in ombra Giovanna, la bella, la grazia di Dio (sicuro! e magari anche per dispetto, come tu hai detto con un’ombra di elegante cattiveria: non è grazia di Dio tutto ciò che in questa vita, piena di condizionamenti, di repressioni, di malattie, può farci veramente piacere?) Un altro punto, marginale e opinabile, di una mia resistenza è dove tu accenni a «troppo scoperte confessioni letterarie che rinviano a Leopardi e a Catullo». (Ma sono d’accordo sull’«infelice collocazione» delle letture teologiche di Marco). Il fatto che Marco adolescente legga quegli autori (nota che di Catullo conosce soltanto l’unica poesia che di quel poeta si concedeva nei testi scolastici) lo pone fra i pochi studenti che sono tanto disponibili da non sbadigliare durante la lettura dei classici: è una caratterizzazione autobiografica, / come parecchie altre (io ho curato le vacche con il Leopardi in tasca): era quindi normale che egli vivesse i suoi affetti e soprattutto il suo amore adolescente proprio attraverso il filtro magico di quella poesia. (Giulia Gianella ha scoperto qualcosa di stilnovistico, e non era un complimento, nella Maddalena di «Il fondo del sacco»). Ecco perché la descrizione della campagna aldrionese richiama così apertamente il Tasso dell’Aminta, e perché, ancora durante il funerale, guardando il paesaggio, torna in mente a Marco il buon Pascoli (i prati velati di un tenero verde mi sembra imitazione colloca- Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini 93 ta in luogo giusto); e perché infine Giovanna, psicologicamente poco identificata (è grazia di Dio e basta) ha però aspetto e movenze petrarchesche: e il Marco adulto, questo mi piace che tu l’abbia sottolineato, sarà capace di sorridere di quel suo innamorarsi prima della convenzione che della ragazza in carne e ossa. Al punto che, durante l’occasione del fienile, non toccherà la ragazza, e cercherà addirittura di non guardarla fino a quando non sarà liberato, con il lancio del pane e formaggio, dai miti della tribù, e quindi anche dalle convenzioni petrarchesche e stilnovistiche. Più importante è invece il mio disaccordo quando tu accenni ai «luoghi vieti e consunti dell’anticlericalismo più corrente». Il mio non è mai stato un anticlericalismo di maniera. E se tu hai la pazienza di rileggere certe mie impennate, anche quelle che denunciano scopertamente la parte vassalliana del partito cattolico vedaschese; se rileggi la lista che a un certo punto faccio dei sagrestani, degli scaccini, dei prefetti di collegio, delle beghine, dei monsignori, ecc., puoi scoprire subito (come del resto ha subito capito Forni) che se io ce l’ho con quella gente è proprio perché la loro adesione al cristianesimo non è, come fu la mia e come resta naturalmente la tua, una generosa accettazione della legge della carità; è invece, nel migliore dei casi, un mimetizzarsi per paura (dell’inferno, del prete, di essere guardato male, di perdere l’impiego); nel caso peggiore è poi un profittare della fede altrui, di mio padre per esempio, della sua onestà e ingenuità, | per raggiungere le leve del potere e manovrarle nei modi pipidini che tutti i ticinesi oggi dovrebbero finalmente conoscere. (In Italia e altrove, con tutti i Tanassi e i Sindona che circolano, le cose non vanno meglio, e pare che il papa ne soffra parecchio). Ora tu mi puoi dire che queste sono le mie motivazioni, le quali però nel testo non sono venute fuori con chiarezza, o che, qua e là, hanno assunto quelle forme viete e consunte che dici. Magari hai ragione, e me ne spiacerebbe moltissimo. A me pare però che il mio Galileo non sia il Galileo dell’800, eroe che combatte insieme a Bruno l’oscurantismo. La ‘mia’ Chiesa, più che oscurantista, è una chiesa che si allea al potere temporale e capitalista e che nega all’interno il dibattito. Io ho sofferto molto per questo, e avendo ‘posto delle domande’, come Galileo con le sue lenti, quando ancora partecipavo all’Azione Cattolica, e con in fronte la fede che mi splendeva, sono stato castigato duramente. E il mio caso non fu un’eccezione! Un altro punto che potrebbe ricordare i luoghi comuni dell’anticlericalismo è l’impennata di Giovanna, che è però semplicemente una ragazza indispettita, arrabbiata anche contro Marco: il quale, durante il funerale, avrà ben diverse e più sofferte meditazioni. Non voglio ora, per non dilungarmi troppo, togliere delle citazioni da un testo che tu conosci così bene, sia sulla sofferenza non del tutto superata di Marco, sia sulla paura della quale ho parlato prima, e, quindi, sull’esaltazione del coraggio che chiamo virtù cardinale, assumendo polemicamente un sintagma della dottrina cattolica. Insomma, mi sembrava di aver chiarito bene la posizione di Marco, excattolico che ha meditato dolorosamente un non facile rifiuto. Ecco perché, pur essendo iscritto, senza pentimenti malgrado le numerose angherie subite per quella scelta, in un partito marxista, io posso benissimo accettare che Forni, chiuso il Requiem, mi definisca un buon cristiano. Ha ragione, perché 7. Lugano, 4.ix.77 Caro Plinio, Voglio solo dirti quanto ti sono vicino in questa circostanza, con il desiderio profondo di vederti superare il difficile passaggio nel tuo cammino esistenziale così poderoso e sicuro e con la solidarietà dell’amico che cerca di 94 quella scelta la feci proprio, a dirla in linguaggio cristiano, per carità di coloro che sono i più poveri e i più sfruttati. E quella scelta non | implicava il rifiuto di Dio; sì quello della Chiesa, troppo chiaramente schierata su posizioni opposte (lo era già ai tempi di San Francesco). E non sono d’accordo infine quando tu parli del «trionfo» di zia Domenica. Io non la pensavo così, e, malgrado l’acutezza delle tue argomentazioni, non riesco ancora a crederlo oggi. Quando ho scelto il titolo Requiem, io intendevo proprio dire requiem per lei e per il mondo contadino e religioso che inblei si incarnava: e mi sembra evidente che in molti passi del libro ho detto chiaramente come quel mondo sia defunto, e come i suoi valori siano irrecuperabili, anche se non sono nati dei nuovi valori alternativi. Né da noi, né altrove. La pagina finale della resurrezione non è evidentemente una prova del «trionfo», se la resurrezione deve avvenire con «il naso a picchio rimediato» e i calli trasformati nei «piedini della gheisha». E tutta la meditazione di Marco non è forse una sconfitta per Domenica? No, più ci penso e più mi convinco che tu volevi semplicemente affermare che il mondo di zia Domenica resiste ancora nella mente e nel cuore di Marco, che è anche qui personaggio autobiografico. E allora posso anche essere d’accordo con te, perché io non ho mai rinnegato le mie origini, e ciò che di buono ho ricevuto da una troppo severa educazione religiosa: senza la quale però, per dare a Cesare quel che è di Cesare, non sarei mai diventato scrittore. Era quindi meglio nascere nella fitta boscaglia dei divieti della terribile zia piuttosto che nella landa dell’indifferenza, dove non cresce albero che dia frutti. | Ora che ho vuotato il sacco con maggior chiarezza, posso finalmente aggiungere il grande piacere che ho provato man mano che tu scoprivi l’impalcatura ideologica che sostiene la descrizione del funerale: cosa che probabilmente nessun altro lettore sarebbe stato capace di scavar fuori; e posso dire infine che il tuo attento e acuto lavoro, così come il brillante e preciso discorso tenuto da Isella a Milano o l’analisi di Gibellini pubblicata su «Brescia Oggi» (il quale pose soprattutto la sua attenzione nell’analisi letteraria, il dialetto, il latino, la scuola di Gadda, ecc.) sono per me la prova di aver scritto un testo culturalmente valido e utile. Il che è per me di soddisfazione e di incoraggiamento: non ci fossero persone come voi, che siete del resto tra i più grossi calibri della critica italiana di oggi, quasi non varrebbe la pena di scrivere. Grazie, quindi, con tutto il mio riconoscente affetto. E se capiti a Foroglio in agosto, non mancare di venire a trovarmi; ci saranno, spero, anche Sandro e Olivia, che saranno felici di rivederti. Tuo Plinio Lettera di Giovanni Pozzi a Plinio Martini (4 novembre 1977), recto. Lettera di Giovanni Pozzi a Plinio Martini (4 novembre 1977), verso. 8. Lugano, 28.ix.77 Caro Plinio, In un momento in cui ti sarà particolarmente penoso essere assente, permettimi di sbarcare al tuo fianco e tenerti un momento compagnia; ti lascio il mio ricordo e il mio affetto, il mio augurio e la mia sicurezza di un presto ritorno a casa tua. Aff.mo P. Giovanni 9. Friburgo, 23.xii.78 Caro Plinio, mi è caro ricordarti in queste feste ed augurarti, insieme con il buon natale, un 1979 pieno di soddisfazioni. Auguri anche alla tua Signora e ai tuoi. Il tuo aff.mo P. Giovanni Pozzi 97 10. Friburgo, 15.i.79 Caro Plinio, cara Signora, Il dono ed il ricordo mi hanno fatto molto piacere e ringrazio del gentile pensiero, bene augurando e raddoppiando i voti in questa vigilia importante per Sandro. Aff.mo P. Giovanni Pozzi Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini misurare le tue ansie e di farle proprie. Vorrei poterti visitare e tenerti compagnia per un momento. Affidare ad un po’ di carta un compito così arduo | è presunzione. Ma dietro l’ottusità dell’inchiostro leggi la risonanza dell’affetto più intenso. Ti ricordo lungamente e caramente. Il tuo affmo P. Giovanni Pozzi Note alle lettere 1. Martini a Pozzi, 15.10.1970. La lettera manoscritta sul recto di un foglio A 4 è conservata nel Fondo Pozzi. Il destinatario ha aggiunto di sua mano, sotto «Plinio», «Martini». Il tono della lettera dice che lo scambio epistolare si è già avviato, e difatti comprende, oltre che la probabile richiesta di informazioni sugli archivi valmaggesi, almeno una prima lettera di Pozzi sul dattiloscritto di quel che diverrà Il fondo del sacco, persa ma probabilmente del 1968. Don Martino Signorelli, valmaggese di Prato (1896-1975), a lungo docente al Seminario diocesano di Lugano e per un certo tempo rettore dello stesso. Tra 1964 e 1965 rettore del Collegio Papio di Ascona, poi parroco a Bignasco, al momento in cui Plinio Martini lo interpella sulla questione degli archivi valmaggesi stava concludendo la sua Storia della Valmaggia (Locarno, Tipografia Stazione, 1972), di cui lo stesso Martini, assieme a Alberto Lanzi, compilò l’indice analitico. Per porre termine alla sua vasta impresa Signorelli era tornato ospite del Papio. Su di lui si veda Aldo Lanini, Martino Signorelli, un dissenziente fedele. Frammenti e contrappunti, Locarno, Dadò, 1979. Come risulta dalla lett. 2, Pozzi aveva chiesto queste informazioni per il collega di storia Roland Ruffieux. Quanto gli siano state utili non posso dire. Non mi risulta comunque che ricerche sugli archivi valmaggesi siano state promosse dalla sua cattedra. 2. Pozzi a Martini, 25.10.1970. Lettera autografa di un foglio di cm 21 x 15, scritto sulle due facciate. A Milano io stavo lavorando alla mia tesi di dottorato sull’opera letteraria del cardinal Federico Borromeo. Sulle riunioni al Bigorio, attorno alle edizioni del Marino e del Trissino, ospite costante Carlo Dionisotti, si hanno larghe informazioni in Carlo Dionisotti - Giovanni Pozzi, Una degna amicizia, buona per entrambi. Carteggio 1957-1997, a cura di Ottavio Besomi, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013. 4. Martini a Pozzi, 24.5.1975. Dattiloscritto di quattro cartelle A4, numerate, conservato nel Fondo Pozzi. Il destinatario ha sovrascritto sulla prima cartella il nome del corrispondente. L’originale, rispetto alla copia conservata in casa, porta alcune correzioni e una variante a penna nel terzo paragrafo: ‘umoristica’ (caccarella) è epiteto sovrascritto a ‘moralistica’. 98 3. Pozzi a Martini, 19.5.1975. Lettera autografa di due fogli A4 (il secondo numerato 2), scritti sulle quattro facciate. L’intestazione preposta è battuta a macchina. Non so quale sia la «lieta ricorrenza» vicina (il 19 maggio era il lunedì di Pentecoste). Adeodato Martini era stato colpito da una trombosi cerebrale, come suo figlio precisa nella risposta, aggiungendo che si era ripreso. Morì il 5 febbraio 1976. 99 5. Pozzi a Martini, 3.7.1976. Lettera autografa di un foglio A4 scritto sulle due facciate, intestato al Seminario di letteratura italiana dell’Università di Friburgo. La recensione a cui si riferisce è quella di Paolo Milano, Un’infanzia in due romanzi, «L’Espresso», 27 giugno 1976, p. 60. L’altro romanzo, appena Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini Una più articolata riflessione sul destinatario della propria scrittura, rispetto all’affermazione, pur dubitativa, del terzo paragrafo, ma in fin dei conti convergente con questa, Martini aveva proposto rispondendo alla domanda «Per chi scrive Lei?» rivoltagli dalla «Neue Zürcher Zeitung», risposta datata 19 agosto 1974, ora leggibile in Plinio Martini, Nessuno ha pregato per noi. Interventi pubblici 1957-1977, a cura di Ilario Domenighetti, Locarno, Dadò, 20013, p. 265. L’«involuzione paolina» della Chiesa (par. 4) deve intendersi riferita a san Paolo, non, come più congiunturalmente si potrebbe pensare, a Paolo VI, anche se per Martini v’era stata pure un’involuzione dovuta al pontefice regnante. Si veda l’accenno infastidito di Giovanna alle lettere paoline (Requiem, p. 90) e l’ironico «ossequio a san Paolo» costituito dal fatto che in chiesa copra i suoi capelli con un fazzoletto di seta (p. 121). «i Vangeli, soprattutto quello giovanneo, continuano a commuovermi» (par. 5). Martini ribadirà l’importanza che per lui assumeva il vangelo di Giovanni in una intervista televisiva del 29 novembre 1978 rilasciata a Eros Bellinelli, dove ribadisce la sua «fedeltà di fondo posso dire al cristianesimo, almeno come il cristianesimo l’ho imparato leggendo i Vangeli. Mi riferisco sopratutto al Vangelo di san Giovanni che comincia con quella pagina, famosissima perché la si legge in tutte le messe, dove si dice che Gesù è il Verbo di Dio. Nello stesso Vangelo c’è scritto che Gesù dice “Chiunque cerca la verità, chiunque è dalla parte della verità, ascolta la mia voce”. E poi verso la fine quando Gesù è arrestato ha il famoso colloquio con Pilato sulla verità, dove Pilato a un certo punto dice “Quid est veritas?” che potrebbe sembrare una frase pronunciata con un’alzatina di spalle, oppure potrebbe essere anche una domanda veramente seria da parte di Pilato: il Vangelo non lo dice. Mi pare che il Vangelo di san Giovanni insegni ai cristiani a cercare prima di tutto la verità e ad agire in conformità, con coerenza a questa verità che si è trovata». «confortato … anche da Chardin» (par. 6). Si intenda Pierre Teilhard de Chardin. Vari suoi volumi in possesso di Martini mostrano questo vivo interesse: La vision du passé, Paris, Editions le Seuil, 1963; Le milieu divin, ivi, 1964, con segni di lettura; Le phénomène humain, ivi, 1964 (molto sottolineato); Lettere di viaggio, Milano, Feltrinelli, 1962 (con nota di possesso all’occhiello «Agnese Dalessi /Pasqua 1963» e sottolineature); Paul Grenet, Il cristiano fedele alla terra. Teilhard de Chardin, Firenze, Vallecchi, 1963 (con nota di possesso «PMartini / 64»); Paul Chauchard, Teilhard de Chardin e il fenomeno umano, traduzione di A. Mazzenga, Città di Castello, Carabba, 1964 (con una sottolineatura); Norbertus Maximiliaan Wildiers, Introduzione a Teilhard de Chardin, Milano, Bompiani, 19643 (con sottolineature). Nella citazione del nuovo finale del Requiem (par. 8) si legge «verso l’uscita», ma «verso il cancello» sia in B che in C e finalmente in Requiem, p. 203. nominato, è quello di Rosetta Loy, La porta dell’acqua, Torino, Einaudi, 1976. Milano conclude: «appena assunta coscienza civile, il racconto cade un po’ di tono. Mutevole è anche lo stile di “Requiem”: Plinio Martini scrive una prosa nutrita e perfino eloquente; ma ogni tanto, grandi esempî lombardi lo attirano, da Manzoni a Gadda, e allora echeggia uno di quelli per un istante. Perché i nostri scrittori italo-svizzeri coltivano quasi soltanto una “letteratura della memoria”? Come sarebbe, il Ticino di oggi, visto da uno scrittore?». 100 6. Martini a Pozzi, senza data, ma luglio 1977. Copia dattiloscritta di 7 cartelle, con un’ottava manoscritta che è a un tempo revisione e conclusione della parte finale dattiloscritta, di una lettera inviata a Pozzi senza indicazione di data (almeno nella copia di casa), ma posteriore al 7 luglio 1977 (giorno della pubblicazione discussa) e anteriore al primo agosto, come risulta dall’invito in chiusa. Con la copia in pulito è conservata anche una redazione anteriore corretta a mano. L’occasione della lettera è la pubblicazione della presentazione del libro, tenuta da Pozzi alla Biblioteca cantonale di Lugano il 5 maggio 1977, Per il «Requiem» di Plinio Martini, «Cooperazione» (7 luglio 1977), pp. 5-6; poi, senza varianti, «Humanitas», 27, 1 (febbraio 1981), pp. 79-89 (alle quali di seguito rinvio). La citazione di Mario Forni (par. 1) è tratta dalla sua presentazione del Requiem per zia Domenica, in «Dialoghi», num. 46, a. 10, aprile 1977, pp. 25-27: «Si tratta, ci sembra, di una accanita ricerca di significati e di valori che sfocia su una specie di vuoto metafisico, e almeno profondo scetticismo, d’impossibilità di credere oltre nella capacità di crescita e di miglioramento degli uomini» (p. 26). «Isella, Gibellini e Forni» (par. 2). Della presentazione milanese del Requiem da parte di Dante Isella non rimane memoria tra le carte di casa, né, a mia conoscenza, traccia di registrazione o pubblicazione. Avvenne certo prima della presentazione luganese del 7.5.77. Isella, a ricordo di Armando Dadò, che accompagnò il suo compaesano a Milano, parlò a braccio. Martini sintetizzò però l’intervento di Isella in una lettera a Mario Forni del 16.5.77, ringraziandolo a sua volta della citata recensione in «Dialoghi»: «Per Isella il libro è il requiem non soltanto per la zia e per la sua pietà superata e travolta dal tempo, ma è pure il requiem per tutto quel mondo patriarcale, i cui valori sono praticamente irrecuperabili. Per Isella il protagonista è Marco, e il valore del libro sta nell’intenso affetto con il quale egli rimedita quel mondo, non disgiunto da ironia, da rabbia e da satira mordente, che creano i diversi registri fusi in un linguaggio duttile e organizzato gaddianamente: tale da fare del Requiem “una delle opere più colte della letteratura italiana del novecento”». Pietro Gibellini disse del Requiem sotto il titolo Scrittore di razza in «Brescia oggi», 6 giugno 1976. Sul suo approccio Martini torna a esprimersi al par. 13. «Originariamente io avevo l’intenzione di raccontare la storia di un fresco amore adolescente» (par. 4): eco dell’affermazione iniziale di Pozzi, secondo cui in apparenza «il nocciolo narrativo del libro spiega la storia di un amore frescamente sensuale tra due adolescenti» (p. 79). Fogli 38/2017 Per Giovanni Pozzi / Alessandro Martini, Giovanni Pozzi a Plinio Martini 101 «il racconto è veramente la celebrazione della vita e della morte della famula Domini» (par. 5): si riferisce a un tratto del Requiem, p. 95, ricordato anche da Pozzi (p. 87) per il significato del nome della zia: «offerentes eam in conspectu Altissimi: eam, e cioè l’anima bella e monda della famula dal solenne nome latino di Dominica»; «eroica come un cavaliere antico»: è l’espressione usata in Requiem, p. 110, anche in Pozzi, p. 88. «Giovanna, la bella, la grazia di Dio (sicuro! e magari anche per dispetto, come tu hai detto con un’ombra di elegante cattiveria […])»: «qui è certo chiamata così per antifrasi, o almeno per dispetto, a designare come grazia divina il rovescio di quella che zia Domenica chiamava tale; ma la funzione resta ben quella» (Pozzi, p. 87). Le «troppo scoperte confessioni letterarie» nonché teologiche (par. 6) sono discusse da Pozzi a pp. 83-84. I «miti della tribù» seguono il dettato di Pozzi, per cui il Requiem «è un libro ideologico: è l’apologo della propria sconfitta di fronte ai miti della tribù» (p. 89), ma da parte di Martini il richiamo è un tentativo di rivendicare una certa qual liberazione da quei miti. Quanto all’«anticlericalismo più corrente» (par. 7) va pur detto che Pozzi aggiungeva «e, perfino, della derisione del sacro. Più importa sottolineare come la ragione segreta che insidia la pietà e la fede sia quella della scientificità razionalizzata: lo dicono bene la paraboletta positivista del pulcino a p. 15 [61], le lenti galileiane a p. 27 [83], il moltiplicarsi della luce a p. 103 [195], la danza rituale del prete a p. 104 [197]: qui la cosa è assai più seria, perché questa è una delle motivazioni che maggiormente travagliano la coscienza moderna di fronte al problema religioso» (p. 88). Mentre Martini rivendica anzitutto le sue impennate contro gli esponenti del partito cattolico («vassalliano» e «pipidino» sono epiteti derivati dal nome di Fabio Vassalli, uno dei Consiglieri di Stato allora in carica, e dall’acronimo, ppd, del Partito popolare democratico). Su Giovanna (scarsamente difesa al par. 9) Pozzi era infatti tornato a infierire, e non tanto per il suo anticlericalismo: «L’antagonista Giovanna, Beatrice volteriana di scarsa dialettica, Alcina dai filtri annacquati (tali sono gli strip tease propiziati da provvidenziali buzze, il farsi strizzar panni dal sottomesso eroe) può ben poco contro la virtuosa bruttezza della zia, contro il suo naso, che è veramente il naso che domina tutta la nostra pietà: il naso di s. Carlo Borromeo» (p. 88). Il «coraggio che chiamo virtù cardinale» rinvia a Requiem, p. 165. Forni, che Martini torna a ricordare con consenso pieno al par. 10, dopo aver largamente citato passi dell’«indiavolato giudizio universale che chiude il racconto», aveva concluso: «E questo non è ancora cristianesimo? Intendiamo: fede cristiana? Studiando il rapporto tra i due protagonisti, Domenica e Marco, pare di scorgere proprio il drammatico raffronto tra due interpretazioni del Vangelo, ambedue profondamente radicate nell’autore. Esiste una feconda ambiguità di base: chi è l’eroe del Requiem? Può essere tanto zia Domenica, quanto Marco» («Dialoghi», pp. 26-27). Si capisce come l’intervento di Forni stesse particolarmente a cuore a Martini, che agli incontri organizzati dal gruppo di «Dialoghi» aveva partecipato con una certa frequenza. Ringraziandolo il 16.5.77 esordiva: «se per me le tue pagine sono la prova che non ho scritto invano e che ci sono ancora dei lettori intelligenti (intus legentes), il Requiem deve essere stato per te e per altri cattolici del dissenso o ex-cattolici un testo sollecitatore di affetti, di memorie e di non inutili meditazioni. Un incontro, quindi, o un dialogo». Il «trionfo» di zia Domenica (par. 11) è soprattutto nella conclusione narratologico-teologica di Pozzi: «il funerale non è il supporto dei ricordi; è invece la celebrazone della vittoria di zia Domenica: vittoria che conduce dritto, nella ripetizione della battesimale discesa nel sepolcro, alla risurrezione e alla parusia. Giovanna, durante la celebrazione di quel trionfo è del tutto fuori gioco: le velleità di un ritorno di Marco non sono realizzabili, perché zia Domenica ha vinto per sempre: quel rito di morte è un semplice post-factum della sconfitta di Marco e Giovanna; è la marcia trionfale del vero protagonista, la vecchia beghina» (p. 89). 7. Pozzi a Martini, 4.9.1977. Lettera manoscritta di un foglio 21x15 cm, intestato al Seminario di letteratura italiana dell’Università di Friburgo, scritto sulle due facciate. Il 31 agosto mio padre era stato operato al Kantonspital di Zurigo per cancro al cervello, che risultò essere una metastasi. Il 4 settembre, giorno in cui Pozzi gli scrive, conosce la diagnosi: adeno-carcinoma. 8. Pozzi a Martini, 28.9.1977. Lettera manoscritta in bifoglio scritto sulla prima facciata. Il «momento» si riferisce al mio matrimonio con Olivia Bianchi, celebrato a Brè sopra Lugano il primo ottobre 1977 in assenza di mio padre, ancora degente al Kantonspital di Zurigo. 10. Pozzi a Martini, 15.1.1979. Cartolina con la riproduzione di un Aquarium au tissu rayé di André Minaux. La vigilia importante per me era quella della mia prova orale per l’abilitazione all’insegnamento universitario in letteratura italiana, sostenuta l’8 febbraio. Non saprei dire quale dono (una torta della mamma?) i miei avessero mandato a p. Pozzi. 102 9. Pozzi a Martini, 23.12.1978. Cartolina rappresentante Maria sotto la croce, da affresco della chiesa di San Carlo a Negrentino in val di Blenio. L’anno che si chiudeva per Plinio Martini, tornato a Cavergno, era stato di relativa ripresa, segnata da due interviste radiofoniche molto seguite (in particolare quella trasmessa il 16 novembre, dovuta a Giò Rezzonico) e da una conferenza alla Società Dante Alighieri di San Gallo il 5 dicembre, su invito di Pio Fontana. 1 La biblioteca del convento del Bigorio possiede la seconda edizione, stampata nel 1513, sempre a Milano, ma da Giovanni Castiglione e a cura di Giovanni Mapello, con il titolo Opus auree et inexplicabilis bonitatis et continentie, Conformitatum scilicet vite Beati Francisci ad vitam domini nostri Iesu Christi. Anch’esso presenta note manoscritte che lo rendono unico; mi propongo di descriverlo l’anno prossimo. 2 Data d’ingresso in Pubblicazioni entrate in biblioteca nel 2013, [a cura di Luciana Pedroia], «Fogli», 35 (2014), pp. 92-106, a p. 106, sezione 13. Antiquariato; l’etichetta della libreria antiquaria è incollata in alto a sinistra sulla controguardia del piatto superiore. 3 Raul Manselli, Bartolomeo da Pisa (da Rinonico, de Rinonichi), in Dizionario biografico degli Italiani, vi (1964), pp. 756-758, a p. 756. 103 Fra le acquisizioni recenti della Biblioteca Salita dei Frati merita particolare attenzione un esemplare della prima edizione a stampa del Liber Conformitatum, composto fra il 1385 e il 1390 da Bartolomeo da Pisa (†1401)1. Il volume è stato acquistato nel 2013 presso la Libreria antiquaria Pregliasco di Torino2. L’autore è detto anche Bartolomeo da Rinonico o de Rinonichi o de Rinonicho, per evitare confusioni con Bartolomeo domini Albisi e con Bartolomeo da San Concordio, anch’essi noti come Bartolomeo da Pisa. Il Nostro, «testimoniato per la prima volta a Pisa e già come frate minore il 15 ott. 1352, anteriormente al 1373 aveva raggiunto nella sua città il grado accademico di baccelliere, assolvendo anche in vari Studi generali dell’Ordine (Padova e Firenze) le funzioni di lettore. Destinato poi dal capitolo generale francescano di Tolosa del 1373 allo studio di Cambridge, per conseguirvi il magistero in teologia, non avendo potuto raggiungere l’Inghilterra per le vicende della guerra dei Cent’anni, dopo aver studiato anche qualche tempo a Bologna, ottenne dal papa Gregorio xi con una bolla da Avignone del 27 apr. 1375 il magistero in teologia»3. La sua opera più importante è appunto il Liber Conformitatum, approvato ad Assisi dal Capitolo generale dell’Ordine il 2 agosto 1399. Si tratta di un complesso di storie e leggende della vita di San Francesco in cui i frati minori ravvisavano quaranta conformità della vita del loro fondatore e patrono con quella di Cristo. L’autore compilò le biografie francescane di Tommaso da Celano e di Bonaventura da Bagnoregio, i Fioretti, lo Speculum Fogli 38/2017 Rara et curiosa / Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum Rara et curiosa Giancarlo Reggi Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum, Milano, Gottardo da Ponte, 1510. L’esemplare BSF 75 Ga 9: provenienze marsigliesi e parigine Foglio di guardia e frontespizio dell’esemplare del Liber Conformitatum (editio princeps del 1510). Note manoscritte e timbro attestano le provenienze. perfectionis, la Legenda antiqua, gli Actus beati Francisci, atti legislativi dell’Ordine, cronache sulla vita dell’Ordine anche fuori d’Italia 4 . Il Liber Conformitatum conobbe una grande fortuna5, sia nella spiritualità francescana, sia, a rovescio, in mondo luterano, dove era letta (a ragione, dal punto di vista protestante) come esempio negativo rispetto alla teologia della sola fides, del solus Christus e della sola Scriptura 6. Anzi ravvisavano nella venerazione di San Francesco un errore ereticale, quasi che per essa Gesù Cristo fosse interpretato di fatto come figura anticipatrice dell’Assisiate; donde il paragone del Liber Conformitatum al Corano. In tale prospettiva il luterano Erasmus Alber (latinizzato in Alberus) produsse un’epitome polemica del Liber, uscita a Wittenberg nel 1542, in tedesco, con la prefazione di Martin Lutero7 ; con la stessa data nel colophon, ma con quella dell’anno successivo sul frontespizio, uscì poi in latino a Francoforte, con il testo di Lutero come postfazione8. Ne seguirono due edizioni in francese, stampate 106 4 Esposizione ampia nella prefazione all’edizione critica De conformitate vitae Beati Francisci ad vitam Domini Iesu, auctore fr. Bartholomaeo de Pisis, i, Ad Claras Aquas (Quaracchi), ex typographia Collegii S. Bonaventurae, 1906, pp. i-xxiii; più succintamente Manselli, Bartolomeo da Pisa, cit., p. 757. 5 Prima dell’editio princeps, nel xv secolo, il manoscritto fu più volte copiato in tutto o in parte. L’edizione critica De conformitate vitae Beati Francisci cit., pp. xxiv-xxix, elenca e descrive dodici codici: Codex Alvernae, 2 tomi; Ambrosianus G 75 inf. (contiene solo il i libro); Andegavensis 821; Assisiensis sive S. Mariae Angelorum; Codice di Monteprandone; Codice Campori E vi 14 della Biblioteca Estense di Modena (contiene il i libro non completo); Parisinus BnF lat. 3328 (contiene il ii e il iii libro); Neapolitanus Bibl. Naz. viii. b. 11; Romanus Bibl. Naz. 1015 (contiene il i libro); Vaticanus lat. 7600; Urbinas 397 e 398 della Biblioteca Vaticana; inoltre, usa per la costituzione del testo il volgarizzamento di fr. Dionisio Pulinari, L’opera intitolata Delle conformità della vita del B . P . nostro San Francesco alla vita del nostro Signor Gesù Cristo, contenuto nei codici della Biblioteca Nazionale Centrale di Firenze ii. iii. 162, 163 (autografo) e Conventi C. 5. 573. 6 Per rendersene conto basti leggere gli incipit che ho riportato nella descrizione tecnica, con l’insistenza della grazia di Cristo associata con i meriti di Francesco. Sul ‘giudeo-cristianesimo’ nel solco dell’apostolo Giacomo proprio della teologia cattolica in generale e di quella francescana in particolare (ma anche del valdismo medioevale), in opposizione al paolinismo del principio della giustificazione per la sola fede, è ottima la monografia del teologo valdese Vittorio Subilia, La giustificazione per fede, Brescia, Paideia, 1976 (Biblioteca di cultura religiosa, 27). Da filologo, tuttavia, non posso condividere il principio, affermato dall’autore a p. 37, che talora la teologia sistematica possa far cogliere con chiarezza il senso del messaggio biblico più che l’esegesi, troppo facilmente soggetta a «servaggi filosofici e perfino politici e sociologici». È la teologia sistematica che non può prescindere dalle risultanze dell’indagine storico-critica del testo biblico, con tutti i rischi di provvisorietà che un’indagine scientifica comporta. 7 Erasmus Alberus, Der Barfüser Münche Eulenspiegel und Alcoran, mit einer Vorrede D. Martini Luther, Wittemberg, Hans Lufft, 1542 (esergo sul frontespizio: «Versiculum Franciscanorum. Franciscus est in coelo. Responsorium. Quis dubitat de illo? Antiphona. Totus mundus»). 8 Erasmus Alberus, Alcoranus Franciscanorum. Id est blasphemiarum et nugarum Lerna, de stigmatisato idolo, quod Franciscum uocant, ex Libro Conformitatum. Versiculum Franciscanorum. Franciscus est in coelo. Responsio. Quis dubitat de illo? Antiphona. Totus mundus, Francofurdiae, ex officina Petri Brubacchii, 1542, ma sul frontespizio: «Anno xliii» (esergo sul frontespizio: «i Timo. 4. Spiritus aperte dicit, quod in posterioribus temporibus desciscent quidam a fide, attendentes spiritibus impostoribus ac doctrinis daemoniorum etc.»). Leggendo Manselli, Bartolomeo da Pisa, cit., si ha l’impressione che l’edizione originale fosse quella in latino. Tuttavia, a parte il dato sul frontespizio dell’edizione francofortese, occorre osservare che è il testo tedesco ad essere uscito a Wittenberg, centro accademico del luteranesimo. Se neget atque crucem tua post vestigia quisquis Prosequitur tollat. tu, bone Christe, iubes. Non egre hanc presta ipse feram per tella (sic) per hostes, Ingrediar tutus te duce quaque sequar. (’Chiunque ti vuol venir dietro rinneghi sé stesso e seguendo le tue orme si carichi la sua croce. Tu, Cristo buono, lo ordini. Non riottosamente io la porterò, pur fra i presti dardi, fra i nemici; avanzerò sicuro: te guida, ovunque ti seguirò’). Il primo distico, infatti, allude a Ev. Matth. 16, 24, a Ev. Marc. 8, 34 e a Ev. Luc. 9, 23, cioè a un detto di Gesù tramandato da tutta la tradizione sinottica. L’orientalista e teologo protestante tedesco Joachim Jeremias osservò che il testo marciano, alla base anche di Matteo e Luca, in retroversione aramaica dà luogo a un ritmo di 4 + 4 + 2 ictus, un ritmo pacato, didattico, proprio anche di altri passi in cui Gesù ammaestra i suoi discepoli11. Se è così, ci troviamo di fronte a un testo risalente fino a un ambiente giudaico-palestinese che conservava un ricordo vivo del Maestro, se non a un’epoca prepasquale e a ipsissima verba di Gesù. Parole che a fine Trecento il Liber Conformitatum a suo modo recepiva. 107 9 Erasmus Alberus, L’Alcoran des Cordeliers, tant en latin qu’en françois; c’est a dire, la mer des blasphemes et mensonges de cest idole stigmatizé, qu’on appelle S. François; recueilli par le Docteur M.Luther, du livre des Conformitez de ce beau S. François, imprimé a Milan l’an M.D .X., et nouvellement traduit, Genève, Conrad Badius, 1556, e quattro anni dopo: L’Alcoran des Cordeliers, tant en latin qu’en françois; c’est à dire, la mer des blasphemes et mensonges de cest idole stigmatizé, qu’on appelle S. François; lequel livre a esté recueilli mot à mot par le Docteur Erasme Albere, du livre des Conformitez de ce beau S. François à Jesus Christ: livre meschant et abominable s’il en fut oncq, composé par un Cordelier, et imprimé a Milan l’an M.D .X. Nouvellement a esté adiousté le second livre prins au mesme retraict, afin de mieux descouvrir la saincteté de ceste secte infernale, que le monde adore, Genève, Conrad Badius, 1560. 10 Erasmus Alberus, Den Alcoran der Franciscaner Monnicken. Waer in de grouwelijcke ende afgodische leere der Barvoeter-Monnicken, ende de superstitie der Papisten bloot wert aengewesen. Getrocken uyt have eygene Schriften, insonderheyt uyt een Boeck ghenaemt Liber Conformitatum D. N. J. Christi, et S. Francisci, by haer uytgegeven, Genève, [s.n.], 1664; Id., Anatomie Van der Barvoeter-Monniken Alcoran, Of Der Minder-Broeders Wet-Boek, Eertijds door D. Lutherus getrokken uit het Boek der Conformiteiten, of Overeen-komingen Francisci met Christo, gemaakt door Bartholomæus de Pisis, Minder-Broeder, traduzione di Johannes Mauritius, Amsterdam, Arnoldus van Ravesteyn, 1695. 11 Joachim Jeremias, Teologia del Nuovo Testamento, traduzione di Felice Montagnini, i: La predicazione di Gesù, Brescia, Paideia, 19762, p. 33 (originale tedesco: Neutestamentliche Theologie, i: Die Verkündigung Jesu, Gütersloh, Mohn, 19732, p. 32). Fogli 38/2017 Rara et curiosa / Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum nella Ginevra calvinista9 , e due in olandese10 . I titoli stessi e gli eserghi sui frontespizi hanno il tono dell’invettiva. Di questo non mi occuperò, perché non sono né francescanista, né storico della Riforma. L’unica cosa che mi sento di affermare è che la recezione protestante, sia luterana sia riformata, del Liber Conformitatum è importante per il Fortleben dell’opera di Bartolomeo da Pisa, ma, in ogni caso, non si può giudicare uno scritto del tardo xiv secolo fondandosi su pur rigorose, profonde e liberatorie dottrine teologiche del xvi. In altre parole, l’idea della conformitas vitae ad vitam Christi è pur evangelica. Non per nulla sul frontespizio dell’edizione del 1513, precedente di quattro anni l’inizio della Riforma, in una xilografia sono raffigurati Cristo e Francesco che portano la croce, l’uno davanti, che si volge verso il seguace, l’altro dietro, che guarda alla sua guida; in esergo si legge il seguente epigramma: L’albero delle conformità sul verso del frontespizio. Descrizione tecnica e commento I dati indispensabili, comprese le trascrizioni delle note manoscritte e delle altre indicazioni di provenienza, si trovano nella scheda opac del Sistema bibliotecario ticinese, allestita da Luciana Pedroia. Qui si presenta una descrizione più particolareggiata, cui seguirà un commento in cui i dati più importanti saranno ripresi in forma discorsiva. 12 Edizioni del Liber Conformitatum: Milano, Gottardo da Ponte, 1510; ivi, Giovanni Castiglione, 1513; Bologna, Alessandro Benacci, 1590; ivi, Vittorio Benacci, 1620. Edizioni dell’epitome di Erasmus Alber in tedesco: Wittenberg, Hans Lufft, 1542; Strasburgo, Jakob Fröhlich, 1555; ivi, Christian Müller il Vecchio, 1560; [s.l.], [s.n.], 1573; [Strasburgo], [Jobin?], 1614; in latino: Francoforte, Peter Braubach, 1543; Deventer (nl), Jan Colomp, 1651; in latino e francese: Ginevra, Conrad Badius, 1556, 15602; ivi, Guillaume de Laimarie, 1578; Amsterdam, La Compagnie, 1734; in olandese: Ginevra, [s.n.], 1664; Amsterdam, Arnoldus van Ravesteyn, 1695. 13 Bisogna cercarlo all’indirizzo www.internetculturale.it/opencms/opencms/it/ 14 books.google.ch/books?id=xJGIRM3K _ 3QC &printsec=frontcover&hl=it#v=onepage&q &f=false. Proveniente dalla biblioteca del Collegio Romano dei Gesuiti, è privo del frontespizio, sostituito con un’antiporta recante unicamente il titolo, bianco il verso; ciò ne fa un esemplare della variante B. L’esemplare della bsf, invece, con il frontespizio e le relative xilografie, e con l’albero delle conformità sul verso, è della variante A. 15 reader.digitale-sammlungen.de/de/fs1/object/display/bsb10857268_ 00001.html 109 Dimensioni esterne: cm 29 x 20,5 (fol.). Dimensioni dello specchio: cm 22,5 x 15,5 suddiviso in due colonne larghe cm 7,5. Legatura: in cuoio bruno scuro montato su piatti di cartone, con 4 nervature sul dorso (1691, vedi infra) e capitelli semplici. Decorazione a fregi aurei sui compartimenti del dorso; tassello con titolo conform|itates in caratteri oro nel secondo compartimento; nel quinto compartimento l’etichetta con la segnatura della bsf: 75 Ga 9. Taglio di testa, davanti e di piede spruzzato di bruno e verde. Controguar- Fogli 38/2017 Rara et curiosa / Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum Altro discorso è quello che riguarda le riedizioni fino al Settecento sia del Liber Conformitatum, sia delle epitomi polemiche di Erasmus Alber12 ; in questo caso sì, il conoscere i sistemi teologici consente di capire il senso delle polemiche moderne fra cattolici e protestanti. Quanto ho esposto fin qui basta per far capire che l’editio princeps del Liber Conformitatum era troppo importante per essere rara: solo l’opac dell’Istituto Centrale per il Catalogo Unico (iccu) del Sistema Bibliotecario Nazionale italiano (sbn) ne annovera 66 esemplari, e quello posseduto dalla Biblioteca comunale Pietro Siciliani di Galatina (Lecce), che conserva la legatura originale, è stato digitalizzato integralmente13, così come quello della Biblioteca Nazionale Centrale di Roma14; l’edizione è però relativamente diffusa anche fuori d’Italia, e la Bayerische Staatsbibliothek di Monaco ha digitalizzato il suo esemplare presso il Münchener Digitalisierungszentrum15. Qui, dunque, concentrerò l’attenzione sull’esemplare oggi posseduto dalla Biblioteca Salita dei Frati, che ha carattere di unicità per le note manoscritte vergate sul verso del foglio di guardia e sul frontespizio, nonché per il timbro ottocentesco, sempre sul frontespizio; sono tutte indicazioni di provenienza che permettono di ripercorrere l’itinerario carsico di questo particolare postincunabolo, da quando apparteneva alla biblioteca del convento dei Cappuccini di Marsiglia a quando fu di proprietà dalla Casa generalizia degli Oblati di Maria Immacolata a Parigi, fino al suo approdo a Lugano. 110 die e fogli di guardia di carta bianca. Pagine rifilate in occasione della rilegatura. Scrittura: gotica sul frontespizio e sul suo verso, romana nelle pagine di testo. Fascicolatura: [non numerato] 4 a-f10 g11 h-n10 o8 p6 q-x10 y2-z3-8 z26 aa-cc10 dd8 Pagine: [8], 512 numerate da i (a1r) a cclvi (dd8r), ordinate come segue: – [n.n.]1r (frontespizio): «Francisce sequens dogmata superni creatoris | tibi impressa stigmata sunt Christi saluatoris» | [xilografia] | «Liber Conformitatum» | [marca tipografica]; – [n.n.]1v: [xilografia]. – [n.n.]2r r. 1: titolo: «Tabula sequentis operis. Primus numerus est foliorum secundus columnarum». – [n.n.]2r r. 2 - [n.n.]4v r. 48: «Adve(n)tus christi a quibus prophe|tis p(ro)nunciatus sit 5 4 [...] Verbu(m) dei qu(omod)o fili(i)s est semini 191 2». – [n.n.]4v r. 49 - [n.n.]8v r. 35: «Venerandis in (christ)o p(atribus) diffinitorib(us) [...] si pro me dominum rogare dignabuntur». – ir col. 1 - iv col. 3 (=ar-av) [xilografia] >In nomine d(omi)ni n(ost)ri iesu c(hristi) et beatissime Virginis Marie : m(at)ris sue, ac beati p(at)ris n(ost)ri Fra(n)cisci. Incipit opus quod intitulat(ur) de co(n)formitate uite beati Francisci: ad uita(m) d(omi)ni iesu (christ)i rede(m)ptoris n(ost)ri. editum a fratre Bartolomeo de Pisis:ordinis minorum sacre theologie magistro:ob reuerentiam sui patris precipui Beati Francisci.anno domini. M.ccc.lxxxv. Incipit primus prologus pro opere prefato.< | Sanctorum uita probis fulcta op(er)ibus [...]. et in futuro eterne felicitatis regnu(m) tribuat(ur). Amen. – iv col. 3 - vv col. 3 (=av-a5v) >Incipit prologus secundus pro opere prefato< | Simile(m) illu(m) fecit in gloria sanctorum [...]. Iesus (christu)s nos p(er)ducat b(eati) F(rancisci) meritis.q(ui) cu(m) p(at)re et sp(irit)u s(an)c(t)o de(us) uer(us) regnat et uiuit p(er) i(n)finita secula seculo(rum) ame(n). | >Explicit prologus.< – vv col. 3 - cxlivv col. 4 (=a5v-p6v): >Incipit liber qui dicitur co(n)formitatu(m) et primo de ordine seruando in hoc opere.< | Expedit(us) a p(ro)logo isti(us) operis (christ)i Iesu gr(ati)a opitula(n)te meritis b(eati) Fra(n)cisci p(at)ris n(ost)ri [...]. xvi. Iesus dux formidabil(is). Fra(n)cisc(us) d(e)testator. xxviii. | <Explicit liber primus de. xii conformitatibus vite B(eati) F(rancisci) ad vita(m) d(omi)ni n(ost)ri Iesu (christ)i. Deo gratias. Amen.< – cxlvr col. 1 - ccxviiiv col. 4 (=qr-z26v) [xilografia] >Incipit liber s(e)c(un)dus de xvi. aliis (con)formitatib(us) b(ea)ti F(rancisci) ad vita(m) d(omi)ni n(ost)ri Iesu (christ)i. [...] Iesus signis mirificus.< | Postq(uam) libro p(re)cede(n)ti de xii (con)formitatib(us) b(eati) F(rancisci) ad d(omi)n(u)m Iesum (christu)m [...]. Ad honore(m) et laudem ipsius beate Marie et beati partis nostri Francisci. Amen. | >Explicit liber secundus de conformitate vite beati Francisci ad vitam domini nostri Iesu (christ)i.< – ccxixr col. 1 - cclvv col. 4 (aar-dd7v) [xilografia] >Incipit liber 3(us) de co(n)formitate uite b(ea)ti Francisci ad uitam d(omi)ni n(ost)ri Iesu (christ)i [...]. Exp(ositi)o pr(im)e partis u(idelicet) Iesus cu(m) suis comede(n)s.< | Virtus illa et sapientia diuina [...]. Qui cu(m) patre tuo et spiritu sancto vivis et regnas deus benedictus per infinita secula seculo(rum). Amen. | >Finis arboris et operis.< – cclvv col. 4 - cclvir col. 1 (=dd7v-dd8r) >Copia littere a magistro Bartholomeo directe generali ministro et capitulo generali pro approbatione operis precedentis.< | Reuerendis in (christ)o patrib(us) fr(atr)ib(us) Henrico generali ministro et aliis ministris:ceteris(que) diffinitoribus capituli generalis ordinis fr(atr)um minoru(m) apud sacrum conuentum Assisii [...]. et ad gaudia perducat eterna. Amen. | Data in loco prefato Assisii.die p(ri)ma mensis augusti. – cclvir col. 1 (=dd8r) >Littera responsiua capituli generalis illud opus approbantis.< | In christo sibi charissimo fratri Bartholomeo de Pisis sacre 111 Fra le notazioni manoscritte sul frontespizio, una si trova fra il titolo e la marca tipografica; è l’unica datata e riguarda la legatura: «Secundo Compactus Fogli 38/2017 Rara et curiosa / Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum theologie magistro:frater Henricus ordinis fratrum minorum generalis minister et seruus:ceteriq(ue) ministri ac diffinitores capituli generalis apud sacrum locum de Assisio die secunda augusti.Anno domini M.ccclxxxxix. [...] Data in dicto sacro loco anno die et mense superius annotatis. – cclvir col. 1 - col. 2 (=dd8r) Salue lector. [...] Vale. | Impressum Mediolani per Gotardum Ponticu(m): cuius Officina libraria est apud templum sancti Satiri. Anno Domini.m.cccccx. Die.xviii. Mensis Septembris. | [rigo bianco] | Registrum huius operis | [...] | Omnes sunt quinterni:exceptis oydd qui sunt q(ua)terni. p uero et z2 sunt terni. | [marca] | [Bianco il verso]. Decorazione: sul frontespizio: xilografia di cm 8,7 x 7,6 raffigurante Francesco che riceve le stimmate (ripetuta alle cc. ir col. 1, in capo al prologo; vv col. 3, in capo al libro ii; ccxixr col. 1, in capo al libro iii); incornicia il frontespizio un fregio xilografico di motivi pagani, con tre medaglioni circolari raffiguranti cantori mitologici; in alto a destra, Anfione con le mura di Tebe sullo sfondo, con inscritto nella corona circolare «lyra·constrvxit·amphion·mvros·thebanos»; in basso a destra, Arione, la nave dei pirati e i delfini che lo salvarono, con inscritto nella corona circolare «arion·inter·delphinas»; in basso a sinistra, Orfeo che incanta piante e animali, con inscritto nella corona circolare «orphevs·in·silvis»; in alto al centro: maschera raffigurante un satiro; in basso al centro: due putti reggono uno scudo araldico su cui è stampata la data di stampa: 1510; lega il tutto un intreccio di piante e fiori; al verso: xilografia a tutta pagina: Francesco in ginocchio abbraccia l’albero delle 40 conformità, cui è crocifisso Cristo. I capilettera di libri e capitoli, xilografici, sono costituiti da raffigurazioni di santi frati che reggono la lettera iniziale alternate con altre a motivi floreali e con altre astratte, senza un criterio preciso. I capilettera di capitoli riferiti all’Ordine fondato da Francesco a partire da dodici frati sono semplici iniziali rosse. Marche tipografiche: sul frontespizio: marca del cigno con iscrizione del nome nella cornice circolare in quadrato «gotardvs de ponte» (Giuseppina Zappella, Le marche dei tipografi e degli editori italiani del Cinquecento, ii: Tavole, Milano, Editrice Bibliografica, 1986, figura 347); alla c. cclvir (=dd8r) in calce: doppia croce bianca in campo nero con le iniziali pg (Zappella, Le marche dei tipografi, cit., figura 289). Impronta: 54is adun ordi rich (3) 1510 (R). Aggiunte: sulla prima controguardia in alto a sinistra, etichetta: «libreria antiquaria | pregliasco | torino»; più in basso a destra: milan - 1510 (a matita); altre annotazione a lapis, forse in francese, cancellate. Sul verso del foglio di guardia anteriore, nota manoscritta: «[illeggibile] Cet ouvrage est très précieux ; on l’a | vendu à paris (sic) quatre cent cinquante livres». Sul frontespizio: note manoscritte: a inchiostro nero, fra il titolo e la marca, «Secundo Compactus Anno Christi 1691»; distribuita a sinistra, destra e sotto la marca, «Usui Fratrum | Capucinorum | Massiliensium»; sul margine inferiore, a inchiostro bruno, «Conuentus Ca[pu]ccinorum Massicịạẹ» (lettura incerta delle ultime tre lettere; ultima parola sovrascritta, forse a «Marsicensium»); sul margine superiore, tagliata dalla rifilatura, «U(sui) f(rat)ru(m) Capucinorum [9 lettere?] M[assiliae?]; sul margine destro, parallelamente al taglio, «ad usum Capucinorum Marsiliae» (a inchiostro bruno). Timbro ovale a inchiostro paonazzo, con al centro la croce oblata e in esergo la sigla omj; entro la corona ellittica «pauperes evangelizantur – domus generalis» (scrittura maiuscola moderna). Anno Christi 1691» (’legato per la seconda volta nell’anno di Cristo 1691’). Ciò significa che il volume, danneggiato dall’usura, fu interamente rilegato: la precedente coperta fu tolta, i fascicoli furono slegati, furono rilegati con una nuova indorsatura, nuovi nervi, nuovi capitelli, nuovi piatti, nuovo dorso, nuove guardie e controguardie; i margini furono rifilati. Risale ad allora l’attuale legatura coriacea montata su piatti di cartone. È probabile che a quell’epoca il libro fosse già di proprietà dei Cappuccini di Marsiglia. Ad essi si riferiscono altre cinque note manoscritte. Una, a inchiostro nero come la precedente ma d’altra mano, è divisa in tre parti: a sinistra, a destra e sotto la marca; è in scrittura simil-libraria, forse ancora secentesca: «Usui Fratrum Capucinorum Massiliensium» (’ad uso dei frati cappuccini di Marsiglia’). La più problematica, in una scrittura corsiva a inchiostro bruno e con tracce di cancellazione e sovrascrittura, è di lettura incerta nella seconda e soprattutto nella terza parola; se si trascrivono solo le lettere inequivocabili, si legge: «Conuentus Ca...cinorum Massici....»; a me pare che si possa leggere «Conuentus Capuccinorum Massiciae»; è però stata depennata una terminazione «-ium» e si vede bene che al nesso ‘ss’ sottostava un nesso ‘rs’; inoltre il nesso ‘ci’ di ‘Massiciae’ è correzione di un precedente ‘ce’ (o viceversa); perciò azzarderei che in origine si leggesse «Conuentus Capuccinorum Marsicensium». Inutile tentare di trarne conclusioni. Non doveva essere troppo diversa la nota sul margine superiore, a inchiostro bruno scuro, tagliata dalla rifilatura. Certo è che il libro appartenne, sotto l’ancien régime, ai Cappuccini di Marsiglia, che si erano insediati nella città portuale nel 1579, su terreni acquistati da Caterina de’ Medici, a quel tempo regina madre16 ; scopo dell’insediamento era il contrasto al protestantesimo ugonotto, che si era fortemente affermato in Provenza17. Nei primi anni della Rivoluzione Francese l’ordine dei Cappuccini andò soggetto al decreto dell’Assemblée nationale constituante sulla Suppression des vœux monastiques - Abolition des ordres religieux, del 13 febbraio 1790. Di conseguenza, nel 1791 i Cappuccini di Marsiglia furono espulsi dal loro convento nel quartiere Noailles. Il sito fu completamente distrutto e trasformato in una piazza, l’attuale Place du marché des Capucins18. 112 16 L’atto di donazione, datato 25 giugno 1579, è conservato a Marsiglia, Bibliothèque municipale, Ms. 1202: Recueil des bulles, décrets, facultés, indulgences, lettres patentes, arrêts et autres concessions faites aux RR . PP. Capucins, i: 1525-1527, ff. 573-574; è edito per intero da Pierre Dubois, Les capucins italiens et l’établissement de leur ordre en Provence (1576-1600), «Collectanea Franciscana», 44 (1974), pp. 71-140, alle pp. 84-85. Sulla fondazione del convento da parte del p. Mattia Bellintani da Salò disponiamo di notizie comprese in una biografia annalistica redatta da suo fratello, p. Giovanni Bellintani; la tramanda il manoscritto di Assisi, apc, Ms. M. 3, ed oggi è edita in I frati cappuccini. Documenti e testimonianze del I secolo, a cura di Costanzio Cargnoni, iii, 1, Perugia, efi, 1991, pp. 2483-2505, alle pp. 2492 e 2494. 17 Dubois, Les capucins italiens, cit., pp. 83-86, dove si vede che l’insediamento provenzale ha le stesse caratteristiche di quello grigionese, e non fa meraviglia, sol che si pensi che Carlo Borromeo era zio di Caterina de’ Medici. La bibliografia fino al 1993 è raccolta nel Rapport de recherche bibliographique di Anne Flateau, Les Capucins en France aux XVIIème et XVIIIème siècles: établissements et activités [Vuilleurbanne], École Nationale Supérieure des Sciences de l’Information et des Bibliothèques - Université Claude Bernard Lyon 1, 1993, p. 27. Per gli anni successivi «Bibliographia Franciscana» non segnala più nulla. 18 L’antica presenza del convento è ricordata anche dall’attigua Rue Longue-des-Capucins. Su queste vicende, vedi Adrien Blès, Dictionnaire historique des rues de Marseille. Mémoire de Marseille, Marseille, Laffitte, 20012, pp. 273-274 e soprattutto 286. Quello di Blès, membro 113 della Académie de Marseille, è un lavoro ponderoso, minuzioso e indispensabile, anche se nell’opera le fonti, in massima parte d’archivio, non sono mai citate. 19 Fonte: Patrick Kelly, Le cambiste universel ou Traité complet des changes, monnaies, poids et mesures de toutes les nations commerçantes et de leurs colonies, avec un exposé de leurs banques, fonds publics et papiers-monnaies, i, Paris, Aillaud-Bossange, 1823, p. 141. 20 Corso di umanità vuol dire 4a e 5a ginnasio; ad esso seguiva lo studentato filosofico, equivalente al Liceo. Fonte sullo stipendio annuale: Carlo Cattaneo, Alla Congregazione municipale - Milano (Milano, 20 febbraio 1830), in Carteggi di Carlo Cattaneo, serie i: Lettere di Cattaneo, i: 1820 - 15 marzo 1848, a cura di Margherita Cancarini Pietroboni e Mariachiara Fugazza, Firenze, Le Monnier - Bellinzona, Casagrande, 2001, lettera 13, pp. 13-15. Gli stipendi pagati ai professori ginnasiali e liceali del Canton Ticino nel 1852 sono mal comparabili, perché più modesti: 1500 fr. annui per il Ginnasio, 2000 fr. annui per il Liceo. Fonte: Carlo Cattaneo, Progetto per una riforma dell’insegnamento superiore nel Ticino. Memoria, Supplemento straordinario al «Foglio Officiale», 9 f. 6 (21 aprile 1852), pp. 68-99, ai par. 18-19. 21 Kelly, Le cambiste universel, cit., p. 331. Fogli 38/2017 Rara et curiosa / Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum Dopo l’esproprio la biblioteca andò dispersa. Il libro probabilmente andò all’incanto, com’era d’uso in questi casi, a meno che lo Stato non incamerasse le biblioteche. Risale a quell’epoca, o a qualche decennio più tardi, la nota manoscritta sul verso del foglio di guardia: «ce livre est très précieux. On l’a vendu à Paris 450 livres». La livre (’lira’ in italiano) era una moneta che aveva corso sotto l’ancien régime, per essere poi soppiantata dal franco nel 1795; ciò costituisce un terminus ante quem probabile, ma non sicuro, perché la livre circolava ancora nel 1823, a una parità, fissata da un decreto del 1810, di 81 lire per 80 franchi19. Per capire il valore di 450 lire francesi dell’epoca, si consideri che lo stipendio di Carlo Cattaneo come professore di umanità al Ginnasio di Santa Marta a Milano nel 1830 era di 2’100 lire annue, salito a 2’800 al compimento del decimo anno di servizio20. Ora, fin dall’epoca napoleonica la lira di Milano era paritaria rispetto al franco francese, perché era coniata secondo il medesimo regolamento, e gli Austriaci lasciarono invariato quel regime21. Comunque sia, dopo la soppressione del convento cappuccino di Marsiglia, il nostro postincunabolo rimase sostanzialmente sommerso, per riemergere soltanto nella Parigi di fine Ottocento. Lo contrassegna sul frontespizio il timbro ovale a inchiostro di una «domus generalis» della Congregazione clericale dei Missionari Oblati di Maria Immacolata (omi). La Congregazione fu fondata nel 1815 a Aix-en-Provence, nel clima della Restaurazione. Ne fu fondatore l’abate Eugène de Mazenod, presbitero da tre anni, rampollo di una nobile famiglia di Aix che fin dall’inizio della Rivoluzione aveva lasciato la Francia ed era riparata in Italia. Il giovane Eugène, nato nel 1782, era stato dapprima alunno del Collegio dei Nobili di Torino dal 1791 al 1794, poi si era trasferito con la famiglia a Venezia (1794-1797), a Napoli (1797-1799) e a Palermo (1799-1802), per poi rientrare infine in Francia. Nel 1823 divenne vicario generale del nuovo Vescovo di Marsiglia, suo zio Fortuné de Mazenod, poi, dal 1837, Vescovo della stessa città fino alla morte (1861). Frattanto rimase Superiore generale della Congregazione da lui fondata. Fu il primo Vescovo di Francia, dopo la Rivoluzione, su posizioni apertamente ultramontane, cioè, per così dire, papiste, non gallicane e non gianseniste. Eugène de Mazenod, insomma, fu un conservatore, sia in politica sia in teologia. Ciò spiega in buona misura le difficoltà incontrate dalla Congregazione omi dopo la sua morte, dapprima sul fronte interno, ecclesiastico, poi sul fronte esterno, politico. Prima sede della Congregazione, inizialmente denominata Société des Missionnaires de Provence, fu l’ex convento dei Carmelitani di Aix, ma una vera e propria casa generalizia ci fu soltanto dal 1856, presso lo studentato del Montolivet di Marsiglia. Nel frattempo la Congregazione, che aveva ottenuto l’approvazione pontificia nel 1826 e che contestualmente aveva assunto la denominazione definitiva, da società di chierici volti a rievangelizzare le campagne provenzali si era progressivamente orientata verso le missioni estere. La casa generalizia restò per poco tempo a Marsiglia. Nel 1861, alla morte di de Mazenod, ci fu una rivolta del clero diocesano nei confronti degli Oblati, considerati troppo numerosi e troppo potenti. Il nuovo Vescovo, ostile, tolse loro il controllo del Seminario maggiore; il nuovo Superiore generale preferì lasciare anche il Montolivet e trasferire la domus generalis a Parigi, ciò che avvenne nei primi mesi del 1862. Lo stabile marsigliese del Montolivet sarebbe stato ceduto allo Stato nel 1864, che lo avrebbe messo a disposizione del Vescovo ad uso di Seminario. La domus generalis rimase a Parigi fino al 1904, quando gli Oblati di Maria Immacolata furono espulsi dalla Francia, come tutte le congregazioni non autorizzate dallo Stato repubblicano. L’anno precedente, la loro domanda d’autorizzazione era stata respinta. La casa generalizia fu incamerata dallo Stato, che ne fece la sede del Ministero del Commercio. La biblioteca andò dispersa. Parecchi anni più tardi gli Oblati, che nella Grande Guerra avevano lealmente servito la patria, poterono tornare in Francia, ma questa è un’altra storia. Oggi la casa generalizia si trova a Roma22. Ebbene, della biblioteca oblata di Parigi resta, conservato a Roma, un registro manoscritto che annovera i volumi posseduti dal 1894 al 1901, fra cui il nostro esemplare del Liber Conformitatum. Ecco la trascrizione diplomatica dell’annotazione23. 22 Sul primo secolo di storia degli Oblati fonti e bibliografia sono abbondanti e facilmente accessibili grazie al sito www.omiworld.org, dove si trova, fra l’altro, il diario ( Journal) del fondatore Eugène de Mazenod; sono molto comode le voci del Dictionnaire historique (da cui cito, ma ne esiste il portale in inglese, intitolato Historical Dictionary, che in taluni casi potrebbe essere l’originale), tutte con indicazione di fonti e bibliografia; mi sono state utili le voci Mazenod, Mgr Charles Joseph Eugène de, di Émilien Lamirande; Aix, maison oblate (depuis 1815), di René Motte; Marseille, Montolivet, di Yvon Beaudoin; Paris, maison générale, rue Saint-Pétersbourg (1862-1904), del medesimo. 23 Ringrazio il p. Maciej Michalski, omi, archivista generale della Congregazione, che mi ha gentilmente inviato una copia digitale della nota manoscritta (registro segnato H b 47, indicato fra le fonti da Beaudoin, Paris, maison générale, cit.). 114 Série G. Ascétisme Le Livre des Conformités de S(ain)t Françoie d’Assise avec J(ésus) C(hrist) - Liber Conformitatum vitae S(ancti) Francisci ad vitam J(esu) C(hristi). Imprimé à Milan en 1510, par Gotardum de Ponte. Il a pour auteur fr(ère) Barthélémy da Pisa, de Pisis, mort en 1351. C’est un in f(olio) à 2 colonnes. Il a un frontispice illustré, et au verso l’arbre des 40 conformités de la vie de S(ain)t Francoie [sic] avec J(ésus) C(hrist). Cet ouvrage s’est vendu jusqu’à 450 livres. Une édition de 1513, à Milan également – Zanotti Castilione [sic], s’est vendue 180 f(rancs) l’exempl(aire). Certains érudits prétendent que l’auteur n’est pas f(ra) Bartholomeo de Pisis ou Degli Albrizzi, mort en 1351 – mais de fra Bartholomeo de Dirionico [sic] mort en 1401 – Non so come interpretare l’ultima nota, che potrebbe anche essere un deprezzamento dissimulatorio, per cercare di conservare la proprietà del libro, minacciata dallo Stato francese. Fatto sta che il Liber Conformitatum seguì la sorte di altri libri di conventi soppressi: finire in mani private e sul mercato antiquario; fin che fu annoverato nel catalogo della Libreria Pregliasco di Torino. Indi è pervenuto, per acquisto, alla Biblioteca Salita dei Frati di Lugano. Fogli 38/2017 Rara et curiosa / Giancarlo Reggi, Bartolomeo da Pisa, Liber Conformitatum Cet ouvrage vendu à un si haut prix, 450 livres, a beaucoup perdu de sa valeur, des exemplaires sont descendus à 80 fr(ancs) à 50 fr(ancs) et même à 45 fr(ancs). Aujourd’hui il est probable qu’on n’en retirerait guère que 20 fr(ancs). 115 In biblioteca Fernando Lepori Incontri in biblioteca Nel 2016 sono state proposte in biblioteca nove conferenze, su tematiche di cultura religiosa (in particolare biblica e francescana), bibliografica, letteraria e di storia locale (v. questo numero di «Fogli», pp. 142-143). In questa nota si dà conto di alcune di esse: le lezioni sul modernismo e quelle su Bibbia e letteratura. 116 1. Il modernismo Con lo scopo di illustrare gli aspetti salienti e gli autori più importanti del movimento di riforma religiosa indicato con il termine di ‘modernismo’, sono state proposte tre conferenze: il 10 maggio Annibale Zambarbieri ha animato l’incontro introduttivo, sul tema La crisi modernista: riformismi, fratture, continuità; il 24 maggio sono stati sviluppati due temi centrali con la lezione di Ezio Bolis su Il modernismo: un modo nuovo di leggere la Bibbia e la storia del cristianesimo; il 2 giugno, infine, è stata analizzata un’opera letteraria che è stata interpretata come un ‘manifesto’ modernista (e che si può con buone ragioni considerare tale, al di là delle intenzioni dell’autore): Elisabetta Selmi ha parlato su Il modernismo nel romanzo Il Santo di Antonio Fogazzaro. In termini molto generali, si può dire che il modernismo è un movimento di riforma religiosa che, in campo cattolico, si è sviluppato in Francia, in Italia e in Inghilterra tra la fine del secolo xix e l’inizio del secolo xx. Come indica il nome, gli autori che diedero inizio a questa corrente erano mossi essenzialmente dall’esigenza di conciliare la fede cristiana con la cultura moderna. Ciò comportava – per indicare alcuni temi centrali – l’applicazione del metodo storico-critico nella lettura della Bibbia, la consapevolezza dell’evoluzione storica dei dogmi, il rifiuto del neotomismo e una nuova attenzione alla filosofia moderna. Il modernismo si diffuse soprattutto in Francia, con le opere di Alfred Loisy (1857-1940), di Louis Duchesne (1843-1922) e di Henry Bremond (1865-1932), autore di una monumentale Storia della spiritualità (1915-1933). In Italia il modernismo si sviluppò nel solco del cattolicesimo liberale ed ebbe il suo autore più importante in Ernesto Buonaiuti (1881-1946), con il quale vanno ricordati Giovanni Semeria (1867-1931), Romolo Murri (1870-1944) e Giovanni Genocchi (1860-1926). In forma letteraria manifestò la sua adesione 117 1 Il Programma dei Modernisti. Risposta all’Enciclica di Pio X “Pascendi dominici gregis”, Roma, Società internazionale scientifico-religiosa, 1908, pp. 5 n. 1, 130, 132. Il Programma, che è una risposta puntuale alla Pascendi di Pio x che condanna il modernismo, venne pubblicato anonimo ma è in gran parte opera di Ernesto Buonaiuti. Fogli 38/2017 In biblioteca / Fernando Lepori, Incontri in biblioteca alle idee moderniste Antonio Fogazzaro (1842-1911), soprattutto con il suo romanzo Il Santo (1905). Ma l’espressione più originale del modernismo si deve a George Tyrell (1861-1909), anglicano irlandese che nella sua giovinezza aderì al cattolicesimo. Conviene anche ricordare che il termine modernismo apparve solo tra il 1904 e il 1905 e fu impiegato all’inizio unicamente da chi era contrario, suscitando il dissenso dei ‘modernisti’ i quali, in un testo di estrema importanza e chiarezza, dichiarano che il loro «atteggiamento religioso […] vuol essere semplicemente di cristiani e di cattolici, viventi in armonia con lo spirito del loro tempo» e di essersi «accinti a riavvicinare la esperienza religiosa del cristianesimo ai dati della scienza e della filosofia contemporanee, e a segnalare gli elementi di religiosità e di cristianesimo che la democrazia porta in sé stessa»; essi volevano vivere la propria fede cristiana tenendo conto delle conquiste dell’epoca moderna, nella consapevolezza che «una grande crisi di anime, non cominciata da oggi, ma giunta oggi al più alto grado di sua intensità, travaglia tutte le confessioni religiose positive in Europa: il cattolicesimo, il luteranesimo, l’anglicanismo»1. I modernisti insomma furono molto espliciti nell’affermare di voler rimanere nella Chiesa e sviluppare una riforma in essa e non contro di essa. Per quanto il modernismo non sia un sistema teologico organico (come lo è invece la neoscolastica), l’intenzione di fondo, pur con differenze anche significative fra i vari teologi modernisti, è di ripensare la teologia cristiana alla luce del pensiero moderno. E qui val la pena ricordare che il pensiero moderno nasce con l’umanesimo, che si caratterizza in particolare per una nuova coscienza storica e filologica nel rapporto coi testi, e quindi pure con la Scrittura. Non dimentichiamo che fu Lorenzo Valla, con le sue Adnotationes in Novum Testamentum, ad applicare per la prima volta alla Bibbia i principi della filologia umanistica: ma sappiamo che il Valla fu accusato di empietà e che la sua opera fu pubblicata solo nel 1505, a Basilea, da Erasmo. Possiamo dire con buone ragioni che l’opera del Valla anticipa, in nuce, quello che sarà un tema centrale dei modernisti, cioè la lettura della Bibbia secondo il metodo storico-critico. E pensiamo che con l’umanesimo si sviluppa il neoplatonismo cristiano di Ficino e di Pico, in alternativa all’aristotelismo come chiave interpretativa del dogma. Dopo l’umanesimo, pensiamo all’erudizione settecentesca, prima in Francia e poi in Italia, che significa un modo nuovo di intendere e praticare la ricerca storica, l’accertamento della verità storica. E pensiamo, come componente radicalmente innovativa e propria della modernità, all’illuminismo razionalistico, che comporta necessariamente un nuovo e diverso modo di interpretare il cristianesimo. E aggiungiamo, infine, lo sviluppo della scienza, lo spirito scientifico. Con questi sommari riferimenti alla ‘modernità’, si può capire quali fossero l’orientamento e la sensibilità religiosa di chi, da teologo o semplicemente da credente, poteva ritenersi modernista. 2 Enchiridion delle Encicliche, iv, Bologna, edb, 1999, p. 277. Osservo che il testo latino dell’enciclica è tradotto sia con ‘sintesi’ (più frequentemente) sia con ‘ricettacolo’. Ma non è inutile segnalare che in latino il vocabolo è ‘conlectus’, traducibile di per sé con ‘raccolta’, ‘ammasso’, con evidente connotazione negativa. 3 Carlo Bellò, Geremia Bonomelli vescovo di povera santa Chiesa, Brescia, Queriniana, 1975, p. 487. Cfr. Annibale Zambarbieri, Modernismo e modernisti, i. Il movimento, Roma, Edizioni di Storia e Letteratura, 2013, p. 123. 4 «Non so che dire! Ho reverenza per il Vicario di Cristo, ma non posso approvare. Questo modo di agire fa più male che bene. Genera ribelli o ipocriti, con grande scapito per la Chiesa. Sembra che quest’uomo soffra di un’ossessione grave, per quanto lo si possa e debba credere buono di sua natura. Ha forse cattivi consiglieri? È forse, la sua, una fede e una devozione carente di cultura? Chi lo sa? Certo è che la Chiesa ne paga il fio e noi piangiamo». 5 Basti, fra gli altri, questo passo dell’enciclica: «Se un laico cattolico, se un sacerdote dimentica il precetto della vita cristiana che c’impone di rinnegare noi stessi se vogliamo seguire Gesù Cristo, né sradica dal suo cuore la mala pianta della superbia, sì, costui è dispostissimo quanto mai a professare gli errori del modernismo!» (Enchiridion delle Encicliche, cit., p. 283). 118 Va subito detto, a questo punto, che il modernismo fu condannato dalla Chiesa, con il decreto Lamentabili sane exitu del S. Uffizio (1906) e l’enciclica Pascendi dominici gregis di Pio x (1907), nella quale «l’intero sistema» è definito «la sintesi di tutte le eresie»2. Agli occhi dello storico di oggi la repressione antimodernista della Chiesa ufficiale non stupisce. A una lettura anche superficiale dell’enciclica, non può non colpire la durezza della condanna, a proposito della quale è interessante ricordare il giudizio che Geremia Bonomelli, vescovo di Cremona, espresse nel 1909 in un appunto solo recentemente pubblicato3, nel quale a una domanda sull’enciclica formulata in italiano risponde, cautelativamente in latino, con queste parole: «Che dirò del modo con cui Pio x procede contro il cosiddetto Modernismo? Nescio quid dicam! Revereor Vicarium Christi sed approbare nequeo. Haec agendi ratio magis officit quam prosit. Rebelles parit aut hipocritas magno ecclesiae detrimento. Homo iste videtur obsessione mala laborare, licet bonus ex natura sua credi possit et debeat. Sunt-ne consiliarii mali? Est-ne fortasse fides et pietas scientia carens? Quis scit? Profecto ecclesia poenas luit et nos lugemus»4 . Si può aggiungere che la Pascendi si caratterizza per i giudizi non solo dottrinali ma anche morali espressi sui modernisti, accusati in particolare di superbia, colpa molto grave per chi si professa cristiano5. Nella prima lezione Zambarbieri, il più autorevole studioso italiano di modernismo, ha spiegato come la crisi modernista sia il sintomo di un confronto tra una mentalità ancorata al trascendente e una visione del mondo tendenzialmente immanentista o, se si vuole, tra cristianesimo e mondo contemporaneo. Questa concezione si diffuse dapprima in Francia, con le opere di Alfred Loisy, il padre del modernismo, che sostenne la storicità dei dogmi nella loro interpretazione e formulazione, e si diffuse poi in Italia soprattutto con il pensiero di Ernesto Buonaiuti, il grande innovatore della seconda generazione modernista. È pure stato citato l’irlandese George Tyrell, il più originale dei modernisti, per il quale la fede è un’esperienza spirituale che precede il pensiero in termini concettuali. Con queste premesse, Zambarbieri ha dimostrato che i modernisti non costituiscono comunque un sistema teologico organico, come risulta evidente dalle differenze che si possono ravvisare tra di loro, mentre la Pascendi cerca di sistematizzare le 119 6 Zambarbieri, Modernismo, cit., p. 108. 7 Le 50 o anniversaire de la mort de Mgr Duchesne. Allocution à l’École française de Rome, «La documentation catholique», 70 (1973), pp. 556-557. 8 Il giorno successivo, nel suo Diario, Primo Mazzolari scrive questa nota che mi pare estremamente interessante riportare: «Oggi uscì la condanna della Sacra Congregazione dell’Indice contro Il Santo del Fogazzaro […]. Senza avere la pretesa di far il maestro o il saputello, voglio esporre le mie povere idee su questo libro. Il mio giudizio l’ho già dato su queste pagine subito dopo averlo letto e mi pare d’aver trovato nulla che in qualche modo potesse offendere o il domma o la Chiesa. Erano idee belle, idee forse un po’ troppo spinte o premature. Parlando del domma, egli non afferma la mutabilità dell’essenza di questo, ma bensì del modo e della maniera di intenderlo, che può cambiare col mutare degli uomini e dei tempi. Della Chiesa poi non parla e non discute sulla parte divina di questa, ma della chiesa degli uomini e mi pare che certe Fogli 38/2017 In biblioteca / Fernando Lepori, Incontri in biblioteca loro idee, per condannare questa nuova teologia come «sintesi di tutte le eresie». Lo studioso ha infine ricordato come i modernisti si caratterizzino per una sensibilità ecumenica allora sorprendente, tanto che alcune loro posizioni sono definibili come «protoecumeniche»6. Nella seconda lezione Ezio Bolis ha sviluppato due obiettivi fondamentali perseguiti dai modernisti: un nuovo modo di interpretare il testo biblico, che tenga conto del metodo storico-critico, e una nuova lettura della storia del cristianesimo che, abbandonata l’apologetica tradizionale, si basi scrupolosamente sulle fonti documentarie. Sul primo punto val la pena ricordare che gli anni che vanno dalla fine dell’Ottocento all’inizio del Novecento sono caratterizzati da un rinnovato interesse per la lettura e l’interpretazione della Bibbia. Al 1893 risale la Providentissimus Deus di Leone xiii, che esorta gli esegeti cattolici a mettere in atto una specifica competenza scientifica studiando le antiche lingue dell’Oriente e applicando il metodo storicocritico anche sulla base delle discipline connesse, quali l’archeologia e la filologia. Nel 1890 il domenicano francese Marie-Joseph Lagrange, il maggior biblista dei primi decenni del Novecento, fonda a Gerusalemme l’École biblique. Lagrange fu poi accusato di modernismo e fu all’origine di una discussione per aver messo in dubbio la paternità mosaica del Pentateuco. Sul tema dell’ispirazione della Scrittura il relatore s’è rifatto soprattutto a Loisy, secondo il quale la Bibbia è stata scritta da uomini, e come tale deve essere letta: questa concezione, allora inaccettabile, la troviamo ora autorevolmente espressa nella costituzione Dei Verbum (n. 12) del Concilio Vaticano ii. Quanto alla storia del cristianesimo, Bolis ha parlato dell’evoluzione dei dogmi nel permanere della fede, spiegando come si debba fare una lettura storica dei ‘dati della fede’. Per il nuovo modo di interpretare la storia della Chiesa bisogna ricordare soprattutto Louis Duchesne, le cui sue opere furono messe all’Indice ma che fu riabilitato da Paolo vi, il quale, in un discorso pronunciato il 24 maggio 1973 all’École française di Roma per il 50 o anniversario della sua morte, lo definì fra l’altro «artiste de la narration historique» e «noble figure de prêtre français et romain» nonché «sévère et génial chercheur»7. Le questioni poste dai modernisti rimangono insomma attuali nel dibattito teologico: per questo il modernismo non è un movimento storico superato. Nella terza lezione, di Elisabetta Selmi, è stato preso in esame il romanzo Il Santo di Antonio Fogazzaro, che per le idee moderniste che vi sono espresse venne messo all’indice con decreto del 5 aprile 19068. Il Fogazzaro, noto al grande pubblico come autore di Piccolo mondo antico (1895), è un letterato, non propriamente un teologo: ma un letterato che esprime la sua adesione al modernismo con il romanzo che è la continuazione di quello citato, Piccolo mondo moderno (1901) e soprattutto – con piena consapevolezza – con Il Santo (1905). Anche se il Fogazzaro negò di averne avuto il progetto fin dall’inizio, si tratta di fatto di una trilogia, perché il protagonista di Piccolo mondo moderno è Piero Maironi, concepito – come sappiamo – nell’ultimo incontro di Franco e Luisa, all’Isola Bella, alla fine di Piccolo mondo antico. E Piero che, persa la moglie, asseconda la sua tendenza mistica giovanile e si ritira a Subiaco, come semplice ortolano dei monaci, con il nome di Benedetto, è il protagonista del Santo. Benedetto è deciso a restare separato da Jeanne, la donna atea che è innamorata di lui, ma le promette di chiamarla a sé prima di morire. Allontanato dai benedettini, va a vivere sui monti e aiuta i poveri vivendo fra loro miseramente. Lo credono santo. Poi fugge a Roma e chiede un colloquio al papa, al quale espone le ‘piaghe della Chiesa’. Il papa lo benedice e gli dà ragione, ma si dice prigioniero del suo ruolo. Benedetto infine muore e Jeanne, accorsa da lui, bacia il suo crocefisso. Elisabetta Selmi ha spiegato come Il Santo, dopo un periodo di febbrile attesa negli ambienti del cattolicesimo riformatore, costituì un caso clamoroso soprattutto sotto il profilo religioso, nel contesto delle polemiche sul modernismo che si protrassero a lungo, nonostante il dignitoso riserbo assunto dall’autore dopo la messa all’indice dell’opera e la durissima stroncatura comparsa, nello stesso anno, sulla «Civiltà Cattolica», che valutò il protagonista Piero Maironi-Benedetto un modello di santità «eretica» ed «affettata». Oggi la revisione critica di quei giudizi, per cui Il Santo non è più ritenuto un ‘romanzo a tesi’ ma un documento dell’autentica ricerca religiosa di Fogazzaro, invita a leggere l’opera come la testimonianza di una nuova apologetica moderna o modernista e di un misticismo non ‘decadente’. Sulla religiosità dello scrittore nel periodo tra Piccolo mondo moderno e Il Santo è illuminante questo passo di una lettera da lui scritta a Geremia Bonomelli il 27 dicembre 1902. idee su ciò non siano proprio il non plus ultra del modernismo, né nient’altro fuorché la verità.» (Primo Mazzolari, Diario (1905-1926), a cura di Aldo Bergamaschi, Bologna, edb, 1974, p. 75). 9 Corrispondenza Fogazzaro - Bonomelli, a cura di Carlo Marcora, Milano, Vita e Pensiero, 1968, p. 63. 120 In questi ultimi mesi ho molto vissuto nella corrente delle idee religiose che rappresentano, nel campo cattolico, l’avvenire e la vita. Lettura di Loisy, di Houtin, di Tyrell, conversazioni con Semeria, P. Gazzola, D. Brizio, P. Genocchi mi hanno scossa, illuminata, qualche volta pure, se vuole, turbata l’anima […]. Ho finalmente capito, leggendo quei libri, quello che Semeria mi disse anni sono: “bisogna conoscere la critica biblica”. Infatti la notizia dei risultati sicuri degli studi biblici, se può uccidere una fede debole, rinvigorisce invece la fede forte, allarga e approfonda il concetto del divino, è quindi efficacissima a preparare quella evoluzione nella intelligenza del dogma che i tempi domandano.9 Fogli 38/2017 In biblioteca / Fernando Lepori, Incontri in biblioteca 121 2. Bibbia e letteratura Anche nell’autunno del 2016, nell’ambito dei consueti incontri biblici, la nostra Associazione ha proposto un breve corso di tre lezioni sul tema “Bibbia e letteratura”. Gli incontri hanno avuto inizio il 17 novembre, con una lezione di Adalberto Mainardi su La parola risuscitata. Il processo a Jeshua HaNozri nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov. Il 23 novembre Piero Stefani ha parlato sul tema “Vi comando queste parole”: dall’imperativo biblico alla testimonianza di Primo Levi. Il 29 novembre, infine, Elisabetta Selmi ha tenuto una lezione sui volgarizzamenti dei Treni di Geremia, con il titolo Le Lamentazioni di Geremia profeta: da modello per “l’elegia sacra”ad archetipo romantico di “una poesia veramente sublime”. Il romanzo Il Maestro e Margherita di Michail Bulgakov (1891-1940) è il capolavoro di uno dei maggiori scrittori russi del Novecento. L’opera nasce in un contesto biografico e storico- culturale che è opportuno richiamare. Dopo le prime opere Bulgakov, che alla fine degli anni Venti fu condannato sistematicamente dai critici sovietici, non poté più pubblicare né lavorare. Ridotto ad uno stato di disperazione, il 28 marzo 1930 si rivolse con una lettera al governo dell’Unione Sovietica chiedendo di poter lasciare la patria o di poter lavorare come regista o come comparsa in un teatro. In questa lettera Bulgakov scrisse anche di aver gettato «con le proprie mani nella stufa» la «minuta di un romanzo sul diavolo». Si tratta del Maestro e Margherita, già almeno iniziato e dato alle fiamme. Ritroveremo il tema del manoscritto bruciato nel dialogo tra Woland e il Maestro. Il 18 aprile Stalin telefonò a Bulgakov, rispondendo alla lettera del 28 marzo: gli accordava un impiego al Teatro d’Arte di Mosca. Dopo il 1930 lo scrittore riprese a scrivere il romanzo, che tuttavia fu pubblicato solo molti anni dopo la sua morte (1940). La prima edizione integrale in russo uscì nel 1967 dall’editore Einaudi. Quando apparve la prima edizione italiana, sempre nel 1967, Eugenio Montale pubblicò sul «Corriere della Sera» del 9 aprile una breve recensione e, prevedendo un sicuro successo internazionale, scrisse tra l’altro: «il poco noto Bulgakov si congiunge con la più profonda tradizione letteraria della sua terra: la vena messianica, quella che troviamo in certe figure di Gogol e di Dostoevskij». Ma per il rapporto con la Scrittura conta il capitolo secondo, con l’interrogatorio di Gesù (Jeshua Ha-Nozri) da parte di Pilato, del quale ancora Montale scrisse «che è forse il più stupefacente del libro». Si tratta di un vero e proprio ‘romanzo nel romanzo’, una ri-scrittura insieme fantastica e affascinante dei Vangeli della passione. Nella sua relazione, Mainardi ha mostrato come il paradossale dialogo tra Woland (uno dei nomi di Mefistofele nel Faust goethiano) e l’eroe de Il Maestro e Margherita delinei la metafora fondamentale attorno a cui è costruito il romanzo: la parola autenticamente poetica, come l’amore, brucia di una fiamma più forte della morte. Il romanzo è perciò al tempo stesso un’impietosa satira del sistema staliniano e una sorprendente ricomparsa dell’epopea faustiana in pieno xx secolo, «un miracolo che ciascuno deve salutare con commozione» (Montale). Come ha detto Mainardi, «nella struttura a incastro dell’opera, la vicenda di Pilato, ossessionato dalla parte avuta nella condanna di Jeshua Ha-Nozri, è il romanzo nel romanzo che fornisce la chiave alla storia surreale di Satana apparso nella Mosca degli anni Venti, per smascherare doppiezze, 10 Per questa poesia di Levi e il suo rapporto con le fonti bibliche qui sommariamente illustrato si veda lo studio di Piero Stefani Riprese letterarie. Lo Shemà di Primo Levi, nella sua raccolta di saggi L’esodo della Parola. La Bibbia nella cultura dell’Occidente, Bologna, edb, 2014, pp. 126-132. 122 finzioni, ipocrisie, ma anche per ricongiungere misteriosamente Margherita e il suo Maestro-Faust. Teatralità e poesia, tragedia e commedia, si armonizzano attorno a una riscrittura fantastica dei Vangeli della passione, che sembra seguire le tracce di un apocrifo perduto, rendendo indicibilmente viva nel lettore la nostalgia di verità e luce, di giustizia e pace». Primo Levi (1919-1987) è uno scrittore italiano noto soprattutto per il romanzo Se questo è un uomo, definibile come la narrazione-testimonianza di uno dei pochi ebrei sopravvissuti all’esperienza dei campi di sterminio nazisti. Di Levi è stata analizzata, mettendola in rapporto con le sue matrici bibliche, del resto non immediatamente riconoscibili, una poesia, intitolata Shemà (in ebraico “Ascolta”), scritta nel gennaio del 1946 poco dopo il suo ritorno da Auschwitz, dove lo scrittore – ebreo e attivo come partigiano in Val d’Aosta – era stato deportato nel febbraio del 1944. In seguito Levi pubblicò la poesia all’inizio di Se questo è un uomo, edito nel 1947 e poi, con più ampia diffusione, nel 1958 da Einaudi. L’opera di Levi vuole essere prima di tutto una testimonianza delle condizioni atroci e disumane in cui vivevano i prigionieri. Come si legge nella prefazione, il libro vuole «fornire documenti per uno studio pacato di alcuni aspetti dell’animo umano». E poco sotto: «La storia dei campi di distruzione dovrebbe venire intesa da tutti come un sinistro segnale di pericolo». Alla luce di queste informazioni, si comincia a capire il senso profondo della poesia, evidenziato nel verso «Vi comando queste parole»: testimoniare per fare in modo che queste atrocità non si ripetano. E qui comincia ad apparire il rapporto con i testi biblici che sono stati illustrati da Piero Stefani: il testimone Levi è un profeta del nostro tempo, e la sua testimonianza è vana se non viene accolta come un imperativo. Come ha spiegato il relatore, noto biblista e studioso di ebraismo, Shemà è l’incipit della più nota tra le preghiere ebraiche (Deuteronomio 6, 4-9). Perché Levi riprende questo passo? Innanzitutto perché esso comincia in modo imperativo, nella poesia diventato «Considerate [...] Meditate». Tuttavia a comandare non è più Dio; a farlo è invece una voce umana che ha conosciuto l’abiezione. Del testo biblico rimane perciò la dimensione del comando, mentre muta radicalmente chi è nelle condizioni di comandare. La poesia si richiama però anche ad un altro sottotesto biblico: si tratta di Deuteronomio 28, 15-46, che contiene una sezione di maledizioni precedute da un’altra dedicata alle benedizioni di cui non c’è significativamente traccia in Levi. Un messaggio della poesia è sicuramente quello secondo cui la voce del testimone deve essere ascoltata, eppure questo verbo è presente solo nel titolo e in una lingua ‘altra’. Neanche questo particolare è casuale10. I Treni, o Lamentazioni di Geremia sono uno dei testi più importanti ed affascinanti dell’Antico Testamento. Fanno parte dei libri profetici, e sono cinque poesie destinate al canto, in cui ricorre come tema di fondo la caduta di Gerusalemme e la distruzione del tempio ad opera di Nabucodonosor re di Babilonia: sono perciò canti di dolore, lamenti per una sciagura che ha colpito Fogli 38/2017 In biblioteca / Fernando Lepori, Incontri in biblioteca il popolo. E, come si dice nella seconda Lamentazione, la sciagura è stata voluta da Dio a causa del peccato del suo popolo. Il poeta perciò, nel suo lamento, invoca pietà e clemenza. Anche perché sono testi fondamentali per la spiritualità cristiana e la devozione cattolica, le Lamentazioni conobbero una singolare fortuna di parafrasi poetiche nel volgare italiano e riscritture letterarie nei generi illustri della prima e piena modernità. La lezione di Elisabetta Selmi ha proposto esempi di traduzione-riscrittura, mostrando in particolare come dal secolo xvi al secolo xix si sviluppi una sperimentazione volta alla ricerca di nuovi modelli espressivi e di una letteratura più impegnata nel recupero delle radici bibliche della tradizione cristiana. Sono stati proposti e analizzati testi di Niccolò Strozzi, Carlo Maria Maggi, Benedetto Menzini ed Evasio Leone. Questi autori mettono in atto una nuova assimilazione del modello scritturale nelle forme della tradizione poetica italiana11. 123 11 Su questi temi è fondamentale lo studio di Elisabetta Selmi, Lagrime, pianti, lamentazioni. I volgarizzamenti dei Treni di Geremia e dei Canti profetici tra fine Cinquecento e Settecento, in La Bibbia in poesia, a cura di Rosanna Alhaique Pettinelli, Rosanna Morace, Pietro Petteruti Pellegrini e Ugo Vignuzzi, Roma, Bulzoni, 2015, pp. 167-196. In biblioteca Alessandro Soldini Le esposizioni nel porticato della biblioteca Introduzione L’anno sociale appena trascorso ha conosciuto tre eventi diversi tra di loro: l’esposizione Edizioni di Basilea del XVI secolo a Sud delle Alpi, curata dal Centro di competenza del libro antico della nostra Biblioteca, la mostra di libretti e plaquette dell’editore salernitano Gaetano Bevilacqua e la mostra di ‘legature’, termine che va necessariamente posto tra virgolette per quanto si leggerà più avanti, dell’artista Antonio Teruzzi. Tre mostre dalle caratteristiche molto diverse, significative della ricchezza del mondo librario e di quanto ancora sappia offrire sul piano culturale in un’epoca in cui i media elettronici la fanno da padrone. Alle tre mostre realizzate dalla nostra associazione si sono intercalate tre proposte di grafica organizzate dall’aaac, nostra tradizionale associazione ospite. Tra queste mani, dentro la carta Le Edizioni dell’Ombra di Gaetano Bevilacqua (15 ottobre–19 novembre 2016) Nato a Casagiove (Caserta) nel 1959 e cresciuto a Salerno, dove vive e lavora, Gaetano Bevilacqua inizia a incidere all’acquaforte frequentando per due anni, dal 1989 al 1991, le lezioni di Francesca Fornerone al Civico Corso di Arti Incisorie di Milano. Nel 1990, sotto la guida di Lucio Passerini, insegnante di xilografia presso la stessa scuola, si avvicina al mondo della tipografia e stampa la sua prima plaquette con cinque poesie di Bartolo Cattafi e cinque sue incisioni. Dal 1991 collabora, come incisore o come stampatore, a diverse edizioni: Galleria Il Catalogo di Salerno, El Mendrugo de Pan dell’artista argentino Duilio Gabriel López, Pulcinoelefante di Alberto Casira- 124 1 Le mostre organizzate dalla nostra Associazione Sulla prima mostra, Edizioni di Basilea del XVI secolo a Sud delle Alpi (12 maggio - 12 agosto 2016) riferisce Marina Bernasconi Reusser in un articolo autonomo (qui, pp. 133-138) 125 avendo assunto ciò che viene definito ‘libro d’artista’ svariate forme, nel corso della sua evoluzione, mi è difficile darne una definizione che possa renderlo nel suo complesso. Nell’esperienza a me più vicina, si tratta di edizioni a tiratura limitata che conservano in sé gli effetti di un lavoro interamente manuale, dal taglio della carta alla stampa su torchi a mano, alla piegatura dei fogli e cucitura finali; uno spazio ove testo, immagine, pressioni, inchiostri, caratteri tipografici, Fogli 38/2017 In biblioteca / Alessandro Soldini, Le esposizioni nel porticato della biblioteca ghy, Lo Sciamano di Pierluigi Puliti, Nuove Carte di Giordano Perelli, L’Obliquo di Giorgio Bertelli, Materiali infiammabili di Roberto Alquati, La Veglia con Simonetta Melani e Luna e Gufo di Fabrizio Mugnaini, insieme al quale avvia la collana Le Conchiglie, con il cui logo sono state stampate finora sette plaquette con testi di Roberto Roversi, Gian Ruggero Manzoni, Franco Facchini, Maurizio Marotta, Anna Cascella, Alberto Cappi, Mario Rigoni Stern ed incisioni di Mario Guadagnino, Renzo Galardini, Mario Calandri, Renato Bruscaglia, Walter Piacesi, Raimondo Rossi, Giancarlo Vitali. Nel 1992 dà vita ad un progetto di edizioni private a tiratura limitata con il marchio Edizioni dell’Ombra, libretti interamente tirati su torchi a mano che abbinano brevi testi poetici e in prosa di autori contemporanei o classici a grafiche originali. L’amalgama tra l’interesse per la poesia, la curiosità appassionata suscitata dalla scoperta delle tecniche incisorie e la voglia di ‘autoprodurre’ piccoli ‘luoghi d’incontro’ tra testo poetico e immagine, ne è stato l’alchimia originaria. Il tutto confortato dalla complicità paziente di amici poeti e incisori che hanno nutrito e continuano a nutrire con testi e matrici da stampare l’impulsiva fiamma iniziale. Un avvio più istintivo che progettato – afferma Bevilacqua – un’idea in progresso che dura e pervade ancor oggi il suo lavoro, mosso da un solo obiettivo, lo scambio amichevole, sovente nato da un incontro nuovo e inaspettato, da un «incontro di carta», come ama definirlo, alimentato dalla sua costante attenzione alla letteratura e alla poesia non solo di lingua italiana, ma anche di lingue straniere, soprattutto dell’inglese, sua materia d’insegnamento nelle scuole superiori. Il nome ‘dell’Ombra’ dato alle sue edizioni indica un vivere nascosto e discreto, una passione privata coltivata con lentezza e in massima parte nell’ombra di un piccolo studio, dove la stampa dei libretti si alterna alla produzione di grafiche originali, acquerelli e acrilici. La mostra nel Porticato della Biblioteca Salita dei Frati a Lugano ha proposto uno spaccato significativo dell’opera di Gaetano Bevilacqua, testimonianza di una passione che è nata, ha tratto e continua a trarre linfa ‘nell’ombra’, vale a dire da un lavoro discreto, silenzioso, lontano dal chiasso, dalla vistosità e persino dal kitsch che caratterizzano molte delle odierne manifestazioni; un modus operandi che privilegia la lentezza, la riflessività, la raffinatezza, che ci rammenta un fare antico intriso di manualità e di saggezza. Queste caratteristiche, unite alla manualità, contraddistinguono le plaquette pubblicate dalle Edizioni dell’Ombra, che sono veri e propri libri d’artista di piccolo formato. In una dichiarazione rilasciata a Martine Beuchat, reperibile sul sito www.bulino.com/liber-libenter/dettodellombra.html, Bevilacqua così definisce o, meglio, descrive, quello che intende per libro d’artista: A sinistra: due copertine delle Edizioni dell’Ombra. Walt Whitmann, To You, Edizioni dell’Ombra, xilografia di Gaetano Bevilacqua. A destra: Cesare Pavese, Poesie, Torino, Einaudi, 1961, copertina di Antonio Teruzzi, tecnica mista. spessori e goffratura delle carte si sintetizzano, in uno scambio continuo di rimandi, in un luogo ‘altro’, in una esperienza in cui tatto, vista, odorato siano stimolati. Sulle Edizioni dell’Ombra e sulle incisioni di Gaetano Bevilacqua hanno scritto, tra gli altri, Stella Romano, Simonetta Melani, Marcello Napoli, Gerardo Pedicini, Maurizio Marotta, Francesca Fornerone e Fernanda Ferraresso (www.bulino.com/info.html) 1 Raffaele Deluca, Legature di attese, in Legature, Milano, Edizione d’arte Severgnini, 2012 (pagine non numerate). 2 Alberto Crespi, Cometarum intercettore, in Legature, cit., [s.n.p.]. 128 Tempo unico Antonio Teruzzi (25 febbraio–8 aprile 2017) Antonio Teruzzi è nato nel 1945 a Brugherio (mb) dove vive e lavora. Pittore, scultore e incisore, è profondo conoscitore di tecniche rare come l’encausto e l’affresco su muro e su tela o stucco lucido. Sperimenta senza posa, affascinato dall’unire materia e spirito, traguardo delle antiche pratiche alchemiche. Da molti anni raccoglie vecchi libri, che trova nei mercatini, da rivenditori di libri usati o da antiquari: vecchi libri, che veicolano i valori fondamentali etici, filosofici, estetici, giuridici, su cui poggia la civiltà occidentale di matrice cristiana. Non si tratta necessariamente di libri di pregio; nella maggior parte dei casi sono libri usati, passati fra diverse mani. Per garantirne la sopravvivenza l’artista li impreziosisce con un’opera d’arte. Teruzzi parla di legature, termine che nel suo caso acquisisce una duplice valenza. Con legatura intende l’applicazione sul piatto anteriore della copertina, dopo aver consolidato il libro, di un’opera d’arte originale, unica, un vero e proprio bassorilievo realizzato con materiali diversi quali, ad esempio, la terracotta, il cartone, il rame o altri metalli. Ma legatura sta anche a indicare il legame con il contenuto del volume e il dialogo che nasce tra opera d’arte e contenuto. Per rendere fruibile al visitatore, al lettore il dialogo che lo attende, «un’attesa piena di tensione creativa e di conoscenza che punta ad altre attese, metafora dell’attesa che è essa stessa tempo, durata, vita»1, il fotografo Carlo Pozzoni ha realizzato per ognuno dei libri esposti una o più fotografie del frontespizio o di pagine significative del testo. In un’epoca in cui il libro è sempre più penalizzato dai media elettronici che invadono la nostra quotidianità, «Antonio Teruzzi – come ha rilevato Ilona Biondi, curatrice della mostra, nel pieghevole – cerca, con la sensibilità propria dell’artista, di restituire al libro il suo originario valore facendolo rivivere in un tempo unico». «In questo modo, l’opera d’arte continuerà a vivere – continua Ilona Biondi – nelle nostre case garantendo ancora per molto la presenza del libro altrimenti destinato a scomparire». Secondo Alberto Crespi, «l’idea di una nuova veste, una cover semirigida come una corazza leggera ma protettiva a celare l’antica facciata velandola di nuovi segreti chiaroscuri, incidendola in segni di una luce nuova e antica, si è fatta strada e si è imposta facilmente alle scelte dell’artista, sulla scorta di un saper fare elegantemente agguerrito nelle tecniche, e di un’amorosa ipersensibilità verso la materia»2. 2. Le mostre dell’Associazione Amici dell’Atelier Calcografico (aaac) La necessità di dare corpo alle percezioni dell’ambiente vissuto mi porta attualmente a privilegiare indagini su supporti plastici di varia natura. Il plexiglas in particolare con la sua trasparenza mi riconduce all’ambiente dell’acqua e delle forme naturali che qui si esprimono. Il segno su questo tipo di matrice non si orienta esclusivamente secondo i punti cardinali, ma si avventura anche nel concetto di profondità e di altezza. L’incisione diretta con le tecniche classiche e con quelle più tecnologiche è il linguaggio prescelto. 129 Ubaldo Rodari (2 aprile–7 maggio 2016) Ubaldo Rodari è nato a Bergamo nel 1952. Conseguita la maturità scientifica, intraprende l’attività artistica come autodidatta. Dopo un viaggio di studio a Parigi nel 1977, frequenta a Venezia la Scuola internazionale di Grafica con i maestri Riccardo Licata e Giuseppe Zigaina. Pittore e incisore, attualmente è presidente e direttore artistico dell’associazione Il Brunitoio, Officina di Incisione e Stampa a Ghiffa, con sede presso la sala d’esposizioni dell’ex Cappellificio Panizza. Vive e lavora a Verbania. Rodari racconta che nello stesso caseggiato in cui viveva la nonna paterna a Bergamo aveva trovato sede la Tipografia Secomandi. Entra così in contatto con le pile di risme di carta della tipografia e con il denso odore d’inchiostro fresco che si respirava nei locali, dove in un angolo «troneggiava – ben tenuto – un torchio calcografico attorno al quale era indaffarato un uomo con il grembiule di cuoio». Questo incontro lasciò in Rodari un segno indelebile, che si manifestò imperioso quando, frequentando gallerie che esponevano incisioni all’acquaforte, si imbatté in una citazione di Paul Valéry: «amo l’incisione perché ci restituisce il massimo delle nostre impressioni con il minimo dei mezzi sensibili». Nella pittura di Rodari, l’incisione gioca un’influenza fondamentale (ma non viceversa), ciò che lo ha sospinto verso un’estetica intima. Afferma a questo riguardo: Fogli 38/2017 In biblioteca / Alessandro Soldini, Le esposizioni nel porticato della biblioteca Nel corso della mostra hanno avuto luogo due eventi, che hanno visto protagonisti un fotografo e un musicologo in dialogo con Teruzzi, di cui condividono i valori veicolati dalla sua arte: – il 15 marzo 2017, l’incontro, dal titolo Tempi moderni, con Carlo Pozzoni, autore di numerosi reportage fotografici apparsi sulle più prestigiose testate italiane e internazionali e protagonista di svariate mostre fotografiche che interpretano in maniera singolare architetture, persone, arte e momenti storici della città di Como; – il 25 marzo 2017, l’incontro sul tema Legature d’attesa. Il tempo della musica scritta con il musicista e musicologo Raffaele Deluca, collaboratore, tra l’altro, di numerose biblioteche storiche e musicali in qualità di ricercatore e di coordinatore scientifico. Quando invece incide su lastre di rame o di zinco prevalgono le acquetinte e gli acidi diretti controllati per interpretare i toni e i mutamenti dell’ambiente acquatico. «È lo stravolgimento e il ribaltamento di molte delle tecniche apprese che a mio parere – così conclude il suo scritto nel Quaderno n. 88 dell’aaac, apparso nella primavera del 2016 – giustificano il linguaggio dell’incisione, passando per la necessaria e vitale re-interpretazione al fine di dare forma a ciò che, come un’ombra, si è depositato a livello intellettuale. Questa lettura sensibile di ciò che accade nel mio contemporaneo ha bisogno di ‘questa’ incisione senza preclusioni e rigidità, nella speranza di costruire nuovi ponti e nuove finestre sul mondo». L’artista ha ulteriormente illustrato gli aspetti della sua ricerca creativa nel corso di un coinvolgente incontro con un folto pubblico presente nella sala di lettura della biblioteca, il 9 aprile 2016 , in cui ha ribadito che la ricerca di supporti non tradizionali, come il plexiglas, gli consente di portare in superficie sensazioni latenti, intime, utilizzando quando necessario due lastre, una stampata in rilievo a secco (goffratura), l’altra inchiostrata calcograficamente, così da trasmettere alla carta al tino le sottili e intime vibrazioni sedimentate in anni di frequentazione dell’ambiente lacustre. Da sempre preoccupata dalla vita, dalle sue metamorfosi, dalle sue tracce e dai suoi ricordi – afferma ancora l’artista – il rapporto con il tempo ha assunto poco a poco uno spazio essenziale nelle mie ricerche. La vita, la morte, sensazioni indicibili e ineffabili sono al centro del mio lavoro e ogni solco inciso deve trovare il suo giusto collocamento per essere il più vicino possibile all’essenziale. 130 Catherine Gillet (3 settembre–8 ottobre 2016) Catherine Gillet, nata nel 1960 a Le Blanc nel Centro della Francia, si è diplomata all’Institut d’Arts visuels di Orléans nel 1984. A soli vent’anni vince il prestigioso Prix Lacourière, creato sotto l’egida della Fondation de France in onore all’incisore e maestro stampatore Roger Lacourière, ottenendo negli anni successivi numerosi riconoscimenti. Vive e lavora a Drex e a Parigi. Attualmente presiede l’associazione Manifestampe. Per l’artista «incidere significa perdersi per ritrovarsi: affidarsi alla lastra di rame, ai suoi riflessi, alla sua superficie dura e tenera nel contempo, che la lama affilata del bulino incide amorevolmente, vero prolungamento della mano che lì deve dissolversi ». Si tratta di un lungo viaggio alla cieca dal quale è impossibile tornare indietro, sovente mesi e mesi di lavoro senza sapere se la strada intrapresa è la buona, poiché l’artista non imprime prove di stampa fintanto che la sequenza delle incisioni non è terminata, «fintanto – così si esprime Catherine Gillet – che non ha esaurito quel che doveva dare, e che ignorava». Attraverso le opere esposte si è potuto toccar con mano o, meglio, cogliere con sguardo attento come l’incisione a bulino coniughi lentezza realizzativa e urgenza espressiva in una sorta di matrimonio improbabile che conduce al superamento di sé. Fogli 38/2017 In biblioteca / Alessandro Soldini, Le esposizioni nel porticato della biblioteca Samuele Gabai (3 dicembre 2016–21 gennaio 2017) Samuele Gabai è nato a Ligornetto nel 1949. Si è diplomato all’Accademia di Belle Arti di Brera a Milano. Dal 1985 al 1987 è stato artista membro dell’Istituto Svizzero di Roma. Per svariati anni ha insegnato al Centro Scolastico per le Industrie Artistiche (c.s.i.a.) di Lugano. Vive a Campora e lavora a Vacallo in Valle di Muggio (Cantone Ticino). La posizione di Gabai è ben profilata. Egli si definisce un peintre-graveur per il quale pittura e incisione sono un tutt’uno. «Quando l’immagine, nel suo linguaggio analfabetico, rimane coerente al suo scopo – per lo più misterioso – si ha un’espressione di ‘poetica’ visiva chiamata anche opera d’arte», afferma Gabai, al quale non piace «sia in pittura come nell’incisione, l’esibizionismo tecnico, seppur di abilissima qualità, il ‘grafismo’ e la decorazione a sé stanti». Nel Quaderno n. 90 destinato ai soci dell’aaac, Gabai, prendendo spunto da Emergenze. Note da sketchbook e opere su carta (Edizioni Medusa, Milano 2016, p. 194), in cui sono raccolte le sue riflessioni sull’arte, la pittura e l’incisione, offre alcuni sprazzi di riflessione su ciò che per lui significa fare arte, che confermano l’intima coesione del suo creare, laddove afferma di cercare «un’immagine come scolpita, un’incisione pittorica, dipinta da un disegno non privo di senso anche se gravoso e misterioso». Fondamentali nel cogliere il significato della sua opera sono la percezione e le sensazioni che suscita nell’osservatore, chiamato a farsi co-autore e nel contempo critico della creazione. Gabai non si stanca comunque di ripetere, come si legge in uno dei suoi lampi intuitivi, che «l’incisione calcografica dà un segno di carattere unico, essendo in profondità incavata, ciò che si vede è tecnicamente un microbassorilievo. Il suo valore sta in questa unicità e non nella moltiplicazione dell’immagine che, semmai, ne costituisce un ‘valore aggiunto’». 131 Frontespizio di Alfonso Corradi, In Apocalypsim d. Ioan. apostoli commentarius, Basilea 1560. In biblioteca Marina Bernasconi Reusser La mostra “Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi” * * Si pubblica qui l’intervento di Marina Bernasconi Reusser, tenuto il 12 maggio 2016 in occasione della inaugurazione della mostra “Edizioni di Basilea del xvi secolo a sud delle Alpi” esposta nel porticato della biblioteca dal 12 maggio al 12 agosto 2016. Il testo, pur avendo subito gli adeguamenti indispensabili, conserva alcune caratteristiche tipiche della comunicazione orale. 133 Nella mostra sono stati esposti libri antichi, di per sé non particolarmente belli né particolarmente preziosi; loro denominatore comune è il fatto di essere conservati in biblioteche religiose presenti nel nostro territorio. Ciò spiega le origini della mostra. Con essa si è voluto sottolineare un anniversario, un giovane anniversario: un anno dalla costituzione, presso la Biblioteca Salita dei Frati, del Centro di competenza per il libro antico, fondato nel maggio del 2015. L’Associazione Biblioteca Salita dei Frati svolge da oramai 35 anni la sua attività di gestione del fondo librario dei Cappuccini del convento di Lugano. Oltre alla gestione, si impegna a garantire l’apertura, seppur limitata, della biblioteca al pubblico, ad acquistare opere legate alla storia del libro, alla religiosità popolare e al francescanesimo, e svolge inoltre attività culturali, organizzando cicli di conferenze su temi biblici e religiosi ed esposizioni. La partenza nel 2014 dei Cappuccini ha messo a nudo la fragilità di queste istituzioni religi ose ancora presenti sul nostro territorio e il pericolo nel quale si sarebbero potuti trovare i fondi librari, non solo quelli depositati in questa biblioteca ma, in generale, quelli affidati a enti o istituzioni religiose. I lunghi anni di familiarità con questo tipo di raccolte librarie, con la relativa esperienza accumulata nella loro gestione, fanno di questa biblioteca e delle persone che vi lavorano il luogo ideale nel quale istituire un centro di questo genere. Di cosa si occupa il Centro di competenza per il libro antico? Della salvaguardia e della valorizzazione dei numerosi fondi librari antichi conservati sia in biblioteche aperte al pubblico (in particolare religiose), sia private, presenti nel Canton Ticino. La prima operazione che si è resa necessaria, e che è ancora in corso, 1 Per l’elenco si rinvia a Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi, Catalogo dell’esposizione a cura del Centro di competenza per il libro antico (Lugano, Biblioteca Salita dei Frati, 12 maggio - 12 agosto 2016), numero monografico di «Arte e Storia», 16, num. 68 (marzo-aprile 2016), sommario alle pp. 10-11. 134 consiste nell’effettuare un censimento di questi fondi librari. Sono numerosi, sparsi in tutto il territorio, e per la maggior parte poco o nulla conosciuti dal grande pubblico. Al censimento deve necessariamente seguire, e in questo senso si sta lavorando, una catalogazione. Questa catalogazione, per la quale siamo continuamente alla ricerca di finanziamenti, viene effettuata con criteri scientifici, immettendo direttamente i dati raccolti nel catalogo in linea del Sistema bibliotecario ticinese. In questo modo, tramite i metacataloghi nazionali e sovranazionali, anche il volume conservato nella più sperduta biblioteca parrocchiale ticinese ottiene una sua visibilità, non solo nazionale ma anche internazionale. I criteri con i quali abbiamo scelto i venti volumi esposti1 sono sostanzialmente due: i libri provengono tutti da biblioteche religiose e sono stati stampati a Basilea, tutti nel xvi secolo tranne un incunabolo. Parlando di ‘biblioteche religiose’ non dobbiamo pensare unicamente a quelle dei conventi, per lo più francescani, che noi tutti conosciamo, come questo di Lugano, della Madonna del Sasso o del Bigorio. In realtà nel territorio sono presenti vari fondi librari, conservati per la maggior parte nelle parrocchie, di consistenza più o meno grande, ma non per questo meno degni di conservazione. In questa mostra abbiamo esposto, per esempio, un volume proveniente dalla Biblioteca del letterato e pedagogo abate Antonio Fontana (1784-1865), da lui lasciata in eredità alla Parrocchia di Sagno. Abbiamo esposto, inoltre, un esemplare proveniente dalla Biblioteca parrocchiale di Cavergno: una raccolta di libri radunata nell’Ottocento con grande passione da don Luigi Alessandro Zanini (1807-1855). Aveva frequentato le scuole in Olanda, dove era nato, ed aveva poi proseguito gli studi presso il Collegio gesuitico di Roma; era infine tornato in Valle Maggia, paese di origine della famiglia. I suoi 500 volumi comprendono scritti spirituali, raccolte di prediche, ma anche opere di teologia ed erudizione ecclesiastica, e mostrano come anche in una località discosta fosse possibile costituire un fondo librario di una certa qualità. Il fondo è tornato alla luce fortunosamente nel 2013, in occasione dei lavori di ristrutturazione della casa parrocchiale. Questa circostanza si sta presentando ultimamente con preoccupante frequenza: sempre più spesso le case parrocchiali rimangono vuote e vengono destinate a nuovi usi. In queste occasioni vengono alla luce tesori non solo librari ma anche archivistici che, se non debitamente riconosciuti e velocemente messi in sicurezza e tutelati, corrono il pericolo di venire dispersi o, peggio ancora, distrutti. In questa fase è fondamentale il lavoro di tutti coloro che, a livello parrocchiale e tra mille difficoltà sia finanziarie sia di reclutamento di nuove leve, si impegnano per la salvaguardia e la conservazione, spesso onerosa, di edifici religiosi, suppellettili, archivi e fondi librari. Senza l’impegno e l’abnega- Fogli 38/2017 In biblioteca / Marina Bernasconi Reusser, La mostra “Edizioni di Basilea del XVI secolo” D. Gregorii Nazianzeni Orationes XXX, Basilea 1531, con i nomi di Willibald Pirckheimer e di Erasmo da Rotterdam depennati. Martini Borrhai In Cosmographiae elementa Commentatio. Basilea 1555. zione di queste persone molto di più sarebbe già scomparso. A loro va quindi il nostro ringraziamento anche per la fiducia che ci hanno accordato affidandoci i loro beni per la catalogazione e prestandoci alcuni volumi per questa mostra. Per tornare agli esemplari esposti, ci teniamo a sottolineare che la scelta che abbiamo operato non è stata dettata da criteri estetici o di rarità, ma dal fatto che un esemplare di una certa particolare edizione è presente in una di queste biblioteche. Ne ricaviamo, infatti, informazioni importanti per gettare una prima luce sulle modalità di diffusione della cultura libraria in un territorio ritenuto, per i secoli passati, arretrato e culturalmente povero. Siamo ancora lontani da poter trarre conclusioni e ancora agli inizi di questa appassionante ricerca. Tutte le edizioni presentate, come dicevo, sono state stampate a Basilea, una città che nei primi decenni del Cinquecento era un importante centro culturale, nel quale l’arte tipografica che vi si esercitava ottenne rapidamente vasta fama a livello europeo. Questa era dovuta sia alla qualità e accuratezza delle caratteristiche tipografiche e delle illustrazioni, sia alla varietà delle opere che vi venivano stampate. Ciò attirò eruditi ed importanti autori, tra i quali mi limito a ricordare Erasmo da Rotterdam e Sebastian Brant, che scelsero la città e le sue tipografie per la prima pubblicazione delle loro opere. Il possesso di un’edizione stampata in quell’epoca e in quella città, getta una luce sul gusto, sulle possibilità materiali e sul livello culturale del proprietario. Vorrei infine attirare l’attenzione sulla piantina che abbiamo esposto. Si tratta di una carta geografica dei nostri territori risalente al 1578, nella quale abbiamo indicato il luogo di stampa dei volumi – Basilea – e le numerose biblioteche, sparse nel territorio, che costituivano le destinazioni originarie, che ovviamente non corrispondono sempre a quelle nelle quali sono conservate oggigiorno. 138 Cronaca sociale Relazione del Comitato sull’attività svolta nell’anno sociale 2016-2017 e programma futuro a. Attività svolta Nel 2016 hanno lavorato per l’Associazione in qualità di dipendenti Luciana Pedroia, bibliotecaria responsabile della biblioteca (80%), Jean-Claude Lechner, bibliotecario (44%), Laura Luraschi Barro, collaboratrice scientifica (50%), Katia Bianchi, segretaria (22%), Roberto Garavaglia, bibliotecario (40%), Laura Quadri, studente usi (10%, da settembre a dicembre), Margherita Negri, ausiliaria per la pulizia. Il totale delle ore lavorative è di 5’139.50. Hanno inoltre lavorato in qualità di volontari, a vario titolo ed in varia misura, i membri del Comitato ed i membri della redazione di «Fogli». 139 1. Biblioteca 1.1. Catalogo e nuove acquisizioni Al 9 gennaio 2017 la bsf contava 70’868 notizie bibliografiche con un incremento di 4’155 notizie rispetto all’anno precedente. Le nuove acquisizioni comprendono per il 2016 i nuovi acquisti librari, i libri del fondo antico ripresi retrospettivamente e i doni. Sono inoltre inclusi i libri della Madonna del Sasso, i libri del Bigorio e i libri di Sagno che figurano nel catalogo Sbt come due fondi speciali della bsf, localizzati nelle rispettive sedi (vedi qui a.2.1, a.2.2 e a.2.3). Nel dettaglio, la catalogazione dei fondi librari nel 2016 comprende: 814 notizie bibliografiche della Biblioteca Salita dei Frati, 2’016 della Madonna del Sasso, 591 del Bigorio e 734 della Biblioteca Abate Fontana di Sagno. 1.2. Servizio al pubblico La biblioteca è stata aperta al pubblico per 184 mezze giornate; abbiamo contato 1’208 lettori durante gli orari di apertura (dal mercoledì al giovedì, ore 14.00-18.00, sabato mattina ore 9.00-12.00, tranne i mesi di luglio e agosto in cui chiudiamo il sabato mattina). I prestiti a domicilio registrati dal sistema Aleph sono stati 1’057 (769 nel 2013, 948 nel 2014, 815 nel 2015), quelli di libri del magazzino in sala di lettura sono stati 490 (547 nel 2013, 489 nel 2014, 815 nel 2015), i prestiti interbibliotecari di libri nostri ad altre biblioteche 82 (116 nel 2013, 134 nel 2014, 103 nel 2015). La differenza rispetto alle statistiche Sbt del 19 gennaio 2017, che danno per la nostra biblioteca un numero superiore di prestiti Aleph, di 1’533, è dovuta al fatto che questa comprende anche i rinnovi. L’attività di consulenza al servizio degli utenti è stata come sempre impegnativa per tutti i bibliotecari, richiedendo un totale di 156 ore lavorative. Le consulenze toccano vari settori: verifiche di particolarità di libri antichi da noi posseduti, ricerca di materiali per la redazione di schede di cataloghi di esposizioni riguardanti il nostro territorio oppure l’Ordine francescano, saggi specialistici, aiuto a studenti di vari livelli scolastici. 1.3 Doni Abbiamo ricevuto doni di libri da istituzioni e da privati, in particolare da parte di: Susanne Atherley, Marina Bernasconi, Fabio Bernasconi, Maria federale, malgrado e-rara.ch sia uscito dallo stato di progetto per diventare un vero e proprio servizio istituzionale. Dal mese di dicembre 2016 tutti i libri della bsf sono pubblicati in e-rara.ch con la licenza Public Domain Mark. Il problema del salvataggio di copie di sicurezza delle immagini, al quale si accennava nel rapporto di lavoro dello scorso anno, è stato risolto grazie alla collaborazione del csi del Cantone Ticino che ci ha offerto uno spazio sul suo server per l’archiviazione di materiali multimediali. 1.6. Siti web e media sociali Il sito web dell’Associazione è curato e aggiornato da Katia Bianchi, che provvede anche a pubblicare un bollettino con le nuove accessioni mensili derivandolo dall’analogo bollettino che il personale bibliotecario compila per la pagina Sbt della bsf. Laura Luraschi Barro gestisce la pagina Facebook della biblioteca, dove pubblica notizie riguardanti le manifestazioni dell’Associazione e i lavori di catalogazione e valorizzazione dei vari fondi librari. Abbiamo attualmente 554 ‘amici’ su Facebook che seguono la pagina. È stato creato anche un account Twitter della bsf, che per ora funziona solo come rinvio verso Facebook. 1.7. Sistema bibliotecario ticinese Luciana Pedroia fa parte del gruppo di lavoro CooCat, costituito con risoluzione del Dipartimento dell’educazione, della cultura e dello sport del 12 aprile 2016. Il gruppo di lavoro coordina le regole di catalogazione per le biblioteche del Sbt con particolare attenzione ai nuovi formati e all’implementazione di rda (Resource Description and Access). 1.8. Corsi di aggiornamento e formazione del personale Laura Luraschi Barro ha frequentato il corso di soggettazione Sbt nei giorni 19, 21, 26 e 28 aprile 2016 (Sheila Paganetti). Roberto Garavaglia e Luciana Pedroia hanno frequentato il corso di aggiornamento Sbt: Sfoltire per arricchire, Criteri bibliografici e modalità operative della revisione il 11.11.2016 (Loredana Vaccani). Laura Luraschi Barro e Luciana Pedroia hanno partecipato all’incontro informativo sul tema dell’archiviazione di documenti digitali organizzato dall’Ufficio dei beni culturali il 18.05.2016 (Simonetta 140 Teresa Bise Casella, Biblioteca del Liceo di Lugano 2, Lorenza e Giovanni Bolzani, Franco Buzzi, Thea Businger, Matteo Ceppi, Giuseppe Costa, don Ottavio Cheda, Vito Cocimano, Giovanni Contarin, Maurizio Figliaggi, Fondazione del Centenario della bsi, Roberto Garavaglia, don Mario Gasparoli, Kantonsbibliothek Stans, Jean-Claude Lechner, Giampietro Mondada, Anna Maria Moschker, fra Boris Muther, fra Roberto Pasotti, Gabriele Alberto Quadri, Elena Sala, Aurelio Sargenti, fra Ottaviano Schmucki, Alessandro Soldini, Elena Vuille. 1.4. Conservazione e restauro Nel corso del 2016 abbiamo restaurato, a cura dell’Atelier di restauro di Roberta Cozzi, alcuni libri del nostro fondo librario, scegliendo fra quelli il cui stato precario di conservazione ne impediva la consultazione da parte degli utenti. Tra questi: un volume degli Annali sacri della città di Como (1683-1785), l’esemplare del Fondo Pozzi degli Esercizi spirituali di S. Ignazio (1673), una lettera di Alberto Pio di Carpi (1529) e due fascicoli editi a Lugano nell’Ottocento. 1.5. Libri antichi digitalizzati Nel corso del 2016 abbiamo reso accessibili in linea, via e-rara (www.e-rara.ch), altri 24 titoli della bsf (6 titoli nella collezione Poesia e prosa del Seicento, e 18 nella collezione Edizioni ticinesi). Tra questi si possono segnalare gli opuscoli riguardanti la censura di stampa in Ticino a inizio Ottocento, un anonimo opuscolo intitolato Apologia: dx.doi. org/10.3931/e-rara-51128, al quale rispose Franscini con Due lettere sulla memoria di un parroco ticinese: dx.doi. org/10.3931/e-rara-51121, e con Sulla memoria: dx.doi. org/10.3931/e-rara-51130. Altri 19 titoli sono stati consegnati a Zurigo il 12 dicembre 2016 e saranno in linea nella prima metà del 2017. A fine dicembre 2016 i nostri titoli inseriti in e-rara sono 280. Per il 2016 ci sono stati comunicati i seguenti dati di consultazione che riguardano la bsf: 5’906 visite e 25’598 visualizzazioni di pagine. Contrariamente a quanto comunicato lo scorso anno, non è stato necessario un nuovo contratto tra l’Associazione e il Politecnico 141 2. Centro di competenza per il libro antico Dopo che la bsf ha assunto nel 2015 il ruolo di Centro di competenza per il libro antico, con la modifica dello statuto dell’Associazione Biblioteca Salita dei Frati, si sta operando per riorientare in quest’ottica l’attività della bsf. Compiti fondamentali del ccla sono la catalogazione e la valorizzazione di fondi librari antichi. 2.1. Biblioteca della Madonna del Sasso, Orselina Dal 2013 è stato affidato al ccla dall’Associazione pro restauro Sacro Monte Madonna del Sasso di Orselina il progetto di catalogazione e valorizzazione del fondo librario antico. A fine dicembre 2016 i titoli della Madonna del Sasso catalogati all’interno del catalogo Sbt sono 5’658 per un totale di 7’144 volumi. Per la maggior parte si tratta di libri ascrivibili per argomento al settore religioso (2’913 titoli), seguono la lingua e letteratura italiana (712 titoli), la letteratura latina (231 titoli), la filosofia (208 titoli), la letteratura francese (177 titoli), tedesca (117 titoli), la storia (117 titoli), le scienze (89 titoli). Oltre a 36 incunaboli, si contano attualmente 256 edizioni del xvi secolo (compresi alcuni rari postincunaboli), 439 edizioni seicentine, 714 edizioni del Settecento e 1’428 edizioni dell’Ottocento. Sono emersi dal fondo librario, grazie al lavoro di catalogazione, anche due sconosciute edizioni Agnelli. È stato ultimato il restauro del volume di Plinio, studiato e presentato da Laura Luraschi Barro in «Fogli», 36 (2015), pp. 42-48, a cura della restauratrice Meret Bächler. Il restauro è stato finanziato generosamente da Maria Teresa Bise Casella. Abbiamo effettuato due trasporti di libri in data 8 marzo e 4 ottobre, sempre con la preziosa collaborazione della Protezione civile di Lugano Città. 2.2. Biblioteca del convento di Santa Maria del Bigorio Siamo al secondo anno del progetto affidatoci dalla Associazione Amici del Bigorio. A fine dicembre 2016 nel catalogo del Sistema bibliotecario ticinese sono presenti 1’260 notizie bibliografiche della biblioteca del Bigorio, corrispondenti a 1’900 volumi. In larga maggioranza nel fondo librario conventuale troviamo i titoli di argomento religioso, con 1’065 titoli. In misura molto minore sono presenti libri di letteratura e lingua italiana (39 Fogli 38/2017 Cronaca sociale / Relazione del Comitato Biaggio Simona, Giulio Foletti, Peter Fornaro). Laura Luraschi Barro e Luciana Pedroia hanno partecipato al convegno Digitalizza la cultura, la gestione sostenibile e aperta dei patrimoni digitali per il Cantone Ticino, organizzato dal Sistema per la valorizzazione del patrimonio culturale (svpc) del decs il 18 novembre 2016. A questo convegno ha partecipato anche il presidente della Associazione Biblioteca Salita dei Frati, Fernando Lepori. Il convegno era stato preparato da un Workshop, svoltosi il 27 ottobre 2016, al quale Marina Bernasconi Reusser e Luciana Pedroia sono state invitate a presentare l’attività della nostra biblioteca nel campo della digitalizzazione. Il 13 ottobre 2016 ha avuto luogo nella sede della bsf il corso della Protezione civile per i Capi Protezione beni culturali. Laura Luraschi Barro e Luciana Pedroia vi hanno partecipato attivamente e, nel segno di future collaborazioni, hanno potuto conoscere militi di tutte le regioni del Cantone e il signor Rino Büchel, capo dell’Ufficio Protezione dei beni culturali presso l’Ufficio federale della protezione della popolazione, che ha raccomandato a tutti la segnalazione al ccla del ritrovamento di libri antichi nel corso di operazioni e interventi della Protezione civile. 1.9. Istituto di studi italiani Quest’anno il prof. Dupuigrenet ha tenuto una giornata di corso presso la bsf, il 25 novembre, tramite un seminario di Paolo Sachet sul tema della Riforma e Controriforma e delle implicazioni per la produzione a stampa dell’epoca 1.10. Varia Nel corso del 2016 si sono potuti eseguire alcuni lavori di manutenzione: in particolare la Protezione civile di Lugano Città ha sistemato, in data 17-21 ottobre 2016, la scala di accesso in legno che porta agli uffici al primo piano attraverso il vigneto, che si trovava in una situazione precaria e pericolosa. Sono state posate nuove tende nella saletta conferenze e negli uffici, e nel mese di dicembre la saletta conferenze è stata ritinteggiata. che va salvaguardato e valorizzato, ma per il quale resta difficile trovare una sede idonea). Lo storico Flavio Zappa, in collaborazione con noi, ha cercato di riunire i vari enti di Valle che potrebbero essere interessati a una soluzione comune. Invece abbiamo potuto intervenire sui fondi librari della Valle di Blenio: a Prugiasco abbiamo evacuato e messo in sicurezza, trasportandoli in luogo idoneo, i libri della biblioteca parrocchiale, che sono stati puliti, fotografati e inventariati (63 titoli). Alcuni passi in vista di una possibile soluzione coordinata con altre istituzioni proprietarie di libri nella Valle sono stati fatti grazie alla mediazione di un membro del Comitato scientifico del ccla. 2.5. Mostra di edizioni di Basilea Dal 12 maggio al 12 agosto, per presentare e mettere in risalto l’attività del Centro di competenza per il libro antico, è stata allestita nel porticato una mostra dal titolo: Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi. Sono stati esposti 20 libri, oggi conservati in varie sedi, mentre erano conservati nelle biblioteche della nostra regione nei secoli precedenti gli incameramenti ecclesiastici dell’Ottocento. Della mostra è stato pubblicato un catalogo, a cura del ccla, quale numero unico della rivista «Arte e storia», anno 16, n. 68, marzo-aprile 2016. La mostra, inaugurata il 12 maggio, con relazioni di due membri del Comitato scientifico del ccla, François Dupuigrenet Desroussilles e Marina Bernasconi Reusser, ha avuto un buon riscontro di pubblico, e il catalogo a stampa è stato favorevolmente segnalato in riviste specializzate. 3. Attività culturale 3.1. Conferenze Nel corso dell’anno sociale 2016-2017 il Comitato ha promosso e organizzato in biblioteca le seguenti conferenze: 1. il 10 maggio, nell’ambito di un ciclo sul Modernismo, conferenza di Annibale Zambarbieri sul tema La crisi modernista: riformismo, fratture, continuità; 2. il 24 maggio, nell’ambito dello stesso ciclo, conferenza di Ezio Bolis sul tema Il Modernismo: un nuovo modo di leggere la Bibbia e la storia del cristianesimo; 3. il 2 giugno, nell’ambito dello stesso 142 titoli), latina (32 titoli), di filosofia (19 titoli), di argomento medico o scientifico (16 titoli), storico (12 titoli). La catalogazione secondo criteri scientifici permette di ricuperare al patrimonio della biblioteca del Bigorio libri preziosi rimasti finora ignoti e valorizza quindi la biblioteca stessa. Oltre ad alcune rarità già segnalate in precedenza, nel corso del 2016 sono emersi dal fondo del Bigorio ben quattro incunaboli che non erano finora mai stati identificati come tali perché privi della data di stampa, ricostruita tramite la descrizione nei repertori. Le cinquecentine finora catalogate sono 202, le seicentine 345, le edizioni del Settecento 545, dell’Ottocento 58. Abbiamo effettuato due trasporti di libri, il 24 maggio e il 22 settembre 2016 con la collaborazione di Gemma Fumasoli e del personale del convento del Bigorio. 2.3. Biblioteca Abate Fontana, Sagno La catalogazione del fondo librario della Biblioteca Abate Fontana di Sagno è entrata nel vivo. La Parrocchia di Sagno si è dimostrata favorevole al progetto e disposta a sostenerlo con un contributo finanziario. Sono state inserite nel catalogo in linea del Sistema bibliotecario ticinese le notizie bibliografiche riguardanti 734 opere a stampa, in 1’159 volumi, compresi 466 fascicoli raccolti in 26 miscellanee. Il testo più antico è datato 1534, il più recente 1896. Finora la collezione libraria rispecchia fedelmente la formazione e gli interessi del suo possessore. Al primo posto per numero di opere troviamo infatti religione e storia della Chiesa (con 394 titoli), a cui seguono lingua e letteratura italiana (93 titoli), pedagogia (44 titoli) e lingue e letterature classiche (30 titoli). Nel corso dell’anno abbiamo eseguito due trasporti di libri da Sagno a Lugano e viceversa, con la collaborazione della Protezione civile di Lugano Città, il 26 gennaio e il 20 ottobre 2016. 2.4. Fondi librari della Valle di Blenio e della Valle Maggia Ci siamo impegnati a portare avanti anche i due progetti riguardanti la Valle di Blenio e la Valle Maggia. Per ora i risultati si fanno attendere per quanto riguarda la Valle Maggia (e soprattutto l’importante fondo librario di Cavergno, musica scritta il 25 marzo. Il ccla ha promosso ed organizzato, dal 12 maggio al 12 agosto, l’esposizione Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi. Da parte sua l’Associazione degli Amici dell’Atelier Calcografico, nostro ente ospite, ha curato le seguenti esposizioni: 1. dal 2 aprile al 7 maggio, Incisioni di Ubaldo Rodari; 2. dal 3 settembre all’8 ottobre, Incisioni di Catherine Gillet; 3. dal 3 al 22 dicembre 2016 e dal 9 al 21 gennaio 2017, Incisioni di Samuele Gabai; 3.3. Pubblicazioni Il numero 37 di «Fogli», stampato in 1’200 esemplari e consultabile in linea all’indirizzo www.bibliotecafratilugano.ch, è uscito a metà maggio 2016. Il ccla ha pubblicato il catalogo dell’esposizione delle edizioni di Basilea: Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi, a cura di Marina Bernasconi Reusser, Jean-Claude Lechner, Laura Luraschi Barro e Luciana Pedroia, Lugano, Edizioni Ticino Management, 2016. Sono di imminente pubblicazione gli atti del convegno su Francesco Soave (1743-1806), somasco luganese, nel bicentenario della morte: pedagogista, filosofo, letterato, nella collana «Ricerche» della casa editrice Vita e Pensiero. 143 4. Amministrazione e finanze Delle svariate attività amministrative e della contabilità si è occupata la segretaria Katia Bianchi. Il Comitato è molto grato a tutti i privati e agli enti che, con i loro contributi, ci hanno consentito di offrire il servizio culturale pubblico che ci proponiamo. Ricordiamo che, secondo l’art. 2 dello Statuto, i compiti dell’Associazione sono i seguenti: a) mettere a disposizione del pubblico la biblioteca che la Provincia svizzera dei Cappuccini ha concesso all’Associazione con particolare convenzione; b) conservare ed arricchire il patrimonio librario della biblioteca; c) promuovere la valorizzazione della biblioteca favorendo la ricerca sui suoi fondi; d) promuovere ed organizzare attività culturali (conferenze, convegni, seminari, esposizioni), anche in rapporto al patrimonio librario della biblioteca; d) promuovere e sostenere il Centro di Fogli 38/2017 Cronaca sociale / Relazione del Comitato ciclo, conferenza di Elisabetta Selmi sul tema Il Modernismo nel romanzo Il Santo di Antonio Fogazzaro; 4. il 21 settembre conferenza di Mauro Jöhri sul tema i Cappuccini fra storia e nuove sfide; 5. il 27 settembre, nell’ambito delle tematiche proprie del Centro di competenza per il libro antico, presentazione dell’opera di Jacques Dalarun La Vita ritrovata del beatissimo Francesco. La leggenda sconosciuta di Tommaso da Celano (Milano, Edizioni Biblioteca Francescana, 2015), con relazioni dello stesso Dalarun e di Luigi Pellegrini; 6. il 18 ottobre, presentazione dell’opera di Giorgio Cheda Cielo e terra (Locarno, Edizioni Oltremare, 2016), con relazioni dell’autore e di Fernando Lepori; 7. il 17 novembre, nell’ambito del ciclo su Bibbia e letteratura, conferenza di Adalberto Mainardi su La parola risuscitata. Il processo a Jeshua Ha-Nozri nel Maestro e Margherita di Michail Bulgakov; 8. il 23 novembre, nell’ambito dello stesso ciclo, conferenza di Piero Stefani su «Vi comando queste parole»: dallo imperativo biblico alla testimonianza di Primo Levi; 9. il 29 novembre, nell’ambito dello stesso ciclo, conferenza di Elisabetta Selmi su Le Lamentazioni di Geremia profeta. Da modello per “l’elegia sacra” ad archetipo romantico di “una poesia veramente sublime”. 3.2. Esposizioni Nel corso dell’anno sociale 2016-2017 il Comitato ha promosso ed organizzato nel portico d’ingresso queste esposizioni: 1. dal 30 gennaio al 12 marzo, ScripsitSculpsit / Sculpsit – Scripsit: le Edizioni “Il Ragazzo Innocuo” di Luciano Ragozzino; 2. dal 15 ottobre al 19 novembre, Tra queste mani, dentro la carta: le Edizioni dell’Ombra, di Gaetano Bevilacqua; 3. dal 25 febbraio all’8 aprile, Tempo unico di Antonio Teruzzi; in rapporto a questa esposizione si sono tenuti due incontri: con il fotografo Carlo Pozzoni sul tema Tempi moderni il 15 marzo, con il musicologo Raffaele Deluca sul tema Legature d’attesa: il tempo della competenza per il libro antico, che si occupi della conservazione, dello studio e della valorizzazione dei fondi librari antichi, in particolare di quelli presenti nella Svizzera italiana. Ringraziamo in particolare i soci, la Provincia svizzera dei Cappuccini, il Cantone Ticino, la Città di Lugano, le Fondazioni Fidinam, Torti-Bernasconi, Winterhalter, Pietro Molinari, De Micheli, Pica-Alfieri, Araldi Guinetti e l’a.i.l. (Aziende Industriali di Lugano sa). 144 5. Rapporti con i Cappuccini Con il 1° gennaio 2016 è entrata in vigore la nuova convenzione con la Provincia svizzera dei Cappuccini, la cui modifica più importante è la diminuzione del sussidio annuo versato all’Associazione, che non è più di 60’000 fr. ma di 15’000 fr. (art. iii). L’incontro annuale del Comitato con il Gruppo di consulenza dei Cappuccini della Svizzera italiana, previsto dalla nuova convenzione con lo scopo di «discutere ed approvare il rapporto del Comitato stesso sull’attività svolta» (art. vi), ha avuto luogo il 18 aprile 2016. La bibliotecaria responsabile di sede, Luciana Pedroia, ha svolto un importante intervento per illustrare, oltre a ciò che è stato fatto nel 2015, le principali innovazioni degli ultimi quindici anni: l’adesione al Sistema bibliotecario ticinese (2001), la partecipazione al progetto e-rara (2010), la costituzione del Centro di competenza per il libro antico (2015). Con questo si può dire che la biblioteca dei Cappuccini di Lugano ha messo in atto, sotto il profilo biblioteconomico, culturale e politico, una sostanziale trasformazione rispetto al periodo iniziale del suo trasferimento nel nuovo edificio e della sua apertura al pubblico. Il presidente Fernando Lepori ha illustrato l’attività culturale svolta, in particolare con le conferenze sulla posizione dei cattolici italiani nella prima guerra mondiale, su Francesco d’Assisi e le crociate e con il ciclo di lezioni sul tema ‘Bibbia e letteratura’. Giancarlo Reggi ha riferito sul contenuto del numero di «Fogli» del 2016. 6. Organi dell’Associazione 6.1. Assemblea L’Assemblea annuale ordinaria del 2016 si è tenuta il 16 giugno per l’esame e l’approvazione della relazione del Comitato sull’attività dell’anno sociale 20152016, del programma futuro, dei conti consuntivi 2015 e preventivi 2016. È stato fatto, come di consueto, un bilancio sul lavoro svolto per la gestione della biblioteca e per la promozione e l’organizzazione delle attività culturali pubbliche: Luciana Pedroia, bibliotecaria responsabile di sede, ha fornito le informazioni più importanti relative alla biblioteca; Fernando Lepori, presidente, ha illustrato l’attività culturale; Alessandro Soldini ha riferito sulle esposizioni e Giancarlo Reggi su «Fogli». La relazione del Comitato, come i conti consuntivi 2015 e preventivi 2016 sono stati approvati all’unanimità. I membri dell’Associazione sono attualmente 284, di cui 278 persone fisiche e 6 persone giuridiche. Tutti vengono costantemente tenuti informati sulle attività e le iniziative dell’Associazione, oltre che nell’Assemblea annuale, con l’invito alle manifestazioni culturali e attraverso frequenti circolari. 6.2. Comitato I membri del Comitato dell’anno sociale 2016-2017 sono Matteo Ceppi, Mila Contestabile, Fernando Lepori (presidente), Laura Luraschi Barro, Giancarlo Reggi, Alessandro Soldini e Tiziana Zaninelli, eletti dall’Assemblea del 12 maggio 2015 per il biennio 2015-2017; Luciana Pedroia, bibliotecaria responsabile di sede e membro di diritto; Boris Muther e Ugo Orelli, delegati del Gruppo di consulenza dei Cappuccini della Svizzera italiana. Nel corso dell’anno sociale 2016-2017 il Comitato s’è riunito tre volte (24 novembre, 31 gennaio, 4 maggio). 6.3. Redazione di «Fogli» e responsabile delle esposizioni Il Comitato del 18 giugno ha designato membri del Gruppo di lavoro per la redazione di «Fogli» Mila Contestabile, Fernando Lepori, Giancarlo Reggi (caporedattore) e Fabio Soldini; ad essi è stato affiancato Claudio Giambonini, designato nella seduta di comitato del 24 b. Programma futuro 2. Attività culturale 2.1. Conferenze Il programma dell’attività culturale dell’anno sociale 2017-2018 s’inizierà con tre incontri (organizzati con l’Associazione Biblica della Svizzera italiana e con l’Associazione italiana di Cultura classica, Delegazione della Svizzera italiana) sul tema Alle radici della cultura euro-mediterranea per la vita di tutti: la sapienza, secondo questo programma: 2 maggio, Ernesto Borghi, Le sapienze antiche ebraica e cristiana; 9 maggio, Giancarlo Reggi, Sapienza e sapienti nel mondo 145 1. Biblioteca e Centro di competenza per il libro antico Per il prossimo anno prevediamo in via generale di continuare nel nostro lavoro di valorizzazione, accrescimento, conservazione e messa a disposizione del patrimonio librario della biblioteca. Lo sviluppo delle collezioni seguirà i criteri definiti da tempo, privilegiando gli studi sul libro antico, la religiosità e il francescanesimo. Nel 2017 dovrà essere ulteriormente precisata la strategia della biblioteca operante come Centro di competenza per il libro antico. Continuerà il programma a termine dal titolo “Valorizzazione digitale di fondi librari antichi della Svizzera italiana”, sostenuto dalla Divisione Cultura. Si porteranno avanti i progetti di catalogazione e valorizzazione delle biblioteche della Madonna del Sasso, del Bigorio e della biblioteca Abate Fontana di Sagno. greco classico, ellenistico e romano; 16 maggio, Renzo Petraglio e Massimo Lolli, Le sapienze antiche greca, latina, ebraica e cristiana ‘servono’ all’umanità di oggi? Seguiranno, in periodo da definire, una conferenza sulla teologia di Lutero e una sulla censura ecclesiastica applicata all’opera di Erasmo da Rotterdam, ricorrendo quest’anno il cinquecentesimo anniversario della nascita della Riforma protestante. In autunno, infine, prevediamo un ‘corso’ di quattro lezioni su “Bibbia e letteratura”, secondo l’impostazione dei nostri incontri biblici di questi ultimi anni. 2.2. Esposizioni Il programma dell’attività espositiva del 2017 prevede, dal 22 aprile al 27 maggio, Edizioni di Giovanni Turria; dal 14 ottobre al 25 novembre, I libri d’artista di Giulia Napoleone. Dal canto suo l’aaac organizzerà una prima mostra in giugno-luglio, sulle incisioni di Lea Gyarmati e una seconda in novembre-dicembre, su tema da definire. Fogli 38/2017 Cronaca sociale / Relazione del Comitato novembre. Responsabile delle esposizioni nel porticato è stato confermato Alessandro Soldini. 6.4. Gruppo di lavoro per gli acquisti librari Il Gruppo di lavoro per gli acquisti librari è così costituito: Matteo Ceppi, Fernando Lepori, Laura Luraschi Barro, Luciana Pedroia e Ugo Orelli. 6.5. Enti ospiti È sempre nostro ente ospite, secondo l’art. 4 cpv. 1 b dello Statuto, l’Associazione degli Amici dell’Atelier Calcografico (aaac), sulla cui attività espositiva si veda il punto a.7.2. Cronaca sociale Conti consuntivi 2016 e preventivi 2017 14’078.— 160’000.— 43’189.80 35’000.— 110’000.— 20’000.— 15’000.— 550.— 184.20 270.66 356.39 44’820.— 111’833.— Fr. 555’282.05 146 Conto d’esercizio 2016 Entrate 1.1 Tasse dei soci 1.2 Contributi di Enti diversi a) Città di Lugano 18’000.— b) Fondazione Fidinam 20’000.— c) Fondazione Torti-Bernasconi 50’000.— d) AIL 13’000.— e) Fondazione Pietro Molinari 4’000.— f) Fondazione Winterhalter 10’000.— g) Fondazione Araldi Guinetti 15’000.— h) Fondazione De Micheli 20’000.— i) Fondazione Pica-Alfieri 10’000.— 1.3 Associazione Pro Restauro Madonna del Sasso 1.4 Associazione Amici del Bigorio 1.5 Sussidio del Canton Ticino 1.6 Sussidio della Divisione della cultura 1.7 Contributo dei Cappuccini 1.8 Affitto della sala 1.9 Fotocopie 1.10 Vendita di pubblicazioni 1.11 Diversi 1.12 Lavoro dei volontari 1.13 Comodato concesso dai Cappuccini per l’uso della biblioteca Maggior entrata Fr. 3’088.72 Bilancio al 31 dicembre 2016 Attivo Cassa Conto corrente postale L.C.R. ./. Riserva Debitore (Cantone) Totale Saldo al 31 dicembre 2015 Fatture scoperte al 31 dicembre 2016 Maggior entrata 2016 Saldo al 31 dicembre 2016 349.55 31’035.97 23’886.33 -23’886.33 5’000.— Fr. 36’385.52 53’291.83 -19’995.03 3’088.72 Fr. 36’385.52 147 Passivo 279’316.25 7’695.25 36.20 1’144.40 15’562.35 13’492.15 3’770.40 12’405.30 8’521.24 23’284.89 11’743.55 8’098.15 2’114.02 5’758.58 2’597.60 44’820.— 111’833.— Fr. 552’193.33 Fogli 38/2017 Cronaca sociale / Conti consuntivi 2015 e preventivi 2016 Conto d’esercizio 2016 Uscite 2.1 Stipendi, AVS, assicurazione del personale 2.2 Spese postali e telefoniche 2.3 Prodotti di pulizia 2.4 Acquisto di apparecchiature / mobilio 2.5 Manutenzione degli impianti 2.6 Riscaldamento ed elettricità 2.7 Spese di cancelleria 2.8 Stampa di pubblicazioni 2.9 Abbonamenti a riviste 2.10 Acquisto di libri 2.11 Conservazione, restauro, rilegatura di libri 2.12 Manifestazioni culturali 2.13 Quote sociali e spese diverse 2.14 Digitalizzazione di libri rari 2.15 Spese di trasferta / rappresentanza 2.16 Lavoro dei volontari 2.17 Comodato concesso dai Cappuccini per l’uso della biblioteca Preventivo 2017 Uscite 2.1 2.2 2.3 2.4 2.5 2.6 2.7 2.8 2.9 2.10 2.11 2.12 2.13 2.14 2.15 2.16 2.17 Entrate 285’000.— 10’000.— 1’000.— 2’000.— 20’000.— 22’000.— 5’000.— 10’000.— 7’000.— 22’000.— 10’000.— 10’000.— 3’000.— 8’000.— 3’500.— 44’820.— 111’833.— Fr. 575’153.— 1.1 Tasse dei soci 1.2 Contributi di Enti diversi a) Città di Lugano 17’000.— b) Fondazione Fidinam 20’000.— c) Fondazione Torti-Bernasconi 50’000.— d) AIL 13’000.— e) Fondazione Winterhalter 10’000.— f) Fondazione De Micheli 20’000.— g) Fondazione Pica-Alfieri 10’000.— h) Fondazione Araldi Guinetti 10’000.— 1.3 Associazione Pro Restauro Madonna del Sasso 1.4 Associazione Amici del Bigorio 1.5 Consiglio Parrocchiale di Sagno 1.6 Sussidio del Canton Ticino 1.7 Sussidio della Divisione della cultura 1.8 Contributo dei Cappuccini 1.9 Affitto della sala 1.10 Fotocopie 1.11 Vendita di pubblicazioni 1.12 Lavoro dei volontari 1.13 Comodato concesso dai Cappuccini per l’uso della biblioteca 13’000.— Maggior uscita 150’000.— 50’000.— 35’000.— 3’000.— 100’000.— 30’000.— 15’000.— —.— 200.— 1’500.— 44’820.— 111’833.— Fr. 554’353.— Fr. -20’800.— 148 Stipendi, AVS, assicurazione del personale Spese postali e telefoniche Prodotti di pulizia Acquisto di apparecchiature / mobilio Manutenzione degli impianti / Assicurazioni e sicurezza Riscaldamento ed elettricità Spese di cancelleria Stampa di pubblicazioni Abbonamenti a riviste Acquisto di libri Conservazione, restauro, rilegatura di libri Manifestazioni culturali Quote sociali e spese diverse Digitalizzazione di libri rari Spese di trasferta/rappresentanza Lavoro dei volontari Comodato concesso dai Cappuccini per l’uso della biblioteca Nuove accessioni Pubblicazioni entrate in biblioteca nel 2016 La lista delle nuove accessioni, a cura di Claudio Giambonini, comprende tutti i libri entrati in biblioteca nel 2016, per acquisto o per dono. Essa è basata sulle schede allestite dai bibliotecari e sulla verifica del registro d’ingresso. Dei 559 titoli (per complessivi 606 volumi) qui di seguito elencati, il 72% (402) all’interno del Sistema bibliotecario ticinese risultano essere posseduti unicamente dalla Biblioteca Salita dei Frati. 149 1. Bibliografia e storia del libro 2. Teologia e biblica 3. Patristica antica e medioevale 4. Storia della Chiesa 5. San Francesco e francescanesimo 6. Agiografia e spiritualità 7. Filosofia 8. Storia delle religioni 9. Letteratura: testi 10. Letteratura: studi. Lingua 11. Storia 12. Storia svizzera e locale 13. Arti figurative e storia dell’arte 14. Varia 15. Doni della Facoltà di Teologia di Lugano 1. Bibliografia e storia del libro Abracadabra. Medizin im Mittelalter. Sommerausstellung [Stiftsbibliothek St. Gallen] 8. März bis 6. November 2016, a c. di Cornel Dora et al., St. Gallen, Verlag am Klosterhof, 2016. adam Renaud, Jean de Westphalie et Thierry Martens. La découverte de la Logica vetus (1474) et les débuts de l’imprimerie dans les Pays-Bas méridionaux (avec un fac-similé), Turnhout, Brepols, 2009. Aldine marciane, a c. di Tiziana Plebani, Venezia, Biblioteca Nazionale Marciana, 2015 (contiene anche: Aldine marciane. Le edizioni di Aldo Manuzio in Biblioteca Nazionale Marciana. Catalogo, a c. di Saida Bullo e Donatella Benazzi). Aldo Manuzio dal folio al tascabile. La vita e l’opera del primo editore moderno. Gli Ex Libris narrano ed illustrano, a c. di Gian Carlo Torre, Latina, Il Levante, 2015. Aldo Manuzio. Il Rinascimento di Venezia, a c. di Guido Beltramini, Davide Gasparotto e Giulio Manieri Elia, Venezia, Marsilio, 2016. Antiquorum habet. I Giubilei nella storia di Roma attraverso le raccolte librarie e documentarie del Senato. Mostre del Senato, Roma, Palazzo Giustiniani, 13 marzo - 1 maggio 2016, a c. di Raissa Teodori e Alessandra Casamassima, Soveria Mannelli, Rubbettino, 2016. 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In vendita a fr. 100.– Guida alle biblioteche della Svizzera italiana Il risultato del censimento delle biblioteche e centri di documentazione aperti al pubblico nella Svizzera italiana. Curata e pubblicata dall’Associazione Biblioteca Salita dei Frati, Lugano 1984-1987. Schede di identità di 80 istituti. Con un’introduzione sulla situazione delle biblioteche nella Svizzera italiana. Esaurito. Catalogo degli incunaboli dellaBiblioteca Salita dei Frati di Luciana Pedroia. Descrizione dei 26 incunaboli dell’antica biblioteca dei Cappuccini di Lugano. Pubblicato su «Fogli», 11 (1991), pp. 3-20. In vendita a fr. 7.– Catalogo dei periodici correnti della Biblioteca Salita dei Frati di Luciana Pedroia. Censimento dei 148 periodici che entrano regolarmente in biblioteca. Pubblicato su «Fogli», 15 (1994), pp. 15-25. In vendita a fr. 7.– Ad uso di… applicato alla libraria de’ Cappuccini di Lugano di Giovanni Pozzi e Luciana Pedroia. Analisi delle firme di Cappuccini del sec. xviii apposte ai libri del fondo antico della biblioteca. Catalogo di 1’086 opere con rinvio a repertori, bibliografie e biblioteche che possiedono esemplari della stessa edizione, corredato dell’elenco dei Cappuccini firmatari. Indici tematico, dei luoghi di stampa, degli editori, tipografi e librai, dei nomi di persona. Roma, Istituto Storico dei Cappuccini, 1996 (Subsidia scientifica franciscalia, 9), 388 p. In vendita a fr. 45.– Gli opuscoli in prosa della Biblioteca Salita dei Frati di Lugano 1538-1850. Inventario e studio critico di Stefano Barelli. Repertorio e studio del “materiale minore’’ della biblioteca. Bellinzona, Casagrande, 1998 (Strumenti storicobibliografici, 5), 236 p. In vendita a fr. 68.– Atti di convegni Francesco d’Assisi e il francescanesimo delle origini Atti del Convegno di studi del 18-20 marzo 1983. Contributi di Ignazio Baldelli, Aldo Menichetti, Ovidio Capitani, Mariano d’Alatri, Servus Gieben, Franco Alessio. Pubblicati su «Ricerche Storiche», 13 (1983), pp. 559-695, tavole. Esaurito. La “Nuova Storia della Svizzera e degli Svizzeri”: storia nazionale e metodologia storica Atti del Convegno di studi del 14-15 ottobre 1983. Contributi di Ulrich Im Hof, Ruggiero Romano, Guy Marchal, François De Capitani, Hans Ulrich Jost, Raffaello Ceschi, Paul Huber, Markus Mattmüller. Pubblicati su «Archivio storico ticinese», 100 (1984), pp. 245-308. In vendita a fr. 18.– Il mestiere dello storico dell’Antichità Atti del Convegno di studi del 29-30 settembre 1988. Contributi di Mario Vegetti, Giuseppe Cambiano, Luciano Canfora. Pubblicati su «Quaderni di storia», 15 (1989), n. 30, pp. 37-66. In vendita a fr. 18.– Il mestiere dello storico del Medioevo Atti del Convegno di studi del 17-19 maggio 1990, a cura di Fernando Lepori e Francesco Santi. Contributi di Claudio Leonardi, Giuseppe Sergi, Daniela Romagnoli, Jean-Claude Schmitt, Cesare Segre, Adriano Peroni, Claudio Leonardi. Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto Medioevo, 1994 (Quaderni di cultura mediolatina. Collana della Fondazione Ezio Franceschini, 7), 124 p. In vendita a fr. 38.– Il mestiere dello storico dell’Età moderna. La vita economica nei secoli XVI-XVIII Atti del Convegno di studi del 14-16 aprile 1994. Contributi di Philippe Braunstein, Christian Simon, Andrea Menzione, Jon Mathieu, Pierre Jeannin, Massimo Livi Bacci, Anne-Marie Piuz, Alfred Perrenoud, Jean-François Bergier, Raffaello Ceschi, Raul Merzario. Bellinzona, Casagrande, 1997 (Biblioteca dell’Archivio Storico Ticinese, 1), 213 p. In vendita a fr. 32.– Metodi e temi della ricerca filologica e letteraria di Giovanni Pozzi Atti del Seminario di studi del 10-11 ottobre 2003, a cura di Fernando Lepori. Contributi di Ottavio Besomi, Franco Gavazzeni, Mirella Ferrari, Ezio Raimondi, Claudio Leonardi, Giovanni Romano. Appendice: Bibliografia degli scritti di Giovanni Pozzi (1950-2014), a cura di Luciana Pedroia. Firenze, Ed. del Galluzzo, 2014 (Carte e carteggi, 19). In vendita a fr. 30.– Roberto Sanesi (1930-001) Atti dell’incontro del 24 aprile 2004, a cura di Raffaella Castagnola e Alessandro Soldini. Contributi di Gillo Dorfles, Gilberto Isella, Tomaso Kemeny, Vincenzo Guarracino. Lugano, Giampiero Casagrande, 2004 (Oltre le frontiere, 2), 86 p. In vendita a fr. 14.– Francesco Soave (1743-1806), somasco luganese, nel bicentenario della morte: pedagogista, filosofo, letterato Atti del Convegno di studi del 25 novembre 2006, a cura di Ottavio Besomi e Fernando Lepori. Contributi di Giovanni Bonacina, Stefano Barelli, Francesca Tancini, William Spaggiari, Filippo Sani. Milano, Vita e Pensiero (Ricerche). In corso di stampa. Cataloghi di esposizioni Edizioni di Basilea del XVI secolo a sud delle Alpi. Catalogo dell’esposizione, a cura del Centro di competenza per il libro antico, ideazione e realizzazione di Marina Bernasconi Reusser, Jean-Claude Lechner, Laura Luraschi Barro, Luciana Pedroia, (Lugano, Biblioteca Salita dei Frati, 12 maggio – 12 agosto 2016). Pubblicato su «Arte e storia», 68 (2016), 122 p. Conferenze Il pensiero filosofico di Tommaso d’Aquino Testi del ciclo di conferenze tenute nella primavera del 1999. Contributi di Alessandro Ghisalberti, Ruedi Imbach, Alain De Libera. Pubblicati su «Studi medievali», 43 (2002), n. 2, pp. 803-856. Esaurito. Varia Quando sono in biblioteca (Una lezione del 1991) di Giovanni Pozzi. Nota al testo di Fabio Soldini. Estratto da «Fogli» 33, (2012), 32 p. In vendita a fr. 7.– La biblioteca della Madonna del Sasso di LocarnoOrselina. Note su un progetto in corso di Marina Bernasconi Reusser, Laura Luraschi Barro, Luciana Pedroia. Estratto da «Fogli» 35, (2014), 20 p. In vendita a fr. 7.– Giovanni Pozzi e Giorgio Orelli lettori reciproci. Testimonianze epistolari di Fabio Soldini. Estratto da «Fogli» 35, (2014), 20 p. In vendita a fr. 7.– L’Associazione «Biblioteca Salita dei Frati» Costituita nel 1976, si occupa della Biblioteca Salita dei Frati, aperta al pubblico dall’ottobre 1980 in un edificio di Mario Botta. Dei 120’000 volumi e 400 periodici, la maggior parte proviene dal Convento dei Cappuccini di Lugano, la cui biblioteca si è andata costituendo nel XVI secolo e ingrossando dal XVIII. Sono particolarmente rilevanti le edizioni ticinesi (ne è stato pubblicato il catalogo), la storia e segnatamente quella locale, l’ascetica e la predicazione (molti i testi utili allo studio della religiosità popolare), la letteratura e la retorica.Negli ultimi anni si sono aggiunti altri fondi, donati o acquistati, e in particolare il cospicuo fondo di p. Giovanni Pozzi (10’000 libri e 4’400 estratti), che comprende oltre a un buon lotto di autori secenteschi alcuni rari, opere di metodologia letteraria, semiotica, iconologia, teoria del linguaggio mistico. Alla biblioteca è pure annesso un consistente fondo di immaginette devozionali. L’Associazione cura l’arricchimento della biblioteca acquisendo soprattutto strumenti per lo studio del fondo antico (secoli XVI-XVIII), opere relative alla storia della religiosità e a san Francesco e al francescanesimo. Accanto alla conservazione e agli acquisti delle pubblicazioni, l’Associazione organizza in biblioteca un’attività culturale (conferenze, convegni, seminari) su tematiche di cultura bibliografica, religiosa, francescana, storicofilosofica e letteraria (in determinate circostanze viene curata la pubblicazione degli atti) e un’attività espositiva rivolta soprattutto al libro d’artista. Inoltre l’Associazione pubblica dal 1981, di regola una volta all’anno, il periodico «Fogli», dove tra l’altro, nella rubrica Rara et curiosa, si descrivono opere di particolare pregio e interesse bibliografico conservate nei vari fondi della biblioteca. Dell’Associazione può far parte chi approvi lo statuto e versi la tassa sociale annua (almeno 40 franchi i soci individuali; 10 franchi studenti, apprendisti, pensionati; 100 franchi le istituzioni). Chi è membro dell’Associazione è informato regolarmente di ogni attività che si tiene in biblioteca, in particolare ricevendo gratuitamente «Fogli» e gli inviti alle manifestazioni, partecipa alle scelte dell’Associazione (nell’assemblea e nei gruppi di lavoro) e contribuisce al finanziamento dell’attività, con la tassa annua. Iscrizioni Per iscriversi all’Associazione e richiedere «Fogli» o altre pubblicazioni, ci si rivolga all’Associazione «Biblioteca Salita dei Frati»: Salita dei Frati 4a ch-6900 Lugano telefono +41(0)91 923 91 88 telefax +41(0)91 923 89 87 e-mail bsf-segr.sbt@ti.ch La Biblioteca Salita dei Frati Fa parte del Sistema bibliotecario ticinese (www.sbt.ch) come biblioteca associata. Le notizie bibliografiche delle nuove acquisizioni librarie vengono inserite nel catalogo del Sistema dal 2001; la ricatalogazione informatizzata del pregresso è in corso di attuazione. Dal 2010 partecipa al progetto e-rara, il portale che riunisce libri antichi digitalizzati provenienti da diverse biblioteche svizzere, accessibili per il lettore gratuitamente online. Centro di competenza per il libro antico Dal 2014 la Biblioteca Salita dei Frati ha assunto il ruolo di Centro di competenza per il libro antico. Fra i progetti principali vi è la catalogazione di fondi librari antichi (attualmente è in corso quella delle seguenti biblioteche: Madonna del Sasso di Orselina, Santa Maria del Bigorio , Abate Fontana di Sagno) e il censimento dei fondi librari antichi di proprietà privata presenti nella Svizzera italiana in vista dell’inserimento dei dati nel catalogo online del Sistema bibliotecario ticinese. Partecipa al progetto MEI (Material Evidence in Incunabula), banca dati che raccoglie tutte le informazioni legate agli esemplari degli incunaboli conosciuti. Orari di apertura al pubblico Mercoledì, giovedì e venerdì dalle 14 alle 18 sabato dalle 9 alle 12 ISSN 2235-4697 Fr. 7.—