Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
CULTURE E CONFLITTO a cura di Matilde Callari Galli, Giovanna Guerzoni, Bruno Riccio GuaraldiUniversitaria Antropologia culturale Guaraldi Universitaria Prima edizione: marzo 2005 © 2004 by Guaraldi s.r.l. Sede legale: piazza Ferrari 22, 47900 Rimini Redazione: via A. Grassi 13 (Rimini) 0541/791316 www.guaraldi.it E-mail: info@guaraldi.it ISBN 88-8049-243-8 CULTURE E CONFLITTO a cura di Matilde Callari Galli, Giovanna Guerzoni, Bruno Riccio Guaraldi INDICE Presentazione LIVIA POMODORO p. 9 Saluti TULLIA CARETTONI » 11 Culture e conflitto Introduzione per un convegno internazionale MATILDE CALLARI GALLI » 17 ANALISI CULTURALE DEL CONFLITTO NEI MONDI CONTEMPORANEI L’Europa e l’altra Europa PREDRAG MATVEJEVIC p. 31 La scena contemporanea: paradossi etici e politici MARIELLA PANDOLFI » 43 Transizioni antropologiche ENZO SCANDURRA » 63 Il conflitto con sé e con gli altri: voci e silenzi emotivi MARIAGRAZIA CONTINI » 75 Interculturalismo e meticciato nell’epoca della globalizzazione ANTONINO BUTTITTA » 83 Indice Un esempio di costruzione culturale del conflitto BRUNO RICCIO p. 105 Turisti e conflitti: quando la tragedia diventa l’anima del turismo FEDERICA FERRARIS » 115 TESTIMONIANZE ED ESPERIENZE Una testimonianza sulla testimonianza FATOS LUBONYA » 137 Censura e intellettuali nell’Albania comunista PIRO MISHA » 143 LE RAPPRESENTAZIONI SIMBOLICHE DEL CONFLITTO Symbolic representations of conflict in contemporary world: different disciplinary prospects » 155 JOHN GALATY Alcune riflessioni ANNA MARIA GIANOTTI » 167 Media e conflitto GIOVANNA GRIGNAFFINI » 173 Cultura e conflitto: rappresentazioni visuali e antropologia del cinema MARIA GIULIA GRASSILLI » 183 Conflitti urbani: Genova 2001, un’analisi antropologica GIUSEPPE SCANDURRA p. 197 Indice Il terrorismo è un virus? MARCO BINOTTO » 213 I DIRITTI UMANI, LA LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE E LA SOLIDARIETÀ DI FRONTE AL CONFLITTO I diritti umani e la legislazione internazionale di fronte al conflitto FAUSTO POCAR p. 233 Alcuni commenti STEFANO BIANCHINI » 241 Forza del diritto o diritto della forza? GABRIELLA D’AGOSTINO » 257 Diritti umani e solidarietà attiva ANTONIO GENOVESE » 267 Diritti umani e prevenzione del conflitto. Prospettive di un’educazione ai diritti umani DANIELA SOCI » 289 CONCLUSIONI Geopolitiche e narrazioni del conflitto nella contemporaneità: uno sguardo antropologico GIOVANNA GUERZONI p. 301 Presentazione Il presente volume emerge in grande parte dal Seminario internazionale “Culture e conflitto” tenutosi a Courmayeur tra il 13 e il 15 dicembre 2002, promosso dal Centro di prevenzione e difesa sociale, dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Bologna e dalla Fondazione Courmayeur, in collaborazione con la Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. È stato coordinato da Matilde Callari Galli e Giovanna Guerzoni. Il Seminario si è aperto con una prolusione di Predrag Matvejevic, per proseguire con un intervento di Maria Grazia Contini e con testimonianze del rapporto tra libertà intellettuale e potere presentate da Fatos Lubonya e Piro Misha. In seguito, il Seminario si è articolato in tre sessioni; la prima sessione, introdotta da una relazione di base di Mariella Pandolfi, si è focalizzata sull’“analsi culturale del conflitto nei mondi contemporanei”, la seconda, aperta da una relazione di John Galaty, ha preso in considerazione “le rappresentazioni simboliche del conflitto” e la terza, con una relazione di Fausto Pocar, si è concentrata su “diritti umani e legislazione internazionale”. Come “discussants” hanno partecipato alle sessioni del Seminario Tullio Seppilli, Enzo Scandurra, Giovanna Grignaffini, Stefano Bianchini e Antonio Genovese. Il dibattito è stato animato, tra i diversi contributi, anche da interventi di Antonino Buttitta, Gioia Di Cristoforo Longo, Paolo Palmeri, Gabriella D’Agostino, Roberto Malighetti, Lidia Decandia, Setrag Manoukian e Ivo Pazzagli. 9 Culture e conflitto La maggioranza dei partecipanti al Seminario ha voluto contribuire a questo volume. Vogliamo comunque ringraziare anche coloro che, pur non essendo presenti in questo volume, hanno preso parte in maniera significativa allo sviluppo del dibattito di quelle giornate. Il coordinamento dei contributi al volume e il conseguente lavoro editoriale è stato svolto da Bruno Riccio. Un tale processo di costruzione e la natura interdisciplinare del tema propongono al lettore un percorso che, pur mancando a tratti di omogeneità stilistica e tematica, si caratterizza per la sua ricchezza di prospettive, linguaggi, vertici di osservazione e repertori simbolici di riferimento. Livia Pomodoro 10 Saluti TULLIA CARETTONI* Presidente della Commissione nazionale italiana per l’Unesco Ringrazio coloro i quali mi hanno chiesto di presiedere questa riunione. È per me un grande onore. Prima di dare la parola alle Autorità, ho l’obbligo di portarvi una testimonianza personale. Dopo i nostri incontri di Courmayeur, ciascuno di noi avrà occasione di partecipare a tavole rotonde, a convegni o congressi; questo patrimonio ci aiuterà. Io ho molto utilizzato (citandolo, è ovvio) il relatore canadese di due anni fa così come mi è capitato spesso di dire “com’è stato detto a Courmayeur”. Questi convegni sono una ragione d’arricchimento e un viatico che accompagna per tutto l’anno coloro i quali vi hanno partecipato. Vi potete immaginare, quindi, quale sia l’aspettativa della Commissione, di fronte a un Seminario che affronta uno dei temi oggi più attuale: i conflitti. Tenterò rapidamente di tracciare una sorta di memorandum su quello che è il rapporto dell’UNESCO con le articolazioni aperte dal tema oggetto di questo Seminario, focalizzandomi sulle intuizioni, sui ritardi, sulle realizzazioni e le non realizzazioni rispetto ai fini che l’UNESCO dalle sue origini si è dato. L’UNESCO, si sa, nasce durante un conflitto: nasce sotto le bombe naziste su Londra. Ed è una pagina bella dell’umanità, quella per cui uomini di altissima cultura, sotto le bombe, dicono: la cultura deve ricominciare a dialogare. Questi uomini * La relazione corrisponde alla trascrizione dell’indirizzo di saluto presentato al Seminario. 11 Culture e conflitto fanno un grande sforzo e pensano che i conflitti vadano superati e che si debba affrontarne le conseguenze, ma che nel contempo si debba trovare il metodo per ovviare ai conflitti; questi uomini, altresì, ritengono che il metodo sia quello di affrontare i conflitti d’idee, perché è sulla contrapposizione delle idee che si deve operare con coraggio per far emergere una linea di ricerca storico-politica – dunque non solo teoretica – che possa fornire un antidoto mirato, per delineare, in prospettiva, una sorta di sistema di prevenzione, almeno parziale, e per individuare una serie di ammortizzatori. Dico subito che la necessità di ideare un sistema di prevenzione e d’“ammortizzamento”, chiamiamolo così, rimane l’obiettivo fondamentale e l’oggetto di una ricerca di metodo che l’UNESCO ha portato a successo in alcuni settori. Per esempio, si è citata la Conferenza dei Ministri del Patrimonio. Ebbene, oggi sul patrimonio – naturale e creato dal cervello umano – l’UNESCO ha suscitato una coscienza nuova, basata su un senso di responsabilità comune, sul fatto che tutto quello che noi abbiamo e che sappiamo non è solo nostro, è anche degli altri: di tutta l’umanità. Esiste un problema non solo di trasferimento di denaro (chi più ha più deve dare), ma di trasferimento di knowhow, di esperienze, di idee. Quindi si può arrivare ad un sistema che riguardi anche quello che definiamo il “patrimonio immateriale”. Questo sistema è ancora in fieri, non è stato ancora realizzato appieno, avrà anche dei lati utopici ma bisogna comunque lavorare in questa direzione. Nel contempo, bisogna rendersi conto pragmaticamente della necessità di adottare anche provvedimenti d’emergenza. Ex post, per esempio, quando i conflitti scoppiano. Dunque c’è la necessità di un superamento del modello unilineare e unidimensionale, ma anche, da parte dell’UNESCO, la coscienza di questa necessità, che però va sviluppata, perché è in nuce e frammentaria. Per farlo dobbiamo dotarci di strumenti che ancora non abbiamo. In realtà, la guida di tutta l’azione odierna dell’UNESCO è la Dichiarazione sulle diversità culturali che ancora una volta è stata solennemente fatta propria dall’ultima Conferenza ge12 Tullia Carettoni nerale; Dichiarazione la cui penetrazione nella realtà, però, è ancora lontanissima, perché anche nel mondo culturale essa non è acquisita. Se persone di grande cultura e di grande riguardo – non dico quelle schierate – danno una risposta equivoca, questo vuol dire essere molto indietro, non solo nell’UNESCO, ma dovunque. Quando noi vediamo l’assoluta disinformazione dell’opinione pubblica rispetto alle questioni islamiche… ma lasciamo stare, ognuno ha la propria opinione. Certamente la disinformazione è il fatto che ci colpisce di più, e in qualche modo anche lo sfruttamento strumentale da parte politica. La parte politica è portata, per propria natura, allo sfruttamento strumentale, ma dovrebbe quanto meno essere in possesso di dati certi, invece essa opera sfruttamenti strumentali senza dati certi, e di ciò abbiamo avuto, in questi ultimi mesi, dolorose testimonianze. L’UNESCO, per la verità, alcuni punti è riuscita a farli emergere abbastanza concretamente. Primo punto: la coscienza che il conflitto non è un episodio, ma è un processo dietro cui ci sono dei bisogni che possono essere più o meno legittimi, ma che, se non ottengono soddisfazione o ascolto, portano poi allo scoppio non frenabile del conflitto stesso. Questo è vero nel pubblico ed è vero nel privato. Sicché, noi che abbiamo la nostra concezione occidentale della società (cioè la somma degli individui…, ma è inutile entrare nel merito), dobbiamo tenere conto che il problema non è solamente un problema pubblico o comunitario, è anche un problema del privato. Allora l’UNESCO che cosa tenta di fare, con grande fatica e con grande incertezza, e noi con essa? Tenta di entrare in questo processo, non solo di capirlo, proprio di entrare in questo processo avendo presente, però, l’importanza della diversità. Un tentativo in questo senso, per esempio, si sta facendo con la preparazione dell’Anno dell’acqua, poiché il possesso dell’acqua può diventare un elemento tragico di conflitto. Secondo punto: la coscienza che il conflitto, ove sia conflitto d’idee ed elemento di dialogo, può essere un’occasione di crescita e di sviluppo. Qui non posso non ravvisare, per esempio (e chi mi conosce sa che io sono molto critica nei 13 Culture e conflitto confronti delle organizzazioni internazionali), il carattere positivo e il successo delle presenze dell’UNESCO in Palestina e in Israele, ma anche nell’Irlanda del Nord, anzi, maggiormente nell’Irlanda del Nord. Sicché, rispetto a questo secondo punto, possiamo dire che l’esperienza dimostra che si può fare qualcosa. Il terzo punto è ovvio: una volta terminato il conflitto, ci sono delle cose da fare, come dare assistenza alla popolazione, occuparsi dei monumenti e via dicendo. L’ultimo punto, che mi sembra importante (e di cui ci dovremo ricordare tutte le volte che ci incontreremo su questi temi), è la necessità di un’azione molto ferma di protezione e di potenziamento dell’informazione, cioè di aiuto totale e indiscusso nei confronti dei media che informano. Noi viviamo in un mondo in cui non solo l’informazione è in tempo reale, ma anche la disinformazione, e siccome la disinformazione non ha mai dimensioni piccole, la difesa dell’informazione – il più possibile veritiera, perché poi la verità nessuno la conosce – deve essere sempre un compito dell’UNESCO, soprattutto quando si parla di conflitti. Quello che ho cercato di delineare è un quadro di certo insufficiente, però ricco di spunti che meriterebbero attenzione e anche – con questo mi rivolgo a voi – aiuto. È un segnale importante quando l’UNESCO organizza un concerto per la pace con quaranta musicisti arabi e israeliani, come quello che si è tenuto in settembre a Parigi, però, accanto a queste manifestazioni belle, simboliche, che muovono i nostri animi, bisogna anche guardare alle situazioni politiche più concrete. Per esempio, noi ci stiamo preparando al rientro nell’UNESCO (dunque nell’Agenzia delle Nazioni Unite che si occupa di scienza, cultura ed educazione) degli Stati Uniti. Questa può e deve essere un’occasione di crescita e di rafforzamento, non di rimessa in discussione di punti che sono ormai acquisiti. A partire da quell’anno – il 1942 – sotto le bombe naziste, si è dovuto fare una fatica tremenda – e neanche sempre con successo, anzi, con molti insuccessi – per arrivare a fissare dei punti importanti. Ora dobbiamo cercare di non fare dei passi indietro, anzi, dobbiamo far sì 14 Tullia Carettoni che quello che è un evento da noi auspicato produca degli esiti positivi, anche perché noi non abbiamo mai interrotto il dialogo con gli Stati Uniti, gli uomini di cultura non hanno mai interrotto il dialogo tra loro; un dialogo che, io dico, deve fare aggio su altri eventuali dialoghi che possono aprirsi. I rischi ci sono. Allora guardiamoci da questi rischi, così da essere più preparati e più coscienti. 15 Culture e conflitto Introduzione per un Seminario internazionale MATILDE CALLARI GALLI Università degli Studi di Bologna Spazi di guerra Assistiamo, nell’età contemporanea, ad uno smarrimento che dal piano teorico rimbalza sul piano politico e da questo a quello con un gioco di andirivieni reso di difficile decodificazione dalla rapidità temporale – definita “in tempo reale” – con cui avviene e dalla diffusione spaziale, pervasiva e planetaria, che lo caratterizza. Da un lato sono cadute, ormai da decenni, le grandi “narrazioni” delle utopie universalizzanti che hanno animato gli ultimi secoli della storia del pensiero occidentale, dall’altro l’esaltazione delle differenze – di lingua, di religione, di pratiche rituali, di divisione dei beni e del potere – sembra produrre lacerazioni sanguinose e dolorose tanto quanto le rivoluzioni e le guerre combattute, per tutto il ventesimo secolo, seguendo i miraggi di sistemi sociali “universali” in grado di unificare, nel loro abbraccio, l’intero pianeta. E conflitti, guerre, dispersioni e dislocazioni di comunità e di intere popolazioni sembrano essere così ampiamente diffusi da farci temere che una instabilità endemica minacci continuamente la vita di tutti i gruppi. Nel corso degli ultimi cinquant’anni il mondo ha conosciuto centinaia di guerre, e il numero è limitato da una definizione di guerra che implica il coinvolgimento di un governo e almeno mille vittime in un anno. In questo gran numero di conflitti se ne distinguono molti considerati più estesi e sanguinosi e come tali degni dell’attenzione – per qualche giorno o per qualche settimana – dei mezzi di co17 Culture e conflitto municazione di massa internazionali: quelli esplosi nella ex Jugoslavia, in Palestina, in Turchia, in Iran, in Iraq, in Nigeria, in Somalia, in Afghanistan, in Cambogia, in Vietnam, in alcune regioni dell’ex Unione Sovietica, in Uganda, in Ruanda, nella Repubblica del Congo, in Liberia. E il numero cresce ancora se vogliamo considerare le guerre civili che continuano a sconvolgere i paesi “pacificati” dalle forze di occupazione; e allora entrano nell’elenco “bellico”: l’Indonesia e le Filippine, l’Algeria e lo Sri Lanka, il Guatemala e il Nicaragua; a non voler, poi, ricordare che un terzo delle nazioni del nostro pianeta usa le torture come sistematico mezzo di governo. Secondo fonti ufficiali, le vittime per cause belliche, tra il 1945 e il 1995, ammontano a 25 milioni, di cui 17 milioni sono vittime civili. In questo periodo, se si escludono l’ex Jugoslavia e alcune regioni un tempo stati satellite dell’Unione Sovietica, le guerre sembrano aver abbandonato il continente europeo e aver scelto altri orizzonti: dopo il 1946 più del 90% dei conflitti sono esplosi in Asia, in America latina, in Medio Oriente e soprattutto in Africa. È una realtà assai amara dover constatare che la maggioranza dei conflitti porti lutti e sofferenze tra le popolazioni più povere del pianeta: quasi che i meno favoriti da un punto di vista di sviluppo economico e di equilibri sociali abbiano il monopolio della follia bellica. In base al rapporto annuale dell’UNICEF, nel 1994, 42 paesi erano coinvolti in conflitti bellici di notevole entità e 37 erano attraversati da forme diverse di violenza politica: e di questi 79 paesi, 65 appartenevano al mondo del sotto-sviluppo, dimostrando che povertà, sottoistruzione, miseria e disoccupazione favoriscono l’insorgere e il mantenimento della conflittualità. Le guerre che trovano il terreno più favorevole proprio fra i diseredati sono indotte e alimentate dagli interessi economici dei paesi industrializzati e rese possibili dalle forniture di materiale bellico e di esperti militari che i paesi del benessere vendono ai paesi più sfavoriti. È stato calcolato che dal 1945 al 1995 nel mondo le spese per imprese belliche 18 Matilde Callari Galli si siano decuplicate. Il totale delle spese militari dei paesi del Terzo Mondo, che nel 1960 era approssimativamente pari a 21 miliardi di dollari, è passato nel 1980 a 65 miliardi di dollari, per essere oggi pari a 200 miliardi di dollari l’anno. I paesi in via di sviluppo consacrano alle spese militari la maggior parte delle loro risorse interne e delle loro entrate internazionali. Nella quasi totalità di questi paesi le spese affrontate per la difesa sono maggiori di quelle sostenute per la salute e per l’istruzione: ogni volta che un paese del Terzo Mondo deve affrontare una crisi economica, taglia le spese per i bisogni sociali ma lascia invariate quelle destinate agli armamenti. In fuga dalla guerra In tutti i continenti, sotto l’impatto dei conflitti, centinaia di migliaia di individui abbandonano le loro case e spaventati dalla violenza, impauriti dalle rappresaglie dei soldati, sospinti dalla miseria cercano di raggiungere zone più sicure. I fuggiaschi sono per la maggior parte donne, vecchi e bambini: senza difese né protezione alcuna, percorrono a piedi grandi distanze, attraversano regioni ostili, lasciando lungo il loro percorso migliaia di morti. Se nel 1951 si stimava che nel mondo i “rifugiati” fossero un milione, ora questi esodi hanno assunto dimensioni macroscopiche e oggi l’Alto Commissariato dei Rifugiati valuta che nel mondo ci siano più di 50 milioni di individui esuli a cui è necessario fornire assistenza, aiuti e soccorsi. Di questa imponente massa di individui, appartenenti alle culture più diverse, più del 60% è costituito da bambini; e molti di essi – milioni e milioni – sono soli, avendo perso nei conflitti i loro genitori e tutti i loro familiari. Il fenomeno non riguarda solo alcune aree più duramente colpite, quali l’Afghanistan, il Mozambico, l’Angola, il Sudan, il Ruanda o la Liberia, ma si calcola che l’UNICEF, l’Alto Commissariato dei Rifugiati e molte altre organizzazioni umanitarie internazionali, oggi svolgono in 60 paesi operazioni di aiuto in favore di bambini che sono soli 19 Culture e conflitto al mondo e vivono nella condizione di “rifugiati”. È difficile per chi non li abbia mai visitati, immaginare quale sia realmente la vita nei “campi”: migliaia e migliaia di persone ammassate in aree ristrette, circondate dall’ostilità delle popolazioni residenti, recluse e dipendenti per la sopravvivenza dagli aiuti internazionali, spesso lesinati e controllati dai governi che li hanno accolti, esposti alle inclemenze del clima e al rischio di malattie, di epidemie, di violenze che esplodono frequentemente in situazioni così instabili e precarie. Il problema dei “rifugiati” è solo apparentemente temporaneo: per milioni di bambini – i cambogiani dei campi al confine con la Thailandia, i vietnamiti di Hong Kong, i nordcoreani della Repubblica Popolare Cinese, i palestinesi dei “territori” – l’esodo è divenuto un esilio permanente. Un padre mutilato da una mina in Cambogia e che viveva in un “campo”, osservava amaramente: “mio figlio non mi ha mai visto lavorare in una risaia: e io sono un contadino […] Per lui il riso germoglia nei sacchi di juta e l’acqua si trova in bottiglie di plastica spedite dalla Francia”. Parlare di guerra A partire dalla Seconda guerra mondiale, gli andamenti dei conflitti, il coinvolgimento delle popolazioni civili, l’informazione che li circonda, la loro percezione, è completamente mutata. Forse anche la guerra, i riflessi che essa ha sulle strutture socioeconomiche, sui valori e sugli stili di vita, sui processi di trasmissione culturale, sui percorsi quotidiani dei cittadini dei paesi che essa investe, vanno riportati all’interno dello schema, ad un tempo concettuale ed interpretativo, che individua le caratteristiche e gli andamenti di una diffusione culturale globale deterritorializzata che si coniuga dialetticamente con una continua indigenizzazione e ri-territorializzazione dei suoi messaggi, dei suoi prodotti, dei suoi linguaggi e dei suoi stili. In altre parole, mi sembra importante porre, come sfondo all’analisi culturale del rapporto tra guer20 Matilde Callari Galli ra e cultura, uno scenario generale che si domandi quali siano le modalità con le quali i processi di globalizzazione determinano l’esperienza, quali siano le analogie che uniscono gli stili di vita propri di alcuni contesti della contemporaneità, quali le differenze, i contrasti, le opposizioni. In questo panorama, per una minoranza dell’umanità, la globalizzazione si traduce in una condivisione di informazioni, di abitudini alimentari, di divertimenti analoghi nella accessibilità e nelle modalità di fruizione; mentre, per la maggioranza, vuol dire miseria, guerra, fame, violenza, malattie, analoghe e condivise spesso in forme estreme. E la violenza e la rapidità dei cambiamenti sembrano travolgere molte specificità dovute a tecniche di allevamento, sistemi familiari, modelli culturali che nel passato, pur avendo alimentato e mantenuto iniquità, esclusioni e sofferenze, erano anche in grado di conferire senso e significato a modelli di vita radicati nella comunità e nel gruppo di appartenenza. Oggi la globalizzazione della miseria, della guerra e del vizio fanno apparire simili le bambine mutilate dalle mine in Angola o in Cambogia, i volti chiusi e indifferenti dei bambini soldati ugandesi e quelli dei bambini thailandesi che si prostituiscono nelle strade di Bangkok, il lavoro di recupero svolto nelle discariche dai bambini di Phnom Penh o il lavoro svolto nei cantieri dai bambini di Kuala Lumpur. Un’altra caratteristica della globalizzazione che merita la nostra attenzione riguarda la diffusione continua, immediata, in “tempo reale” di informazioni, notizie e messaggi in molte aree del pianeta. E le molte narrazioni, quelle felici e quelle disperate, i volti dei potenti e degli umiliati, non sono stati mai così visti, così presenti nelle nostre case con la loro allegria e con il loro pianto, con le loro gioie e con la loro disperazione. Ma oggi, come ieri, tutto sembra scivolare su di noi; come se, sotto l’eccesso d’informazione, il nostro interesse, la nostra attenzione, si spegnessero. E nel futuro, con gli elicotteri “intelligenti” che senza alcuna persona a bordo sostituiranno l’occhio e l’intelligenza del fotografo e del giornalista, il resoconto dei conflitti, delle diaspore e del dolore, sarà ancora più impersonale, del tutto privo di compassione. 21 Culture e conflitto In un mondo dominato da una circolazione frenetica delle informazioni, le notizie sulle guerre e sui conflitti sono ampiamente note, penetrano nelle nostre case, accompagnano lo svolgimento della nostra vita quotidiana. Ad una prima impressione, descrivere e riflettere sulla guerra sembra uno sforzo superfluo se non inutile, soprattutto se affidato ad un codice quale quello della scrittura, assai meno attraente di quello audiovisivo: abbiamo visto eserciti che si preparano ad invasioni annunciate, li abbiamo visti sconfitti o entrare vittoriosi in città e villaggi, abbiamo assistito “in diretta” a bombardamenti e distruzioni, i conflitti ormai sembrano – e forse sono – organizzati per essere teletrasmessi. Eppure questi nuovi tempi e questi nuovi spazi per cui nelle nostre case la paura e la violenza sembrano penetrare nello stesso momento in cui, lontano da noi, sono vissute ed agite, hanno una dinamica particolare, insieme convulsa e rallentata: convulsa perché le informazioni sono molteplici, incalzanti, squadernate davanti a noi senza mediazioni tra le contraddizioni che contengono; rallentate perché dopo una frequenza continua, sino ad essere a volte ossessiva, spariscono dai nostri schermi, sono sostituite da altre informazioni su avvenimenti analoghi o diversi, che comunque riguardano altri luoghi, altri protagonisti. Chi sceglie, oggi, gli oggetti dei nostri pensieri e delle nostre emozioni? Chi li individua e li delimita? Chi li alimenta o lascia che si perdano nel silenzio dei mezzi di comunicazione? Allora può essere di una qualche utilità cercare di costruire una trama su cui organizzare dati e informazioni accumulati in questi anni, una trama che cerchi connessioni e significati al di là della descrizione, che tenti di analizzare e interpretare eccessi le cui immagini ci appaiono insostenibili: una trama che non riuscendo a fornire spiegazioni, documenti almeno i pericoli rappresentati da una crudeltà, non certo nuova nella storia dell’umanità, ma che minaccia, con il suo dilagare, con la sua pervasività globale, molti dei nostri principî e delle nostre sicurezze. Rivolgere la nostra attenzione agli aspetti simbolici connessi con i conflitti, significa riconoscere la stratificazione 22 Matilde Callari Galli delle dinamiche in gioco e la pluralità delle parti in causa, richiede di mettere a punto metodologie di analisi e schemi teorici che ci permettano di cogliere la totalità delle relazioni che si intessono nella vita pubblica e nella vita privata, che informano l’ufficialità e il quotidiano, che segnano le storie di vita individuali e le esperienze collettive. E ci piace anche rivolgere il nostro sguardo ad alcuni principî che, sia pure tra mille difficoltà e con scarso successo, cercano di attuare pratiche che si ergono in difesa delle vittime, che si sforzano di dare voce al dolore e di ricordare i diritti calpestati e i diritti silenti che non trovano la forza di emergere, a volte neanche di essere visti. È difficile radicare il rispetto dei diritti umani in una legge naturale, farli considerare parte di una razionalità e di una morale condivisa a livello planetario: la maggior parte degli individui non accetta come naturale la legge che obbliga ognuno di noi a rispettare i diritti dei suoi simili sulla base dell’appartenenza alla stessa specie. Al contrario, in base a prove diverse e numerose, sappiamo che la maggioranza degli individui è portata a percepire con disgusto o con disprezzo le differenze culturali degli altri gruppi. Tuttavia, nonostante la diffusione di questa percezione delle differenze culturali, propria del livello razionale, dobbiamo constatare che molti gruppi umani sono pronti a provare sentimenti di empatia per individui che siano torturati, che soffrano la fame, che vivano nella miseria o in condizioni di schiavitù e sono pronti ad impegnarsi affinché gli abusi fisici e psicologici non siano permessi. Secondo questa linea di ragionamento, la cultura della difesa dei diritti umani può trovare forza e diffusione più attraverso i sentimenti che attraverso convincimenti di carattere legale o morale. Mi sembra che questo approccio al tema dei diritti umani abbia una base educativa interessante in quanto, focalizzando la sua azione sui processi di identificazione con le sofferenze che scaturiscono dalla violazione dei diritti umani, potrebbe essere in grado di diffondere la concezione dei diritti umani quali mezzo per arginare la violenza e la brutalità. Attuare un’efficace azione educativa nei confronti dei di23 Culture e conflitto ritti umani, appare particolarmente importante oggi, dopo che la politica dei diritti umani è stata messa in discussione dall’attacco alle Due Torri del settembre 2001: quella data che ha segnato la fine della convinzione dell’invulnerabilità degli Stati Uniti e di tutti i paesi ad alto sviluppo tecnologico, ha anche determinato l’eclissi del rispetto dei diritti fondamentali a causa della preminenza della decisione di rispondere con la violenza e la guerra al ricatto attuato dalle reti del terrorismo internazionale. Anche se la posizione di coloro che ritengono che con l’attacco alle Due Torri l’era dei diritti umani stia affrontando un periodo di grande difficoltà (Ignatieff, 2003) appare estremizzante e non pienamente condivisibile, dobbiamo riconoscere che il contesto in cui si svolgono le politiche e quello in cui si attuano le pratiche dei diritti umani, è mutato in modo così significativo da meritare nuove riflessioni e nuovi orientamenti. E il numero e le modalità delle loro violazioni richiedono un impegno della volontà e uno sforzo dell’immaginazione per continuare a difendere la validità dei diritti umani quali espressione della solidarietà fra le diverse nazioni e le diverse culture. Per un’analisi culturale dei conflitti della contemporaneità Per lungo tempo la violenza, il conflitto, le guerre sono state interpretate nelle analisi di economisti, filosofi, politologi, sociologi e storici tramite modelli semplici e unilineari sottovalutando e frequentemente trascurando il rilievo e la dinamicità dei sistemi “altri da noi”. Di volta in volta, le ipotesi sviluppate nelle scienze umane circa i meccanismi che alimentano il conflitto si sono basate sull’esistenza di una base biologico-genetica che sottende il comportamento aggressivo; oppure sulla necessità di controllare le risorse ambientali disponibili; o ancora sulla differenza dicotomica primordiale – “sé/altro da sé” – tematizzando la dimensione del conflitto in termini di un’inestinguibile tensione tra identità e differenza. 24 Matilde Callari Galli La profonda complessità che caratterizza i conflitti contemporanei – dovuta a molte cause tra cui vanno ricordati i processi di globalizzazione, l’interdipendenza economica e culturale che lega l’intero pianeta, il proliferare di armi in grado di distruggere intere popolazioni se non l’intera umanità – ci costringe ad abbandonare i modelli unilineari e unidimensionali e a rivolgerci ad interpretazioni multifattoriali per affrontare i loro andamenti sfuggenti, risultati di dinamici intrecci di modelli sociali e culturali, di interazioni economiche e politiche, di sistemi di valori, di comportamenti e di atteggiamenti intrisi di significati simbolici. Questa impostazione non intende certo difendere l’interpretazione dei conflitti propri della contemporaneità in chiave squisitamente culturalista, considerandoli una volta ancora in termini unidimensionali, ma vuole al contrario considerare la dimensione culturale del conflitto un importante fattore che dobbiamo di volta in volta, caso per caso, individuare ed analizzare al fine di sviluppare una comprensione dei conflitti dal punto di vista dei diversi attori sociali che li esperiscono nei fatti e nelle rappresentazioni. Nell’era dei processi globali le diversità proliferano, nuove divisioni e nuove trasversalità si determinano, accesi regionalismi scatenano guerre feroci. In ogni caso nulla più si svolge nel silenzio dell’ambito locale: anche l’espressione dell’isolamento più estremo invade e pervade lo scenario mondiale della rappresentazione televisiva. E i conflitti esplodono con andamenti nuovi ed imprevisti, talvolta sordamente, talvolta occupando prepotentemente l’intera scena mondiale: sempre in modo trasversale rispetto a raggruppamenti – sociali, sessuali, etnici, nazionali – che siamo abituati a considerare coesi; i conflitti sospingono l’opinione pubblica del “villaggio globale” verso paradigmi di pensiero che molti di noi ritenevano superati o immaginavano appannaggio di minoranze e gruppi marginali. Nella vita e nelle esperienze quotidiane, nelle articolazioni degli immaginari collettivi, molte identità si intersecano, molti processi di identificazione si affiancano e si sovrappongono: negare la loro complessità coltivando l’aspi25 Culture e conflitto razione a ricercare nel passato e nel presente inesistenti “purezze” culturali ed identitarie, è estremamente pericoloso: al pari ed insieme a motivazioni economiche e politiche, è responsabile della ferocia di cui si colorano le “mille guerre di riconoscimento” che popolano la scena della contemporaneità. Forse, come consiglia Pierre Bourdieu, dovremmo recuperare il concetto di “distinzione” non come “diversità eccellente” ma come ricerca di orientamenti storicamente fondati e politicamente definiti, per immettere nella nuova dimensione mondiale delle nostre reti di interdipendenza gli strumenti di autogoverno propri dei nuovi gruppi creati dai processi di globalizzazione. «Al centro della nostra storia– hanno scritto Charles Bright e Michael Geyer – non va posta la lotta tra sistemi in evoluzione e sistemi che tenacemente la respingono. […] Tutto sembra piuttosto giocarsi sui termini di una possibile convivenza. Su questo campo è in atto una lotta accesa, confusa e feroce che ha per oggetto proprio i termini di questa integrazione, proprio i modi di questa convivenza. E questa lotta ha al centro chi e che cosa controlla e definisce l’identità degli individui, dei gruppi sociali, delle nazioni, delle culture» (Bright e Geyer 1987: 73). Quello che va accettato e ricordato – per quanto difficile e doloroso possa apparire ai nostri occhi – è che il percorso di questa lotta non è più preordinato e stabilito dalle dinamiche dell’espansione occidentale che ha iniziato, molti secoli fa, un processo di integrazione globale violento ed esasperato. Questi orientamenti potrebbero, forse, costituire una difesa contro i pericoli rappresentati dall’indulgere nel pregiudizio della “causalità storica”, in base al quale, per esempio, siamo spinti a ritenere che l’attuale opposizione tra mondi islamici e mondi occidentali sia il risultato di un accumulo secolare di odio tra due religioni ambedue “totalizzanti”. Questo pregiudizio può determinare la possibilità di avviarsi sulla strada assai pericolosa di interpretare le vicende contemporanee che caratterizzano i rapporti tra mondi islamici e mondi occidentali, seguendo il modello dello “scontro di civiltà” elaborato ed enunciato da Samuel Huntington (1993, 1997). È una strada ambigua e pericolosa per molti 26 Matilde Callari Galli ordini di motivi, ma soprattutto perché la natura reale dei diversi conflitti, le diverse valutazioni politiche, storiche e sociali delle origini locali e delle basi economiche delle ostilità vengono occultate. Inoltre, la tesi dello scontro tra le “civiltà” di fronte all’analisi storica e culturale appare una vera e propria falsificazione, in quanto nega la molteplicità e la dinamicità delle molte culture che costituiscono la sfera di influenza islamica, la sfera di influenza occidentale e la sfera di influenza della Cina e in quanto applica alle loro storie e ai loro rapporti complessi e variegati uno schema riduttivo, semplicistico e unidirezionale. Il suo maggior pericolo risiede nella negazione delle esperienze storiche e culturali che si differenziano dal suo schema interpretativo monolitico e totalizzante, impedendo di intervenire con azioni che sottolineino più le affinità che le divergenze, che sviluppino i collegamenti possibili, che individuino nella congerie di gruppi, che costituiscono gli universi da Huntington ridotti a “sette o otto grandi civiltà”, obiettivi se non comuni, compatibili: impedisce soprattutto che siano sviluppate azioni innovative rispetto al passato. Il modello interpretativo di Huntington, così accattivante proprio per la sua semplicità analitica e riduttiva, ripresenta al pensiero occidentale una tentazione in cui esso è caduto più volte per tutto il secolo XX: applicare a fatti e avvenimenti diversi per tempi e per luoghi la stessa spiegazione totalizzante, alterando completamente la verità storica e pretendendo, per usare alcune parole di Hanna Arendt (1966), «di trattare il corso degli avvenimenti come se seguissero la stessa “legge” dell’esposizione logica della “sua” idea». Non si tratta di negare il valore dell’appartenenza, per nascita, ad una tradizione culturale: si tratta – seguendo ancora il pensiero della Arendt – di dedicarsi piuttosto alla ricerca di uno spazio politico comune a tutti gli uomini e in cui le aspirazioni all’emancipazione possano integrarsi con quelle di tutti i popoli all’autodeterminazione. E l’invito della Arendt a vivere come un libero pariah piuttosto che come un “integrato” privo di identità politica e culturale, assume oggi un 27 Culture e conflitto particolare valore per chi tenti, a livello teorico e pratico-politico, di sfuggire sia alle contraddizioni della società di massa che alle degenerazioni dello Stato nazionale. Riferimenti bibliografici Arendt, H., 1966, Le origini del totalitarismo, Comunità, Milano Bright, G., Geyer, M., 1987, “For a Unified History of the World in the Twentieth Century”, «Radical History Review», 39 Callari Galli, M., 1997, In Cambogia. Pedagogia del totalitarismo, Meltemi, Roma Callari Galli, M., 1998 “Conflitto collettivo, infanzia, trasmissione culturale”, in A. Canevaro, M. G. Berlina, A. Camasta (a cura), Pedagogia comparativa in zone di guerra, Erikson, Trento Callari Galli, M., Guerzoni G. (a cura), 1999, “I diritti dimenticati”, Focus di «Pluriverso», IV, 3 Chua, A., 2004, L’età dell’odio, Carocci, Roma Harrison, G., 2002, Fondamenti antropologici dei diritti umani, Meltemi, Roma Huntington, S., 1993, “The Clash of Civilizations”, «Foreign Affairs», 72, 3i Huntington, S., 1997 (1996), Lo scontro delle civiltà e il nuovo ordine mondiale, Garzanti, Milano Ignatieff, M., 2003, Una ragionevole apologia dei diritti umani, Feltrinelli, Milano 28 ANALISI CULTURALE DEL CONFLITTO NEI MONDI CONTEMPORANEI L’Europa e l’altra Europa PREDRAG MATVEJEVIC Università di Roma “La Sapienza” Confondere la civiltà europea con la civiltà universale è una tentazione ben nota in Europa. Dare ad una realtà concreta e contingente un significato quasi assoluto è un errore comune. Sarebbe più utile in quest’occasione discutere delle aspettative e delle attese di una parte dell’Europa nei confronti dell’altra. Occorre forse, innanzi tutto, definire o chiarire alcuni concetti e termini. Nel bilancio che si fa abitualmente alla fine del secolo, la parte detta umanista, per quel che concerne il XXI secolo, è fra le più modeste. Di fronte alle grandi invenzioni tecniche e scientifiche, alle enormi distruzioni umane e materiali, tuttavia alcune idee e riflessioni degne d’attenzione troveranno il loro posto: penso in primo luogo a certe nozioni di identità, particolarità e differenza che abbiamo cercato di ridefinire o di cui abbiamo fatto uso. Queste idee si ricollegano le une alle altre e ciascuna di esse apre problematiche appropriate. Alla nozione d’identità è legata quella d’individualità così come la tematica dei diritti dell’uomo e, in ultima conseguenza, dello stato di diritto. I concetti di particolarità e di differenza determinano il nostro approccio alla questione nazionale, così dolorosa in più di un paese, così come alle culture nazionali in seno alle quali si profilano le ideologie e i rispettivi programmi. Il concetto di identità, il cui uso si è diffuso negli ultimi tempi, non può ridursi a una sola accezione. Bisogna guardarsi dall’impiegarlo troppo spesso al singolare: idem nec unum ricordava già la saggezza latina. Le civiltà complesse conoscono e coltivano identità plurali: questo vale ugual31 Culture e conflitto mente per le personalità che le incarnano o le esprimono. Le identità della cultura – modelli culturali e modi di vita, discorsi e stili – sopportano con difficoltà le riduzioni imposte o arbitrarie. Non è sempre facile (né concesso a tutti) conciliare gli elementi differenti, perfino contraddittori, che compongono e traducono il nostro essere individuale e sociale; provenienze locali, regionali, nazionali, europee o d’altro genere e le corrispondenti mentalità che si sostituiscono le une alle altre e che entrano in conflitto. Incontriamo quotidianamente coloro che pretendono di essere nazionali e sono in effetti regionali o locali, o coloro che si dicono europei restando regionalisti e nazionalisti coriacei, coloro che mettono la loro appartenenza religiosa, etnica o razziale al di sopra di tutti gli altri principî o valori. Montesquieu l’ha segnalato già più di due secoli fa: fare qualche cosa che sarebbe utile alla patria e pregiudizievole agli altri, o soprattutto “utile all’Europa e pregiudizievole al genere umano”, è commettere un “crimine”. Una nuova cultura civica dovrebbe insegnarci a pensare in questi termini. Bisogna fare una distinzione essenziale tra certe forme d’identità, più particolarmente tra identità dell’essere e identità del fare. Siamo testimoni, e non soltanto nell’Europa Centrale e Orientale, di un discorso orientato quasi esclusivamente verso il passato storico, le tradizioni e le religioni nazionali (“Viva la Polonia, santa, eterna e cattolica” etc., esclamava Lech Valesia durante una sua campagna elettorale). Osserviamo, nello stesso tempo, una mancanza fatale di progetti reali e realizzabili, sul piano sociale per esempio. Penso a Jacek Kuròn, diventato ministro del lavoro in Polonia, che confessava con amarezza: “Non abbiamo né programma né politica sociale”. Nel primo caso abbiamo a che fare con un’identità dell’essere, patetica e caricaturale secondo le circostanze, che spesso dispone di una retorica e di una messa in scena particolare. Nel secondo caso si tratta di un’identità del fare che non arriva a definirsi né, soprattutto, a realizzarsi. La nostra epoca ha fatto valere, più esplicitamente di quelle che l’hanno preceduta, il diritto ad una particolarità 32 Predrag Matvejevic individuale e personale, nazionale, linguistica, perfino sessuale. Questo diritto dovrebbe figurare in una nuova Dichiarazione dei Diritti dell’Uomo e del Cittadino che attende di essere ripresa e completata. Qualunque sia, una particolarità non è sempre obbligatoriamente un valore, non è un valore in sé a priori. Per essere valore essa deve affermarsi, essere confermata come tale. Tutte le volte che si dà valore alla particolarità, senza esame critico, si corre il rischio di scivolare nel particolarismo: la scala di valori così si abbassa o si restringe, si adatta a criteri troppo parziali od occasionali. Gli esempi di questo fenomeno abbondano in tutta Europa e nel mondo intero: i particolarismi sembrano essere il nostro destino. Le vecchie ideologie, travestite abilmente da “democrature”, utilizzano i termini identità e particolarità per giustificarsi, al fine di imporsi al nuovo senza rinnovarsi. Quanto alla cultura, la concezione del rapporto tra l’identità della nazione e quella della cultura nazionale è in un buon numero di casi troppo deterministica o restrittiva. Ciò vale soprattutto per quella parte della cultura che noi chiamiamo creativa – artistica o scientifica – ma concerne anche la cultura religiosa. Una mancanza evidente di laicità caratterizza più di un paese del nostro continente, quasi tutto il Mediterraneo. Ne ho parlato e scritto più di una volta (mi scuso per il ripetere spesso ciò che nessuno ascolta, come dice André Gide): penso ad una laicità riguardo alla religione (essendo inteso che essa possa essere accettata ugualmente dai credenti, soprattutto da quelli che distinguono la religione e la fede), ma ugualmente a una laicità nei confronti della nazione religiosamente intesa, ovvero nei confronti dell’ideologia trasformata in religione. Anche queste sono questioni d’identità o di particolarità. Le esperienze di una cultura nazionale non sono sempre né aperte né interamente comunicabili alle particolarità (identità) di un’altra cultura: il loro grado di convergenza è soggetto a limitazioni, e varia secondo la diversità delle forme e l’eteronomia delle funzioni. Ci sono tratti specifici che sfuggono più di quanto non sembri alle analisi o ad una valorizzazione che si pretende universale. Sottoscriviamo vo33 Culture e conflitto lentieri la constatazione di Paul Ricoeur circa l’incontro, talvolta così faticoso, di identità culturali diverse e circa l’annientamento potenziale delle une per mezzo delle altre: «Nel momento in cui scopriamo che ci sono delle culture e non una cultura, nel momento in cui riconosciamo la fine di una sorta di monopolio culturale, illusorio o reale, siamo minacciati di distruzione dalla nostra scoperta: diviene subito possibile non avere più degli altri, essere noi stessi un altro fra gli altri… La scoperta della pluralità delle culture non è mai un esercizio inoffensivo»*. Europa dell’Est è stata una designazione più politica e ideologica che geografica e culturale, imposta dalla Seconda guerra mondiale e dalla Guerra fredda. Questo nome è diventato desueto, viene sostituito da un altro, altrettanto impreciso: Europa centrale e orientale. L’Europa centrale comprende anche paesi che – come l’Austria o la Svizzera – non sono stati assoggettati dai regimi «comunisti» dell’Est. L’Altra Europa è anch’essa una nozione mal definita, forse di proposito. Che cos’è altro in questa parte dell’Europa e che cos’è europeo in questa alterità? Nessuno ha risposto a questa domanda, non so nemmeno se sia mai stata formulata. L’Europa nel suo insieme non è più ciò che era una volta. Anche quello che chiamavamo il Terzo Mondo è cambiato e alcuni parlano già di un Quarto Mondo. Una parte dell’Altra Europa dei giorni nostri fa apparentemente parte del Terzo Mondo: resti dell’impero sovietico, vestigia dell’antica Russia, della Bielorussia o dell’Ucraina, gran parte della ex-Jugoslavia disgregata, i confini dei Balcani, della Bulgaria, dell’Albania o della Romania, fors’anche della Grecia o della Turchia. Dopo un rivolgimento tanto violento quanto inatteso, le nozioni di Europa occidentale e orientale sembrano finalmente corrispondere ai punti cardinali. Ci si potrebbe rallegrare di questo buon uso delle parole se le cose in sé si presentassero diversamente. Se l’Altra Europa è una denominazione ambigua, la realtà * Prolusione al Seminario. 34 Predrag Matvejevic cui si riferisce non lo è di meno. Oggi questa realtà la possiamo scorgere com’è o come dovrebbe essere. La retorica si adatta a queste ambivalenze. La politica ne trae vantaggio. La retorica politica ne abusa. Basta domandare in giro per l’Europa che cosa siano e dove si trovino i Balcani. Chi parte dalla Germania centrale dirà che la Balcania comincia a Monaco. In questa città la gente vi dirà, col tono di chi fa l’offeso, che la Balcania inizia a Lubiana e a Zagabria. Da Lubiana e da Zagabria la gente vede la Balcania più lontana, verso Oriente, a Belgrado, a Sarajevo, a Skopje o a Tirana. Ma da quelle parti le persone più astute e più sagge vi diranno, ed è la verità, che un poco più a sud e un poco più ad Oriente c’è la “culla della cultura europea”. Sorge il dubbio che la Balcania non esista nemmeno. Si tratta di pensare l’Europa prendendo in considerazione i valori della cultura e della civiltà che la caratterizzano. Evitare di adottare solo i progetti particolari, che talvolta nascondono piatti interessi politico-economici. Questo sembra essere di massima urgenza nel momento in cui l’Europa stessa crea la sua definizione e prepara, non senza difficoltà, una Convenzione sul futuro dell’Europa. L’allargamento dell’Unione europea conferisce ad un tal compito una straordinaria rilevanza. Ogni tentativo simile esordisce o si conclude con una domanda ad un tempo banale ed imprescindibile: “Quale Europa?” L’abbiamo sentita tante volte, in diversi contesti, dall’Europa del carbone e dell’acciaio fino a quella di Maastricht e dell’euro. Forse è utile rievocare alcuni termini in cui quella domanda era posta e salvare dall’oblio certe idee dei nostri predecessori. È, forse, il momento di ricordarsi di alcuni dei nostri illustri predecessori come Julien Benda e della sua messa in scena indirizzata agli Europei di ieri, sotto il titolo Discorsi alla nazione Europea, che non ha ancora perduto attualità: «L’Europa sarà più scientifica che letteraria, più intellettuale che artistica, più filosofica che pittoresca. E, per molti fra noi, questo insegnamento sarà crudele. Questi poeti hanno un sapore diverso dai sapienti! Gli artisti sono più inebriati dei pensatori. Bisogna che vi 35 Culture e conflitto rassegniate. L’Europa sarà seria o non sarà. Sarà molto meno “divertente” delle nazioni, le quali lo erano già meno delle province». Si potrebbe, se si vuole, spostare alcuni accenti di questo discorso e aggiungervi, nello stesso spirito, qualche complemento. Sarebbe augurabile che l’Europa futura fosse meno eurocentrica di quella del passato, più incline al “terzo mondo” dell’Europa colonialistica, meno egoista dell’Europa delle nazioni, più cosciente di se stessa e meno soggetta all’americanizzazione. Sarebbe auspicabile che fosse più Europa dei cittadini e meno Europa degli stati che si sono fatti tante guerre fra loro. Sarebbe utopistico aspettarsi che diventasse, in un futuro prevedibile, più culturale che commerciale, più cosmopolita che comunitaria, più comprensiva che arrogante, più accogliente che orgogliosa e, in fin dei conti, perché no, più socialista dal volto umano (nel senso che i dissidenti dell’ex Europa dell’Est, per esempio un Sacharov, davano a questo termine) e meno capitalista senza volto. L’Europa dei valori non permetterebbe che si chiedesse, per entrare nell’Unione Europea, di passare per la Nato: è un tipo di purgatorio che avrebbe rifiutato. È legittimo chiedere quale sarebbe l’“altra Europa” che si trova di fronte a queste alternative. Nella maggior parte dei cosiddetti “paesi dell’Est”, il post-comunismo non è ancora riuscito a “raggiungere” i regimi che si dicevano comunisti (come livello di vita e di produzione, scambi economici, sicurezza sociale, regime pensionistico etc.). Per citare solo un esempio: la Slovenia, uno dei nuovi stati meglio partiti, ha impiegato quasi otto anni per raggiungere la stessa Slovenia – la sua produttività – dell’inizio degli anni novanta. Questa considerazione non ha lo scopo di riabilitare le pratiche ben conosciute di un socialismo che si è autoproclamato “reale”. Le transizioni di questi paesi durano molto più a lungo del previsto. Riescono soltanto eccezionalmente a diventare vere trasformazioni. (Occorre distinguere meglio queste due nozioni: la transizione è basata su ipotesi, la trasformazione è un risultato). Il cattivo odore dell’ancien régime ristagna ancora in mol36 Predrag Matvejevic te zone del nostro continente e fuori di esso. Si tratta di una realtà che sembra già compiuta pur senza concludersi o raggiungere una forma accettabile. È una situazione difficile da sopportare e dalla quale non ci si riesce ad affrancare. Molti becchini si danno invano da fare, senza riuscire a sbarazzarsi delle spoglie. È un ruolo tutt’altro che gradevole. Più di un regime proclama in modo ostentato la democrazia senza pervenire a fornirne un’apparenza appena credibile: tra passato e presente si determina uno iato, tra presente e avvenire si svolge l’ibrido incontro tra un auspicio di emancipazione e un residuo di assoggettamento. Da più di otto anni, io chiamo questo non-luogo ambiguo con il nome di democratura. In alcune cose, e non fra le più importanti, abbiamo acquisito forse maggiore esperienza di quanto ne avessimo realmente bisogno: noi stessi, quasi, non sappiamo che farcene del superfluo. È difficile conquistare il presente senza aver dominato il passato. Difendendo la tradizione, ad un certo momento occorre difendersi da quello che essa contiene. Volevamo salvare la memoria, e ci rendiamo conto che occorre talvolta salvarci dalla memoria stessa. È facile convincersi che la colpa è soltanto degli altri: questo diventa un pretesto amorale, un modo per sminuire la propria responsabilità. Ci vengono offerte libertà delle quali non sappiamo oppure siamo tentati di abusare. Ci vengono imposte delle spartizioni, ma non c’è nulla da spartire. Nei Balcani e nei suoi dintorni c’è poco posto per le grandezze e gli ingrandimenti: per una Grande Serbia, per una Grande Albania, per una Croazia “fino alla Drina”, per una Bulgaria che inghiotta la Macedonia, per il ripristino di antichi regni e imperi, nostrani o stranieri. È difficile trasformare i resti in proprietà, specie se non si riesce a distinguere bene il mito dalla vittoria sul mito. I signori del mondo non permettono lo spostamento dei confini altrui per non essere costretti a spostare i propri. La frase “europeizzare i Balcani o balcanizzare l’Europa” non ha il medesimo significato in certe parti d’Europa e nei Balcani. 37 Culture e conflitto Posti sotto il monitoraggio del mondo, che ci sorveglia come si fa con i pupilli minorenni, cerchiamo di convincere noi stessi di aver raggiunto livelli d’indipendenza e sovranità non ancora meritati e di cui molti fra noi non sono degni. Tutto fa credere che le pressioni esterne, più che le tendenze interne, ci indurranno a più civili comportamenti nelle reciproche relazioni. Il presupposto per raggiungere tali traguardi non è più lo stato comune. Per il bene della stessa nazione, il nazionalismo deve liberarsi della propria zavorra che, sul finire di un secolo e di un millennio, nella parte più emancipata del mondo suscita disprezzo e repulsione, raramente pentimento o riscatto. La permeabilità dei confini e l’interscambio dei beni, gli incontri fra le persone, i contatti fra le culture, il flusso delle idee e delle esperienze, i confronti fra opere e creatori sono diventati criteri di civiltà. Essi non sminuiscono le identità né minacciano l’autonomia. Chi non è in grado di riconoscere tali criteri o li rifiuta con disprezzo è condannato a vivere di nuovo nel passato, nella sua parte più oscura. Sta a ciascuno di noi cercare il modo di “lavorare su sé stesso” e sui rapporti con gli altri. In qualche parte la cosa può forse riuscire più facile di quanto oggi possa sembrare, ma non sarà mai uguale dappertutto: Slovenia e Croazia, Croazia e Serbia, Serbia sola con se stessa e con gli altri, la Vojvodina con la Serbia o accanto a essa, il Montenegro e la Macedonia ciascuna a sé stante e insieme con i vicini. Non so come farà la Bosnia a riconciliarsi con la Bosnia. Il Kosovo, forse, non ci riuscirà mai con il Kosovo. Il ritorno al passato è soltanto una chimera, il ritorno del passato è una vera tragedia. Riprendere le forme più primitive del capitalismo selvaggio – che lo stesso capitalismo contemporaneo ha abbandonato – non può sostenere nessun tipo di ricostruzione né incoraggiare rinnovamenti. L’idolatria dell’“economia del mercato” dà scarsi risultati laddove manca lo stesso mercato e, qualche volta, fatalmente, la mercanzia! I risultati della democrazia borghese, che quelle democrature cercano di fare propri, non possiedono, nemmeno essi, valori universali. I riformatori trascurano questo fatto, le 38 Predrag Matvejevic loro conoscenze in materia sono limitate. C’è dunque da stupirsi se qualche volta i nostri discorsi sono così disperati? Probabilmente sono piuttosto disillusi che disperati. La Mitteleuropa è per sicuro uno spazio più sereno. Vi rimangono comunque le tracce e le cicatrici della storia moderna: i postumi della Guerra Fredda, l’incertezza del postcomunismo, le identità incompiute e l’irritabilità delle coscienze nazionali, il timore di una nuova egemonia esercitata dai vicini unita a un sentimento di impotenza, la natura degli stati che si sono appena formati e delle ideologie che riaffermano, i conflitti nazionali o etnici che hanno infuocato i Balcani e che rischiano di estendersi: tutti questi fattori sono doppiamente legati al passato e al presente. Non bisogna stupirsi se a volte l’Europa centrale si abbandona ai ricordi malinconici, lottando con difficoltà contro il provincialismo che la minaccia, mal preparata a dare un nuovo splendore alle tradizioni di un tempo. Da un lato l’Europa centrale non si lascia circoscrivere in una rappresentazione di se stessa. Dall’altro, una presa di coscienza della sua particolarità non si può fare se non all’interno dei suoi confini. Alcune sue componenti sono sentite più come “scorie della storia” che come “soggetti storici”. L’auto-identificazione centro-europea appartiene, in gran parte, alla sfera della memoria. Un riesame del passato ne risulta difficile. Le vecchie utopie che ancora incantano alcuni nuovi zelatori dovrebbero essere confrontate con i giudizi più realistici, formulati dagli spiriti critici appartenenti alla stessa Europa centrale. Il pensatore politico ungherese István Bibó, scomparso troppo presto per vedere il vero disgelo nel suo paese, ha formulato uno straordinario inventario “delle miserie dei piccoli stati dell’Europa centrale e orientale”, che ha potuto osservare nel corso del secolo scorso. Le sue diagnosi (che cerco qua e là di completare) sembrano conservare tutta la loro attualità anche dopo il crollo del comunismo. “Il carattere meschino e aggressivo del nazionalismo” riappare sotto varie forme, come “l’odio che queste nazio39 Culture e conflitto nalità provano l’una per l’altra”, oppure “le isterie comunitarie che restringono i loro orizzonti intellettuali”, accompagnate da dispute linguistiche “insensate e incomprensibili” o da “trovate arcaiche” tanto strampalate quanto infantili. A tutto questo si aggiungono una perpetua “tendenza all’irrealismo” e una premura di “formulare rivendicazioni e invocare prerogative”, diverse sorte di lamentele e di accuse reciproche, di manifestazioni pubbliche “subordinate esclusivamente a fini nazionali”, di fioriture di teorie e filosofie confuse “che sommergono la vita di queste comunità”, “un’eloquenza e un pensiero caotici, basati su false categorie”, “irresponsabilità nelle grandi questioni europee”, “simulazioni aristocratiche con un particolare gusto per la rappresentazione” e, in corollario, “un’appropriazione del paese da parte del nazionale, non accompagnata dalla liberazione dell’individuo”. Per violenta che sia, questa requisitoria non cessa di trovare conferma in alcuni paesi che gravitano intorno al centro dell’Europa. (Quando evocavo “queste convulsioni che colpiscono a tratti quasi l’intera comunità” e il cui trattamento dovrebbe costituire uno dei compiti più urgenti, mi fu chiesto, più di una volta, se István Bibó fosse ebreo.) Le caratteristiche che ha elencato non sono state prese in considerazione da quelli che, non molto tempo fa, si erano messi a difendere l’Europa centrale invocando i loro argomenti di circostanza. Occupata dai propri problemi organizzativi e dal suo allargamento verso l’Altra Europa, l’Unione Europea non dovrebbe dimenticare che il Mediterraneo è la culla della nostra civiltà. Purtroppo, questo mare assomiglia sempre di più ad una frontiera che si estende da Levante a Ponente per separare l’Europa non solo dall’Africa e dall’Asia Minore, ma anche dalle sue proprie sponde del Sud. C’è forse un interesse economico prevalente nei rapporti con i paesi europei più sviluppati, ma esistono ragioni profonde, storiche, culturali e tante altre per non lasciare il Mediterraneo ad un destino che non merita. Adesso, quattro paesi dell’Unione Europea si affacciano 40 Predrag Matvejevic sul Mediterraneo, ma nessuno di loro ha una politica mediterranea. Forse ciascuno percepisce in qualche modo la propria, ma non si sono mai concertati per definire una politica comune che possa essere opposta a questa griglia di lettura stabilita dal Nord: calvinista, protestante, germanica, continentale o semplicemente nordica… (non ho nulla contro ciascuna di queste entità, constato la loro differenza e, all’occorrenza, la loro inadeguatezza). Ed è questo che mi sembra pericolosissimo: un’Europa senza culla dell’Europa. L’immagine che offre il Mediterraneo non è affatto rassicurante. La sua riva settentrionale presenta un ritardo rispetto al Nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quella europea. Tanto a Nord come a Sud, l’insieme del bacino si lega con difficoltà al continente. Non è davvero possibile considerare questo mare come un “insieme” senza tener conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti che lo dilaniano: in Palestina, in Libano, a Cipro, nel Maghreb, nei Balcani, nell’ex-Jugoslavia. Le decisioni relative alla sorte del Mediterraneo sono prese al di fuori di esso o senza di esso: ciò ingenera frustrazioni e fantasmi. Le manifestazioni di gioia davanti allo spettacolo del Mediterraneo si fanno contenute e fugaci. Le nostalgie si esprimono attraverso le arti e le lettere. Le frammentazioni prevalgono sulle convergenze. Il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose, non riesce a diventare un progetto. La costa Sud mantiene le sue riserve, dopo l’esperienza del colonialismo. Entrambe le rive sono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti. La sorte dell’Est europeo non dipende più, come prima, dall’ex Unione Sovietica. Tuttavia, sono molti coloro che non smettono di interrogarsi sull’avvenire del nuovo stato russo e sull’influenza che potrà esercitare. Come sarà, in realtà, la Russia di domani? Tradizionale o conservatrice come un tempo, oppure moderna e liberale? “Santa” o profana, ortodossa o scismatica? Più “bianca” che “rossa” o viceversa? Meno slavofila che occidentalista? Sia europea sia asiatica? Più collettivista che “populista”? Mistica e messianica a modo suo, oppure laica e secolarizza41 Culture e conflitto ta? Una Russia che “non si può comprendere con l’intelletto”e nella quale “si può soltanto credere” (come diceva il poeta Tjutcev nel XIX secolo) o la Russia “dura” e “dal grande culo” (tolstozadaja) cantata da Aleksandr Blok? Con Cristo o “senza croce”? Una vera democrazia o una semplice “democratura”? Solo russa (russkaia) oppure “di tutte le Russie” (rossiskaia)? Quale che debba essere, dovrà comunque tener conto sia di quel che rimane dopo l’Unione Sovietica sia di ciò che in essa ha forse irrimediabilmente perduto. Gli Imperi caduti non vanno rimpianti. Pochi rimpiangeranno l’ordinamento che è crollato e l’ideologia che lo sosteneva. Rimangono, però, l’idea dell’emancipazione dell’uomo, sulla quale il “primo paese socialista” ha gettato un’ombra enorme, la volontà e l’energia, la fede e la speranza che tali idee hanno suscitato e sostenuto, e non solo in Urss, nel nostro secolo e nel periodo precedente. La Russia non può pensare la propria identità se trascura o sottovaluta tutto ciò. Sarebbe presuntuoso, e forse arrogante, concludere quest’argomento. È un compito che spetta alla Storia. 42 La scena contemporanea: paradossi etici e politici MARIELLA PANDOLFI Université de Montréal In un inquietante aforisma, Tacito ci ricorda che l’essere umano crea il deserto e poi lo nomina: “pace”. La nostra contemporaneità sembra particolarmente esposta al rischio di attivare e costruire deserti su paci instabili, su conflitti che, rompendo le regole delle guerre del XX secolo, vedono scontrarsi vicini contro vicini, gruppi etnici contro altri gruppi, religioni contro religioni, coinvolgendo sempre più civili che vengono torturati o uccisi, che vengono dislocati, espulsi, accuditi come corpi e non come individui in campi di accoglienza, in campi per i rifugiati, e poi rimpatriati più tardi per il solo fatto di essere stati identificati come appartenenti al gruppo sbagliato. Pur configurate come conflittualità interne e non infrastatuali, queste contemporanee ma anche molto antiche produzioni di violenza rompono oggi gli argini locali e regionali e, espandendosi, creano un inarrestabile “effetto domino”. Ma accanto a questi conflitti “etnici” che il linguaggio burocratico degli organismi internazionali, veicolato attraverso i media, trasforma in una catalogazione “rassegnata” della sofferenza umana, emerge un altro aspetto forse ancor più inquietante della nostra contemporaneità: quello della guerra umanitaria, della guerra giusta: l’intervento armato per “scopi umanitari”. Il conflitto in Kosovo ad esempio può rappresentare la prima guerra nei nuovi scenari globali1. Danilo Zolo ricorda che in un certo senso essa può essere considerata come una guerra nuova poiché: «È una guerra postnazionale caratterizzata da un’inedita miscela di etica e di politica globale, di generosità umani43 Culture e conflitto taria e di logica imperialista» (2000: 71-72). E in effetti, l’inedita miscela appare chiaramente nel sito web (28-ottobre 2003) intitolato Il ruolo della Nato in Kosovo, dove nella stessa pagina si può leggere: «L’intervento della Nato in Kosovo ha fermato una catastrofe umanitaria e restaurato la stabilità in una regione strategica» (28-ottobre 2003)2 e alcune righe dopo: «Le forze alleate nei 78 giorni di interventi armati sono state impiegate in oltre 38.000 azioni; 10.484 di queste azioni hanno impegnato bombardamenti aerei senza registrare alcuna perdita da parte delle forze alleate» (nostra traduzione)3. Possiamo quindi fare nostro il titolo provocatorio di un libro di Danilo Zolo sulla guerra in Kosovo, che ricorda una frase del filosofo Prudhon: “Chi dice umanità cerca di ingannarti”. Con Zolo possiamo affermare: «La disponibilità a dar credito alla motivazione umanitaria […] La qualificazione della guerra come intervento umanitario è un tipico strumento di autolegittimazione della guerra da parte di chi la sta conducendo. Come tale è parte della guerra stessa: è, in senso stretto, uno strumento di strategia militare diretto ad ottenere la vittoria sul nemico» (Zolo, 2000: 43). Non è di certo una scelta retorica quella di costruire queste riflessioni fra una frase di Tacito e una di Proudhon. Né vuole essere certo una lettura essenzialista sulla natura umana, ma un’attitudine critica e un invito alla prudenza quando si invocano il diritto/dovere di ingerenza e di conseguenza una frettolosa giustificazione della guerra come veicolo veloce per l’esportazione dei diritti umani e della democrazia. E ancor meno si tratta di assumere posture di pacifismo ideologico o preromantico4, ma le due frasi sembrano ben sottolineare i paradossi della nostra contemporaneità e mettono in risalto la “nebbia” che avvolge le parole come missione di pace, diritto/dovere di ingerenza, umanitarismo, bombe e cibo. Jean-Christophe Rufin (1999) ha considerato “l’avventura umanitaria” non solo linguisticamente, ma anche moralmente ambigua e David Rieff scrive: «Ci sono parole che hanno un potere magico, ma nessuna, alla fine di 44 Mariella Pandolfi quest’ultimo millennio incanta come la parola “umanitarismo”» (2003: 239). Molte sono le voci critiche che in questi ultimi anni si alzano a denunciare non solo gli orrori dei conflitti interetnici e dei genocidi, obbligandoci anche a riflettere sui pericoli dell’urgenza dell’azione umanitaria-militarizzata. Infatti la sindrome di “dover fare qualcosa” spesso occulta l’origine e la responsabilità delle cause, le responsabilità politiche e diplomatiche, gli interessi nazionali miopi, le incertezze delle nuove lobbies transnazionali che sembrano sempre più dominare la scena dei territori del post comunismo, polarizzando invece l’attenzione esclusivamente sugli effetti. La complessa partita degli interventi militari e umanitari, della guerra giusta o no, dopo l’11 settembre 2001 è profondamente cambiata, tuttavia possiamo rintracciare le radici del nuovo ordine mondiale già in alcune strategie politiche e militari nell’ultimo decennio che ha caratterizzato il secondo millennio. Probabilmente si può essere parzialmente in sintonia con Michael Ignatieff 5 (2003a, 2003b) quando ricorda che le immagini televisive sulle catastrofi umanitarie e sulle guerre contribuiscono oggi a rompere le frontiere del nostro spazio morale, quelle frontiere che nel passato erano costruite dalla cittadinanza, dalla religione, dall’etnia e senza le quali oggi dobbiamo confrontarci su una nuova comune frontiera di responsabilità. Ma questa comune responsabilità e forma di solidarietà ha oggi un’etichetta pass partout, quella dei diritti umani; esigenza moralmente nobile, ma che appare sempre più relegata ad un puro esercizio di retorica: nelle negoziazioni politiche, nei continui incontri bilaterali e multilaterali che caratterizzano le diplomazie internazionali, nei dibattiti e nei documentari sulle maggiori reti televisive del mondo. Bisogna essere estremamente cauti a non cadere nella trappola che gli stessi media tendono a riprodurre e a non lasciarsi convincere che la dimensione della testimonianza o la denuncia di un fenomeno (Rieff 2003) possano avere effetti reali. La cortina di retorica in cui sono imprigionati i diritti umani, infine, permette una sola azione: quel45 Culture e conflitto la della guerra giusta o preventiva, quella dell’intervento armato e in conseguenza la necessità, quasi sempre a posteriori, dell’intervento umanitario. La necessità di rendere tutto omogeneo nella sua tragicità, in un certo senso la necessità di semplificare e di rendere le storie che vediamo o che leggiamo moralmente e psicologicamente accettabili, tendono infine ad edulcorare l’orrore del mondo. E questo rischio esiste non solo a livello giornalistico, ma anche per studiosi che operano su questo palcoscenico della contemporaneità: quello di un’ambigua postura fra l’universalità dei diritti e l’universalità degli interventi armati per la protezione di questi diritti. Ancora Zolo, commentando Ignatieff (2003b) ricorda che oggi esiste anche il rischio di un “fondamentalismo umanitario”. È, infatti, nell’ultima decade del ’900 che in occidente si è progressivamente imposto il diritto internazionale umanitario (Bettatti 2000). L’assunzione filosofico-giuridica sottostante è che la tutela internazionale dei diritti dell’uomo, oggi deve essere considerata un principio di carattere prioritario rispetto alla sovranità degli Stati. La “sovranità esterna” di uno Stato – non diversamente dalla sua “sovranità interna”, esercitata nei confronti dei propri cittadini – non può essere considerata una prerogativa assoluta e illimitata, tanto più nel contesto di una società planetaria che i processi di integrazione rendono sempre più coesa e carica di interdipendenze funzionali. Quando un governo calpesta i diritti fondamentali dei suoi cittadini o commette crimini contro l’umanità, la comunità internazionale ha l’obbligo e il diritto di intervenire. Il mantenimento dell’ordine internazionale esige che a tutti gli Stati venga imposto un livello minimo di rispetto dei diritti dell’uomo. E sanzioni severe devono essere perciò previste a carico degli Stati che si rendano responsabili di persecuzioni delle minoranze religiose, razziali o etniche, di crimini di guerra, di assassinii o stupri di massa, di veri e propri genocidi (Zolo 2001). Ma facciamo un passo indietro e cerchiamo di ricostruire, se pur in modo frammentario, alcune tappe del nuovo ordi46 Mariella Pandolfi ne globale, che si delinea sul tramonto della guerra fredda e che, secondo noi, è alla base del profondo mutamento della sensibilità planetaria verso l’intervento umanitario e militare. Se facciamo un passo indietro e ci collochiamo intorno alla metà degli anni 80, possiamo identificare una data e un evento come il momento chiave della nascita di questa nuova sensibilità. Spesso viene ricordata la notte della caduta del muro di Berlino come la suggestiva data che ridisegna la cartografia degli equilibri del mondo. Anche se il muro di Berlino avrà conseguenze importanti non solo nella liquidazione dei regimi comunisti in crisi, ma nell’avanzamento della costruzione europea e soprattutto dell’unificazione della Germania, consideriamo importante un’altra data, spostata dall’altra sponda dell’Atlantico come un momento emblematico nelle strategie dei nuovi equilibri internazionali. Nel 1984 viene fondato dal Congresso americano l’Istituto della Pace, esattamente nel momento in cui le strategie internazionali della Guerra fredda, ormai superate, preannunciano un rapido declino, e pochi anni dopo l’impero sovietico si dissolve. La fondazione dell’Istituto interpreta, nei primi anni, il sogno di un nuovo ordine globale legato alla fine della battaglia dei Titani e, di conseguenza, tutte le strategie organizzative delle relazioni internazionali sviluppatesi attorno ad essa per oltre 50 anni diventano ormai obsolete, lontane. Nell’utopia dei filosofi, degli economisti, dei giuristi, dei politologi, lo scenario, in quegli anni, appare senza ombre. Con la fine della Guerra Fredda, l’Europa dell’Est avrebbe attraversato pacificamente la transizione verso la democrazia. Gli stati africani e dell’America latina, non più stretti nella guerra ideologica fra le due super-potenze, si sarebbero mossi verso un pacifico, anche se lento, sviluppo economico. I territori e gli stati dell’Asia avrebbero continuato su quell’onda economica, che dagli anni 80 aveva garantito una pacifica prosperità. Purtroppo, sappiamo in realtà come sono andate le cose. E il nuovo ordine globale si è delineato dopo alcuni anni in modo completamente diverso. La global security non sembra 47 Culture e conflitto appartenere solo al post 11 settembre 2001, ma essere già una conseguenza del tramonto dell’utopia della fine della “battaglia dei Titani”. Il risultato del brusco passaggio dall’utopia alla nuova realtà dei conflitti, in termini di ricerca di nuovi scenari che garantiscano la pace, possiamo forse leggerlo in filigrana nel titolo del volume che lo stesso istituto pubblica nel 1996, quindi 12 anni dopo la sua nascita. Solo 12 anni che vedono mutare lo scenario e venire meno questa utopia di spazi globali di pace. Managing global chaos (Gestire il caos globale) è un libro allora chiave per aiutarci a comprendere il sottofondo delle nuove strategie di pace (attraverso gli interventi armati), la coercizione “armata” alla pace, la legittimazione di attori “opachi” come la “global civil society”6 o la comunità internazionale e l’ambigua proposta di un “Lite Empire”7(Ignatieff 2003a), cioè un impero dall’impronta leggera. Il libro riflette su come intervenire quando ci si trova di fronte all’assenza di parametri adatti a contenere o a rendere intelligibili quelle esplosioni di violenze e conflitti che, spesso sommariamente, vengono identificate come prodotte da esplosioni culturali, o da risposte “irrazionali” sotto la pressione della globalizzazione. Il libro a nostro avviso rappresenta in modo emblematico, attraverso diagrammi e curve, la strategia del nuovo ordine mondiale: l’utopia della democrazia esportata e spesso forzatamente imposta attraverso ogni tipo di pressione e di incentivo neo-liberale, viene sostituita pian piano dal pragmatismo “del dover fare qualcosa”. L’azione militare-umanitaria prende allora tutto lo spazio della negoziazione: lo stato di eccezione e la necessità di agire sulla pressione dell’emergenza sono i parametri entro cui si distruggono e si ricostruiscono le “paci instabili”. Il libro dell’Istituto della Pace ci sembra illuminante: nel suo linguaggio politico/burocratico prevede le procedure che vanno messe in atto per gestire “il caos globale”. Nascono così le nuove definizioni della contemporaneità: la pace sostenibile, lo sviluppo sostenibile, la fragilità degli accordi, la difficoltà di coordinare le risposte internazionali, la resistenza alla riconciliazione o, 48 Mariella Pandolfi ancora l’ambigua demarcazione di quello che “tecnicamente” viene definito intervento armato parziale e tempestivo. In tempi inquieti, paci inquiete. Le analisi dei politologi contemporanei, soprattutto quelli delle più prestigiose Università degli Stati Uniti, analizzano diversi fattori che caratterizzano le cause dei conflitti nei nuovi scenari che hanno sostituito gli incauti ottimismi precedenti. Il primo è quello che si sviluppa all’interno di un sistema politico; ad esempio l’anarchia o il mutamento dell’equilibrio del Potere – come nella frantumazione dell’Unione Sovietica – le rivalità, egemoniche e regionali, la proliferazione delle armi, le reti della criminalità organizzata, la destabilizzazione dell’economia, la degradazione dell’ambiente. Un secondo fattore, ancora attribuibile a cause di destabilizzazione interna ad uno stato, è quello che mette in luce le diverse tensioni che esistono fra i diversi gruppi sociali e la potenziale conflittualità di queste tensioni. Ad esempio sono in una situazione di particolare “fragilità” e di potenziale violenza gli Stati considerati in “transizione”, cioè quei territori che sono in una delicata fase di passaggio verso una progressiva stabilizzazione di nuove regole democratiche, che nel linguaggio delle burocrazie internazionali vengono definite “institution building” e “enforcement law”. Ad esempio l’Albania, fino alla guerra del Kosovo, oppure l’implosione di uno stato o i conflitti etnico-politici e religiosi. Evidentemente il libro non sottolinea come, in questo tipo di situazione, gli interventi esterni possono provocare e riattivare tensioni secolari. Un terzo livello che viene evidenziato è quello della leadership, ad esempio figure di tiranni, come Milosevic o Saddam, o più in generale il declino della legittimità di un leader viene considerato come una causa potenziale di conflitti. Altro aspetto interessante, in questo percorso dal caos globale alle paci turbolente (Turbulent peaces è il titolo di uno dei capitoli del libro) è l’analisi di ciò che viene identificato come il ciclo della vita, degli interventi organizzativi in sostegno della pace nei conflitti internazionali. Un diagramma con una curva che si delinea attraverso 49 Culture e conflitto quattro livelli di interventi, sintetizzando in modo esemplare le immagini, i discorsi, le retoriche di commemorazione che siamo abituati ad ascoltare in un inquietante crescendo nell’ultimo decennio. L’esperienza che ci abita nel vedere, nel partecipare da vicino o a distanza la sofferenza di un conflitto, la violenza di un attentato appaiono spettacolarmente costruite e racchiuse in quel grafico i cui quattro livelli rappresentano: la pace stabile, la pace instabile, la crisi, la guerra. Questi sono attraversati da una curva, che parte dalla pace instabile, arriva alla guerra e ritorna, decrescendo alla pace instabile. A questi stadi corrispondono una serie di iniziative politiche, diplomatiche e militari messe a punto per la prevenzione dei conflitti: ad esempio nel momento in cui viene accertato il rischio di destabilizzazione si inviano esperti militari, economici o umanitari; si programmano incentivi economici e politici, si organizzano conferenze e incontri per la pace. Quando entriamo nello stadio di passaggio dalla pace instabile alla crisi, si trova l’altra fase diplomatica, quella delle mediazioni, delle negoziazioni, delle sanzioni, per arrivare infine, una volta scoppiata la violenza, alla fase del conflitto e alla “diplomazia coercitiva”, l’impiego militare del peace-making. Il picco della curva incomincia a diminuire quando si passa al peace enforcement, pace imposta dal trattato, dall’uso della forza, dalle sanzioni, dall’embargo delle armi. Nel passaggio dallo stato del conflitto ad uno stato di crisi post-conflitto, il peace-making viene sostituito dal peace-keeping, diminuzione delle truppe di guerra, sostituzione con le forze di pace multinazionali, forze militari di controllo della sicurezza e rimpatrio dei rifugiati, assistenza umanitaria. Infine, per ripassare dalla fase della pace instabile a quella stabile, si sviluppa tutta l’organizzazione della costruzione della pace del dopo conflitto, con l’assistenza umanitaria, le misure giuridiche dello stato di diritto, la creazione o la riconfigurazione di un governo, della società, delle infrastrutture. Inoltre, è opportuno ricordare la fase di riconciliazione nelle diverse istituzioni locali, nell’educazione, attraverso i media, la promozione dall’esterno di una società civile locale, 50 Mariella Pandolfi lo sviluppo economico, lo sviluppo dell’educazione e della formazione per tutte le misure preventive future. Il grafico è particolarmente inquietante per un antropologo, soprattutto se il suo terreno, come nel mio caso, coincide con questi territori a rischio: la standardizzazione delle procedure, infatti, in breve tempo cancella, spesso sotto l’etichetta dell’emergenza, (che accompagna tutte le fasi, le quattro fasi, dalla pace alla guerra e viceversa) ogni attenzione alla dimensione identitaria specifica di un gruppo etnico, religioso. O, ancor peggio, se presente in alcune delle procedure messe in atto, appare essenzializzata e banalizzata. Ad esempio la “riscoperta” del Kanun (il sistema giuridico consuetudinario presente nel nord dell’Albania e in Kosovo) attraverso giuristi o esperti arrivati in territori albanofoni nel decennio della “transizione”, ha di fatto screditato e annullato la possibilità di integrarne i principî etici, se non nel sistema giuridico, almeno nelle strategie sociali fra i diversi gruppi (Pandolfi 2000a,2000b, 2000c, 2002, 2003). Al di là di tutte le buone intenzioni, mi sembra che nel tipo di analisi proposto e di procedure attuate sia presente un doppio rischio. Il primo è quello di mostrare in modo preciso come nel nuovo ordine globale dell’ultimo decennio ci sia una tendenza a sostituire con procedure universali la specificità degli etno-conflitti, degli elementi sociali e culturali endemici ad una regione o ad uno stato, quindi in definitiva un’essenzializzazione che annulla ogni possibile lettura antropologica. Il secondo è quello di legittimare attraverso le procedure d’intervento una sorta di naturalizzazione del conflitto e della violenza, eliminando ogni possibile lettura sulle responsabilità delle politiche economiche, della povertà, sul controllo delle risorse, che potremo definire la rete che determina nei gruppi, nei territori, negli stati in crisi quella che Paul Farmer ha denominato “violenza strutturale” (Farmer 2001b). La deresponsabilizzazione e la naturalizzazione della violenza e del conflitto, che Jean-Cristophe Rufin (1999) attribuisce alla legittimazione progressiva che gli interventi umanitari-militarizzati hanno ottenuto dalla guerra del Kosovo in poi, creano paradossalmente una sorta 51 Culture e conflitto di visione preconfigurata, un protocollo standardizzato degli effetti e dei rimedi della violenza, effetti e rimedi che diventano esportabili da un lato all’altro del pianeta. In questa direttrice interpretativa potremmo forse collocare alcune figure del paradosso contemporaneo come quella del rifugiato, del clandestino, e delle azioni legate ad essi come quelle del diritto di asilo temporaneo e del riappatriamento “volontario” e/o “forzato”. Sono tutte figure della sofferenza umana apparse “tecnicamente” già intorno alla prima guerra mondiale e che, oggi, si nascondono ancor più numerose, dietro la neutralità della curva disegnata fra l’intervento di peace making e quello di peace keeping. La presenza di queste figure “burocraticamente definite”, e ancor più “burocraticamente assistite” non è dovuta solo all’esplosione improvvisa dei conflitti e delle guerre; spesso esse sono il risultato di una stratificazione di fenomeni che alimentano la violenza strutturale. Chi parte, ci ricorda Homi Bhabha (Pandolfi 1997), è già qualcuno che ha in sé la forza di andare via, di rischiare la vita su quelle che i media italiani amano definire “le carrette del mare”; chi parte o è costretto a partire non è ripiegato e rassegnato nella subalternità, ma rappresenta una minoranza che ha interiorizzato il rischio e la necessità dell’andare altrove. Ma l’ottimismo, se pur prudente per quel soggetto che Bhabha (1994) definisce post-coloniale, viene soffocato e paralizzato dalle maglie delle burocrazie internazionali preposte alla gestione del rifugiato. Il rifugiato è una figura che interroga criticamente l’ordinamento dello stato nazione, poiché, spezzando l’identità fra uomo e cittadino, fra nascita e nazionalità, mette in crisi l’idea stessa di sovranità. Possiamo fare nostra l’inquietudine presente in molte riflessioni di Giorgio Agamben (1995, 1996, 2003). Ricorda Agamben in un bellissimo saggio dal titolo We refugees (1995) che riprende il titolo di un saggio di Hannah Arendt (1943), poi successivamente integrato e ampliato nel suo libro Mezzi senza fine, la figura del rifugiato (e io direi anche delle altre figure senza cittadinanza) rappresenta l’inganno che dalla Rivoluzione francese ad oggi si è nascosto 52 Mariella Pandolfi dietro i diritti dell’uomo in quanto cittadino. Il paradosso della nostra contemporaneità, ricorda il saggio della Arendt (1943) ripreso da Agamben, è che per il rifugiato la sua esperienza di non essere più all’interno di un’identità nazionale e quindi in un certo senso posto fuori della Storia, riapre il libro della Storia. In un certo senso la vicenda tragica personale di un individuo o di un gruppo diventa avanguardia per un altro gruppo che potrà essere successivamente espulso. Basti dare uno sguardo sommario ad alcune leggi di denazionalizzazione dei propri cittadini che le nazioni europee hanno introdotto progressivamente a partire dalla fine della prima guerra mondiale: la Francia nel 1915, il Belgio nel ’22, l’Italia nel ’26, l’Austria nel ’35 (Agamben 1995). In parallelo sono stati istituiti dei comitati internazionali legati o ad uno stato nazionale, o alla società delle nazioni o più tardi alle Nazioni Unite per controllare, se non arginare, “umanitariamente” il fenomeno. Ad esempio il Bureau Nansen nel 1921 per i rifugiati russi e dell’Armenia, l’Alto Commissariato per i rifugiati dalla Germania nel 1936, fino alla figura costituitasi all’interno delle Nazioni Unite (1951) dell’Alto Commissariato per i rifugiati. Il paradosso, ci ricorda ancora Agamben, è che questi organismi non hanno dal punto di vista della loro legittimità giuridica un ruolo politico, ma solo umanitario (Agamben 1995). E questa categoria a-politica dell’Intervento umanitario, alimenterà nei decenni successivi molte delle ambiguità che lo stesso concetto di “sovranità” alimenta. Da qui tutte le procedure sovranazionali (giuridiche, militari, diplomatiche, umanitarie) che appariranno vie alternative e parallele per far fronte alla mancanza di strategie politiche forti: “corridoi della pietà” che spesso hanno dato vita ad altri tipi di occultamenti o ad altri abusi. In realtà il concetto di individuo, soggetto di diritto, acquista senso quando con esso si intende l’appartenenza a una identità nazionale; esso scompare, diventa assurdamente oggetto di strategie biopolitiche quando a quel diritto si somma la categoria della cittadinanza. Appaiono allora ambigue definizioni, legate all’umanità, alle vittime ma che diventano, 53 Culture e conflitto rinforzate dalla circolazione di immagini, definizioni legate alla corporeità dell’essere umano, a ciò che Fassin via Foucault e Agamben ha definito il pericoloso slittamento dalle politiche della vita a quelle dell’essere vivente (2000). Corpi da nutrire, accogliere, da curare, da salvare, soggetti di diritto da chiudere in campi di accoglienza, in zone di sicurezza, in ospedali costruiti ai confini delle catastrofi umanitarie. L’appartenenza ad uno stato nazione può anche portare a diventare una minoranza oppressa, ma finché persiste l’identificazione fra persona umana e cittadino, il ventaglio di diritto, almeno nelle norme giuridiche di uno stato, persiste. Le guerre, le tirannie, le persecuzioni, le leggi razziali degli anni ’30 o quelle in genere che vengono identificate con l’etichetta “speciali”; e infine anche le nuove leggi internazionali per la sicurezza spingono milioni di individui ad entrare nella zona grigia dell’essere umano non più cittadino; da quel momento tutto è più facile e più spaventoso nella semplice gestione dell’essere vivente (Fassin 2000). Appare ora forse più intelligibile questo mosaico dei paradossi che ho cercato di delineare, e che caratterizza impietosamente la nostra contemporaneità: l’esperienza tragica degli esseri umani e la catalogazione in strategie militari, politiche, di guerre e di pace della stessa esperienza tragica. La temporalità planetaria dell’informazione e delle immagini ci ha tolto bruscamente ogni illusione, ogni derogazione “strategica” o “retorica” per interpretare o giustificare la violenza: le fotografie dei prigionieri iracheni ci raccontano oggi brutalità che esistono da sempre; ma la differenza è che nella loro circolazione simultanea e veloce creano un effetto intenso, breve, traumatico, che annulla lo spazio dell’elaborazione e della reale presa di coscienza. Ed anche questo può essere l’ultimo paradosso che gli scritti di Paul Virilio (1984) ci hanno indicato. L’intensità e la simultaneità di un’informazione da un lato strappa ogni “garza” difensiva, dall’altro fa in modo che l’intrusività dell’immagine blocchi ogni processo di elaborazione e coscienza che di per sé è doloroso e lungo. Tutte le categorie del nuovo ordine mondiale proposte nei protocolli degli accordi bi e multi laterali, negli incontri del 54 Mariella Pandolfi G8, o in altri forum internazionali (Davos, Aspen o quelli in apparenza alternativi) come pace sostenibile, sviluppo sostenibile del commercio equo ma anche diritto e dovere all’ingerenza, necessità di un globalismo giuridico, al di là delle buone intenzioni, sembrano dimenticare che a ogni esplosione di conflitti preesiste una violenza strutturale, legata a molte forme di dominio, a vecchi e nuovi colonialismi su cui oggi, più che ieri, è imperativo riflettere. Il globalismo giuridico, ad esempio, è una prospettiva piena di buone intenzioni, legata in ultima analisi alla filosofia del managing global chaos, poiché dove si introduce la strategia del peace-making, si introduce la necessità di creare istituzioni sovranazionali coercitive ma la cui realizzazione o semplice utopia rischia ancora una volta di edulcorare e diluire nel quadro di riferimento planetario antiche e violente responsabilità. Oggi appare evidente che sono i giusglobalisti a vincere, poiché nella difesa della tutela dei diritti universali dell’uomo, propongono che alla giurisdizione locale si sostituisca progressivamente una giurisdizione sovra nazionale con il compito di garantire, anche militarmente, ciò che Danilo Zolo definisce “l’ordine cosmopolitico giusto e pacifico” (Zolo 1998: 15). E, in accordo con Zolo, possiamo affermare che l’idea kantiana del diritto cosmopolitico (welbürgerrecht) – e il suo universalismo – viene oggi immaginata come un ordinamento giuridico che tenda a coinvolgere l’intera umanità e assorba in sé ogni altro ordinamento. Di conseguenza si dovrebbe assistere ad una progressiva omologazione dei diritti consuetudinari o specificamente nazionali, ad una progressiva necessità di azzerare le diverse tradizioni culturali legate alle norme giuridiche in una visione di una maturità giuridica sovranazionale. Progetto ambizioso e di certo pieno delle migliori intenzioni, ma che si trasforma molto facilmente nella pratica in un’imposizione brutale del diritto dei forti sui deboli. Anche se il globalismo giuridico può diventare un implicito controllo per forme di potere tiranniche, di genocidi espliciti o nascosti da abili norme domestiche, che abbiamo precedentemente esposto, non bisogna dimenticare che il carattere ecumenico e universale di questi può indurre facilmente a due tipi di rischi. 55 Culture e conflitto Il primo è quello che Giorgio Agamben (2003) ha sottolineato lungo il corso delle sue ultime opere come il nuovo sistema giuridico politico che si instaura sulla scena globale: lo stato di eccezione, (Agamben 2003) paradigma di una nuova forma di governo globale e punto di disequilibrio fra il diritto e la politica che dall’11 settembre appare pericolosamente intrecciato con categorie e pratiche che dovrebbero escludersi, ma che paradossalmente appaiono contigue, come ad esempio le esportazioni dei diritti umani universali, della democrazia e le procedure di controllo e di “sicurezza”, il globalismo giuridico e lo stato di eccezione come norma stabilizzata e perennemente invocata. Il secondo rischio, punto finale nelle nostre riflessioni, su cui vale ancora la pena soffermarsi riguarda le regole o le utopie universalizzanti che inducono a dimenticare la violenza strutturale, la quale costituisce spesso la radice di altre forme di violenza. Molti sono gli antropologi che si interessano al tema della violenza strutturale. Ogni autore ha una lettura specifica della violenza strutturale, ma tutti concordano nel sottolineare come nel mondo contemporaneo coesistano vecchie e nuove forme di schiavitù. (Das 2001, Farmer 2001b, Mbembe 2001, Escobar 1994, Héritier 1996; 1999). La violenza strutturale può essere intesa come ogni tipo di repressione di natura fisica o psichica capace di creare terrore, capace di spostare dalle loro case gli esseri umani, capace di creare sofferenza o morte in tutti gli esseri animati. Tutte le ingiustizie sociali, dalla povertà alla violenza sui minori, alimentano la violenza strutturale. Lo ricorda anche Françoise Héritier in un interessante seminario diretto per alcuni anni al Collège de France e poi diventato un volume estremamente suggestivo ed illuminante. La violenza strutturale costituisce l’espressione quasi ontologica di un ordine politico-economico, che sembra da sempre accettare che gli esseri umani, almeno nelle pratiche, non hanno gli stessi diritti. Le radici lontane della schiavitù quelle più recenti dello sfruttamento del lavoro dei bambini, la disuguaglianza di fronte al diritto alla salute e alla qualità 56 Mariella Pandolfi della vita sono le basi da cui partire, e non quelle da dimenticare nell’orgia di retoriche che coinvolge i signori della guerra, della pace, le corporazioni internazionali e i movimenti noglobal. Ogni G8 termina con un inno alla vittoria sulla povertà, ogni incontro nelle sedi periferiche o centrali delle Nazioni Unite produce risoluzioni in cui si parla del diritto all’educazione, alla diversità culturale, alla lotta contro le epidemie contemporanee, ai diritti umani universali, alla pace, alla democrazia. Ma in realtà gli effetti di questa corsa ad una retorica della pietà universale per legittimarsi in sede locale sembrano essere quelli di occultare, piuttosto che di risolvere, i problemi legati alla violenza strutturale. Non vogliamo di certo considerare una riunione del G8 sullo stesso piano dei movimenti, anche perché, almeno nell’agenda propositiva, questi ultimi riaffermano la necessità di ritornare ad un’identificazione precisa delle cause e non a tamponare gli effetti della sofferenza umana. Lo sguardo antropologico può fare molto per riorientare la direttrice etico-politica verso le cause endemiche della violenza strutturale. L’artigiano delle pratiche locali può riorientare le voci dissonanti dell’indignazione umana verso gli elementi concreti che conducono alle radici della violenza. Può indurre, se non a ritrascrivere, almeno puntualmente a correggere “l’ ordine del Discorso” (Foucault 1971). Note: 1 L’attenzione mediatica di tutta la comunità planetaria alla “sofferenza a distanza” ha legittimato progressivamente la categoria “intervento”; le tecnologie e la messa in pratica dei diversi tipi di intervento, e quindi la necessità politica di una critica o di un controllo, sono state occultate dalle immagini che hanno attraversato il mondo. Pensiamo nel ’91 agli Albanesi in fuga dal loro paese, isolato per 50 anni: migliaia di corpi umani aggrappati alle paratìe delle navi cercando di attraversare la sponda del mare Adriatico in cerca dell’occidente (in quel caso l’Italia); pensiamo alle immagini del ’99 quando le televisioni di tutto il mondo hanno tra- 57 Culture e conflitto smesso i 500.000 Albanesi del Kosovo, cacciati o in fuga, che cercavano rifugio in Macedonia, in Albania. Queste immagini hanno prodotto un consenso quasi generalizzato all’intervento; e di conseguenza un silenzio assenso per le procedure utilizzate e una legittimazione politica, economica e giuridica per “gli esperti” militari e umanitari. 2 “Nato intervened in Kosovo to halt a humanitarian catasthrophe and restore stability in a strategic region”. 3 The alliance held togheter during 78 days of air strikes in wich more than 38,000 sorties – 10,484 of them strike sorties – where flown without a single allied fatality. 4 La categoria pacifismo appare per la prima volta nel 1901 (Verdiana Grossi, Le pacifism européen 1889-1914. Bruxelles, Bruylant 1994). Tuttavia, come ricorda Marc Angenot nel suo libro L’antimilitarisme idéologie et utopie, il progetto di pace universale risale al 1713 con le Projet pour rendre la paix perpétuelle en Europe elaborato dall’abate di Saint-Pierre e più tardi da Kant (1795) con il suo scritto sul progetto di pace universale e sulla formazione di una società delle nazioni. 5 Michael Ignatieff negli ultimi anni è passato dal ruolo di scrittore e giornalista intelligente e indipendente a quello più accademico e riconosciuto internazionalmente e in ultima analisi più conforme alla policy degli Stati Uniti. La sua posizione rispetto all’intervento militare, al diritto dovere di ingerenza, alla guerra giusta, alla responsabilità morale appare sempre più ambigua e direi conformista, adeguandosi ai ruoli che il riconoscimento internazionale gli ha dato. Da membro della commissione indipendente sul Kosovo e direttore del Carr Center of Human Rights Policy dell’università di Harvard, Ignatieff prende posizioni prudenti e spesso contraddittorie. Ne è un esempio la sua posizione sulla guerra in Iraq. Vedere gli articoli sul New York Times apparsi nell’ultimo anno. 6 L’autore ha scelto di lasciare nel saggio alcune parole in inglese, e precisamente quelle utilizzate sempre nella lingua inglese dai siti web delle organizzazioni internazionali. 7 Lite Empire è un’egemonia senza colonie, una sfera d’influenza globale senza il fardello dell’amministrazione diretta […] È un impero privo? (Mio il punto interrogativo) della consapevolezza di esserlo. (Ignatieff, 2003: 12). In Bosnia, in Kosovo, in Afganistan e ora in Iraq la categoria “costruzione di una nazione è in realtà un laboratorio dove si sperimenta il “lite impero”. Sul «New York Times» del 10 gennaio 2003 Ignatieff scrive: «The core beliefs of our time are the creations of the anticolonial revolt against empire: the idea that all human beings are equal and that each human group has a right to rule itself free of foreign interference. It is at least ironic that American believers in these ideas have ended up supporting the creation of a new form of temporary colonial tutelage for Bosnians, Kosovars and Afghans – and could for Iraqis. The age of empire ought to have been succeeded by an age of independent, equal and self-governing nation-states. But that has not come to pass. America has inherited 58 Mariella Pandolfi a world scarred not just by the failures of empires past but also by the failure of nationalist movements to create and secure free states – and now, suddenly, by the desire of Islamists to build theocratic tyrannies on the ruins of failed nationalist dreams. Those who want America to remain a republic rather than become an empire imagine rightly, but they have not factored in what tyranny or chaos can do to vital American interests. The case for empire is that it has become, in a place like Iraq, the last hope for democracy and stability alike. Even so, empires survive only by understanding their limits. Sept. 11 pitched the Islamic world into the beginning of a long and bloody struggle to determine how it will be ruled and by whom: the authoritarians, the Islamists or perhaps the democrats. America can help repress and contain the struggle, but even though its own security depends on the outcome, it cannot ultimately control it. Only a very deluded imperialist would believe otherwise». Riferimenti bibliografici Agamben, G., 1995, Homo sacer. Il potere sovrano e la vita nuda, Einaudi, Torino Agamben, G., 1995, “We refugees”, «Symposium» Summer 49, 2 Humanities Module Agamben, G., 1996, Mezzi senza fine. Note sulla politica, Bollati Boringhieri, Torino Agamben, G., 2003, Stato di eccezione, Bollati Boringhieri, Torino Angenot, M., 2003, L’antimilitarisme: idéologie et utopie, Les presses de l’Université Laval, Quebec Arendt, H., 1943, “We Refugees”, «The Menorah Journal», 31 Bettatti, M. (a cura), 2000, Droit humanitaire, Éditions du Seuil, Paris Bhabha H., 1997, The location of Culture Blackwell, London Boltanski, L., 1993, La souffrance à distance. Morale humanitaire, médias et politique, Paris, Métailié Crocker, C. A., Hampson, F. O., Aall, P. (a cura), 1996, Managing global chaos: sources of and responses to international conflict, United States Institute of Peace Press, Washington Daniel, E. V., 1997, Charred Lullabies. Chapters in an Anthropography of Violence, Princeton Un. Press, New Jersey 59 Culture e conflitto Das, V., 2001, Remarking a World: Violence, Social Suffering, and Recovery, University of California Press, Berkeley Escobar, A., 1994, Encountering Development: the Making and Unmaking of the Third Word, Princeton University Press Farmer, P., 2001a, “Une réalité horriblement intéressante”, «Le Monde», 10 novembre Farmer, P., 2001b, “La violence structurelle et la matéralité du social”, Conférence inaugurale au Collège de France, 9 novembre Farmer, P., 1999, Infections and Inequalities: The modern Plagues, University Of California Press, Berkeley Foucault, M., 1971, L’order du discours, Gallimard, Paris Heritier, F., De la violence, vol. I (1996), Paris Éditions Odile Jacob Ignatieff, M., 2003a, Empire lite: nation building in Bosnia, Kosovo, Afghanistan, Vintage, London Ignatieff, M., 2003b, Una ragionevole apologia dei diritti umani, (con un intervento di D. Zolo: Fondamentalismo umanitario), Feltrinelli, Milano Mbembe, A., 2001, On the Postcolony, University of California Press, Berkeley Pandolfi, M., 2003. “Contract of Mutual (In)Difference: Governance and Humanitarian Apparatus in Contemporary Albania and Kosovo”, «Indiana Journal of Global Legal Studies», 10, 1 Pandolfi, M., 2002, “Moral Entrepreneurs, souverainetés mouvantes et barbelé le bio politique dans les Balkans post-communistes”, «Anthropologie et Sociétés. Spatial Politics in Play», special number edited by M. Pandolfi and M. Abélès, 26, 1 Pandolfi, M., 2000a, “Une souveraineté mouvante et supracoloniale. L’industrie humanitaire dans les Balkans”. «Multitudes», 3 Pandolfi, M., 2000b, “The Humanitarian Industry and the Supra-Colonialism in the Balkan Territories”, in «Text Book. Social Analysis 28 Culture, Illness, and Healing: A Cross-Cultural Comparison of Medecine in Society», 60 Mariella Pandolfi Harvard University, Medical School, Boston Pandolfi, M., 2000c, “Disappearing Boundaries: Notes on Albania, Kosovo and the Humanitarian Agenda”, «Psychosocial Notebook», special number «Psychosocial Approach in War Torn Societies», Geneva: International Migration Organization, vol. 1 Rufin, J.-C., 1999a, “Pour l’humanitaire. Dépasser le sentiment d’échec”, «Le Débat», 105 Rufin, J.-C., 1999b, “Les humanitaires et la guerre du Kosovo”, «Le Débat», 106 Virilio, P., 1984, Les espaces critiques, Burgois, Paris Zolo, D., 2004, Globalizzazione. Una mappa dei problemi, Laterza, Roma Zolo, D., 2001, «Diritto internazionale e guerra umanitaria» Giano, Pace ambiente problemi globali, gennaioaprile, 37 Zolo, D., 2000, Chi dice umanità. Guerra, diritto e ordine globale, Einaudi, Torino Zolo, D., 1998, I signori della pace. Una critica del globalismo giuridico, Carocci, Roma Zolo, D., 1995, Cosmopolis, Feltrinelli, Milano 61 Transizioni antropologiche* ENZO SCANDURRA Università di Roma “La Sapienza” Il termine, la parola, “conflitto” evoca e suscita immagini e sensazioni diverse, perfino contrapposte. Noi tutti abbiamo vissuto e sperimentato gli “anni di conflitto”, quando ci siamo contrapposti ai nostri genitori, al padre, alla madre, alla scuola, al mondo degli adulti, alla società incomprensibile e violenta. Dovevamo crescere, e senza conflitto con i “padri” non si cresce. Il conflitto, dunque, è anche una fase necessaria per la costruzione del proprio “io” o, come si dice oggi, della propria identità. Quando abbiamo iniziato a contrapporci ai nostri genitori, alle persone vicine, ci siamo dovuti “allontanare” da loro, cercare altri che, come noi in quel momento, percorrevano lo stesso sentiero; abbiamo allora cercato accoglienza alle nostre idee e alle nostre ansie di cambiare il mondo in comunità confortevoli, nei gruppi, nei partiti politici dove abbiamo iniziato a socializzare le nostre esperienze individuali. Ma lì abbiamo scoperto altri e più complessi conflitti, da quelli “interni” per far valere le proprie idee e i propri punti di vista con i compagni, a quei conflitti della società declinanti in odi razziali, discriminazioni, emarginazioni e, infine, guerre. In modi semplici, potremmo dire che ogni conflitto è generato dallo squilibrio, dalla distanza che separa ciò che vorremmo (essere) e ciò che realmente è, tra ciò che vor* L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 63 Culture e conflitto remmo fosse il mondo e ciò che esso è realmente. Gli utopisti, come Fourier, Godin, Saint-Simon, disegnavano e progettavano città fantastiche e armoniose che avrebbero dovuto funzionare in assonanza con le loro idee sul mondo, in contrapposizione all’avanzata di paesaggi industriali devastanti, di condizioni di vita urbana inaccettabili. C’è una frase di Camus, che stigmatizza assai bene questo genere di conflitto. La frase è tratta dal libro: Il rovescio e il diritto che egli scrisse all’età di 22 anni. A distanza di tempo, passati ben 23 anni, Camus, spiegando le ragioni per cui non ha più messo mano a questo scritto quasi adolescenziale, dirà: «I segreti più cari, li sveliamo troppo nell’impaccio e nel disordine; li tradiamo sotto un travestimento troppo affrettato. È meglio aspettare di essere esperti nel dar loro una forma, senza cessare di farne intendere la voce, di saper unire in dosi quasi uguali natura e arte; di essere infine». E poi aggiunge: «Semplicemente il giorno in cui si stabilirà l’equilibrio fra quel che sono e quel che dico, quel giorno forse, e oso appena scriverlo, potrò costruire l’opera che sogno». Ecco, Camus, a mio parere, rappresenta assai bene uno di quei conflitti più profondi dell’uomo: l’equilibrio tra ciò che si è e la sua rappresentazione pubblica. Noi uomini (e donne) trascorriamo la nostra vita a tentare di rappresentare – quasi sempre lo facciamo inconsapevolmente – il mondo e noi stessi nel mondo. Diventati scienziati, economisti, ingegneri, avvocati, ma anche operai e ciabattini, fornai, utilizziamo la nostra esperienza di vita per costruire immagini del mondo: lo hanno fatto in forma sistematica gli scienziati, i poeti, i preti, gli scrittori, i politici. Abbiamo costruito mappe potenti; l’Occidente ha costruito la propria potenza militare, politica, economica, culturale, scientifica proprio perché, più di altre civiltà, ha saputo elaborare linguaggi potenti (si pensi alla matematica o alla fisica) attraverso i quali sviluppare tecnologie e affermare la propria “superiorità”. Ma, come dice Camus: «Sì, nulla impedisce di sognare, anche nel tempo dell’esilio, poiché questo almeno so, di scienza certa, che un’opera umana non è nient’altro che que64 Enzo Scandurra sto lungo cammino per ritrovare, con i sotterfugi dell’arte, le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto (corsivo mio). Ecco perché, forse, dopo vent’anni di lavoro e di attività, io continuo a vivere con l’idea che la mia opera non sia nemmeno cominciata». Le due o tre immagini semplici e grandi sulle quali una prima volta il cuore si è aperto… In un certo senso potremmo dire che tutto il conflitto degli uomini (e delle donne) consista proprio nel disequilibrio tra il desiderio e le passioni (consapevoli o no, non importa) di realizzare queste due o tre immagini semplici e grandi e le difficoltà, gli ostacoli, gli impedimenti che vi si oppongono: il conflitto tra la città terrena nella quale viviamo e la città ideale che vorremmo. Non è infatti facile fare quello che dice Camus. Per esempio Karl Marx ha speso una vita (e migliaia di pagine) per tentare di capire, rappresentare ciò che si opponeva al desiderio autentico degli uomini di realizzare se stessi e ciò che ostacolava il loro tentativo. Leopardi ne ha “cantato” l’impossibilità senza tuttavia mai rassegnarsi; Cristo, usando la sola parola, ne ha diffuso l’universalità per tutto il genere umano, provocando una vera e propria rivoluzione antropologica. Oggi, queste due o tre immagini semplici e grandi paiono scomparse dal sogno del genere umano, o almeno oggi sembrano prerogative esclusive di coloro i quali pensano che un mondo diverso è possibile. Alcuni ci vorrebbero convincere che esse semplicemente non esistono, ma che anzi è la guerra lo strumento più adatto a controllare e governare una specie vivente primitiva, mossa solo da pulsioni distruttive e autodistruttive. Il bene comune – costoro ci dicono – fa letteralmente a pugni con l’interesse dei singoli (la tragedia dei comuni di Hardin) e dunque tanto vale accontentarsi di questo mondo possibile, attraversato da guerre sanguinose e civili (perché tutte le guerre sono guerre civili, ci ricorda Pavese nelle ultime righe de: Prima che il gallo canti), scon65 Culture e conflitto volto da odi razziali, dalla cultura del sospetto, dall’inganno, governato da dispositivi dis-umani che controllano le nostre esistenze. La vita quotidiana, la nuda vita – quella descritta da De Certeau, fatta di espedienti, emozioni, desideri, passioni – è marginale, privata, inutile e fa parte dell’esistenza dei deboli e dei senza voce. La specie umana è altro; altro da sé, verrebbe voglia di dire; ovvero essa è destinata a dominare la natura, ad affermare la legge del più forte, a sopprimere ogni voce dissonante da quella del potere dominante, a omologare l’abbondanza del mondo e, se possibile, a trasformarla in merce. Ma sono (siamo) in molti a pensarla diversamente. Che cos’è in fondo l’antropologia se non lo studio e la ricerca incessante del rapporto tra la “natura” dell’uomo desiderante e colmo di passioni e ciò che esso diviene per effetto dei dispositivi di sistema, sociali, storici, culturali, economici? Cos’è che distingue l’uomo occidentale – uomo razionale, calcolante, economico – dall’aborigeno australiano? E cos’è, al contrario, che li unisce sotto l’unica voce di “specie vivente umana”? Cos’è moderno e cos’è arcaico e primitivo? Credo che quei grandiosi concetti elaborati dall’Occidente, come Sviluppo, Benessere, Civilizzazione, Progresso, Ordine, Razionalità, Universalità, Diritto, Norma etc., andrebbero interamente ri-visitati e ri-grammaticati in una nuova visione antropologica. L’uomo, come entità ontologica, non esiste. Insomma, come dice Barcellona, mentre il cavallo coincide con la cavallinità e così per tutti gli animali, l’umanità non coincide con l’uomo e noi non coincidiamo mai con noi stessi e non sappiamo in cosa consista il nostro essere al mondo. Darwin ci ha consegnato una storia evolutiva di questa particolare specie che ha iniziato a svilupparsi a partire dalla scomparsa dei dinosauri. Una storia casuale, fatta di biforcazioni imprevedibili e irreversibili e accidenti ancor più imprevedibili, dall’homo erectus fino alla forma evolutiva sapiens. Questa specie – poco adatta a sopravvivere nell’ambiente naturale – è provvista (ha sviluppato) passioni incontenibili, un singolare miscuglio di psiche, anima e spirito, un corpo 66 Enzo Scandurra indissolubilmente legato ad un’anima al punto che, almeno nell’Occidente, la questione non è più, come ai tempi di Marx, la pura sopravvivenza, quanto piuttosto l’eccedenza del desiderio rispetto alla sopravvivenza e all’autoconservazione. Gli uomini (le donne) si realizzano e diventano tali in quanto vengono a contatto con l’ambiente sociale – la città dove si apprende a vivere – con la sfera pubblica-sociale, poiché senza l’appartenenza a qualcosa, a una comunità, a un linguaggio, a una patria, ci sarebbe Babele: ognuno pronuncerebbe “parole e suoni”, ma nessuno sarebbe sicuro di essersi inteso con gli altri. In tal senso la globalizzazione – mi riferisco più particolarmente ai suoi aspetti più prettamente economici – è l’astrazione della società poiché essa oltre ad omologare le diversità viventi, produce una moltitudine di atomi sociali. La transizione antropologica cui stiamo assistendo è proprio questa: la distruzione del legame sociale, la soppressione di ogni forma di appartenenza e dipendenza, di ogni solidarietà, la riduzione ad unicum dell’abbondanza del mondo, l’annientamento della sfera simbolico-affettiva, la regressione dell’individuo sociale ad atomo vivente che vaga nella infinita libertà di uno spazio indifferenziato, senza più vincoli. Paesaggi di questo genere riscuotono molto successo nella sociologia, nell’antropologia, nell’urbanistica. Libertà senza più vincoli, fine della Storia, della Politica, sradicamento dallo spazio, libertà dei consumi, potere dello zapping, di scorrere la storia del mondo in forma di immagini stereotipate e false. Città La città moderna, ovvero l’idea moderna della città, una città governante, commerciale o industriale, organizzata sui concetti di ordine, regolarità, pulizia, eguaglianza e buon governo, nasceva su questa ipotesi di annullare i conflitti. Ma questa idea, questa immagine è stata irreversibilmente consegnata alla storia passata trasformandosi, ora, in qualcosa di assai diverso che 67 Culture e conflitto facciamo fatica a rappresentare, descrivere, a raccontare. Le nostre discipline, i nostri saperi organizzati, i nostri apparati concettuali, categoriali, strumentali, sono stati capaci di produrre un’idea e un tipo di città corrispondenti ad una visione del mondo basata sui grandi concetti e paradigmi del Novecento: lo Sviluppo, l’Universalità dei diritti, il Lavoro, la Fabbrica, le Residenze, lo Stato sociale, la Famiglia, la Libertà. Ancora persiste nei nostri pensieri e nelle nostre idee l’ideale di questa città (emblematicamente rappresentata dal geometrico dipinto del Laurana che, guarda caso, è privo di abitanti): città efficiente nei servizi e nei trasporti, città razionale organizzata sulla separazione delle funzioni, città democratica che consente a tutti il libero accesso ai beni comuni, città di pietra, secondo la cartesiana separazione tra hardware e software, contenitore e contenente, corpo e mente. Al centro di questa città si situava e si erigeva il Soggetto Moderno, il Cittadino, soggetto razionale, detentore e portatore di diritti universali, membro di diritto della Società e dello Stato Nazione; oggetto e fine di questa organizzazione spaziale e sociale era la produzione di merci, di beni materiali finalizzati all’allargamento del concetto di Benessere e di Progresso. Ma la città moderna, nell’immaginario dei nostri pensieri riflessi sulla città (la città e la non-città, la città e la campagna etc.), altro non è che una delle possibili visioni del mondo, anzi dei suoi principali Autori, talvolta dei suoi Committenti, altre volte dei suoi Esecutori – architetti e urbanisti – che al più, attraverso i loro disegni, sono riusciti a fissare qualche brano, qualche tratto, qualche stupenda architettura, qualche intuizione, qualche movimento, qualche vibrazione, subito assorbiti, sussunti, incorporati dalla oscillazione della città vivente. Eppure che la città moderna non fosse un cristallo dagli angoli netti, dalle superfici distinte e levigate, dagli spigoli vivi, che non fosse il paradiso in terra, lo avevano detto in molti: da Poe a Dickens, da Baudelaire a Benjamin e poi Zola, Hugo, Apollinaire, Dos Passos, Leopardi, fino alle raffinate e complesse rappresentazioni di Calvino che riuscivano, ad un tempo, a produrre immagini solide quanto evanescenti e labili. 68 Enzo Scandurra La città – il luogo dove si produce socializzazione e dove si apprende a vivere insieme – nasce come luogo del conflitto e della paura. Carlo Maria Martini ci ricorda che la prima città viene attribuita a Caino ed è fondata sulle difese e sulle vendette incombenti: la città si cinge di mura. La seconda città è quella di Babele, città della superbia e della sfida a Dio. Sodoma è la terza città, così come la quarta è Gerico le cui mura saranno distrutte e sarà rifondata sui cadaveri dei due ragazzi uccisi. La città resta la meta del cammino umano e non la campagna, poiché, ci ricorda Martini, l’antitesi della città biblica non è la campagna, ma il deserto che tutto divora. Nancy, in uno dei suoi ultimi libri, La città lontana, descrive, come uno dei possibili scenari di città futura, Los Angeles. E Los Angeles, in effetti, rappresenta per molti aspetti il paradigma postmoderno del gigantismo urbano prodotto dal capitalismo globale; rappresenta l’estremizzazione di quel fenomeno che, in Italia, viene chiamato “città diffusa”, la vocazione naturale verso la dispersione e l’atomizzazione di ogni manifestazione comunitaria; il trionfo del privato sul collettivo, dell’individualismo feroce e della libertà assoluta senza più vincoli. Per altri versi, Los Angeles è la città-bricolage composta da moltissime e diverse etnie che stringono alleanze occasionali per fronteggiare altre etnie. L’astrazione metropolitana assume a Los Angeles una dimensione simbolica tale da rievocare il pensiero disperante di Tronti quando afferma che «La condizione nostra contemporanea è: attesa senza speranza, vocazione senza credenze, fede senza etica, più precisamente fede politica senza valori etici, volontà senza possibilità di decisione, “parlare a nome di” una parte, senza più un fine ultimo, ma perché, almeno per noi, ormai così deve accadere». E infatti così Nancy descrive Los Angeles: «Cavi, condutture, fili e tubi, rumori e frastuoni, fluidi e segni strisciano lungo tutte le strade, risalgono nelle intercapedini o nelle trombe delle scale, fin sui tetti e sotto le porte. Correnti, forze, spinte circolano in tutte le direzioni, trasferimenti di energia, di informazione, di cibo, di cure, di sorveglianza, di manutenzione. […] Non è una pianta, 69 Culture e conflitto né un grande animale, né un tempio, né un’abitazione: è una concatenazione di mezzi senza fine». Nancy, J., 2002, La città lontana, Ombre Corte, Verona L’innesto violento tra tecnologia (l’area di San Ferdinando Valley e quella della Silicon Valley) e comunità vivente è così rapido che i processi di innovazione impediscono qualsiasi “narrativa coerente della vita collettiva”, secondo la definizione data da Donald J. Waldie. Se è vero che la tecnologia è l’essenza dell’uomo, se è vero che la città, come il corpo, è una protesi meccanica costruita dall’uomo per proteggersi da un ambiente naturale rispetto al quale egli è inadatto, qui a Los Angeles, la tecnologia ha preso il sopravvento scardinando e sconvolgendo il rapporto tra uomo e tecnologia. La città degli angeli è già un incubo tecnologico: senza confini, senza frontiere, senza centro, dilaga sul territorio sussumendo tutto alle proprie leggi di crescita, omologando a sé ogni realtà sociale e territoriale. Non ci sono – come invece nelle altre città – monumenti o simboli a rievocare qualche segno identitario. I simboli sono quelli della produzione e del consumo: gli Studios, Hollywood, Bevery Hills, villaggi e icone del turbo capitalismo, prive di qualsiasi memoria o identità. Non a caso, dice Celada: «L’identità della città è definita dal “lifestyle”, lo stile di vita o lo stato d’animo, piuttosto che dall’identificazione fisica con luoghi o monumenti». Los Angeles non ha neppure un centro (there’s not there) poiché rappresenta un coacervo di luoghi, razze, etnie divise e incomunicabili per effetto dei diversi interessi economici che esse perseguono. Proprietari immobiliari, agenti di cambio, operatori turistici, agenzie per la sicurezza personale, vigilantes, agenti cinematografici “convivono” con homeless, disobbedienti, dissidenti, barboni, diseredati, vagabondi. Si potrebbe ironicamente definire la città delle differenze, se non fosse per il fatto che queste differenze non si incontrano mai realmente, anzi si fronteggiano minacciosamente, sono nemiche, come dimostrano i continui episodi di guerra ur70 Enzo Scandurra bana, le violenze della polizia contro i “neri”, la strisciante guerra di seccessione che si svolge in sordina e dove si fronteggiano identità-muro per il dominio della città. La città paradigma del postmoderno di Nancy è oggi il paradigma delle differenze in guerra: da una parte il conservatorismo diffidente, e a tinta razziale, della middle class e dall’altra le “minoranze” disobbedienti che reclamano il diritto alla vita. Una sorta di medioevo barbaro organizzato sulla divisione sociale in classi: privilegiati e ricchi, diseredati e incolti, ma tutti ugualmente appartenenti alla società tecnologica e dei consumi. Los Angeles rappresenta anche quel paesaggio sociale postmoderno dominato dall’eccesso, dall’assenza di limiti, dalla mancanza di ogni forma di solidarietà, dal trionfo dell’individualismo esasperato che assume i tratti di guerra per la sopravvivenza non solo nel conflitto tra middle class e poveri e diseredati, ma anche all’interno stesso dei due gruppi sociali per mantenere – i primi – le proprie posizioni di privilegio, e i secondi per tentare di scavalcare il marchio della propria appartenenza e diventare i nuovi liberi della società postmoderna. Come già avviene nelle altre città americane, i “bianchi” abbandonano le aree centrali verso i suburbi blindati e protetti, a tal punto che l’aggettivo urban è diventato, non a caso, un eufemismo per dire nero. Se si attraversa in auto (a piedi sarebbe impossibile) il celebrato quartiere di Beverly Hills si rimane stupiti dall’assenza di recinzioni: ville tra le più lussuose del mondo si affacciano direttamente su un praticello immacolato di verde che le divide dalla strada. Davanti i piccoli e lucidi portoni, sono parcheggiate Rolls Royce, limousine, auto d’epoca ad ostentare l’eccesso di lusso e di spreco. Apparentemente si potrebbe parcheggiare la propria auto, inoltrarsi sul verde in pendìo, raggiungere una di queste ville e suonare il campanello. Apparentemente però, poiché se solo si prova a fermare la propria auto in questo quartiere sempre deserto, si viene immediatamente circondati da vigilantes armati, dall’aspetto assai poco rassicurante, sbucati chissà da quale po71 Culture e conflitto sto, che intimano, senza alcun indugio, di riprendere il proprio percorso in auto. Zone praticamente militari, dal momento che chiamarle blindate non renderebbe l’idea della loro separazione dal resto del mondo comune; zone off limits per i non residenti, dove l’accesso reale è consentito solo a coloro che posseggono permessi speciali. Lo spazio pubblico, almeno come noi lo intendiamo, non esiste, anzi esso sarebbe considerato un luogo pericoloso. Lo spazio pubblico, il suo surrogato, è realizzato artificialmente in ambienti “multiuso” a sfondo commerciale; è costituito dagli shopping center e dagli shopping mall, gli unici ad essere accessibili a tutti perché il consumo è l’unico momento, l’unica attività rispetto alla quale cadono barriere etniche e di classe. L’unico sentimento di solidarietà di questa città senza storia e senza identità è rappresentato da quello che gli americani chiamano “lealtà reciproca” verso la città; un sentimento retorico (a sfondo economico) dettato dall’appartenenza astratta alla stessa Patria-America che in realtà costituisce un effimero collante il quale nasconde i conflitti etnici. Seppure questa “lealtà reciproca” venisse meno, la città degli angeli sarebbe condannata ad un processo di frammentazione secondo il quale ogni entità urbana verrebbe ad essere costituita da gruppi etnici omogenei: bianchi, latini, afro-americani, neri e working poor. D. J. Waldie nel suo libro Holy Land racconta del processo di ri-costruzione dell’identità e della memoria di un piccolo luogo artificiale situato lungo la costa californiana. Un luogo costituito, al suo sorgere, da “una griglia di case monofamiliari costruite nel secondo dopoguerra e situate in un tratto polveroso e semidesertico della costa californiana”. Waldie si sforza di ricostruire memoria e identità dissotterrando lutti, affetti, per costruire una narrazione comune per i suoi “concittadini”. E così, questo personaggio, descrive la Los Angeles contemporanea. È una narrazione che dice che la storia e la memoria sono senza senso, non hanno alcun valore. Che la natura stessa della città, la sua “virtù”, è quella di saper distruggere la memoria. E che il tuo vicino non può essere colui che con72 Enzo Scandurra divide con te un sentimento, ma vale per quello che è oggi, per quello che gli puoi vendere, per quello che puoi comprare da lui. Questo è un rapporto di consumo, ma è proprio l’opposto di una relazione di con-cittadinanza. Qualche conclusione Credo che all’antropologo spetti un compito urgente: quello di contrastare, insieme ad altri, la deriva del mondo contemporaneo e la sua devastante rappresentazione. Deriva significa staccarsi dalla terra ferma verso una meta ignota, trascinati dalla corrente, cosa, questa, assai diversa dallo “spaesamento” che significa invece ri-orientare i propri punti di vista. Come fare questo? Come evitare di tagliare il ramo dell’albero su cui si siede? Credo occorra far emergere (senza separare, sarebbe del resto impossibile) le cose buone prodotte dall’Occidente fuori dalla sua potenza di dominio. Credo spetti soprattutto all’antropologo, attraverso una diversa narrazione, affermare l’importanza della diversità e dell’abbondanza del mondo, contrastando la deriva dell’unum imperium, unus rex, la versione macchinista e riduzionista, la semplificazione, l’astrazione, la cancellazione della memoria. Spetta, io credo, ancora all’antropologo raccontare un’altra storia dell’uomo, una storia evolutiva particolare, contingente e spetta ancora all’antropologo lo sforzo di inserire sempre l’uomo in uno spazio pubblico senza il quale non c’è nessun uomo e nessuna donna. L’antropologo, insomma, come decodificatore di storie, danze, dialetti… come narratore delle tante storie del mondo abbondante nel quale siamo. 73 Il conflitto con sé e con gli altri: voci e silenzi emotivi* MARIAGRAZIA CONTINI Università di Bologna Il conflitto, figura emblematica di problematicità, affonda le sue radici in una pluralità di condizioni: spesso remote, tanto da risultare inaccessibili al nostro sguardo e alla nostra coscienza, spesso ignorate o insospettate e perciò subìte, nelle loro manifestazioni, con un senso di stupefatta frustrazione. Quelle a cui penso e a cui farò riferimento sono le seguenti cinque condizioni: neurofisiologica, ontologica, sociale, culturale, esistenziale. Acquisire un sapere relativo ad esse, imparare a riconoscerle, rappresentarle, narrarle può forse costituire un primo passo per conquistare, nei confronti del conflitto con sé e con gli altri, un po’ più di consapevolezza: di tipo critico, metacognitivo, eticamente “obbligante” all’azione e alla scelta (a un certo tipo di azioni e di scelte). Vediamole, queste condizioni, in una veloce carrellata e attraverso le citazioni di autori, fra i tanti possibili, che le hanno indagate con le loro ricerche e riflessioni. La schizofisiologia del cervello Risale agli anni 70 l’analisi di Artur Koestler relativa al dissidio insanabile tra il cervello antico, visceralmente affettivo, e la neocorteccia, il dono non richiesto, in quanto eccedente le possibilità dell’uomo di utilizzarlo. Per una in* L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autrice. 75 Culture e conflitto terpretazione della genesi e della permanenza di quel dissidio, Koestler propone due riflessioni particolarmente interessanti per il nostro tema. La prima si riferisce all’invenzione delle armi: l’uomo le ha inventate grazie alla neocorteccia, al suo potere di coordinare l’abilità manipolativa con le percezioni dell’occhio e di connettere insieme memoria e capacità progettuale, ma l’uso che ne ha fatto è dipeso dalla visceralità affettiva tipica del vecchio cervello. Quest’ultimo non disponeva di meccanismi di controllo per gestire il nuovo potere acquisito dall’uomo e la neocorteccia non riusciva a dominare, se non in modo parziale e insufficiente, la sfera delle emozioni: la schizofisiologia dava così origine a quella crudeltà che è privilegio della nostra specie. E il linguaggio, che con il suo potere di produrre e favorire la comunicazione avrebbe dovuto funzionare da ponte tra i diversi gruppi di uomini, ha finito invece per esasperare il senso di appartenenza di ciascuno al proprio gruppo e le barriere della separatezza nei confronti degli altri. «Le parole – scriveva Koestler – possono anche servire a prestare il vocabolario del nuovo cervello alle fantasmagorie e allucinazioni del vecchio. La neocorteccia è capace sia di produrre la Critica della ragion pura di Kant, sia gli strilli di Hitler». La seconda riflessione riguarda il problema della morte, della sua scoperta e del rifiuto d’accettarla: «La scoperta ha origine nel nuovo cervello e il rifiuto nel vecchio». Se razionalmente possiamo accettare la morte come fenomeno naturale e definitivo, la nostra emotività più primitiva si ribella, pretende che l’esistenza sia qualcosa di scontato da difendere contro ogni minaccia, con rabbia e con paura, «ma non può concepire il suo cambiamento in non-esistenza». A poco valgono le costruzioni intellettuali più raffinate che la neocorteccia può tentare di opporre a quelle convinzioni: la comunicazione non passa, troppe barriere glielo impediscono! Permane dunque, dentro di noi, una zona d’ombra dove si condensano paure cui la neocorteccia non riconosce legittimità, ma che tuttavia il cervello antico continua ad alimentare. 76 Mariagrazia Contini La “battaglia” delle coscienze La convinzione di Hegel che “ogni coscienza persegua la morte dell’altra” viene riaffermata, nel contesto storico culturale del secolo successivo e da una prospettiva di pensiero profondamente diversa e divergente, da Merlau-Ponty: «Finché si tratta di cose, ci salviamo facilmente dalla trascendenza: quella dell’esistenza altrui è più resistente. Poiché se altri esiste, se anche lui è coscienza, devo accettare di ridurmi per lui a oggetto finito, determinato e visibile in un certo punto del mondo. Se egli è coscienza, bisogna che io cessi di esserlo». Ovvero: il soggetto con gli occhi aperti sul mondo può osservare, interpretare, valutare in forza delle sue capacità cognitive e degli strumenti che ha a disposizione. Finché […] si incontra/scontra con un altro soggetto che lo osserva, lo valuta, lo interpreta, del cui sguardo ha bisogno per esistere e sapersi confermato ed amato: ed è proprio a quel punto che sente vacillare la sua postazione di supremazia e di sicurezza ontologica. D’ora in poi dovrà stare all’erta, selezionare i rapporti e, al loro interno, salvaguardare la propria immagine, difendere i propri punti di vista, cercare di riguadagnare il potere dello sguardo: da proiettare e dirigere sull’altro, per renderlo un po’ più oggetto, e meno soggetto. Giochi sociobiologici per la dominanza Secondo l’analisi di Henry Laborit, l’animale e il soggetto umano agiscono innanzi tutto per soddisfare i “bisogni biologici fondamentali”, ma per l’uomo, dotato di capacità immaginativo-simbolico-desiderante, c’è una motivazione in più all’azione e cioè la volontà di realizzare i propri progetti e la speranza di vedere avverati i propri sogni. Quando il comportamento raggiunge l’obiettivo prefissato, il soggetto sperimenta la gratificazione che invece si prefigura come inaccessibile ogniqualvolta nella stessa “nicchia ambientale” c’è qualcun altro che mira al raggiungimento dello stesso obiettivo gratificante. In questo caso si sviluppa una rivalità 77 Culture e conflitto che dà origine all’aggressività competitiva e alla ricerca della dominanza. Chi prevede la sconfitta può assumere un ruolo subordinato rispetto alla leadership del vincitore; se invece il bisogno che risulta frustrato è fondamentale – per l’equilibrio biologico, la stabilità psicologica, il ruolo sociale – allora sono due le strade percorribili: la fuga da quel contesto o l’attacco attraverso un’aggressività definita “difensiva” da chi la esercita e “offensiva” da chi la subisce. L’“imprinting” culturale In Elogio della imperfezione, Rita Levi Montalcini riflette sul fenomeno dell’imprinting e sul fatto che, mentre negli altri mammiferi esso si realizza nei primi giorni o nelle prime settimane dopo la nascita, nella specie umana assume i connotati di dipendenza nei confronti del proprio contesto socioculturale e si protrae per tutta la vita. Ne derivano due effetti negativi che si possono tradurre in terreni fertili di conflittualità. Il senso di appartenenza a un gruppo sociale, a una nazione, a un sistema culturale induce un atteggiamento di tale obbedienza alle loro leggi e alle loro credenze (ritenute oggettivamente valide) da indurre intolleranza, discriminazioni, razzismo nei confronti degli “altri” che si possono combattere o addirittura sterminare con una ferocia radicata non nell’istintualità, ma, appunto, nella dipendenza. Quest’ultima, peraltro, venendo percepita come una garanzia di sicurezza, tende a permanere anche in età adulta e a tradursi in resistenza, ad assumere responsabilità e impegni, entrando così in collisione con l’esigenza di autonomia e affermazione personale. Anche in questo caso la conseguenza prevedibile è l’aggressività: contro le persone da cui non si riesce più a “non dipendere” e/o contro se stessi, quando la malafede non basta a camuffare una insoddisfazione di sé e una frustrazione che appaiono senza via d’uscita. 78 Mariagrazia Contini L’infanzia tra onnipotenza e ansie abbandoniche Bambini che muovono i primi passi, pronunciano le prime parole, esplorano nuovi spazi, realizzano ogni giorno scoperte, conquiste, apprendimenti ignorando che tutto questo possa essere arginato o modificato da limiti e minacce, o, peggio, essere esposto a qualcosa che ne decreti la fine. Bambini che, dunque senza saperlo, vivono una dimensione di onnipotenza contrastata solo, in modo per loro incomprensibile ma ansiogeno, dall’insicurezza provocata da latitanze, oppressioni o violenze provenienti dagli adulti, specie da quelli più significativi. Dato il ruolo che questi ultimi rivestono, di filtro con la realtà e di garanti della sicurezza, l’appannarsi o il distorcersi della loro presenza per qualunque motivo si realizzi, introduce una prima decisiva incrinatura nella autorappresentazione infantile e il timore (destinato a durare nel tempo) che, a causa di qualche misteriosa e ignota colpa, si possa essere abbandonati, rifiutati, resi oggetto di violenza… Non ricorro a citazioni, in questo caso (una non basterebbe): mi preme sottolineare che l’infanzia è una condizione esistenziale in cui il germe di future conflittualità da imporre o da subire s’insinua, il più delle volte, nello spazio di un tradimento: proprio da parte di chi dovrebbe tutelarla e proteggerla. Ecco così delinearsi una prima sommaria fenomenologia della conflittualità: quella con sé stessi – fra pensieri ed emozioni, corpo e mente, condizionamenti e progettualità; quella di tipo intersoggettivo fondata sulla competizione per il predominio della propria “coscienza” e per la dominanza all’interno della relazione stessa; quella sociale, etnica, culturale che apre a razzismi, intolleranze e azioni di guerra. In questi termini, però, dei diversi tipi di conflittualità viene proposta una lettura esclusivamente in negativo che, certamente, è legittimata dalla storia dei singoli e dei popoli di ogni tempo, ma che rischia di azzerare altre facce della medaglia attinenti sia alla possibilità di “significare” anche in positivo la conflittualità, sia di distinguere al suo interno forme ed espressioni differenziate. 79 Culture e conflitto E dunque proviamo ad ampliare il raggio dello sguardo, in modo da comprendere al suo interno altre, diverse possibilità. Iniziamo dal soggetto individuale: il germe di dissidio che lo abita, già a partire dal piano fisiologico, è lo stesso che gli permette di colorare emotivamente il suo pensare e di elaborare il suo sentire traducendolo in un discorso; è la battuta d’arresto che può interrompere il suo procedere e lo obbliga a interrogarsi, a fare i conti con bisogni fino allora ignorati; è l’impulso per osare scelte che altrimenti non avrebbe neppure considerato. Anche nel rapporto intersoggettivo le motivazioni a confliggere comprendono, al loro interno, potenzialità di segno positivo: sono esse, infatti, che ci inducono ad affermare il nostro diritto-dovere di realizzazione personale, a esprimere o a far esprimere richieste, a smascherare equilibri fittizi e improduttivi, a far valere la nostra e altrui differenza. E non può costituire un’occasione di confronto, di conoscenza meno superficiale, di opportunità per una contaminazione reciprocamente costruttiva, l’emergere di paradigmi e di valori discordanti nelle varie culture e organizzazioni sociali? Dunque il conflitto, con sé o con gli altri, non è un’esperienza necessariamente e unicamente dolorosa, distruttiva o frustrante: dipende da come viene interpretato, vissuto, affrontato; dipende se dopo di sé lascia, o meno, spazi più ampi, e agibili, di possibilità per tutte le istanze che vi hanno giocato una parte. Analizzare il quadro delineato da questi “dipende” sarebbe lungo e molto impegnativo; mi limito perciò a proporre solo qualche riflessione, dal punto di vista di una pedagogia del razionalismo critico che richiede di attraversare, per renderli produttivi di senso, tutti i terreni della problematicità. Cominciamo dall’“accorgersi” del conflitto e dal silenzio che può, opportunamente, accompagnarlo: è il silenzio emotivo – non privo, ma ricco di emozioni – di quando guardiamo in faccia una difficoltà anziché sfuggirla o negarla, di quando, come direbbe Rilke, tentiamo di amare e vivere le domande, come se fossero preziosi libri scritti in una lingua straniera, senza la fretta di arrivare subito a una risposta. 80 Mariagrazia Contini Nel rapporto con l’altro, in particolare, il silenzio che accompagna il riconoscimento del conflitto può indicare un’autoriflessività tesa a comprendere le ragioni proprie e altrui – e la loro discordanza – nella consapevolezza che solo da una simile, profonda comprensione può prefigurarsi una via di soluzione che non consista, “semplicemente”, nel tentativo reciproco della sopraffazione. Pensiamo alle soluzioni di guerra che ogni giorno, in tanti luoghi della terra, vengono intraprese nella convinzione generale che rappresentino l’unica, efficace modalità per risolvere i conflitti: l’escalation di violenza, la sofferenza e la morte di tanti soggetti innocenti, il permanere degli stessi problemi che si dovevano superare non stanno a indicare che, anche a quei livelli di conflittualità, sarebbe opportuna una fase di silenzio e di riflessione per individuare nuove, diverse soluzioni, con più immaginazione di quanta ne richieda l’uso della violenza? Il silenzio inteso come ascolto e come domanda è molto dissimile da altri silenzi che i conflitti possono indurre, all’insegna della rabbia e della paura, della mortificazione e dell’odio, in una spirale che conduce all’implosione: auto ed eterodistruttiva. E invece, il silenzio deve produrre la capacità di “dar voce” al conflitto: la neocorteccia deve trovare le parole per dire le emozioni del cervello antico, elaborandole in un discorso comunicabile che sostituisca, allo scontro, il confronto e la negoziazione. L’importante è che si dia spazio a tutte le voci, che ciascuna possa narrare la propria rappresentazione del conflitto sapendo che non coincide con quella dell’altro a cui, tuttavia, riconosce il diritto di esprimersi, dislocandosi dal proprio centro quel tanto necessario per attestarsi su un terreno che non sia solo il proprio e nemmeno quello altrui, che non pretenda l’accordo a tutti i costi o l’improbabile condivisione di punti di vista troppo divergenti, ma diventi il terreno della comunicazione possibile. In cui la diversità delle voci significhi una complessa difficile ricchezza in più. 81 Interculturalismo e meticciato nell’epoca della globalizzazione ANTONIO BUTTITTA Università di Palermo Nell’Europa di oggi sta accadendo quanto avvenne a partire dal VI millennio a.C., quando genti accomunate dall’appartenenza a un comune ceppo genetico, grosso modo indoeuropeo, occuparono progressivamente il Continente, eliminando o riducendo le precedenti presenze che per la preminenza di quanto di esse rimane, possiamo chiamare atlantiche (Guilaine 1994). L’esito finale di questa invasione che, in alcuni millenni, mutò profondamente l’identità antropologica dell’Europa, è ancora attestato dalla presenza sempre più arealmente ridotta dei Baschi, gli unici ad aver conservato tratti genetici e culturali dell’originario popolamento. L’avanzarsi progressivo di questi immigrati da est verso ovest per ondate etnicamente e cronologicamente differenziate è di contro provato dalla diversità culturale delle aree regionali del Continente, pur segnate da una comune matrice, già al momento del suo affacciarsi all’orizzonte della storia. Rispetto al fenomeno che stiamo considerando, passato e presente mostrano tratti differenziali. Per l’aspetto orizzontale, il trasferimento, nella preistoria, si determinò per gruppi etnicamente omogenei, mentre oggi si attua per infiltrazioni disarticolate; per l’aspetto verticale, cioè sociale, dall’alto con tendenza a dilatarsi verso il basso, nel primo caso, dal basso con l’aspirazione ad accedere all’alto, nel secondo. Le ragioni sono evidenti. Nel passato si trattava della conquista di nuovi territori conseguente alla maggiore forza militare ed economica dei nuovi arrivati. Non è un caso che il progressivo espandersi dei gruppi di ceppo indoeuropeo coincida con la diffusione dell’agricoltura e dell’uso del ca83 Culture e conflitto vallo come strumento bellico (cfr. Thorpe 1996; Villar 1997; Cavalli-Sforza, Menozzi, Piazza 1997). Oggi invece l’arrivo di genti dall’Asia e dall’Africa è dovuto alla arcaicità e insufficienza dei sistemi produttivi delle aree di provenienza richiamate dal più alto regime di vita assicurato da strutture produttive più avanzate. Le diverse motivazioni economiche che stanno a monte delle due dinamiche migratorie hanno decisiva importanza per intendere l’evolversi della realtà attuale. Occorre però, prima di discuterne, considerare anche le analogie tra i fenomeni migratori del passato e quelli del presente. La ricerca di nuovi spazi vitali può essere definitiva o temporanea. I due fenomeni da noi considerati hanno in comune il carattere della definitività. A differenza delle migrazioni di forza lavoro dal Sud verso il Nord del Continente, come è accaduto nei decenni successivi al Secondo conflitto mondiale, ma in analogia con le grandi migrazioni dell’Ottocento e dei primi del Novecento verso le Americhe, la più parte degli attuali immigrati in Europa tende a permanere come nella preistoria del Continente. È impossibile prevedere con certezza assoluta quali modificazioni questo fatto determinerà in termini sociali e culturali. Sappiamo tuttavia che diversamente dagli USA, dove si è prodotta una rapida omologazione alla cultura dei primi arrivati, degli immigrati, gli immigrati attuali nei Paesi europei, segnatamente i gruppi quantitativamente e culturalmente più forti, tendono a permanere nella loro cultura. Non solo nella sfera religiosa ma anche linguistica e alimentare. In conseguenza di questo fatto si potrebbe assistere a un processo di più lenta assimilazione come è accaduto negli USA con i cinesi, oppure potrebbero prodursi reali e definite situazioni multiculturali. Questa eventualità appare tuttavia molto problematica. Perché possa realizzarsi sono infatti necessari radicali mutamenti istituzionali e legislativi, a cominciare dal riconoscimento della parità linguistica, dalla rinuncia cioè da parte dei diversi Paesi a una lingua nazionale. Occorrerebbe superare il concetto romantico di Stato come nazione, che, come dice Berlin, inflisse alla ragione una pugnalata da cui l’Europa 84 Antonio Buttitta non si è più ripresa, ma dei cui esiti storici non è facile liberarsi (Berlin 2001, cfr. Belpoliti 2003)1. È questa concezione romantica dello Stato il vero ostacolo ai radicali mutamenti ideologici – prima che istituzionali – di cui il Continente avrebbe bisogno per diventare una vera realtà multiculturale. Le scelte della Comunità Europea fin dal suo sorgere, e ancora oggi al momento di darsi una propria costituzione, non segnalano purtroppo cambiamenti significativi in questa direzione. Il riconoscimento della parità delle lingue di tutti gli Stati membri, parrebbe indicare una inversione di tendenza. Esso preannuncia un rischio non evitabile, quello di determinare una situazione ai limiti della ingovernabilità in termini amministrativi. Basti pensare alle risorse occorrenti, al numero degli addetti, al tempo per tradurre e stampare nelle diverse lingue leggi, decreti, circolari, disposizioni, comunicati e quant’altro. Un problema, la cui complessità si accrescerebbe notevolmente se, per coerenza, dovesse prevalere per equità lo stesso criterio della parità linguistica a livello dei singoli Stati europei rispetto alle diverse realtà etniche sempre più presenti al loro interno. A parte i nobili sentimenti di sociologi e antropologi, non sappiamo quanto sinceri, relativamente a questa scelta – che oggettivamente sarebbe comunque ineludibile, rispetto al proclamato futuro multiculturale dell’Europa – non è dato avvertire alcun segnale positivo. La legislazione italiana in proposito è molto significativa: Legge 6 marzo 1998, n. 40 Disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; Decreto legislativo 25 luglio 1998, n. 286 Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero; Documento programmatico relativo alla politica dell’immigrazione degli stranieri nel territorio dello Stato, a norma dell’art. 3 della legge 6 marzo 1998, n. 40, 2001-2003; Legge del 30 luglio 2002, n. 189 Modifica alla normativa in materia di immigrazione e di asilo. Il comma 3 della legge 1998, n. 40 afferma che «la comunità scolastica accoglie le differenze linguistiche e culturali come valore da porre a fondamento del rispetto reci85 Culture e conflitto proco, dello scambio tra le culture e della tolleranza; a tal fine promuove e favorisce iniziative volte alla accoglienza, alla tutela della cultura e della lingua d’origine e alla realizzazione di attività interculturali comuni». Queste iniziative sempre secondo la legge, dovranno essere realizzate dalle scuole in collaborazione con le associazioni degli stranieri, le rappresentanze diplomatiche e con le organizzazioni di volontariato. Naturalmente non si è fatto nulla o assai poco, mentre si è data rigida applicazione alla volontà espressa dai legislatori di attivare in ogni forma iniziative per l’integrazione linguistica degli immigrati e dei loro figli attraverso le strutture scolastiche. Di fatto viene sistematicamente praticata, così come accade per le parlate regionali, una politica della integrazione linguistica forzata. D’altra parte, poiché nelle dinamiche socioeconomiche e dunque culturali è in genere la domanda a precedere la risposta, ragioni funzionali in una situazione di multiculturalismo ipotetico finiranno comunque con tutta probabilità col rafforzare e stabilizzare una situazione già di fatto esistente, l’adozione dell’inglese come lingua di scambio. In ogni caso, sia nella prima eventualità – il riconoscimento della parità linguistica – sia nella seconda – l’imposizione della lingua dello Stato ospite – è del tutto erroneo pensare a esiti eterodiretti. Sorprende in proposito quanto previsto tra gli scopi di un Consiglio superiore della lingua italiana da istituirsi presso la Presidenza del Consiglio. Secondo i proponenti del disegno di legge 993 depositato in Senato il 21 dicembre 2001, questo Consiglio dovrebbe, tra l’altro: «Promuovere l’arricchimento della lingua con lo scopo primario di mettere a disposizione termini idonei ad esprimere tutte le nozioni del mondo attuale, assicurando la presenza dell’italiano nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione». Ancora più sorprendente e significativo del razzismo ideologico e dell’ebetudine scientifica, che funestano certi ambienti accademici, è l’emendamento proposto dalla Associazione per la storia della lingua italiana (ASLI) che raccoglie illustri docenti universitari del settore interessato: «Favorire attività di osservazione, ri86 Antonio Buttitta cerca e consulenza in merito alle terminologie specialistiche, per assicurare ed espandere la presenza dell’italiano nei linguaggi delle nuove tecnologie ed evitare ibridismi non funzionali». Sono proposte che non richiedono alcun commento. L’idea che dei linguisti possano pensare di “evitare” con una legge gli “ibridismi” linguistici, da sé sola dice con quanta cecità l’intellighenzia europea viva l’epocale mutamento antropologico verso cui il Continente si sta avviando. A riprova di tanta frigidità basti quest’altro emendamento allo stesso disegno di legge, proposto sempre dall’ASLI: «Promuovere l’insegnamento delle lingue straniere in chiave di diversità culturale, e non di ibridazione, allo scopo di acquisire le conoscenze interlinguistiche necessarie per la costruzione dell’Unione Europea»2. Con buona pace di accademici e non, quando le culture entrano in contatto, anche in posizione gerarchica o conflittuale, si producono sempre processi di scambio e non si determina in genere la cancellazione totale di una di esse. L’esistenza delle lingue romanze se da un lato dimostra l’affermarsi del latino nelle aree di più forte presenza romana, dall’altro prova la sua progressiva differenziazione fino alla nascita di nuove lingue per effetto dell’assorbimento di elementi delle lingue delle popolazioni sottomesse. D’altra parte, soltanto semplicisticamente si può affermare che l’imporsi della anglofonia, ha fatto della cultura statunitense una replica di quella inglese. A parte l’assetto istituzionale diverso da quello del Regno Unito, comunque però riferibile a valori sorti in area anglosassone, sarebbe difficile capire la nascita, solo per fare un esempio, del jazz, senza tener conto della presenza nera sia pure in situazione di assoluta subalternità. Più in generale senza il jazz risulterebbe incomprensibile il rinnovamento della musica sinfonica europea. Basti pensare a Stravinskij (Cocchiera 2000). Al di là di ogni previsione sul futuro dell’identità culturale dei Paesi europei è sicuro che la massiccia presenza di immigrati determinerà dunque mutamenti notevoli. A parte l’ambito religioso, è gia possibile registrare fatti significativi 87 Culture e conflitto nel settore alimentare. Non solo nei supermercati delle grandi concentrazioni urbane si trovano sempre più spesso spazi dedicati ad alimenti, non appartenenti alle tradizioni culinarie europee, ma non c’è città grande o media che non conti esercizi dove sono in vendita derrate alimentari consumate solo da Asiatici e Africani. A parte la moda per l’esotico, che ha pure la sua parte (vedi il moltiplicarsi di ristoranti non solo cinesi, ma anche indiani o messicani), è un fatto che le abitudini alimentari degli immigrati tendono a espandersi al di fuori dei loro ambiti originari. Tutto questo più che fare prevedere un futuro multiculturale dell’Europa, segnala l’affermarsi progressivo di forme di meticciato culturale, una situazione cioè predisposta non al ripetere, ma al sorgere di pratiche identitarie nuove. Questi progressivi e diversificati fenomeni di acculturazione non possono essere pensati al di fuori di quanto accade nel resto del mondo, tanto in ambito culturale quanto economico e sociale. A livello mondiale stiamo assistendo a un massiccio processo di acculturazione monorientata di cui è difficile prevedere gli esiti. Favorita dalla esistenza di aree già conquistate dal colonialismo inglese, ma soprattutto per la forza politica e militare degli USA, si sta imponendo, con forza pervasiva e apparentemente inarrestabile, una sorta di lingua semplificata, l’inglese standard, e con questa modelli di vita diffusi e imposti dai media americani. Naturalmente il fenomeno non è indipendente da logiche economiche. È connesso al bisogno di mercati sempre più estesi da parte delle grandi concentrazioni finanziarie e industriali, per la più parte di matrice anglofona e anche quando non tali, costretti ad assumere l’inglese come lingua commerciale per la maggiore estensione delle aree dominate dall’anglofonia. È invalso l’uso di chiamare questo vasto fenomeno “globalizzazione”, presentandolo con accesi toni negativi. Parrebbe che sia esso la causa di tutti i mali del mondo. Come tutte le parole che si caricano di un forte contenuto ideologico, il termine globalizzazione, riferito alle dinamiche culturali del mondo attuale, ai fini della nostra analisi è distorcente. Per altro il processo a cui i suoi critici intendono ri88 Antonio Buttitta ferirsi non è un esito recente della cinica ricerca del profitto a ogni costo da parte dei grandi gruppi finanziari e industriali, americani e non. La cosiddetta globalizzazione altro non è che un carattere strutturale della condizione culturale dell’uomo. Prima di parlare inglese, la globalizzazione ha parlato francese, latino, greco e così via. La conflittualità umana ha sempre visto i popoli e i gruppi più forti imporre i loro modelli culturali ai più deboli. L’imposizione della propria cultura è la ineludibile affermazione simbolica dell’esercizio del potere. Le ragioni sono ovvie. L’egemonia si esercita imponendo l’ordine che le è proprio. Di esso la lingua non è asettico contenitore. La realtà umana, come sappiamo da Jaspers (1942), è comunicazione, si perimetra nel linguaggio, secondo quanto abbiamo appreso da Wittgenstein (1967). I gruppi dominanti hanno pertanto bisogno per affermare il proprio potere di costituirsi e manifestarsi come e in quanto soggetti della comunicazione. È opinione diffusa che questo sia un dato non strutturale, dunque non marcato dalla permanenza. Si pensa cioè che non sempre i vincitori impongano la loro cultura ai vinti. Parrebbe poter determinarsi egemonia culturale indipendentemente dalla egemonia economica e politica. Seguendo un noto detto, si sostiene che, malgrado sconfitta, la Grecia impose la propria cultura ai Romani. È un luogo comune, e in quanto tale, segno di superficialità e approssimazione. Intanto non tiene conto del fatto che l’egemonia culturale greca interessò ristretti ambienti intellettuali e non tutta la società romana. Inoltre, ed è fatto decisivo, la resistenza del greco, addirittura la sua ulteriore espansione in epoca romana, almeno in ambito mediterraneo, è conseguente al suo essere lingua di scambio in una economia di mercato i cui soggetti attivi erano greci o parlanti greco, restando ai Romani il controllo delle strutture istituzionali e la proprietà dei terreni agrari (Rostovtzeff 1933; De Martino 1979). Il risultato fu l’Ellenismo, nelle arti e nel costume: una cultura identificabile non come semplice evoluzione di quella greca, ma come un metissage di elementi greci, mesopotamici, egiziani. 89 Culture e conflitto Altro fatto per negare che l’acculturazione ha sempre come soggetti attivi i vincitori – e comunque i detentori dei mezzi della produzione e dello scambio – sono le cosiddette invasioni barbariche successive al declino dell’Impero romano. È vero che i gruppi interessati tendevano a conservare le strutture politiche e culturali romane. Si trattava però di soggetti che erano già stati romanizzati in quanto stanziati all’interno o nelle immediate periferie dell’Impero e utilizzati come mercenari, dunque in iniziale posizione subalterna. È appunto il caso di alcuni degli ultimi imperatori romani. In ogni modo i cosiddetti barbari erano in genere tribù in fuga di poche migliaia di uomini, più interessati alla sopravvivenza che alla gestione dello stato. Non così nel caso dei Goti e dei Longobardi in Italia e dei Franchi in Francia. Sia pure in tempi e modi diversi, ma per questo le analogie sono ancora più significative, nell’uno come nell’altro caso, parallelamente a una adesione formale alla cultura romana e ai suoi simboli, si ha l’imporsi di pratiche nuove in tutti gli ambiti. Di fatto – si pensi all’Editto di Ròtari o ai Capitolari di Carlo Magno – si produsse un mutamento culturale profondo dei territori europei già facenti parte dell’Impero. È questo il tempo della nascita delle lingue romanze. Basti ricordare il Giuramento di Strasburgo. Soprattutto è questo il tempo del passaggio da una economia transterritoriale alla economia curtense. Non più province ma feudi. Non consoli e pretori ma duchi e conti. Le dinamiche etniche non si sviluppano settorialmente, ma alimentano un unico corso, economico, sociale, politico, culturale, estendendosi, influenzandosi e confondendosi. Perfino il cristianesimo, investito da questo epocale processo di acculturazione, finì con il risultarne sensibilmente modificato rispetto alla sua ispirazione originaria (Novelle 1986; Tenenti 1996). Riassumendo, ripensando e integrando quanto fin qui detto, si impongono alcuni fatti difficilmente questionabili: a) da parte dei popoli e delle classi che detengono il potere è irrinunciabile, in quanto funzionale al potere stesso, la 90 Antonio Buttitta tendenza a imporre la loro cultura, di cui la lingua è fatto costitutivo; b) la cultura dominante non cancella mai per intero la cultura dominata, ma ne ritiene gli aspetti a essa funzionali, o comunque ne tollera quelli non di disturbo; c) non è possibile ragionare sul futuro culturale dei Paesi europei indipendentemente dal contesto economico e sociale nel quale si vengono a inserire i flussi migratori attuali; d) gli esiti culturali prevedibili della presenza sempre più consistente di immigrati in Europa non possono essere pensati al di fuori del processo di acculturazione mondiale, avente come centro la cultura americana. Si è soliti attribuire il trasferimento, oggi come nel passato, di milioni di uomini da un luogo all’altro alle condizioni di sottosviluppo, di fame, come sarebbe più giusto dire. È una verità dimidiata. La sola fame non basta a far lasciare il luogo dove si vive. Occorre che ci sia un altro luogo che di questo universale biologico, secondo la denominazione di Malinowski, assicuri il soddisfacimento. È una banalità. Eppure, se vogliamo capire fino in fondo ciò di cui stiamo discutendo, non possiamo dimenticare che anche in termini logici il sottosviluppo presuppone lo sviluppo. Ora, mettendo tra parentesi “di che lacrime grondi e di che sangue”, anche dei Paesi di origine degli immigrati, la genesi dello sviluppo europeo, i suoi connotati economici e sociali ci fanno capire le ragioni delle dinamiche migratorie dagli altri continenti verso l’Europa e all’interno dell’Europa stessa da sud verso nord e da est verso ovest. Solo alcuni Paesi, e solo certe regioni e province del nostro Paese, sono interessati in modo significativo dai flussi migratori. È utile chiedersi perché. La risposta è immediata e apparentemente ovvia e semplice: perché godono di migliori condizioni di vita conseguenti al più avanzato sviluppo delle loro strutture produttive. In realtà il rapporto tra sviluppo e immigrazione non è un fatto strutturale ma congiunturale. Il movimento migratorio verso le aree sviluppate richiede come condizione indispensabile l’esistenza di queste aree, ma la 91 Culture e conflitto loro esistenza non presuppone come condizione indispensabile l’immigrazione. Nel nostro caso invece questa è necessaria anzi ineludibile. Le ragioni sono note e presto dette: a) come dimostrato da Dumont, la crescita demografica si accompagna alla fame; di contro il benessere, sostenuto anche da pratiche anticoncettive, determina un saldo negativo del rapporto nascite/morti; b) ragioni ideologiche connesse alla stratificazione sociale, fondata sulla distinzione: lavoro di concetto vs lavoro esecutivo, provocano la corsa dei giovani europei verso attività del primo tipo; c) la complessa macchina organizzativa delle società europee sviluppate richiede un numero di addetti sempre più alto, richiesta problematizzata dai vuoti sociali conseguenti ai punti A e B. Questi fatti, al di là di ogni resistenza razzistica o intolleranza religiosa, determinano nelle società di cui stiamo discutendo, anche di quelle meno inclini ad accettare la presenza di stranieri, un bisogno irrinunciabile di forza lavoro, che fisiologicamente va a occupare gli spazi liberi, anche in aree segnate, come a Mazara, da un alto tasso di disoccupazione. Che l’ingresso degli immigrati sia favorito da necessità economiche dei Paesi ospiti, risulta in modo esplicito dal recente documento: Communication de la Commission au Conseil et au Parlement Européen. Une politique communautaire en matière d’immigration, Bruxelles, 22.11.2000. In esso si dice tra l’altro: «Anche se l’immigrazione non costituirà mai da sola una soluzione ai problemi del mercato del lavoro, i migranti possono apportare un contributo positivo a quest’ultimo, come anche alla crescita economica e alla stabilità dei nostri sistemi di protezione sociale» (Caritas 2001: 33). Lasciamo da parte la discutibile affermazione finale sui sistemi di protezione sociale, alla cui stabilità non si vede quale contributo possano apportare i migranti, dipendendo esclusivamente dalle decisioni politiche dei Paesi ospiti. Il punto su cui riflettere è rappresentato dall’esplicito riferi92 Antonio Buttitta mento al contributo che i migranti possono apportare alla “crescita economica” in rapporto alle esigenze del mercato del lavoro. Quali siano queste esigenze e quali aree funzionali siano interessate e a quali livelli, lo sappiamo. Non sarebbe necessario insistere. La realtà è sotto gli occhi di tutti. Si tratta di attività che un tempo si dicevano servili e che oggi grazie alle virtù dissimulatorie del linguaggio si dicono strumentali. Nelle aree più fortunate cresce il numero di operai, contadini, pescatori, pastori, lavoratori domestici di provenienza soprattutto asiatica e africana. Basti qualche dato, sia pure per ragioni ovvie, calcolato in difetto. In Italia nel 1999 su 155.244 permessi di soggiorno concessi, 51.271 e 36.776 riguardavano rispettivamente lavoratori dipendenti e subordinati. Solo 2.663 erano i lavoratori autonomi, sostanzialmente addetti ad attività di piccolo commercio. Nel 2000 su 168.586 permessi concessi 90.442 interessavano lavoratori dipendenti, 15.682 lavoratori autonomi, 20.459 invece erano dovuti a ricongiungimenti familiari, segnale di quanto dicevamo a proposito della tendenza degli immigrati alla residenza definitiva. Per il dato complessivo basta fare la media delle maggiori presenze nel settore del lavoro subordinato. Rispetto a quanto abbiamo visto l’ipotesi (per alcuni la speranza) di un’Europa multiculturale non appare credibile. Uno Stato o una comunità di Stati, come è prevedibile per la più parte dei Paesi europei, si può dire multiculturale soltanto quando a tutte le culture in essi presenti è riconosciuta non tanto la legittima esistenza quanto la parità costituzionale. Per quanto si attiene alle nuove culture che per effetto degli attuali processi migratori tendono a inserirsi nel contesto culturale europeo, di tale eventuale parità non è dato avvertire alcun indizio. L’insistenza di alcuni Paesi a affermare costituzionalmente le radici cristiane del Continente, è anzi la spia di una situazione del tutto opposta. D’altra parte le motivazioni e gli esiti economici e sociali dei flussi migratori rappresentano un ostacolo insuperabile in questa direzione. Basta dare uno sguardo a qualunque rappresentazione statistica di questi flussi sia relativamente alle aree interessate di partenza e di arrivo, sia ai livelli funzionali che gli 93 Culture e conflitto individui interessati vanno a occupare, per rendersi immediatamente conto che la loro immissione a livello sociale subalterno non fa altro, al di là di buonismi, pietismi, democraticismi più o meno autentici, che rafforzare la struttura classista della società europea. Non dunque un’Europa costituita da Paesi multiculturali ma da società segnate da netti dislivelli interni di cultura. Si riproduce di fatto non tanto e non solo la divisione in classi della società, ma la tradizionale articolazione in classi egemoni vs classi subalterne si viene a definire etnicamente. Con l’ulteriore aggravante che gli immigrati, sostenendo con il loro lavoro le grandi industrie e le holdings finanziarie europee, contribuiscono allo sfruttamento dei Paesi di provenienza dunque all’ulteriore impoverimento di questi ultimi. In tutto ciò i cosiddetti “aiuti al terzo mondo”, anche quando non funzionali a operazioni economiche il cui profitto finale ritorna nei circuiti finanziari europei, hanno lo stesso valore della somministrazione di caramelle ai moribondi. Avremo dunque una cultura egemone, sia pure diversificata al proprio interno, e varie culture subalterne in quanto subalterni i loro portatori, il cui destino non sarà diverso da quello già conosciuto dalle culture subalterne europee, anteriormente all’arrivo degli immigrati, vale a dire: la progressiva cancellazione; fatti salvi i ricorrenti atteggiamenti vacanzieri alla ricerca di mondi idillicamente riproposti al di fuori della loro realtà di fatica e dolore, non diversamente da quanto è accaduto al folklore a partire dall’Ottocento. Se dunque è improbabile un reale futuro multiculturale del nostro continente, è certo, se ha qualche valore quanto abbiamo detto, il progressivo moltiplicarsi di ristoranti e di abbigliamenti cosiddetti etnici. Tutto questo, piuttosto che fare prevedere una caratterizzazione in senso multiculturale della società europea, è in contraddizione anche con l’ipotesi di un vasto processo acculturativo in direzione di un generale meticciato. In un futuro meticcio della cultura europea, quale risultato di assorbimento di tratti culturali altri, l’esotico, una volta assimilato, infatti, cesserebbe di essere tale, il che è in contrasto 94 Antonio Buttitta con le ragioni che lo alimentano: la ineludibile ricerca da parte degli interessati di fingersi in determinate situazioni (le vacanze), scansioni temporali (la cena fuori casa) o per certi aspetti (l’abbigliamento) una diversa ma pur sempre temporanea identità. La complessità delle dinamiche che portano al meticciato culturale – e più in generale al fenomeno del mutamento culturale in conseguenza dei contatti fra culture diverse – richiede comunque una nuova chiave di lettura per poter essere esaustivamente intesa. Una società, come ogni altro fenomeno della realtà, non è né un processo né un sistema ma un macrosistema-processo risultante dal rapporto tra microsistemi-processi individuali e di gruppo. Questo sistemaprocesso, di fatto invisibile in quanto esito di una rete di rapporti come tale non visibile, per essere in equilibrio dovrebbe risultare dalla parità riconosciuta tra tutti i microsistemiprocessi, e tra le forze centrifughe e centripete che lo animano, tra spinte orientate alla conservazione dello status quo e quelle dirette alla sua rottura, dunque al cambiamento. Per effetto della divisione in classi (ma anche per altro, come la inevitabile ricerca di ampliamento del mercato), la società capitalista non ha mai conosciuto questo equilibrio. Lo stato congiunturale, contrariamente a quanto ci è stato insegnato, non è una sua condizione febbricitante e indesiderata, ma un suo carattere sostantivo. La ricerca del profitto, che ne determina il permanente stato conflittuale – l’arricchimento, più o meno violento, dei pochi rispetto ai molti – non necessariamente, come pensava un rozzo marxismo, produce il progressivo impoverimento di questi ultimi. Spesso è accaduto e accade il contrario. È certo però che di essi accentua la subalternità. In ambito culturale questo fatto ha prodotto e produce l’imposizione dei modelli culturali dei meno ai più, anche con la connivenza dei più, perché convinti, assumendo la cultura dei meno, di partecipare della loro condizione (Buttitta 1995). Lo status di disequilibrio del macrosistema-processo europeo impedisce dunque di pensare a un futuro multiculturale del Continente. È addirittura problematico un muta95 Culture e conflitto mento della sua cultura nel senso del meticciato. La prospettiva potrebbe essere diversa se questo macrosistema-processo si muovesse in direzione del suo riequilibrio, che rispetto all’attuale nuova realtà dovuta alla presenza degli immigrati non andrebbe ricercato nella stratificazione sociale ante quem, imposta dai modelli classici dell’economia capitalista. Il problema antropologico rappresentato della presenza degli immigrati nella nostra società non si pone in sostanza nei termini della opposizione: accettazione o non accettazione, sia pure in posizione subalterna, sebbene della inclusione o esclusione, dove per inclusione è da intendere non la caritatevole – più o meno tollerante – politica dell’accoglienza, ma il riconoscimento pieno e paritario in tutti gli ambiti nel macrosistema-processo della società europea dei microsistemi-processi costituiti dagli immigrati come singoli e come comunità3. La situazione che abbiamo descritto difficilmente potrà mutare nei tempi mediobrevi. D’altra parte essa è meno rigida rispetto alla rappresentazione che ne abbiamo dato. Si registrano in realtà casi, sia pur non numerosi, che segnalano una certa mobilità, nel senso di una effettiva integrazione nella società europea di provenienti da altri continenti. Questi sparsi episodi non solo per la loro esiguità ma per la forza stessa dei sistemi sociali interessati, non ne turbano l’assetto. L’assorbimento non produce mutamento strutturale. La posizione di potere a livelli alti, come accade oggi negli USA, di appartenenti alla comunità nera, non segnala la reale integrazione di questa nella società americana. Certo queste presenze non sono prive di significato. Più che da relazionare alla consistenza quantitativa della popolazione nera, sono da riferire alla progressiva crescita di una piccola e media borghesia di colore che elettoralmente ha un peso significativo, anche se insignificante – se non inesistente – è la sua presenza negli ambienti industriali e finanziari, detentori reali delle leve di potere. Di fatto la società statunitense resta una società fortemente stratificata e le stratificazioni si presentano, sia pure grosso modo, come diversificazioni etniche. 96 Antonio Buttitta Il caso americano è una cartina di tornasole per prevedere quanto potrà accadere in Europa. La prima constatazione da fare è che, a dispetto delle massicce immigrazioni dell’Ottocento e dei primi decenni del Novecento, gli USA sono un Paese monoculturale con tendenza a cancellare le differenziazioni residuali. In questi ultimi anni però si è manifestato un ampliamento, in qualche modo un ritorno, dell’area ispanofona negli Stati del Sud. È un fatto dovuto alla inarrestabile penetrazione di immigrati dai Paesi del Centro Sud del Continente, che dimostra quanta importanza abbia ai fini della conservazione della cultura originaria l’appartenenza degli immigrati a una comune area culturale. La tendenza a omologarsi alla cultura del Paese ospite, è al contrario favorita in Europa dalle diversità etniche delle provenienze e dalla polverizzazione e dispersione al momento del loro insediamento. Si tratta di un ostacolo fra i più decisivi all’ipotizzato futuro multiculturale dei Paesi europei. Per altro il processo di acculturazione degli immigrati in Europa è un campo di tiro con un bersaglio mobile e sfuggente. Di fatto mentre gli immigrati tendono a omologarsi alla cultura del Paese ospite, questa se ne allontana per adattarsi a quella americana. La situazione in alcuni casi è paradossale. Immigrati provenienti da Paesi di cultura anglofona sono costretti alla cultura e allo stile di vita tedeschi, italiani etc. che a loro volta tendono a omologarsi a quelli americani. Il futuro che in sostanza si prospetta è quello di una progressiva omologazione dei Paesi europei alla cultura americana, non la evoluzione delle loro specificità nazionali in direzione multiculturale. È improbabile che possano costituire ostacolo a questo fenomeno i numerosi nativismi che in varia forma, anche politica, sono nati e si sono precariamente manifestati. Si tratta di ultimi rigurgiti di un nazionalismo romantico che arrivano fuori tempo massimo all’appuntamento della storia. Basti pensare che in Francia e in Italia solo ora si è arrivati al riconoscimento di alcune parlate locali o minoritarie, trascurando il fatto che esse se non già morte sono ormai in coma irreversibile. 97 Culture e conflitto Tanto irrecuperabile ritardo rispetto a quando queste culture erano vive deve fare riflettere sulla possibilità che da parte dei Paesi europei si possa arrivare in tempi ragionevoli al riconoscimento paritario di nuove realtà etniche. D’altra parte, prima di difendersi da questo ciecamente temuto rischio, le culture nazionali europee dovrebbero guardarsi dal pericolo, questo sì reale e incombente, della avanzata della cultura americana. È nota l’inutilità di questi tentativi, vedi in Italia le circolari Farinacci e in Francia le ricorrenti prese di posizione di governi e accademie. Rispetto alle dinamiche economiche connesse a questo come a ogni altro fatto di acculturazione, le soluzioni contrastive adottate quando non ridicole sono del tutto irrilevanti. Il caso catalano è istruttivo. È l’unico nel nostro tempo di riconoscimento ufficiale di una lingua, come tale, all’interno di un Paese europeo. Si può sostenere che a questo si è arrivati per il prestigio della tradizione culturale catalana e per il fatto che il catalano era riconosciuto dalla Repubblica prima del franchismo. Appare molto più decisivo di contro il fatto che la Catalogna è la regione economicamente più forte di tutta la Spagna e la sua borghesia la più politicamente influente. A conclusione di questo lungo excursus, che ha inteso porre dei problemi piuttosto che risolverli, alcuni fatti sembrano emergere in termini certi: 1) le estese dinamiche migratorie da cui sono interessati i Paesi europei economicamente più avanzati, ne rafforzano le strutture produttive e dunque la stratificazione sociale che le sostiene; 2) sussistendo e potenziandosi questa stratificazione i nuovi arrivati sono condannati a occupare i livelli sociali più bassi e nei casi peggiori marginali o devianti; 3) in questa situazione di evidente disparità sociale, è improbabile che i Paesi interessati dal fenomeno migratorio possano evolvere in senso realmente multiculturale; 4) sono comunque da prevedere fenomeni di meticciato, da cui risulterà modificato sempre più significativamente il 98 Antonio Buttitta profilo antropologico del Continente, tanto per l’aspetto genetico quanto per quello culturale. Tutto questo naturalmente non va pensato su scala continentale ma mondiale, non dimenticando che, diversamente da quanto pensano i poeti, l’uso degli uomini come forza lavoro non ha mai fatto di essi dei soggetti storici ma solo degli schiavi. La battaglia contro questa nuova schiavitù è sicuramente perdente. È tuttavia quanto di nobile ancora ci resta dell’umano che si ostina a sopravvivere in noi4. Note: 1 Per approfondimenti sul rapporto nazione/identità e sui conseguenti problemi si vedano anche E. J. Hobsbawm – T. Ranger 1987; F. Remotti, 1996; B. Anderson 1996; C. Geertz,1999; J. L. Amselle, 1999. Di particolare interesse: Z. Bauman 2003. 2 cfr. Proposte di emendamento al disegno di legge 993 (depositato in Senato il 21 dicembre 2001) espresse dal Centro internazionale sul Plurilinguismo nella seduta del 2 aprile 2003, Università degli Studi di Udine, s.d. 3 Il problema ha già prodotto una ampia letteratura difficilmente controllabile. Basti ricordare alcuni testi dai quali è anche possibile ricavare ulteriori notizie bibliografiche: Ch. Taylor, 1993; S. Sassen, 1999; R. Prandini, 1999. Per le relazioni con i fenomeni della globalizzazione non si può prescindere da F. Jarauta 1996; J. E. Stiglitz, 2003; S. Latouche, 2003. 4 J. Urrutia, 2000 contrappone schiavitù e libero mercato del lavoro. Non si accorge, pur scrivendo cose interessanti, di confondere dinamiche sociali orizzontali e verticali, mobilità nello spazio con mobilità nel sociale. Nel nostro caso alla libertà, sia pur condizionata, dei migranti di trasferirsi nel territorio, corrisponde una rigidità sociale ancora più determinata rispetto alla condizione dei ceti popolari europei nel passato. Per la puntuale conoscenza di una situazione precisa cfr. A. Cusumano, 2000; 2001. Riferimenti bibliografici Amselle, J. L., 1999, Logiche meticce, Bollati Boringhieri, Torino 99 Culture e conflitto Anderson, B., 1996, Comunità immaginate, origini e diffusione del nazionalismo, Manifestolibri, Roma Archdeacon, T. J., 1985, “Problems and Possibilities in the Study of American Immigration and Ethnic History”, «International Migration Review», 19, 1 Baumann, Z., 2003, Intervista sull’identità, Laterza, Bari Belpiede, A., 2002, “Farcela nella società senza staccarsi dalle proprie radici?”, «Animazione Sociale», 32, 3 Belpoliti, M., 2003, Doppio zero. Una mappa portatile della contemporaneità, Einaudi, Torino Berlin, I., 2001, Le radici del Romanticismo, Adelphi, Milano Buttitta, A., 1995, L’effimero sfavillio, Flaccovio, Palermo Campani, G., Carchedi, F., Tassinari, A. (a cura), 1994, L’immigrazione silenziosa. Le comunità cinesi in Italia, Edizioni della Fondazione Giovanni Agnelli, Torino Caritas, 2001, Immigrazione. Dossier Statistico 2001, Nuova Anterem, Roma Cavalli-Sforza, L. L., Menozzi P., Piazza A., 1997 (1994), Storia e geografia dei geni umani, Adelphi, Milano CNEL, Società e Istituzioni di fronte al processo migratorio, rapporto realizzato dal Cnel. Colectivo, I., Actis, W., Pereda, C., De Prada, M. A., 1995, Presencia del Sur. Marroquies en Cataluña, Institut Català d’Estudis Mediterranis, Madrid Cocchiara, G., 2000, L’eterno selvaggio, in G. D’Agostino (a cura), Sellerio, Palermo Cusumano, A., 2000, Cittadini senza cittadinanza. Rapporto duemila sulla presenza degli stranieri a Mazara del Vallo, CRESM, Gibellina – Mazara del Vallo Cusumano, A., 2001, “Interdipendenza senza integrazione e cittadini senza cittadinanza”, «Archivio Antropologico Mediterraneo», 3/4 (2000-2001) Dal Lago, A., (a cura), 1998, Lo straniero e il nemico. Materiali per l’etnografìa contemporanea, Costa & Nolan, Genova De La Pierre, S., 1995, “Immigrati a Milano. Modelli di autorappresentazione socio-culturale tra spinta all’integrazione e ricerca d’identità”, in Crescione E., La Pierre S. (a cura), Gli spazi dell’identità, Franco Angeli, Milano 100 Antonio Buttitta De Martino, F., 1979, Storia economica di Roma antica, voll. 2, La Nuova Italia, Firenze Di Comite, L., Carella, M. (a cura), 2002, Mobilità territoriale delle popolazioni e ricambio demografico, Cacucci, Bari Elbaz, M., Morin, F., 1993, “Sélection bibliographique sur générations d’immigrants, identité et mémoire”, «Revue Européenne des Migrations Intemationales», 9, 3 Geertz, C., 1999, Mondo globale, mondi locali, il Mulino, Bologna Giunta della Regione Lombardia – Assessorato Istruzione (a cura), 1985, Immigrazione straniera e bisogni socio-educativi. Atti del convegno 14-15 ottobre 1983, Milano Guilaine, J., 1994, La mer partagée. La Méditerranèe avant l’écriture, Hachette, Paris Hobsbawm, E. J., Ranger, T., 1987 (1983), L’invenzione della tradizione, Einaudi, Torino ISMU, 1996, Secondo rapporto sulle migrazioni, Franco Angeli, Milano Jaspers, K., 1942 (1937), Ragione ed esistenza, Bocca, Milano Jarauta, F. (a cura), 1996, “Globalizazio eta fragmentazida”, V Seminario Internacional de análisis de tendencias, Globalización y fragmentación del mundo contemporâneo, «Arteleku», Cuadernos 12 Kristeva, J., 1990, Stranieri a sé stessi, Milano, Feltrinelli Landuzzi, C., Tarozzi, A., Treossi, A. (a cura), 1995, Tra luoghi e generazioni. Migrazioni africane in Italia e in Francia, L’Harmattan Italia, Torino Latouche, S., 2003, Giustizia senza limiti. La sfida dell’etica in una economia mondializzata, Bollati Boringhieri, Torino Lazzari, F., Gobbo, F., 1988, “Il Convegno La nuova immigrazione e le sue culture (Milano, 6-7 novembre 1987)”, in «Studi Emigrazione», 25, 89 Lorreyte, B., 1989, Les politiques d’integration des jeunes issus de l’immigration. Situation francaise et comparaison européenne. Actes du colloque de Vaucresson 25 & 26 mai 1988, Editions l’Harmattan, Paris Losada Campo, T., Al-Thagafa, B., 1999, “Tendencias de la 101 Culture e conflitto inmigración marroqui y aproximaciones interculturales”, «Migraciones», 5 Losada, T., 1996, “Aspectos socio-culturales de la inmigración marroqi en Espana: familia. Islam. Segunda generación”, «Arbor», CLIV, 607 Maalouf, A., 1999, L’identità, Bompiani, Milano Macioti, M. I., Pugliese, E., 1996, Gli immigrati in Italia, Laterza, Roma Marazzi, A. (a cura) 1999, Domande sul multiculturalismo, Quaderni ISMU, 2, Franco Angeli, Milano Martinelli, M., 1996, Migrazioni e politiche sociali in Europa. L’esperienza tedesca ed italiana, Università Cattolica del Sacro Cuore, Facoltà di Scienze Politiche, Milano Portes, A., Rumbaut, R. G., 2001, The story of the immigrant second generation, University of Los Angeles Press, Los Angeles Portes, A., Hao, L., 2002, “The price of uniformity: language, family and personality adjustment in the immigrant second generation”, «Ethnic and Racial Studies», 25, 6 Provincia di Bologna, 1991, Società multietnica. Appunti e dati sul fenomeno migratorio in provincia di Bologna, Osservatorio sul Mercato del Lavoro, Bologna Prandini, R. (a cura), 1999, “I dilemmi dell’inclusione sociale”, «Sociologia e politiche sociali», 2, 3 Remotti, F., 1996, Contro l’identità, Laterza, Bari Rhyne, D., 1981, Generational differences between the Canadian born and immigrants in metropolitan Toronto: a descriptive analysis, Institute for Behavioural Research, Downsview, Ont. Roosens, E., 1979, “Désavantages et discrimination: la question des immigrés en Belgique”, «Studi Emigrazione», 16, 54 Rostovtzeff, M. I., 1965 (1926), Storia economica e sociale dell’Impero romano, La Nuova Italia, Firenze Sassen, S., 1999, Migranti, coloni, rifugiati. Dall’emigrazione di massa alla fortezza Europa, Feltrinelli, Milano Scidà, G., 1998, “Politiche sociali ed immigrati in Europa: sistemi educativi nella società multiculturale”, in Pollini 102 Antonio Buttitta G., Scidà G., Sociologia delle migrazioni, Franco Angeli, Milano Stiglitz, J. E., 2003 (2002), La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino Taylor, C., 1993, Multiculturalismo. La politica del riconoscimento, Anabasi, Milano Tenenti, A., 1996 (1952), La vita e la morte attraverso l’arte del XV secolo, Edizioni Scientifiche Italiane, Napoli Todorov, T., 1997, L’uomo spaesato. I percorsi dell’appartenenza, Donzelli Editore, Roma Tomasi, L. (a cura), 1992, “I giovani non europei ed il processo d’integrazione. Per una cultura della tolleranza”, «Sociologia», 4 Thorpe, I. J., 1996, The origins of agriculture in Europe, Routledge, London Touadi, J.-L., Zordan, R. (a cura), 2001, “Volti da scoprire. Immigrazione africana in Italia”, «Nigrizia», 119, 4 Urrutia, J., 2000, Lectura de lo oscuro. Una semiotica de África, Biblioteca Nueva, Madrid Villar, F., 1997, Gli indoeuropei e le origini dell’Europa, il Mulino, Bologna Vovelle, M., 1986 (1983), La morte e l’Occidente, Laterza, Bari Waters, M. C., 1994, “Ethnic and racial identities of secondgeneration black immigrants in New York City”, «International Migration Review», 28, 4 Widgren J., 1986, “The position of ‘second-generation migrants’ in Western Europe. Policy failures and policy prospects”, «Studi Emigrazione», 23, 81 Wittgenstein, L., 1967 (1953), Ricerche filosofiche, Einaudi, Torino Zanfrini, L., 2000, “I paradossi dell’integrazione degli immigrati in Italia”, «Aggiornamenti Sociali», 51, 5 103 Un esempio di costruzione culturale del conflitto BRUNO RICCIO Università di Bologna Il 21 agosto 1996 sulle spiagge della riviera romagnola scoppia una rissa violenta tra un gruppo consistente di ambulanti africani e le forze dell’ordine. Il conflitto si svolge sotto lo sguardo dei turisti che si trovano nel ruolo inaspettato di spettatori dello scontro. In effetti, a differenza delle risse tra mods e rockers sulle spiagge di Brighton negli anni ’60, che erano caratterizzate dai rituali tipici degli scontri tra bande rivali, questo episodio di violenza sembrava aggredire la pacifica villeggiatura dei bagnanti in modo del tutto inatteso, quasi a sostenere le tesi degli antropologi che teorizzano l’imprevedibilità della violenza e la conseguente impossibilità di un suo studio analitico e sistematico. Contrariamente a queste letture estetizzanti della violenza (Thorton 1990; 1995) come fenomeno imprevedibile, caratterizzato da una peculiare temporalità che la rende “a-strutturale, acategorica, perplessa tra le cause e le conseguenze” e che stimolano una postmodernista sospensione dell’analisi, sostengo che la violenza, sia come esperienza sia come cornice rappresentativa, non possa essere dotata analiticamente di senso se non viene contestualizzata. In altre parole, la vecchia tendenza degli antropologi ad interpretare i fenomeni sociali connettendoli al contesto socio-culturale in cui avvengono si rivela a mio avviso indispensabile anche nella lettura dei conflitti, della violenza e dei suoi “nuovi significati contemporanei” (Wieviorka 1996). Questo breve intervento si basa su alcune riflessioni emerse da un percorso di ricerca sul campo alla fine degli anni 90. Lo studio nel suo complesso era finalizzato ad esplorare in 105 Culture e conflitto modo etnografico l’interazione di due fenomeni sociali nel produrre processi di integrazione e di esclusione dei migranti senegalesi nella costa della Romagna: le esperienze di questi ultimi all’interno di configurazioni transnazionali emergenti dal contesto di origine da un lato e, dall’altro, le rappresentazioni e le pratiche istituzionali caratterizzanti il contesto locale di approdo (Riccio 2000; 2001). Questo percorso mi ha permesso di analizzare fenomeni conflittuali come quelli riguardanti direttamente o indirettamente le questioni dibattute come il problema dell’“abusivismo commerciale”. Già nel 1989 Rimini e Cesena sono state testimoni di manifestazioni che esplicitamente attaccavano i commercianti ambulanti di cui una buona parte era di origine africana. In altre sedi ho mostrato come il problema dell’abusivismo e i dibattiti conflittuali su questo fenomeno preesistessero ed in seguito inglobassero qualsiasi forma di discorso sull’immigrazione (Riccio in Callari Galli, Riccio 2001). Questa relazione si propone di esplorare due aspetti non meccanicamente connessi di tale conflitto: quello caratterizzante le pratiche e le esperienze concrete nella vita di immigrati senegalesi e quello inerente alla violenza come strumento rappresentativo, come parte integrante di una strategia mediatica. Analizzerò le connessioni tra rappresentazione ed esperienza della violenza nel processo di criminalizzazione degli immigrati che ha caratterizzato l’estate 1996. L’analisi si focalizza in particolare sulla modalità con cui alcuni avvenimenti violenti sono discussi nei giornali locali (la cornice discorsiva della stampa locale) e su come la violenza possa fungere da strumento mediatico nel forgiare un “linguaggio di guerra” (Gilroy 1987) capace di fornire il codice simbolico nel rappresentare gli immigrati. Il contesto Il sud della riviera romagnola ha sviluppato un’economia fondata principalmente sul turismo e il commercio ambulante svolto da molti senegalesi viene percepito come una mi106 Bruno Riccio naccia al benessere della comunità formata da un consistente settore di negozianti e commercianti che detengono un potere politicamente rilevante. In questo contesto, la diffusa associazione dell’immigrazione ad altri fenomeni come il commercio informale e la criminalità tende a stigmatizzare l’immigrazione senegalese, che diventa facilmente un capro espiatorio delle stagioni turistiche più infelici. Durante l’estate la cornice dell’ambulantato e del commercio abusivo diventa dominante trasformando i giornali in vere e proprie arene di confronto tra diverse e contrapposte letture del fenomeno e delle iniziative da intraprendere per affrontarlo. Schematizzando, da un lato si distinguono i sindacati (Cgil, Cisl, Uil) e il volontariato, dall’altro le associazioni di categoria dei commercianti (Confesercenti e Confcommercio) e in mezzo a respingere critiche e a giustificare scelte, decisioni e non decisioni si dibattono gli enti locali (sindaci e assessori comunali). I primi sono promotori di un discorso che si autodefinisce propositivo: combattere il fenomeno alla fonte (grossa distribuzione), stimolare integrazione alternativa nel mercato del lavoro (corsi di formazione collegati con realtà economiche disponibili all’assunzione), regolarizzazione di alcuni commercianti ambulanti che si limitano alla vendita di prodotti di artigianato africano non in competizione con il commercio locale; i secondi esprimono il timore ed il malcontento dei commercianti, minacciati dalla competizione sleale degli ambulanti, ritengono demagogiche le proposte dei sindacati e indispensabili le soluzioni repressive nei confronti degli ambulanti abusivi; gli ultimi assumono una posizione flessibile a seconda delle situazioni. In questa sede non mi propongo di analizzare nel dettaglio tutti gli articoli sul tema ma desidero evidenziare alcune rappresentazioni che sono emerse e si sono modificate man mano che il dibattito si sviluppava e l’estate avanzava. Più precisamente, vorrei sottolineare come diversi generi di discorso (abusivismo, criminalità e immigrazione) gradualmente tendano a confondersi e come lo sviluppo delle polemiche si accompagni ad una crescita di tensione riscontrabile nel linguaggio e negli eventi realmente accaduti. 107 Culture e conflitto Il conflitto sulla stampa locale È con la fine di giugno 1996 che il dibattito sull’abusivismo commerciale inizia con la presentazione dei primi risultati di una ricerca (Catanzaro e Nelken 1996) finanziata dalla Regione Emilia-Romagna e dall’Unioncamere che ha analizzato il fenomeno del commercio abusivo sulla riviera romagnola (ripresa sul «Corriere di Rimini» e «Il Resto del Carlino» del 22 giugno). I dati smentivano alcune leggende che circondavano il fenomeno: l’esistenza di una centrale organizzativa che controllasse gli ambulanti (era una situazione di mercato anche se informale), la crescita continua del fenomeno (il numero risultava stabile sulle 2 mila unità da qualche anno), appannaggio dell’immigrazione clandestina (molti in realtà avevano il permesso di soggiorno). Quasi la metà è di nazionalità senegalese e la maggioranza si riforniva proprio in Riviera. È a luglio che il dibattito si accende. La Cgil critica l’eventualità di un’azione di pattugliamento delle spiagge sulla base di un accordo preso in autunno con i Comuni in cui si era convenuto di non colpire “il più debole”; il «Corriere di Rimini» titola No alla caccia al nero (6.7.1996; intervista ripresa anche da «La Mattina» 6.7.1996). Contemporaneamente «Il Resto del Carlino» descrive i primi risultati nella lotta contro quello che viene risentito come il problema più grave della provincia sottotitolando: 63 mila oggetti sequestrati: vanno a ruba le grandi firme. Caccia agli ‘irriducibili’ della sabbia (6.7.1996). È guerra agli abusivi titola sempre il «Corriere» la settimana dopo, si comincia a parlare di “soglia di tollerabilità oltrepassata” e ha inizio l’organizzazione di controllo, prevenzione e repressione del fenomeno coordinata tra Questura, Prefettura, Carabinieri, Finanza con Capitaneria e Vigili Urbani che forniscono il personale per il pattugliamento dell’arenile. La Confesercenti provinciale di Rimini periodicamente acquista una pagina del «Corriere» proponendo i dati del proprio “Osservatorio sull’abusivismo” sugli ambulanti abusivi avvistati sulle varie spiagge della provincia; nel «Bollet108 Bruno Riccio tino»: “Dilaga il fenomeno dell’abusivismo commerciale sulla spiaggia di Rimini” (691); “Preoccupante inversione di tendenza nel litorale di Riccione” (257; 122 in più). Dopo la descrizione di questi diversi ‘fronti di guerra’ viene fornito il commento un poco minaccioso: “i commercianti stanno ancora aspettando gli interventi promessi. Fino a dove potrà arrivare la pazienza dei commercianti?” Nello stesso giorno (23.7.1996) «Il Resto del Carlino» acuisce i termini minacciosi con cui viene affrontato il tema dell’abusivismo. Il titolo è chiaro: Con queste cifre la ronda spontanea è dietro l’angolo. È sempre il segretario della Confesercenti di Rimini che si domanda: “E se prendesse piede ‘la giustizia fai da te’? E se si formassero anche qui ‘ronde’ di operatori per combattere l’abusivismo?”. Questo tipo di domande percorre instabilmente il sottile e ambiguo filo che distingue l’allarmismo interrogativo dall’insofferenza propositiva. Il dibattito continua tra precisazioni, controproposte che ribadiscono le divergenti posizioni fino alla fine del mese. «Il Resto del Carlino» del 27.7.1996 propone un dossier di articoli di rappresentanti politici e di categorie con il titolo: Extracomunitari la polemica dell’estate. È questo il momento in cui il dibattito sull’abusivismo e il discorso sull’immigrazione si confondono totalmente, vengono rappresentati come lo stesso argomento. Il complesso “fenomeno sociale totale” dell’immigrazione viene ridotto sia dagli “oppositori” che dai “difensori” degli immigrati ambulanti al “problema dell’abusivismo commerciale” (cfr. Cole 1997). Il 31 luglio «La Mattina» titola: Pattuglie anti abusivi sulla spiaggia, Rimini decide per il pugno di ferro. La decisione del Comitato Provinciale di Sicurezza acquieterà gli animi delle associazioni di categoria per un poco, ma, come vedremo, questa pausa sarà come la quiete prima della tempesta di agosto. Il 7 agosto «Il Corriere» informa sull’arresto di un ambulante che ha reagito al sequestro della sua merce e il comandante del porto di Riccione che coordina parte del personale che pattugliano la spiaggia commenta: «Queste reazioni sono dovute anche al fatto che per mezzo dei nostri interventi continui e giornalieri rendiamo praticamente im109 Culture e conflitto possibile lo svolgimento dell’attività abusiva.»; più drammatico il titolo de «il Resto del Carlino»: E la divisa è presa a pugni. Operazione anti vu cumprà, la reazione è violenta. Questo evento era solo l’inizio di una sequela di scontri che avrebbero caratterizzato la seconda metà di agosto e che sarebbero culminati con la grossa rissa con cui si è iniziata la nostra discussione. Il 16 agosto a Riccione un gruppo di venti senegalesi si chiude in casa per delle ore e si rifiuta di fare entrare le forze dell’ordine che volevano sequestrare la merce. Il giorno dopo «il Resto del Carlino» titola: La “legge” del più debole. Assedio durato ore con l’intervento di polizia e carabinieri. Episodio inquietante e nella conclusione dell’articolo si commenta: «Il nuovo episodio conferma un’aggressività finora sconosciuta». Il 17 agosto alcuni ambulanti in spiaggia si ribellano al sequestro e con l’aiuto dei turisti recuperano la merce, nei tafferugli un vigile rimane ferito. Il «Corriere» titola Rissa anti divise; Fischi e botte in spiaggia in difesa dei vu cumprà (18.8.1997). Su «il Resto del Carlino» (La solidarietà è un pericolo pubblico; senegalesi sempre più violenti) il sindaco di Riccione si spiega dicendo: «Nessuno nega che ci sia una tensione ma questo, lo ripeto, è dovuto al controllo costante» («Il Resto del Carlino» 18.8.1996). Il 21 agosto un gruppo consistente di ambulanti si ribella al sequestro della merce e scoppia una grossa rissa con quattro feriti tra il personale dei pattuglioni; alcuni turisti applaudono offendendo le forze dell’ordine. Si accentuano le metafore belliche nel descrivere gli avvenimenti (cfr. Gilroy 1987 a proposito del “linguaggio di guerra”). Il «Corriere» titola: Agguato alla pattuglia e sottotitola: Circa 50 extracomunitari armati di spranghe; per poi rivelare nell’articolo che “uno ha una spranga” («Il Corriere di Rimini» 22.8.1997). Un altro titolo da «il Resto del Carlino»: Immigrati all’assalto dei vigili; sottotitolo: Otto feriti e un senegalese arrestato. “Ci aspettavano: è stato un vero e proprio agguato”; l’inizio dell’articolo: «È rivolta. L’esercito dei vu cumprà della Riviera, forte del sostegno dei villeggianti manda all’ospedale marinai, vigili e finanzieri. I pattuglioni, mes110 Bruno Riccio si in spiaggia dalle amministrazioni sotto la spinta dei commercianti vengono travolti e percossi da decine e decine di uomini di colore. E le statuette da merce si trasformano in clave. Il tutto sotto lo sguardo dei turisti che parteggiano apertamente per gli abusivi, scatenando, di fatto la loro reazione» («Il Resto del Carlino» 22.8.1996). Nello stesso articolo si fa riferimento prima ad “una cinquantina di uomini” e successivamente ad una “trentina di senegalesi sbucati da chissà dove”. Viene raccolta la testimonianza di un vigile che esprime le difficoltà ad “arginare tanta marea” e si commenta: «Consapevoli dell’appoggio della gente i venditori “di frodo” stanno organizzando la resistenza» («Il Resto del Carlino» 22.8.1996). I commenti del sindaco di Riccione sono riportati su tutte le testate: «Gli abusivi sono criminali. Non sono più i vu cumprà di una volta. Quelli hanno un organizzazione alle spalle, una regia. Appena qualcuno di loro viene colpito ecco che ne saltano fuori una trentina in loro soccorso. Di fronte a 30-40, che usano i loro prodotti di artigianato come armi improprie, i nostri soccombono […] I nostri, per di più, vengono isolati da certe anime belle di turisti e cittadini che, in nome di un deleterio buonismo, stanno dalla parte degli abusivi. Credono di avere a che fare con il povero venditore tartassato. Delinquenti sono […]». Il commento del giornalista: «Una organizzazione alle spalle […] rete di protezione per gli abusivi con tanto di regia “politica” al vertice». Sulla tesi della regia e dell’organizzazione concorda anche il segretario della Confesercenti: «Con la violenza questi abusivi puntano ad affermare la loro presenza e quindi una sorta di legittimazione sul territorio» («Il Resto del Carlino» 22.8.1996). Dunque le prime reazioni degli ambulanti all’inizio del mese venivano commentate vantandosi che esse fossero il sintomo di un buon lavoro condotto con efficacia, ma di fronte alle reazioni coinvolgenti un maggior numero di persone alla fine del mese bisogna fare appello alla tesi dell’organizzazione criminale e della strategia. È come se non ci si riconoscesse alcuna responsabilità per un’esasperazione che poche settimane prima ci si vantava di produrre. Infine, in un’intervista uno dei membri del 111 Culture e conflitto pattuglione aggredito racconta: «Quaranta negri armati di bastoni e pali di ferro fanno paura, se sei a mani nude te la fai addosso» («Il Resto del Carlino» 22.8.1996). Qualche giorno dopo, un testimone della rissa del 21 agosto sgonfia i titoli dei giorni precedenti e soprattutto la tesi dell’agguato di un esercito organizzato: «In seguito al sequestro […] un ragazzo senegalese ha rincorso il vigile e si è attaccato alla merce. Dopo essere stato allontanato dai suoi connazionali, ci ha riprovato ancora una volta, provocando la reazione difensiva del vigile e del suo bastone di ordinanza. A quel punto sono intervenuti altri venditori senegalesi, ed è nato lo scontro vero e proprio con il pattuglione […] Non è vero che sia sbucata una truppa di 50 vu cumprà armati di spranghe per l’agguato». («Il Resto del Carlino» 25.8.1996). Ad ogni modo, ripeto, non si tratta in questa sede di vagliare gli avvenimenti con un criterio di veridicità, ma ci interessa evidenziare la consapevole ed inconsapevole costruzione di rappresentazioni che avviene sulla stampa locale. La distanza tra le immagini presentate dai titoli sopra menzionati e questa testimonianza degli avvenimenti ci permette di apprezzare, anche se solo parzialmente, le modalità con cui la rappresentazione “bellica” venga forgiata. Riflessioni conclusive Ho qui presentato eventi violenti e rappresentazioni in cui vengono confusi come stesso fenomeno tre piani distinti nella realtà: abusivismo, criminalità e immigrazione. Tale cornice simbolica si presenta come il contenitore immaginario all’interno del quale la comunità romagnola pensa il fenomeno immigrazione, trasformando i giornali locali in vere e proprie arene di confronto tra diverse e contrapposte letture del fenomeno e delle iniziative da intraprendere per affrontarlo. Le immagini più ricorrenti rappresentano il migrante sia come minaccia che come escluso dalla “comunità morale”. Il migrante rappresenta ciò che Althabe chiamerebbe “attore simbolico”, il terzo escluso con funzione di 112 Bruno Riccio mediazione nella comunicazione. Secondo l’antropologo francese le minoranze immigrate nelle realtà urbane fungerebbero da attori simbolici negativi, i quali con la loro semplice esclusione e segregazione rafforzerebbero l’intesa e il consenso tra gli autoctoni (Althabe 1996). Lo sviluppo delle polemiche si accompagna ad una crescita di tensione riscontrabile nel linguaggio e negli eventi realmente accaduti. L’obiettivo di questa discussione era comunque mostrare come fosse necessaria la contestualizzazione dell’avvenimento più violento per comprenderlo senza liquidarlo come un atto irrazionale ed illeggibile. Riferimenti bibliografici Althabe, G., 1996, “Construction de l’étranger dans la France urbaine d’aujour’hui” , in D. Fabre (a cura), «L’Europe entre cultures et nations», Editions de la Maison des sciences de l’homme, Paris Callari Galli, M., Riccio, B. (a cura), 2001, “Sguardi antropologici sul turismo”, «Afriche e Orienti», 3/4 Catanzaro, R., Nelken, D., Belotti, V., 1996, “Un posto per vendere. I commercianti ambulanti irregolari sulla riviera emiliano-romagnola”, «Sociologia del lavoro», 64 Cole, J., 1997, The New Racism in Europe. A Sicilian Ethnography, Cambridge University Press, Cambridge Gilroy, P., 1987, There ain’t no black in the Union Jack, Hutchinson, London Riccio, B., 2000, “Spazi transnazionali: esperienze senegalesi”, «Afriche e Orienti», 3/4 Riccio, B., 2001, “Migranti senegalesi e operatori sociali nella riviera romagnola. Una etnografia multi-vocale del fenomeno migratorio”, «La Ricerca Folklorica», 44 Thorton, R., 1990, “The Shooting at Uitenhage, South Africa, 1985: the Context and Interpretation of Violence”, «American Ethnologist», 17, 2 Thorton, R., 1995, “The Peculiar temporality of Violence”, 113 Culture e conflitto «Seminar Paper», Centre for the Study of Violence and Reconciliation, Johannesburg Wieviorka, M., 1996, “Violence, Culture and Democracy: A European Perspective”, «Public Culture», 8 114 Turisti e conflitti: quando la tragedia diventa l’anima del turismo FEDERICA FERRARIS Università di Bologna Mentre mi accingevo a raccogliere le idee e i dati per questo contributo, il terrorismo è tornato nuovamente a colpire l’occidente in uno dei suoi centri forse idealmente meno rappresentativi del Satana occidentale: la capitale della Spagna, Madrid, nel cuore del Mediterraneo. Vittime prevalenti di questi attacchi sono stati i pendolari che si trovavano a bordo dei treni che stavano giungendo nelle tre stazioni obiettivo dell’attacco. L’11 settembre del 2001, solamente il fatto che fossero le 9 del mattino (ora locale) ha scongiurato che tra le vittime dell’attacco al World Trade Center di New York, senza alcun dubbio uno dei punti più panoramici della città, oltre che uno dei centri simbolicamente più importanti dell’American way of life e del potere economico statunitense, vi fossero pochi turisti. Ma anche in quel caso, alcuni turisti si sono venuti a trovare nel posto sbagliato, ed hanno pagata cara la propria voglia di sightseeing. Molto spesso, soprattutto nel caso di destinazioni esotiche, di contesti la cui stabilità politica è messa alla prova da conflitti di ordine politico, sociale o etnico, non è raro che all’onore delle cronache salgano le vicende di turisti “avventurosi” la cui unica colpa è stata quella di essersi voluti addentrare in territori particolarmente rischiosi dal punto di vista della sicurezza interna. Rapimenti ed assassinî di turisti hanno luogo in ogni angolo del mondo, dallo Yemen all’Indonesia, dalle Filippine alla Colombia, dal Marocco al Perù, e ormai non risparmiano più neppure quelle regioni di mondo un tempo ritenute più “sicure” perché racchiuse nell’én115 Culture e conflitto clave del mondo occidentale, come per l’appunto gli Stati Uniti o l’Europa. Il tema della sicurezza per chi lavora nel settore del turismo sta diventando sempre più urgente. È forse per questo motivo che anche gli analisti sociali si stanno sempre più interessando alle relazioni esistenti tra turismo e guerra, un binomio che per molti versi può sembrare paradossale, ma che, come cercherò di illustrare, può essere analizzato da molti, diversi e talvolta insospettabili punti di vista. Ciò che ho qui intenzione di approfondire non è tanto la questione della diffusione globale del terrorismo, quanto piuttosto il mostrare come nella letteratura antropologica contemporanea l’attenzione degli specialisti alle questioni inerenti la violenza e i conflitti stiano assumendo delle configurazioni di vario genere. Se difatti da un lato ci troviamo di fronte ad uno scenario in cui al tema della violenza viene connesso un discorso di instabilità che mina le basi economiche di nazioni che fanno del turismo una delle principali fonti di immissione di valuta estera nella propria economia, dall’altro esiste una riflessione sempre più attenta nei confronti della violenza come oggetto di richiamo dell’interesse per i turisti stessi. Lo sguardo del turista quindi non solo si posa su violenza e conflitto, ma anzi essi diventano, per un numero sempre crescente di individui, uno stimolo al viaggio turistico (cfr. Diller e Scofidio, 1994, Phipps, 2000). Comincerò pertanto con il proporre alcune considerazioni inerenti il primo, e forse più comune, discorso sui rapporti tra turismo e conflitti, riguardante per l’appunto il tema della sicurezza, per poi concentrarmi su fenomeni da vari autori definiti “tanaturismo” o “turismo nero” (Smith, 2001b: 373, Miles, 2002) “turismo di guerra” (Smith, 1996, 2001a, 2001b), “turismo nelle zone a rischio” (Adams, 2001), e sugli attori sociali implicati da tali fenomeni, ovvero, i “turisti di guerra” (Pitts, 1996, Phipps, 1999) e i “terroturisti” (Phipps, 2000); concluderò infine facendo riferimento ad un contesto concreto – quello cambogiano – che mi sembra stia vivendo una sorta di transizione dal terroturismo al tanaturismo (Adams, 2001, Ferraris, 2004, Phipps, 2000). 116 Federica Ferraris Sicurezza e turismo: l’impatto economico e simbolico sui flussi turistici In un recente testo che raccoglie nuove ipotesi teoriche e metodologiche inerenti il turismo contemporaneo, Valene L. Smith, senza dubbio da annoverarsi tra gli studiosi che maggiormente hanno legato il proprio nome alla ricerca antropologica del fenomeno turistico, analizza il tema del conflitto e della guerra da diversi punti di vista; questi, considerati nel loro insieme, possono mettere in luce la complessità del rapporto delle relazioni esistenti che il turismo, inteso come fenomeno culturale contemporaneo, instaura con altri eventi, come quelli bellici (Smith, 2001b: 367-379). La prima e forse più evidente riflessione proposta concerne per l’appunto il tema della sicurezza e della carenza di stabilità come primo deterrente dei flussi turistici: «La sicurezza personale è un elemento di crescente preoccupazione che si è spostata dal problema degli attacchi criminali e delle aggressioni a scopo di rapina per rubare denaro o altri effetti personali. […] I sempre più frequenti episodi di sequestro di persona a danno di turisti da parte di gruppi terroristici che li utilizzano come merce di scambio per ottenere armi è un potente deterrente al turismo in molte aree del mondo instabili sul piano politico» (Smith, 2001a: 348-349), al punto da ridurre l’impatto di certe notizie sulla stampa per proteggere l’immagine del luogo e le conseguenti entrate turistiche (ivi). La seconda considerazione proposta dall’autrice spinge invece a riflettere sull’importanza dei luoghi e delle attività turistiche connesse alla memoria post-bellica, dal momento che siti, destinazioni ed attività legate alla memoria di guerre, battaglie e conflitti costituiscono nel loro complesso la più vasta macro-categoria di oggetti e luoghi visitati dai turisti (Smith, 2001b: 368). Una terza riflessione ci conduce invece più direttamente all’analisi dello scenario contemporaneo. Se difatti si è verificato un mutamento epocale nel modo di combattere le guerre con la prima e seconda Guerra Mondiale prima, e 117 Culture e conflitto con la prima e seconda Guerra del Golfo poi, è auspicabile ragionare anche sulle conseguenze che tali trasformazioni possono indurre nella riorganizzazione del turismo internazionale. L’incremento del terrorismo seguito alla prima Guerra del Golfo, ulteriormente aumentato dopo gli attacchi alle Torri Gemelle dell’11 settembre 2001, è una problematica che va difatti a toccare ancora una volta il turismo da un duplice punto di vista. Da un lato vi è ancora una volta la questione della sicurezza dei turisti; di fronte agli attacchi terroristici, i governi nazionali non sono difatti in grado di rispondere al bisogno di sicurezza necessario allo sviluppo turistico fornendo delle garanzie certe per i visitatori stranieri; dall’altro, vi è un interesse da parte dei terroristi stessi ad agire contro i turisti, in modo da provocare in ultima istanza il crollo del governo nazionale (Smith, 2001b: 375). Un esempio del “successo” di tale strategia è quello del massacro di cinquantotto turisti in visita al tempio egiziano della regina Hatsheput nel 1997, in seguito al quale gli operatori turistici internazionali si affrettarono a cancellare le prenotazioni dei propri tour per i mesi successivi in attesa che la situazione si stabilizzasse nuovamente (cfr. Butler, 1999). A differenza dei siti di guerra tuttavia, secondo la Smith, il terrorismo non evocherebbe un analogo desiderio di recarsi sui luoghi teatro di atti terroristici (Smith, 2001b: 376). Una parziale obiezione a tale affermazione viene tuttavia da Ground Zero, il luogo in cui sorgevano le Twin Towers distrutte dagli attacchi terroristici dell’11 settembre, oramai divenuto meta di pellegrinaggio da parte di numerosi visitatori che si recano a New York (Lisle, 2004)1. Queste sono a grandi linee le considerazioni che possono essere espresse in relazione al tema della sicurezza e dei suoi rapporti con il viaggio turistico di massa. Ma che dire quando ci troviamo di fronte a flussi turistici che, per quanto marginali dal punto di vista numerico, seguono la scia della violenza e dei conflitti rendendoli una motivazione prioritaria nella scelta di specifiche mete di viaggio? 118 Federica Ferraris Il turismo nelle zone di conflitto: la tendenza alla distinzione Per quanto questo scenario possa sembrare anomalo, esistono delle ragionevoli constatazioni che possono permettere di comprendere questo tipo di turismo, e che ci riportano ad una delle più note distinzioni tipologiche in ambito turistico, ovvero quella tra turismo di massa e turismo individuale, talvolta definito anche come “alternativo”. La rilevanza assunta dal fenomeno da un punto di vista simbolico ed ideologico2 ha condotto alcuni analisti ad interrogarsi sulle caratteristiche di questo tipo di viaggio, e a prendere in considerazione le retoriche e il tipo di autorappresentazione che da tali esperienze può derivare a chi adotta stili di viaggio decisamente non convenzionali come quelli sopra descritti: «Le ricadute economiche di una citazione nella [guida turistica] Fielding’s The World’s Most Dangerous Places e le entrate potenziali derivate dalla vendita di souvenir che si richiamano al rischio sono alcuni dei più concreti motivi che inducono a riflettere da un punto di vista scientifico sul fenomeno del turismo nelle zone a rischio» (Adams, 2001: 267). Peter Phipps, che ha dedicato ampio spazio nella sua riflessione alle complesse e non sempre facilmente individuabili interconnessioni esistenti tra la valenza ideologica del pericolo e della morte e le esperienze di turismo alternativo, sottolinea quanto l’immaginario del rischio sia fortemente connesso con l’ideologia di un certo turismo backpacker: «Uno dei luoghi in cui ci si distanzia dalla vita quotidiana è la maggiore consapevolezza dell’incontro con i pericoli o con l’eventualità di trovarsi in situazioni pericolose nell’esplorare l’ignoto. In India il pericolo principale incontrato dal viaggiatore è il rischio di contrarre alcune malattie debilitanti o addirittura mortali. […] Questa logica si connette in ultima analisi con il significativo potere della Morte. In effetti, non c’è nulla di più inequivocabilmente “reale” del fatto della morte sperimentata da vicino, quando non di persona. Hutnyk afferma che nei primi anni Novanta, una voce che si era diffusa a macchia d’olio tra i backpackers, ovvero il fatto che Tony Wheeler, curatore ed editore dell’onnipresente impero di guide Lonely Planet, 119 Culture e conflitto fosse morto di morte violenta nel corso di un viaggio. La voce si è sparsa grazie all’esistenza di un tema immaginario collettivo: così come le sue guide riproducono meticolosamente le ideologie dei backpackers e segnano il limite delle loro possibilità, la sua morte conferma il potere autentificativo delle sue guide realistiche. Vi è una sorta di carattere religioso interno a queste guide, cui ci si riferisce solitamente come alla “Bibbia”, e che in tal senso richiede un salvatore sacrificale così come è caratteristico della tradizione giudaico-cristiana». (Phipps, 2000: s.p.) Nello stesso contributo, Phipps cita anche un episodio che ci riporta direttamente al contesto specifico su cui ritornerò più approfonditamente nel prossimo paragrafo, riferendo dell’uccisione di tre turisti – un australiano, un francese e un inglese – ad opera dei khmer rossi, che li avrebbero sequestrati mentre, sebbene sconsigliati dai propri connazionali incontrati a Phnom Penh, si recavano verso Kampot alla ricerca di marijuana di ottima qualità e di un po’ di emozioni extra offthe-beaten-track3: «I primi due costituivano una merce preziosa in quanto rappresentanti degli attori neo-coloniali presenti sulla scena politica cambogiana: l’Australia, ed il precedente dominatore coloniale, la Francia. Ambedue i paesi avevano sponsorizzato gli accordi di pace in Cambogia, ed erano i principali sostenitori del governo di Hun Sen all’indomani della rottura delle relazioni con i Khmer Rossi, cui avevano fornito aiuti, armi e supporto militare, e che probabilmente sarebbe stato disposto a pagare caro per riavere i cittadini dei due governi sostenitori sani e salvi» (Phipps, 2000: n. p.). In questo modo, i tre ostaggi divennero pedine di un gioco geo-politico ben più complesso, e finirono con l’essere uccisi probabilmente perché Hun Sen si rese ad un certo punto conto che avrebbe guadagnato di più dalla loro morte che dal loro rilascio (ivi). Questo accadeva nel 1994. L’eco di questo avvenimento trova tuttora un certo riscontro nelle guide turistiche dedicate al paese, ed in particolare nella Guide du Routard: 120 Federica Ferraris «Dire che la Cambogia è (ri)diventato un paese tranquillo significherebbe mentirvi. Poiché, nonostante il trattato di pace del 1991 ed il ritorno della democrazia, il paese non è ancora stabile politicamente. I Khmer Rossi, ahimè, non sono ancora scomparsi. […] A titolo di esempio, tre giovani occidentali, tra cui un francese, hanno perso la vita nel 1994 nella regione di Kampot. Lo stesso re Sihanouk ha suggerito ufficialmente ai turisti di essere MOLTO PRUDENTI [sic] in Cambogia» (2001: 211). Ma oggi, si può ancora parlare di danger tourism per la Cambogia? Come spesso succede, dare una risposta univoca è molto difficile. Credo tuttavia di poter affermare con una certa sicurezza che la Cambogia ora stia affrontando una fase di transizione, in cui tuttavia la morte è ancora un oggetto su cui lo sguardo del turista si posa. Dal turismo nelle zone di conflitto al tanaturismo unito al turismo culturale: il caso della Cambogia La Cambogia sembrerebbe aver sperimentato una carriera “discendente” come meta di turismo estremo, ma è cresciuta in popolarità come meta di un turismo sempre più di tipo culturale e storico a cui si mescolano alcuni elementi che possono essere ricondotti al tanaturismo, ovvero a quelle pratiche di viaggio/escursione/pellegrinaggio dirette a luoghi associati a e/o “di morte, disastri e depravazioni” (Miles, 2002: 1175, Ferraris, 2004: 243-261). Nel 1998, la popolare guida di viaggio Fielding’s The World Most Dangerous Places (Pelton et al., 1998), definita dal «New York Times» come «uno dei più stravaganti ed affascinanti libri di viaggio» (cit. in Adams, 2001: 267) nella sezione dedicata al sud-est asiatico conteneva capitoli su Cambogia, Myanmar, Filippine e altre sezioni più brevi inerenti Timor Est e Laos (269). In questa edizione, Pelton descrive la Cambogia come un posto in cui «un turista può volare a Phnom Penh e Siem Reap a bordo di un moderno jet, soggiornare in un hotel a 5 121 Culture e conflitto stelle, e visitare un complesso di templi, corredato di Pepsi ghiacciate, auto con l’aria condizionata e pasti appetitosi, seguiti da una buona birra fredda presso uno dei tanti nightclub frequentati abitualmente dai soldati delle Nazioni Unite. Un altro turista può trovarsi invece sull’orlo di una tomba poco profonda, scavata in fretta e furia, in attesa che il colpo di fucile gli perfori il cervello, ponendo così fine alla sua breve ma avventurosa esistenza. La differenza tra i due scenari può essere 10 km, o semplicemente l’aver sostato un po’ troppo a lungo sulla strada» (Pelton, 1998: 364, cit. in Adams, 2001: 270). L’autrice sottolinea inoltre non solo l’esistenza di un immaginario negativo associato alla presenza di turisti regolari nel mondo del turismo a rischio4, ma anche l’impatto dei mutamenti politici sui circuiti di tale tipo di viaggio: «Non appena i turisti regolari ritornano nei posti rimasti fuori lista per un certo periodo, i turisti delle zone a rischio partono alla ricerca di altre nazioni ritenute più “pericolose”» (ivi). Esemplificative sono le affermazioni di un turista da poco rientrato da un viaggio in Cambogia, che l’autrice ha reperito su un forum internet presente all’interno del sito web associato alla Fielding’s Most World’s Dangerous Places: «Un altro soggetto di ritorno da una visita a Siem Reap metteva in guardia i potenziali futuri viaggiatori dal recarvisi, dal momento che “aveva smesso di essere una destinazione a rischio – era diventata una trappola per turisti”. Come egli stesso ha dichiarato, “non è più avventuroso, pericoloso, divertente etc., perché ogni turista in Cambogia ci va…” (Mike, 2000: s.p.)» (ivi), a testimonianza della crescente “normalizzazione” del contesto cambogiano e del conseguente minore clima da brivido che invece poteva renderla attraente agli occhi dei frequentatori del forum. Nel corso di una mia visita allo stesso sito internet nell’aprile 2004, la Cambogia era ancora annoverata tra le destinazioni potenziali all’interno della web page intitolata Dangerous Places5, ma non in quella dedicata alle Attractions6. Nella sezione Dangerous Things7, il dangerous traveller trova un’ampia e dettagliata selezione di informazioni sui pericoli 122 Federica Ferraris che lo attendono in Cambogia – la presenza di mine, i frequenti furti d’auto e moto, gli eventuali sequestri di turisti da parte dei contadini cambogiani che “rivenderebbero” gli ostaggi ai Khmer Rossi – ed una selezione di località che, oltre a comprendere le “classiche” mete Siem Reap e Phnom Penh, menziona anche le provincia di Pailin8, regione ancora sotto il controllo di Ieng Sary e altri Khmer Rossi: «Gli occidentali sono al tempo stesso una curiosità e una stranezza da queste parti, dal momento che fino a qualche anno fa sarebbero stati rapiti e/o uccisi ben prima di essere riusciti a raggiungere l’interno del territorio dei KR. Per conservare la fragile coesistenza con Phnom Penh, i vecchi KR – sebbene tuttora molto sospettosi degli stranieri – si premurano di assicurare ai rari visitatori nella zona la loro incolumità. Ma gli 80 chilometri che separano Battambang da Pailin sono tuttora costellati di grandi quantità di mine – poste proprio al limite della sede stradale. Non pensate neanche lontanamente di cercare un cespuglio per pisciare» (Pelton, 2000). Anche Siem Reap e Phnom Penh del resto vengono descritte come posti in cui, rispettivamente al di fuori dei circuiti dei templi e dopo le 10 di sera, vi è un alto rischio di rapine a mano armata e di omicidi, se ci si viene a trovare nel posto sbagliato al momento sbagliato. Le notizie riportate da Pelton nel sito web del Fielding’s Most World’s Dangerous Places non sono molto aggiornate, dal momento che riportano informazioni tratte dalla terza edizione della sua guida, pubblicata nel 2000. A quattro anni di distanza, la situazione è a mio parere cambiata in maniera piuttosto significativa, e questo è testimoniato dalla crescente offerta dell’industria turistica rivolta alla Cambogia, nonché dai racconti di viaggio delle persone che ho incontrato nel corso della mia ricerca, che ha per l’appunto cercato di investigare uno spazio, o per meglio dire l’immagine, la rappresentazione di un contesto geografico e culturale specifico – “la” Cambogia – in relazione ad un altro spazio, altrettanto metaforico e metafisico, incarnato dall’esperienza del viaggio (Ferraris, 2004)9. Il momento storico in cui è stato effettuato il viaggio 123 Culture e conflitto connota in maniera molto chiara la rappresentazione della Cambogia: emerge difatti un’immagine più simile a quella presentata da Pelton nei racconti – più rari – di coloro che hanno visitato il Paese dall’inizio alla fine degli anni Novanta10, mentre i più numerosi resoconti di viaggio risalenti al biennio 2000-2002 mettono in luce una Cambogia in cui l’attenzione del visitatore comincia a focalizzarsi su altre attività turistiche, in particolare connesse alle visite al sito archeologico di Angkor, senza dubbio tuttora la principale – se non unica – attrazione appetibile anche per una clientela più ampia e meno avventurosa11. Anche gli operatori del settore turistico difatti, che da qualche anno a questa parte hanno inserito – seppure marginalmente – la Cambogia nei propri itinerari nel sud-est asiatico, sottolineano soprattutto il fascino di Angkor nelle proprie epigrafi promozionali: «Cambogia, prezioso angolo d’Asia, storia gloriosa e recente tragedia, fascino di civiltà antichissime, templi imponenti a lungo inaccessibili e restituiti poi intatti dal folto della giungla, profumo inebriante di frangipane e vapori di mistico incenso, luoghi dalla bellezza mozzafiato ma al tempo stesso inafferrabile, natura rigogliosa dalle mille sfumature di verde che brillano sotto il velo rugiadoso dell’alba, popolo dolce e fiero dal senso di ospitalità innato e dai grandi sorrisi. Tante tessere che compongono un mosaico ineguagliabile di un viaggio di suggestione e di scoperta» (Rallo Worldwide, 2002: 58). Ma a dispetto della complessità che l’immagine del mosaico potrebbe suggerire, “Storia gloriosa e recente tragedia”, Angkor e Angkar indicano a mio avviso i due poli della preconoscenza del contesto che finisce con l’informare profondamente la rappresentazione della Cambogia come destinazione turistica; Angkor e Angkar sono difatti due termini che, che per quanto simili lessicalmente, rimandano a due universi di rappresentazione della Cambogia talmente diversi da poter essere contrapposti. Da un lato, abbiamo la magniloquenza delle opere architettoniche del sito archeologico di Angkor Wat, riconosciuto da tutti, cambogiani e 124 Federica Ferraris non, istituzioni ed individui, turisti e viaggiatori, come una meraviglia quasi indescrivibile. Dall’altro, abbiamo lo scenario di un paese che, dopo lunghi anni di guerra civile e di conseguente isolamento dalle “contaminazioni” dei flussi turistici internazionali, torna alla ribalta del turismo internazionale costituendo la meta privilegiata dei “viaggiatori”, e di coloro che aborrono le destinazioni battute dai circuiti del turismo di massa. E che, negli anni Settanta, leggevano la Cambogia sulle prime pagine dei giornali con Pol Pot e la sua, inizialmente anonima, ma pervasiva organizzazione: l’Angkar, per l’appunto. Pur senza raggiungere i toni di vera e propria apologia del rischio presenti nella guida di Pelton, anche le guide turistiche più diffuse tra i viaggiatori backpackers, inseparabili compagne di viaggio di molti turisti12, non aiutano a decostruire un’immagine in cui gli eventi bellici che hanno tormentato il paese negli anni Settanta e Ottanta trovano poco spazio di connessione con il contesto contemporaneo13. Può essere a tale proposito interessante provare a comparare la situazione descritta da Victor Alneng in merito al processo di turistificazione del Vietnam come “guerra” piuttosto che come paese e ciò che invece sembra trasparire dall’attuale e analogo processo in atto in Cambogia. Difatti, l’introduzione della Lonely Planet dedicata al Vietnam non lascia spazio all’immaginazione – Vietnam, un paese reso famoso dalla guerra (Florence e Storey, 2001: 11 in Alneng, 2002: 478); quella dedicata alla Cambogia non è da meno nell’ammonire il viaggiatore sul fatto che “per due decenni la guerra e il vasto ‘esperimento’ di ispirazione comunista hanno eliminato la Cambogia dall’atlante del viaggiatore” (Ray, 2000: 1)14, veicolando un’immagine di “Anno Zero” della Cambogia come destinazione “incontaminata” dal turismo di massa15, anche a causa – leggi, per i più avventurosi, “in virtù” – della tuttora consistente presenza di mine sul territorio16. Ho provato ad allargare la mia analisi anche alla Guide du Routard ed ho osservato che, prendendo in considerazione le pagine dedicate alla storia della Cambogia all’interno della 125 Culture e conflitto guida Lonely Planet e nella Guide du Routard rispettivamente, in effetti, lo spazio dedicato alla storia contemporanea della Cambogia supera quello riservato alla storia del periodo angkoriano, fatto che sembrerebbe assimilare la situazione cambogiana a quella vietnamita. Tuttavia, ad un più attento esame la situazione si capovolge. A differenza difatti di quanto osservato da Alneng nel caso del Vietnam, in cui oltre alla sezione storica la stragrande maggioranza dei luoghi di cui si suggerisce la visita è connessa alla guerra contro gli Stati Uniti, nel caso della Cambogia lo spazio riservato ad Angkor è di gran lunga superiore a quello riservato alla visita dei luoghi legati alla memoria del genocidio. In conclusione, considerando il numero complessivo di pagine dedicate ad entrambe gli argomenti, ci troviamo dinanzi ad una situazione di sostanziale equilibrio, con una sproporzione in favore della storia contemporanea nella sezione storica ed un’asimmetria a favore del patrimonio archeologico e culturale angkoriano nella parte dedicata ai siti da visitare. Da un lato dunque, la magniloquenza di Angkor diventa la motivazione principale per andare in Cambogia come turisti, offrendo l’opportunità a tutti gli attori sociali coinvolti – visitatori, politici locali, operatori turistici nazionali ed internazionali – di promuovere un processo di sviluppo turistico incentrato esclusivamente sul patrimonio archeologico e quindi sostenuto da un’idea di turismo culturale. Ma nell’esperienza dei visitatori le cose si complicano. Dall’altro lato infatti, il turista si sente fortemente spinto a contestualizzare la propria esperienza di viaggio all’interno di un quadro storico contemporaneo che associa l’emozione indescrivibile procurata dalla visita ai templi all’immagine di un contesto socioculturale impoverito, percepito nella sua problematicità contemporanea e nel suo sottosviluppo economico – cui se ne associa sovente uno di natura socioculturale 17 –, e spesso ricondotto alla preconoscenza della Cambogia legata alle vicende politiche degli anni Settanta. L’equazione cambogiana, che si configura come “Angkor 126 Federica Ferraris uguale Cambogia uguale Angkar”, riduce la rappresentazione della Cambogia come contesto turistico a questi due soli elementi. Per quanto concerne il primo, numerosi sono oramai gli studi che la letteratura ci offre per poter analizzare le opportunità ed i rischi connessi ad un appiattimento della rappresentazione del contesto locale su una dimensione storica ed esotizzante. Il secondo, che ho qui cercato di presentare per sommi capi, ci riconduce a considerazioni più generali relative alle relazioni tra turisti e violenza. Diritti umani e turismo Vado così a riallacciarmi forse più da vicino ad un tema che si è rivelato ricorrente nelle discussioni di questo incontro, ovvero alla questione dei diritti umani. A lungo il dibattito sembra essersi soffermato sui differenti approcci che le scienze giuridiche e sociali – e l’antropologia in particolare – hanno portato sulla questione delle violazioni dei diritti umani. Questo presupporrebbe un consenso di base che si vorrebbe condiviso all’interno della società e della cultura occidentale su cosa significhino “rispetto” e “violazione” dei diritti umani. Come accennato nell’introduzione a questo contributo, il tema della sicurezza e del rispetto della vita umana – il più fondamentale ed universalmente riconosciuto tra i diritti umani – sono stati spesso, se non esclusivamente, associati al turismo come fenomeno culturale incompatibile con l’instabilità politica. Le analisi qui presentate aggiungono a mio parere alcune prospettive piuttosto insolite all’analisi della relazione violenza-turismo, e fanno emergere una molteplicità di voci anche all’interno del pensiero culturale del viaggio. Mi sembra difatti che siano due gli elementi comuni che nelle zone a rischio legano il turismo al tanaturismo: da un lato vi è l’ideologia del turismo come diritto umano (Alneng, 2002, Phipps, 2000), che vede nella presenza di guerre e conflitti un ostacolo al diritto a viaggiare ovunque, e che alcuni sono addirittura disposti ad assurgere a propria moti127 Culture e conflitto vazione fondamentale al viaggio (Diller e Scofidio, 1994, Pelton, 1998, 2000); dall’altro, c’è un altro tipo di diritto che viene evocato, e che può essere ricondotto ad un diritto allo sguardo turistico che si vuole diretto sulle violazioni stesse dei diritti umani. In questo senso, le visite ai luoghi di morte come il Memoriale del Genocidio di Tuol Sleng in Cambogia non sono molto dissimili da quelle fatte a Ground Zero, luogo simbolo di una violenza di morte portata al cuore della civiltà occidentale. Sia nell’uno che nell’altro caso, il tema della violenza e del conflitto assumono una dimensione di attrazione più che di repulsione e di rifiuto per la violazione di diritto; non voglio naturalmente qui suggerire che tali macabri orientamenti vadano incoraggiati; tuttavia, credo che non si possa prescindere dal tenerli presenti come un dato di realtà, che a mio avviso deve spingere ancora una volta a diffidare di ogni affermazione semplificatoria ed unidirezionale. Del resto, la mercificazione della violenza, se non una violazione dei diritti umani, non può essere interpretata come una violazione della memoria? Questo almeno è quanto amaramente emerge dalle testimonianza di Ellen Shea, che ha perso il marito, Daniel, e il fratello, Joseph, l’11 settembre. «È così triste per me che la gente non lo definisca per quello che è realmente. Un’attrazione macabra, una macchina per fare soldi» (Blair, 2002: n. p.). Note: 1 In un articolo apparso sul quotidiano on-line www.theage.com.au, il 29 luglio 2002 si segnalava come dall’inizio dell’anno Ground Zero avesse richiamato più di un milione di visitatori da altre città nord-americane, già allora prospettando un ricavato di 3.600.000 $ all’anno (Blair, 2002: n. p.). Attualmente, l’operatore turistico New York Vacation Packages, solo per fare un esempio, propone un “Historical Walking Tour of Lower Manhattan including [sic] ‘GROUND ZERO’, the former site of the World Trade Center twin towers”, della durata di tre ore, al prezzo di 19 $ a persona (12 $ per i bambini da 2 a 12 anni) (www.nycvp.com). Ruth Bendix del resto, osservava prima dell’11 settembre un andirivieni continuo nei dintorni di 128 Federica Ferraris Central Park, scoprendo con sua grande meraviglia che questo era provocato da turisti che andavano a visitare la Dakota House, in cui era stato assassinato John Lennon (Bendix, 2002: 471). 2 Ma anche sul piano economico, se è vero che «un operatore turistico italiano ha organizzato dei viaggi di gruppo accompagnati da dottori, guardie del corpo ed equipaggiamento da combattimento per accompagnare dei turisti ai confini di zone di conflitto come Dubrovnik o il Libano meridionale (Diller + Scofidio, 1994: 136). […] I tour italiani sopra menzionati erano venduti al prezzo di 25.000 dollari USA a persona (Phipps, 1999: 83). […] Il fatto che vi siano persone desiderose di spendere delle cifre esorbitanti per i loro viaggi pone degli interrogativi sul potenziale di attrazione di questo genere di esperienze turistiche» (Adams, 2001: 268). 3 Si usa indicare con questa formula quel turismo che si vorrebbe “alternativo”, e che va in ogni caso alla ricerca di esperienze, siti o incontri fuori dal comune. 4 Il rischio di “contaminazione” turistica non è tuttavia un’ideologia prerogativa dei soli turisti delle zone a rischio; Sergio, uno dei turisti di cui ho raccolto la testimonianza per la mia tesi di dottorato, mi ha confidato di essersi recato una seconda volta in Cambogia nel 2001 – dopo esservi stato con Avventure nel mondo una prima volta fugacemente nel 1995 – perché alcuni amici, rientrati da poco, gli avevano detto di sbrigarsi a tornare, se voleva, perché il paese si stava “contaminando” (Sergio, Poggio Rusco, FE). Elena, che ha viaggiato in Cambogia e Vietnam nell’estate del 2002, mi ha confessato di aver cercato, con i quattro amici in compagnia dei quali ha fatto il viaggio, di evitare «queste truppe cammellate di turisti che a determinate ore invadono» i templi (Elena,Torino). 5 www.comebackalive.com/df/dplaces.htm, pagina web consultata il 16 maggio 2004. 6 www.comebackalive.com/df/attractions.htm, pagina web consultata il 16 maggio 2004. 7 www.comebackalive.com/df/dplaces/cambodia/dthings.htm, pagina web consultata il 16 maggio 2004. 8 www.comebackalive.com/df/dplaces/cambodia/dplaces.htm, pagina web consultata il 16 maggio 2004. 9 I dati centrali che sono emersi da questa analisi riguardano pertanto in misura preponderante le descrizioni e rappresentazioni della Cambogia in quanto destinazione turistica. 10 Ad esempio, Luciano e Sabina, che hanno visitato Phnom Penh e Siem Reap nel 1992, raccontano: «Quando io sono andato con Sabina si poteva vedere, si poteva stare ad Angkor, ma appunto non ci si poteva spostare… Ecco, Banteay Srei, che è molto vicino, pochi chilometri, insomma… Eh, non… non la portavano. […] In qualche zona, sempre nell’ambito di Angkor, per vedere i vari templi, in qualcuno che stava magari un po’ fuori dei tragitti fondamentali sì, ci scortavano» (Luciano, 129 Culture e conflitto Roma); «No, noi siamo restati mi pare almeno una settimana ad Angkor. E quelle erano due zone che si potevan fare. Non siamo potuti andare a vedere il Tempio rosa, il Tempio delle donne (si riferisce a Banteay Srei, ndr) perché c’erano ancora i Khmer Rossi. […] In alcuni momenti si poteva andare, precedentemente a quando siamo arrivati noi si poteva andare. Però c’erano stati di nuovo degli attacchi… ti parlo di parecchi anni fa… E poi, non solo: c’era la guida, sapeva dove andare nei sentieri segnati. Però, tanto per darti l’idea del clima che c’era, quando siamo andati in una zona meno visitata anche da quei pochi turisti che c’erano, la guida stava sbagliando, abbiamo sentito un urlo di un militare, perché stava andando in un sentiero minato. Oppure, a un certo punto avevamo la scorta armata, i soldati, così, e perché un poveraccio, avevano visto luccicare un quid, e in realtà era la bicicletta di un poveretto che era venuto fuori dalle frasche, ma così, eh? In molti templi avevamo i soldati… non è che hanno detto: “Adesso vi accompagniamo”, però anche se noi ci dividevamo, avevamo sempre un soldato accanto. E queste sono state le cose che abbiamo potuto vedere» (Sabina, Roma). Anche Sergio, riferendo della prima visita ai templi, ricorda: «Arriviamo, non c’era tanta gente. Intanto in giro non è che avessimo trovato molti turisti all’epoca, eh? Si girava benissimo. Arriviamo su a questa collinetta dove ci sono ’sti tempietti, sono due o tre ordini di templi non è che son molto grandi; si vede questa distesa di foresta spuntare su il Bayon e non è che si veda gran che… e il tramonto è dalla parte non dei templi ma dalla parte della foresta. La cosa che ci ha un po’ così impressionato è il fatto che sulla cima c’era una postazione con una mitragliatrice pesante. ’Sto telo, con questi due ragazzotti con ’sta mitragliatrice pesante. Allora siam stati lì in attesa del tramonto e qui e là… subito la guardavamo abbastanza, insomma, timorosi e impauriti, alla fine l’abbiam fotografata, alla fine ci siam fatti fare la foto davanti (ride), fine lì» (Sergio, Poggio Rusco FE). 11 In particolare, è Elena che sottolinea l’agevolezza della visita della Cambogia rispetto alle proprie aspettative prima della partenza: «Ho notato che è uno di quei percorsi che tutto sommato è facile, ecco… non è difficile; sapendosi un po’, così, organizzare, reperendo le informazioni, con una buona guida, non è difficile, perché… diciamo che i collegamenti sono inevitabili, sono organizzati abbastanza bene, la rete anche alberghiera è in quelle zone anche abbastanza buona, quindi non è stato difficile, assolutamente» (Elena, Torino). 12 Tra gli intervistati, hanno esplicitamente ammesso di essersi serviti di una guida turistica Claudio (Let’s go), Elena (Guide du Routard), Lorenzo, Nino, Sara e Sergio (Lonely Planet). 13 Un tour operator incontrato a Phnom Penh ha in effetti sottolineato questo aspetto di rapido mutamento socioculturale che sta investendo la società cambogiana, di cui il turista non ha tempo di rendersi conto e che neppure le guide più aggiornate riescono a cogliere: «Anche le guide aggiornate non rendono merito ai rapidi mutamenti del paese. Quando sono 130 Federica Ferraris arrivato, con la mia ultima edizione della Lonely Planet, mi sono presto reso conto che non rendeva per nulla l’idea di cosa sia la Cambogia vivendoci davvero» (Intervista a G. E.-A., Exotissimo, Australia). 14 Dal suo canto, la francofona Guide du Routard mi sembra prediligere la sottolineatura degli aspetti di contraddittorietà: «Era chiamato “il paese del sorriso”. È ancora vero, anche se la Cambogia è al pari divenuta, ahimè, sinonimo di genocidio e di terrore» (AA. VV., 2001: 205), salvo poche pagine dopo dedicare una sezione intera alle violazioni dei diritti umani (216-217). 15 Mi sembra tuttavia abbastanza agghiacciante il fatto che l’autore affermi: «Questa tragedia, che appartiene per intero ai Cambogiani, ha costituito tuttavia una grave perdita anche per i viaggiatori che volevano visitarla» (ivi). Aleggia difatti in questa frase una concezione del “turismo come diritto civile” che al termine della citazione di Alneng evoca nel suo saggio (2002: 463, 484), che in un certo qual modo manifesta una sorta di fastidio stridente per eventi storici particolarmente tragici e che hanno significato la palese e totale negazione di ogni diritto alla popolazione cambogiana. 16 Cito dal racconto di Lorenzo, cui avevo chiesto quali erano le cose che aveva avuto modo di raccontare al proprio ritorno in Italia e che ha affermato: «Le cose che, un po’ cinicamente, ci facevano ridere… tipo, le guide in cui c’è scritto: “Non uscite troppo dalla strada perché ci sono le mine” Uno dice: “Le mine?!?” e invece, ci sono le mine veramente! Così, uno pensa sempre che si stia un po’ vagamente esagerando, invece ci sono» (Milano, 16.12.2002). 17 «La Cambogia è un paese povero e primitivo» (Intervista a Patrizia, Roma, 3.07.2002) oppure «al di fuori di Phnom Penh, sono all’epoca della pietra» (Intervista a Nino, Milano, 15.11.2002) sono solo due delle espressioni di tale ideologia, che personalmente mi richiama alla mente l’evoluzionismo caratteristico della tradizione antropologica degli esordi e di vittoriana memoria. Riferimenti bibliografici AA. VV., 2001, Le Guide du Routard. Laos-Cambodge 2001, Paris, Hachette Adams, K. M., 2001, Danger-Zone Tourism: Prospects and Problems for Tourism in Tumultuous Times, in Teo, P., Chang, T. Q., Ho, K. C. (Eds), Interconnected Worlds. Tourism in Southeast Asia, London, Pergamon Alneng, V., 2002, ‘What the Fuck is a Vietnam’? Touristic Phantasms and the Popcolonization of (the) Vietnam 131 Culture e conflitto (War), in «Critique of Anthropology», Vol. 22, n. 4 Bendix, R., 2002, Capitalizing on Past, Present and Future. Observations on the Intertwining of Tourism and Narration, in «Anthropological Theory», Vol. 2, n. 4 Blair, J., 2002, Tragedy Turns into Tourism at Ground Zero, 29.06.2002 (Published 1 July 2002 At www.theage. com/worldnews/article/) Butler, R., 1999, After the War: Ethnic Tourism in Lebanon, Paper Presented at the Annual Meeting of the Association of American Geographers, Honolulu, Hawaii, March 23-25 Callari Galli, M., 1997, In Cambogia. Pedagogia del totalitarismo, Roma, Meltemi Diller, Scofidio, 1994, Back to the Front: Tourisms of War, Basse Normandie, F.R.A.C. Ferraris, F., 2004, Angkor, Angkar. La Cambogia contesto e pretesto per una lettura antropologica del turismo, tesi di dottorato in Antropologia della Contemporaneità. Etnografia delle Diversità e delle Convergenze Culturali, Università degli Studi di Milano Bicocca, XVI Ciclo Florence, M., Storey, R., 2001, Vietnam, Hawtorn, Australia, Lonely Planet Publications Lisle, D., 2004, Gazing at Ground Zero: Tourism, Voyeurism and Spectacle, in «Journal for Cultural Research», Vol. 8, n. 1 Miles, W. F. S., 2002, Auschwitz: Museum Interpretation and Darker Tourism, in «Annals of Tourism Research», Vol. 29, n. 4 Pelton, R. Y., Aral, C., Dulles, W., 1998, Fielding’s the World’s Most Dangerous Places, Redondo Beach, Ca, Fielding Worldwide Inc. Phipps, P., 1999, Tourists, Terrorists, Death and Value, in Kaur, R., Hutnyk, J. (Eds), Travel Worlds: Journeys in Contemporary Cultural Politics, London, Zed Books 2000 Tourists: “Tourists, Terrorists and the Value of Death”, in «Left Curve», n. 23 Pitts, W. J., 1996, Uprising in Chiapas, Mexico: Zapata Lives – Tourism Falters, in Pizam, A., Mansfield, Y., (Eds), Tou132 Federica Ferraris rism, Crime, and International Security Issues, London, Routledge Rallo Worldwide-Boscolo Group, 2002, Asia. maggio-ottobre 2002 Ray, N., 2000, Cambogia,Torino, E.D.T. (Edizione italiana delle Guide Lonely Planet) Smith, V. L., 1996 , War and its tourist attraction, in Pizam, A., Mansfeld, Y. (eds), Tourism, Crime, and International Security Issues, London, Routledge 2001a Tourism Issues of the 21st Century, in Smith, V. L., Brent, M. (Eds), op. cit. 2001b, Hostility and Hospitality: War and Terrorism, in Smith, V. L., Brent, M. (Eds), op. cit. Smith, V. L., Brent, M. (Eds), 2001, Hosts and Guests Revisited: Tourism Issues of the 21st Century, Cognizant, New York 133 TESTIMONIANZE ED ESPERIENZE Una testimonianza sulla testimonianza* FATOS LUBONYA Scrittore e giornalista, Tirana Essendo stato invitato a dare una testimonianza, io vorrei cominciare con una testimonianza sulla testimonianza, di cui non posso fare a meno di parlare. Anni fa, a Budapest, in un incontro fra intellettuali dell’Est e dell’Ovest, in cui si discuteva di diversi temi, il filosofo ungherese Gaspar Miklos Tamas a un certo punto si alzò, andò al tavolo, lanciò una provocazione e disse: «Adesso vi elenco i tre ruoli più importanti dell’intellettuale: primo, il profeta, quello che dà una visione del futuro; secondo, il giudice, quello che fa una critica dei tempi e degli avvenimenti; terzo, il testimone». E poi, aggiunse: «In Occidente ci si è assunti i due ruoli più importanti, del profeta e del giudice, e a noi dell’Est è stato lasciato il ruolo di semplici testimoni». Non ho potuto fare a meno di ricordare questo episodio perché mi piace, ma anche perché è legato a quello che dirò tra poco sui nostri conflitti, interni e con gli altri. Io ho fatto anni di prigione, in Albania, durante il comunismo, e lì, internamente, ho subìto un processo interessante che ha a che fare con il tempo e con lo spazio. Non avendo un presente, nel senso di una quotidianità che permea la vita di ogni giorno dell’essere umano, che si alza, va al lavoro, incontra gente, ma essendo costretto a rimanere in un luogo chiuso, isolato, con le stesse facce e con le stesse mura intorno, si è verificato in me un fenomeno molto interes* L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 137 Culture e conflitto sante che ha a che fare con il tempo, direi con il passato, e che io definisco “compressione del tempo passato”, nel senso che gli avvenimenti lontani, gli avvenimenti storici, diciamo a partire dalla Grecia antica (poi dipende da quelle che sono le conoscenze del singolo individuo), diventano più vivi e si avvicinano: prima la Grecia antica, poi il Cristianesimo, poi il Medioevo, i fatti della storia si avvicinano e diventano parte della tua vita, attraverso i discorsi, attraverso la memoria, attraverso le letture che puoi fare. Così la Rivoluzione francese è come se fosse avvenuta qualche decennio fa, poi si avvicina il XX Secolo e ancora più vicina appare la Seconda guerra mondiale, mentre la tua vita, privata di anni di libertà, è come se fosse un film di due ore. Dall’altra parte, invece, c’è il futuro, e qui il tempo rallenta: l’incontro con la tua famiglia, che può avvenire dopo un mese, ti sembra che avverrà dopo un anno, mentre la liberazione… pensi che verrà prima la morte che il tempo della liberazione. Un simile fenomeno succede per quel che riguarda lo spazio geografico, locale, che ti circonda. L’Albania diventa sempre più parte di un mondo senza confini; tu sei come nel centro del mondo, nell’inferno. E in questa percezione del tempo, dello spazio, di te stesso, si sviluppa molto quella che è la parte universale dell’essere umano e tu pensi di essere un cittadino del mondo e di vivere in ogni tempo. In questa situazione, io ho scritto due libri. Il primo, Ploja e brame (L’ultimo massacro) è nato da una mia forte preoccupazione: quella di chiedermi come mai questi dirigenti comunisti, quando hanno preso coscienza del fatto che la loro verità non funzionava, così come la loro ideologia, invece di fare un passo indietro hanno continuato il loro percorso criminale rimanendo ad ogni costo al potere, diventando l’espressione di quel detto di Davide: abisus, abisum, invocat… Questo specialmente in Albania, perché negli altri paesi dell’Est, dopo lo stalinismo, c’è stato il periodo del disgelo, mentre in Albania si è andati avanti nell’oppressione e nel terrore. Allora io, attingendo dal materiale più universale che esiste, la mitologia greca, ho preso il mito di Edipo e ho scritto un romanzo sotto forma di dramma; ho creato un 138 Fatos Lubonya altro Edipo: un Edipo che, quando diventa cosciente del fatto che lui è la causa della tragedia di Tebe, fa di tutto per eliminare i testimoni, quelli che sanno la verità, per continuare a dominare. Questo detto in due parole. Durante il diciassettesimo anno di prigionia, ho anche scritto un diario, per il quale ho avuto il Premio Alberto Moravia. Nel primo libro avevo cercato di scrivere una storia che avesse un carattere locale e universale nello stesso tempo; nel diario, invece, parlo della mia vita spirituale e intellettuale nel mio diciassettesimo anno di prigionia, e faccio anche una cronaca degli avvenimenti successi in Albania e in tutto l’Est (a quei tempi si verificò la caduta del Muro di Berlino). Ho finito il mio diario nel ’91 e nel ’91 sono stato rilasciato. Parlando di conflitto con sé stessi, uno dei conflitti che io ho vissuto e che è ancora vivo in me, è proprio quello fra il sentirmi un essere “universale” (che in prigione si era quasi ipertrofizzato) e il sentirmi un essere “locale”, un uomo che esce di prigione e nel contatto con gli altri, con l’esterno, specialmente con l’Occidente, scopre di essere un semplice albanese. Questo non è stato solo un mio dramma, è un dramma che hanno vissuto molti miei compagni di prigione. Ricordo di aver chiamato un amico (che, pur non avendo mai parlato di questa cosa, forse aveva avuto la medesima percezione di sé stesso) dopo qualche mese che si trovava in Germania, e di avergli chiesto “Ma come ti senti? Stai bene?”. Ricordo la sua risposta: “Senti, Fatos, noi pensavamo che quelli dell’Occidente apprezzassero l’essere umano per quello che è, per i suoi valori, invece loro ti chiedono per prima cosa da dove vieni e quando tu dici ‘dall’Albania, sono albanese’, ti mettono in una cornice e sei morto. Allora questo ti ridimensiona nella percezione della tua identità”. Io ricordo i tempi della scoperta di un’Albania com’era e di un’identità che era l’identità degli albanesi, da cui tu non potevi sfuggire; cioè l’identità degli altri, vista dagli stranieri, era comunque anche la tua identità. Questo conflitto fa ancora parte della mia esistenza, nel senso che io sento l’impegno di sviluppare la mia identità, di non perdere la 139 Culture e conflitto mia identità locale, di albanese che ha una propria cultura, ma nello stesso tempo cerco di universalizzarla, di aprirla verso le altre culture. Il Presidente della Fondazione Courmayeur ha parlato di Huntington, il quale, in The Clash of Civilization, esprime anche un proprio concetto di torn country, paesi spezzati, stracciati; non so in italiano come si possa tradurre. Paesi in cui, dice lui, c’è un’élite occidentalizzata, che guarda verso l’Occidente, e c’è una popolazione dove domina una mentalità orientale. L’Albania è proprio un paese simile, ma anche in un altro senso: nel senso che si trova fra i confini di tre civiltà importanti. Questo fatto ha marcato la cultura albanese. In Albania si trovano musulmani, cattolici, ortodossi… Allora che cosa fare? Fare dell’Albania un paese che diventa europeo nel senso più superficiale della parola, eliminando o ignorando le radici orientali, o un paese che sviluppa le proprie differenze, che possono diventare una ricchezza, un ponte, sfidando l’abisso del the clah of civilization? Io sono fra coloro i quali cercano di mantenere le tre identità, di arricchirle, di svilupparne le dimensioni universali, perché è proprio questo che fa sì che culture diverse si capiscano l’una con l’altra. Eckerman, nel suo libro di appunti di conversazioni con Goethe, dice che Goethe, che aveva preso un libro sulla Cina, prima di leggerlo si aspettava di rimanere affascinato dal lato esotico, dal fatto di leggere delle cose impensate, invece poi rimase affascinato dalle similitudini, dalle cose che sono comuni. In questo senso, quella di mantenere la propria identità locale, che specialmente in un paese piccolo come l’Albania è molto fragile, e nello stesso tempo di svilupparne i lati universali, diventa proprio una sfida. Vorrei dire un’altra cosa sull’Europa, che mi sembra importante, perché il rapporto tra identità europea e identità albanese è un aspetto che mi preoccupa sempre. Alcuni mesi fa sono stato in Germania e ho incontrato un amico albanese, il cui figlio ha studiato in Germania. Mentre stavamo cenando insieme, ho visto che il ragazzo non voleva bere alcol e non voleva mangiare carne di porco, perché, mentre la 140 Fatos Lubonya mamma è ortodossa, il padre è musulmano. Io sono rimasto un po’ così, perché il mio amico viene dai tempi del comunismo, quando non c’erano divisioni e lui e la moglie si erano potuti sposare. Allora ho chiesto al ragazzo:“Ma tu perché non mangi?” E questi mi ha risposto: “Perché voglio mantenere la mia fede”. Lui aveva sviluppato, in Germania, la fede musulmana. Ho cercato di capire come mai. Allora la mamma mi ha raccontato la storia di un amore che il figlio aveva avuto con una tedesca che abitava al secondo piano e il cui padre, un autista tedesco, era stato molto feroce con la figlia e l’aveva separata da questo albanese… Non so, forse anche questo faceva parte della ricerca di un’altra sua identità. Poi gli ho chiesto: “Ma con chi stai?” E lui mi ha risposto che stava proprio con quei musulmani, forse arabi o turchi, che abitavano in Germania. Poi gli ho detto: “Ma dopo l’11 settembre voi che cosa avete provato? Siete stati felici?” E lui ha detto: “No, io no, ma i miei amici sì”. Questo è accaduto proprio in Germania ed è un fatto che mi fa molto pensare a questa Europa, perché anche nei Balcani noi cerchiamo di costruire un insieme di Stati fatti di cittadini, non di Stati etnici, Stati dove l’uno e l’altro non sono visti come la cicogna e la volpe della famosa favola di La Fontaine, alle quali veniva dato, all’una e all’altra, un recipiente nel quale non potevano mangiare. Cerchiamo di cambiare il recipiente. D’altra parte, questa Europa rimane ancora un’aspirazione e, comunque, ha le sue forti contraddizioni. Vorrei chiudere menzionando un detto di Husserl, il quale, parlando dell’Europa fra le due guerre, dice: “Vedo un’Europa divisa fra un’Europa esausta e un’Europa dell’eroismo del pensiero”. Anch’io, specialmente dopo l’11 settembre, vedo un’Europa divisa: un’Europa divisa fra un’Europa esausta, che vuole chiudersi in una fortezza per difendersi dai barbari che avanzano, e un’Europa dell’eroismo del pensiero, che deve cambiare e andare avanti. 141 Censura e intellettuali nell’Albania comunista* PIRO MISHA Scrittore, Tirana Quando gli organizzatori di questo Seminario mi hanno suggerito di parlare di censura, mi sono sentito un po’ imbarazzato all’inizio, poiché si trattava di riflettere anche su una parte della mia vita che ormai mi sembra molto lontana. Ma dopo una prima esitazione, la proposta mi ha fatto piacere, anche se ho avvertito, con sorpresa, una certa resistenza a pensare a quel periodo. Comunque, per quasi quindici anni ho lavorato in una casa editrice, fino al 1991, quando il regime comunista è caduto anche nel mio paese. Ho fatto il traduttore di letteratura inglese, americana e francese, poi ho lavorato come redattore di letteratura straniera nell’unica casa editrice che pubblicava opere letterarie nell’Albania di quel tempo. Purtroppo da allora, durante questi dodici anni, non mi sono occupato molto seriamente di quel periodo. L’unica eccezione è stata nel 1993, quando fui invitato a partecipare ad un convegno organizzato da TLS, in Inghilterra, consacrato appunto alla censura nel mondo comunista. Poche settimane fa, il Centro che dirigo ha organizzato in collaborazione con l’Ambasciata francese a Tirana un convegno sulla censura e l’autocensura, quella di ieri e di oggi, quindi sotto il regime comunista e nell’Albania postcomunista dell’economia di mercato. Il convegno ha avuto successo, ci sono state tante discussioni e la stampa ne ha dato una copertura rilevante. Ma ciò che più mi ha colpito era a che * L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 143 Culture e conflitto punto si poteva cambiare così facilmente il passato. Ciascuno adesso reinventava il proprio passato: tutti erano diventati vittime, anche la mia ex capo, colei che aveva censurato le mie traduzioni, pure lei era convinta di essere vittima di qualcun altro, più in alto nella gerarchia del potere. Si tratta naturalmente di un fenomeno più vasto della letteratura. Si tratta, detto in altri termini, del rischio di amnesia. È stata, forse, questa recente esperienza che mi ha reso più facile la testimonianza di oggi. Innanzitutto, penso che prima di portare questa mia testimonianza, bisogna chiarire certi aspetti del periodo del comunismo in Albania, per esporre il contesto senza il quale sarebbe difficile capire ciò che desidero dire della censura stessa. Per chi ha vissuto in una realtà come quella albanese, la prima cosa che si impara è di non cadere nella trappola delle semplificazioni. Nulla nella vita è monocolore neanche sotto un regime stalinista come quello che ha retto l’Albania fino all’inizio degli anni 90. C’erano momenti in cui la situazione conosceva una liberalizazzione relativa per essere poi sostituita da un periodo dove tutto diventava molto più duro. Si capisce che i meccanismi di base del regime erano gli stessi, cambiava soltanto l’intensità del controllo dell’oppressione. Dall’altra parte, nel caso dell’Albania si tratta dell’esempio tipico di quello che può essere qualificato come nazionalcomunismo. Vista dal punto della sua tendenza estrema, l’esperienza albanese si può paragonare soltanto al regime di Ceausescu in Romania. Infatti, anche in Albania, all’inizio, il comunismo è cominciato come un’ideologia internazionalista, dunque in sostanza, antinazionalista. Peró, la grande ironia è che, da una ideologia antinazionalista, man mano i bisogni del potere hanno condotto verso un comunismo sempre piu nazionalista, sempre più alla ricerca della propria legittimazione nel passato. Nel caso albanese, questa evoluzione è stata consacrata simbolicamente verso la metà degli anni 70, quando sulla piazza principale di Tirana la statua di Stalin è stata sostituita da quella molto piu grande di Scan144 Piro Misha derbeg, l’eroe nazionale albanese. Questo non significava qualche cambiamento nell’ atteggiamento al riguardo di Stalin. Il regime di Hoxha era infatti un sostenitore fervente dello stalinismo. Si trattava soltanto del coronamento di una evoluzione verso la simbiosi nazionalcomunista. Ovviamente questa considerazione vale non soltanto per il caso albanese ma è proprio l’Albania che ha conosciuto la versione più estrema di questo fenomeno. Ora, dopo questa presentazione del contesto generale, permettetemi di parlare di letteratura. Come in tutti gli altri paesi totalitari, anche in Albania, il regime prestava un’attenzione esagerata alla letteratura. La letteratura doveva servire ad una missione ben precisa. L’under-slogan, conosciuto con riferimento alla letteratura, la considerava come un’arma nelle mani del partito. Le implicazioni politiche e pratiche di questo concetto sono ben conosciute. Non dimentichiamo però che in realtà il comunismo reale non era semplicemente un’ideologia. Quindi il dovere della censura non era semplicemente di proteggere la fedeltà ad un’ideologia o ad un sistema politico, ma proprio un modo di vita, tutto un sistema di valori. La censura s’infilava dappertutto, anche nel modo di vestirsi, di fare l’amore… tutto era censurato. Tutto doveva servire alla realizzazione di un’utopia: creare una nuova società, formare “l’uomo nuovo” (questa era la definizione usata in tutta la letteratura del tempo). Come ho detto, io ho cominciato a lavorare in una casa editrice verso la metà degli anni 70, che rappresentano un periodo politico molto difficile, poco dopo un plenum del Comitato Centrale del Partito consacrato alla lotta contro le cosiddette influenze borghesi e rivisioniste nel campo dell’arte e della cultura. Il regime era impaurito da una certa liberalizzazione (molto relativa) della situazione. Quello è stato un momento di grande rottura. Per spiegare meglio la selvaggia campagna che seguì il plenum, mi permetto di citare una frase dal discorso tenuto da Ramiz Alia, il quale fu all’epoca segretario del Comitato Centrale del Partito per l’ideologia, fu sempre lui ad essere anche l’ultimo presidente 145 Culture e conflitto comunista dell’Albania fino al ’91: “Questa riunione – diceva Ramiz Alia – era assolutamente necessaria per demolire i tentativi dei nostri nemici, i quali miravano a distruggere precisamente l’essenza rivoluzionaria delle nostre arti, lo spirito del partito proletario […] L’estetica borghese e revisionista innalzava al livello del principio l’apprezzamento del brutto, del primitivo e la denigrazione del bello, la deeroizzazione, che percorreva come una corrente polare l’arte nell’Unione Sovietica e negli altri paesi, corrispondendo infatti all’abbassamento del concetto estetico marxista del bello e del sublime…” (Ramiz Alia, 1974, Raport ne Pleniumin e IV-te te KQ te PPSH, Tirana). Su questa base si elaborava tutta un’estetica che poi si traduceva nella vita quotidiana. In Albania non esisteva un ufficio speciale per la censura. Sicuramente esisteva una censura che prendeva spunto negli uffici del Comitato Centrale del partito, poi c’erano il Ministero della Cultura, l’Unione degli Scrittori, la casa editrice dove ogni opera doveva essere letta da due recensori e dal redattore prima di essere pubblicata. Esisteva dunque quello che Hannah Arendt nel suo libro La crise de la Culture definisce come “la pyramide de la tyrannie”. “[…] Le siège du pouvoir se trouve au sommet. L’autorité et le pouvoir descendent vers la base de telle sorte que chacune des strates successives possède quelque autorité, mais moins que la strate supérieure.”(Hannah Arendt, 1972, La crise de la culture, Gallimard, Paris). Però il problema principale non era la censura preventiva. È essenziale parlare di quello che si puo chiamare la tecnologia della paura. Infatti tutta la censura si basava sul meccanismo della paura: cioè la domanda che ognuno si faceva su che cosa gli sarebbe successo se sbagliava. Per di più, nel caso albanese, la cosa che andava man mano acquistando uno spazio sempre più importante nella società, impedendo qualsiasi resistenza all’utopia, era la cosiddetta lotta delle classi. Lotta che si basava sulla tradizione della “responsabilita oggettiva”, nel senso che, se qualcuno faceva un passo sbagliato, tutti i membri della famiglia per legame di sangue ne subivano le conseguenze. Questo risultava molto efficace 146 Piro Misha nel paralizzare ogni atto di resistenza, poiché tutti dovevano pensare alle conseguenze non soltanto di loro stessi, ma di tutta la loro famiglia. Seguendo questa logica, si poteva rinnegare il matrimonio, si poteva divorziare dalla moglie o dal marito e quindi cercare di salvarsi, ma non si poteva mai rinnegare il proprio padre; se il padre o il fratello facevano qualcosa che andava contro la politica del partito, tutti i membri della famiglia ne subivano le conseguenze. Dall’altra parte non si deve minimizzare il sistema di compensi, vantaggi, gratificazioni che lo Stato metteva a disposizione degli artisti che lo accettavano. Si può dire che si trattava in generale di una sorta di patto che si stabiliva tra le parti. Vorrei sottolineare un altro momento importante per capire lo sfondo della censura. Il regime era riuscito a staccare l’arte e la produzione culturale dalle leggi del mercato dell’arte. Questo fatto è importante da sottolineare perché il risultato era il formarsi di una gerarchia nel campo dell’arte e della letteratura molto diversa da quella che esiste in un paese normale. Gli artisti dovevano rispettare certe regole non scritte, ma conosciute da tutti. Per esempio, secondo una di queste regole l’arte non poteva essere fine a sé stessa, l’arte e letteratura dovevano essere utili. Un altro principio fondamentale era quello dell’accessibilità: l’arte non doveva essere rivolta ad una élite, ma alle masse. In termini pratici questo voleva dire l’incoraggiamento del dilettantismo e la promozione dei cosiddetti artisti non professionisti, che dal regime erano utilizzati per fare pressione sui veri artisti e obbligarli a fare delle concessioni per conservare il loro status, uno status che dava dei privilegi, anche se nel contesto albanese erano molto relativi. Si può dire innanzitutto che esistevano tre categorie di opere letterarie: quelle proibite, quelle tollerate, quelle sovvenzionate. Se lasciamo da parte la prima categoria, si può dire che erano dei periodi durante i quali il regime creava spazi di una relativa libertà, sicuramente molto controllata, per non correre nessun rischio. Qui entriamo nel tema del doppio linguaggio o, meglio ancora, del leggere tra le righe, parte integrante della cultura 147 Culture e conflitto che si sviluppa sotto un regime oppressivo. In proposito si polemizza molto oggi in Albania. Questa pratica infatti non era permessa a tutti, ma solo a certi scrittori di prestigio. Le ragioni per cui a qualcuno era permesso e ad altri no, erano diverse, perciò è difficile generalizzare. Sicuramente, in un contesto come quello albanese, trasgredire le regole o attaccare frontalmente il sistema portava automaticamente all’esclusione totale, al silenzio e alla prigione. Così gli scrittori per far pubblicare le proprie opere ricorrevano agli stratagemmi più complicati, e facevano molti compromessi. Il sociologo ungherese Hareszti fece nell’82 una domanda inquietante che diventò con gli anni molto attuale “Que dirions-nous si nous pouvions parler librement?” Egli, infatti, sviluppa un monito espresso anni fa da Czeslaw Milosz nel suo libro Captive mind, il quale parlando di esilio interno mostra come esso si possa trasformare in una tappa intermedia verso la duplicità, il doppio linguaggio, la doppia vita. La letteratura della lettura tra le righe era dopo tutto per il regime un’alternativa accettabile, preferibile al dissidio manifesto o all’incarcerazione degli scrittori che avevano una reputazione nella società. Non c’è dubbio che si tratta di un tema molto interessante e che vale la pena di trattare in profondità. In fin dei conti ci si può chiedere se durante un regime oppressivo è meglio tacere o fare compromessi per poter scrivere. Sicuramente non è facile dare una risposta. In tutti i regimi ci sono certi scrittori che hanno goduto di una relativa libertà. Prendiamo l’esempio di Christa Wolf o di Hener Muller nella Germania dell’Est, che hanno avuto situazioni relativamente privilegiate, ma nello stesso tempo hanno potuto creare opere di grande valore. Il caso di Kadare è uno di questi. Infatti, il problema degli spazi di sopravvivenza intellettuale è uno dei punti chiave quando si deve spiegare ciò che è successo con la letteratura nei paesi postcomunisti. Lo scrittore rumeno Andrei Plesu sottolinea che la vita intellettuale sotto la dittatura è possibile perché, in un modo o nell’altro, l’intellettuale sa adattarsi alle condizioni della dit148 Piro Misha tattura, ma la questione è: a quale prezzo? Questa è una delle questioni chiave quando si parla di censura. Le opinioni si dividono: da una parte ci sono quelli che credono (ne faccio parte anch’io) all’alternativa della metafora (per citare Borges, la metafora è figlia della censura). Per esempio, gran parte dell’opera di Kadare si basa sulla metafora di un Impero Ottomano inventato, che era lo specchio dove gli albanesi vedevano sé stessi. Dall’altra parte ci sono quelli che dicono che le mezze verità sono mezze menzogne e che il linguaggio allusivo e l’ambiguità delle relazioni tra lo scrittore e il potere hanno lasciato un segno, oggi se ne paga il prezzo. Questa rimane ancora una discussione molto attuale in tutti i paesi dell’Est. A mio parere, in ogni caso, la crisi nella quale è entrata la produzione letteraria in quasi tutti i paesi postcommunisti non si può attribuire soltanto alle distorsioni arrecate dal regime comunista. Bisogna prendere in considerazione anche gli altri effetti dei cambiamenti e dell’economia di mercato. Sicuramente adesso anche in un paese come l’Albania esiste una pluralità di voci, ma allo stesso tempo c’è anche il rischio che questa pluralità si transformi in cacofonia, dove la parola dello scrittore e dell’intelletuale non conta più. Ora vorrei dire qualcosa dell’autocensura, un capitolo importantissimo quando si parla di letteratura in un paese totalitario. «L’autocensura è l’arte di leggere la propria opera con gli occhi di un altro» scriveva Danilo Kis nel suo libro Homo Poeticus. Permettetemi un’altra citazione che, a mio parere, sintetizza la situazione albanese. «L’esperienza ha insegnato agli intellettuali dell’Est, scriveva C. Milosz, di misurare con grande attenzione ogni atto che compiono, perché sapevano di tanta gente che era caduta in un precipizio per il minimo sbaglio, per una sola frase, per un solo articolo scritto con passione, per una parola detta senza fare attenzione.» E, per chiudere, vorrei farvi conoscere la mia esperienza personale. Come ho già detto all’inizio di questo intervento, ho fatto il traduttore e poi anche il redattore della letteratura straniera. Al contrario di quel che si pensa, in quel tempo 149 Culture e conflitto in Albania, si traduceva tanto e si leggeva tanto. Un romanzo tradotto poteva avere una tiratura anche di 30.000 copie e si vendeva in giornata. L’inizio degli anni 60 è stato il periodo d’oro per le traduzioni. Dopo la rottura con l’Unione Sovietica il paese ha conosciuto un’apertura verso l’Occidente che ha reso possibile la traduzione di un grande numero di capolavori della letteratura mondiale. È proprio questo periodo che a fatto conoscere scrittori come Kadare o altri nomi importanti della letteratura albanese. Non è passato molto tempo e tutto è cambiato per il peggio. Nel 1967, in Albania iniziò una rivoluzione culturale influenzata da quella cinese. Per un po’ di tempo non si tradussero che autori cosiddetti rivoluzionari palestinesi, vietnamiti, africani, americano-latini. A metà degli anni 70 c’è stato un altro cambiamento. In un suo discorso rimasto famoso, Enver Hoxha, il dittatore, parlando delle traduzioni della letteratura occidentale, introdusse l’idea dei tagli. Secondo lui i due terzi di un’opera letteraria potevano essere buoni, mentre un terzo aveva un contenuto problematico. Allora, diceva lui, al nostro lettore dobbiamo dare soltanto quei due terzi dell’opera che andavano bene. In realtà, la pratica dei tagli esisteva anche nell’Unione Sovietica, ma in Albania questo fenomeno assunse proporzioni inaudite. Negli anni 70, fino alla metà degli anni 80, in Albania si traducono molti libri dove mancano interi capitoli o anche certi personaggi. Allo stesso tempo si introducono regole che ora sembrano molto vicine all’American politically correct. Così il Terzo Mondo doveva avere sempre ragione. Una donna non poteva essere il personaggio negativo, lo stesso valeva per un uomo di colore o qualunque altro nativo che si confrontava con un europeo. Principalmente si traducevano i classici e gli scrittori di sinistra. Così, per esempio, un autore italiano molto tradotto era Sciascia che, a seconda del giudizio del regime, dava una visione dell’Occidente che conveniva alla propaganda del regime. Anche i cosiddetti scrittori di sinistra non facevano eccezione ai tagli. Mi ricordo il caso del romanzo di uno scrittore inglese, Allan 150 Piro Misha Sillitoe, nel quale fu tagliato tutto ciò che presentava un modo di vita del proletariato inglese che non concordava con la propaganda del regime. La stessa parola Dio non doveva comparire nel testo. L’Albania era il paese che si era autoproclamato ateo. Di conseguenza ogni accenno alla religione era sconsigliato. L`assurdità aumentava man mano che il regime si autoisolava. Alla fine degli anni 70 alla casa editrice venne ordinato di non tradurre alcuna opera di autori americani e sovietici ancora in vita. Oltre all’opera si doveva giudicare anche la biografia dell’autore. Così si vietò la traduzione di Alberto Moravia, uno scrittore abbastanza popolare, a causa di una sua dichiarazione sulla Cina. Lo stesso accadde a Steinbeck, che fu messo all’indice a causa di quel che disse in una sua intervista sulla guerra in Vietnam. Quanto detto finora non è che una faccia della medaglia. L’altra è rappresentata dagli sforzi enormi e dalla grande mobilitazione degli intellettuali per tradurre in albanese il maggior numero possibile di scrittori contemporanei occidentali. La letteratura straniera rappresentava una delle finestre dalle quali gli albanesi potevano vedere il mondo. Nello stesso tempo attraverso le traduzioni si poteva dire quello che non era possibile scrivere. Così nel 1982 si pubblica in albanese il romanzo di Ray Bradbury, Fahrenheit 451, con una tiratura di 25.000 copie. Era la denuncia di un’utopia che aveva paura dei libri. Per fortuna nessuno nei Comitati del partito ha letto il libro. 151 LE RAPPRESENTAZIONI SIMBOLICHE DEL CONFLITTO Symbolic Representations of Conflict in Contemporary Word: Different Disciplinary Prospects* JOHN GALATY Mc Gill University, Montreal Thank you very much. I do want to express my appreciation to Matilde Callari Galli for the invitation to participate in the conference and also to the Foundation Courmayeur for its generosity. I found that I profited immensely when I participated in the conference held two years ago, an occasion when I met many of you for the first time. I am delighted to be back this year, yet must apologize if my remarks do not have the coherence and the linearity of some of the other presentations. My presentation will be somewhat more reflective, as I will respond to some of the comments that were made yesterday and today and hopefully put forward a few ideas having to do with the symbolic representations of conflict. I will make reference to technology, in part because of the discussion of technology this morning but also because I think the forms of new technology are intrinsic to understanding the role of the media and the symbolic representations of conflict. The capacity for violence is certainly intrinsic to human beings, but the capacity for nurturance, kindness, peacefulness is also part of the human capacity. Reference back to the biological bases of human behavior is always interesting but never sufficient to help us to understand the nature of conflict. Human beings are bestial and human beings are angels – and they are often both at the same time. * L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 155 Culture e conflitto I would like to begin my remarks by exploring a question that intrigues me: why, if cultural differences do not seem sufficient, as many participants expressed it earlier today, to explain the nature of conflict, is it that ethnic and cultural differences appear time and time again in the representations and explanations that people put forward for conflict? Despite the fact that cultural differences do not make conflict inevitable nor lead directly to conflict, why are they, inevitably it seems, recruited to serve as explanations for conflict? It seems to me a profound issue and a profound question. I would like to approach the pervasive raising of ethnic and cultural differences in order to explain conflict through the question of the aesthetics of symbolic representations. My own intuition is that the heightening of emotions and the encouraging of the sensibility that one’s own interests are profoundly tied to opposition of an ethnic sort can best be understood through the nature of symbolic representations. Symbolic representations have their own effects and, to grasp these effects, I would like to present some examples and introduce some theoretical remarks. There are really two theories of symbolic representations that arise time and time again. The first is the theory of a trace, in which symbolic representations are seen to represent an expression or a ‘trace’ of a reality that has its existence elsewhere and is motivated apart from those representations. The second theory suggests that the representation itself has a life of its own. In the extreme we enter a world described by Baudrillard as a simulacrum, where representations refer to one another in an endless recourse to signs. In fact, it is very difficult to identify a reality that indeed lies outside the world of representations. The second theory seems outrageous when we deal with the profound events of conflict and violence and, yet, if we ask ourselves: where does the reality of the tragedy of Srebrnica, that took place during the recent Balkan civil wars, exist? Events occurred, but how did all of us know about those events, assuming that none of us were there? We know 156 John Galaty about them through the mass media, through television, through the print media. Today we re-experience those events through testimonials to a tribunal, we read magazine articles, we go through debates and these are, in some sense, in the sense of Baudrillard, representations of representations, that all add to the sense of the grim reality of events that occurred at a particular time. Now, I raise this example because at some level you find the intervention of symbolic representations in all acts of violence. The first intervention occurs when the act of violence is motivated and focused and carried out, and the second intervention occurs when the act of violence is remembered, recollected, recounted, retold – and in a second moment begins to have greater and greater impact or alternatively begins to dissipate, begins to have less and less impact, and finally dies away as a tangible memory, as a ‘reality’. The proposition I want to put forward is that symbolic representations have the power to evoke emotion in a way that events themselves do not and this may help us to understand how people who are essentially good and decent would come to the point of committing acts of violence. I think we can usefully turn to consider forms of representation that motivate and heighten people’s sense of the need to carry out violent acts. To understand the heightening of the senses, let me comment on the aesthetics of ritual: how is that ritual seems to its performers to be so important, while when examined by outsides, it may seem mundane and fairly routine? One reason is that there is an aesthetic aspect to ritual that lends it a sense of significance and often serves to evoke the presence of the divine. Similarly, action is often accompanied by narrative, that serves to explain action and to add a poetic dimension to it. What does it mean to insert a social process into a narrative form? It means first of all that you have subjects who are conceived as agents and actors. In a story we must have protagonists. If we listen to the story of Srebrnica or the story of the Holocaust or the story such as the one I am going to tell you in a moment, 157 Culture e conflitto having to do with East Africa, the actors are themselves simplified, they seem to have characteristics tied to the events recounted and the simplification gives a certain moral clarity to the episodes described. Secondly, Ricoeur’s discussion of narrative identity in his work Oneself as Another (1992) suggests that human events are invariably situated within a larger conceptual framework and are seen as part of a series of events that arise from an essential problem and lead to a sort of moral resolution. So we have characters and we have plots and we have predicaments – and this sounds very much like real life, if real life were simplified and condensed into a form that can be told. It is the telling and retelling, I would suggest, that inspire people to focus on and identify with generic types of events and lead them to feel able to carry out events that involve acts of violence that otherwise would be beyond them. Let me recount to you a short episode, following from the anthropological tendency to find a world in a small event. This event occurred several years ago in Northern Kenya, an area where I have been pursuing research on issues of conflict and violence. The people that live in this area speak several distinct languages, but they often have members who are bilingual to make it possible for them to communicate among themselves (not to mention the more recent proliferation of the lingua franca, Swahili, and the language of education, English). I want to tell you a short story about the Gabra, who are a cattle and camel- keeping group of Northern Kenya and the Dassanetch, who are an agro-pastoral people who live just to the north and on the northeastern shore of Lake Turkana. This area of Kenya and Ethiopia is a very dry, remote area, which often talks about itself as being forgotten. One day, in 1997, the Gabra moved from the desert over to Lake Turkana because grass had begun to grow in that area. It was the end of the dry season and the beginning of the rainy season, but it was still very dry in the desert and so they came to that area in order to get some grass for their cattle. The area had been set aside for a national park some 158 John Galaty decades before, called Koobi Fora – and perhaps you know it because it is a source of fossils representing the origin of human beings. In that area there were territories that were claimed by the Dassanetch and had been long used by them. The Dassanetch really didn’t want the Gabra to be there. The Dassanetch moved to that area because they themselves also wanted to use the grass. The Gabra, because of the dry area of the desert, brought all their cattle into the area – in fact there were thousands of cows all gathered together. Why did the Gabra feel such confidence that they could come so close to the Dassanetch and still be secure? Well, several years before they had gained a substantial number of automatic weapons. At the time that the Ethiopian government fell, fleeing soldiers came who, in order to buy food, had sold their guns. The Gabra were some of the recipients of these guns, so felt themselves to be much stronger that they had previously been and thought they could handle their enemies and protect themselves. The Dassanetch settled into a village that was immediately next to the Gabra and soon complained to the government that the Gabra had stolen 30 of their goats. They were outraged by this and stated that if the Gabra didn’t return those 30 goats within 7 days, they would attack. They conveyed this idea, they told me, to the government and yet the government did nothing. The Gabra felt strong enough and didn’t respond. The government told the Dassanetch to move away, and the Dassanetch did move away, and so the Gabra relaxed. The next morning, at about 3 a.m., the Dassanetch swept back and attacked and went through three or four villages, killing men, women, and children. They killed about a hundred people in this particular episode, stole several thousand heads of cattle and then fled back towards Ethiopia with their booty. Hearing about the episode by radio, the Kenyan government sent the police to chase them and to try and recover the animals. The Dassanetch were very, very, very astute and they hid, leaving the animals in open sight. The helicopter came in 159 Culture e conflitto and dropped the police down to the ground along the edge of the lake, where they were up to their knees in water, in an attempt to recover the animals. The Dassanetch came out of hiding and shot 17 policemen, took their rifles and took their uniforms and fled into Ethiopia. This was devastating not just for the Gabra but also for the Kenyan government, which was severely embarrassed, and of course for the police, which had lost 17 people in the space of a few minutes. Later, I spoke with one of the Dassanetch who was immediately involved in killing the policemen and he said that when one policeman dropped, he came out of his hiding and pointed his gun at the policeman. The policeman said: “Brother, I am just following my orders, don’t kill me!”. He said: “Well, you have come here to kill us, so I will kill you!” – and shot him. Later, the uniforms were recovered, the guns never and almost none of the cattle were ever recovered, but within about a year and a half there had been negotiations and the raiders had been allowed to return to Kenya. No one has ever been arrested, no one has ever been charged and certainly no one has been jailed for involvement in this episode, which generated international friction between the two countries. I carried out anthropological investigation of the episode, aimed less at understanding what happened, because that seems fairly clear, than understanding how people would talk about and explain their respective roles in this episode. All of the Dassanetch said: “It’s all because of the 30 goats! It’s the fault of the Gabra that this happened. If they had only returned the 30 goats, this would not have happened. So the responsibility for all of those dead people rests on the Gabra themselves. If they had only returned the goats, we wouldn’t have had to kill them!” I spoke to the Gabra, but no Gabra mentions the goats. They say they know nothing about the goats. They say no goats were ever stolen. Why did the attack occur then? They say that the Dassanetch wanted those thousands of cattle and what they did was to manufacture a pretext that the 160 John Galaty goats had been stolen. They said that there was a problem regarding the goats and gave the Gabra 7 days to return them. Then they counted off the days and then said: “Well, now we have no choice!” So I use this as a small example of how an act of violence is explained in various types of narrative justification. The Dassanetch explain that there had been long years of enmity between the two groups over the Gabra use of their pastures, while the Gabra insist that they have a need and long term rights to use these pastures, but were never allowed to do so without tension with the Dassanetch. They each have a narrative in which their own group is, if not a hero, at least a protagonist, facing opponents in the other group and the other group is almost always seen to be in the wrong. The story that is told has actors who are ‘ethnic’ actors. These personages do not represent particular people, but talk about themselves as generic Gabra and Dassanetch. Today, we can assess the situation and can say that the relationships between the two groups appear to be very complex, that over a period of perhaps a thousand years they have been intermarrying and many of them know one another’s language. Members of the two groups know each other very intimately – and yet, when they tell the story all the complexities and all the social relations in their common history dies away and it becomes simplified in the Gabra versus the Dasssanetch narrative. When either tells their story, they become very aroused and animated. They intensely feel themselves to be justified in their actions. Now that’s not the end of the story. There are two further episodes that show that they can go beyond this sort of ethnic positioning. The first vignette concerns sets of Dassanetch students who were in school in the Gabra area. When the massacre of Gabra occurred, some turned and wanted to take the students out of the school and kill them. But other Gabra protected the school children, saying: “No, these children are innocent”, and they were hidden and they were protected. They saw them as human beings and as individuals rather than as Dassanetch. 161 Culture e conflitto The Dassanetch today are a part of an ethnic coalition that supports a certain candidate for Parliament – they were preparing for an election scheduled for the 27th December, 2002. You would think after that that they would want to put their own candidate forward. Well, their own candidate would have had no chance. So who are they supporting? The Gabra candidate! So they see themselves as having solidarity with the Gabra against other groups within their same district. After the episode that occurred, both sides said they never wanted such a thing to happen again. They are now trading back and forth and moving as they always had back and forth between their communities. But when the episode comes up for discussion, then they fall back on their simplified narratives. I am using this example as a small illustration. Some might call it a tempest in a tea pot, but it represented something very serious in the area where it occurred. When we draw back, we see that there are many events of much greater magnitude and seriousness in the world, but we can still use the event as a strategy of thinking about two aspects of symbolic representations of violence. One aspect stems from the fact that the episode was motivated partly for instrumental means, because the perpetrators had sought to gain specific types of benefit (they wanted cattle, worth a tremendous amount in this part of the world). But the attacks were also motivated by an objectifying of their enemies, by reducing the individuality and humanity they knew existed to some form of stereotype and then carrying out with great ruthlessness an act that was partially motivated by the narratives and the aesthetic forms of song, dance, preparations that are part of the cultural repertoire of these groups. My thesis is that there were certainly material differences – the fact that they wanted cattle, which were present: the struggles over pasture are yearly, there are always struggles over pasture… but they are insufficient to explain the episode. We also need to consider symbolic representation 162 John Galaty to understand how people can be brought to a sufficient pitch of antagonism and motivation to carry out such acts. Now where does the media come in? There are technologies of warfare, and technologies of communication. Would the episode I described have been as serious without the many AK-47nt that they had acquired a few years before? Probably not. Would the police have been able to intervene in the middle of the event had there not have been telephones, helicopters, land cruisers etc.? Probably not. So the technological embeddedness of these activities, carried out as part of a long-term relationship between two peoples within the apparatus of the modern day, surely heightened both the significance and the seriousness of the episode. If we turn to questions of genocide, I would like to refer to the long-accepted analysis of the conditions of the holocaust. Could the holocaust have occurred in any time or place? One analysis suggests “No. The holocaust was a product of the modern day, because it required that various technological capacities had to be present.” Number one, the holocaust occurred as an outgrowth of a bureaucratic process. There were officers, there were levels of decision-making, there were procedures that had to be highly organized and one needed a modern bureaucracy to carry out this complex process. Number two, the holocaust required a sophisticated process of communication. Could it have occurred had there not been radios and the telegraph? The suggestion is no. Number three, the holocaust was perpetrated through the application of industrial technologies of violence – in this case a technology of killing large numbers of people over a limited period of time. If we take the same analysis to Rwanda, what is our conclusion? In the Rwandese genocide, there also was a bureaucracy, through which an organization operated that both benefited from the organs of government but also operated as an apparatus outside of it. Surely the telephone played a role as a key technology, but the radio was crucial in the Rwandan massacres. The radio provided the mechanism for sending orders to large num163 Culture e conflitto bers of cadres who were waiting for signals and orders about exactly where to go, where to get their weapons and where to find their victims. But the technological apparatus of violence, that was used with the greatest effectiveness, was the machete, not the AK47 and not gas chambers. Thus the most efficient genocide ever carried out was done so with the most simple of all weapons. So we must look with some suspicion on the argument that it is only the most modern of technologies that can operate with such efficiency. What is the role of media? I purposely tried to broaden the question of symbolic representations beyond that of the media, but I would like now to reflect on the question of film. Film and other dramatic forms have a strange power to evoke emotion in us, to make us identify experiences and characters. Why is that we can cry, time and time again, when Tosca yet once again jumps off of the castle wall? We know what is going to happen and we know that the act has a sort of transcendent quality to it and yet time and time again our emotions are taken through a particular sequence of feelings, to the point where Tosca jumps, must jump, and we ask ourselves again, why it is that Tosca must die. The distinctive capacity of drama is to orchestrate emotions, and film of course adds to the form of drama on stage sophisticated techniques that enhance the senses. In reconsidering a film like La Guerre d’Algers (“The war for Algiers”), one must be struck at the role of the film had in expressing and formulating opinions and affect with respect to the war – since it was a devastating account of the French role in combating the Algerian resistance. Why is it that every war seems to be accompanied by a set of films that recruit the emotions and direct people at a particular chosen enemy, whether supportive or critical of the essential motive for the war? One of the first films I ever saw concerned the Second World War, and perhaps many of you saw the same films or perhaps you didn’t (since this genre of war movies was widely circulated in North America). We all came to know 164 John Galaty through film that the villains in the War were the Axis powers, and our opinions, feelings, and sense of the justice of war were shaped and our emotions heightened in certain directions by the role of these films. Cowboys and Indian films, for particular generations, helped instill an implicit set of attitudes towards the Native Peoples of North America. But what is interesting about film, and perhaps other forms of drama, is its capacity to become an ironic commentary on itself. At a certain point, we all went from identifying with cowboys to cheering for the Indians. This inversion of perspectives was not part of the film, was not part of the emotional structure that accompanied the plot. Rather, the film matured as our sensibilities evolved in certain ways; the film suddenly became more interesting and perhaps even more redeeming, as its viewers chose to be on the side of the people whom we began to see as the oppressed. Such, I think, is the elusive and often unpredictable quality of the media to produce images that have certain objectives, but then, once alive, become richer than their authors intended, as they bear or even stimulate multiple interpretations that lead in directions that are unpredictably creative. These are the remarks that I wanted to make concerning symbolic representations and violence. My essential message is that I believe we cannot understand forms of violence strictly according to material causes. Material causes are always present, whether they be the struggle for pastures or territory or the elusive search for power. There are economic and there are environmental factors, and there is an abundant literature today on the interaction between environmental resources, power, and violence. Yet those material conditions were there before the conflict and invariably they are there after the conflict, and so always seem insufficient to serve as a definitive explanation, in part because they exclude the agency of the people involved. If we incorporate agency into our account, then the role of symbolic representations necessarily comes to the fore, be165 Culture e conflitto cause the nature of violence as a human act marks it as having motives and aims that it is directed and bears meaning. The meaning is usually captured in and conveyed through narrative. Therefore how people explain themselves and direct their own actions invariably has a narrative quality. When narrative is added to other aesthetic forms such as drama or film, the enactment gains an added force. I think we are looking at a productive domain by examining the interplay between symbolic and cultural understanding as we try to decipher some of the imponderables of violence in the modern world. Thank you. 166 Alcune riflessioni* ANNA MARIA GIANOTTI Università di Roma “La Sapienza” La mia riflessione nasce dagli stimoli suscitati dall’intervento del professor Galaty, anche se non pretende di aggiungere nulla al suo contributo che mi sembra decisamente più che esaustivo circa la dialettica esistente tra rappresentazioni e contesti sociali “agiti”. Come infatti sappiamo – e come il professor Galaty ci ha opportunamente ricordato – la rappresentazione di questo o di quell’evento non è un concetto che esista “di per sé”, ma è sempre comunque il risultato – o meglio – la risultante di azioni sociali concrete che divengono interpretazione, narrazione e quindi in concreto una nuova elaborazione “creativa” dei fatti. Sento comunque la necessità – per assumere un diverso paio di occhiali e fornire nuovi possibili stimoli al dibattito – di mettere di nuovo fra parentesi la rappresentazione, provando a separarla dalla sua componente referenziale e rivendicando quindi quello che Ferdinand de Saussure avrebbe definito l’autonomia del significante rispetto al significato. Il professor Galaty ci ha parlato dell’autonarrazione messa in atto da differenti gruppi, che in qualche modo hanno semplificato e reso più lineare – in forma di plot potremmo dire – la complessa realtà di una dinamica di conflitto. Mi viene in mente quel racconto di Karen Blixen, citato dalla Cavarero (Cavarero, 2001), in cui c’è un uomo che abita vicino a uno stagno e che di notte si sveglia a causa di un ru* L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 167 Culture e conflitto more. L’uomo corre fuori a cercare l’origine di questo rumore, ma a causa del completo buio che lo avvolge inciampa e cade, di seguito si rialza, gli succedono diverse cose e alla fine torna a dormire convinto di averlo soltanto immaginato. La mattina seguente, questa azione notturna dell’uomo, apparentemente priva di senso assume, nella forma delle tracce che l’uomo ha lasciato vicino allo stagno e nei suoi movimenti scomposti, le forme di un disegno ben preciso, quello di un bellissimo uccello. L’idea è dunque che, al di là della indiscutibile complessità del reale, esista una volontà continua di narrazione, anche rispetto al proprio personale percorso esistenziale, che dia profondità e senso al succedersi temporale degli avvenimenti (Brooks, 1995). Ritornando poi a quello che possiamo definire un racconto di secondo livello ovvero alla narrazione mediatica in genere – che è poi, in qualche modo, ciò che Clifford Geertz afferma riferendosi guardacaso all’esperienza antropologica che definisce un “racconto del racconto” (Geertz, 1987) – ho trovato interessante la riflessione, emergente dal dibattito, sulle grandi narrazioni come copertura delle grandi ideologie. D’altra parte, è opportuno ricordare come qualunque medium in sé – poniamo, ad esempio, quello televisivo – sia poi un mezzo estremamente “sciocco”, che prende valore o comunque consistenza solo nel momento in cui è completato dallo sguardo più o meno attento del telespettatore. Ciononostante, per diverso tempo gli studiosi dei media – complice anche l’affascinante aforisma mcluhaniano: “il mezzo è il messaggio” (McLuhan, 1976) – hanno focalizzato la loro attenzione solo ed esclusivamente sul mezzo. Dobbiamo invece ricordare che grazie alle riflessioni di molti, tra cui non possiamo certo dimenticare Raymond Williams1, si è potuto osservare che non esiste semplicemente una trasmissione di dati attraverso un certo canale, ma esistono molteplici rappresentazioni caratterizzate da una loro “grammatica” interna e da un rapporto sintagmatico definito come “flusso televisivo” (Williams, 1981). Naturalmente in questo grande calderone esistono le soap opera e i talk show – che come Grignaffini ha ricordato 168 Anna Maria Gianotti non sono sempre piacevoli o di livello intellettualmente accettabile – e allo stesso modo esistono rappresentazioni mediatiche in cui molto spesso vanno a confluire le azioni di conflitto. Katz e Dayan2 parlano a questo proposito di evento mediatico, attribuendo a questo genere di rappresentazioni tutto ciò che interrompe il flusso, o meglio la normale programmazione giornaliera, riunendo davanti al televisore pubblici solitamente disomogenei (Katz, Dayan, 1999). Il nostro pensiero corre naturalmente alle immagini delle Torri Gemelle, che in Italia – e non solo – hanno sconvolto le programmazioni dei principali canali nazionali e unito lo sguardo di milioni di telespettatori. A questo proposito ci si rende conto che se, come ha affermato il professor Galaty, esiste un simbolismo precedente ai fatti che in qualche modo li trasforma e li modifica in modo irreversibile, dobbiamo ricordare che questa modifica avviene solo ed esclusivamente in modo parziale. È importante ricordare che questi fatti vengono poi inseriti all’interno di una specifica grammatica, che è quella del testo televisivo: il fatto, ad esempio, che tutte le reti siano unificate e quindi ci sia una sorta di interruzione del flusso temporale; che tutti ci si senta in quel momento parte di quella che Anderson definirebbe una “comunità immaginata” (Anderson, 1996) che va oltre i semplici confini nazionali; tutto ciò agisce in modo tale che – pur lasciando da parte Baudrillard, che parla addirittura di una sostituzione della realtà, quasi si trattasse di una completa invenzione dell’evento (Baudrillard, 1996) – possa esistere un’elaborazione forte dell’evento; anche se probabilmente non così forte come vorrebbero alcune “teorie degli effetti dei media” secondo le quali ciascuno di noi, messo di fronte a un’immagine molto forte, quasi filmica, come quella delle Torri, potrebbe completamente cambiare la propria prospettiva di analisi della realtà. Più opportunamente bisognerebbe forse riflettere su una possibile influenza che agirebbe, non tanto nell’immediato in un improvviso cambiamento di prospettiva, quanto piuttosto in un rafforzamento di quella che alla fine è un’idea preesistente o un ideale condiviso. 169 Culture e conflitto Sicuramente, come abbiamo avuto notizia dagli stessi media, l’evento mediatico delle Due Torri non è stato recepito nello stesso modo nelle diverse parti del globo. Cionostante non possiamo dire che la rappresentazione che ne è stata data abbia sostanzialmente “sostituito” le precedenti rappresentazioni del “centro” e della “periferia” del mondo, annullandole o rendendole vane. Al contrario bisogna riconoscere che quelle immagini comunque hanno fatto sì che si delineassero, sia ad Oriente che ad Occidente, delle chiavi interpretative della realtà che magari fino a poco prima non erano così coese o così evidenti e che, in seguito all’elaborazione compiuta dai media, di fatto lo sono diventate (Amselle, 1999). Per finire, diciamo che potremmo individuare nella discussione che si è sinora svolta due diversi e coesistenti ambiti di intervento della rappresentazione mediatica in situazioni di conflitto: il primo, quello individuato dal professor Galaty, che potrebbe essere sintetizzato come una sorta di ricreazione dinamica dei rapporti sociali preesistenti, in cui ad essere in primo piano è l’azione dal basso dell’individuo che agisce sulla rappresentazione degli eventi; mentre il secondo potrebbe essere individuato in una sorta di “rafforzamento” messo in atto dai media nei confronti di tutte le rappresentazioni preesistenti l’evento stesso. Questo rafforzamento, pur non riuscendo mai veramente a sconvolgere lo status quo, andrebbe però a toccare dei punti nevralgici e fermi, delle letture già condivise, mettendoli in luce in modo più evidente, ridondante – sicuramente ideologico, come suggerisce il professor Seppilli – ma tutto sommato decisamente molto efficace. Note: 1 In particolare Raymond Williams riferendosi a queste teorie parla di un vero e proprio determinismo tecnologico. 2 In realtà Katz e Dayan concentrano la loro attenzione su eventi eccezionali, ma attesi – pensiamo ad esempio al matrimonio dei reali ingle- 170 Anna Maria Gianotti si – che pur sconvolgendo quindi il palinsesto per una giornata, e unendo pubblici al di là dei confini nazionali, contengono al loro interno un aspetto rituale e confermano quindi la sostanziale validità della regola. Ma seppur evidentemente imprevisto l’episodio delle torri, come del resto tutte le rappresentazioni di conflitto legate all’attualità, crediamo possano rientrare in questa ampia categoria. Riferimenti bibliografici Anderson B., 1996, Comunità immaginate, Manifestolibri, Roma Amselle, J. L., 1999, Logiche meticce, Bollati Boringhieri, Torino Brooks, P., 1995, Trame. Intenzionalità e progetto nel discorso narrativo, Einaudi, Torino Baudrillard, J., 1996, Il delitto perfetto: la televisione ha ucciso la realtà?, R. Cortina, Milano Cavarero, A., 2001, Tu che mi guardi tu che mi racconti, Feltrinelli, Milano Geertz, C., 1987, Interpretazione di culture, il Mulino, Bologna McLuhan, M., 1976, La Galassia Gutenberg: la nascita dell’uomo tipografico, Armando, Roma Williams, R., 1981, Televisione, tecnologia e forma culturale, De Donato, Bari Dayan, D., Katz, E.,1999, Le grandi cerimonie dei media, Baskerville, Bologna 171 Media e conflitto* GIOVANNA GRIGNAFFINI Università di Bologna Anch’io vorrei ringraziare il Centro, e in particolare Matilde Callari Galli per averci dato questa opportunità. Gli organizzatori di questa iniziativa infatti ci hanno costretto – o almeno è così per quanto mi riguarda – a riflettere intorno a questioni decisive per il nostro presente. Nemmeno io presenterò un intervento organico, ma in qualche modo descriverò una serie di sintomi o di indicatori che ci possono consentire di attraversare la problematica complessa che abbiamo di fronte. Da questo punto di vista, voglio semplicemente fare una premessa: io parlerò dei media e dei film pensandoli come elementi dinamici, cioè come operatori di discorsività e nello stesso tempo come operatori a loro volta influenzato dal discorso sociale. Si tratta evidentemente di analizzare quella doppia azione combinata che da una parte i dispositivi e gli apparati discorsivi esercitano sull’immaginario sociale e sul simbolico; e nello stesso tempo quella capacità dell’immaginario sociale e del simbolico di prendere corpo nei film, nei generi del discorso, nelle tecniche. In questa chiave il tema del conflitto potrà apparire come legato ad alcuni sintomi più generali, oltre che essere collegato alla questione della rappresentazione del conflitto. Proviamo allora ad addentrarci in questo nuovo paesaggio di sintomi. * L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autrice. 173 Culture e conflitto Il primo sintomo che ci viene incontro lo definirei come il “passaggio dalla rappresentazione alla simulazione”. Un passaggio che, ovviamente, più che i contenuti e le figure riguarda i modi della rappresentazione, o meglio, il sistema di relazioni e il processo di coinvolgimento che si attiva con lo spettatore. Naturalmente, si tratta di un sistema che investe alcuni filoni, alcuni generi e molti film contemporanei; ma il prototipo esemplare di questa tendenza è Apocalypse Now (Francis Ford Coppola, 1979). Un film che non a caso, oltre alla violenza istituita attraverso le procedure, mette in scena anche la violenza come oggetto del racconto e della narrazione; un film emblematico di tutta quell’estetica degli effetti speciali che pone al centro del proprio dispositivo il soggetto inteso come contenitore dinamico, sistema di percezione e coscienza da attivare in una logica di immersione trasformativa, capace di produrre stimoli, sensazioni, emozioni, punti di vista, cioè capace di mettere in movimento la coscienza dello spettatore. E questo ci riporta ad uno dei discorsi dominanti dell’avanguardia storica degli anni ’20, che nel suo sforzo di pensare il cinema come nuovo medium, pensava proprio alle nuove forme con cui esso consentiva l’attivazione della coscienza dello spettatore. Anche Coppola si dimostra consapevole di tale orizzonte problematico, quando afferma esplicitamente “io non volevo rappresentare il Vietnam, volevo mettere lo spettatore dentro al Vietnam”. Coppola intende dunque rivolgersi al sistema percettivo, sensorio ed emozionale dello spettatore. Questa è una questione importante, che il cinema contemporaneo ha in qualche modo accolto ed evidenziato allestendo quella estetica degli effetti speciali, che costituisce la cifra chiave oggi del cinema, segnatamente nei generi horror e fantascienza. Questa figura dell’immersione e della relazione patemica che ho appena evidenziato, oltre ad essere la figura di una certa forma di rapporto tra film e spettatore, credo che la possiamo individuare anche come figura più generale della nostra contemporaneità. Con qualche schematismo, segnalo alcuni riferimenti: l’idea, per esempio, che questa modalità, 174 Giovanna Grignaffini questa figura riproduca la stessa modalità che definisce il rapporto tra soggetto e macchina, sia nell’esperienza della “rete” – governata da una logica dell’accesso e dell’immersione, sia nell’esperienza dei videogiochi, in cui non c’è in senso stretto rappresentazione ma interazione; non c’è scena rappresentata, ma costruzione di un dispositivo al cui centro c’è l’eroe – utente con la sua possibilità di superare prove. Per esempio, J. Rifkin, nel suo libro L’era dell’accesso, individua come nuovo modello o come nuova figura – che definisce tutta l’industria del divertimento e dello spettacolo, ma anche la vita dei centri commerciali – il deserto. Si tratta dunque di una nuova figura – il deserto – attraverso cui nei non-luoghi della nostra contemporaneità ciò che va in scena è unicamente l’esperienza psicosensoriale-emotiva del soggetto, quindi con un cambio di paradigma. Insieme a questo, che ovviamente è il discorso più pregnante e che più mi interessava sottolineare, dal momento che ha a che vedere con i dispositivi e con le macchine, mi sono esercitata a ritrovare altri sintomi per ciò che riguarda le figure della rappresentazione; figure della rappresentazione, dunque, collegate ai modi e alle forme con cui vengono rappresentati l’“altro”, il “duello”, la “battaglia”, che costituiscono le modalità classiche attraverso cui si può esplicitare e mettere in scena la logica del conflitto (e forse anche della paura). Non si tratta, ovviamente, di un corpus coerente di indicatori, si tratta di alcuni prelievi e collegamenti. L’“altro”, da Alien (Ridley Scott, 1979) a La cosa (John Carpenter, 1982), fino ai replicanti di Blade Runner (Ridley Scott, 1982), nella rappresentazione cinematografica l’“altro’’ perde progressivamente la configurazione di soggetto proveniente da un altro luogo, da un altro spazio o da un’altra scena. L’“altro” si esprime nella forma del virus, il suo luogo generativo è lo stesso su cui si fonda il soggetto. Diciamo che nel cinema di fantascienza, dagli anni 80 in poi, l’“altro’’ in qualche modo si configura come malattia del soggetto, non come alieno proveniente spazialmente, temporalmente, culturalmente, ideologicamente da qualche “altrove”… ovviamente con tutto ciò che questo comporta. 175 Culture e conflitto Lo stesso discorso potremmo farlo per le altre due figure chiave della logica di rappresentazione del conflitto: il duello e la battaglia. La battaglia – o meglio, la guerra intesa come battaglia, come scontro, che ha un proprio tempo, un proprio spazio, dei confini, dei tempi, degli antagonisti – scompare dalla rappresentazione cinematografica. Questo processo inizia a manifestarsi già dalla fine degli anni 50, ma esplode definitivamente, al di là del film di Coppola prima ricordato, con Full Metal Jacket (Stanley Kubrick, 1987). Si tratta di un film che esplicitamente introduce il punto di vista del soggetto che è dentro la scena come elemento ordinatore della dinamica rappresentativa; film che ancora una volta si muove in una prospettiva di immersione e non di rappresentazione. Dunque, la battaglia scompare dalla rappresentazione, e soprattutto scompare il duello, inteso come forma di antagonismo, di conflitto, di scontro, fisico e simbolico. Insomma, i buoni e i cattivi hanno cambiato le loro forme di apparizione, non solo perché noi li guardiamo con altri occhi sul piano dei valori che incarnano, ma perché hanno cambiato i modi e le forme di stare dentro la scena. Non sono più figure da guardare, ma punti di vista attraverso cui organizzare la visione. Ed è questa la logica che fa scomparire la figura del duello in quanto momento di esplicitazione del conflitto. Il processo fin qui descritto accade non solo nei film di guerra o nei film che esplicitano situazioni di guerra, ma anche in tutta quella ripresa del cinema western, un genere che aveva fatto del duello la propria scena madre, la propria forma di rappresentazione dominante. Da questo punto di vista un film emblematico può essere considerato Gli spietati (1992, di e con Clint Eastwood), un film in cui il dramma, il conflitto è tutto interiore, all’interno di una scena che non ha più possibili elementi di conflitto e violenza, ma in cui si respira una violenza tutta implosa, rarefatta, che si fa atmosfera: l’insistenza violenta della pioggia, l’abbigliamento dell’“eroe”, il suo modo di parlare, il sistema di relazioni. Insomma ci troviamo di fronte ad una violenza diffusa, una violenza strutturale che domina il sistema di percezione e di 176 Giovanna Grignaffini cosciente rappresentazione di questa stessa violenza. Una questione, questa, che Giovanna Guerzoni, con un’espressione che condivido, ha definito come “opacità” della violenza nei sistemi di rappresentazione e nei media. Ciò che si è costruito, dunque, nel caso del cinema, è un sistema comunicativo che utilizza la violenza come struttura fondante della relazione tra soggetto e schermo, alimentando in tal modo uno di quei dispositivi che hanno contribuito a creare la naturalizzazione della violenza. Esistono infatti dispositivi e procedure che agiscono e determinano comportamenti, mentalità, processi sociali. Credo che la rappresentazione della scena cinematografica nei generi che ho ricordato prima – ma anche nella scena televisiva (come vedremo poi brevemente) – alimenti quel processo di naturalizzazione della violenza che è uno degli elementi della nostra scena contemporanea. Non è un caso che Oliver Stone, uno dei registi più attenti a questo tipo di discorso, abbia fatto un film dal titolo Assassini nati (1994), un film che rappresenta proprio l’iscrizione della violenza – e quindi la sua naturalizzazione nel DNA dei soggetti rappresentati. Segnalo brevemente un altro tema (che richiederebbe analisi ben più accurate), che ha a che vedere con il passaggio dalla rappresentazione della paura alla rappresentazione dell’ansia e dell’incertezza. Una modalità rappresentativa, questa, che troviamo in una serie di film – da America oggi (Robert Altman, 1993), a Fargo (Joel e Ethan Cohen, 1996) e a tutti i film dei fratelli Cohen – che mettono in scena una quotidianità e una normalità della vita della provincia e delle città americane lungo cui scorre sotterranea un’ansia e una violenza diffusa, pronta a esplodere a ogni istante: film che mettono in scena quella società del rischio e dell’incertezza di cui parlano gli scritti di Peck V. e Bauman Z. tra gli altri. Anche in televisione sembra accadere qualcosa di simile. Penso a qualche esempio di televisione italiana, anche se non era italiana quella televisione che non ci ha fatto vedere nulla della guerra del Golfo, dove la guerra, il duello, la battaglia sono stati completamente espulsi dalla scena, lasciando visibili solo luci, fendenti e traccianti di missili e bombe. Le 177 Culture e conflitto notti di Baghdad sono state le notti in cui per lo spettatore mondiale l’unica cosa visibile erano le traiettorie luminose che riempivano quei cieli. Oltre a quello: preparativi e rovine. Il prima e il dopo. Scompare il processo con la sua materialità, con la carne, con i corpi e le loro ferite. In questa ottica, non è un caso che in un film come Il Pianista (Roman Polanski, 2002) la scena più straordinaria sia quella in cui il protagonista, che è stato relegato al chiuso durante l’intera guerra, esce dalla sua prigione e quello che vede è una Varsavia completamente distrutta. Restano solo le rovine del dopoguerra, mentre la guerra che è accaduta, ma a cui non ha potuto assistere, si è risolta in frastuono di rumori e bagliori indicibili. Dunque: violenza diffusa, violenza strutturale, opacità della violenza, violenza che circola nell’aria e fa sentire il suo peso su ogni dettaglio. Con meno tecnologia e meno capacità di investimento immaginario, si tratta delle stesse modalità di costruzione di molte trasmissioni televisive. Per esempio, le trasmissioni legate ai dibattiti di carattere sociale e politico. Dibattiti che, nel modo con cui vengono messi in scena e costruiti, indipendentemente dai contenuti e da ciò che si dice, producono un “effetto violenza”, hanno la capacità di suscitare inquietudine, di creare un elemento di tensione. Nello stesso tempo, un altro punto che voglio sottolineare (e che non si riferisce solo alla situazione italiana, visto che i format sono importati dalla televisione americana e inglese, anche se da noi si chiamano, ad esempio, C’è posta per te, Amici, Carramba, che sorpresa) è il fatto che il conflitto subisce un processo di privatizzazione e diventa conflitto tra attori privati (uso il termine “attori” volutamente, perché il conflitto è sempre anche messo in scena, non è mai semplicemente colto sul fatto). La cosa interessante da sottolineare è che la capacità di soluzione dei conflitti viene fatta propria dal mediatore televisivo, cioè il medium, che attraverso la figura del conduttore assume il ruolo e la funzione di risolutore di conflitti. In questo senso, sul piano simbolico, questi format legittimano i media come mediatori e risolutori dei conflitti. 178 Giovanna Grignaffini Noi siamo dunque in una società in cui Raffaella Carrà, o Maria De Filippi, o Alda D’Eusanio mettono in scena la riconciliazione affettiva o familiare di un conflitto che hanno dovuto precedentemente creare. Non siamo più di fronte a media che assumono il dato di realtà e poi operano dal punto di vista della sua trasformazione: è il dispositivo stesso – in questo caso il medium televisivo che si fa attore sociale in prima persona e produce eventi – conflitti – che poi contribuisce a mediare. Come vedete, siamo oltre quella logica di integrazione dialettica tra osservatore e osservato, di cui si è parlato stamattina. Questo protagonismo dei media è un elemento importante da sottolineare, perché sta modificando la nostra scena sociale. Quindi: sparizione della rappresentazione visibile del conflitto, costruzione di un sistema di cui la violenza è l’elemento primario. Una violenza strutturale, implosa, non riconoscibile e visibile nelle sue forme classiche. Investimento simbolico su quei nuovi mediatori sociali che sono i media stessi. lo credo che tutti questi elementi, nel loro insieme, ci consentano di affermare non tanto che il cinema ha previsto l’11 settembre, ma che in alcuni film, in alcune pratiche, in alcune procedure lo spirito dell’11 settembre in qualche modo è stato raffigurato, rappresentato, colto, messo in scena. Ormai conveniamo tutti che con la globalizzazione non si può più parlare di conflitti e di guerre nelle forme tradizionali con cui li abbiamo trattati finora, nel senso che non sono più circoscrivibili e localizzabili i luoghi, i tempi, i territori e gli attori. Ci troviamo di fronte a una sorta di anonimato, allo svuotamento di qualsiasi territorializzazione, all’opacità e alla pervasività della violenza. E qui vorrei citare anch’io J. Baudrillard, come è già stato fatto nella precedente relazione, ma con un’ulteriore provocazione. Vorrei cioè prendere Baudrillard nella forma più estrema del suo discorso, e riproporvi la sua lettura dell’11 settembre: quando afferma che quell’evento ha comportato la presenza di un reale che si aggiunge, come effetto speciale in più, alla rappresentazione dell’orrore. Non siamo più alla scomparsa dei confini tra 179 Culture e conflitto reale e virtuale, come in The Truman Show (1998, di Peter Weir). Siamo nel luogo in cui il reale si aggiunge, come un effetto speciale in più, alla rappresentazione. Ma siamo soprattutto nel luogo di contraddizione e di crisi, dice Baudrillard, della mondializzazione. L’11 settembre infatti, al di là di ogni valutazione sul bene, sul male, sulle culture e sulle civiltà, è il momento in cui precipita un sistema che, più si concentra mondialmente, più diventa vulnerabile in un solo punto. In questo senso i terroristi e i pirati informatici sono il frutto non della stessa cultura o della stessa intenzione, ma della stessa logica. Del fatto cioè che il processo accentuato di mondializzazione e di concentrazione produce come risultato che non si può rispondere alla guerra totale e diffusa, che caratterizza il nostro tempo, con una guerra tradizionale, ma vanno trovate le forme adeguate alla nuova fase. Sapendo che il sistema più si espande, più diventa vulnerabile in un unico punto. Quindi, di fatto (sostiene Baudrillard), il terrorismo come risposta alla guerra totale mondializzata – che per questo non è la terza guerra mondiale, ma quanto meno la quarta – non è che l’espressione di un virus interno allo stesso processo di globalizzazione. Il terrorismo, dunque, si configura come risposta interna, non esterna, come azione che non viene dall’“altro”, ma dal medesimo; azione che non muove da un “altrove”, da un altro luogo e da un altro tempo rispetto al nostro. Per questo il terrorismo rappresenta l’elemento di entrata in crisi dello stesso sistema di globalizzazione che, tanto più si dilata, si concentra, si mondializza, si totalizza e copre tutto – non solo sul piano della tecnica e dell’economia, ma anche sul piano della cultura – tanto più produce i propri meccanismi di malattia interni. Un tempo avremmo detto che ogni cultura genera il proprio barbaro, oggi forse possiamo dire che ogni cultura totalitaria – come di fatto è il pensiero e la pratica della globalizzazione e della mondializzazione – genera il proprio virus, cioè lo strumento che finirà inevitabilmente per minarne meccanismi e l’intero sistema. 180 Giovanna Grignaffini Terrorismo, violenza, virus, malattia: sono dappertutto, e producono cultura del sospetto. Le cose, gli individui, la quotidianità: tutto precipita in una logica che non è più della paura (la paura ha bisogno dell’“altro” e dell’“altrove”), ma del sospetto diffuso: chiunque può essere colpevole, nessuno può più essere innocente. Ancora due brevi considerazioni. Innanzitutto, vi invito ad andare a vedere, se non lo avete già fatto, Minority Report (Steven Spielberg, 2003), visto che nel film è splendidamente rappresentato il campo problematico che ho cercato di descrivere. Ci racconta infatti che oggi non ci sono più conflitti, perché la malattia si è insinuata nel corpo stesso di polizia, che dovrebbe indagare e risolvere. Ci racconta che non c’è più reato, che non c’è più vittima, ma c’è il colpevole e che la prevenzione (e la punizione preventiva di colpevoli virtuali) è diventata la risposta a un sospetto che è generalizzato, ormai diffuso nell’aria. Nel film si parla ovviamente anche di rapporto di minoranza, ma non vi voglio togliere la sorpresa rispetto al significato che esso ha nella logica integrale di dominio che caratterizza la nostra epoca. Concludo citando Aldo Bonomi, di cui condivido le tesi espresse nel bellissimo libro La comunità maledetta, che parla del rapporto tra territorio e globalizzazione. Bonomi rilancia la figura del volontario, “colui che si mette in mezzo”, come nuova figura della mediazione sociale. Mediazione tra conflitti reali, micro e macro conflitti vissuti e visibili in molte parti del mondo. È importante ripensare concretamente i nuovi modi, forme e figure della mediazione sociale. Ma è vero che se stanno accadendo anche quei fenomeni schematicamente descritti nel mio intervento, ci troviamo di fronte ad un altro compito: quello di pensare i modi e le forme per alimentare il conflitto nella sua accezione positiva. Per alimentare cioè la rappresentazione dell”’altro” e dell’“altrove”. Bisogna che l’“altro’’ e l’“altrove ci siano perché vi sia relazione, differenza, confronto, e anche conflitto. Oggi, se dobbiamo costruire (oltre che decostruire, come 181 Culture e conflitto abbiamo fatto per troppo tempo), dobbiamo fare due cose contemporaneamente: alimentare le forme di rappresentazione dell’“altro”, costruire l’“altro”, costruire il conflitto e insieme le forme della sua mediazione, perché la fine della rappresentazione di ogni conflitto può essere la fine dell’esistenza di ogni differenza. Fare due cose contemporaneamente, sapendo che non è più l’uno che dobbiamo pensare, ma il due. 182 Cultura e conflitto: rappresentazioni visuali e antropologia del cinema MARIA GIULIA GRASSILLI Università di Bologna Il presente saggio si propone di cercare di capire in quali termini uno sguardo antropologico al cinema possa essere uno strumento utile per affrontare il tema dei conflitti culturali e delle rappresentazioni della violenza. Sin dalle prime apparizioni della tecnologia verso la fine del ’900, così come prima era avvenuto con la fotografia, l’antropologia ha sviluppato con il cinema una relazione significativa. Nella storia del cinema i registi sono sempre stati animati da due obbiettivi, diversi ma a volte sovrapposti: “documentare la realtà” ed “inventare”, “interpretare” attraverso la fantasia le società in cui viviamo. Nell’impresa di “rappresentare la realtà”, e soprattutto le realtà lontane, esotiche e distanti, sin dagli inizi del secolo si è riscontrata una frenesia dei cineoperatori, dai fratelli Lumière alle case di produzione Pathé ed Edison per riprendere immagini da tutto il mondo e poi ripresentarle nei centri urbani occidentali, nel corso di spettacolari “performances visuali dell’Altro”. Con un approccio di ricerca e scientifico, i primi “antropologi visuali” – da Spencer a Haddon, sino a Margaret Mead e Gregory Bateson – erano invece interessati a “catturare” su pellicola le immagini di mondi che si ritenevano “in via di estinzione” e quindi di rituali e tradizioni destinate a scomparire. Il visuale era quindi un riconosciuto strumento, sia a supporto degli studi come “taccuino di ricerca”, sia per la divulgazione scientifica che per la preservazione di immagini altre (una sorta di museificazione visuale). Nel corso del secolo, l’antropologia visuale si è arricchita dei diversi approcci e riflessioni sul tema dell’osservazione e rappresentazione delle culture “altre”, in 183 Culture e conflitto relazione al ruolo dell’antropologo sul campo ed alla sua interazione con i “soggetti di studio”, così come questi sono cambiati nel tempo – dagli “antenati totemici” di Robert Flaherty e Dziga Vertov, al cinema di osservazione di John Marshall e Robert Gardner, alla cine-trance e ciné verité di Jean Rouch sino all’approccio contemporaneo di David MacDougall e alle recenti analisi sul cinema indigeno. Recentemente l’antropologo ha iniziato a posizionarsi non solo come “regista” ma come facilitatore di un’auto-rappresentazione dei soggetti di studio, “dando loro la videocamera” in mano (Worth & Adams, 1972, Michaels, 1986, Turner, 1992, Ginsburg, 2002). Se gli antropologi erano infatti consapevoli della potenzialità del mezzo e quindi dell’importanza degli strumenti visuali, è vero anche che la loro attenzione è stata soprattutto concentrata sull’uso che loro stessi potevano fare del visuale, in quanto produttori di film etnografici. L’Antropologia Visuale si è quindi distinta come una sub-disciplina dell’Antropologia Culturale che in generale si occupa dei “film etnografici”, ossia dei film girati da antropologi per comunicare conoscenza antropologica e sulla produzione di materiale visuale (da parte dell’antropologo) come strumento per la ricerca (vedi Moi un Noir di J. Rouch) o per una particolare esposizione dei risultati (per esempio The Hunter di J. Marshall). Al di là dell’antropologia visuale, è solo sporadicamente che si nota un apprezzamento dello studio dei materiali visuali esistenti – film, documentari, media – per ciò che questi ci dicono per lo studio delle culture, del contenuto e della rappresentazione che questi offrono di una cultura, e per lo studio del contesto in cui questi sono prodotti e ricevuti. Margaret Mead fu la prima a pensare di sviluppare il potenziale dell’utilizzo del cinema per lo studio delle culture a distanza. Durante la Seconda guerra mondiale – insieme a Rhoda Mètraux e a Gregory Bateson ed un vasto gruppo di ricercatori della Columbia University a New York – Margaret Mead organizzò sistematicamente una ricerca sulle culture di diversi paesi “a distanza”. Per ovviare al184 Maria Giulia Grassilli l’impossibilità di recarsi sul campo in paesi – come l’Italia e la Germania – allora in guerra con gli Stati Uniti, lo studio presentava una ricca e complessa metodologia per lo studio delle culture attraverso la letteratura, il cinema, interviste ad informatori significativi (per esempio emigrati), focus groups e tecniche di analisi. Le culture studiate comprendevano la Cina, Thailandia, Italia, Siria, Francia, Germania, Russia, Romania e Gran Bretagna. La ricerca era orientata ad osservare le regolarità culturali dei caratteri in individui membri di società inaccessibili ad una diretta osservazione. (Mead & Metraux, 1966). «Il cinema fu usato – dai ricercatori – come materiale empirico attraverso cui comprendere modelli culturali e caratteri nazionali espressi dal nazifascismo» (Canevacci, 2001: 14). Per lo studio della cultura italiana, per esempio, fu organizzato un focus group per la discussione e analisi di alcuni film del neorealismo italiano, tra i quali Sciuscià, Paisà, Germania Anno Zero, Ladri di Biciclette, dove l’attenzione era orientata verso l’immagine della donna, l’importanza della virtù e il ruolo dell’uomo nella famiglia e nella società. Gregory Bateson aveva analizzato il film tedesco di propaganda nazista Hitlerjunge Quex come esempio di applicazione delle tecniche antropologiche all’analisi di un film di finzione. Attraverso l’analisi del film, Bateson cercava di comprendere la visione tedesca sulla propria società in un particolare momento storico e contesto, per poi estrapolare alcune ipotesi sulla “struttura e dinamiche del carattere Nazista”. «Un dipinto, un poema o un sogno ci possono dare una eccessiva falsa pittura del mondo reale, ma dal momento che il pittore o il poeta è un artista, ed è in controllo del suo mezzo di espressione, il prodotto artistico ci dovrà rivelare qualcosa sull’artista stesso […] il film ci dirà qualcosa sulla psicologia del realizzatore […] su ciò che intendeva esprimere» (Bateson in Mead & Metraux, 1966: 333). O, aggiungerei io, sul contesto sociale, culturale e produttivo all’interno del quale il film è stato sia realizzato che recepito. Più recentemente è Marcus Banks che, in sintonia con lo “studio di una cultura a distanza”, ripropone un dina185 Culture e conflitto mico utilizzo dei metodi visuali per le ricerche sociali – sia per la ricerca “sul campo”, e quindi la produzione di “documentari etnografici” od un uso della cinepresa come “taccuino di ricerca” (image creation), sia per una etnografia “multi-situata”, dove “il campo si allarga” – o si trasforma – per inseguire la molteplicità dei luoghi dove si manifesta l’aspetto sociale della memoria (Callari Galli, 2000: 63). Come antropologia delle forme visibili, l’antropologia visuale sta espandendo i suoi ambiti in due modi: si inizia a considerare la produzione dei media indigeni come un significativo corpus di “rappresentazione culturale” parallelo alle etnografie visuali; si inizia inoltre a fare attenzione ad una serie di forme culturali che comunicano significati attraverso il visuale – dalla fotografia al cinema. (MacDougall in Banks & Morphy, 1997: 283). Si può identificare un sub-settore dell’antropologia, che io definirei “Antropologia del Cinema” – in contrapposizione all’Antropologia Visuale (Chiozzi, 1993) – dove i materiali visuali sono “il terreno” su cui fare ricerca. L’antropologia del cinema si concentra soprattutto sul prodotto cinematografico – film documentario, animazione, sulle industrie del cinema, sui “cineasti” (informatori privilegiati) e sulla audience. In questo approccio, l’antropologo del Cinema si pone quindi di fronte al visuale in una doppia prospettiva: da un lato analizza il contenuto della rappresentazione visuale; dall’altro approfondisce il contesto nel quale tali rappresentazioni sono prodotte: chi le ha realizzate? Per chi? Quali sono state le modalità di produzione? E infine, come si pone l’antropologo “regista” o “spettatore” nel rapporto con la realtà ripresa? (Banks, 2001). E ancora, chi guarda tali rappresentazioni? E come? Vi sono quindi tre elementi principali di analisi nell’ambito dell’antropologia del cinema: testo/contenuti, contesto di produzione, contesto di ricezione. Nell’ambito del tema principale di Culture e Conflitto, quale particolare conoscenza si può raggiungere attraverso uno sguardo antropologico nella lettura di rappresentazioni visuali dei conflitti? Cercherò di introdurre la discussione 186 Maria Giulia Grassilli presentando alcuni esempi di “cinema dei diritti umani” e ponendo suggerimenti e questioni per l’analisi del loro significato in diversi contesti di rappresentazione, produzione e ricezione. Sul tema del conflitto e della violenza, mi sembrano significativi alcuni film che sono stati presentati a Bologna nell’ambito del festival cinematografico Human Rights Nights nel 2003 e 2004 presso la Cineteca di Bologna: Jenin…Jenin di Mohammad Bakri e Gaza Strip di James Longley sul conflitto arabo-palestinese in Medio Oriente. Holy Cross di Mark Brozel, sul conflitto tra protestanti e cattolici in Irlanda del Nord. S21 Khmer Rouge Death Machine di Rithy Panh e Gacaca: Living together again di Anne Anghion, sul tema della memoria e riconciliazione. Khamosh Pani di Sabiha Sumar, sul fondamentalismo religioso. The day I will never forget by Kim Longinotto e Moolade di Sembene Ousmane, sulla mutilazione genitale feminile. Jenin…Jenin è un documentario girato nel campo profughi di Jenin dal regista attore Mohammad Bakri, 10 giorni dopo l’attacco portato dalle forze dell’esercito israeliano nell’aprile 2002, che ha praticamente raso al suolo l’accampamento e provocato numerosi morti e feriti. Come lui stesso ha raccontato durante un incontro di presentazione del film al Cinema Lumière, il regista ha sentito la necessità di fare questo film dopo avere assistito ai bombardamenti su Jenin durante una protesta di intellettuali arabi e israeliani. Il documentario presenta una ricostruzione degli eventi attraverso le testimonianze di anziani e bambini e inedite immagini degli effetti dell’attacco, per il quale Israele, accusato di crimini di guerra da parte di numerose organizzazioni umanitarie, ha rifiutato una commissione investigativa internazionale. 187 Culture e conflitto All’interno del festival, l’anno precedente era stato presentato il film Gaza Strip di James Longley (giovanissimo regista indipendente americano), che in modo simile portava lo spettatore nel pieno dei tumulti della striscia occupata da Israele a Gaza. Esaminando le vite di ordinari palestinesi, e in particolare dei giovani “lanciatori di pietre”, che rischiano la loro vita lanciando sassi ai tank israeliani attraverso le barriere di filo spinato, il film coglie un attimo della vita interiore di uno dei ragazzini, Mohammed: il suo senso di smarrimento, la sua tristezza all’uccisione del suo migliore amico, la sua concezione di morte. Mentre la videocamera vaga nella striscia di Gaza, incontriamo ovunque segni dell’occupazione: folle di Palestinesi che vanno sulla spiaggia a piedi, carretti di asino e trattori con rimorchi, da quando gli Israeliani hanno chiuso le strade. Come si inseriscono queste immagini nel flusso di immagini e di comunicazioni globali sul conflitto arabo-palestinese in Medio Oriente? Può essere interessante analizzarne i contenuti, e quindi le immagini a volte “negate” dai media occidentali – non era infatti permesso a nessun cronista entrare a Jenin dopo l’attacco e Mohammad Bakri stesso è entrato clandestinamente e raramente si “ascoltano” le parole dei giovanissimi di Gaza – e porle a confronto con quelle che costruiscono l’immaginario del conflitto. Può essere inoltre interessante confrontare i contesti di produzione e diffusione dei due documentari, il primo girato da un regista attore arabo-palestinese e l’altro da un giovanissimo regista americano. Entrambi i film hanno raggiunto una visibilità attraverso il circuito dei festival internazionali, ma non sono stati proiettati sui canali televisivi. Jenin… Jenin è stato inoltre censurato in Israele ed è attualmente in atto un percorso giudiziario per rimuovere gli ostacoli. Infine, per quanto riguarda l’analisi della ricezione dei film in diversi contesti può essere stimolante un commento a me rivolto da una studentessa americana residente a Bologna per un anno di studi: “Se avessi visto questo stesso film negli Stati Uniti probabilmente non ne sarei stata così colpita… ma essendo io stessa dislocata dalla mia presente posizione, a Bologna, 188 Maria Giulia Grassilli mi sono sentita più vicina a quello che succede in altri paesi”. Sempre sul conflitto etnico, non più in Medio Oriente ma in Europa, il film Holy Cross di Mark Brozel si concentra sugli scontri tra protestanti e cattolici a Belfast, nell’Irlanda del Nord. Le immagini scioccanti di bambini sconvolti e terrorizzati, circondati dalla polizia con scudi da sommossa, e di folle arrabbiate che lanciano ingiurie contro di loro, mentre provano a camminare lungo la strada verso la Scuola elementare Holy Cross hanno dominato i media inglesi nel Settembre 2001. In particolare il film ricostruisce attraverso la finzione e le storie di due famiglie immaginarie, i disordini del 2001 sulla Ardoyne Road a Belfast, dove era sorta una disputa sui diritti di attraversamento di qualche centinaio di metri dell’area – per maggioranza protestante – di Glenbryn da parte di alunne dell’area Cattolica Ardoyne di Belfast nord, per raggiungere la Scuola primaria Holy Cross. Commentando il proprio film, Broezel afferma il tentativo di andare al di là della cronaca documentaristica attraverso un dramma di finzione per approfondire emozioni, motivazioni ed azioni delle persone coinvolte. «Le notizie tendono a raccontare i fatti in bianco e nero. A un primo livello va bene perché ci raccontano cosa sta succedendo, ma un giorno dopo l’altro questo ci desensibilizza al dolore e alle esperienze degli individui coinvolti. Quello che un film come Holy Cross può fare è dare alla gente un forte legame emotivo con quello che altre persone attualmente stanno attraversando.» Dal punto di vista antropologico, può risultare interessante approfondire la narrazione cinematografica del conflitto e delle culture attraverso la finzione del documentario. Quali diverse rappresentazioni culturali e letture critiche del conflitto permette un’analisi di una ricostruzione drammaturgica affiancata ad altre narrazioni sia etnografiche che giornalistiche? Alcuni dei film proposti nel 2004 all’interno della sezione dedicata ai Massacri erano esempi originali di come il cinema possa contribuire alla ricostruzione sociale e alla riconciliazione al termine dei conflitti. S21: the Khmer Rouge Death Machine di Rithy Panh, è un 189 Culture e conflitto lungo documentario interamente girato nel principale campo di detenzione e di tortura nel centro di Phnom Penh, attualmente museo-prigione, utilizzato dal regime dei Khmer Rossi come strumento della sua sanguinosa politica. Sotto questo regime, circa un milione e settecentomila persone hanno perso la vita (il 21% della popolazione locale) tra il 1975 e il 1979. Nel film, il regista Rithy Panh, attraverso le parole e le azioni di superstiti al genocidio, ricostruisce la raccappricciante vita di tutti i giorni nel campo di prigionia S21 a Tuol Sleng. La memoria riemerge attraverso la descrizione della routine della tortura e repressione, le foto dei prigionieri, i quadri di un pittore ex-vittima, e lo spazio di S21, “il luogo in cui le persone entrano ma non escono mai più (konlaenh choul min dael chenh)”. Per la prima volta nella storia della Cambogia contemporanea, vittime e guardiani si confrontano e insieme raccontano dalle diverse posizioni del passato. È il film stesso, il regista nella costruzione del film, che provoca l’incontro tra i superstiti e un dialogo profondo tra prospettive contrapposte dell’orrore. Il film è uno sguardo all’interno della natura umana e della sua capacità di perpetrare, resistere e perseguire il male. Attraverso il reciproco raccontarsi dei superstiti e lo “scavare” nella memoria, il film interviene e trasforma il presente. Il regista, Rithy Panh, lui stesso mandato nei campi di concentramento dei Khmer Rossi quando aveva solo 11 anni e scappato quattro anni più tardi, descrive il suo film S21, come uno sforzo per «confrontarci con la nostra storia e non lasciare questo lavoro alle generazioni future. Un giorno i nostri ragazzi avranno ancora una volta fiducia nel mondo in cui vivono e i fantasmi non tormenteranno più le loro vite». Franceschi trova «interessante leggere e tentare di interpretare la contemporaneità da un punto di vista antropologico, attraverso le ‘storie di vita’, la memoria, le biografie che ognuno di noi continua incessantemente a preservare, a difendere e a svelare» (Franceschi in Callari Galli, 2003: 87). Quale materiale visuale offre quindi un film che raccoglie memorie a confronto, e che le rende disponibili sia nella ricostruzione filmica del regista e forse anche attraverso la vi190 Maria Giulia Grassilli sione completa dei materiali inediti nel film? Che diversa conoscenza può essere raggiunta nel porre a confronto tali storie visuali con le innumerevoli biografie di superstiti contenute negli archivi della storia della Cambogia? Un simile approccio visuale è quello offerto dal film di Anne Anghion, Gacaca: living together again in Rwanda, che presenta l’esperimento di riconciliazione e giustizia dei tribunali Gacaca. I Gacaca, costruiti secondo il modello del villaggio tradizionale, rappresentano per i superstiti e familiari di vittime del genocidio, l’occasione per confrontarsi e ricostruire gli avvenimenti caso per caso. In un certo senso, il documentario cerca di essere un’etnografia del modello giudiziario, ponendo a confronto la percezione dello stesso da parte di diverse persone – membri di famiglie distrutte, gruppi di vittime di un villaggio, famiglie, accusati e detenuti, avvocati e giudici – esponendo la complessità dei casi, la possibilità di accuse o confessioni false, la vendetta o la paura di vendetta che influenzano i testimoni, l’incoerente applicazione della legge. Il processo di realizzazione del film è esso stesso uno stimolo alla riconciliazione, perché, come descrive la regista, porta a parlare e a raccontare un popolo solitamente riservato. Il film è stato presentato durante un incontro a Bologna in ambito accademico internazionale – alla John Hopkins University in collaborazione con il Dipartimento di Politica Istituzioni e Storia dell’Università di Bologna. Alla proiezione erano presenti, oltre al pubblico abituale del festival, studenti italiani ed americani e membri della comunità ruandese residente a Bologna. In particolare è stata significativa la presenza di due giovanissimi ruandesi, fratello e sorella di 14 e 15 anni, adottati da una famiglia di Bologna. Per la madre, la visione e la discussione al termine del film è stata una delle poche e preziose occasioni di vedere immagini della loro biografia, iniziare ad affrontare la memoria di avvenimenti traumatici e incontrare persone che possono aiutarli in questo percorso. Anche in questo caso, sia l’analisi del contenuto del film che dei contesti di produzione e ricezione, se approfonditi possono rivelarsi un importante contributo per affrontare il tema di Culture e Conflitto. Al film era affiancato un brevissimo cortometraggio 191 Culture e conflitto sulla cerimonia Ibuka di tre giovani registi francesi. Ibuka significa “ricordare” in Kinyarwanda. Dieci anni dopo il genocidio, i sopravvissuti sono tormentati dai ricordi e dalla paura. La tendenza dei mass media a dimenticare è contrastata da queste persone che trovano nella memoria la forza per continuare a vivere. Gli ultimi esempi si riferiscono a materiali filmici che hanno cercato di rappresentare attraverso il documentario e la finzione il tema attuale dei fondamentalismi islamici e dei limiti al rigore delle “tradizioni culturali” per il rispetto dei diritti umani, qui espressi attraverso il caso della mutilazione genitale femminile. Khamosh Pani: Silent Water di Sabiha Sumar è un film lungometraggio di finzione che descrive le vicissitudini di Ayesha, una donna di mezza età, originariamente Sikh e rimasta a vivere nel Punjab pakistano dopo la partizione dall’India, e quindi l’arrivo delle comunità musulmane. Il film è ambientato nel 1979, sotto la legge marziale del generale Ziaul-haq e alla vigilia della trasformazione del paese sotto l’imposizione delle leggi islamiche. La vita nel villaggio di Ayesha viene stravolta dall’arrivo di due predicatori islamici che trasmettono precetti fondamentalisti ad alcuni giovani, iniziando così a trasformare le abitudini quotidiane e di relazione. Il figlio di Ayesha si entusiasma per la nuova interpretazione religiosa e insieme al gruppo di musulmani confronta in modo conflittuale la presenza di pellegrini Sikh e la scoperta delle vere origini della madre. Come in Holy Cross, attraverso la finzione è possibile confrontarsi con le emozioni e le sottili e altrimenti impercettibili nuances della quotidianità e delle dinamiche sociali. Gli aneddoti della vita rappresentata nel film, per esempio le scene dal barbiere, nella moschea o durante la costruzione del muro alla scuola femminile, permettono allo spettatore di “immaginarsi” come una società possa improvvisamente ritrovarsi modificata e “fondamentalizzata” nelle sue espressioni religiose e sociali. Il film può essere analizzato per il tentativo di autorappresentazione da parte di una regista pakistana di situazioni che vengono frequentemente discusse sia in ambito pubblico che accademico, talvolta senza l’ausilio 192 Maria Giulia Grassilli di testimonianze dall’interno. Sia pur di finzione, la ricostruzione riflette una visione della realtà, che è quella mediata dalla regista, di un particolare punto di vista che, nel flusso delle immagini e delle parole, sono materiali preziosi da tenere in considerazione. Un film come questo, presentato in anteprima mondiale al Festival del cinema di Locarno, in Svizzera, dove ha vinto il Pardo d’Oro, è purtroppo una rara opportunità di “leggere” una rappresentazione “altra” su un tema fortemente discusso in Occidente. Lo stesso può dirsi del documentario The Day I Will Never Forget di Kim Longinotto, sul tema della mutilazione genitale femminile. The Day I Will Never Forget trascina lo spettatore all’interno di diverse comunità in alcuni villaggi del Kenya ed esplora le pratiche della circoncisione, insieme a questioni quali l’amore, il matrimonio, la famiglia, la tradizione e il cambiamento. Attraverso le storie di Fardhosa, una donna medico che lotta per la salute delle sue pazienti, le donne che praticano la MGF, gli uomini che la sostengono, le ragazzine che vi si sottraggono, anche attraverso il ricorso alla legge, il film ricompone la complessità del tema e presenta una critica ad affermazioni decontestualizzate. Anche qui è importante il contributo visuale che il film propone per la testimonianza diretta delle “infibulate” e della pratica, che anche se può disturbare comunque permette una visione dall’interno che può essere utile per un’analisi antropologica. Interessante poi è stato il riscontrare una ricezione diversa da parte di una audience quale quella del festival del cinema dei diritti umani, presso il Cinema Lumière, rispetto ad una proiezione privata per gli studenti e soprattutto studentesse di un seminario sul tema dei diritti umani, universalità e relativismo culturale. Sempre sul tema della MGF, l’ultimo film di Sembene Ousmane Mooladé, presentato a Cannes quest’anno dove ha vinto il premio per il miglior film nella sezione Un certain regard, è una storia di finzione della resistenza di un gruppo di bambine alla pratica, e dell’azione di alcune donne per la loro protezione contro la mobilizzazione della tradizione da parte delle donne che “tagliano” e degli uomini che cercano di mantenere il rispetto delle tradizioni, sino ad arrivare a 193 Culture e conflitto “bruciare le radio delle donne”. Il confronto dei due film provoca interessanti stimoli per lo studio e l’analisi di questa particolare manifestazione di cultura e conflitti. Concludendo, gli esempi presentati e la discussione degli orientamenti che un’antropologia del cinema potrebbe potenzialmente raggiungere, non sono altro che l’introduzione ad un tema che dovrebbe anche comprendere un’analisi della particolare ricezione dei media da parte dei membri di diverse comunità – per esempio: sulla lettura dei conflitti nei film occidentali da membri della comunità Senegalese residente in Italia (Riccio, 2001); sull’influenza della serie televisiva Ramayan sugli scontri in India nel dicembre 1992 per la moschea Babri, sito della nascita del Dio Hindu Ram (Mankehar, 2002), o ancora, gli studi di e sulla percezione della violenza nella televisione dei bambini (Guerzoni in Callari Galli, 2004). Infine, nel contesto dei contenuti, è importante una riflessione sulla “rappresentazione del dolore degli altri” (Sontag, 2003) e sui rischi di una eccessiva “spettacolarizzazione” (Boltansky, 1993). Si è voluto comunque qui cominciare a ripensare il ruolo dell’antropologia visuale e il contributo che il cinema può offrire all’antropologia. «[…] Molto di ciò che può essere osservato, molto di ciò che può essere imparato su una cultura può essere registrato con efficacia ed in modo comprensibile attraverso film, fotografie o pittura. […] Sempre più film e fotografie non sono più solo mezzi per registrare dati da parte e per un antropologo, ma costituiscono dati in sé – nella forma di televisione, cinema, arte, immagini turistiche e media indigeni (Banks & Morphy, 1997:14)». Riferimenti bibliografici Banks, M., 2001, Visual Methods in Social Research, Sage, London Banks, M. & Morphy H., (a cura), 1997, Visual Anthropology, Yale University Press, New Haven Bateson, G., 1966, An Analysis of the Nazi Film in Mead M. 194 Maria Giulia Grassilli & Metraux R. (a cura) The Study of Culture at a Distance, Berghahn, Oxford Boltanski, L., 1993, La souffrance à distance. Morale humanitaire, médias et politique, Paris, Métailié Canevacci, M., 2001, Antropologia della comunicazione visuale, Meltemi, Roma Chiozzi, P., 1993, Manuale di antropologia visuale, Unicopli, Milano Callari Galli, M., 2000, Antropologia per insegnare, Bruno Mondadori, Milano Franceschi, Z. A., 2003, Memoria culturale, costruzione identitaria in contesto Europeo ed extra-Europeo all’inizio del secolo XX in Callari Galli M. (a cura) Nomadismi Contemporanei, Guaraldi, Rimini Ginsburg, F., 2002, Screen Memories: Resignifying the Traditional in Indigenous Media in Ginsburg et al. (a cura) Media Worlds, University of California Press, Berkeley Guerzoni, G., 2004, Sparano, ma è pomodoro. Resistenze e seduzioni della violenza in TV in Callari Galli M. (a cura) La TV dei bambini, i bambini della TV, Bononia University Press, Bologna MacDougall, D., 1997, The Visual in Anthropology in Banks M. & Morphy H. (a cura) Visual Anthropology, Yale University Press, New Haven Mankehar, P., 2002, Epic Contests: Television and Religious Identity in India in Ginsburg et al. (a cura) Media Worlds, University of California Press, Berkeley Mead, M. & Métraux, R., 1966, The Study of Culture at a Distance, Berghahn, Oxford Michaels, E., 1986, The Aboriginal Invention of Television in Central Australia: 1982-1986 Riccio, B., 2001, Following the Senegalese migratory path through media representation in King R. & Wood N. (a cura), Media and Migration, Routledge, London Sontag, S., 2003, Davanti al dolore degli altri, Arnoldo Mondadori Editori, Milano Turner, T., 1992, “Defiant Images: the Kayapo Appropriation of Video” «Anthropology Today» 8, 6 195 Culture e conflitto Worth, S., Adair, J., Chalfen, R., 1997 (1972), Through Navajo Eyes, University of New Mexico Press, Albuquerque 196 Conflitti urbani: Genova 2001, un’analisi antropologica GIUSEPPE SCANDURRA Università di Milano “Bicocca” Leggendo numerosi testi, scritti da diversi studiosi della città, antropologi e pensatori appartenenti ad altre discipline, si ha la sensazione che la città contemporanea ci sia sfuggita di mano. Lo dichiarano da tempo urbanisti e architetti, innanzitutto (Bonora, 2001). Molte città americane, ma anche europee, è il caso soprattutto di numerose aree metropolitane, si sono sviluppate, almeno negli ultimi anni, in assenza di Piano regolatore, attraverso insediamenti urbani senza alcun tipo di regolamentazione (Ilardi, 1990). Che queste città siano difficili da descrivere lo dicono, oggi, anche gli antropologi e i sociologi (Cellamare, Riccio, 2001). Altri scienziati sociali, spingendosi oltre, considerano questi territori come metafore ideali per analizzare i paradossi e la complessità dei mondi contemporanei, gli spazi sempre più unificati e sempre più eterogenei del nostro pianeta (Augé, 1994). Si tratta di un accordo di pareri tale da superare ogni barriera disciplinare. Le categorie culturali e interpretative che abbiamo fino ad ora utilizzato sembrano tutto ad un tratto insufficienti se vogliamo studiare numerose aree metropolitane. Alcuni studiosi parlano di una vera e propria crisi di rappresentazione (Callari Galli, 2003). Altri, che preferiscono una scrittura e un’analisi più filosofica, non hanno paura di affermare che la città contemporanea sorvola la modernità, ci costringe a riflettere circa una riorganizzazione del tempo e dello spazio (Harvey, 1990; Pandolfi, 1997). Ma di cosa si sta parlando in realtà? Di quale tipo di crisi di rappresentazione? Tra i più attenti lettori di questi testi accademici ci sono gli analisti della politica. Agganciandosi a questo filone di 197 Culture e conflitto pensiero della crisi, alcuni di loro evidenziano come nei contemporanei processi di globalizzazione stiano venendo meno le forme tradizionali della politica (Tronti, 1998). Altri deprecano la crisi degli Stati nazionali, visti spesso come ultimo baluardo a garanzia dei diritti di cittadinanza (Hardt, Negri, 2001). Tuttavia, il politico non sembra essere uscito pienamente di scena. Diverse metropoli occidentali sono diventate il terreno ideale per un nuovo e radicale antagonismo politico, per fenomeni di microdelinquenza, violenza diffusa, terrorismo, resistenza armata (Nancy, 1999). Ma possiamo definire politici i nuovi scenari urbani nei quali viene rappresentato il conflitto? Se queste città sorvolano lo Stato, i confini della modernità, la Nazione, perché quest’ultimi sono ridivenuti concetti, spazi e tempi per cui si lotta, si combatte, si uccide, per cui nascono conflitti urbani simili alle vecchie guerre di territorializzazione? (Kaldor, 1999). Ci sono intellettuali che vedono questa crisi di rappresentazione con chiarezza e sguardo lucido. Appare loro necessario costruire immediatamente nuove mappe urbane, nuovi punti di riferimento. Ipotizzare una cartografia cognitiva che permetta al soggetto urbano una nuova e accresciuta consapevolezza della sua posizione nel sistema globale. Un telaio di reti, di mappe, di carte territoriali che sappiano leggere le crisi di senso, i buchi neri prodotti dal tessuto sociale delle metropoli occidentali, per orientare interventi che riducano il disordine metropolitano a un progetto architettonico o istituzionale alternativo a quello tradizionale (Jameson, 1989). Ma le nuove geografie urbane rimangono difficili da rappresentare, richiedono una cartografia complessa. Costringono gli studiosi ad abbandonare il punto di vista unico, dominante, nel quale si colloca spesso l’osservatore. Costringono a prendere in considerazione la dimensione simbolica relativa a cosa significhi sentirsi appartenenti ad un territorio (Callari Galli, 2004). O almeno, le forme in cui i soggetti individuali, i cittadini, producono e riproducono questa appartenenza, elaborandola attraverso esperienze e pratiche quotidiane (De Certeau, 2000; Bourdieu, 1992). Le nuove geografie urbane risultano sempre 198 Giuseppe Scandurra più implosive, mentre è impossibile ignorare come il dialogo tra locale e globale, se esaminato attraverso uno spazio urbano, sia spesso generatore di conflitto (Appadurai, 1996). Alla luce del tema Culture e conflitto, al centro del Convegno di Courmayer, sganciandomi per un attimo da questo filone di pensiero della crisi, vorrei concentrare il mio sguardo su un caso specifico di conflitto urbano, proponendone un’analisi antropologica. Il mio obiettivo è quello di rispondere alle questioni che emergono dall’intervento di Giovanna Grignaffini che, nella sua relazione, ha parlato di media come operatori di discorsività e, allo stesso tempo, come operatori influenzati dal discorso sociale. Genova, 19-20-21 luglio 2001 Nelle giornate del 19, 20 e 21 luglio, a Genova, si è svolto il G8. I Capi di Stato e di Governo delle otto principali democrazie industrializzate, ed i rappresentanti dell’Unione Europea, si sono dati appuntamento nella città ligure per il primo vertice del nuovo millennio. I leader di questi Paesi occidentali, nell’occasione, hanno discusso i problemi più pressanti dell’agenda internazionale. Tra i temi in questione l’ambiente, l’occupazione, la lotta alla criminalità, alla droga, l’inclusione dei Paesi più poveri nell’economia globale. Per contrastare e impedire il meeting dei grandi otto del pianeta è stata indetta, in quei giorni, una enorme manifestazione organizzata da un movimento che ha preso il nome di Genova Social Forum. Ne parlo come di un caso di conflitto perché è evidente che nelle piazze genovesi è avvenuta, per tutti e tre i giorni della manifestazione politica, una battaglia. Il G8, infatti, si è svolto in un palazzo del centro storico di Genova. Palazzo che è stato isolato con una recinzione per impedire ai manifestanti di organizzare cortei di piazza. Ma, già mesi prima dei cortei, i contestatori avevano da tempo avvertito le autorità politiche e governative che avrebbero fatto di tutto per valicare la recinzione e attraversare la zona rossa, lo spazio 199 Culture e conflitto racchiuso dalle reti di metallo. Alla fine dei tre giorni genovesi si conteranno un morto e centinaia di feriti. Moltissimi saranno gli arrestati tra i manifestanti e decine di poliziotti verranno messi sotto inchiesta. La scelta di Genova come luogo del G8 non è stata, a mio parere, casuale. La città rappresenta da tempo, nell’immaginario occidentale, il luogo di spettacoli politici di massa. Nonostante si potessero prevedere i rischi a cui si andava incontro nel far svolgere nel capoluogo ligure una riunione internazionale di questo tipo, lo spazio urbano rappresenta, oggi, il terreno mediaticamente più idoneo per teatralizzare uno scontro, un evento1. Eppure la battaglia genovese, oggi, sembra aver lasciato più di un segno, più di un morto e di centinaia di feriti. Ovvero il sospetto che tutto l’evento non sia avvenuto nella realtà, ma nel mondo delle rappresentazioni mediatiche2. I mezzi di comunicazione di massa, inoltre, hanno cominciato ad interessarsi dell’evento già molti mesi prima di luglio. Hanno fatto sopralluoghi nel capoluogo ligure per decidere dove posizionare le telecamere, da quale angolo riprendere l’evento conflittuale, dove far dormire i giornalisti e i fotografi che avrebbero operato nei giorni della manifestazione e dei cortei di piazza. Ma il dato nuovo emerso a Genova è stata la presenza di un’altra informazione, di altro genere, una contro-informazione. Anche quest’ultima ha cominciato a muoversi mesi prima. Ha scelto la propria centrale operativa, creato un Media Center3. Ha fornito di telecamere i manifestanti, costruito dei canali web per far arrivare le immagini agli utenti della rete. Immagini che, in seguito, i manifestanti avrebbero usato per dimostrare la violenza delle forze dell’ordine che impedivano ai contestatori di occupare, in quei tre giorni, le piazze genovesi per urlare il loro dissenso. Il Media Center, il luogo mediatico dei manifestanti, attrezzato con computer, macchine digitali e telecamere mobili, è stato, in effetti, il centro operativo di tutto il Genova Social Forum. Così, il produrre notizie e gestire informazioni è divenuto un momento non secondario non solo per i sistemi di comuni200 Giuseppe Scandurra cazione di massa che conoscevamo, ma anche per questa nuova forza di mobilitazione politica alternativa. La sensazione che si può avere oggi di quei giorni genovesi è di una presenza televisiva di tale entità da azzerare la mole concreta delle azioni e delle intenzioni reali. Troppi riflettori hanno finito per oscurare la sequenza degli avvenimenti. Ciò che voglio è dimostrare che la proliferazione degli sguardi-obiettivi, a Genova, è spesso arrivata a superare quella soglia che distingue gli attori dagli spettatori. Un articolo pubblicato dopo il G8 riportava una notizia che mi è sembrata sconvolgente. Nella città ligure c’erano più di diecimila telecamere e migliaia di macchine fotografiche in mano a quella che proverò a chiamare una nuova figura del conflitto (Giacché, 2001). Nella città ligure c’erano migliaia di uomini e donne con telecamere digitali pronti a riprendere l’evento. Ragazzi e ragazze con telefonino e macchina fotografica, pronti a trasformare ogni brandello di realtà in efficace informazione. Non parlo di giornalisti e fotografi, ma di un nuovo tipo di informazione, prodotta e poi diffusa dagli stessi protagonisti dell’evento. Questa non assumeva gli aspetti di uno strumento politico. Era più una protesi psicologica per coloro che a Genova volevano esserci mantenendosi distanti dall’azione4. Anche per questo è possibile spiegarsi le migliaia di denunce contro la polizia, colpevole di aver picchiato moltissimi ragazzi che non protestavano in alcun modo. Molti di quest’ultimi, infatti, erano impreparati al caos e alla violenza sia dei poliziotti che dei manifestanti più estremisti. Estranei al campo di battaglia, non erano affatto consapevoli della pericolosità dell’evento. Erano partiti da altre città come telespettatori in trasferta, piuttosto che come attori o comparse degli avvenimenti. Pedinando questi nuovi attori sociali e produttori di immagini sostengo che in gioco ci sia una mutazione antropologica, forse già datata, ma che a Genova ha trovato il luogo e il modo per dimostrarsi compiuta. In gioco c’è l’emergere di una nuova figura di spettatore e di produttore di informazioni sul conflitto. 201 Culture e conflitto A distanza di tempo dall’evento ho avuto occasione di vedere vari filmati su Genova5. Da una parte l’informazione governativa, alla ricerca di video che dimostrassero la violenza dei contestatori. Dall’altra, sono in circolazione, da più di un anno, diversi libri di fotografie scattate da manifestanti e ben sei film sul G8. C’è quello dei 33 registi, curato da Citto Maselli, poi Genova per noi, uscito sui molti quotidiani, e ricco di interviste. Il film del regista Ferrario che fa vedere gli scontri di piazza. Il video di Indymedia, fonte di informazione antagonista, che, attraverso un filmato in digitale, ricostruisce alla perfezione l’omicidio di Carlo Giuliani, il manifestante morto in seguito a un colpo di pistola sparato da un poliziotto durante il secondo giorno di contestazione, in modo che ogni spettatore possa esercitare a casa il mestiere di avvocato e accusatore. Ma soprattutto ci sono migliaia di filmati amatoriali, realizzati dai ragazzi-spettatori dell’evento. Questi ultimi materiali, forse, rappresentano meglio di tutti quello che è successo a Genova in quei giorni. Sono freddi, forse casuali, comunque i più realistici, se li consideriamo con i parametri ideologici della nostra informazione di massa. Di questi materiali non si dice come sono stati realizzati, né l’intenzione, né le premesse. Sono violenti come le giornate che hanno ripreso6. Rappresentazioni del disordine: il ruolo svolto dai media contemporanei Innanzitutto, mi sembra necessario analizzare più approfonditamente il ruolo dei mass media in questi tre giorni di conflitto urbano. Il mutamento di quest’ultimi, soprattutto a Genova, non ha riguardato solo la natura dell’informazione, ma anche le modalità di acquisizione, conservazione, fruizione dell’informazione. L’informazione sul conflitto/manifestazione genovese ha segnato il trionfo di un’informazione elettronica. Un’informazione con notazioni di estraneità, asettica, impersonale, come se il suo compito fosse di 202 Giuseppe Scandurra non dover in nessun modo consentire l’identificazione del soggetto/entità che l’ha generata. Come ho già detto, resta forte l’impressione che, già molti mesi prima dell’evento, questo conflitto urbano venisse preparato come uno scontro mediatico. Ciò voleva dire trovarsi a che fare con una mole enorme di informazioni, e con l’esigenza di una proporzionale capacità di conservazione/memorizzazione. Filmare il conflitto doveva significare offrire in rete, e su video, immagini in simultanea degli scontri. E in questo senso gli elaboratori elettronici hanno saputo offrire la soluzione più efficace, tanto per l’acquisizione e la conservazione, quanto per la trasmissione e i tempi di messa in onda. L’informazione è migrata su supporti capaci di contenere sulla superficie di pochi centimetri quadrati di disco miliardi di caratteri, pari a centinaia di immagini fotografiche, filmati, e ore di suoni. Il supporto informatico ha ridotto gli spazi e ha eliminato gli elementi di riconoscimento della fonte di informazione. Molte testate giornalistiche hanno parlato di Genova, e parlano delle nostre metropoli, come luoghi del disordine. Il sociologo e antropologo Georges Balandier, contro la tendenza a designare le società non occidentali come statiche, tradizionali, fuori dalla storia, attraverso la lettura delle categorie interconnesse di ordine/disordine, evidenzia le contraddizioni, le tensioni inerenti ad ogni società. Se leggiamo la categoria interpretativa del disordine come insieme che comprende i fenomeni di violenza collettiva, conflitto, guerra, disagio sociale, quest’ultima dovrà essere letta alla luce del dinamismo endogeno che caratterizza ogni cultura (Balandier, 1988). Per Balandier, nelle società tradizionali, il disordine, in molti casi, non è stato una concatenazione di processi destabilizzanti che conduce a cambiamenti irreversibili, ma un movimento, un gioco di forze che gli attori sociali hanno dovuto padroneggiare al fine di svuotarlo della sua carica negativa e di metterlo al servizio dell’ordine (Balandier, 1988). Diversi miti delle origini, per esempio, esprimono un ordine primordiale scaturito dal caos. Questi riti, per Balan203 Culture e conflitto dier, nelle società tradizionali, lavorano per l’ordine, nel senso che si adoperano per scoprire i luoghi occulti ove si annida il disordine, e lo mostrano in azione sotto le maschera della stregoneria (Balandier, 1991). Il sociologo ci offre, nelle sue ricerche, numerosi esempi in cui il disordine è stato tramutato in ordine per effetto dell’immaginario e del simbolico. Il potere analizzato in queste società appare come una macchina che ha la capacità di trattare quest’ultimo al fine di convertirlo in energia positiva. Alcune società tradizionali, per Balandier, hanno fatto uso di una cartografia dell’ordine e del disordine, di cui hanno seguito luoghi e percorsi. L’operazione rituale, simbolica e sacrificale, per esempio, fu il mezzo usato per allontanare e controllare il disordine prima che fossero fondate le istituzioni che avrebbero definito i diritti, fondato e legittimato i poteri. Il sacrificio primitivo, quello umano, è una violenza, ma per il sociologo è stata spesso esercitata e giustificata come fosse al di fuori della responsabilità degli uomini. La vittima espiatoria porta su di sé il carico dei mali collettivi che cancella con il sacrificio della propria vita. E con questo gesto il gruppo rinsalda la sua unità (Balandier, 1988). Nella battaglia del G8 potremmo ben evidenziare gli elementi che differenziano il modo di leggere il rapporto ordine/disordine tra società tradizionali e le nostre società europee contemporanee, sempre più urbanizzate. La manifestazione ligure, per quello che è successo nei tre giorni di fine luglio, dimostra che peculiare della società contemporanea è il fatto che permanenti sono le situazioni potenzialmente generatrici di violenza. Come peculiare è la sua spettacolarizzazione, dunque la sua maggiore visibilità, che è proprio ciò che la fa apparire così diffusa, temibile, contagiosa. Chi ha vissuto Genova in quei tre giorni aveva una consapevolezza del disordine esasperata. Le immagini di Davos, di Praga, di Nizza, di Goteborg, di altri scontri di piazza avvenuti precedentemente rimbalzavano e facevano da introduzione, da immaginario collettivo per tutti quelli che si apprestavano a manifestare7. Oggi la violenza e i fenomeni di conflitto collettivo che 204 Giuseppe Scandurra si scatenano nelle nostre città europee vengono associati principalmente al terrorismo, autentico laboratorio della paura. Il sistema terroristico, nelle sue forme attuali, anche quelle genovesi8, non può essere scisso dall’era della informazione, delle comunicazioni, delle reti mediatiche. Esso agisce in un mondo in cui tutte le società sono comunicanti, in cui la circolazione delle persone è attiva quanto quella delle informazioni. Il terrorismo è un fenomeno di comunicazione. Utilizza la violenza come canale attraverso cui trasmettere messaggi, e la sorpresa come mezzo per forzare l’attenzione pubblica. Si serve dei media e fa di essi un amplificatore. Per conquistare l’esistenza politica deve darsi un’esistenza mediatica, tramite la drammatizzazione della violenza. I suoi protagonisti sono, in questo senso, tecnici del disordine, ma anche, seguendo l’interpretazione di Balandier, registi del disordine. La logica terroristica contribuisce alla rinascita dell’arcaico. Ricrea la scena sacrificale ma il suo significato è invertito. Esso non contribuisce più al domesticamento della violenza, ma al contrario ne evidenzia il ritorno allo stato selvaggio. Analisi delle immagini Possiamo provare a leggere la storia dell’uomo nei termini di un aumento delle informazioni assimilabili simultaneamente. Le grandi tappe di questa storia sono l’alfabeto sillabico, la stampa, il telefono, la televisione e la rete Internet. Tutti questi media hanno incrementato la comunicazione simultanea, provocando una crescita d’importanza del presente (Callari Galli, 2004). Oggi, con le nuove tecnologie, il presente ha perduto definitivamente il suo statuto di esperienza limite tra la storicizzazione del vissuto e la potenzialità del futuro. Per l’antropologo Marc Augé, il mondo contemporaneo, a causa delle sue trasformazioni, richiama lo sguardo antropologico a una riflessione metodica sulle categorie dell’alterità (Augé, 1994). La prima trasformazione riguar205 Culture e conflitto da il tempo, o almeno, la percezione che ne hanno i cittadini delle società occidentali contemporanee. Per l’antropologo la contemporaneità è caratterizzata della fine delle grandi narrazioni, ovvero i sistemi di interpretazione che pretendevano di rendere conto dell’evoluzione dell’umanità in quanto insieme. Per Augé, la storia accelera, e abbiamo appena il tempo di invecchiare un po’ che già il nostro passato diventa Storia, già la nostra storia individuale appartiene alla Storia (Augé, 1994). La seconda trasformazione tipica del mondo contemporaneo riguarda lo spazio. Da una parte il pianeta si restringe, i mezzi di trasporto, infatti, sono sempre più rapidi e pongono le metropoli a qualche ora di distanza l’una dall’altra. Dall’altra parte, le antenne, i satelliti posti anche sui tetti del più lontano dei villaggi, ci danno una visione istantanea di avvenimenti in atto all’altro capo del pianeta (Augé, 1994)9. Ovviamente, l’allargamento del perimetro del presente produce uno spettro di informazioni molto denso, tutte contenute tra gli estremi di vero e falso. Il proliferare dei canali di registrazione e produzione di notizie provoca un eccesso di versioni, tali da rendere indicibile il sistema, in grado d’impedire l’assegnazione di un criterio di verità. Se pensiamo all’omicidio di Carlo Giuliani, e alle migliaia di immagini prodotte a Genova relative alla morte del ragazzo, è possibile verificare come fra informazioni ravvicinate relative a un unico avvenimento non sia più possibile stabilire una successione temporale precisa. Ho visto, di recente, il film realizzato da Indymedia sugli scontri di Genova. Da spettatore, ancor prima di osservatore e partecipante agli scontri di piazza avvenuti nel capoluogo ligure, ho notato immediatamente un effetto ipnotico. Queste immagini, per la maggior parte dei casi, sono immagini warholiane. Come le opere di Warhol si possono moltiplicare all’infinito, ma non si possono approfondire nei dettagli. Non vi è infatti, in esse, nessuna differenza tra i dettagli e l’insieme. Se penso alla guerriglia urbana nei giorni del G8, se analizzo con lucidità quelle immagini di guerra, mi accorgo che ciò che avrebbe dovuto rientrare in un’op206 Giuseppe Scandurra posizione definita perde il suo significato per un’indistinzione con il suo contrario10. Alcuni filmati su Genova sono stati presentati a diversi festival internazionali del cinema. Il cinema è un sistema che, a tutti gli effetti, tende a integrare lo spettatore nel film, un sistema che tende a integrare il flusso del film nel flusso psichico dello spettatore. Le immagini del cinema si fondano su questo doppio processo di integrazione. La distanza fra spettatore e schermo da un lato, e la finitezza dello schermo dall’altro, sono gli elementi indispensabili per il suo funzionamento. Lo spettatore nutre, ogni volta, il desiderio di rompere il quadro. Ma questa aspirazione è connaturata alla rappresentazione cinematografica, costituisce la messa in scena della lacerazione e insieme la tendenza alla ricomposizione. Grignaffini, nel suo intervento, si sofferma sul passaggio dalla rappresentazione alla simulazione, un passaggio che, ovviamente, più che i contenuti e le figure, riguarda i modi della rappresentazione, o meglio, del processo di coinvolgimento con l’interlocutore e con lo spettatore. Seguendo questo ragionamento, non è cosa priva di senso affermare che i filmati su Genova radicalizzano e portano a compimento il sogno più ambito del cinema e del suo spettatore. La rottura del quadro, la dissoluzione della cornice che ho indicato come elemento indispensabile del cinema. La distanza tra l’occhio che vede e l’oggetto che viene visto, sulla quale si è fondata l’esperienza moderna, nell’esperienza digitale, nell’esperienza dei diecimila uomini protesi presenti a Genova, si riduce sempre più. La rottura dello schermo operata dalle nuove tecnologie utilizzate per l’infoproduzione contemporanea, vista in questo contesto, significa la fine dei tradizionali codici della rappresentazione, e il loro superamento. Ha ragione Grignaffini, in questo senso, a parlare di simulazione, visto che il cambiamento che ci troviamo ad affrontare è legato proprio ai modi di produzione della rappresentazione. La rottura a cui faccio riferimento, in effetti, riguarda proprio il processo di coinvolgimento con l’interlocutore e lo 207 Culture e conflitto spettatore, più che i contenuti e le figure, e rimanda alla fine della separazione tra rappresentazione e vita. Oggi, e non è casuale, i filmati di Genova non vengono proiettai più solamente nei festival sui diritti umani e nelle mostre di cinema internazionale. Costituiscono i materiali più usati dai magistrati che indagano sul conflitto di Genova per denunciare quell’agente di polizia o quel manifestante violento. Si tratta di processi giudiziari iniziati dopo Genova, che sembrano non avere più fine. Se gli avvocati che difendono i ragazzi che hanno preso parte ai cortei contro il G8 usano un video per mostrare la violenza agìta dalle forze d’ordine, in un altro filmato mostrato dai legali della polizia, relativo allo stesso arco spazio-temporale, si evidenzia come alcuni manifestanti abbiano in più di un’occasione caricato e provocato gli agenti. La stessa aula processuale si è trasformata, nel tempo, in un cinema, con tanto di sedie e di discussione post-proiezione. Note: 1 Nei mesi precedenti al G8, sia i manifestanti che sarebbero saliti in massa a Genova per protestare, sia il Governo italiano, o almeno diversi deputati della maggioranza di centro-destra, espressero seri dubbi sulla scelta di questa città come teatro della manifestazione politica. Le preoccupazioni nascevano dal fatto che numerose strade della città sono molto strette, e la struttura urbanistica di Genova non era di certo ideale nel caso fossero avvenuti degli scontri. Infatti, la tortuosità delle strade genovesi e la caoticità architettonica attorno alla zona portuale avrebbero favorito il radicalizzarsi del caos, e impedito ai servizi d’ordine di intervenire al meglio. La possibilità di conflitti tra manifestanti e forze della polizia diventava, inoltre, sempre più reale, visto il clima di tensione che si era venuto a creare poche settimane prima del G8. 2 Con questo non voglio certo affermare che a Genova, durante i tre giorni del G8, non ci siano stati scontri reali, e, soprattutto, un luogo e un terreno fisico di conflitto. Mi pare evidente, però, che gli scontri materiali, corporei, abbiano viaggiato insieme, in parallelo, a quelli mediatici. Le voci, le urla di chi manifestava, sembravano, durante quei tre giorni, spesso annullate da un ronzio mediatico di sottofondo. 3 La piantina che il Genova Social Forum dava a tutti i manifestanti che 208 Giuseppe Scandurra arrivavano in città indicava loro le piazze e i luoghi dove era possibile riunirsi, insieme a quelli per il pernottamento, come lo stadio Carlini. Quasi tutti questi spazi urbani erano contrassegnati da postazioni video e centri di raccolta del materiale audio-visivo. Nello stesso stadio Carlini, attraverso un televisore posto al centro di un enorme tenda, i dimostranti potevano vedere, in serata, le immagini degli scontri a cui avevano partecipato durante la mattinata e il pomeriggio. 4 Sul treno che portava a Genova da Roma, i giorni 18 e il 19 luglio, un intero vagone era occupato da ragazzi e ragazze non appartenenti a nessuna organizzazione politica, a nessun movimento sociale, desiderosi di partecipare all’evento allo scopo principale di riprenderlo con le telecamere. 5 Il video Genova per noi è uscito in edicola poche settimane dopo i giorni del G8, con i quotidiani «L’Unità», «Il Manifesto», «Liberazione» e il settimanale «Carta». Nasce come costola del film collettivo del gruppo di registi capitanato da Citto Maselli, Un mondo diverso è possibile. Genova per noi, un altro video è firmato da Paolo Pietrangeli, Roberto Giannarelli, Wilma Labate e Francesco Martinotti. Benché non contenga immagini inedite, invece, il terzo film sul G8, di Davide Ferrario, ha scandalizzato fin da subito gli spettatori, tra i quali diversi senatori, visto che il film è stato proiettato al Senato di Roma pochi mesi dopo luglio 2001. Nel video è mostrata l’aggressione della polizia al corteo dei dimostranti in via Tolemaide. Indymedia, centro di produzione e diffusione video legato al Social Forum, ha realizzato un quarto film che ricostruisce la morte del ragazzo Carlo Giuliani. Quinta opera, Bella ciao, il film di Marco Giusti su Genova che i canali Rai si sono rifiutati di mandare in onda. L’ultimo film antologico su Genova, presentato a Roma nel 2002, è stato curato dell’Archivio audiovisivo del Movimento Operaio e Democratico. Si chiama Sequenze sul G8, ed è il risultato di una dolorosa selezione di 36 ore di documentazione, raccolta dai filmakers Giorgio Bergami, Enrico Ludovici e Vincenzo Mancuso. L’Archivio l’ha presentato come un nuovo modo di fare documentazione che privilegia sequenze e inquadrature lunghe, cercando di cogliere il più possibile il significato degli avvenimenti. 6 Buona parte di questo materiale video è stato proiettato in diversi centri sociali di Roma e di altre città italiane. Molto spesso si tratta di filmati senza sottotitoli, mostrati senza alcuna presentazione. Gli stessi autori non comparivano nei video, vista l’assenza di titoli di testa. 7 Nel gennaio 2000 a Davos, in Svizzera, viene organizzato il Forum Mondiale dell’Economia. Numerosi sono gli scontri in piazza tra le forze dell’ordine e i manifestanti, che provenivano da diversi stati europei e nordamericani. I media parleranno del popolo di Seattle, dei ragazzi e delle ragazze che si spostano da città in città, seguendo i vertici internazionali, per manifestare e organizzare cortei antagonisti. A settembre del 2000, a Praga, viene organizzato il summit del Fondo Monetario Internazionale. Sulle strade della città si affronteranno, per più ore, la polizia ceca e i dimostranti. Un mese dopo, a Nizza, viene fissato un vertice per ridisegnare i 209 Culture e conflitto confini e gli accordi politici dell’Europa. Ci saranno, fin da subito, scontri e feriti. Due mesi prima di Genova, a Goteborg, in Svezia, si apre il vertice dell’Unione Europea. Gli incidenti degenereranno al punto che la polizia impiegherà anche armi da fuoco. 8 Molti quotidiani nazionali, ma non solo, hanno parlato della presenza a Genova di un movimento terroristico, violento, non pacifista, responsabile di numerosi atti vandalici e della distruzione di diverse banche e attività commerciali genovesi. Questo movimento è stato chiamato dalla stampa Black Blok. Gli uomini e le donne che ne hanno fanno parte, infatti, si sono vestiti interamente di nero durante le azioni dimostrative, e hanno formato dei blocchi per difendersi dalle cariche della polizia ed esercitare le azioni di violenza e disobbedienza civile. 9 Questa doppia accelerazione tipica del mondo e dei mondi contemporanei, per Augé, l’accellerazione del tempo e dello spazio, caratterizza la nostra epoca come epoca della surmodernità, offrendo agli antropologi un ottimo terreno di osservazione e un nuovo oggetto, in termini di ricerca. 10 Faccio riferimento all’opposizione, durante gli scontri di piazza, tra dimostranti e forze dell’ordine. Molto spesso, analizzando le immagini dei conflitti in piazza, è difficile riconoscere i soggetti in azione, e distinguerli. Riferimenti bibliografici Appadurai, A., 2001, Modernità in polvere, Meltemi, Roma Augé, M., 1997, Storie del presente. Per un’antropologia dei mondi contemporanei, Il Saggiatore, Milano Balandier, G., 1991, Il disordine. Elogio del movimento, Dedalo, Bari Bonora, P. (a cura), 2001, Comcities, Baskerville, Bologna Bourdieu, P., 1992, Risposte. Per un’antropologia riflessiva, Bollati Boringhieri, Torino Callari Galli, M., 2003, Le città plurali. Riflessioni antropologiche sulle ambiguità metropolitane in De Bonis (a cura) La nuova cultura della città, Accademia Nazionale dei Lincei, Roma Callari Galli, M., 2004, La contaminazione degli spazi urbani, in Callari Galli, M., Londei, D. (a cura), Il meticciato culturale, Clueb, Bologna Callari Galli, M. (a cura), 2004, La TV dei bambini, i bambini della TV. Etnografia dell’esperienza televisiva infantile, 210 Giuseppe Scandurra Bonomia University Press, Bologna Cellamare, C., Riccio, B., 2001, “A Journey through the Plurality of the Contemporary City”, «Plurimondi», 5 De Certaeau, M., 2001, L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma Giacchè, P., 2001, “Qualcosa è accaduto”, «Lo Straniero», 17, 5 Harvey, D., 1993, La crisi della modernità. Riflessioni sulle origini del presente, Il Saggiatore, Milano Ilardi, M., 1990, La città senza luoghi, Costa & Nolan, Genova Jameson, F., 1989, Il postmoderno o la logica culturale del tardo capitalismo, Garzanti, Milano Kaldor, M., 1999, Le nuove guerre: la violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Roma Nancy, J., La città lontana: con una conversazione per l’edilizia italiana, Ombre Corte, Verona Negri, T., Hardt, M., 2001, Impero: il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano Pandolfi, M., 1997, Perché il corpo, Meltemi, Roma Tronti, M., 1998, La politica al tramonto, Einaudi, Roma 211 Il terrorismo è un virus MARCO BINOTTO* Università di Roma “La Sapienza” Il terrorismo è un fenomeno virale. Ma questo appare ormai chiaro a molti. Appare chiaro come il suo svilupparsi, le sue modalità d’azione e persino le sue finalità assomiglino a quelle del piccolo organismo contagioso che ossessiona il nostro immaginario. Quello che non sempre si affronta è un altro parallelismo: (anche) i media sono un fenomeno virale. Questa constatazione ci suggerisce, o conferma, due conclusioni. La prima rimanda alle dimensioni del potere moderno, la seconda all’utilizzo dei mezzi di comunicazione, o in maniera più estesa al ruolo che giocano nei conflitti contemporanei. Ma procediamo con ordine. L’Impero La fama del libro di Toni Negri e Michael Hart (2000) ci offre un vantaggio. La fama del (concetto di) Impero, ci solleva dalla necessità di trovare una complessa struttura di spiegazione per molti degli effetti messi in scena dalla guerra del e al terrorismo. La metafora dell’Impero funziona. Inoltre ci procura un efficace sparring partner retorico. La potenza dei virus si propaga con maggiore efficacia in * È consentita la riproduzione, parziale o totale, di questo articolo e la sua diffusione in via telematica purché non sia a scopo commerciale e a condizione che sia riportata la fonte e l’autore. 213 Culture e conflitto uno spazio chiuso, uno spazio delimitato ma soprattutto omogeneo. La potenza dei virus-terroristi ha infatti e con evidenza a che fare con la globalizzazione. Le tecniche virali della guerriglia infatti sono le uniche disponibili in uno spazio ormai occupato totalmente dall’avversario. Se il territorio è ostile, non vi è nessuna possibilità di costruire alternative, nessuna possibilità di fuga. O meglio, se non si ha il controllo del territorio non è possibile mettere in atto delle strategie – così come le intende de Certeau (2001) – ma solo tattiche. E la guerriglia è infatti la strategia di chi non ha strategia, di chi può confrontarsi con “il potere” solo localmente. Come i virus, utilizza il “materiale cellulare” del nemico per alimentarsi, per combatterlo. Utilizza la forza dell’avversario rivolgendogliela contro1. Il virus è l’arma del debole, del minore, dell’alieno. In qualche modo è lo stesso svilupparsi di un unico ordine mondiale a costringere ogni antagonismo ad evolvere come meccanismo virale, come guerriglia, come resistenza e infine come terrorismo. Come ci ricorda da tempo Jean Baudrillard – rinvigorito, è vero, ora, dalla forza dell’esempio fornito dall’attacco alle Twin Towers: «Quando la situazione è così monopolizzata dalla potenza mondiale, quando si ha di fronte questa formidabile condensazione di tutte le funzioni a opera del macchinario tecnocratico del pensiero unico quale altra via rimane se non un transfert terroristico di situazione?» (Baudrillard 2002: 13) Da questo punto di vista il terrorismo si configura come una “semplice” arma tattica, “al di là dell’ideologia e del politico” (Baudrillard 2002: 14), si tratta “solo” di una reazione, pare l’unica possibile, alla definitiva vittoria di un sistema dominante, di ogni ordine mondiale egemonico, qualsiasi sia, perché – come Baudrillard ribadisce da tempo – «è il mondo stesso che resiste alla mondializzazione»2, che resiste alla possibilità di essere globalizzato. Sia chiaro, questo giudizio non riguarda l’intenzione 214 Marco Binotto politica del terrorismo di Al Qaeda. Riguarda il terrorismo come fenomeno globale, come arma, come “reversibilità degli effetti”. Ovvero valutando il virus dal punto di vista distante della totalità, della sua “funzione” sistemica, quella appunto utilizzata sarcasticamente dal sociologo francese. Il terrorismo, proprio come le malattie e le catastrofi, agirebbe come reazione a qualsiasi dominio “unilaterale”, la conseguenza inattesa di ogni sistema giunto al limite della definitiva pacificazione, della disinfezione totale, della “fine della storia”3. Ma occorre – eticamente – completare questa spiegazione. In questo caso il riferimento è a Slavoj ZiZek; secondo lo studioso sloveno, questo terrorismo non è affatto fondamentalista, questo terrorismo non è affatto una “resistenza” alla mondializzazione, ma una sua parte, un suo “eccesso”: «Il dato di fatto è piuttosto che le due parti non sono veramente in opposizione. […] I fondamentalisti mussulmani non sono veri fondamentalisti, sono già dei “modernisti”, un prodotto e un fenomeno del moderno capitalismo globale». (Zizek 2002: 52-57) Ma in questo modo si corre il rischio opposto: ovvero utilizzare il ragionamento tipico dei movimenti anti-imperialisti per i quali dietro ad ogni conflitto si celerebbe in verità un conflitto “interimperialista”, un conflitto tra imperialismi. Per evitarlo, credo sia necessario aggiungere alcune precisazioni. L’inafferrabile potere imperiale La fama (del libro) di Negri e Hart ha fornito – e ne abbiamo avuto una recente dimostrazione con l’uso teorico che ne ha fatto Luca Casarini prima del G8 di Genova – un eccellente nome per il nemico4. Da tempo, soprattutto i “soliti” intellettuali francesi, avevano infatti “decostruito” il potere; avevano fornito una versione/visione decentrata dei mecca215 Culture e conflitto nismi (post)moderni del comando e del controllo. La globalizzazione dei poteri nazionali completava questo problema di diffusione e intangibilità del potere avviata come minimo negli anni Settanta. Il potere appariva allora come qualcosa di inconsistente ma onnisciente, diffuso ma inafferrabile, assente ma efficace. Quasi un virus 5. “Impero” è il nome con cui Negri e Hart etichettano questa intangibilità: ne mantiene teoricamente intatta la configurazione sul territorio e l’analisi della sua microfisica, costruendo però simbolicamente un avatar, una figura allegorica da usare come feticcio. Il concetto di Impero infatti non evoca un potere costituito su di un territorio circoscritto strutturato in centri e confini, rimanda semplicemente ad alcuni meccanismi di funzionamento, a regole di gestione del conflitto 6. Infatti a parte la sua centralizzazione simbolica nelle capitali nord americane e nella sua erronea sovrapposizione con il subimpero statunitense, la vera essenza dell’Impero è di costituire un unico territorio omogeneo privo di esterno. Un territorio in cui non esistono, ancora e più, i leniniani conflitti tra imperialismi: o meglio, dove questi forse continuano ad esistere, ma che risulta improprio continuare ad etichettare in questo modo, almeno all’interno della metafora imperiale. Esistono conflitti tra agglomerati economici o militari costituenti l’Impero, oppure conflitti tra poteri e contropoteri, tra poteri maggiori e minori, ma non tra imperi o “civiltà” contrapposte. In qualche modo l’Impero è una metafora pop, o meglio ancor più popular o definitivamente popular, dei Mille plateaux di Deleuze e Guattari. I due intellettuali francesi infatti avevano concettualizzato già nel 1980, in maniera ancora troppo astrusa, tale potere molteplice e simil-rizomatico. Il potere del divenire-maggiore, la potenza della “macchina da guerra” capitalista: un potere che contemporaneamente deterritorializza e riterritorializza, libera e controlla. L’origine di questo paradosso è chiara e nota: l’Impero non è uno Stato. Non ha il pieno controllo del territorio né un’unica struttura organizzata, non può contare su un’unica lingua né su un pensiero effettivamente unico7. In questi termini, il “potere imperiale” non può utilizzare gli strumenti di seg216 Marco Binotto mentazione e disciplina studiati di Michel Foucault, piuttosto deve accontentarsi dei controlli in velocità così come li illustra Paul Virilio. Non può trasformare l’eterogeneità in omogeneità, si accontenta di avere una “potenza d’appropriazione” (Deleuze e Guattari 1980: 609), di costruire un unico meccanismo di traduzione e di “scambio generalizzato” (Baudrillard 2002: 14). Le opposizioni non si costituiscono allora come potenze egemoni o contropoteri, quanto piuttosto come “focolai di resistenza e contagio, […] fenomeni di ‘banda’” (Deleuze e Guattari 1980: 609). Appunto virus. Piani e panorami Appare oramai assodato – anche dagli interventi di questi tre giorni – come il funzionamento, la concretizzazione “dell’Impero” funzioni a più livelli, o meglio su più piani. Sul piano dei meccanismi economici, vale quanto detto da altri: la configurazione degli “scambi ineguali”, o meglio dei rapporti centro-periferia del sistema-mondo (Wallerstein 1974 e 1990), produce “una violenza strutturale”, generalizzata e permanente, molare ma soprattutto molecolare. Probabilmente la metafora più efficace per illustrare questo modello imperiale è ancora cinematografica, ma non è quella di Guerre Stellari, dell’Impero colpisce ancora, quanto piuttosto quella dei più recenti, e sfortunati, episodi della saga. Nella prima trilogia di George Lucas, infatti, l’Impero si materializza in un potere centrale che governa un territorio reso omogeneo dalla forza militare e dalla potenza, simbolica e tecnologica, dell’onniscente e onnipresente “lato oscuro della forza”, potere concentrato sulla figura dell’Imperatore e sull’immagine temibile di Darth Venner. Nell’Episode I – The Phantom menace e nel Episode II – The clone attack invece, il lavoro già imperiale avviene in modo più oscuro. Il futuro Imperatore manovra nell’ombra, sfruttando l’eterogeneità dei poteri che lacerano la Repubblica, una palese allegoria dell’ordine mondiale rappresentato dall’ONU e dalle sue assemblee generali (le “riunioni del 217 Culture e conflitto Senato”), dalle sue diatribe interne e dai suoi “burocrati” (le tecnocrazie transnazionali). Ebbene, il futuro imperiale fa leva su questa pluralità di poteri e forze, sulla capacità di prevedere nel futuro e nello spazio, sulla capacità di suscitare alleanze tra i piani finanziario e commerciale (“la Federazione dei mercanti”), tra le tecnologie (“la Lega tecnologica”) e di fare leva sulla cupidigia delle “bande” inter e subplanetarie (il riferimento alle imprese multinazionali, alla Banca mondiale e al WTO è anche qui singolarmente esplicito). Il suo fine ultimo non è la conservazione del fragile equilibrio repubblicano ma la guerra, l’instaurarsi di una macchina da guerra planetaria, di quel potere militare (“l’esercito dei cloni”) che permetterà il controllo/dominio del territorio8. Di nuovo è questa stessa configurazione su più piani che ci impedisce oggi di parlare di “scontro di civiltà”. Preferisco utilizzare un antropologo per spiegarmi meglio. Il riferimento più diretto, o forse più ingenuo, è alla molteplicità di piani-panorami ricostruita da Arjun Appadurai. Devo dire che inizialmente, come molti altri, sono stato deluso dalla lettura del suo lavoro. O meglio ero stupito della diffusione delle categorie immaginate dallo studioso indiano, ovvero ero sorpreso del minimo aiuto euristico che sembravano fornire in sé rispetto alla loro scarsa originalità. Questa delusione era prodotta dal porre l’attenzione sulla sostanza degli scapes piuttosto che sul loro rapporto reciproco. Infatti, a mio avviso, l’utilità di quella suddivisione non risiede nell’analisi del loro contenuto o della loro direzione – ad esempio dei movimenti di persone (ethnoscapes) o dei flussi economici (finacescapes) – quanto nel termine disgiuntivi che li raccorda. Il punto è che questi flussi e concatenamenti mondiali assumono molto raramente direzioni e tendenze simili ma, in maniera appunto disgiunta, producono effetti paradossali o semplicemente non omogenei. In fondo è tutta qui la sostanza del potere imperiale, se esiste. Risiede nella capacità di utilizzare lo scivolamento reciproco dei panorami a proprio vantaggio, cercando nel contempo di evitare che, come gli strati della neve, prendendo la stessa direzione si trasformino in una valanga distruttiva. Probabil218 Marco Binotto mente in parte è quello che stava succedendo con l’attacco dell’11 settembre, ed è quello che rischia costantemente di accadere da quel momento in poi. Da questo punto di vista possiamo confermare che il sistema-mondo non si esaurisce nei suoi rapporti economici (Latouche 1986: 52-53), e che non possiamo – anche nel rispetto degli antropologi presenti – ridurre i conflitti mondiali a quelli economici, il culturale a semplice epifenomeno della lotta per le risorse petrolifere. Semmai questi conflitti si innervano nell’architettura stessa di rapporti sociali ormai definitivamente influenzati dalle relazioni intimamente violente della concorrenza e della guerra. In questo senso, quanto riusciamo a distinguere le cause economiche da tali relazioni socio-culturali? O meglio, possiamo sovrapporre esattamente i flussi dell’ordine mondiale: il potere politico ai media, i media al (loro effetto sul) pubblico, gli interessi economici a quelli dell’immaginario collettivo? O più semplicemente: quanto e come le relazioni comunicative, i mediascapes e gli ideoscapes, incidono in questi processi? Terapie antivirali Se infatti ci allontaniamo dalle rischiose – per la mia formazione – contrade delle relazioni internazionali e di questa “sociologia della globalizzazione”, possiamo trovare efficace l’utilizzo di queste metafore nel campo della rappresentazione e del funzionamento simbolico dei conflitti (quindi anche) culturali, e sulla loro costruzione mediatica. Innanzi tutto credo che Giovanna Grignaffini abbia pienamente ragione quando intravede una sostanziale modifica delle modalità di “rappresentazione del conflitto”. Siamo infatti di fronte ad una (necessariamente) diversa concretizzazione e gestione dei nuovi conflitti interni da parte dei poteri imperiali. Come avviene per la rappresentazione simbolica del conflitto – ad esempio evidenziata dai prodotti cinematografici raccolti dalla stessa Grignaffi219 Culture e conflitto ni – esiste una rappresentazione politica di questi conflitti, ovvero sempre più spesso una loro rappresentazione e spiegazione mediatica. Senza scomodare il concetto di episteme di Foucault è ovvio come questo insieme di raffigurazioni condizioni strettamente la gestione di questi stessi conflitti, le strategie di “difesa”, le modalità di “cura”. Sappiamo infatti quanto le scelte politiche e persino tecnologiche siano influenzate da metafore, allegorie, definizioni simboliche9. Le immagini pubbliche fondano, infatti e allora, diverse strategie di guerra, diverse immagini del mondo o se volete diverse “politiche imperiali”. Roland Barthes – prima che Foucault illustrasse le strategie del potere della società disciplinare – illustrava le due retoriche possibili di elaborazione e contrasto dei “nemici della società”. In breve, queste linee argomentative facevano riferimento a due disgiunti riferimenti allegorici, due miti che rimandavano all’“iconografia dei detergenti”, per cui ancor oggi i “liquidi purificatori” eliminano ogni traccia di sporco o di ombre batteriche mentre le polveri “detersive” lo scoprono tra le maglie dei tessuti: «I clori e l’ammoniaca sono senza dubbio i delegati di una specie di fuoco fatuo totale, salutare ma cieco; le polveri al contrario sono selettive, spingono, guidano lo sporco attraverso la trama dell’oggetto, hanno una funzione di polizia, non di guerra». (Barthes, 1957: 28, corsivo mio) Esattamente questi mi paiono ancora i due discorsi emersi sulla questione “guerra al terrorismo”. Le due contrapposte spiegazioni utilizzate per descrivere la situazione e per giustificare le proprie scelte: da una parte, l’immaginario della guerra, legato ad un nemico identificato e identificabile, territorialmente distinto, dall’altra quella di un nemico diffuso e invisibile, combattuto con gli strumenti dell’indagine poliziesca e dell’intelligence. Ovviamente la prima è quella adottata dalla destra (neoconservatrice) e la seconda quella della sinistra (riformista). Entrambe illustrano la progressiva se220 Marco Binotto parazione dei paradigmi di comprensione, e forse di funzionamento, dell’ordine mondiale: l’imperialismo e l’impero10. Tipologia di difesa Guerra Polizia Tipologia del conflitto Scontri molari Conflitti molecolari Identità dell’avversario Paesi canaglia Rete terroristica Tipologia dell’avversario L’altro, il barbaro Lo straniero, l’infiltrato Tecniche di difesa Esclusione Disinfezione Metafora per l’ordine mondiale Scontro di civiltà (Imperialismo) Lotta al terrorismo (Impero) È chiaro come entrambe queste soluzioni idealtipiche prospettino un intero spettro di tecniche e metodologie di conflitto, ma soprattutto delle distinte e prevalenti immagini dell’altro. In questo caso la mia sensazione non coincide con quella ipotizzata dalla professoressa Grignaffini. Non sono infatti certo, come lei, che stia prevalendo e sia destinata a prevalere la scomparsa (della rappresentazione) dell’altro. La rappresentazione del nemico come alterità, come estraneo, rimarrà forse nel panorama delle idee (l’ideoscape) come una vera e propria rappresentazione ideologica, o meglio tornando ad utilizzare Baudrillard, come un simulacro. Ovvero si fingerà di credere in un nemico interno, si costruirà la rappresentazione iperrealistica della sua esistenza, una rappresentazione tanto verosimile da apparire vera ai suoi stessi creatori. In effetti probabilmente ancora per molto tempo non prevarrà nessuno “spirito del tempo”, quanto piuttosto una serie di immagini simulacrali utilizzate con 221 Culture e conflitto alterne fortune dalle varie lobby politiche, dai vari poteri militari o economico-finanziari, ovvero quei soliti poteri e “panorami” continuamente in conflitto nel territorio dell’impero. Come nel territorio cinematografico continuano ormai a convivere le varie forme sperimentate del duello e del conflitto, allo stesso modo continuano a confrontarsi nell’immaginario collettivo diverse rappresentazioni del nemico. Un esempio a mio avviso evidente è fornito dalla rappresentazione dei migranti e dalla gestione dei fenomeni migratori. Di volta in volta può prevalere il classico razzismo biologico invece di quello differenzialista e culturalista (Balibar 1988): dall’altro come pericoloso all’altro come diverso. Nello stesso modo, in Italia, tendono a convivere “concrete e pragmatiche” politiche di controllo alle frontiere – gestione degli ingressi e delle regolarizzazioni – con l’immaginario leghista dell’esclusione e dell’allontanamento dei “clandestini”: da Fini-Bossi a Bossi-Fini, l’ethnoscape contro l’ideoscape. Nello stesso modo – da quando lo notò Simmel – lo straniero è contemporaneamente l’alieno e il virus, l’estraneo e il noto. Di certo, l’attacco alla Torri Gemelle è stato «lo spettacolare canto del cigno del sistema della guerra del XX secolo» (Zizek 2002: 43), con nemici visibili e percepibili. Immaginiamo la difficoltà per i mezzi di informazione nel rappresentare l’alterità distruttiva della guerra batteriologica, le conseguenze-senza-causa degli attacchi biologici. Una difficoltà evidente nel rappresentare la SARS – tipica malattia imperiale – semplicemente attraverso le tecniche di difesa (la mascherina, le misure di profilassi) e i suoi mali attraverso le immagini della cura (letti e ospedali) e non quelle delle sue conseguenze (la sofferenza e la morte). In qualche modo l’incubo dell’attacco terrorista, ma anche quello della catastrofe naturale e dell’incidente, tendono ad avvicinarsi. Il rischio finora ha oscillato dalla paura collettiva e permanente che rafforza il legame sociale fino al panico che invece lo disgrega (Jeudy 1997). Grazie alla sua continua riproduzione tecnica può divenire uno sfondo funzionale al222 Marco Binotto lo sviluppo sociale, l’incognita del mondo aperto, tenuto a bada dai sistemi di sorveglianza e polizia, come nella distopia del Brazil di Terry Gillian dove il terrorismo è vissuto come possibilità permanente non più eccezionale, la semplice occasione per un potere automatico quanto inetto a ricercare capri espiatori. Dall’altra però può dare vita, com’è accaduto proprio per l’Aids prima e per la SARS ora, ad una reazione antisociale, improduttiva: in queste occasioni causata dall’atteggiamento virulento e meccanico dei mass media. In fondo, come al solito, le malattie evidenziano le anomalie, i limiti e il canone dei sistemi (di comunicazione) che ne vengono affetti. Media virali Mi spiace ammetterlo ma a questo punto sono costretto a tornare all’eterno riferimento per gli studiosi di comunicazione Marshall McLuhan, l’“antropologo dei media”. Qualcuno forse ricorderà la polemica innescata da un’intervista rilasciata dallo studioso canadese ad un quotidiano italiano poco prima del rapimento di Aldo Moro. Tra le affermazioni di McLuhan divenne oggetto di dibattito il “suggerimento” di “staccare la spina” sulle notizie provenienti dalle Br, un silenzio-stampa sulle informazioni provenienti dai terroristi, un’auto-censura che impedisse ai terroristi di “usare” la stampa e i giornalisti per i loro scopi. A mio avviso quelle provocazioni facevano emergere riflessioni ancora utili a comprendere il rapporto tra media e terrorismo, tra media e conflitto. Al giorno d’oggi notare quanto le strategie terroristiche siano intimamente connesse ai linguaggi spettacolari dei mass media e dell’industria culturale provocherebbe un minore scandalo di quanto accadde allora di fronte alle affermazioni di McLuhan, tanto che il paragone tra l’attacco alle Twin Towers e le sue prefigurazioni presenti nel cinema catastrofico hollywoodiano è divenuto piuttosto ricorrente11. D’altro canto ormai da qualche anno il lavoro storico compiuto da Armand Mattelart illustra la stretta con223 Culture e conflitto tiguità delle tecnologie, del linguaggio e della stessa origine della communication research con le evoluzioni belliche: una sospetta vicinanza tra guerra e comunicazione. Mentre i recenti mutamenti nelle tecniche del conflitto militare tendono a trasformare la strategia verticale e ipodermica dell’attacco bellico nella direzione di un utilizzo massiccio dalle nuove tecnologie di telecomunicazione impiegate per il C3, controllo-comando-comunicazione, nel campo comunicativo iniziano a prevalere il networking, i paradigmi decentrati del narrowcasting e del “marketing tribale”. Una modalità reticolare che ormai caratterizza pienamente il sistema di diffusione e creazione delle notizie. Notizie sempre più simili a rumors, dicerie che, come ormai è noto, sono contigue alle rappresentazioni stereotipe dell’altro, strettamente correlate alle mitologie e – come ci ricordava John Galaty – alle narrazioni della diversità12. All’interno di questa prospettiva le tecniche d’azione terroristica, guerrigliere e virali, appaiono non solo le più appropriate ad agire nel nuovo spazio liscio globale emergente (l’Impero), ma anche nel nuovo spazio mediale costruito interno alle reti di comunicazione elettronica. Inoltre, uno dei più celebri aforismi mcluhaniani a mio avviso non è stato in questo senso adeguatamente esplorato: il medium è il messaggio perché i media elettronici, la stampa, la radio, la Tv influenzano in maniera determinante il contenuto, ovvero il linguaggio usato dai messaggi che li attraversano. E le regole di rappresentazione di questi “media orali” prediligono i toni epici, gli scontri tra personalità e civiltà, l’enfasi del conflitto e dell’eccesso, la trivialità del gioco e dell’emotività. Ovvero. Il tono della rappresentazione televisiva, insieme alle regole di selezione e diffusione internazionale delle notizie, costruiscono la possibilità, anzi la necessità, della visibilità del moderno terrorismo. Se fosse necessario, la preparazione e i giorni del G8 di Genova hanno confermato come il tono epico dello scontro, la forza spettacolare dell’atto distruttivo, l’agonismo tra personalità e la foga dei dibattiti, costituiscono le fondamenta, la precondizione della forza mediatica della violenza13. Anche in questo senso – le cui pre224 Marco Binotto messe appaiono ormai note a tutti – tale violenza simbolica si costituisce come principale e naturale contenuto dei “media”; ovvero, i media non sono più semplice veicolo, ma essenza e causa, naturalmente e involontariamente terroristi. Mediascape imperiali C’è da dire che proprio questo livello di spiegazione, di legame tra terrorismo e comunicazione, appare da tempo “del tutto evidente” (Marletti 1984: 192). Quello che non è stato ancora del tutto indagato è come questo potenziamento mediale dell’attività politica incida nella struttura, nelle ideologie e nella stessa personalità dei suoi protagonisti. Come incida quindi nella costruzione e riproduzione dei conflitti. Da questo punto di vista credo in un influsso più profondo della presenza dei “media elettronici” sulle cause del terrorismo, di questo terrorismo. Come affermava McLuhan: «Quando si è al telefono o in trasmissione radio o televisiva realizzata “in diretta” non si ha un corpo, si è come scarnificati… La guerra dei media è una guerra di gente senza corpo. Solo informazioni, solo immagini. […] Quando non si ha corpo non si ha moralità, non si ha responsabilità»14. In quest’ottica è l’insieme delle conseguenze sulle identità e sulla coscienza collettiva prodotte dai mezzi di comunicazione a provocare questo distacco tra la presenza corporea e la relazione sociale, la percezione del sé. La virtualizzazione (Lévy 1995) dell’essere, della corporeità, prodotta dalle tecnologie mediali, se non compresa e gestita, diventa, nella preoccupazione etica di McLuhan, pericolosa15. Paradossalmente il medium è di nuovo il messaggio: le tecnologie configurano non solo le relazioni sociali, ma anche le psicologie individuali espandendo i corpi, evocando all’occasione nuovi tipi di terrorismo o attivismo politico. Il messaggio terroristico trasforma i terroristi in veri e propri mezzi di trasmissione terroristica, appunto corpi suicidi. Il terrorista vie225 Culture e conflitto ne trasformato in veicolo di comunicazione, il meccanismo medial-terroristico dell’azione spettacolare diventa possibilità di estensione del proprio corpo, del proprio spirito: l’autentica motivazione per l’atto. In sé allora ogni attività politica diventa intimamente spettacolare, un mettersi in mostra, un mostrare la propria convinzione. In questo caso il riferimento non è mediologico, ma psicanalitico, ed è Slavoj Zizek ad aggiungere un’esigenza espressiva – della comunicazione – alle possibili cause della risoluzione “fondamentalista” dei kamikaze: Anche il caso apparentemente più evidente (il famigerato “fondamentalista mussulmano” in missione suicida) non è così chiaro come appare: non è così garantito che i terroristi suicidi debbano credere veramente che, dopo la morte, si sveglieranno in paradiso con settanta vergini a loro disposizione […]. Non potremmo cioè pensare che sono terribilmente insicuri nella loro fede, e che usano l’azione suicida come mezzo per tagliare questo nodo gorghiano del dubbio, affermando la loro credenza: “Non so se credo veramente, ma se mi uccido per la Causa avrò dimostrato in actu di credere”? (Zizek 2002: 77) In questi termini forse la spiegazione mcluhaniana appare più adatta all’attuale terrorismo fondato dalla comunità linguistico-mediatica dei “popoli arabi”16, dalle tecnologie elettroniche e orali da questa utilizzate, rispetto alla ferrea costruzione guthemberghiana e burocratica dell’immaginario delle Brigate Rosse. Rare però mi sembra siano state le analisi che si sono spinte verso il tentativo di comprendere le “motivazioni”, o meglio i meccanismi psicologico-culturali all’origine del terrorismo brigatista degli anni Settanta, come ora di quello islamista. Anche in questo caso la spiegazione si accontenta della sovrastruttura fornita dal contenuto ideologico (islamico?) del terrorismo o, dall’altro lato, della struttura economica, il suo contenuto celato, indicibile. Per concludere, se serve radicalizzerò ulteriormente l’ipotesi: la comunicazione non è semplicemente una delle componenti dei moderni conflitti (culturali). La presenza 226 Marco Binotto del medium ne costituisce da una parte la causa sufficiente, dall’altra la sua intangibilità. La narrazione attuale del terrorismo, ormai superato lo shock evenemenziale prodotto dall’11 settembre, tende a diventare normale riproduzione di fatti e voci, di indiscrezioni e notizie-di-notizie, di rappresentazione della violenza in funzione mediale e quindi anche personale. Il panorama dei media può eventualmente sovrapporsi agli altri fino a coprirli, gli eventi mediali tornano ad essere semplici pseudo-eventi, eventi iperreali: quel che conta è la rappresentazione. Allora parafrasando un’ultima volta Baudrillard: se la Guerra del Golfo non è esistita, forse neanche Bin Laden è mai davvero esistito! Tornando però alla concretezza del dibattito di questi giorni e al suo necessario carattere morigerato, è stata mia intenzione aggiungere semplicemente un’ennesima variabile al groviglio di spiegazioni che caratterizzano tanto questa discussione, quanto la complessità dei fenomeni globali. Una complessità spesso paralizzante in cui probabilmente è necessario disporre anche di punti di vista eccentrici quanto unidimensionali: spiegazioni possibili per quanto stravaganti. E credo sia questo il senso dell’esarcerbare i conflitti. Note: 1 Come ci ricorda Baudrillard: in questo il terrorismo di Al Qaeda appare addirittura esemplare: «Si sono appropriati di tutte le armi della potenza dominante. Il denaro e la speculazione in borsa, le tecnologie informatiche e aeronautiche, la dimensione spettacolare e le reti mediatiche», (2002: 26). 2 Baudrillard 2002: 18 (corsivo nel testo). 3 In questi termini la critica davvero catastrofista del sociologo francese è alla possibilità di un qualsiasi sistema sociale di omogeneizzare del tutto il proprio territorio culturale. Quanto più ci si avvicina a questo obiettivo, tanto più si evidenziano paradossi e “malattie autoimmuni”, o peggio ci si espone alla possibilità di infezioni e allergie. Ovvero le malattie odierne sarebbero una reazione alla disinfezione estrema e quindi come ultima resistenza naturale alla “fine delle malattie”, alla prevenzione generalizzata 227 Culture e conflitto mentre l’attuale terrorismo spettacolare sarebbe solo la punta di un iceberg formato dalla possibilità meno ingombrante di infiltrazioni, lo spettro diffuso degli attacchi batteriologici, cfr. Baudrillard 1990 e 1992. 4 Dal punto di vista della strategia comunicativa, l’antiglobalismo, anzi “l’anti-Imperismo” disobbediente è assolutamente non assimilabile a quello di Al Qaeda. Non si tratta di un giudizio politico, ma di un’osservazione analitica. La metafora imperiale usata a suo tempo da Luca Casarini è erroneamente (anche se volutamente) messa in correlazione con il “classico” antimperialismo, con l’antiamericanismo. L’accusa (ad esempio) di Massimo Tentori costituisce infatti un’argomentazione parzialmente efficace proprio perché non si confronta a fondo con le tracce postmoderne di questo concetto di Impero. Allo stesso modo la retorica di Bin Laden non si costruisce sulla metafora di una diffusione del potere e del conflitto, anzi fin troppo modernamente si costruisce affrontando un nemico concretamente reale, identificabile simbolicamente negli USA, mentre agisce con le strategie guerrigliere più utili in un territorio ormai “conquistato” dall’Impero. 5 Credo che Deleuze e Guattari non approverebbero il mio accomunare, in maniera spregiudicata, questi due concetti: nei loro termini il virus si muove rizomaticamente, senza radice; il potere contemporaneo e “imperiale” invece possiede radice e origine: è un “albero”. 6 In questo caso il riferimento è al concetto di Mega-macchina di Serge Latouche, o a quello di “Capitale come puro spirito” di Piero Barcellona. 7 Per il semplice motivo ricordato da Enzo Scandurra: nessuna mappa – come diceva Gregory Bateson – può coprire l’intero territorio. In un testo divenuto celebre Hakim Bay raccontava come qualsiasi utopia pirata, ovvero virale, si fondasse su eventi e battaglie, ma anche su reti carbonare e covi. Ogni guerriglia edifica infatti le sue basi di appoggio provvisorie e nascoste nei meandri non raggiungibili allo sguardo: oscuri spazi dell’immenso ambito del mondo conosciuto che non possono essere ricondotte al controllo imperiale. È proprio contro queste enclave che le recenti guerre hanno costituito la propria localizzazione. In qualche modo sopprimendo le ultime “isole nella rete”, gli ultimi spazi non pienamente inseriti nella rete di controllo dell’Impero, costruendo però le condizioni delle nuove “invasioni” virali e terroriste. 8 Da questo punto di vista la trilogia “precedente” rappresenta l’illustrazione dell’unica possibilità di resistenza al potere imperiale: la resistenza clandestina dell’alleanza, la guerriglia dei cavalieri Jedi sopravvissuti, il legame affettivo che crea conflitti interni (Darth Venner che si rivolta al suo imperatore). 9 A solo titolo di esempio per l’importanza dei simboli nel linguaggio politico si veda Edelman 1976 e per l’evoluzione tecnologica Flichy 1995. 10 Queste non rappresentano ovviamente delle spiegazioni omogenee o inconciliabili, né le uniche possibili alternative rispetto, ad esempio, a quella “proposta” dal movimento dei disobbiedienti, tanto meno da quella “espressa” dal movimento pacifista. 228 Marco Binotto 11 Dal punto di vista sociologico non condivido questa visione cospiratoria e del tutto intelligente/intellegibile degli attori sociali. Come in ogni realtà complessa, e addirittura clandestina come il terrorismo, credo domini piuttosto la caoticità, la congiuntura, l’inefficienza e persino la casualità, rispetto ai dettagli sapienti di un piano perfettamente riuscito. Partendo dallo stesso presupposto decade anche l’accusa per cui i servizi segreti e lo stesso governo statunitense sia stato di fatto avvantaggiato dal complice dell’attentato dell’11 settembre. In realtà è l’irrimediabile complessità della globalizzazione (imperiale) in cui anche gli apparati di intelligence di uno stesso stato non agiscono concordemente e in modo del tutto efficiente o peggio efficace. Su questo cfr. Wu Ming 2003. 12 Il riferimento in questo caso è al lavoro di Allport e Postman, 1947, Allport, 1954 e a quello di Morin, 1969. 13 Il riferimento è qui ad un lavoro di ricerca sulla rappresentazione mediale del G8 del 2001 al quale ho partecipato, cfr. OCP 2003. 14 L’intervista del 1978 è citata da Carlo Marletti 1984. 15 Un meccanismo non lontano dall’utopia della guerra con “zero perdite”, la guerra a distanza, la guerra postmoderna dominata dalle tecnologie e dalle tecniche di comando e controllo. L’utopia-incubo della guerra contemporanea ben illustrata da film statunitensi come Toys, dove piccoli mezzi militari sono comandati a distanza da bambini tramite un videogame. 16 Una comunità ben illuminata dai rinomati canali satellitari che usando la lingua araba “parlata” (orale) possono coprire un territorio transnazionale. In proposito cfr. Della Ratta 2000. Riferimenti bibliografici Allport, G. W., e Postman, L., 1947, Psicology of rumor, Henry Holt, New York. Allport, G. W., 1954, La natura del pregiudizio, La Nuova Italia, Firenze, 1973. Balibar, E., 1988, Esiste un “neorazzismo”?, in Balibar E., Wallerstein I., Razza nazione classe. Le identità ambigue, Edizioni Associate, Roma, 1996, pp. 31-46 Barthes, R., 1957 (1994), Miti d’oggi, Einaudi, Torino Baudrillard, J., 1990, La trasparenza del male, SugarCo, Milano, 1991 Baudrillard, J., 1992 (1993), L’illusione della fine, o lo sciopero degli eventi, Anabasi, Milano Baudrillard, J., 2001 (2001), Lo spirito del terrorismo, Corti229 Culture e conflitto na, Milano de Certeau, M., 1980 (2000), L’invenzione del quotidiano, Edizioni Lavoro, Roma Cristante, S., 2003, (a cura), OCP, Violenza mediata. Il ruolo dell’informazione nel G8 di Genova, Editori Riuniti, Roma Deleuze, G. e Guattari, F., 1980 (2003), Mille piani. Capitalismo e schizofrenia, Istituto della enciclopedia italiana, ora in Cooper Castelvecchi, Roma Della Ratta, D., 2000, Media Oriente. Modelli, strategie e tecnologie nelle nuove televisioni arabe, SEAM, Roma Edelman, M., 1976, Gli usi simbolici della politica, Guida, Napoli Hardt, M., Negri, A., 2000 (2002), Impero. Il nuovo ordine della globalizzazione, Rizzoli, Milano Jeudy, H. P., 1997, Panico e catastrofe. La cultura del disastro e l’estasi del rischio, Costa &Nolan, Genova Latouche, S., 1986, I profeti sconfessati. Lo sviluppo e la deculturazione, La meridiana, Molfetta, 1995 Lévy, P., 1995 (1997), Il virtuale, Cortina, Milano Marletti C., 1985, Prima e dopo. Tematizzazione e comunicazione politica, Eri Rai-VQPT, Torino Morin E., 1969 (1979), Medioevo moderno a Orléans, Eri, Torino Wallerstein, I., 1974 (1982), Il sistema mondiale dell’economia moderna. I. L’agricoltura capitalistica e le origini dell’economia mondo europea. 1600-1750, Il Mulino, Bologna Wallerstein I., 1990, La cultura come terreno di scontro ideologico del sistema-mondo moderno in Featherstone M. (a cura), 1990 (1996), Cultura globale. Nazionalismo, globalizzazione e modernità, Seam, Roma, pp. 93-120. Wu Ming, 2003, Giap! Storie per attraversare il deserto, Einaudi, Torino Zizek, S., 2002, Benvenuti nel deserto del reale, Meltemi, Roma. 230 I DIRITTI UMANI, LA LEGISLAZIONE INTERNAZIONALE E LA SOLIDARIETÀ DI FRONTE AL CONFLITTO I diritti umani e la legislazione internazionale di fronte al conflitto* FAUSTO POCAR Università di Milano La domanda principale alla quale credo di dover cercare di rispondere è la seguente: come il diritto internazionale considera i conflitti e come reagisce ad essi, siano essi conflitti esterni o interni agli Stati? Va ricordato a questo proposito che, se il diritto internazionale regola i rapporti fra gli Stati, in primo luogo per quanto riguarda i loro comportamenti esterni, nei più recenti sviluppi esso ha sempre più frequentemente ad oggetto comportamenti interni a ciascuno Stato. Si è cioè verificata una internazionalizzazione di situazioni interne allo Stato, nel senso di attribuzione di rilevanza internazionale anche a tali situazioni. Poiché il diritto internazionale, nella sua manifestazione consuetudinaria, è costituito da norme che esprimono giudizi della comunità internazionale sui comportamenti dei suoi soggetti, cioè degli Stati, la norma internazionale può considerare comportamenti esterni dello Stato nelle relazioni verso gli altri e comportamenti interni. Naturalmente, l’internazionalizzazione di situazioni interne implica una certa erosione della dimensione della sovranità interna dello Stato, nel senso che, nella misura in cui il diritto internazionale detta regole di comportamento interno, la libertà dello Stato di disciplinare quei comportamenti viene ristretta. La tendenza del diritto internazionale ad occuparsi anche di comportamenti interni ha soprattutto riguardato il profilo della protezione dei diritti fondamenta- * L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 233 Culture e conflitto li delle persone da parte dello Stato, venendo ad incidere sui conflitti interni che insorgono fra gli individui e lo Stato in materia. Portati a livello internazionale, questi sono considerati da una serie di norme e di procedure. Ormai, però, l’intervento del diritto internazionale nel dettare i comportamenti dello Stato si è esteso e vi sono norme internazionali che riguardano anche conflitti interindividuali, soprattutto in materia di criminalità. Non ho bisogno di approfondire in questa sede tutta la problematica relativa alle vittime della criminalità, che è stata uno dei cavalli di battaglia di Adolfo Beria di Argentine e del Centro nazionale di prevenzione e difesa sociale; basta ricordare che questo è un aspetto in relazione al quale il diritto internazionale interviene nel conflitto interindividuale, imponendo allo Stato obblighi di comportamento nel suo dovere di prevenire e di reprimere il crimine e di assicurare una riparazione alle vittime. L’intervento del diritto internazionale in una sempre più vasta gamma di situazioni anche interne allo Stato comporta che, nel valutarne le modalità, vada tenuto presente questo maggiore interesse non solo per i conflitti esterni allo Stato ma anche per quelli interni. In proposito, mi sembra che si debbano individuare almeno quattro tipi di interventi del diritto internazionale: per prevenire il conflitto, per regolarlo, per risolverlo, e per favorire successivamente meccanismi idonei ad evitare una nuova insorgenza del conflitto stesso. Cominciando dalla regolazione del conflitto, anche se la logica imporrebbe di partire dalla sua prevenzione, ma storicamente il diritto internazionale è intervenuto prima per regolare che non per prevenire, va osservato che dalla nascita del diritto internazionale moderno, che si fa risalire comunemente ai Trattati di Vestfalia, l’insorgenza del conflitto – allora solo esterno, perché non c’erano comportamenti interni oggetto di valutazione – era completamente irrilevante dal punto di vista del diritto internazionale. Dagli autori dell’epoca, da Grozio in poi, il diritto internazionale è diviso in due parti: il diritto di pace, che regola i rapporti normali 234 Fausto Pocar fra gli Stati, e il diritto di guerra, che regola i rapporti in tempo di guerra. Ma manca una valutazione della liceità della guerra; anche se vi sono considerazioni sul fatto che essa sia o non sia giusta, la guerra è semplicemente un fatto fisiologico delle relazioni fra Stati e come tale è considerata dal diritto internazionale. Quando essa insorga, il diritto internazionale interviene per quanto attiene ai principî secondo cui deve svolgersi: i comportamenti dei belligeranti non sono liberi, vi sono regole di guerra che vanno rispettate e che successivamente sono state, a cominciare dalla fine del XIX secolo, codificate con varie convenzioni internazionali. Senza entrare in un esame dettagliato di queste ultime, il cui numero non ne consentirebbe un’analisi esauriente, c’è da notare che la considerazione da parte delle regole internazionali dei conflitti interni è relativamente recente. Fino alle Convenzioni di Ginevra del 1949, vengono invero presi in considerazione solo conflitti esterni, cioè solo conflitti tra Stati. Se un conflitto è interno, il diritto internazionale non interviene in merito alle condizioni secondo le quali deve svolgersi. Soltanto con i Protocolli alle Convenzioni di Ginevra adottati nel 1977 i conflitti interni formano oggetto di valutazione, di modo che attualmente quasi tutta la legislazione in materia di comportamenti fra belligeranti coinvolge anche i belligeranti nel contesto di guerre civili all’interno dello Stato. Una simile evoluzione è dovuta al fatto che si è sviluppata contemporaneamente, a partire dal secondo conflitto mondiale, la tematica della protezione dei diritti umani. Questa riguarda essenzialmente la popolazione civile piuttosto che i combattenti. In proposito, il diritto internazionale tende ad assicurare una protezione minima inderogabile, cioè a stabilire criteri minimi di trattamento che non possono essere derogati nemmeno in situazioni di conflitto, la violazione dei quali può costituire un crimine di diritto internazionale. Passando alla prevenzione del conflitto, il diritto internazionale se ne è occupato molto più tardi, soltanto dalla fine della prima guerra mondiale, con la Società delle Nazioni. 235 Culture e conflitto Quest’ultima ha, come le Nazioni Unite, per scopo il mantenimento della pace e, quindi, di evitare i conflitti, attraverso una cooperazione politica fra gli Stati membri. Si tratta di una forma abbastanza limitata di intervento, perché essa si basa sulla ricerca di soluzioni e compromessi, senza intervenire sulle cause del conflitto stesso. I redattori della Carta delle Nazioni Unite hanno visto questo limite e hanno successivamente adottato l’impostazione opposta, cioè quella, senza escludere la cooperazione politica, di incidere sulle possibili radici del conflitto, attraverso la cooperazione sociale. In particolare, va rilevato che la cooperazione sociale è essenzialmente basata sulla tematica dei diritti umani. La Carta delle Nazioni Unite, infatti, pone fra i suoi obiettivi principali quello della protezione dei diritti fondamentali, nel convincimento che, se essi sono rispettati, i conflitti non abbiano ragione di sorgere. Va anche rilevato che i diritti umani sono visti dall’Organizzazione delle Nazioni Unite nella loro dimensione esterna ed interna, ma per quest’ultima soltanto nella misura – che è diventata sempre più ampia nella considerazione dell’Organizzazione – in cui la violazione dei diritti fondamentali possa minacciare la pace mondiale. Senza entrare nella problematica dei diritti umani (che ci porterebbe troppo lontano, e che comunque è nota e discussa), può apparire strano che il diritto internazionale non si sia interessato, o si sia interessato con difficoltà e in ritardo, delle violazioni dei diritti umani che più facilmente possono creare i conflitti, di quelle cioè che non sono meramente individuali, ma riguardano individui in quanto membri di una comunità di carattere etnico, linguistico, o religioso. Si tratta, cioè, delle cosiddette minoranze che vivono all’interno di uno Stato. Stranamente, la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani del ’48, che detta i criteri comuni di trattamento in materia di diritti fondamentali, non contiene nessuna norma sulle minoranze. Vero è che poco dopo, la Commissione per i diritti umani, istituita quale organo politico dell’Assemblea Generale, ha nominato una Sottocommissione per la prevenzione della discriminazione e la protezione delle minoranze, ma questa ha finito in realtà per oc236 Fausto Pocar cuparsi della codificazione dei diritti umani piuttosto che delle minoranze. L’unica disposizione in tema di minoranze si trova nel Patto internazionale sui diritti civili e politici, adottato nel 1966, secondo la quale “Negli Stati in cui esistono minoranze religiose, etniche o linguistiche, le persone appartenenti alle minoranze” (non c’è il diritto del gruppo, comunque, c’è il diritto dell’appartenente al gruppo) “avranno il diritto, in comunità con gli altri membri del gruppo, di godere della loro cultura e di professare e praticare la loro religione o di usare la loro lingua”. Solo in un momento successivo (ma le disposizioni seguenti sono più un approfondimento di concetti che vere novità) la Commissione ha istituito un gruppo di lavoro per arrivare a una Dichiarazione dei diritti degli appartenenti a minoranze che completasse la Dichiarazione Universale. Questo gruppo ha lavorato per ben sedici anni senza alcun risultato, ma poi in soli quindici giorni ha approvato il testo di una Dichiarazione, spinto dalla evoluzione degli avvenimenti della crisi jugoslava del 1991. La Dichiarazione, adottata nel 1992 dall’Assemblea Generale, contiene una serie di sviluppi rispetto al Patto sui diritti civili e politici. In essa vi sono disposizioni che riguardano il gruppo in quanto tale, con l’indicazione degli obblighi della maggioranza verso la minoranza; inoltre, si afferma che i diritti degli appartenenti a minoranze devono essere compatibili col rispetto dei diritti fondamentali, di modo che il discorso del rispetto dei diritti umani da parte delle varie culture rimane aperto. Il problema è di stabilire caso per caso fino a che punto la cultura può essere rispettata tutelando gli altri diritti fondamentali, ma esso non è stato ancora risolto: secondo alcuni i diritti umani devono essere rispettati comunque, anche ove ciò avvenga in contrasto con la cultura di un gruppo, secondo altri le culture vanno invece rispettate in ogni modo anche a scapito dei diritti umani. Entrambe queste impostazioni appaiono troppo dogmatiche per meritare accoglimento; probabilmente la soluzione sta nel verificare livelli di protezione compatibili e nel cercare di armonizzare diritti umani e culture. 237 Culture e conflitto Accenno brevemente alla risoluzione dei conflitti. Il problema è giuridico e politico e va posto alla luce della Carta della Nazioni Unite. Questa prevede che la risoluzione dei conflitti debba in linea di principio essere lasciata al Consiglio di Sicurezza. Secondo la Carta, il Consiglio dovrebbe avere un corpo d’armata con eserciti messi a disposizione dagli Stati e un suo comando militare, ma questa disposizione non è mai stata attuata. Invece, il Consiglio di Sicurezza ha delegato il suo potere agli Stati, autorizzandoli a usare la forza nei limiti da esso decisi e sotto il suo controllo. Così è avvenuto nella guerra del Golfo, dove il Consiglio ha autorizzato taluni Stati a intervenire; così è avvenuto successivamente in Iraq, negli interventi a protezione della minoranza curda. Il Consiglio di Sicurezza non ha invece autorizzato l’intervento in Kosovo né ha ratificato l’intervento a posteriori. L’intervento in Afghanistan non richiedeva autorizzazione ed è l’unico, almeno secondo una certa interpretazione, che poteva essere giustificato da legittima difesa, ammesso che l’attacco alle Torri gemelle sia qualificabile come un attacco armato, come si è pronunciata una risoluzione adottata dal Consiglio il giorno successivo all’attentato. In ogni caso, il governo inglese e quello americano si sono appoggiati sul tale risoluzione e hanno notificato al Segretario generale che intervenivano per legittima difesa ai sensi dell’Art. 51 della Carta contro lo Stato afgano, che aveva ospitato e protetto i terroristi. Per quanto riguarda la guerra preventiva, per riferirsi alle dottrine recenti, essa è sicuramente illegittima, secondo il diritto internazionale. Non ci sono dubbi che, allo stato attuale del diritto internazionale, la guerra preventiva non sia ammissibile, alla luce della Carta delle Nazioni Unite, che esclude l’uso della forza armata, ad eccezione che per legittima difesa. Quanto all’intervento successivo al conflitto, l’approccio del diritto internazionale, essenzialmente attraverso le Nazioni Unite, è quello di cercare di creare condizioni tali per cui il conflitto non debba riproporsi. A questo rispondono i dispiegamenti di forze delle Nazioni Unite che tendono a in238 Fausto Pocar terporsi fra le fazioni o comunque a ricostruire un’autorità civile all’interno degli Stati in cui si sono verificati conflitti (essenzialmente conflitti interni). Inoltre, le Nazioni Unite operano appoggiando l’esperienza di Commissioni della verità e della riconciliazione e istituendo tribunali penali internazionali. Questi, dovendo giudicare della responsabilità degli individui, devono basarsi sul chiarimento delle circostanze del conflitto e indicare la via di una riconciliazione nazionale basata sulla giustizia. Si tratta di interventi recenti, non ancora completamente collaudati, suscettibili di ulteriori sviluppi a livello universale, se la Corte penale internazionale recentemente istituita riuscirà ad assumere il ruolo che la comunità internazionale si attende da essa. 239 Alcuni commenti* STEFANO BIANCHINI Università di Bologna I colleghi sanno già, perché lo accennavo ieri, qual è il mio approccio disciplinare al tema oggetto di questo Seminario. Sanno, cioè, che non sono un antropologo, non sono neppure un giurista, ma uno scienziato politico con un background storico, che ha spesso avuto modo di interagire con altre materie, ivi compresi i diritti umani. Infatti, io ho anche l’onore e l’onere di co-dirigere, insieme ad un mio collega di Sarajevo, un Master Regionale Europeo in Democrazia e Diritti Umani per il Sud-Est Europeo. Questo mi induce a mettervi sull’avviso in quanto mi sposterò costantemente, in questo mio intervento, dagli aspetti culturali a quelli politici, collegandomi a quanto abbiamo detto nelle Sessioni precedenti e alle tesi espresse dal professor Pocar. In particolare, partirò dalle conclusioni del professor Pocar, che mi sembrano giungere ad hoc, laddove egli sostiene che per il diritto internazionale ci vuole ancora tempo, perché esso sia in grado di esercitare un’influenza efficace sui conflitti, sulla loro regolazione, sulla prevenzione e risoluzione, sulla costruzione di nuove prospettive di pacificazione. Sì, è vero, ci vuole tempo. Noi siamo appena ai primi vagiti della costruzione di un sistema moderno, che non riguardi però solo la questione del diritto internazionale, ma, lasciatemelo dire, anche il problema, che abbiamo già co- * L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 241 Culture e conflitto minciato ad affrontare ieri, del rapporto fra culture, e fra globalizzazione e culture locali. Anche qui, in realtà, noi ci troviamo di fronte a un periodo nuovo, perché è nuova o, comunque, recente l’immissione della popolazione nelle istituzioni politiche e nelle procedure di selezione delle élite, superando – con il suffragio universale – ciò che in passato era una prerogativa di pochi. Insisto nel far riferimento al suffragio “universale”, anche se alcuni colleghi di orientamento liberale preferiscono limitarsi al solo concetto di suffragio, in quanto, a mio modo di vedere, è unicamente con il diretto coinvolgimento dell’“altra metà della popolazione”, ossia delle donne, che noi possiamo parlare di vera e propria immissione della popolazione nelle istituzioni e nei processi di selezione delle élite politiche. È questo, peraltro, un processo del ’900, anzi, diciamo pure della seconda metà del ’900, quindi di un tempo assai limitato e recente, identificabile negli ultimi cinquant’anni, i quali coincidono – più o meno – con l’epoca in cui iniziano a modificarsi una serie di elementi tipici del diritto internazionale e che il professor Pocar ci ha or ora illustrato. Quindi, è chiaro che la democratizzazione consapevole delle istituzioni (poiché di questo alla fine si tratta) costituisce un fenomeno fragile, nuovo, esposto al rischio di essere travolto, in quanto non sappiamo ancora come gestire sia la sua dimensione culturale, sia la dimensione dei diritti relativi, appunto, al nesso fra globale e locale. Per parte mia, io mi sono sempre interessato agli studi di un’area tradizionalmente chiamata “Europa Orientale”, ma sulla cui esistenza nutro ormai dubbi crescenti, perché essa mi appare sempre più integrata nel concetto di Europa. Sicché, mi sembra difficile considerarla qualcosa di “altro” rispetto all’Europa; farò tuttavia riferimento a questo concetto giusto per capirci, anche se si tratta di una vecchia categoria interpretativa (e “distintiva”) utilizzata soprattutto durante il periodo della “guerra fredda” e, a mio avviso, divenuta obsoleta, soprattutto dopo il 1989. Tutto ciò per dire, comunque, che le mie conoscenze ri242 Stefano Bianchini mangono legate al contesto europeo; pertanto, non mi sento in grado, né ho le competenze per allargarmi a una dimensione universale. Certamente, però, quando noi vogliamo parlare di diritti umani, di solidarietà, di aiuti, facciamo ricorso a diversi strumenti, e uno di questi è appunto il diritto internazionale, in quanto coinvolge il ruolo degli Stati, pur essendo anche questi dei soggetti in mutamento, e tornerò più avanti su tale dimensione. In questo quadro, mi sembra importante notare come non vi sia nulla di predeterminato, di codificato in ciò di cui stiamo discutendo; al contrario, l’analisi del rapporto fra culture e conflitti, così come delle prassi nei contesti conflittuali, impone grande flessibilità e mobilità, nonché una sensibilità cognitiva capace di percepire le ripercussioni di ogni azione in contesti di guerra, anche da parte di chi, per esempio, si reca sul posto per svolgere attività di solidarietà, di aiuto umanitario e così via. Ciò pone un problema fondamentale: ossia, come si agisce in situazioni di crisi e di conflitto? Che fare, concretamente? Come intervenire per modificare le dinamiche in atto? Si tratta di quesiti fondamentali: quando noi dobbiamo fare i conti con un conflitto, sappiamo che l’agire – o l’interagire – dei soggetti esterni nelle zone del conflitto implica la modifica del conflitto stesso. Quindi, anche il ricorso a concetti quali “modifica” o “cambiamento” non deve costituire motivo di rigetto, perché non si può semplicemente “osservare” una situazione nel timore di innescare mutamenti estranei al contesto locale; se questo contesto è entrato in una fase di collasso, è evidente che un complesso di soggetti esterni senta il dovere (e l’interesse) di agire. Dunque, il problema non è se, ma come. Vi farò alcuni esempi. Durante il conflitto che ha accompagnato la disgregazione della Jugoslavia (che, per quello che mi riguarda come studioso, non è ancora risolto, non è ancora concluso, nel senso che non ha trovato una sua stabilizzazione), molti soggetti, comprese le organizzazioni di giovani lanciatesi in aiuti umanitari, si sono recati in quella zona. Ora, a parte tutte 243 Culture e conflitto le cause che hanno provocato il conflitto (su cui magari, per alcuni versi, tornerò), non c’è dubbio che l’obiettivo fondamentale di quel conflitto fosse quello di delimitare nuove dimensioni territoriali e dar vita ed inediti equilibri geopolitici fondati sull’omogeneità di cultura, lingua, etnia. Per raggiungere tale obiettivo era, dunque, necessario ricorrere ad una serie di operazioni che includessero, coerentemente, un alto livello di violenza. Il ricorso alla pulizia e allo stupro etnici è stato, cioè, strumentale alla costruzione di barriere psicologiche e culturali in un paese che tali barriere non aveva fino ad allora conosciuto, altrimenti sarebbe stato possibile dividere il paese in poco tempo (e invece ci sono voluti dieci anni e il processo non sembra ancora concluso). Ora, se alcuni soggetti esterni decidono di intervenire in una situazione del genere, bisogna che siano consapevoli del significato delle loro azioni. Invece, è successo che, ad esempio, determinati gruppi religiosi stabilissero un rapporto privilegiato con i propri co-religionari, portando l’aiuto umanitario esclusivamente a questo gruppo. Voi capite che un intervento di questo genere, in un contesto segnato da condivisioni di culture, religioni, mentalità, ha avuto un effetto deflagrante sui “vicini”, ha favorito le divisioni e la contrapposizione tra i gruppi, ha contribuito ad aggravare la situazione esistente. In conclusione, tale intervento – che nelle intenzioni dei promotori avrebbe dovuto presentarsi come umanitario – ha esercitato sul terreno l’effetto opposto, offrendo argomenti a quelle autorità politiche locali che alimentavano proprio tali comportamenti ritenendoli coerenti con il loro obiettivo politico di separazione delle comunità. Ben diversi risultati sono stati raggiunti da quanti si sono sforzati disperatamente – contro l’orientamento delle autorità politiche locali – di costruire ponti di dialogo, individuando luoghi collocati fisicamente a cavallo dei nuovi confini, e dotandoli di accessi su lati fra loro opposti, in modo che i membri delle due comunità separate potessero entrare in contatto nonostante i divieti delle rispettive autorità locali. Questo comportamento era considerato, infatti, dalle 244 Stefano Bianchini autorità locali nazionaliste come un tentativo mirato a ristabilire forme di contaminazione culturale, per abbandonare le quali esse si erano impegnate in una sanguinosa guerra fratricida. Ecco perché insisto sulla qualità dell’intervento nelle aree di crisi, in quanto spesso l’uso delle culture è funzionale a un determinato obiettivo politico. Tutto questo induce a quali considerazioni? Intanto, c’è una relatività dei concetti che noi maneggiamo, e soprattutto una relatività delle culture, perché le culture non sono stabili, ma un fattore in costante movimento. Esse non possono essere fissate o codificate, perché in tal caso si rischia di provocare un effetto contrario, cioè un effetto destabilizzante, di divisione e conflitto. Di conseguenza, per lo meno a mio avviso, si presenta assai arduo il compito di individuare strumenti in grado di leggere e interagire con un contesto che, sotto il profilo culturale, si presenta in continua evoluzione: la globalizzazione, infatti, è parte della vita dell’umanità sin dai tempi della preistoria e l’interazione delle culture è un fatto normale sin dall’antichità. Noi non abbiamo culture che non siano miste. Ciò che è puro è sterile, non dà nulla. Le culture sono mobili, non sono determinate una volta per sempre. Ecco che allora non c’è ragione di temere la globalizzazione, ma si tratta di vedere come la globalizzazione interagisce o modifica le culture, come le adegua all’innovazione, secondo dinamiche che non sono unilineari, ma multidimensionali, in cui le differenze non sono necessariamente fattore di divisione e conflitto. Certo, nel momento in cui si affronta il tema della differenza, si entra nel campo spinosissimo dei rapporti fra maggioranza e minoranze, andando ad investire il nodo controverso dei diritti delle minoranze e della loro protezione. Ora, voi capite che in un corso sui diritti umani e la democrazia nel Sud-Est europeo, quale quello che si svolge a Sarajevo, il problema delle minoranze costituisce un tema clou, su cui tutti gli studenti vogliono discutere e soffermarsi sotto diversi punti di vista, da quello relativo al ruolo dei 245 Culture e conflitto media, a quello dell’insegnamento e dell’apprendimento della lingua, dal rispetto di determinati codici culturali a quello dei convincimenti e delle pratiche religiose. Non si tratta, poi, di temi tanto lontani dal nostro mondo. Basta trasferirsi dai Balcani in Alto Adige. Non dobbiamo dimenticare (sempre per non stupirci oltremodo, per non considerare, insisto sempre, quella che veniva chiamata Europa Orientale come un’eccezione rispetto al nostro modo di vedere) che è bastato indire un referendum a Bolzano sul nome di una piazza (della “vittoria” – intendendo quella italiana del 1918 contro l’Austria – o della “libertà”) per avere un voto sostanzialmente “bosniaco”. Correva l’anno 2002 e in quell’occasione, come è noto, le due comunità, quella italiana e quella tedesca, si sono polarizzate esattamente così come è successo in Bosnia alle ultime elezioni del 2002, in cui gli elettori hanno votato secondo una dinamica in cui ha prevalso (ancora una volta) il richiamo etnico, anziché quello dei grandi filoni ideali. Il che, in altre parole, induce a riflettere sulla capacità di attrazione emotiva espressa dalla simbologia “politica” di gruppo. Ecco, dunque, un altro filone di ricerca su cui lavorare: la simbologia politica. Perché la simbologia? Perché, con tutta evidenza, in una società dove la comunicazione di massa acquisisce un ruolo decisivo, essa si richiama ad un insieme di codici culturali definiti, diventando per ciò stesso un fattore mobilitante del consenso di gruppo. Proprio la simbologia politica, del resto, è stata utilizzata dalle élite politiche sotto i più diversi profili, ideologici, nazionali, etnici, religiosi con sempre maggior intensità a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. Nel caso dei conflitti dove una determinata interpretazione della cultura come fattore di distinzione/contrapposizione ha costituito un fattore mobilitante, essi hanno contribuito ad accrescere l’animosità e il contrasto fra gruppi, favorendo le polarizzazioni maggioranza/minoranze, come in molti casi dell’Europa orientale. Il paradosso sta anche nel fatto che tali fenomeni si sono verificati in paesi in cui la politica di protezione delle mi246 Stefano Bianchini noranze è stata tutto sommato perseguita con una certa coerenza. Per molti anni, ad esempio, la Jugoslavia socialista è stata indicata all’ONU come un esempio positivo a tale riguardo. E, in effetti, l’arco di anni compreso fra il 1971 e il 1989/90 è stato quello in cui i diritti fondamentali dei vari gruppi nazionali erano rispettati. Basti solo pensare che negli anni 80, dopo la morte di Tito, un albanese del Kosovo è diventato capo di Stato e un altro, successivamente, presidente della Lega dei comunisti, grazie al sistema di rotazione adottato per le alte cariche dello Stato e del partito. Inoltre, la Costituzione aveva assicurato, di fatto, il diritto di veto a Repubbliche e Regioni autonome; anche piccole minoranze, come quella italiana in Istria, godevano non solo del bilinguismo, ma anche di giornali, riviste, teatri nella loro lingua nazionale. Da questo punto di vista, dunque, i diritti fondamentali delle minoranze e degli “altri” erano assicurati. Ciò nonostante, la Jugoslavia è scomparsa in un fragore di armi e nel sangue. Sicché, risulta evidente come non basti cercare di regolare, codificare, addirittura irrigidire – e qui è il punto – i rapporti fra i gruppi fino a separarli, nella convinzione che “il tetto comune” sia sufficiente a mantenere l’integrità territoriale del paese. In realtà, quella separazione rischia di provocare – in determinate condizioni di crisi economico-sociale (come fu il caso dei sistemi comunisti) – proprio una deregulation della politica che diventa anticamera della secessione e del conflitto. D’altra parte, l’approccio jugoslavo alle minoranze non è stato sostanzialmente diverso da quello attuato in Alto Adige, dove la convivenza fra i gruppi si è imperniata sulla loro separazione, perseguita anche nell’organizzazione del sistema scolastico. Se si fa un confronto, si vede che, sotto il profilo istituzionale, non vi era poi una grande differenza tra le soluzioni adottate in Alto Adige e quelle stabilite nella Jugoslavia socialista. E pur tuttavia, due aspetti cruciali hanno determinato percorsi distinti: da un lato, la Jugoslavia non aveva ingenti risorse economiche da offrire alle aree più arretrate 247 Culture e conflitto del paese, così come, invece, ha potuto fare l’Italia; dall’altro, la Jugoslavia non poteva contare sull’aiuto (istituzionale e culturale ad un tempo) derivante dal processo d’integrazione europea. In tutti questi esempi, fra l’altro, il diritto del gruppo ha sempre dominato sul diritto dell’individuo. E invece, la discussione, complessa e delicata, sul diritto di autodeterminazione deve tenere conto, fra le varie opzioni, anche del rapporto che si stabilisce fra diritti individuali e diritti collettivi all’identità. Ad esempio, noi troviamo un’abbondante letteratura sui diritti delle minoranze, intese come gruppo, ma non bisogna mai dimenticare che ci sono altri gruppi – non politicamente e culturalmente organizzati – di cui è stata negata l’esistenza proprio con il collasso della Jugoslavia. Penso, in questo caso, alla cancellazione dei diritti di quanti si definivano jugoslavi e non avevano nessuna intenzione di identificarsi con Milosevic e la sua politica, perché Milosevic ha usato la parola “Jugoslavia” semplicemente allo scopo di evitare il riconoscimento internazionale e per impossessarsi dei beni jugoslavi all’estero. Noi oggi abbiamo diversi documenti che provano l’esistenza di tale orientamento nella leadership serbo-montenegrina del tempo. A suo tempo, però, l’attenzione internazionale è stata attratta dalle rivendicazioni di una parte politica forte, in quanto capace di controllare alcune istituzioni dello Stato jugoslavo, e ha cancellato dai suoi compiti quello di garantire il diritto degli “jugoslavi”, privi di una rappresentanza istituzionale riconosciuta. La vicenda offre numerosi spunti di riflessione. Di fatto, un gruppo che cominciava a definirsi e a dichiararsi come tale non è stato riconosciuto né all’interno della Jugoslavia, né all’esterno, soprattutto a causa del fatto che il concetto di identità è ancora troppo intriso, nella coscienza dei più, di unilinearità e omogeneità, mentre i contesti culturali con cui dobbiamo sempre più fare i conti si caratterizzano per identità plurime, gli stessi Stati nazionali rivelano di posse248 Stefano Bianchini dere identità plurime, in contrasto con le richieste di élite e correnti politiche reclamanti il diritto all’autodeterminazione fino alla separazione in nome dell’omogeneità, scatenando così conflitti dove la politica e la cultura si intrecciano drammaticamente. Per rimanere ancora sul piano dei diritti, mi soffermerò ora su due esempi relativi a come il diritto internazionale (ma, forse, più la giurisdizione internazionale) abbia cercato di dirimere la questione. Un esempio è quello fornito dal modo in cui la Commissione Badinter ha operato per il riconoscimento dell’indipendenza delle repubbliche jugoslave. Come sappiamo, muovendo dal presupposto che la Jugoslavia non stava subendo una secessione, ma un processo di dissolvimento generale, essa ha stabilito la liceità del riconoscimento dei confini amministrativi come confini di Stato per le sole repubbliche, e non per regioni o entità gerarchicamente inferiori alla repubblica costituente (ecco perché poi non ha ancora trovato soluzione il problema del Kosovo, che all’epoca non era repubblica). Per procedere, quindi, al riconoscimento vero e proprio, la Commissione ha vincolato tale atto all’esistenza, fra l’altro, di atti e normative sufficienti a garantire il rispetto dei diritti umani delle minoranze, nonché allo svolgimento di un referendum. Un referendum, questo, si badi bene, che in Jugoslavia è stato condotto in maniera ridicola, laddove è stato condotto, perché il referendum sloveno (poi tutti si dimenticano, in particolare, della Slovenia e delle sue responsabilità, il che a me sembra un fatto grave) chiedeva alla popolazione di pronunciarsi sostanzialmente sulla proposta del governo sloveno volta a creare una confederazione della Jugoslavia, a cui tutti gli altri cinque soggetti si sarebbero dovuti conformare entro sei mesi; nel caso in cui gli altri cinque soggetti non si fossero conformati entro sei mesi al progetto sloveno, la Slovenia avrebbe avuto il diritto di secedere. Questo era, in sostanza, il quesito proposto agli elettori, ben lontano dal rispetto dei diritti di tutti gli altri concittadini (almeno a quella data). In uno Stato, ciascuna componente ha 249 Culture e conflitto pur sempre delle responsabilità verso le altre, un diritto si compenetra con altri diritti. Analogamente all’élite slovena, si è comportata quella croata. Gli elettori croati non hanno mai votato per l’indipendenza, ma soltanto per scegliere tra un’opzione confederale o una federale. Nonostante, comunque, tale quadro contraddittorio, la Commissione Badinter ha imposto il referendum anche alla Bosnia offrendo così l’argomento ultimativo per la deflagrazione di un conflitto che covava sotto la cenere. La questione del referendum in una situazione di potenziale conflitto legato alla secessione è stata sollevata anche nel caso di uno Stato occidentale indubbiamente democratico, come il Canada. Sotto questo profilo la vicenda canadese, in relazione al controverso nodo dell’indipendenza del Québec in seguito al referendum del 1995, presenta un’intrinseca rilevanza, ed io me ne sono interessato allo scopo di svolgere un’analisi comparata con il caso jugoslavo. Come è noto, la Corte Suprema del Canada è stata investita dal governo affinché rispondesse al seguente quesito: può un referendum nel solo Québec essere dirimente per procedere alla secessione del Québec? La Corte si è riunita e ha impiegato un paio d’anni per elaborare una risposta che si presenta articolata ed interessante. In sostanza, la posizione espressa assegna al referendum una funzione non dirimente, in quanto il referendum viene considerato solo uno strumento utile a comprendere l’opinione della maggioranza della popolazione in un determinato territorio. Da questo, sostiene la Corte, non ne discende un automatico accesso al diritto di secessione; piuttosto, consultando la Costituzione canadese e il diritto internazionale, la Corte suggerisce di avviare – una volta che il referendum avesse dato esito positivo alla prospettiva di secessione – un negoziato tra le autorità canadesi e quelle del Québec al fine di definire i diritti di compartecipazione che il Québec ha maturato stando nel Canada, così come le obbligazioni accumulate nel corso degli anni con il resto della 250 Stefano Bianchini comunità canadese, per arrivare, quindi, a stabilire un percorso concordato al termine del quale pervenire alla separazione, nel pieno rispetto anche dei diritti delle minoranze, in questo caso Inuit e Cree, del Québec, le quali – fra l’altro – avevano già minacciato, alla vigilia del referendum del 1995, di richiedere a loro volta l’indipendenza dal Québec, se questo fosse diventato indipendente. L’analogia con la situazione dei Serbi di Croazia appare, sotto questo profilo, evidente: nel momento, infatti, in cui la Croazia diventava indipendente, questi ultimi avevano reclamato un analogo diritto alla secessione dalla Croazia, scatenando ulteriori rivendicazioni nei villaggi croati all’interno delle zone serbe di Croazia, secondo un processo potenzialmente infinito, e che, ironia della sorte, potrebbe arrivare fino “all’indipendenza d’appartamento”. In altre parole, il processo di spartizione infinita, sia pure per via ipotetica, ventilata comunque da minacce più o meno reali, non costituisce una prerogativa della Jugoslavia o della cosiddetta Europa Orientale, ma rappresenta un tema generale che riconduce al nodo insoluto delle relazioni tra diritti individuali e diritti collettivi, nonché alle relazioni di diritto tra gruppi. Ma, per tornare alla Corte suprema del Canada, la conclusione finale cui essa perviene è ancora più straordinaria, perché ad un certo punto ammette la possibilità che l’invocato negoziato tra il governo e la rappresentanza regionale non vada in porto. In questo caso, sostiene la Corte, la questione sfugge totalmente alle procedure di diritto e diventa esclusivamente politica: a quella sfera spetta, dunque, la decisione definitiva. In altre parole, i giudici della Corte avvertono pienamente il limite della loro azione e concludono che saranno i rapporti di forza politici stabilitisi nel frattempo fra le parti a condurre allo sbocco finale. E così, ci troviamo ad affrontare di nuovo, trasversalmente, una grande tematica aperta a ulteriori discussioni e approfondimenti: quella del rapporto fra culture, politiche e diritti in situazioni di potenziale conflitto, o di conflitto aperto. 251 Culture e conflitto Se, poi, ripensiamo a quanto detto in apertura, ossia che la nostra è una realtà in continuo e sempre più accelerato mutamento, soprattutto per quanto concerne l’Europa, ecco che le dinamiche proprie della transizione post-comunista ci appaiono collocate entro una fase di transizione molto più ampia, che investe il processo d’integrazione europea. In altre parole, nell’ambito delle relazioni fra culture, politiche e diritti, molti dei problemi che investono maggioranze e minoranze si ridefiniscono nel prisma dei processi di integrazione europea, specialmente a mano a mano che questi assumeranno connotati più esplicitamente politici, come molti elementi lasciano intendere. Non che il processo di integrazione non sia stato politico in passato; in realtà, lo è sempre stato, ma la convocazione di una Convenzione per la preparazione di una carta che si chiamerà “Costituzione”, ha impresso un’accelerazione in una direzione politica che peraltro si era avvertita con l’introduzione della moneta unica: una decisione, questa, dal chiaro sapore politico e non meramente economico. Ci troviamo, insomma, di fronte a un grande passaggio epocale, in cui la forma dello Stato-nazione, per come la conosciamo, non funziona più, non è più adeguata alla situazione, nonostante le resistenze culturali ad ammettere questo dato di fatto. I sempre più frequenti interventi o richiami al diritto internazionale per dirimere i conflitti all’interno di uno Stato sono la dimostrazione che la forma di Stato-nazione (sia esso civico o etnico) non è più adeguata alle esigenze della realtà. Un mio amico, che è stato giudice presso il Tribunale per i crimini di guerra nella ex Jugoslavia all’Aja, Michele Marchesiello, nel suo libro intitolato Politica e legalità internazionale riflette sul ruolo del Tribunale e sostiene come, proprio dopo la caduta del Muro di Berlino, sia fallito ogni tentativo di costruire un ordine politico mondiale basato sull’idea di Stato, sovranità, nazione e potenza nazionale. Come studiosi, quindi, dobbiamo ormai affrontare questo nodo, nella consapevolezza di essere al momento privi di strumenti interpretativi adeguati a cogliere la realtà che cambia. 252 Stefano Bianchini Certo, a fianco dello Stato-Nazione in palese difficoltà emerge progressivamente una società a rete, quella che noi chiamiamo network society. In questo quadro, noi non possiamo più guardare al problema dell’identità – compresa l’identità dell’Europa – come se questa fosse un’identità nazionale. L’UE non rappresenterà mai l’identità di una nazione, non è destinata a diventare uno Stato-nazione; potrà diventare però uno Stato, con caratteristiche sue proprie e che presumibilmente si fonderà sulle relazioni a rete. E qui, di nuovo, emerge il nodo delle relazioni fra culture, politiche e diritti, in cui il cambiamento diventa la caratteristica dominante. Noi ci troviamo di fronte, ormai, alla crescita esponenziale di network transnazionali. Tra convegni, incontri, progetti internazionali di ricerca, noi docenti universitari, così come i nostri studenti, facciamo già parte di un’élite transnazionale. Certamente, questo processo incoraggia anche la creazione di differenze, sociali e culturali, trasversali, tra chi ormai utilizza più lingue, partecipa a riunioni o incontri spostandosi da un paese all’altro con la stessa facilità con cui un tempo si spostava all’interno del proprio paese, e chi, invece, non ha occasione, o interesse, ad allontanarsi dal proprio contesto locale. In questa progressiva differenziazione si colloca una potenziale fonte di conflitto tra culture: ossia, all’interno del medesimo contesto territoriale si confrontano progressivamente culture transnazionali e culture locali, come risultato di una crescente interazione a diversi livelli: a livello politico, per i processi di integrazione europea; a livello sociale, per i processi migratori; a livello economico, per la ridistribuzione/riorganizzazione del lavoro e l’accesso alle risorse. Per governare questi processi, diventa sempre più incalzante la necessità di procedere all’armonizzazione legislativa nei più diversi campi: dalle politiche sociali a quelle fiscali, da quelle universitarie a quelle giuridiche, l’intero processo di integrazione europea è investito – fra mille difficoltà e contraddizioni – dall’esigenza di fare i conti con un intreccio 253 Culture e conflitto di relazioni che impone allo Stato-Nazione di uscire dal suo limitato contesto territoriale e culturale. Basti solo pensare alla lotta alla criminalità, alla droga, alla criminalità informatica, e a quanto sia difficile intervenire in questi campi, se non esistono delle regole condivise fra Stati. Contro la mafia o la criminalità internazionale gli Stati hanno bisogno di utilizzare nuovi strumenti, per l’appunto internazionali. Questa è una fra le tante conferme secondo cui lo Stato-nazione non è più in grado, da solo, di affrontare con successo tali problemi e deve operare attraverso network, ossia relazioni a rete di diverso formato, taglio, impostazione. Anche per quanto riguarda la cooperazione economica, ormai sono passati i tempi dello Stato nazionale autarchico; lo Stato commerciale chiuso è alle nostre spalle da duecento anni. Uno Stato di questo genere non esiste più, anche se i nazionalisti, per esempio in Jugoslavia, hanno spinto e tuttora spingono verso questa prospettiva. Che bisogno abbiamo, dicono loro, di entrare in Europa, se l’Europa ci costringe a rispettare regole che mettono in discussione la nostra purezza etnica, linguistica, culturale? Restiamo fuori. Questo è il ragionamento di molti gruppi nazionalistici non solo in Europa Orientale, ma anche in Europa Occidentale, dove comincia ad emergere una paura dell’integrazione e della contaminazione; paura, questa, che è l’espressione culturale di quella parte di società esclusa dalla società a rete. Ecco, dunque, un terreno dove lavorare nelle interazioni fra culture: un terreno, questo, molto moderno, che ci impone di riflettere e di individuare categorie interpretative innovative, in grado di permettere una comprensione profonda delle dinamiche relative alle culture di rete che si stanno formando e alle culture locali, che tendono disperatamente ad immobilizzare il cambiamento, ma subiscono comunque l’impatto della globalizzazione. Insomma, stiamo assistendo alla formazione di una Forma-Stato fondata sul nomadismo culturale: e ciò offre nuovo campo alla ricerca e all’analisi della società transnazionale post-moderna. Il ruolo che le tecnologie stanno assumendo 254 Stefano Bianchini da questo punto di vista, grazie alla diffusione della tecnologia informatica, così come la necessità diffusa di conoscenze multilinguistiche sono solo alcuni dei segni più evidenti di un nomadismo culturale che si diffonde. Ormai non esiste più solo la lingua nazionale, perché non c’è più una “cultura industriale”, come diceva Gellner, necessaria a diffondere strumenti cognitivi di base fra gli operai cui spettava produrre un determinato bene in serie. Oggi, noi viviamo in un contesto che va oltre a questo orizzonte, che ha bisogno di modificare radicalmente i concetti di formazione, istruzione e uso delle lingue. Di conseguenza, dialogo, comunicazione e confronto diventano strumenti essenziali al superamento dell’unicità delle identità (tipica dello Stato-Nazione) e alla diffusione di un solido convincimento secondo cui le identità si modificano, non sono fisse, non sono definite una volta per tutte, si stratificano. Come esistono, insomma, le identità regionali, così esistono quelle nazionali e transnazionali; esistono, cioè, tante forme identitarie che interagiscono simultaneamente. E tale consapevolezza necessita di trasferirsi sul piano dell’istruzione e della formazione. Queste, a mio avviso, sono le nuove frontiere della ricerca, per quanto attiene al tema del rapporto fra culture e conflitti; su tale tema si potrà lavorare insieme, con un approccio interdisciplinare, antropologi, giuristi, politologi, allo scopo di individuare quegli strumenti più efficaci in grado di aiutare la società ad adeguarsi a sé stessa. 255 Diritti umani e solidarietà attiva* ANTONIO GENOVESE Università di Bologna Dopo i tragici fatti dell’11 settembre 2001, pensando all’enorme numero di vittime, del tutto ignare e innocenti, che il terrorismo ha prodotto, mi è tornata in mente (come a molti altri, suppongo), per associazione di pensieri, la catastrofe di Bhopal, in India, dove si è verificato, nel dicembre 1984, il più grande disastro chimico-industriale che si sia mai verificato sulla terra. Nella notte fra il 2 e il 3 dicembre, una massiccia fuga di gas tossici ha fatto dai 16.000 ai 30.000 morti, in più ha prodotto gravissime conseguenze negative, durature e catastrofiche sulla vita di altre 200.000 persone. Il tragico evento delle Twin Towers è diventato per me il motivo per ripensare intensamente al tema “violenza e integralismi” e anche l’occasione per leggere articoli e libri sul terrorismo e il fondamentalismo. Per questi motivi ho affrontato il romanzo di Dominique Lapierre e Javier Moro (1997), di cui fino ad allora avevo letto soltanto qualche recensione. Dal libro e dagli episodi narrati, possono trarsi alcuni elementi di sfondo e di merito che voglio proporre qui perché mi sembra riguardino pienamente i temi che stiamo affrontando e cioè, in particolare, quello dei diritti umani connesso alla solidarietà. * L’articolo corrisponde alla trascrizione della relazione presentata al Seminario rivista dall’autore. 257 Culture e conflitto I fatti di Bhopal Una multinazionale chimica, l’Union Carbide, decide di produrre, in abbondanza e a basso costo, un insetticida-pesticida in grado di dare un importante e consistente contributo all’aumento della produzione agricola nel mondo e, quindi, anche a quella dei paesi in via di sviluppo. Il nuovo pesticida possiede anche l’ottima qualità (a differenza del micidiale DDT) di non inquinare il terreno e di non essere nocivo per gli uomini. Anzi, le ricerche sul Sevin (così si chiama il pesticida in questione) avevano preso l’avvio dagli studi di una fondazione americana con scopi benefici, nata con il fine di migliorare la produzione agricola, e per volontà di un miliardario americano che si riprometteva di sviluppare la ricerca in ambito agricolo proprio come contributo specifico alla lotta contro la fame nel mondo. William Boyce Thompson, il ricco uomo d’affari che aveva sposato la causa umanitaria, poggiava i suoi progetti filantropici su una forte fede nella scienza: lo studio delle piante (“perché e come crescono le piante, perché vegetano o prosperano, in che modo le malattie possono essere arginate e il loro sviluppo stimolato”) avrebbe potuto – secondo i suoi convincimenti – dare un contributo decisivo alla vita degli uomini su questa terra. La scoperta del Sevin sembrava – e probabilmente lo è stata davvero – un passo decisivo nella battaglia per l’aumento della produzione agricola e nella lotta contro la fame nel mondo. Però, perché il pesticida possa essere utilizzato su tutta la terra, occorre arrivare a produrne grandi quantità: e qui entra in gioco la chimica e l’industria che apparivano le chiavi decisive per risolvere anche questo complicato problema. Ma la produzione chimica richiede l’uso di sostanze altamente tossiche e velenose: allora si esportano le tecnologie verso le zone che “ne hanno più bisogno” e che sono ricche delle sostanze necessarie per la produzione, e hanno anche abbondanza di manodopera a basso costo; si arriva così a Bhopal, la capitale dello stato del Madhya Pradesh, nel cuo258 Antonio Genovese re dell’India, grande quasi quanto la Francia. Una zona piena di fascino, di foreste misteriose, dai paesaggi stupendi e incantati; non a caso Kipling vi aveva ambientato Il libro della giungla. La fabbrica – è Dominique Lapierre che ne parla – «doveva funzionare in condizioni di sicurezza e rispetto dell’ambiente tali da farne un modello industriale per tutta la vallata. I cinque livelli delle sue strutture metalliche s’innalzavano su una vasta spianata di cemento ed erano pieni zeppi di reattori, colonne di distillazione, serbatoi, torri di combustione, condensatori, forni, scambiatori, pompe, oltre che decine di chilometri di tubature, diverse per colore e grossezza, a seconda dei liquidi e dei gas trasportati. […] La Carbide aveva dotato la fabbrica di un’impressionante arsenale di sistemi di sicurezza. Non si può dire quante fossero le torri di decontaminazione e le stanze di combustione in grado di neutralizzare e bruciare grandi quantità di gas in caso di fughe accidentali» (Lapierre e Moro 1997: 65). Centinaia di valvole, di termostati, sonde termiche, manometri etc. In più: erano stati messi a punto vari piani di intervento e di evacuazione, segnalati alla popolazione con lettere-volantino che invitavano, in caso di incidente, a chiudersi in casa, tappare porte e finestre, spegnere e sigillare ventilatori e condizionatori, e a sintonizzarsi con una certa frequenza radio e/o un certo canale televisivo per avere successive e più precise istruzioni. E già qui potrebbero svolgersi alcune riflessioni sul piano dei diritti umani, forse proprio di quello fondamentale, cioè il diritto alla salute e alla vita e potrebbero svilupparsi anche amare riflessioni sui “così detti” aiuti al terzo mondo. Proviamo a individuare alcune di queste riflessioni critiche: a) le indicazioni per la sicurezza vengono date per iscritto, in situazione in cui l’analfabetismo è molto diffuso tra la popolazione civile e, soprattutto, fra quella povera che di solito circonda le periferie industriali; b) ma, anche se date a voce, che livello di comprensibilità e di attuabilità hanno queste informazioni? Che senso ha, 259 Culture e conflitto per esempio, suggerire di tapparsi in casa a gente che non dispone di luoghi chiusi in cui potersi rifugiare, che vive in baracche o all’aria aperta? oppure che non possiede né condizionatori, né tanto meno radio, né televisore con cui sintonizzarsi? Oppure che non può disporre di strumenti di aiuto come maschere, tute etc.? oppure ancora che non può fuggire, allontanandosi rapidamente dal centro attivo dell’eventuale disastro, per mancanza di mezzi e di strade adatte? C’è anche da aggiungere che, in realtà, l’Union Carbide non aveva fatto tutto quello che avrebbe potuto fare in tema di sicurezza: per esempio, si è rilevato dopo l’incidente che non aveva reso noto né gli studi sulla carica cancerogena dei suoi prodotti, né le ricerche sui danni che i gas tossici potevano procurare se inalati in medie e grandi quantità; ma, soprattutto, la multinazionale non rese pubblica l’esistenza di un “banale” antidoto contro il gas fatale; dice Lapierre: «Un’iniezione di tiosolfato di sodio poteva, in certi casi, neutralizzare gli effetti mortali del cianuro d’idrogeno. La Carbide non aveva ritenuto necessario includere questo dato nella sua documentazione sul Mic» (Lapierre e Moro 1997: 64), elemento necessario per la produzione del pesticida. Ma ammettiamo pure (solo per un attimo, però!) che la multinazionale Union Carbide abbia fatto tutto ciò che poteva realisticamente fare in quella situazione; che abbia organizzato la migliore prevenzione possibile; che abbia dato le informazioni necessarie, corrette e sufficienti; che abbia previsto piani di emergenza adeguati e compatibili con la realtà sociale nella quale operava (cose che in realtà non sono avvenute affatto!). Ammettiamo pure tutto ciò; e tuttavia il caso di Bhopal a me pare dimostri che c’è, comunque, qualcosa che non funziona, e che questo qualcosa risiede nella radice stessa del paradigma che porta alla costituzione di questi processi di “trasloco produttivo”, spesso mascherati da intenzioni filantropiche. In ogni caso, si affronta un’avventura, si fronteggiano gli eventi, sapendo di correre un rischio enorme: si gioca una scommessa, nella consapevolezza che un evento tragico e 260 Antonio Genovese catastrofico può realizzarsi comunque; che esso ha un forte grado di probabilità di realizzazione, in qualche punto della catena produttiva, anche quando si è tenuto conto di tutti i possibili accorgimenti tecnologici e industriali. Questo a me pare un punto decisivo intorno a cui far ruotare le riflessioni e le iniziative legate ai diritti umani: il caso di Bhopal dimostra che c’è, nei fatti e nel pensiero, una tendenza (purtroppo oggi vincente) a collegare il rischio con il possibile sviluppo. Il rischio viene consapevolmente esportato insieme agli strumenti e alle tecnologie; anzi, i fattori di rischio aumentano enormemente su due piani estremamente connessi: 1) sul piano della gestione di tecnologie complesse e su quello della relativa prevenzione, a causa delle minori competenze scientifiche e tecnologiche presenti nei paesi in cui si è decentrata la produzione; 2) sul piano degli interventi che seguono l’evento catastrofico, a causa delle difficoltà pratiche, della mancanza di mezzi di intervento e tecnologie adeguate, e a causa dell’insufficienza di competenze richieste per la riduzione dei danni e la salvaguardia delle persone e dell’ambiente: per esempio a Bhopal migliaia di persone hanno continuato a vivere mangiando prodotti della terra altamente tossici e i bambini hanno continuato a giocare nelle acque tossiche. In sostanza, credo si possa dire che, insieme alle tecnologie, noi non esportiamo solo i modelli di produzione e i conseguenti stili di vita e di consumo che modificano enormemente le società tradizionali, ma diffondiamo – ormai consapevolmente – anche la cornice che regola alla base le relazioni fra scienza, tecnologia, produttività, società. Credo che, su questo piano, sarebbe necessaria un’acquisizione collettiva che arrivi a mettere in discussione il patto che si è realizzato fra scienza e industria e permetta di costruire la consapevolezza intorno ai parametri necessari al contesto all’interno del quale possono maturare i diritti umani fondamentali. Un elemento decisivo in questa direzione potrebbe nascere, a mio parere, dall’idea che “il rischio non è esportabile”, e cioè che finanche il rischio, quando non può essere ragione261 Culture e conflitto volmente eliminato del tutto, deve essere condiviso, deve diventare oggetto di vigilanza collettiva (soprattutto di chi possiede gli strumenti per identificarlo) per arrivare a sviluppare una cultura della cautela. Una cultura che stabilisca che le relazioni fra gruppi, fra culture, fra popoli diversi devono avvenire su base paritaria e di reciprocità. Da questo punto di vista i diritti umani chiamano direttamente in campo la solidarietà vigile e rispettosa fra gli esseri viventi. Un altro esempio: il Diario di Zatla In un testo pubblicato qualche anno fa (1997), Hugh Cunnigham riporta un brano del diario di Zatla, una bambina di undici anni, scritto nel 1992 durante l’assedio di Sarajevo: «NOIA! SPARI! BOMBARDAMENTI! MORTI! DISPERAZIONE! FAME! INFELICITÀ! PAURA! Questa è la mia vita! La vita di un’innocente scolara di undici anni! Una scolara senza scuola, senza divertimento e l’eccitazione della scuola. Una bambina senza giochi, senza amici, senza il sole, senza gli uccelli, senza la natura, senza la frutta, senza cioccolata né caramelle, con solo un po’ di latte in polvere. In poche parole una bambina senza infanzia» (Cunnigham 1997: 7). Sono le parole di una bambina che guarda la violenza che la circonda e che addirittura blocca ogni immagine positiva, toglie qualsiasi caratteristica gioiosa all’esistenza e perfino alla stessa immaginazione infantile, induce la messa in atto di meccanismi cognitivi chiusi, orientati alla sopravvivenza e alla solitudine. Dice Canningham a questo proposito: «Zatla aveva le idee chiare riguardo agli ingredienti dell’infanzia: innocenza, scuola, divertimento, giochi, amici, natura, dolci. Privati di tutte queste cose, lei e i suoi amici non potevano “essere bambini”. Per Zatla un bambino non era solo una persona da zero a, diciamo, quattordici anni; un bambino poteva essere veramente tale se aveva ‘un’infanzia’». Vorrei utilizzare a mia volta le “idee chiare” di Zatla nei confronti della specificità dell’infanzia per mettere in evidenza che alla sua infanzia, insieme alla scuola e agli amici, è 262 Antonio Genovese stato sottratta qualche altra cosa, e cioè un altro diritto fondamentale, strettamente legato all’istruzione, quello alla pluralità, al vivere in un contesto in cui ci sia una scuola per tutti, ricca della varietà di contenuti, culturali e religiosi, di cui l’infanzia è prezioso contenitore, quel diritto che era già stato “affermato” cinquant’anni fa, dalla Dichiarazione e ribadito oggi dalla Convenzione internazionale sui diritti dell’infanzia. Quel diritto alla libertà e alla pluralità che vedo oggi fortemente messo in discussione almeno in due occasioni importanti che riguardano direttamente i processi formativi: a) da un lato, la presenza di bambini migranti nella scuola, nei cui confronti non sempre si applica il riconoscimento del loro diritto di appartenenza alla propria cultura, il diritto a vivere in culture diverse; (occorrerebbe qui, però, aggiungere che molto di quel che si è realizzato, lo si è fatto grazie ai cambiamenti che si sono prodotti nella legislazione internazionale; nel caso dell’istruzione, grazie alla Convenzione internazionale dell’infanzia che non ha più, per fortuna, soltanto un alto valore morale e programmatorio, ma, per i paesi che la sottoscrivono, ha valore di legge); b) con l’introduzione della Legge Bossi-Fini, che fine faranno i diritti di quei bambini figli, per esempio, di immigrati clandestini? Quale diritto sarà più “forte” quello legato all’espulsione del genitore o il diritto del bambino a vivere una vera infanzia? Per concludere. Il poeta Evtushenko, in un recente articolo apparso anche in Italia (2001), narra di un episodio accaduto in Cecenia, dove – come è noto – lo scontro per motivi nazionalistici e religiosi è così forte che ha generato una guerriglia violenta e un’altrettanto feroce repressione, prima sovietica e, poi, russa. «Immaginatevi dei soldati russi, poco più che ragazzi, di uno stesso villaggio – racconta lo scrittore - che si stringono impauriti l’uno all’altro in una tenda di tela catramata, fredda, da qualche parte sperduta nelle montagne della Cecenia. I ceceni per loro sono alieni. Due giovani ceceni, anch’essi di uno stesso vil263 Culture e conflitto laggio, si avvicinano strisciando alla loro tenda. Anche per loro i soldati che dormono nella tenda sono alieni, anche se poco tempo prima tutti e quattro erano cittadini della stessa nazione […] Uno dei giovani soldati esce dalla tenda, si allontana di poco fino al primo cespuglio basso. Il secondo soldato si sveglia e non trovando il compagno a fianco, stiratosi dolcemente, esce. E improvvisamente inciampa nella testa insanguinata del suo compaesano, del suo amico d’infanzia, tagliata da un pugnale ceceno.» Come può reagire l’amico e compagno del soldato barbaramente sgozzato? Cercherà certamente di vendicare la sua morte e di portare lutto e dolore ad altre famiglie stroncando altre giovani vite. In quelle situazioni, l’odio diventa padrone dei sentimenti e dei comportamenti e la risposta più logica, forse unica, appare la vendetta, anche se cieca. Tutti i nemici diventano altrettanti colpevoli, non importa più se abbiano o no la divisa, se siano o no combattenti; tutti sono meritevoli della stessa punizione: la morte. Eppure, in questo clima feroce e funebre, in un villaggio ceceno, a quaranta chilometri da Groznyj, c’è il villaggio di Starogladovskaja, dove, racconta ancora Evtushenko, «si trova l’unico monumento intatto a un russo, Lev Tolstoj, che fece qui il servizio militare. Una famiglia cecena, che ha solo un piccolo fucile da caccia, difende il museo del grande scrittore. Né il villaggio, né il museo sono stati toccati. “Non si può fare la guerra dove c’è Tolstoj […]” dice il capo della famiglia che difende il museo. Forse all’umanità servono oggi grandi uomini, le cui parole possano fermare l’odio, come le parole di Tolstoj? Sopra la terra non volano solo gli aerei dei terroristi. Anche le cicogne volano nonostante tutto»1. La storia del razzismo ha messo in evidenza che, come per la coscienza dell’uomo greco antico non c’era contraddizione tra la sua idea di libertà e lo svolgimento della propria vita basata in gran misura sull’esistenza degli schiavi, così per la coscienza borghese (e anche intellettuale) moderna non c’è stata contraddizione tra la propria idea di individuo corredato di diritti inalienabili e l’esistenza, il possesso e lo sfruttamento 264 Antonio Genovese degli schiavi e di popolazioni ritenute primitive. Inoltre, questi stessi studi hanno fatto emergere che l’idea di progresso è arrivata in soccorso a giustificare l’esistenza di questa dicotomia (padrone/schiavo): per negare l’umanità dello schiavo o del “negro” o del selvaggio, arriva l’idea “scientifica” della superiorità che deriva dal progresso culturale, scientifico ed economico di cui il bianco è protagonista, che troverà il proprio completamento nell’evoluzione genetica della specie, nella selezione “naturale”. Ma come si potevano conciliare la proprietà di esseri umani e il preteso diritto di eredità della condizione schiavile (unico “bene” trasmissibile, in schiavitù, da padre in figlio è proprio la condizione di schiavo) con la contemporanea richiesta – che cresceva nelle ideologie antiaristocratiche – di soppressione dei privilegi ereditari? Come poteva coesistere l’attribuzione di un valore sociale forte legato ai meriti dell’individuo – che aumentava con il nascente capitalismo – con la negazione di qualsiasi diritto ai “selvaggi” e ai “negri”? Come si poteva essere fratelli in fede, essere in comunione spirituale e vivere in realtà separate, create dalla discriminazione razzista? Eppure queste idee, apparentemente inconciliabili, hanno continuato a convivere nel cuore della cultura che si elaborava in Europa e sono arrivate fino al razzismo violento e crudele che si è sviluppato con il fascismo e il nazismo, e fino alla separazione razziale. Oggi potremmo chiederci: come fanno a coesistere idee di democrazia, di progresso e di sviluppo economico e sociale con la distruzione di centinaia di migliaia di individui, donne, bambini e uomini, con la distruzione degli animali e della natura? Forse, noi tutti oggi abbiamo bisogno di un modello culturale capace di recuperare un’idea di solidarietà attiva e di collegarla strettamente ai diritti umani, di una prospettiva, cioè, che ci porti anche a riordinare i pensieri e i comportamenti, a far convivere in maniera non antagonistica scienza e coscienza, a farci sentire, in questa “guerra continua” che attraversa il mondo, impegnati ad essere anche noi, almeno un po’, i “custodi del museo di Tolstoj”, cioè soggetti che ab265 Culture e conflitto biano a cuore non solo la salvaguardia della propria identità, sociale e culturale, e del proprio benessere, ma anche – e contestualmente – la libertà e la vita degli altri. Note: 1 La frase finale di Evtushenko si riferisce al film Volano le cicogne, che rappresentò sugli schermi sovietici la lotta contro il nazismo e l’orrore della guerra. Riferimenti bibliografici Cunnigham, H., 1997, Storia dell’infanzia. XVI-XX secolo, il Mulino, Bologna Evtushenko, E., 2000, “Qualcosa dentro di noi è diventato macerie”, «la Repubblica»,16 settembre Lapierre, D., Moro, J., 2001, Mezzanotte e cinque a Bhopal, Mondadori, Milano 266 Forza del diritto o diritto della forza? GABRIELLA D’AGOSTINO Università di Palermo Le note che seguono si iscrivono in un contesto di riflessione, condotta da più parti e a diversi livelli, su una questione centrale in questo momento storico. Mi riferisco alla politica americana, in particolare alla sua estensione internazionale, quale è stata portata avanti dal presidente George W. Bush. In continuità con quella inaugurata da Ronald Reagan, essa, se i suoi termini resteranno invariati, avrà, come ha già avuto, esiti determinanti sugli assetti futuri del mondo. Non si può non tenerne conto riguardo a un tema come quello discusso in questa sede. La politica di Bush si ispira, come è noto, a una linea di pensiero di alcuni intellettuali neoconservatori che Tzvetan Todorov preferisce chiamare neofondamentalisti. Essi infatti «non intendono difendere l’ordine delle cose quale esso è, fondato sulla gerarchia, la tradizione e una visione pessimistica della natura umana […] [ma] si richiamano a un Bene assoluto che vogliono imporre a tutti [e] questo Bene è costituito non più da Dio ma dai valori della democrazia liberale» (Todorov 2003: 28). Un saggio di questo programma è il documento ufficiale del 17 settembre 2002, relativo alla strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America (vedi Appendice dopo l’articolo). The National Security Strategy of the United States of America (d’ora in avanti NSS), pubblicato a un anno dall’attacco alle Due Torri, consta di nove capitoli dedicati a questioni relative alla politica estera e interna degli USA, preceduti da una introduzione in cui si presentano i principali punti trattati. Ogni capitolo è preceduto da una sorta di epigrafe contenente passi di discorsi tenuti da Bush nel cor267 Culture e conflitto so del 2002 in diverse occasioni ufficiali1. L’interesse di questo testo risiede nella retorica utilizzata a sostegno di un discorso che procede per proclami in termini autoreferenziali. A parte l’esordio («La grande lotta nel XX secolo tra libertà e totalitarismo si è conclusa con una decisiva vittoria delle forze della libertà e un unico modello sostenibile per il successo nazionale: libertà, democrazia e libera impresa») che contrappone un valore astratto, la libertà, a un sistema politico, il totalitarismo, quale esito concreto e storicamente fallito di un programma di emancipazione sociale ispirato a nobili ideali, a una prima lettura il grado di generalità delle proposizioni è tale che in linea di principio è difficile essere in disaccordo con quanto il testo si propone. Il problema risiede però, in primo luogo, nel fatto che gli Stati Uniti derivino la loro “missione” dalla “posizione di incommensurabile forza militare e di grande influenza economica e politica”, dal fatto di possedere “una forza e un’influenza nel mondo senza precedenti e ineguagliata” e dal fatto di essere sostenuti “dalla fede nei principî della libertà e nel valore di una società libera” che conferisce loro “incomparabili responsabilità, obblighi e opportunità”. In realtà per l’Occidente programmi di questo genere non costituiscono una novità, e neppure i mezzi con cui si intendono perseguire i loro obiettivi: gli ideali della Rivoluzione francese “sulla punta delle baionette” dei reggimenti di Napoleone, le imprese coloniali del XIX (e perché no quelle precedenti), la rivoluzione comunista del XX secolo sono alcuni degli esempi più recenti cui è possibile far ricorso. In ciascuno di essi, «l’ideale e la potenza, ogni volta, sono l’uno garanzia dell’altra» (Todorov 2003: 30). Posto che la “missione” che il governo americano si è data possa considerarsi legittima, non si può non osservare l’evidente scarto tra quanto viene sostenuto da una tensione etica e quanto di fatto, nella concreta realtà storica, questo popolo “eletto” ha realizzato. Nel capitolo secondo si afferma che «gli Stati Uniti devono difendere la libertà e la giustizia perché questi principî sono giusti e veri per chiunque dappertutto. […] L’America deve sostenere fermamente la 268 Gabriella D’Agostino non negoziabile richiesta di dignità umana, il ruolo della legge; i limiti sul potere assoluto degli stati; la libertà di parola; la libertà di culto; una giustizia equa; il rispetto per le donne; la tolleranza religiosa e etnica; e il rispetto per la proprietà privata». Il problema è però: quanti, tra gli interlocutori che l’apparato governativo americano (e non solo quello attuale) ha privilegiato, più o meno apertamente, possono essere assunti a campioni di quei diritti di cui gli Stati Uniti si dichiarano paladini? Gli esempi del Congo/Zaire e dell’appoggio a Mobutu SeseSeku, del Brasile e del sostegno al colpo di stato contro Joao Goulart, dell’Indonesia e del generale Suarto, e forse anche della Cambogia, dalla fine degli anni Sessanta e dell’appoggio a Pol Pot sono solo alcuni degli atti che è difficile leggere sullo sfondo della difesa di quei principî “giusti e veri”. Per non dire poi dei più recenti rapporti con la Cina, “la nostra dittatura preferita”, come viene definita da Michael Moore (2003), o del rapporto privilegiato con gli Emirati Arabi. Richiamare questi esempi diventa ancora più significativo quando, nel documento che stiamo considerando, si leggono affermazioni di questo tenore: «Quando vediamo processi democratici affermarsi a Taiwan o nella Repubblica di Corea e leader democraticamente eletti rimpiazzare generali in America Latina e in Africa, vediamo esempi di come sistemi totalitari possano evolversi sposando la storia delle tradizioni locali con i principî che tutti amiamo» (NSS, cap. II). In questioni di politica internazionale – si potrebbe osservare – non c’è posto per considerazioni di ordine morale. Lo stesso Todorov, pur tentato di esprimere una condanna di ordine morale a una politica fondata sulla esclusiva superiorità di potenza, si trattiene dal farlo e pone piuttosto una questione di ordine politico e cioè se la strategia perseguita dal Governo americano, la creazione di un impero su cui fondare l’ordine internazionale, e, più in particolare, la guerra preventiva possano davvero rappresentare il mezzo migliore per difendere la sicurezza e gli interessi dell’America. Pur se la riflessione di Todorov può in linea di principio essere corretta, bisogna tuttavia osservare che è lo stesso Bush ad avanzare la questione 269 Culture e conflitto morale. In un discorso tenuto a New York l’1 giugno del 2002 ha così dichiarato: «Alcuni si preoccupano che sia non diplomatico e maleducato parlare il linguaggio di giusto e sbagliato. Non sono d’accordo. Circostanze diverse richiedono metodi diversi, ma non moralità diverse» (NSS, cap. II). D’altro canto, Bush ha espresso in modo non equivoco quali caratteristiche deve avere la strategia del suo Governo: «La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti si baserà su un internazionalismo peculiarmente americano che rifletta l’unione dei nostri valori e dei nostri interessi nazionali. Il fine di questa strategia è di aiutare a rendere il mondo non solo più sicuro ma migliore» (NSS, cap. I). Ci troviamo dunque in presenza di un testo che pretende di definire le linee programmatiche di una strategia politica travestendola con abiti non adatti all’occasione. Intanto, i valori nel cui nome si agisce sono posti in modo così assoluto che non c’è prezzo che non possa essere pagato perché l’obiettivo sia raggiunto. Religioni laiche che promettono “soluzioni finali” possono essere, come si sa, estremamente pericolose. Come ha osservato Isaiah Berlin (1994), ragionando, tra l’altro sull’idea di Stato perfetto e sul valore delle utopie come guide al comportamento: «L’idea stessa di una soluzione finale non è soltanto impraticabile, ma – se vedo bene, e se tra alcuni valori il conflitto è inevitabile – è anche incoerente. La possibilità di una soluzione finale – anche a voler scordare il senso terribile che questa espressione assunse al tempo di Hitler – si dimostra un’illusione; e assai pericolosa, per giunta. Infatti, se veramente si crede che una tale soluzione sia possibile, è chiaro che nessun prezzo sarebbe troppo alto, pur di ottenerla: arrivare a una umanità giusta, creativa e armoniosa, arrivarvi una volta per tutte, per sempre – quale costo potrebbe essere troppo alto di fronte a questo traguardo? Se questa è l’omelette, non c’è limite al numero di uova che si devono rompere – era questa la fede di Lenin, di Trockij, di Mao e, per quel che ne so, di Pol Pot. Se io so qual è l’unica strada vera per arrivare alla soluzione ultima dei problemi della società, so anche da che parte devo spingere la carovana umana; e poiché voi ignorate quello che io so, a voi non può essere concessa li270 Gabriella D’Agostino bertà di scelta. Voi sostenete che una data politica vi renderà più felici o più liberi o vi farà respirare meglio; ma io so che siete in errore, io so quello di cui avete bisogno; e se c’è qualche resistenza, ispirata dall’ignoranza o dal rancore, la resistenza deve essere spezzata e centinaia di migliaia di esseri umani possono anche perire perché milioni di esseri umani siano felici in eterno. Che scelta abbiamo, noi che conosciamo la conoscenza, se non quella di volere il loro sacrificio? […] Se il vostro desiderio di salvare l’umanità è serio e sincero, dovete indurire il cuore e non fare il calcolo dei costi». (Berlin 1994: 36-37). Non si può ovviamente assimilare la politica di regimi totalitari, e di altri fondamentalismi, a quella della democrazia americana. C’è tuttavia un rischio sotteso in questa forma di democrazia quando i suoi massimi vertici, utilizzando una certa retorica che pretende di affermare valori assoluti, spaccia una scelta di natura economico-politica per una opzione etica e ideale. Tutto sommato, non è sulla base di una tensione etica di questa natura, per restituire la libertà a un popolo oppresso, che è stata condotta la guerra al dittatore Saddam Hussein? La indiscutibile brutalità del regime iracheno sembrerebbe tuttavia una scoperta recente, da parte del Governo americano, a dispetto dei suoi trent’anni di vita. Se poi, con abilissimi salti logici, servendosi di menzogne insostenibili e sfruttando l’ondata emotiva della tragedia delle Due Torri, si riesce a convincere la gente che c’è un filo diretto tra Saddam e la rete di Al-Qaeda e che il dittatore costituisce una minaccia concreta per la sicurezza americana e internazionale 2, la guerra diventa non solo legittima, non solo preventiva, ma persino umanitaria come lo sono le sue bombe. Quanto queste ultime provocano diventa così un aspetto, inevitabile, dei cosiddetti danni collaterali. Ora, il capitolo V del NSS è incentrato sul concetto di guerra preventiva. In esso leggiamo: «I concetti tradizionali di deterrenza non funzioneranno contro un nemico terrorista le cui tattiche consistono nel- 271 Culture e conflitto la distruzione sfrenata, che ha come obiettivo degli innocenti, i cui cosiddetti soldati cercano il martirio nella morte e la cui più potente protezione è la mancanza di uno stato. La sovrapposizione tra gli stati che appoggiano il terrore e quelli che cercano di procurarsi armi di distruzione di massa (WDM) ci spinge all’azione. Per secoli, la legge internazionale ha riconosciuto che le Nazioni non debbano subire un attacco prima di poter reagire legalmente per difendersi contro forze che rappresentino un imminente pericolo. Studiosi di legge e giuristi internazionali spesso hanno ritenuto che la condizione per la legittimità della prevenzione fosse la presenza di una minaccia immediata: nella maggior parte dei casi, una visibile mobilitazione di eserciti, flotte e forze aeree che si preparavano ad attaccare. Dobbiamo adattare il concetto di minaccia imminente alle capacità e agli obiettivi degli avversari di oggi. Gli stati canaglia e i terroristi non cercano di attaccarci usando mezzi convenzionali. Sanno che tali attacchi fallirebbero. Si affidano invece ad atti di terrore e potenzialmente a WMD, armi che possono essere facilmente nascoste e usate senza preavviso. […] Gli Stati Uniti hanno a lungo conservato l’opzione di azioni preventive per contrastare una significativa minaccia alla nostra sicurezza nazionale. Maggiore è la minaccia, maggiore il rischio dell’inazione e più impellenti le ragioni per avviare un’azione preventiva per difenderci, nonostante rimanga incerto il tempo e il luogo dell’attacco nemico. Per prevenire e impedire questi atti ostili da parte dei nostri nemici, gli Stati Uniti agiranno, se necessario, preventivamente. Gli Stati Uniti non useranno la forza in ogni caso per prevenire minacce emergenti né le nazioni dovrebbero usare la prevenzione come pretesto per l’aggressione. Tuttavia, in un’epoca in cui i nemici della civiltà, apertamente e attivamente, ricercano le tecnologie più distruttive gli Stati Uniti non possono rimanere inerti mentre il pericolo monta». Il Capitolo così si conclude: «Il proposito della nostra azione sarà sempre di eliminare una minaccia specifica agli Stati Uniti o ai nostri alleati o amici. Le ragioni delle nostre azioni saranno chiare, la forza misurata, la causa giusta». 272 Gabriella D’Agostino L’establishment americano ha dunque sentito l’esigenza di regolare una materia così nuova e sfuggente, individuando principî certi conformi al diritto internazionale. Nel documento, come abbiamo visto, non si fa alcun riferimento alla possibilità che l’esportazione della democrazia passi attraverso la guerra. Se la democrazia, come si legge in più passi del NSS, è rispetto delle regole, del diritto, della legalità, e deve essere perseguita con mezzi pacifici, essa non può poi essere contraddetta da chi non solo dichiara di combattere nel suo nome e per la sua affermazione ma addirittura, facendo coincidere la guerra per la democrazia con la guerra preventiva di attacchi terroristici, viola le norme stesse che ne regolano la “legittimità”. Pur ammettendo cioè la legittimità della “guerra preventiva”, secondo l’interpretazione di Bush del diritto internazionale, il Presidente contraddice e viola quelle norme, compiendo un atto doppiamente illegittimo: perché non è previsto dal diritto internazionale che la democrazia si esporti con la guerra e perché la guerra all’Iraq non rientrava nella casistica che lo stesso diritto internazionale ha previsto. Se la democrazia è il fine, i mezzi con cui perseguirla non possono contraddire il fine stesso. Se assumiamo gli Stati Uniti a modello della democrazia occidentale, pur sempre perfettibile, non possiamo accettare che i valori nel cui nome si pretende di agire (e di combattere) vengano mortificati, dalla concreta prassi, agendo illegalmente e contravvenendo a norme democraticamente individuate come legittime. Vengono in mente le parole di Alessandro Manzoni nelle prime pagine della Storia della Colonna Infame: «Ma quando, nel guardare più attentamente a que’ fatti, ci si scopre un’ingiustizia che poteva esser veduta da quelli stessi che la commettevano, un trasgredir le regole ammesse anche da loro, dell’azioni opposte ai lumi che non solo c’erano al loro tempo, ma che essi medesimi, in circostanze simili, mostraron d’avere, è un sollievo il pensare che, se non seppero quello che facevano, fu per non volerlo sapere, fu per quell’ignoranza che l’uomo assume e perde a suo piacere, e non è una scusa, ma una colpa; e che di tali fatti si può bensì essere forzatamente vittime, ma non autori»3. 273 Culture e conflitto Il NSS fa spesso riferimento all’importanza, per la stabilità internazionale, di dare forma a un “equilibrio di poteri”, così come insiste sulla necessità di coordinarsi con i gli Stati alleati e amici. Nel capitolo V appena citato anzi è detto espressamente che, a proposito del pericolo di attacchi terroristici, questo coordinamento ha lo scopo di individuare insieme “le minacce più pericolose”. C’è da chiedersi di che tipo di equilibrio si tratti dal momento che a stabilire il “peso” è sempre uno solo dei poteri, la nazione che possiede “una forza e un’influenza nel mondo senza precedenti e ineguagliata”. Per limitarsi a fare un esempio che riguarda eventi recentissimi e che, tutto sommato, non ha avuto effetti significativi vista la ricomposizione in atto, è appena il caso di ricordare il “disappunto” con cui il Governo americano ha reagito alle prese di posizione di Francia e Germania riguardo all’intervento in Iraq4. Pur dicendo a chiare lettere che gli Stati Uniti non avrebbero «esitato ad agire da soli, se necessario, per esercitare il […] diritto all’autodifesa, agendo preventivamente» contro il terrorismo (NSS, cap. III, p. 6), ha comunque cercato di ottenere un consenso internazionale. La lista dei Paesi della coalizione è interessante. Possiamo raggruppare gli Stati che ne fanno parte in due gruppi. Il primo comprende: Afghanistan, Albania, Azerbaijan, Bulgaria, Colombia, Repubblica Ceca, El Salvador, Eritrea, Estonia, Etiopia, Georgia, Ungheria, Corea del Sud, Lettonia, Lituania, Macedonia, Nicaragua, Filippine, Polonia, Palau, Romania, Slovacchia, Turchia, Uzbekistan. Diciamo che si tratta di Stati i cui problemi interni di sviluppo li pongono in posizione subordinata rispetto alla potenza americana. Alcuni tra essi, per esempio quelli facenti parte dell’ex blocco dell’Unione Sovietica, cercano di trovare una collocazione a livello internazionale rispetto all’Unione Europea o rispetto alla Nato; altri hanno contratto debiti nei confronti degli Stati Uniti per vicende legate ai loro assetti politici. Del secondo gruppo della coalizione fanno parte: Australia, Danimarca, Giappone, Italia, Spagna, Regno Unito. A dispetto dei sondaggi interni, che davano la maggioranza della popolazione contraria all’intervento armato in Iraq, i Governi di 274 Gabriella D’Agostino questi Paesi, per ragioni di “lealtà”, per “storiche alleanze”, per ragioni economiche (nel caso dell’Australia, per esempio, il premier John Howard è stato allettato dalle promesse di libero scambio con gli USA), hanno determinato di aderire alla coalizione. In termini percentuali, come osserva Moore (2003: 94), l’intero gruppo della coalizione rappresenta il 20% della popolazione mondiale. Per completezza, la lista dei Paesi che non hanno aderito alla coalizione comprende: Algeria, Argentina, Austria, Belgio, Brasile, Canada, Cile, Cina, Cuba, Egitto, Finlandia, Francia, Germania, Grecia, India, Indonesia, Iran, Irlanda, Israele, Giordania, Messico, Nuova Zelanda, Nigeria, Norvegia, Pakistan, Russia, Sud Africa, Svezia, Svizzera, Siria, Thailandia, Emirati Arabi, Venezuela, Vietnam, Yemen, Zambia, Zimbabwe e altri 103 Stati (Moore 2003: 94). La strategia per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti d’America ha dunque come obiettivo di rendere il mondo migliore, operando in modo che la libertà diventi un valore prioritario per tutti. Non è in discussione il principio, è però da osservare che il NSS non è un testo di filosofia politica ma un programma di politica interna e internazionale; non si comprende, pertanto, perché a farsi carico di questa impresa debbano essere gli Stati Uniti e secondo quali criteri essi individuino, di volta in volta, il contesto in cui realizzare una tappa del loro programma mondiale. Le grandi imprese coloniali del passato sono state caratterizzate, tutto sommato, da progetti altrettanto ambiziosi: estendere a un numero quanto più possibile ampio di individui la parola di Cristo, la civiltà, il progresso, beni sommi elargiti, a seconda del momento storico, tutti insieme o separatamente. Che l’esportazione della libertà sia la versione più recente di programmi appartenenti a una medesima matrice ideologica mi sembra suggerito, tra l’altro, dal fatto che l’unica strada perseguibile affinché il mondo diventi migliore debba passare attraverso l’assunzione di un preciso modello economico. Il libero mercato e il libero commercio, secondo il documento, costituiscono la via maestra che porterà gli Stati alla libertà – dalla fame, dal bisogno, dalle malattie da cui si può guarire – e i loro popoli a essere liberi. 275 Culture e conflitto Molti esperti di dottrine economiche potrebbero spiegare, con autorevolezza, quali sono le conseguenze socialmente rilevanti di una politica economica liberista applicata in modo “ingegneristico”5 e potrebbero anche mostrare qualche esempio di come il passaggio dal liberismo economico alle libertà individuali non sia così scontato e pacifico ma che, casomai, il percorso dovrebbe essere concepito in senso inverso. Quanto è espresso nel NSS potrebbe, nella migliore delle ipotesi, essere considerato l’esempio più autorevole della posizione dell’“inguaribile ottimista”, per usare l’espressione di Amartya Sen (2002: 12), se non fosse chiaro che la questione della libertà è molto più complessa di quanto la pur sottile e raffinata riflessione sul concetto da parte dello stesso pensiero di matrice liberale non abbia inteso6. Per non dire poi dell’infondatezza che valori quali la libertà, la democrazia, la giustizia, l’uguaglianza, pur essendo tutti positivi non sono compatibili l’uno con l’altro se intesi in senso assoluto. Come ha osservato Berlin: «Se non siamo armati di una garanzia a priori della verità dell’asserzione che si deve poter trovare da qualche parte un’armonia di valori veri – forse in qualche regno ideale le cui caratteristiche noi, nella nostra finitezza, non possiamo neanche immaginare – dobbiamo piegare sulle comuni risorse dell’osservazione empirica e sull’ordinaria conoscenza umana. E queste non ci autorizzano certamente a supporre (o persino a capire che cosa si potrebbe intendere dicendo) che tutte le cose buone […] si possono conciliare. Il mondo in cui ci imbattiamo nell’esperienza ordinaria ci pone di fronte a una scelta tra fini ugualmente ultimi ed esigenze ugualmente assolute, la realizzazione di alcuni dei quali implica necessariamente il sacrificio di altri. […] la nozione di libertà nel suo senso “positivo” si trova al centro delle richieste di autogoverno nazionale o sociale, che anima i movimenti pubblici più potenti e moralmente più giusti del nostro tempo e […] non rendersene conto vuol dire non capire i fatti e le idee più vitali della nostra epoca. Ma ugualmente mi sembra che la credenza che sia possibile in linea di principio trovare un’unica formula grazie a cui si possono realizzare armoniosamente tutti i diversi fini degli uomini sia dimostrabilmente falsa. […] 276 Gabriella D’Agostino Il grado di libertà di una persona o di un popolo nella scelta di una vita conforme ai propri desideri dev’essere valutato mettendolo a confronto con le esigenze di molti altri valori, dei quali gli esempi più ovvi sono l’uguaglianza, la giustizia, la felicità, la sicurezza o l’ordine pubblico. Per questa ragione, tale libertà non può essere illimitata. […] Il pluralismo, con la quantità di libertà “negativa” che esso comporta, mi sembra un ideale più vero e più umano […] Assumere che tutti i valori possano essere disposti su un’unica scala, in modo tale che una semplice ispezione possa stabilire quale si trova più in alto, equivale secondo me a falsificare la nostra consapevolezza del fatto che gli uomini sono agenti liberi e a rappresentare la decisione morale come un’operazione che può essere eseguita su un regolo calcolatore. Dire che in una sintesi finale, in cui tutto si concilierebbe e che pure sarebbe realizzabile, il dovere è l’interesse e la libertà individuale è la pura democrazia o uno stato autoritario è come gettare una coperta metafisica su una frode ai propri danni o su una deliberata ipocrisia». (Berlin 2000: 72-76). C’è ancora un’altra questione su cui riflettere connessa all’esportazione della democrazia. La rivendicazione della matrice occidentale del concetto è una spia significativa della prospettiva a partire da cui una parte di mondo continua a pretendere di leggere la storia del mondo. Tuttavia, le stesse posizioni più aperte e sensibili che si schierano non tanto contro il progetto democratico quanto contro la sua imposizione sulla base della forza esterna e non di un processo interno che matura un consenso, sono vittime della stessa logica “occidentalocentrica”. La denuncia della illegittimità dell’esportazione della democrazia in quanto imposizione di valori e costumi occidentali a società con tradizioni e costumi diversi, finisce – al di là delle intenzioni dei suoi sostenitori – con il dare per scontato che l’idea sia nata in Occidente e che esso è il luogo culturalmente e storicamente determinato in cui si è sviluppata. Se la democrazia, ancor prima di essere libero esercizio di votazioni pubbliche, è “esercizio della ragione pubblica” (Rawls 1991), o “governo attraverso la discussione” (Buchanan 1954), o ancora “partecipazione popolare alla di277 Culture e conflitto scussione dei problemi di governo” (Sen 2004b), allora la discussione pubblica, il sostegno della causa del pluralismo, della diversità e delle libertà fondamentali, come ci ricorda Sen, sono presenti nella storia di molte società. Il Premio Nobel per l’economia presenta alcuni esempi storici tratti dal Medio Oriente, dall’India, dall’Africa, dall’Asia e, se si volesse ampliare l’orizzonte considerando quale germe della democrazia un potere basato sul libero consenso, anche società di interesse etnografico potrebbero costituire ulteriori esempi (Sen 2004b: 21, 13 e passim). Ecco, allora, che le riflessioni appena richiamate possono collocarsi in un più ampio orizzonte all’interno del quale la posta in gioco è il rapporto tra un’etica universalistica e il suo concreto innesto in forme di vita e culture tradizionali. Si tratta in sostanza della questione, centrale nella riflessione filosofica occidentale e ripresa – con altri strumenti – dall’antropologia, della dialettica universalismo/particolarismo, che certo relativismo sembrerebbe risolvere assimilando il primo al secondo nel senso che le filosofie, le etiche a ispirazione universalistica sarebbero forme particolaristiche di universalismo, in quanto storicamente e culturalmente determinate. Il problema è complesso e non si può liquidare in poche battute. Qui intendo suggerire qualche spunto di riflessione facendo riferimento a Hilary Putnam (1995). Putnam ragionando sulla confusione che talvolta si fa tra le nozioni di “etica universale” e “modo di vivere universale”, si chiede se essa non sia intrinseca alla cultura occidentale e allo stesso Illuminismo, fondamento della “modernità”. Il problema è stato posto, tra gli altri, ancora una volta da Isaiah Berlin il quale ha osservato: «Voltaire era in errore quando riteneva che i valori e gli ideali delle rare eccezioni illuminate in un mare di tenebra – i valori e gli ideali di un’Atene classica, di una Firenze rinascimentale, della Francia del grand siècle e dell’età in cui lui stesso viveva – fossero pressoché identici» (Berlin 1994: 30) 278 Gabriella D’Agostino E commenta in nota: «Voltaire concepisce le lumières come un fenomeno che ha gli stessi tratti dovunque si produca; e la sua concezione sembra portare all’inevitabile conclusione che Byron sarebbe stato felice di sedersi a tavola con Confucio, che Sofocle si sarebbe sentito perfettamente a suo agio nella Firenze del Quattrocento, e Seneca nel salotto di Madame du Deffand o alla corte di Federico il Grande». (ibid) Putnam, pur consapevole che una cosa è porre la questione dei principî etici giusti, un’altra è ritenere che essi debbano concretizzarsi nella forma di una “società ideale” o “maniera di vivere ideale”, osserva che i due schemi tendono però a contrapporsi (Putnam 1994: 184). Questa sovrapposizione può portare a risolvere il problema secondo la visione per cui se «l’idea di modo di vivere universale è una cattiva idea, anche quella di etica universale lo è» (Putnam 1994: 188). C’è però una alternativa a questa prospettiva. Berlin, che condanna esplicitamente l’assolutismo morale e ritiene, come abbiamo visto, incoerente e impraticabile, l’idea di soluzione finale, fa una riflessione interessante. Essa può costituire un buon argomento contro il relativismo, pur salvandone le sue buone intenzioni. Ragionando su Vico e Herder e sul modo in cui questi due autori pongono la questione della diversità delle configurazioni sociali, del “centro di gravità” su cui ogni cultura basa il proprio “equilibrio”, Berlin, contrariamente a una lettura in termini relativistici delle posizioni di Vico e Herder, come talvolta è stato fatto, le considera invece in termini di pluralismo, una concezione per la quale: «Sono molti e differenti i fini cui gli uomini possono aspirare restando pienamente razionali, pienamente uomini, capaci di comprendersi tra loro, di solidarizzare tra loro, di attingere luce l’uno dall’altro, così come noi ne attingiamo dalla lettura di Platone o da quella dei romanzi del Giappone medioevale – mondi, mentalità così distanti da noi. Certo, se noi non avessimo nessun valore in comune con figure così remote, ogni civiltà resterebbe chiusa entro il 279 Culture e conflitto suo bozzolo impenetrabile, e a noi sarebbe preclusa ogni possibilità di comprensione […]. L’intercomunicazione tra culture diverse, oltre i confini di tempo e di spazio, è possibile solo perché ciò che rende gli uomini umani è comune a tutti e funge da ponte tra loro. Ma i nostri valori sono nostri e i loro sono loro. Noi siamo liberi di criticare i valori di altre culture, liberi di condannarli, ma non possiamo fingere di non comprenderli affatto o di considerarli semplicemente soggettivi, nient’altro che prodotti di creature di un ambiente diverso, con gusti diversi dai nostri, con le quali non c’è nulla da dirsi». (Berlin 1994: 31-32) Tendere verso e non invece assumere una particolare forma di questa tensione come la “maniera di vivere ideale”, forse potrebbe costituire il nocciolo della questione. Come Putnam, sulla base di riflessioni precedenti, suggerisce, ogni modo di vivere storico ha dei difetti e «dichiarare senz’altro perfetto un qualsiasi modo di vivere significa violare una massima che dovrebbe governare la ricerca della verità in ogni campo della vita: non ostruite il cammino dell’indagine» (Putnam 1994: 194). Porre la democrazia come “valore universale” presuppone che ci si intenda sul significato di “valore universale”. La questione non dovrebbe essere posta in modo astratto ma essere l’esito di un ragionamento di questo tipo: è possibile trovare delle obiezioni al fatto di considerare la democrazia un valore o, che è lo stesso, è possibile «stabilire se in ogni parte del mondo gli uomini possano avere ragioni sufficienti per considerarla tale?» (Sen 2004b: 67). E questo al di là del fatto che l’esercizio concreto di questa forma di governo possa lasciare a volte perplessi proprio in nome della difesa di quei principî su cui essa si fonda. Il problema allora, per riprendere Putnam: «Non è quello di dover scegliere entro un insieme di modi di vita ottimali già definito e determinato: è che non conosciamo un modo di vivere veramente ottimale. In questa situazione, abbiamo una sola scelta: cercare di riformare i modi di vita che già abbiamo, per migliorarli, e tentare modi nuovi se crediamo che siano migliori; ma questi ten280 Gabriella D’Agostino tativi non devono essere fatti a spese del diritto degli altri di tentare per conto loro. Non c’è niente di ingiusto nella scelta di chi decide di mantenersi fedele a un modo di vivere tradizionale per cercare di renderlo migliore, il più giusto, il più appagante possibile – finché quella persona non cerca di imporre quel modo di vivere a tutti gli altri. Questo è un ideale democratico, ovviamente; e però […] esso non deriva solo dall’idea di democrazia ma, a un livello più fondamentale, anche dal riconoscere che una verità degna di questo nome deve essere orientata al mondo e assoggettarsi alla discussione pubblica». (Putnam 1994: 194). Per tornare al documento da cui siamo partiti, la retorica utilizzata da Bush è definibile come “retorica della prevaricazione”. L’esempio più noto di questo genere è, come ci ricorda Umberto Eco in un recente articolo apparso su «la Repubblica» (20 maggio 2004), la favola del lupo e dell’agnello di Fedro. Se il lupo, tuttavia, “usa argomenti speciosi, la cui falsità sta sotto gli occhi di tutti”, si possono però usare argomenti più sottili, ricorrere a “un’altra forma di giustificazione della prevaricazione”. Eco ricorda il discorso di Pericle alla vigilia della guerra del Peloponneso, riportato da Tacito. Uno stupendo elogio della democrazia che tuttavia mirava a legittimare l’egemonia ateniese sulla Grecia e i Paesi vicini. Nello stesso Tacito troviamo un altro esempio di retorica della prevaricazione, che non si fonda sulla ricerca di pretesti e di casus belli ma si legittima da sé affermando “la necessità e l’inevitabilità della prevaricazione”. L’episodio riguarda il conflitto tra Sparta e Atene e il comportamento degli Ateniesi nei confronti della colonia spartana di Melo rimasta neutrale al conflitto. Ai Meli che si rifiutano di sottomettersi e vorrebbero continuare a rimanere estranei alla guerra, gli Ateniesi rispondono uccidendo tutti i maschi adulti e rendendo schiavi donne e bambini. Eco così commenta: «È lecito sospettare che Tacito, pur rappresentando con onestà intellettuale il conflitto tra giustizia e forza, alla fine convenisse che il realismo politico stesse dalla parte degli Ateniesi. In ogni caso ha messo in scena l’unica vera retorica 281 Culture e conflitto della prevaricazione, che non cerca legittimazioni fuori di sé. Gli Ateniesi semplicemente fanno un elogio della forza. Persuadono i Meli che la forza non ha bisogno di appoggiarsi alla persuasione». Bush, nel NSS e nei suoi interventi ufficiali ha oscillato tra la retorica della persuasione e quella della prevaricazione. Nell’agire ha perseguito però la seconda, facendo appello a quell’espressione spaventosamente ossimorica che è la “guerra umanitaria”. Espressione che certamente ha fatto piangere gli angeli! Note: 1 L’intero capitolo introduttivo è riportato in Appendice. I corsivi di NSS sono miei. I titoli dei capitoli sono i seguenti: “I. Lineamenti della strategia internazionale americana. II. Sostenere le aspirazioni per la dignità umana. III. Rafforzare le alleanze per combattere il terrorismo globale e lavorare per prevenire gli attacchi contro di noi e i nostri amici. IV Lavorare con gli altri per disinnescare i conflitti regionali. V. Evitare che i nostri nemici attacchino noi, i nostri alleati e i nostri amici con armi di distruzione di massa. VI. Avviare una nuova era di crescita economica globale attraverso il libero mercato e il libero commercio. VII. Espandere il circuito dello sviluppo rendendo le società aperte e costruendo le infrastrutture per la democrazia. VIII Sviluppare l’agenda per azioni di cooperazione con altri centri principali del potere globale. IX. Trasformare le istituzioni per la sicurezza nazionale americana per soddisfare le sfide e le opportunità del Ventunesimo secolo”. La traduzione è mia. 2 Oltre a tutto ciò che abbiamo sentito e letto (quotidiani, telegiornali, programmi di informazione etc.) nella fase preparatoria dell’attacco all’Iraq, Moore (2003: 72-76 e 235-236) fornisce molti dati utili. È notizia recentissima, del 17 giugno 2004, che la Commissione d’inchiesta del Congresso americano ha stabilito che non c’erano legami tra Saddam Hussein e la rete di Al-Qaeda e che pertanto l’Iraq non costituiva una specifica minaccia per gli Stati Uniti, tanto più che le presunte armi di distruzione di massa in possesso del regime iracheno non sono state trovate. A questo risultato della Commissione, Bush ha risposto ribadendo che il legame esiste e che lui ha “le sue ragioni” per affermarlo, senza fornire ulteriori spiegazioni. 3 Nell’edizione consultata (Palermo, Sellerio 1995), il passo è a p. 14. 4 A parte le reazioni ufficiali, Moore (2003: 85-90) documenta ampiamente le reazioni e le ritorsioni contro la Francia da parte di comuni citta- 282 Gabriella D’Agostino dini, alcune delle quali persino esilaranti (le french fries vengono ribattezzate freedom fries) se non fossero il segno di una adesione completa a una pesante campagna interna di cui in Europa è arrivata solo qualche eco. 5 Il termine è utilizzato dal Premio Nobel per l’economia Amartya Sen (2004: 9) per indicare, accanto a quello “etico”, uno dei due approcci che hanno caratterizzato sin dalle origini la riflessione sull’economia. Sul rapporto tra valori morali ed economia, libertà e sviluppo, anche in una prospettiva di globalizzazione, oltre al testo di Sen già citato, cfr. Sen 2002. 6 Il riferimento è ovviamente alla formulazione dei concetti di libertà “negativa” (libertà da) e libertà “positiva” (libertà di), da parte di Isaiah Berlin (2000) cui rimando per l’acuto approccio analitico e la discussione nell’ambito della filosofia politica. Riferimenti bibliografici Berlin, I., 1994, Il legno storto dell’umanità, Adelphi, Milano Berlin, I., 2000, Due concetti di libertà, Feltrinelli, Milano Buchanan, J. M., 1954, “Social Choice, Democracy and Free Markets”, «Journal of Political Economy», 62 Moore, M., 2003, Ma come hai ridotto questo paese?, Mondadori, Milano Putnam, H., 1995, Pragmatism and Relativism: Universal Values and Traditional Ways of Life, in Putnam H., Words and Life, Harvard University Press, Cambridge, Massachussetts Rawls, J., 1991, Una teoria della giustizia, Feltrinelli, Milano Sen, A., 2000, Globalizzazione e libertà, Mondatori, Milano Sen, A., 2004a, Etica ed economia, Laterza, Roma-Bari Sen, A., 2004b, La democrazia degli altri. Perché la libertà non è un’invenzione dell’Occidente, Mondadori, Milano Todorov, T., 2003, Le nouveau désordre mondial. Réflexions d’un Européen, Robert Laffont, Paris 283 Culture e conflitto Appendice The National Security Strategy of the United States of America The White House, Washington September, 17, 2002 La grande lotta nel XX secolo tra libertà e totalitarismo si è conclusa con una decisiva vittoria delle forze della libertà e un unico modello sostenibile per il successo nazionale: libertà, democrazia e libera impresa. Nel XXI secolo solo le nazioni che condividono un accordo per la difesa dei diritti umani e la garanzia della libertà politica e economica saranno capaci di liberare il potenziale del loro popolo e assicurargli la futura prosperità. La gente ovunque vuole poter parlare liberamente, scegliere i propri governanti, adorare chi desiderano, educare i propri figli, maschi e femmine, avere una proprietà e godere dei benefici del proprio lavoro. Questi valori di libertà sono giusti e veri per ognuno, in ogni società e il dovere di proteggerli contro i nemici è la comune chiamata per coloro che amano la libertà, in ogni luogo e in ogni tempo. Oggi, gli Stati Uniti godono di una posizione di incommensurabile forza militare e di grande influenza economica e politica. Tenendo fede alla nostra tradizione e ai nostri principî, noi non usiamo la nostra forza per ottenere vantaggi unilaterali. Cerchiamo invece di creare un equilibrio di poteri che favorisca la libertà degli uomini: condizione in cui ciascuna nazione e società possano scegliere per se stesse i vantaggi e le sfide della libertà politica ed economica. In un mondo sicuro, la gente sarà in grado di rendere la propria vita migliore. Noi difenderemo la pace combattendo i terroristi e i tiranni. Noi preserveremo la pace costruendo buone relazioni tra le grandi potenze. Noi estenderemo la pace incoraggiando le società libere e aperte in tutti i continenti. Difendere la nostra nazione contro i suoi nemici è il primo e 284 Gabriella D’Agostino fondamentale impegno del governo federale. Oggi quest’obiettivo è completamente cambiato. I nemici, per mettere in pericolo l’America, prima avevano bisogno di grandi eserciti e grandi capacità industriali. Oggi, reti invisibili di individui possono portare grande caos e sofferenze sulle nostre coste, per meno di quanto costa acquistare un singolo carrarmato. I terroristi sono organizzati per infiltrarsi nelle società aperte e rivolgere contro di noi il potere delle più moderne tecnologie. Per sconfiggere questa minaccia dobbiamo utilizzare gli strumenti del nostro arsenale – potere militare, migliori difese interne, far rispettare la legge, intelligence e sforzi vigorosi per tagliare i finanziamenti ai terroristi. La guerra di portata globale contro i terroristi è una impresa globale dalla durata incerta. L’America aiuterà le nazioni che hanno bisogno della nostra assistenza nella lotta al terrore. La Storia giudicherà duramente coloro che hanno visto arrivare il pericolo ma hanno rinunziato all’azione. Nel mondo nuovo in cui siamo entrati, la sola strada verso la pace e la sicurezza è la strada dell’azione. Così come difendiamo la pace, trarremo vantaggio dalla storica opportunità di preservare la pace. Oggi, la comunità internazionale ha la migliore opportunità, dalla nascita dello stato-nazione nel XVII secolo, di costruire un mondo in cui le grandi potenze possano competere in pace invece di prepararsi continuamente per la guerra. Oggi, le grandi potenze del mondo si trovano dalla stessa parte – unite dal pericolo comune della violenza e del caos del terrorismo. Gli Stati Uniti amplieranno questi interessi comuni per promuovere la sicurezza globale. Siamo inoltre sempre più uniti da valori comuni. La Russia si trova nel mezzo di una transizione promettente sulla strada di un futuro democratico ed è un partner nella guerra al terrorismo. I governanti cinesi stanno scoprendo che la libertà economica è l’unica fonte 285 Culture e conflitto del benessere nazionale. Presto capiranno che la libertà sociale e politica è l’unica fonte della grandezza nazionale. L’America incoraggerà l’avanzamento democratico e le aperture economiche di entrambe le nazioni, perché questa è la base migliore per la stabilità interna e l’ordine internazionale. Noi resisteremo con forza alle aggressioni di altre grandi potenze così come daremo il benvenuto alla loro pacifica ricerca di prosperità, commercio e avanzamento culturale. Infine, gli Stati Uniti si serviranno di questo momento opportuno per estendere i benefici della libertà dappertutto. Lavoreremo attivamente per portare la speranza di democrazia, sviluppo, libero mercato e libero commercio in ogni angolo del mondo. Gli eventi dell’11 settembre 2001 ci hanno insegnato che stati deboli, come l’Afghanistan, possono costituire un pericolo per i nostri interessi nazionali, grande quanto quello degli stati forti. La povertà non trasforma la povera gente in terroristi e assassini. Tuttavia, povertà, istituzioni deboli e corruzione possono rendere gli stati deboli vulnerabili alle reti terroriste e ai cartelli della droga entro i loro confini. Gli Stati Uniti appoggeranno qualunque nazione determinata a costruire un futuro migliore ricercando la libertà per il proprio popolo. Il libero commercio e il libero mercato hanno dimostrato la loro capacità di sollevare intere società dalla povertà; così, gli Stati Uniti lavoreranno con singole nazioni, intere regioni e con l’intera comunità del commercio globale per costruire un mondo che commerci in libertà e che, pertanto, cresca in prosperità. Gli Stati Uniti, attraverso il New Millennium Challenge Account forniranno maggiore assistenza allo sviluppo delle nazioni che governano in modo giusto, che investono nei loro popoli e che incoraggiano la libertà economica. Continueremo pure a guidare il mondo negli sforzi per ridurre la terribile piaga dell’AIDS e di altre malattie infettive. Nel costruire un equilibrio di poteri che favorisca la libertà, gli Stati Uniti sono guidati dalla convinzione che tutte le nazioni hanno importanti responsabilità. Le nazioni che godono di libertà devono combattere attivamente il terrore. Le nazioni che 286 Gabriella D’Agostino dipendono dalla stabilità internazionale devono aiutare a impedire l’espandersi delle armi di distruzione di massa. Le nazioni che cercano aiuti internazionali devono governarsi in modo saggio in modo che gli aiuti siano ben spesi. Perché la libertà prosperi, ci si deve aspettare e si deve richiedere affidabilità. Siamo guidati altresì dalla convinzione che nessuna nazione può costruire un mondo più sicuro e migliore da sola. Alleanze e istituzioni multilaterali devono moltiplicare la forza della nazioni amanti della libertà […] In ogni caso, gli obblighi internazionali devono essere presi seriamente. Non possono essere sottoscritti simbolicamente per raccogliere appoggio per un ideale senza impegnarsi per il suo raggiungimento. La libertà è la richiesta non negoziabile della dignità umana; il diritto di nascita di ogni persona, in tutte le civiltà. Storicamente, la libertà è stata minacciata dalla guerra e dal terrore; è stata sfidata da volontà contrastanti di stati potenti e dai disegni malvagi di tiranni; ed è stata messa alla prova da povertà e malattie ampiamente diffuse. Oggi l’umanità ha nelle proprie mani l’opportunità di incrementare il trionfo della libertà su tutti questi nemici. Gli Stati Uniti sono lieti della loro responsabilità nel condurre questa grande missione. 287 Diritti umani e prevenzione del conflitto. Prospettive di un’educazione ai diritti umani DANIELA SOCI Università di Bergamo Mi sento multiplo. Sono come una stanza dagli innumerevoli specchi fantastici che distorcono in riflessi falsi un’unica anteriore realtà che non è. Fernando Pessoa, Una sola moltitudine Educare ai diritti umani nella complessità Secondo quanto afferma Edgar Morin in L’identità umana il processo di planetarizzazione, che ha subìto una forte accelerazione nell’ultimo secolo, emergerebbe e si propagherebbe dalla tensione di due principî complementari e antagonisti che costituiscono quella che lui definisce “la doppia elica dell’era planetaria”: l’elica della conquista e l’elica dell’umanesimo europeo (Morin, 2002). Così mentre la prima racconta una storia di violenza, distruzione e schiavitù, perpetuate attraverso l’avidità colonizzatrice dell’occidente europeo, sempre dall’Europa si mette in movimento una seconda elica che, sviluppando in senso universalista un nuovo umanesimo che proclama ideali e valori di uguaglianza e libertà dell’uomo, arriva a costituire quel punto focale per la storia dell’umanità intera che è la dichiarazione universale sui diritti dell’uomo. La dichiarazione universale infatti rappresenta quell’evento propulsore a partire dal quale gli uomini sono chiamati a porsi il problema della convivenza civile, in base ad una concezione di umanità che travalica i confini, proiettandosi nell’orizzonte mondiale di una “terra patria” (Morin, 1994). Tralasciando per un momento il dibattito critico sull’effettiva “universalità” o “relatività” della dichiarazione uni289 Culture e conflitto versale e assumendo con Bobbio la naturale storicità dei diritti umani, si può considerare come il processo di moltiplicazione e di specificazione dei diritti testimoni il fatto che essi non sono dati una volta per tutte, tavole della legge che una potenza divina ha calato dall’alto, ma sono costruiti nelle relazioni sociali a partire da una riflessione antropologica dell’uomo sull’uomo in relazione al suo vivere nella storia (Bobbio, 1990, Callari Galli, Guerzoni, 1999). La stessa dichiarazione universale nasce in risposta ad un’esigenza forte di definire dei parametri, per la convivenza pacifica tra gli uomini, fondati sulla dignità umana, dopo che il mondo usciva dalla lacerante esperienza delle due guerre, con cuore ed occhi inorriditi dall’immagine terrificante dei campi di sterminio. Esiste dunque una sorta di dialettica tra diritti umani e bisogni, afferma Bobbio «certe richieste nascono soltanto quando nascono certi bisogni», questo per lo meno quando il bisogno diventa rivendicazione ed esprime con tenacia l’esigenza di un panorama insieme etico e giuridico che si ponga a difesa di un’umanità troppo spesso mortificata da violazioni, ingiustizie, conflitti. Ecco allora che emerge l’umanesimo dei diritti, e se è vero che esso soffre della debolezza di un sistema internazionale che a fatica riesce ad acquisire una validità giuridica forte, e che di fatto gran parte del sistema dei diritti umani si esprima solo a livello programmatico, bisogna considerare d’altra parte le ampie potenzialità presenti nell’universo dei diritti per la costituzione di una umanità orientata alla convivenza pacifica anziché al conflitto. Tali potenzialità esprimono una possibile efficacia nella direzione dell’affermazione di una “cultura dei diritti umani” a partire da quel principio, già presente nella stessa dichiarazione universale, che sancisce l’assoluto e inviolabile diritto all’educazione. L’educazione infatti si configura come quello spazio per progettare la cultura attraverso la formazione delle identità, una cultura che come tale non si pone come universo finito, ma come “cantiere aperto” (Remotti, 2002), spazio per un continuo fluire di incontri tra innova290 Daniela Soci zione e tradizione, universalità e specificità, globalità e localizzazione. Tuttavia per attivare un simile “progetto culturale” è necessario, come afferma G. Harrison, operare un passaggio che va “dal diritto umano all’educazione, all’educazione ai diritti umani”. (Harrison, 1997). Solo così infatti si possono gettare le basi per una cultura condivisa, tale da porsi quale effettivo strumento di prevenzione dei conflitti, facendo emergere i diritti umani come spazio dialogico, di confronto tra le differenze. I diritti umani possono rappresentare l’orizzonte verso il quale operare quel processo di trasformazione a cui i contesti educativi sono chiamati in relazione alle sfide della contemporaneità, a partire dall’incontro ormai quotidiano tra “mondi” diversi che si affacciano dentro e fuori le aule scolastiche. Si tratterebbe di promuovere un’educazione mirata a sviluppare processi di acquisizione dell’identità nella direzione della “pluridiversità”, di un io che sappia accogliere in sé le possibili alterità, che, seguendo il suggerimento del poeta Fernando Pessoa “sia plurale come l’universo”. Assumere i diritti umani come orientamento significa anche porsi nell’ottica di un’idea di cittadinanza planetaria e quindi di una dimensione identitaria dai contorni più sfumati, che sappia allargarsi a stimoli provenienti da tutto il mondo, evadendo dai limiti dell’ambito locale. In questa prospettiva, come afferma Matilde Callari Galli, «le conoscenze devono legarsi al passato e al tempo stesso aprirsi ai molti “contropresenti”. Gli ambienti, percorsi a livello reale e a livello simbolico, devono essere molteplici e fluidi, preparando gli individui ad appartenere a sé stessi, alla comunità locale, ma anche, se non soprattutto, alla comunità mondiale» (Callari Galli, 2000). Ciò che deve emergere è la “consapevolezza della sostanziale unità evolutiva della specie umana” (Bocchi, Ceruti, 2000, 2004), consapevolezza che trova radicamento nella possibilità di guardare al passato configurando una storia planetaria dell’umanità, e che si proietta nel futuro con lo sguardo aperto a trecentosessanta gradi, capace di cogliere interdipendenze, contaminazioni, fili di una trama diffusa. In 291 Culture e conflitto questo senso la dichiarazione universale rappresenta un segno esplicito dell’emergenza di un nuovo modo di pensare l’umanità in termini planetari. La cultura dei diritti umani, di conseguenza, dovrebbe svilupparsi seguendo una duplice traiettoria: quella che la vede diffondersi sul piano globale al punto da divenire potenzialmente l’orizzonte culturale dell’umanità intera e quella che la vede specificarsi e radicarsi nei singoli contesti. Perché questo avvenga però è necessario che il diritto umano all’educazione e l’educazione ai diritti umani si realizzino nella complessità e questo significa fare i conti con una realtà sempre più caratterizzata da interdipendenza, flussi culturali globali, contaminazioni e meticciati, dall’assenza di certezza e prevedibilità, dalla rapidità delle trasformazioni sociali, dalla relazione tra dimensione globale e contesti locali (Callari Galli, Cambi, Ceruti, 2003). Complessità inoltre significa proporre un atteggiamento opposto a quello del riduzionismo, della frammentazione, della semplificazione. Questo dovrebbe tradursi in campo educativo con una rivoluzione globale che comporta quelle che Morin definisce le tre riforme necessarie all’educazione «una riforma del modo di conoscere, una riforna del modo di pensare, una riforma dell’istruzione» (Morin in Bocchi, Ceruti, 2004). Questa generale trasformazione delinea un quadro dell’educazione in cui la settorialità del sapere è superata dall’interdisciplinarità e dalle connessioni concettuali, le istituzioni educative si aprono le une alle altre e accolgono le molteplici esperienze culturali che si incontrano nella quotidianità, ed una rappresentazione della processualità temporale con le sue contingenze e irreversibilità, si va a sostituire alla staticità delle classificazioni e delle suddivisioni. Per questa ragione i contesti educativi che puntano a costruire una “cultura” dei diritti umani devono interrogarsi sulle questioni fondanti “il fare educazione”, per attivare spazi multivocali, di relazioni di ascolto, promuovendo l’intersoggettività, connettendo gli aspetti teorici ai vissuti, nella consapevolezza che, se «ogni conoscenza è azione e ogni azione è conoscenza» (Maturana, Varela, 1987), l’operare 292 Daniela Soci educativo va oltre il piano del sapere e si fonde con quello dell’essere e dell’agire nel mondo. I diritti umani allora rappresentano nei contesti educativi non soltanto l’obiettivo esplicito rispetto al quale riorganizzare le progettualità, ma costituiscono una dimensione trasversale alla globalità della realtà educativa al punto da porsi quali sorta di indici valutativi per l’individuazione di resistenze, cambiamenti, trasformazioni dei contesti educativi e quindi per incentivare una ricerca costante sulle possibilità effettive di sviluppo e di realizzazione della cultura dei diritti umani. Un’esperienza di educazione ai diritti umani. Il progetto “Adotta un diritto” Il progetto “Educazione alla cittadinanza e alla solidarietà, cultura dei diritti umani. Adotta un diritto”, promosso dal Ministero dell’Istruzione, dell’Università e della Ricerca, che ha visto la Regione Emilia Romagna tra le cinque regioni pilota che hanno aderito, si articolava in un percorso insieme formativo e di ricerca azione, rivolto a gruppi territoriali/provinciali di insegnanti provenienti da scuole diverse per ordine e grado. Il coinvolgimento da parte della Regione della cattedra di Antropologia del Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università di Bologna, mi ha permesso di affiancare Giovanna Guerzoni e Matilde Callari Galli, incaricate del coordinamento scientifico del progetto, nelle attività di conduzione dei gruppi e di ricerca. In particolare il mio ruolo consisteva nel seguire il percorso svolto dal gruppo di docenti della provincia di Modena. Seppur a partire da linee e finalità comuni i vari gruppi territoriali hanno lavorato in maniera leggermente diversa gli uni dagli altri, questo a conferma di quanto ogni specifico territorio ponga in essere esigenze diverse che richiedono risposte, approcci, sensibilità appropriate. Nel caso del gruppo di Modena i docenti hanno lavorato in una duplice direzione: da una parte, e questo soprattutto 293 Culture e conflitto nel primo anno del progetto, il loro impegno si è rivolto alla definizione e specificazione di una cultura condivisa dei diritti umani nei contesti educativi, attraverso l’attività formativa ed auto-formativa, attraverso la narrazione di sé, delle esperienze svolte e delle problematiche incontrate, e infine grazie all’esperienza diretta nelle aule con l’attivazione di progetti specifici sullo stimolo dell’ “adozione” di un diritto; dall’altra il procedere del percorso ha visto i docenti coinvolti nella costruzione di una “mappa del territorio” che colleghi in un modello a rete tutte le istituzioni, agenzie, progetti, attività che lavorano sul tema dei diritti umani o su tematiche limitrofe, tutto allo scopo di diffondere e insieme far crescere tale cultura dei diritti umani. Il risultato dunque di questo percorso di ricerca-azione ha portato, oltre che alla produzione di attività didattiche e ipotesi di progetti da realizzare nelle scuole, a definire alcune linee trasversali alle singole realtà scolastiche, rispetto alle quali si vanno a definire e articolare gli elementi che concorrono nel definire la cultura dei diritti umani e la sua promozione nei contesti educativi. Alcune di queste riflessioni condivise dai docenti sono indicate di seguito e rappresentano quegli aspetti chiave che definiscono l’orizzonte antropologico di riferimento di una didattica dei diritti umani: > in linea con la svolta culturale promossa dalla convenzione sui diritti dell’infanzia che riconosce al minore l’essere “persona umana”, soggetto attivo di diritti e non solo oggetto passivo di cure, gli alunni svolgono un ruolo attivo e responsabile nel percorso educativo e formativo che li vede protagonisti. L’insegnante è chiamato ad operare quel processo di decentramento culturale che è tipico della metodologia antropologica, e a porsi in un atteggiamento di ascolto attivo che si sappia tradurre in accoglienza; > in ragione di questo, l’educare ai diritti umani si articola nel duplice aspetto del cognitivo e del comportamentale oscillando dal piano della conoscenza e dell’informazione 294 Daniela Soci a quello dell’emozione e del vissuto. Si dà spazio alla forza comunicativa del corpo che è orientato alla cultura della vicinanza e della prossimità con l’alterità, anziché alla distanza e alla rigidità. Si recupera l’espressività propria della narrazione come strumento profondo di conoscenza reciproca; > i diritti umani come insieme di valori e norme, per essere realizzati concretamente nell’agire sociale devono tradursi in comportamenti. L’educazione ai diritti umani si preoccupa di promuovere il passaggio dal piano teorico a quello dei “diritti agiti” nell’esperienza quotidiana. L’implicito prevale sull’esplicito e i diritti umani diventano insieme tessuto connettivo e parametro di giudizio di ogni azione educativa; > la dimensione astratta e generale dei diritti si traduce in pratiche specificandosi in determinati contesti. È il contesto che, con il suo carattere di “vincoli e possibilità” crea la domanda sui diritti ed è nel contesto che i diritti rivelano le loro potenzialità; > l’educare ai diritti umani richiede che i contesti educativi ristrutturino tempi e spazi specifici e diversi da quelli scolastici tradizionali con progetti che si prolungano negli anni, che vedono affiancarsi età diverse, con aule che diventano laboratori, disposizioni spaziali che privilegiano la circolarità alla linearità; > l’esigenza posta da una quotidianità sempre più caratterizzata dall’incontro con l’alterità pone l’educazione ai diritti umani in relazione con l’intercultura. I diritti umani sono concepiti come spazio di dialogo tra le differenze e la formazione dell’identità procede focalizzandosi ora sugli aspetti di unicità e diversità, ora sugli aspetti di comunione e di uguaglianza. Lo scopo è lo sviluppo di “identità multiple” che sappiano accogliere nell’unità le possibili alterità. La didattica dei diritti umani sembra dovere realizzare quel movimento oscillatorio pendolare suggerito da Marie Dem295 Culture e conflitto bour, spostando il focus dell’attenzione ora sugli aspetti di universalità e assolutezza dei diritti, ora sugli aspetti di specificità e differenza dell’interpretazione culturale (Dembour, 2001); Tuttavia, il rischio implicito in ogni tentativo di avvicinare le altre culture con un’ottica orientata al valore della differenza è quello di pervenire ad una reificazione della cultura e delle sue caratteristiche al punto da non vedere le molteplici sfumature e originalità espresse dai singoli individui. Cogliendo il suggerimento offerto dai più recenti studi nell’ambito della genetica, della biologia e delle teorie sull’evoluzione è possibile pensare un approccio alla differenza che si situi a livello individuale. I singoli individui sviluppano quella specificità evolutiva che li porta ad essere diversi gli uni dagli altri. In questo processo di differenziazione la cultura gioca sicuramente un ruolo importante ma non può essere considerato l’unico e assoluto fattore discriminante; > la dimensione complessa e trasversale dei diritti umani esige un modello educativo a rete che metta in connessione i diversi agenti educativi fuori e dentro la scuola creando una sinergia col territorio tale per cui la cultura dei diritti umani sia dappertutto. La città viene concepita come una “città educativa” (Harrison, 2001), che come tale deve trasformarsi, sotto la spinta delle molteplici visioni, esigenze, “controculture” poste dall’alterità, prevedendo la creazione di contesti comuni per l’incontro tra le differenze. Conclusioni L’avere lavorato a questo articolo all’indomani della strage di Madrid, non può esimermi da una più viva e attuale riflessione sul tema del conflitto e dei diritti umani. La pressante minaccia di una condanna dell’umanità alla sua distruzione, attraverso una planetarizzazione sempre più forte della violenza e l’instaurarsi di forme di guerra e di conflittualità nuove che si vanno a coniugare a vecchi rancori e divisioni; l’imprevedi296 Daniela Soci bilità di azioni terroristiche che possono realizzarsi ovunque e in qualsiasi momento, la rabbia della rivendicazione nutrita con la più alta sapienza tecnologica vanno a configurare un presente/futuro dai contorni oscuri e drammatici. In uno scenario di questo tipo l’umanità è sempre più chiamata a fondersi in una coesione solidale che sappia comprendere e al tempo stesso superare le differenze, con la consapevolezza di condividere un destino comune. La costruzione di un domani all’insegna della convivenza necessita di una progettualità educativa che sappia diffondere una cultura dei diritti umani, ma che al tempo stesso rifiuti l’illusione semplificatoria della democrazia esportata, e le facili ricette di una morale imposta, al contrario essa ha il compito di instaurare processi che, alimentandosi di strategie locali, si radichino in profondità nei diversi contesti. L’“umanità deve partorire se stessa” (Morin, 2002) e riuscire nell’intento è un obiettivo primario, rispetto al quale i contesti educativi svolgono un ruolo fondamentale in ragione del fatto che, citando Callari Galli: «In una società quale l’attuale, gravida di tensioni crescenti, essere educati al dialogo, al confronto – e quindi all’ascolto – diviene sempre più necessario; perché senza questa capacità, senza questa volontà, noi condanniamo le generazioni future alla conflittualità permanente, alla lotta e alla violenza, forse al divenire le protagoniste della distruzione del nostro pianeta» (Callari Galli, 1996). Inoltre, la storicità e la continua processualità che caratterizzano il discorso sui diritti umani chiamano i diversi saperi a fondersi, a contaminarsi l’uno con l’altro in una dimensione interdisciplinare che affianchi al contributo del sapere giuridico e delle scienze politiche un’“etnografia dei diritti umani” (Callari Galli, Guerzoni, 1999) che sappia leggere la dimensione insieme contestuale e globale in cui si radicano diritti e bisogni ed una riflessione forte e incessante sulla didattica in grado di promuovere la formazione di identità orientate alla convivenza e alla solidarietà, a dispetto di ogni richiamo alla conflittualità. 297 Culture e conflitto Riferimenti bibliografici Bobbio, N. 1990, L’Età dei diritti, Einaudi, Torino Bocchi, G., Ceruti, M., 2000, Origini di storie, Feltrinelli, Milano Bocchi, G., Ceruti, M., 2004, Educazione e globalizzazione, Raffaello Cortina Editore, Milano Callari Galli, M., 1996, Lo spazio dell’incontro, Meltemi, Roma Callari Galli, M., 2000, Antropologia per insegnare, Bruno Mondadori, Milano Callari Galli, Cambi, F., Ceruti M., 2003, Formare alla complessità. Prospettive dell’educazione nelle società globali, Carocci, Roma Callari Galli, M., Ceruti, M., Pievani, T., 1998, Pensare la diversità, Meltemi, Roma Callari Galli, M., Guerzoni, G., 1999, “Focus: I diritti dimenticati”, «Pluriverso», 3 Harrison, G., 1997, Il diritto umano all’educazione, in Lodi, Micoli, Baratelli, Una cultura dell’infanzia, NIS, Firenze Harrison, G., 2001, I fondamenti antropologici ai diritti umani, Meltemi, Roma Maturana, H., Varela, F., 1987, L’albero della conoscenza, Garzanti, Milano Morin, E., 2002, L’identità umana, Raffaello Cortina Editore, Milano Morin, E., Kern, A. B., 1994, Terra patria, Raffaello Cortina Editore, Milano Remotti, F. (a cura), 2002, Forme di Umanità, Bruno Mondatori, Milano Wilson R., Cowan J., Dembour, M. B., 2001, Culture and Rights: Anthropological Perpectives, Cup, London 298 CONCLUSIONI Geopolitiche e narrazioni del conflitto nella contemporaneità: uno sguardo antropologico GIOVANNA GUERZONI Università di Bologna Pace/guerre Tra i temi di grande attualità ci sono oggi la guerra (Augé, 2002), i conflitti, il senso di instabilità e di diffidenza che l’espandersi della violenza collettiva ha determinato sul futuro della storia e sul destino di individui, comunità, culture. Il Seminario internazionale “Culture e conflitto” (Courmayeur, 13-15 dicembre 2002) i cui lavori questo testo raccoglie, si inserisce nel dibattito aperto dal nuovo contesto internazionale dopo la tragedia dell’11 settembre, nasce cioè dall’esigenza di aprire una riflessione fortemente innovativa sulla natura del conflitto nella contemporaneità e sui processi socioculturali ad esso legati. L’11 settembre, immette – a parere di molti studiosi – una vera e propria frattura nel senso storico degli eventi dell’epoca contemporanea (Augé, 2002; Chomsky, 2001; Bauman, 2003). Le analisi dei nuovi conflitti emersi dagli eventi successivi all’11 settembre 2001, ne hanno evidenziato le caratteristiche – mi sembra – “liminali”: per un verso il crollo delle due torri mette sotto gli occhi di tutti, e con straordinaria evidenza, processi storico-politici e culturali più volte descritti, e denunciati in particolare dall’analisi antropologica, che originano dalla storia del rapporto tra cultura occidentale e le altre culture i cui esiti si proiettano sulla natura e specificità dei processi propri alla contemporaneità; per altro verso, con l’attacco a New York si apre una nuova fase della storia planetaria che necessita di nuove chiavi di lettura, di nuovi modelli interpretativi, in particolare sulle tematiche legate al conflitto e a quella parte 301 Culture e conflitto di esso riconducibile – o che è percepita come tale – al rapporto tra le culture nella contemporaneità. Se la violenza collettiva è stata, in forme differenti, sempre presente nella storia dell’umanità, essa assume oggi connotati propri ed esclusivi all’età contemporanea: dal secondo dopoguerra alla guerra fredda, abbiamo assistito a progetti e politiche di una comunità internazionale che rivolgeva il suo impegno – a differenti livelli (politico, culturale, educativo) – ad azioni a sostegno di una pacifica convivenza tra le comunità e le nazioni, considerando, parallelamente, ogni esplosione del conflitto come un fallimento e, al tempo stesso, una minaccia. Questo contesto internazionale che si pretende pacificare, ma che vive di una continua instabilità, è in un qualche modo paradigmatico delle contraddizioni della storia politica del XX secolo fino ai giorni nostri. Una contemporaneità dilaniata dalle contraddizioni di una globalizzazione selvaggia (Stiglitz, 2002), da processi a differenti livelli “nomadici”, dalla pervasività e potenza dei media (Callari Galli, 2000; Augé, 1998). All’idea della “pace come continuazione della guerra con altri mezzi” (Clausevitz) sembrava, ad esempio, ispirarsi la corsa agli armamenti del secondo dopoguerra e l’effettivo sviluppo delle tecniche militari che hanno tragicamente raggiunto, nella nostra epoca e nella cultura occidentale, livelli mai eguagliati nella storia dell’umanità ed entro i quali si rende comprensibile la stessa idea e tenuta della “guerra fredda” sullo scenario internazionale. Eppure, come ci ricorda H. Arendt, è in questo contesto che si afferma via via la consapevolezza che, per usare le parole del fisico russo Sacharov, «una guerra termonucleare non può essere considerata una continuazione della politica con altri mezzi […]. Sarebbe uno strumento di suicidio universale» (Arendt, 1969: 13). Su un altro fronte, l’idea di progresso, così legata nella storia del dopoguerra ai rapporti tra la cultura occidentale e le altre culture, sembra aver accompagnato anche la riflessione e le pratiche a favore della pace, sostenendo l’idea di pace planetaria – in un mondo peraltro in cui le guerre non hanno mai cessato di succedersi – e legandola strettamente al 302 Giovanna Guerzoni paradigma e all’avanzamento dei diritti umani lungo tutto il secolo scorso. Una contraddizione ancora più lacerante se si pensa che la stessa cultura che proclama la necessità di garantire ad ogni uomo sulla terra i diritti fondamentali oggetto delle Carte attua politiche di continua spoliazione nei confronti della maggioranza dei paesi e delle culture sul pianeta (Callari Galli, 2000). Sono il contesto coloniale e successivamente i processi di decolonizzazione a definire lo scenario politico e culturale dei conflitti della contemporaneità. Il XX secolo ha visto, sul piano teorico, una riflessione spesso troppo riduttiva sul rapporto tra l’esplosione dei conflitti e le politiche della pace: come è stato già sottolineato (Callari Galli, 2000), si è operato spesso attraverso modelli unilineari ed etnocentrici per i quali, in sostanza, al progressivo affermarsi della società del benessere e della democrazia nel mondo non poteva che corrispondere la pacificazione nelle relazioni tra stati e, internamente, tra comunità. «La nostra concezione della violenza collettiva, la sua stessa percezione e quindi la sua presentazione è tuttora largamente influenzata dalla visione che del conflitto è stata elaborata nella cultura europea di questi ultimi secoli. L’attenzione è perlopiù concentrata sulle azioni militari a largo raggio il cui rilievo è stato valutato in base alla qualità delle forze in campo al numero dei morti e all’entità delle distruzioni. È stato così trascurato sia dalla riflessione che dalla pratica politica il profondo mutamento che negli ultimi anni ha investito lo svolgimento dei conflitti, sempre più commisti ad estenuanti guerriglie, a repressioni che coinvolgono i gruppi per generazioni a impoverimenti progressivi sul piano economico e culturale, a lacerazioni sociali profonde» (Callari Galli, 2000). In questa prospettiva di analisi c’erano guerre che “facevano la storia” e guerre dimenticate, così come i fattori che portavano all’esplosione dei conflitti erano spesso voce di una sola parte; è in fondo l’idea che il mondo sia diviso tra territori che in un qualche modo hanno “acquisito” – in un qualche modo possiedono – la pace e altri – spesso coincidenti con i territori dell’“alterità” – che si rivelano come endemicamente attraversati dal 303 Culture e conflitto conflitto, dall’instabilità, dalla povertà, dalla mancanza di sviluppo. «Nel nostro orrore per le guerre altrui c’erano insieme la sensibilità per le sofferenze degli altri, ma anche un sottile disprezzo razzistico per chi rimaneva impegolato in una vecchia storia che noi europei pensavamo di avere già superato. La guerra apparteneva ad un altrove che poteva indignarci, appassionarci o lasciarci indifferenti, ma in ogni caso era sempre un altrove» (Cassano, 1998). Questo modello teorico e politico entra definitivamente in crisi con il crollo del muro di Berlino e la vittoria senza armi, peraltro non priva di vittime, sulla guerra fredda. L’uscita di scena delle geopolitiche del secondo dopoguerra, segna la crisi delle politiche – e delle forme del conflitto collettivo e di guerra ad esse connesse – legate al “territorio” (Bauman, 2003): «Il territorio è stato la più preziosa delle risorse, il premio più ambito di qualsiasi lotta per il potere, il segno di distinzione tra vincitori e sconfitti […], la principale garanzia di sicurezza» (Bauman, 2003: 83). Nella modernità le “leggi” – esplicite ed implicite – del conflitto sono strettamente legate alla nozione di “territorialità”, di confini, di comunità e culture radicate a territori circoscritti. Nella contemporaneità, in un mondo attraversato da processi di globalizzazione e di de-territorializzazione il volto delle guerre e del conflitto cambia: i conflitti diventano sempre più plurali ed endemici ai “periodi di pace”; la guerra è un evento fortemente “mediatizzato” così come rischiano di inabissarsi nel silenzio dei conflitti presenti sul pianeta di cui non sappiamo quasi nulla; il “fronte di guerra” è sempre più mobile e instabile, “poroso”, i civili sono sempre più le vittime inermi e indifese dei conflitti della contemporaneità, vittime dei bombardamenti, vittime del terrorismo, vittime dell’instabilità sociale e culturale. E non è forse un caso che a partire dal conflitto dell’ex Jugoslavia, il riemergere della guerra come strumento di gestione politica sullo scenario internazionale si insinui nel cuore stesso dell’Europa e sia andato di pari passo con la crisi degli organismi internazionali che dovevano gestire le politiche dello sviluppo e quelle a sostegno di una pace planetaria e, a parere di alcuni, con la stessa crisi del 304 Giovanna Guerzoni paradigma dei diritti umani nella contemporaneità (Callari Galli e Guerzoni, 1999). Di fronte alla guerra, i diritti umani sembrano vivere, in realtà, un paradosso: da un lato, le ragioni e gli orrori della guerra sembrano ridurre sempre più a silenzio le pratiche e le idee dei diritti umani, dall’altro mai come ora i diritti umani appaiono l’unico “strumento” tra universalità e specificità dei contesti e delle culture a favore di una cultura davvero planetaria (Callari Galli e Guerzoni, 1999). Ma il paradigma dei diritti umani come supposto portato della cultura occidentale apre una questione ben più importante – già affermata a suo tempo da M. Herskovits (Herskovits, 1948) – e in questo testo riproposta alla luce dei discorsi politici sulla guerra preventiva o umanitaria di Bush, collocandosi «in un più ampio orizzonte all’interno del quale la posta in gioco è il rapporto tra un’etica universalistica e il suo concreto innesto in forme di vita e culture tradizionali» (D’Agostino). Conflitti “glocali”? L’epoca contemporanea si caratterizza per processi di veloce trasformazione sociale e culturale spesso contradditori. Da un lato, la globalizzazione delle economie e dei flussi finanziari, le migrazioni, i media e le nuove tecnologie della comunicazione si sono certamente tradotti in un veloce quanto inarrestabile processo di omogeneizzazione culturale a livello planetario; stili di vita e attese di benessere si assomigliano sempre di più, così come contesti – le città e le megalopoli, l’organizzazione del lavoro, l’emergere di nuove forme di povertà, l’analfabetismo etc. – pur posti in territori molto lontani l’uno dall’altro tendono a vivere processi e problematiche con forti elementi di analogia fra loro. Questi stessi processi “omogeneizzanti” sembrano peraltro rafforzare movimenti opposti di frammentazione e di desiderio di comunità, di multiculturalismo e di ostentazione di forme di radicalizzazione dei processi identitari e dei localismi. E le forme 305 Culture e conflitto del conflitto si legano ovviamente a tali processi: così urbanizzazione e violenza urbana, vecchie e nuove povertà, disuguaglianze laceranti che dal campo economico e socioculturale planetario rinviano a livelli sempre più “singolari” del rapporto con le istituzioni e tra le comunità qualificano gli spazi della violenza collettiva nella contemporaneità, e si manifestano – con espressioni di volta in volta diverse – sia nei paesi in via di sviluppo che in quelli cosiddetti avanzati. Il XX secolo sarà certo ricordato come l’epoca che ha visto l’emersione delle differenze culturali: con l’affermarsi delle lotte di emancipazione sul piano politico; il ’900 è l’epoca in cui l’idea e le pratiche dei diritti umani – in quello che Bobbio ha definito come processo al tempo stesso di “specifizzazione” e “proliferazione” dei diritti (Bobbio, 1992) nel dialogo con le differenze culturali e identitare – si sono potute affermare, ma è anche l’epoca dell’esplosione di movimenti che reclamano la propria radicale differenza, la propria “alterità”. In un’epoca in cui migrazioni, globalizzazione e media ridisegnano profondamente il rapporto tra ciò che abbiamo considerato – a partire dal lavoro delle scienze antropologiche – come “locale” e processi “globali”, l’analisi teorica e di campo dell’antropologia ha proposto nuove letture delle culture – e dei rapporti tra loro – considerate come continuamente dislocanti e frutto di continue negoziazioni. La crisi delle geopolitiche del secondo dopoguerra – crisi dei due blocchi che si fronteggiarono in uno scontro tra ideologie, culture e “territori” dai confini rigidamente prefissati – ha una sua dimensione culturale nei processi di deterritorializzazione che segnano le culture nella contemporaneità. De-territorializzazione e dislocamento reale e “virtuale” delle culture rompono definitivamente quella corrispondenza tra territorio, comunità e cultura che facevano riferire a un preciso e circoscritto territorio geografico una cultura storicamente data (Callari Galli, 2000). La contemporaneità consiste sempre più nell’affermarsi di territorialità sempre più glocali (Geertz, 1999), realtà non più circoscrivibili, dai confini sociali e culturali sempre più sfumati e porosi che portano il segno di processi planetari in parte 306 Giovanna Guerzoni subìti, in parte localmente reinventati di continuo; così a fianco dell’affermarsi di processi globalizzanti e planetari, la contemporaneità appare sempre più come un’ostentazione di localismi esacerbati. Guerre e terrorismi sono eventi sempre meno pensabili come circoscrivibili ad aree regionali specifiche, sempre meno mantengono caratteri di “territorialità”: al di là del continuo dilagare dei conflitti, la pervasività della violenza rimbalza dai contesti di guerra alle economie, alle politiche internazionali, ai media, veste i panni di un terrorismo che riversa la propria ferocia ovunque nel mondo proiettando ragioni e resistenze locali su uno scenario internazionale, inscritto in un immaginario massmediologicamente costruito. «Queste nuove guerre vanno viste nel contesto della globalizzazione. Coinvolgono reti transnazionali che organizzano idee, soldi, armi e mercenari, e che avanzano rivendicazioni politiche in nome della religione o dell’etnicità. Queste reti fioriscono nelle aree del mondo dove gli Stati sono implosi in seguito all’impatto della globalizzazione su sistemi un tempo chiusi e autoritari, e si compongono di gruppi privati e signori della guerra, oltre che di residui dell’apparato statale» (Kaldor, 2001: 38). Nel mondo delle interdipendenze planetarie, le guerre non sono tutte eguali: emergono nuove etichette “guerra umanitaria”, “guerra preventiva”, così come conflitti estremamente violenti non assumono più la definizione di guerra, ed altri che non possono essere catalogati nell’idea di conflitto ne assumono ugualmente i caratteri violenti: gli esiti del recente Congresso di Cancun hanno mostrato, ad esempio, come «il brutale modello economico proposto dall’Organizzazione mondiale del commercio è una forma di guerra. Guerra perché le privatizzazioni e la deregolamentazione uccidono: spingendo in alto i prezzi dei beni di prima necessità come acqua e medicine, e spingendo in basso i prezzi di prodotti primari come il caffè, mettendo così in difficoltà le piccole aziende agricole. […] Guerra perché quando questa repressione a bassa intensità non riesce a spianare la strada alla liberalizzazione delle multinazionali, comincia la guerra vera» (Klein, 2003: 15). 307 Culture e conflitto Il Seminario “Culture e conflitto” è stato un modo per iniziare a riflettere “a più voci” – con il prezioso contributo di studiosi appartenenti ad ambiti disciplinari differenti e provenienti da paesi diversi – su nuovi contesti al tempo stesso laceranti e complessi in cui emergono. Non è un caso dunque se è apparso centrale, tra coloro che sono intervenuti, il tema dei media e delle nuove tecnologie – l’avvento cioè della televisione, del telefono, del fax, del cellulare, di internet e della tv satellitare – come spazio di comunicazione (Grignaffini, Gianotti, Grassilli, Scandurra G., Binotto), in quanto processo che trasforma il nostro stesso modo di pensare la realtà e con esso, in particolare, il tema del conflitto; la guerra e la violenza – collettiva ma anche interindividuale – è innanzitutto un “evento mediatico”; la prima guerra del Golfo era stata vissuta “in tempo reale” alla Tv; è un cielo dalle striature bluastre quello che ci racconta delle migliaia di vittime, in particolare civili – donne e bambini – del conflitto iracheno. Così l’attacco alle due torri sintetizza in una manciata di minuti proprio questo aspetto del conflitto contemporaneo. Mentre le informazioni ci giungono in tempo reale, la storia locale è pensata e rielaborata in stretta connessione con la storia planetaria, i processi di costruzione identitaria non sono più pensabili in termini isolati: che lo vogliamo o no siamo cittadini del mondo seppure alle prese con incertezze e resistenze del sentirsi diversi, partecipi di un mondo sempre più piccolo, sempre più incerto, sempre più interdipendente. Il conflitto sembra generarsi a partire dalla sua messa in scena sul teleschermo, un teleschermo che si frantuma in mille altri aperti dalle mille voci della “vita nella rete”. Mai come oggi la narrazione degli eventi nei media appare lacerata tra il piano dell’informazione e quello della sua spettacolarizzazione come, qualche anno fa ci ricordava George Balandier: «La violenza moderna è messa in scena. Il che evidentemente ne aumenta la visibilità. Poiché è diventata più visibile, essa appare in espansione, dunque più contagiosa, e sembra generarsi da sé stessa, moltiplicandosi per metamorfosi […] Attraverso l’immagine mediatica, quella delle informazioni, delle fictions violente essa invade le coscienze e l’immaginario individuale. 308 Giovanna Guerzoni Si è detto che la sua presentazione spettacolare genera un processo a spirale perché stimolerebbe il desiderio della sua rappresentazione, ma resta difficile da provare che la “sindrome del voyeur” conduce ad un’esplosione della violenza civile» (Balandier, 1991: 258). Ambiente, economie e culture, ma anche processi di costruzione identitaria e incontri sociali vivono delle dinamiche e delle narrazioni al centro dello scenario planetario. Dopo l’11 settembre, l’“altro” è cambiato non solo nei territori dell’altrove narrati dalla televisione e verso i quali si riversano eserciti e missioni di pace, ma anche chez nous; tra gli aspetti pervasivi e de-territorilizzati del conflitto contemporaneo emerge il fatto che tensioni e conflitti internazionali riversano la loro dimensione culturale e simbolica nelle relazioni quotidiane di incontro/scontro tra diversi soggetti sociali. Anche se, come sostiene Etienne Balibar «le differenti “violenze” non comunicano tra loro: nello spazio domestico, professionale, urbano, nazionale e internazionale nessuno chiama violenza esattamente o prioritariamente la stessa cosa. Da cui una controversia insolubile se non proprio attraverso la violenza, che sembra nutrirsi appunto della propria incomunicabilità, espressione di forze ed interessi antagonisti, ma anche di discorsi e di “visioni del mondo” incompatibili. E tuttavia, per ciascuno esiste qualcosa che egli chiama “violenza” […] facendo di questa parola il luogo comune – rigorosamente non condivisibile – di tutte le divisioni» (Balibar in Heritier, 1997), l’immaginario del conflitto, questo mutare improvviso delle categorie di vinti e vincitori, di eroi e vittime si inserisce violentemente nella vita quotidiana dei territori lontano dalla guerra mutando innanzitutto i modi con cui guardiamo all’altro. Le narrazioni del conflitto Dopo l’11 settembre il mondo è davvero cambiato, o certamente sono radicalmente cambiate le narrazioni sul “sistema mondo”, sulle relazioni tra noi/gli altri, sul conflitto che fino 309 Culture e conflitto ad allora ne connotavano la rappresentazione dei mondi contemporanei. Tra futuro e passato remoto, il film di Kubrick 2001 Odissea nello spazio inizia il proprio racconto con l’immagine di un uomo primitivo che, quasi per caso, batte sulle ossa di un animale scoprendo l’utensile; quel gesto nelle immagini di Kubrick sembra alludere al futuro tecnologico dell’umanità; c’è quella svolta radicale nella storia dell’umanità che fa dell’ominide l’uomo “dotato di cultura”; svolta che è innanzitutto un’accelerazione nella trasformazione del rapporto tra uomo e ambiente, tra uomini e altre specie animali. Nelle immagini di Kubrick c’è forse l’allusione a qualcosa di più specifico, l’utensile è fin dalle origini un’arma di attacco e di difesa certo dalla violenza dell’ambiente, ma ancora di più un’arma di dominio su altri uomini. Il primo utensile sarebbe dunque un’arma di guerra. I lavori del Seminario internazionale hanno evidenziato l’importanza di una riflessione multidisciplinare e multidimensionale sul tema del conflitto nei mondi contemporanei; i differenti contributi teorici, di analisi e di esperienza al centro delle giornate seminariali hanno permesso di articolare il tema della violenza e del conflitto nella contemporaneità sotto angolature prospettiche differenti e reciprocamente arricchenti evidenziando la novità e proficuità di un tale approccio in termini di analisi del conflitto nella contemporaneità. Difficile, anche solo per cenni, ricordare tutte le preziose e importanti suggestioni delle giornate seminariali che in occasione della redazione di questo testo si è aperto a nuovi contributi: all’analisi storico-politica, culturale, giuridica del conflitto nella contemporaneità (Callari Galli, Contini, Genovese, Pocar, Riccio, Scandurra E., Soci), allo spazio della memoria del conflitto e al ruolo di testimone, in particolare all’interno di quel processo ambivalente e contraddittorio che segna la storia recente dell’Europa Centro-Orientale tra desiderio consapevole di dimenticare e dovere di raccontare (Misha, Lubonya). Il contributo dell’antropologia all’analisi del conflitto nella contemporaneità, mi sembra oggi di grande importanza davanti a processi che sono sempre più carat310 Giovanna Guerzoni terizzati dallo loro dimensione culturale, in particolare nei contesti di migrazione dove si ridisegnano le relazioni tra culture (Buttitta); e d’altra parte l’antropologia si è assunta questo faticoso ma ineludibile ruolo di critica culturale (Pandolfi) alle definizioni contemporanee di “pace” e “conflitto”. La dimensione storica da cui si genera il conflitto viene spesso trascurata per far posto a visioni essenzializzanti delle relazioni interetniche. La deresponsabilizzazione e la naturalizzazione del fenomeno creano paradossalmente una visione preconfigurata, un protocollo standardizzato delle cause, effetti e rimedi della violenza. Così categorie come quelle di “pace sostenibile”, “fragilità degli accordi”, “resistenza alla riconciliazione” dimenticano una violenza strutturale e strutturante su cui oggi è invece doveroso riflettere. Ma le ipotesi della “naturalità del conflitto” attraversano il ruolo della narrazione del medesimo e dell’utilizzazione di strumenti tecnologici all’interno dell’evento conflittuale (Galaty). Così come l’analisi storico-politica ha messo in luce il profondo mutamento che la forma di stato-nazione moderno sta attraversando, mostrando quanta importanza stiano acquisendo le cosiddette networking societies e le forme di relazioni transnazionali. La compresenza di diversi attori sociali afferenti alle culture transnazionali ed alle culture locali stanno inoltre provocando delle nuove forme di lotta, in parte dovute anche alle stereotipizzazioni delle culture che vengono automaticamente trasferite sui soggetti politici (Bianchini). Le analisi e le narrazioni sul conflitto nella contemporaneità di cui questo testo si fa testimone abbiano la veste di “lettere aperte” – dunque non-concluse – affermando innanzitutto la necessità di “vigilare” i temi dei conflitti, consapevoli che il destino della democrazia risieda nella capacità di ognuno di analizzare gli orientamenti, le caratteristiche e le dinamiche che via via assumono la rapacità del conflitto odierno. Anche su questo aspetto gli eventi di questi ultimi anni hanno mostrato in tutta la sua urgenza la necessità di una continua mobilitazione: alla disperazione della guerra si è opposta una sempre maggiore consapevolezza della necessità di una mobilitazione a favore delle politiche della 311 Culture e conflitto pace; ai movimenti di critica, ai processi economici e culturali della globalizzazione si sono affiancati movimenti che interpretano in modo nuovo il loro ruolo nelle politiche di pace, a sostegno di un movimento di idee e pratiche che dai diritti umani alla pace ci sembra aprano nuovi spazi per una cultura planetaria dei diritti umani. Afferma l’Heritier (Heritier, 1997) che non vi è alcuna evidenza storica che la formazione di gruppi porti a guerre così come che il comportamento violento sia “naturale” più del comportamento non violento. Non vi è alcuna pulsione distruttiva innata, ma invece il fatto che esistano circostanze che presiedono all’educazione e allo sviluppo degli individui; la violenza è dunque l’effetto delle relazioni di potere tra gli individui sotto l’oppressione della violenza o invece sotto il segno del dialogo tra le culture e gli individui e, aggiunge, che se si distinguono i comportamenti individuali violenti da quelli collettivi si può sempre notare che i secondi sono il risultato di decisioni prese dalla minoranza che detiene il potere che vuole aumentarlo o rafforzarlo. Le questioni della guerra e della pace appaiono attraversate da dinamiche complesse che rendono necessaria un’analisi culturale vigile e rigorosa sulle complesse relazioni tra le forme del conflitto attuale e i processi che caratterizzano la contemporaneità: se, interpretando gli spazi della contemporaneità, il pensiero antropologico ha denunciato una “crisi della rappresentazione”, la dissoluzione delle consuete categorie interpretative ha portato alla necessità di studiare i processi che si svolgono nelle “zone di confine” (Rosaldo, 2001); contro le separatezze del conflitto, contro la cristallizzazione che il conflitto impone alla contrapposizione, spesso presunta, di culture, civiltà, storie parlano la multivocalità degli incontri tra storie, culture, identità che sono anch’esse un tratto dell’epoca contemporanea; forse è cercando di dare voce alle “zone di confine”, ai processi di meticciato culturale come spazio inedito di creatività culturale (Rosaldo, 2001) che si rende possibile arginare e superare il conflitto, luogo della divisione, della sofferenza, della disperazione. 312 Giovanna Guerzoni Riferimenti bibliografici Arendt, H., 2001 (1969), Sulla violenza, Guanda, Parma Augé, M., 2002, Diario di guerra, Bollati Boringhieri, Torino Augé, M., 1997, La guerra dei sogni, Elèuthera, Milano Augé, M. 1997, Storie del presente, Il Saggiatore, Milano Barthes, R., 1974, Miti d’oggi, Einaudi, Torino Balandier, G., 1991, Il disordine, Dedalo, Bari Baudrillard, J., 1980, Della seduzione, Cappelli, Bologna Baudrillard, J.,1996, Il delitto perfetto. La televisione ha ucciso la realtà?, Cortina, Milano Baudrillard, J., 2002, Lo spirito del terrorismo, Cortina, Milano Bauman, Z., 2002, La società individualizzata, il Mulino, Bologna Bauman, Z., 2003, La società sotto assedio, Laterza, Roma Bobbio, N. (1992), L’età dei diritti, Torino, Einaudi Caillois, R., 2002, La vertigine della guerra, Oasi Editrice, Troina Callari Galli, M., 1997, In Cambogia, Meltemi, Roma Callari Galli, M., Colliva, C., Pazzagli, I., 1989, Il rumore silenzioso, La nuova Italia, Firenze Callari Galli, M., Guerzoni, G., 1999, “I diritti dimenticati”, Focus in «Pluriverso», 3 Callari Galli, M. (a cura), 2004, La Tv dei bambini, i bambini della tv, BUP, Bologna Callari Galli, M. (a cura), 2003, Nomadismi contemporanei. Rapporti tra comunità locali, stati-nazione e “flussi culturali globali”, Guaraldi, Rimini Callari Galli M., Harrison G. (a cura di),1999, Se i bambini stanno a guardare, Clueb, Bologna Callari Galli M., Ceruti, M., Pievani, T., 1998, Pensare la diversità, Meltemi, Roma Chomsky, N., 2001, 11 settembre, Milano, M. Tropea Clastres, P., 1998, Archeologia della violenza, Meltemi, Roma Dahl, R., 2002, Intervista sul pluralismo, Laterza, Bari Delmas-Marty, M., 1996, Vers un droit commun de l’humanité, Paris, Les éditions Textuel Héritier, F., 1997, Sulla violenza, Meltemi, Roma 313 Culture e conflitto Geertz, C., 1999, Mondo globale, mondi locali, Bologna, il Mulino Kaldor, M., 2001, “I nuovi conflitti”, «Internazionale», 410, 8 Kaldor, M., 2001, Le nuove guerre. La violenza organizzata nell’età globale, Carocci, Firenze Klein, N., 2003, “Il libero scambio uccide”, «Internazionale», 506, 10 Mattingly, C., Lawlor, M., Jacobs-Huey, L., 2002, “Narrating September 11: Race, Gender, and the Pley of Cultural Identities”, «American Anthropologist», 104, 3 Morin, E., 1994, Terra-Patria, Milano, Cortina Pasolini, P., 1975, Scritti Corsari, Garzanti, Milano Rosaldo, R., 2001, Cultura e verità, Roma, Meltemi Scheper-Hughes, N., Wacquant, L., 2004, Corpi in vendita, Ombre corte, Verona Stiglitz, J. E., 2002, La globalizzazione e i suoi oppositori, Einaudi, Torino Todorov, T., 2001, Memoria del male, tentazione del bene, Garzanti, Milano 314 APPUNTI APPUNTI APPUNTI APPUNTI Collana Guaraldi Universitaria Guizzardi Andrea La previsione economica 2002 ISNB 88-8049-017-6 Euro 18,00 Bispuri Ennio Interpretare Fellini 2003 ISNB 88-8049-214-4 Euro 18,00 Callari Galli Matilde (a cura di) Nomadismi contemporanei 2003 ISNB 88-8049-202-0 Euro 15,00 Gandolfi Bruno Capire il turismo 2004 ISNB 88-8049-219-5 Euro 20,00 Benadusi Mara Etnografia di un istituto scolastico 2004 ISNB 88-8049-226-8 Euro 14,00 Finito di stampare nel mese di marzo 2005 per conto di Guaraldi Editore presso La Pieve Poligrafica Editore – Villa Verucchio Il presente volume emerge in grande parte dal Seminario internazionale “Culture e conflitto” tenutosi a Courmayeur tra il 13 e il 15 dicembre 2002, promosso dal Centro di prevenzione e difesa sociale, dal Dipartimento di Scienze dell’Educazione dell’Università degli Studi di Bologna e dalla Fondazione Courmayeur, in collaborazione con la Commissione Nazionale Italiana per l’UNESCO. La profonda complessità che caratterizza i conflitti contemporanei – dovuta a molte cause tra cui vanno ricordati i processi di globalizzazione, l’interdipendenza economica e culturale che lega l’intero pianeta, il proliferare di armi in grado di distruggere intere popolazioni se non l’intera umanità – ci costringe ad abbandonare i modelli unilineari e unidimensionali e a rivolgerci ad interpretazioni multifattoriali per affrontare i loro andamenti sfuggenti, risultati di dinamici intrecci di modelli sociali e culturali, di interazioni economiche e politiche, di sistemi di valori, di comportamenti e di atteggiamenti intrisi di significati simbolici. Un tale approccio interdisciplinare propone al lettore un percorso che si caratterizza per la sua ricchezza di prospettive, linguaggi, vertici di osservazione e repertori simbolici di riferimento. I SBN 88- 8049- 243- 8 9 788880 492436