La Rivista di
Engramma
152
gennaio 2018
Figure del mito:
presenze e
rappresentazioni
a cura di
Alessandra Pedersoli e Marina Pellanda
edizioniengramma
direttore
monica centanni
redazione
sara agnoletto, mariaclara alemanni,
maddalena bassani, elisa bastianello,
maria bergamo, emily verla bovino,
giacomo calandra di roccolino, olivia sara carli,
silvia de laude, francesca romana dell’aglio,
simona dolari, emma filipponi,
francesca filisetti, anna fressola,
anna ghiraldini, laura leuzzi, michela maguolo,
matias julian nativo, nicola noro,
marco paronuzzi, alessandra pedersoli,
marina pellanda, daniele pisani, alessia prati,
stefania rimini, daniela sacco, cesare sartori,
antonella sbrilli, elizabeth enrica thomson,
christian toson
comitato scientifico
lorenzo braccesi, maria grazia ciani,
victoria cirlot, georges didi-huberman,
alberto ferlenga, kurt w. forster, hartmut frank,
maurizio ghelardi, fabrizio lollini,
paolo morachiello, oliver taplin, mario torelli
La Rivista di Engramma
a peer-reviewed journal
152 gennaio 2018
www.engramma.it
sede legale
Engramma
Castello 6634 | 30122 Venezia
edizioni@engramma.it
redazione
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©2019
edizioniengramma
carta 978-88-94840-70-4
digitale 978-88-94840-30-8
finito di stampare dicembre 2019
ISBN
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dovute attività di ricerca delle titolarità dei diritti
sui contenuti qui pubblicati e di aver impegnato
ogni ragionevole sforzo per tale finalità, come
richiesto dalla prassi e dalle normative di settore.
Sommario
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Figure del mito: presenze e rappresentazioni. Editoriale
Alessandra Pedersoli e Marina Pellanda
Niobe in lutto: dipingere il silenzio
Andrea Tisano
La nascita del ‘teatro alla veneziana’
Caterina Soranzo
Café Müller di Pina Bausch
Gaia Clotilde Chernetich
Achille. Una variazione sul mito
Maria Grazia Ciani
Come il canto ci obbliga a voltarci indietro
Massimo Crispi
Romeo e Giulietta d’après. Diario sull’osservare la danza,
i corpi sfocati e il viaggio
Stefano Tomassini
REWINDItalia. Early Video Art in Italy/I primi anni
della videoarte in Italia
Laura Leuzzi
Figure del mito: presenze e
rappresentazioni
Un gioco di specchi con il teatro.
Editoriale di Engramma 152
Alessandra Pedersoli, Marina Pellanda
Engramma 152 ingaggia con il teatro e con
il mito il gioco delle identità multiple, in
cui la capacità di metamorfosi – cifra che
lega i diversi pezzi che compongono
questo numero – richiama i miti fondativi e
coloro che si presentano come attori e
registi del gioco con l'identità: Proteo e
Dioniso.
Nel mito, Proteo è figura dell'identità
metamorfica come difesa: “il Vecchio del
mare” usa l'arte dell'inganno, del
mutamento, per sfuggire all'Altro, per
Giorgio de Chirico, Orfeo
trovatore stanco, 1970, olio su
tela, Roma, Fondazione Giorgio
e Isa de Chirico (particolare).
eludere la presa. Proteo rappresenta la
preda, la cui unica difesa è un’incessabile
mutazione – l'inquietudine della
metamorfosi.
La storia, narrata nel libro IV dell’Odissea ai versi 350-570, e ripresa anche
nel libro IV delle Georgiche di Virgilio, racconta delle varie forme che
Proteo assume e con le quali cerca di eludere anche la presa che Ulisse,
con il suo “multiforme ingegno”, cerca di attivare su di lui. La metamorfosi
di Proteo, lungi dall'essere una operazione leggera di mascheramento
festivo, appare anche come il tentativo di sfuggire alla sofferenza e al
dolore: attraverso le infinite forme che la "prima delle creature” (questo un
etimo possibile del nome) sa assumere, Proteo mira alla conquista di
un'invisibilità che è l'arma che rende invulnerabili. Proteo non si difende
fuggendo, ma esponendo alla vista la sua polimorfosi e, insieme,
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rendendosi invisibile per eludere la presa di chi lo minaccia, o di chi
minaccia il suo potere. Ma Proteo è anche profeta, perché conosce il
passato e il futuro, ed è questa conoscenza che Ulisse vuole carpirgli.
Ulisse stesso deve travestirsi per catturarlo e costringerlo a dire quanto
sa, impedendo il divenire delle sue trasformazioni.
Anche Dioniso, il dio dell'ambiguità, della maschera e del travestimento,
nato da Zeus e Semele, sin da bambino esercita la facoltà di trasformarsi
in varie figure per sfuggire alla furia di Era, gelosa del nuovo figlio di un
tradimento di Zeus; fin da piccolo il dio coltiva la sua abilità nel mutare
forma e, da adulto, utilizzerà questa facoltà per vendicarsi dei suoi
nemici, provocando metamorfosi anche in chi gli sta di fronte, in chi gli si
oppone. Dioniso, dunque, come prima ipostasi mitica della maschera
teatrale.
Anche Dioniso è profeta: la mania telestica, legata a Dioniso, si esprime
come delirio o trance di possessione o entusiasmo, durante il quale il dio
entra nell'individuo e lo fa suo: l'individuo si entusiasma, letteralmente si
“in-dia”. Il delirio mistico non equivale certo a una situazione patologica di
debolezza, è anzi uno stato di accrescimento delle facoltà percettive, in cui
si trascende temporaneamente la razionalità e, attraverso la musica e la
danza, si esaltano i sensi. In questo senso la mania telestica è anche un
processo curativo: come ci insegna Gilbert Rouget in La musique et la
transe (Paris, 1980; tr. it. Torino 1986), operando la trance in modo
corretto ovvero, in altri termini, osservando correttamente i riti della
trance, il soggetto ritrova uno stato di salute.
Richiamando insieme Proteo e Dioniso come numi tutelari di questo
numero di Engramma, evochiamo la prossimità con la follia di questi due
nomi divini – una follia che va assunta non tanto come indicazione
patologica o nome della pura irrazionalità quanto, invece, nella sua natura
di mania telestica, come stato altro di alterazione della coscienza che,
condotta all'interno di una precisa cornice rituale, può indurre un'estetica
aumentata, ovvero uno “stato superlativo della percezione” (per richiamare
l'estetica delle Pathosformeln di Aby Warburg).
E dunque, il numero 152 di Engramma, assumendo proprio il teatro come
cornice rituale codificata, lega i pezzi di cui è costituito con il filo rosso
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della “follia come coscienza aumentata”. Così, nel leggere i contributi che
presentiamo in questo numero, si passerà quasi senza soluzione di
continuità dalla fortuna iconografica della Niobe in lutto di Eschilo nella
ceramica magnogreca del IV secolo (Andrea Tisano), all'invenzione del
“teatro alla veneziana” nel XVI secolo (Caterina Soranzo) e al teatro-danza
di Pina Bausch con Café Müller (Gaia Clotilde Chernetich). Pina Bausch è
figura perfetta e snodo cruciale del nostro discorso su mito e teatro, in
quanto è colei “che ha segnato una nuova via originale all’espressione
scenica del corpo danzante e parlante, influenzando non soltanto la danza
contemporanea, ma anche le arti ad essa contigue, mutandone gli
orizzonti”: questa la motivazione con la quale nel 2007 la Biennale di
Venezia ha consegnato a Pina Bausch il Leone d'Oro alla Carriera.
In questa cornice presentiamo la nuova luce proiettata sulla figura di
Achille nel saggio di Maria Grazia Ciani; la rilettura, intessuta di esperienza
vissuta nella mente e nel corpo, della figura di Orfeo nel saggiotestimonianza del tenore Massimo Crispi; e tornando al teatro danza, la
riproposizione da parte di Stefano Tomassini del mito di Romeo e Giulietta
nella versione di Roberto Zappalà, Romeo e Giulietta 1.1; e quindi le
origini della video art in Italia, nella recente pubblicazione di Laura Leuzzi.
Achille, Orfeo, Romeo e Giulietta e la video art: figure e forme che
sembrano tessere un'azione coreografica autonoma, che si intreccia
liberamente con la trama e lo sviluppo di Engramma 152. In questo senso i
contributi che li chiamano in causa sono da leggersi come momenti
danzanti, variazioni create dagli autori che agiscono come registi rispetto
ai personaggi che le loro pagine mettono in scena.
Un'ultima nota sull’immagine guida scelta per il numero di Engramma 152,
un'immagine che non poteva altri che essere altro – e quindi Orfeo. Orfeo
perché oggetto e soggetto di uno dei contributi, ma soprattutto perché
nella reinventio di Giorgio de Chirico – affrontata anche per la
realizzazione dell’allestimento scenico dell’Orfeo di Monteverdi nel 1949 e
dell'Orfeo ed Euridice di Gluck nel 1973 – l’infelice musico-poeta è ritratto
come un manichino accasciato, ma attorniato da una densa e variegata
collazione di oggetti che sintetizzano l’esperienza dell’artista, in una
proteica e proteiforme summa che si presenta anche come l'esito – tutto
scenografico – delle tante variazioni a cui il mito, sempre e da sempre, si
presta.
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Come il canto ci obbliga a voltarci
indietro
Scrittura artistica, semiseria, di un
“nipotino d’Orfeo”
Massimo Crispi
Mi presento subito. Io sono un nipotino di
Orfeo. E sono, ça va sans dire, ma lo
diciamo lo stesso, un cantante. Sulle origini
di Orfeo esistono molti contributi
fondamentali che hanno rivoltato il mito in
lungo e in largo, traendo insegnamenti e
avvertimenti, restando ammaliati dal suo
canto, e così via. Cercherò, se possibile, di
aggiungere qualcosa, magari con un tono
un po’ più giocondo rispetto a studi seriosi
e accademici, ma senza perdere l’essenza
della storia che il mito ci racconta. Di tanto
1| Giorgio De chirico, Orfeo
solitario, olio su tela 1973,
Roma, Museo Carlo Bilotti.
in tanto, però, un riferimento al tempo
perduto e al mondo classico ci vuole pure,
perché in quel mondo, da qualche parte,
abita la Urpflanze, la pianta primigenia che
Goethe bramava di trovare in Sicilia e che, simbolicamente, potrebbe
rappresentare l’inizio di tutte le cose che ritroviamo nella nostra vita
quotidiana.
Iniziamo dunque coll’occuparci di Orfeo e, di conseguenza, del canto,
mentre l’eco della sua voce rimbalza attraverso i millenni e i secoli e li
scavalca, tornando in auge di tanto in tanto e, alla fine, mostrandoci una
via. Ci si equipaggi per bene e ci si metta in marcia a cercare la propria
Euridice, perché di sicuro, per ognuno di noi, ce n’è una che aspetta, assai
irritata per la lunga attesa. Ha un caratterino, l’Euridice... Io la mia l’ho
trovata, persa, ritrovata, ripersa, le ho dato una terza possibilità e poi mi
sono rassegnato a lasciarla andare per i fatti suoi perché era diventata
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troppo esigente e io sono uno spirito libero. Forse l’Inferno era il posto
suo, alla fine.
La voce umana, la voce artistica in forma monodica, si cominciò a
riscoprire nel Rinascimento fiorentino dove, nei versi di poeti assai raffinati
come Agnolo Poliziano (1454-1494) e, un secolo dopo, Ottavio Rinuccini
(1562-1621), il mito del cantore Orfeo fu riesumato e non senza una
ragione. Pur se sporadicamente citato da Francesco Petrarca nei Trionfi, da
Dante Alighieri nel Convivio e da Giovanni Boccaccio nel Decameron, non
c’era stata ancora una ripresa così totale del mito da Ovidio in poi. Peraltro
Poliziano segue proprio il mito secondo Ovidio, dove avviene una svolta
omoerotica di Orfeo, una volta definitivamente perduta e senza ritorno,
Euridice. Naturalmente la versione fu censurata, in seguito, perché
piuttosto scabrosetta:
ORFEO
Qual sarà mai sì miserabil canto
Che pareggi il dolor del mie gran danno?
O come potrò mai lacrimar tanto
Ch’i’ sempre pianga el mio mortale affanno?
Starommi mesto e sconsolato in pianto
Per fin ch’e cieli in vita mi terranno:
e poi che si crudele è mia fortuna,
già mai non voglio amar più donna alcuna.
Da qui innanzi vo’ cor e fior novelli,
la primavera del sesso migliore,
quando son tutti leggiadretti e snelli:
quest’è più dolce e più soave amore.
Non sie chi mai di donna mi favelli,
po’ che mort’è colei ch’ebbe il mio core;
chi vuol commerzio aver co’ mie sermoni
di feminile amor non mi ragioni.
Un inno alla pederastia, com’è noto una forma d’amore accettata presso
Greci e Romani e, forse, agognata da molti umanisti, per quanto fosse
considerata peccato mortale per la cristianità. E, infatti, poco dopo codesta
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dichiarazione, dove il cantore supporta per altre due ottave di
endecasillabi la svolta omosessuale, trovando un appiglio negli esempi
celebri di Giove e Ganimede, Apollo e Giacinto, Ercole e Ila, peraltro senza
che il povero Orfeo abbia avuto il tempo di metterla in atto, intervengono
le Baccanti, furibonde per sentire così disprezzato il sesso femminino,
facendo scempio del cantore e sacrificandone il corpo a Bacco. Processo
alle intenzioni. Euoè!
Ça va sans dire, ma noi lo diciamo, colla censura della dichiarazione di
Orfeo post Euridice, non aveva più senso l’intervento cruento delle
Baccanti, e non proclamo che fu sempre adottato un lieto fine ma, nelle
riprese moderne, la favola fu modificata di parecchio. Una moresca o delle
danze erano il modo migliore per tornare a casa tranquilli senza choc di
fini infauste, dopo l’opera. A volte Euridice viene ricuperata una seconda
volta, magari da un deus ex machina, come nel caso dell’opera di
Christoph Willibald Gluck (1714-1787): e tutti vissero felici e contenti. Non
ci dice, Ranieri de’ Calzabigi, librettista di Gluck, se poi la coppia felice
mise al mondo tanti bambini, magari tutti con voci strepitose. Mancò un
sequel, nell’opera non si usava. Ci furono perfino clamorose e sferzanti
parodie operistiche del mito. La più celebre di tutte fu quella di Jacques
Offenbach, che con Orphée aux Enfers, 1858, prendeva in giro sia il mito
stesso, con espliciti riferimenti alla società imperiale parigina dell’epoca,
sia l’opera di Gluck, considerato intoccabile nella tradizione musicale
francese dell’Ottocento. Per non parlare del surreale Orfeo vedovo, 1950,
di Alberto Savinio. Ma questo sarebbe dovuto ancora avvenire, molto
tempo dopo il Rinascimento.
L’unione della poesia e del canto che, appunto, contraddistingue Orfeo, è
un volgersi indietro al passato remoto, perché i moderni erano convinti
che i versi delle tragedie greche e della poesia lirica fossero tutti canti,
suoni, lamenti e nenie. Riscoprendo il mondo antico, insieme all’uomo e la
sua fisicità, la sua presenza nel mondo, le sue pulsioni, in primis quella
erotica (come fece Poliziano), era inevitabile che si rivolgessero al modello
greco, dove l’uomo era al centro della poesia – teatrale, tragica e comica
ma non solo – colle sue passioni, i suoi eroismi, i suoi errori, i suoi destini
e i suoi rapporti colla divinità e col fato. E l’uomo, in quelle tragedie, si
esprimeva attraverso la voce e, in alcune parti, appunto, il canto. Certo
nessuno sapeva come si cantasse nella Grecia antica, e le discussioni
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animate nella fiorentina Accademia degli Alterati, sul finire del
Cinquecento, si svolgevano proprio su come ricostruire codeste tragedie,
studiando le antiche forme di sapienza, la pitagorica innanzitutto,
interrogandosi anche su come si potessero svolgere le rappresentazioni a
teatro. Ci torneremo.
Ottavio Rinuccini, presente in quell’Accademia, incominciò a comporre
quelli che diventarono i primi libretti d’opera della Storia, in uno stile
tassiano petrarchesco, con versi assai eleganti e musicali. Le lingue parlate
all’epoca nella penisola italiana e, soprattutto, il toscano, direttamente
evolutesi dal latino, avevano la caratteristica di possedere più di altri
idiomi, anche neolatini, una musicalità interna, delle intonazioni ben
decise e armoniose, una notevole drammaticità. Giusto per fare un
esempio, basti pensare che Adrian Willaert (1490-1562), Orlando di Lasso
(1532-1594), e una serie di altri compositori dell’Europa settentrionale, in
pieno Rinascimento, venivano a risciacquare i loro panni musicali in Italia,
spesso nel Golfo di Napoli, dove l’idioma era assai melodioso e adatto a
villanelle, madrigali buffi, parodie, inaugurando la tradizione secolare della
canzone napoletana. Applicare il canto e l’accompagnamento strumentale
ai versi di Rinuccini venne quasi naturale da parte dei cantori-compositori
come Jacopo Peri (1561-1633) e Giulio Caccini (1550-1618).
Il primo melodramma in assoluto fu La Dafne di Jacopo Peri, nel 1597, del
quale quasi tutta la musica è perduta, seguìto poco dopo da L’Euridice,
che apre il 1600, collaborazione di Peri e Caccini. Quest’invenzione si
chiamò “recitar cantando” e tanti interrogativi pose in seguito nella
ricostruzione dell’emissione vocale vera e propria. Certo, i versi di
Rinuccini, pur eleganti, non avevano la penetrazione di quelli d’un
Torquato Tasso (1544-1595), dall’immensa ispirazione poetica che ne
caratterizzò l’opera. Era più un poeta cortigiano, forse più attento a una
perfezione formale che però faceva buon gioco a un genere misto
nascente, soprattutto se composto per una corte e quindi per occasioni
gioconde come feste e nozze, d’onde il lieto fine.
Il potere evocativo della voce umana, nella versione monodica, con
indefinibili e innumerevoli sfumature timbriche, interpretative, musicali, in
uno spettacolo nuovo come il melodramma, sconvolse il mondo intorno,
che non aveva mai ascoltato un simile esperimento. L’uso della lingua
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toscana, la più musicale in assoluto, si rivelò vincente anche per il futuro
perché l’opera italiana è ancora oggi la più rappresentata nel mondo e la
magia creata dalla voce si ripropone ad ogni rappresentazione.
Orfeo, di certo, colla sua voce spostava le rocce, faceva diventare
mansuete le belve, faceva cessare le procelle, commoveva le divinità,
faceva tacere perfino le sfacciate sirene, anch’esse esperte nell’arte canora
e celebri nell’ammaliare i naviganti per poi ucciderli e divorarli, ed era il
migliore mito a disposizione per la nascita di un nuovo genere
rappresentativo dove il testo, il canto e la musica si fondevano per la
prima volta dall’epoca della tragedia classica, anche se in maniera
tutt’affatto diversa.
Lo sviluppo e il successo che il neonato melodramma ebbe furono
imprevedibili. I musici toscani diffusero le loro partiture in men che non si
dica e arie, madrigali, recitativi, ariosi furono composti sui testi di
Rinuccini, ma anche su testi di Tasso (le ottave della Gerusalemme
Liberata), Giambattista Guarini (1538-1612) (Il pastor fido), Giambattista
Marino (1569-1625), Gabriello Chiabrera (1552-1638). Ma fu soprattutto
Petrarca, il precursore dell’Umanesimo, l’autore fra i più saccheggiati per
la musicalità del suo verso e che servì d’esempio per la poesia italiana e
straniera per secoli a venire. Quelle composizioni affollano ancora oggi le
biblioteche storiche e rimasero ineseguiti per molto tempo, dopo il
Seicento. Autori come Claudio Monteverdi, Giulio Caccini, Claudio Saracini,
Benedetto Ferrari, Stefano Landi, Francesco Cavalli, Luigi Rossi,
Sigismondo D’India e una schiera infinita di creatori di melodie e recitativi
struggenti e drammatici, tutti a cavallo tra Cinque e Seicento, svilupparono
le possibilità della voce umana, con una raffinatezza e una propensione al
virtuosismo sconosciuta al mondo classico. O, almeno, supponiamo che
sia così, anche perché non ci è stato tramandato alcun trattato di canto
arcaico, se mai ce ne fosse stato qualcuno. C’è da dire che, nel periodo tra
quei due secoli e poi per tutto il Seicento, che fu definito “barocco”
solamente nella seconda metà del Settecento, inizialmente in accezione
spregiativa, uno degli elementi della poetica dell’epoca era proprio creare
un’atmosfera di “meraviglia”, giacché, come ci ricorda Giambattista
Marino:
La Rivista di Engramma 152 gennaio 2018
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È del poeta il fin la meraviglia
(parlo de l’eccellente, non del goffo):
chi non sa far stupir vada alla striglia.
Il virtuosismo, fosse idiomatico o pittorico, musicale o architettonico, era
un modo per stupire l’osservatore o l’ascoltatore, uno degli artifici retorici
più efficaci per comunicare emozioni. Così, da un tentativo di ricreare in
modo moderno l’antica tragedia greca, scaturì la nuova e assai più
complessa forma di comunicazione dell’opera lirica, il melodramma,
appunto.
Soffermiamoci per un istante a considerare il lavoro che un artista fa, in
un’arte rappresentativa come il canto e l’opera: un lavoro complesso
quanto, se non più, gli incantesimi di Orfeo. Può aiutarci a capire come
uno strumento così primitivo e profondamente soggetto all’emotività
come la voce umana provenga dall’antichità e surfi sulla spuma del tempo
per dirci sempre qualcosa di nuovo.
Il cantore trace, un citaredo, si esibiva colla sua lira per accompagnare il
suo canto ora dolce, ora appassionato, ora triste, ora sconsolato, per
cantare la serenata a Euridice o per disperarsi colle rocce e la Natura per la
perdita della sposa. Andando agli Inferi per cercare in qualche modo di
recuperarla, Orfeo cominciò a cantare nenie commoventi per Caronte e poi
per Proserpina e Plutone, divinità ipogee, che alla fine, contravvenendo alle
regole, lasciarono libera Euridice alla condizione, per Orfeo, di non voltarsi
mai a guardarla prima dell’uscita dal tunnel. Nei miti, così come nelle
fiabe, c’è sempre una condizione per raggiungere la felicità, nulla viene
mai elargito gratuitamente, in ogni favola. Orfeo deve percorrere il
cammino a ritroso, senza voltarsi. Può essere anche un messaggio in cui si
evidenzia che a volte non basta ammaliare il potente di turno per vincere.
Ci sono altre prove da affrontare.
Il lavoro di un cantante, dicevamo, è assai più duro. La voce che l’artista
userà per convincere l’uditorio dovrà essere cercata assai in profondità,
non scaturisce spontaneamente e senza fatica come succedeva a Orfeo.
Alla fine per lui era normale e facile aprir bocca e avere tutti ai suoi piedi,
il suo era un dono celeste, derivante dalla madre Calliope, la musa “dalla
bella voce”, ispiratrice della poesia epica. Per i nipotini di Orfeo i geni
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divini si sono molto diluiti attraverso i millenni e quindi, per recuperare il
rapporto colle origini, bisogna lavorarci su molto duramente. E già:
aprendo bocca per cantare si mettono in moto meccanismi neurovegetativi
che nessuno normalmente sospetterebbe e si provano sensazioni
ancestrali che spesso stupiscono lo stesso cantore. L’introspezione è
totale ed è un cammino a ritroso dentro il proprio corpo e dentro la
propria mente, che apre le porte del proprio Inferno. Il cantante deve
scoprire i meccanismi più segreti e intimi della produzione del suono, deve
imparare a sentire il proprio corpo in ogni sua parte, la propria
respirazione, il battito cardiaco, la posizione del corpo nello spazio,
l’astrazione del medesimo, la ricerca delle emozioni, piacevoli e, cosa più
dura, spiacevoli, e quindi la proiezione di un affetto rielaborato al di fuori
di sé, sfidando in apparenza le leggi della fisica.
Ma la faccenda è ancora più stratificata di quanto si possa immaginare.
Andando ulteriormente a ritroso nel tempo, in culture più arcaiche di
quella della Grecia classica, che comunque era il quadrivio dove tutte le
culture di allora passavano e si concentravano, l’atto primigenio della
fonazione era il respiro, anzi, era ancora precedente al respiro, era la
preparazione della glottide al passaggio del fiato: il colpo di glottide.
Il colpo di glottide è una consonante, la cosiddetta “occlusiva glottidale
sorda”, e si realizza chiudendo le corde vocali per fermare il flusso
dell’aria per riaprirle di colpo e permettere al suono di formarsi. Di là
dall’atto puramente meccanico e fisico, la consonante muta ha un
significato enorme a livello mistico ed esoterico. Questo “suono senza
suono” si espresse graficamente in molti modi, che si evolvettero dal
geroglifico egizio rappresentante il profilo sinistro di una testa bovina e
che si trasmise quasi identico, stilizzato, nelle lingue protosemitiche del
Mediterraneo, per diventare, attraverso stilizzazioni successive, l’aleph
fenicia, mantenendo il valore fonetico del colpo di glottide, che fu
conservato nella lingua semitica. I Greci, per iniziare il loro alfabeto,
avendo una lingua con tutt’altri suoni, utilizzarono un simbolo derivato dal
fenicio, che era appunto la prima lettera alfabetica, l’alpha, (). Che poi
sarebbe diventata la nostra A, con un suono aperto ben diverso dal colpo
di glottide muto, e che però lo avrebbe immediatamente seguito, dando
vita al suono più utilizzato dall’uomo: ‘Ah!’ (perbacco!), ‘Ahhhhh!’ (stupito
compiacimento); ‘Aaaaaaargh!’ (paura); ‘Ahahahaha!’ (riso); ‘Ahè!’
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(incitamento a calmarsi verso qualche astante molesto); ‘Ahi!’ (duolo)... e
così via. Ma soffermiamoci ancora sul significato dell’aleph, perché è
interessante la simbologia ad esso legata e che si interseca colla ricerca
nel profondo del mistero del nostro corpo e, se vogliamo indulgere al
soprannaturale, della nostra anima.
L’aleph è, nella cultura ebraica, il principio di tutte le cose, l’atto creativo
di , Geova, Jahvè, Dio e anche Dio stesso, il suo nome. A Dio non
occorre neanche pronunciare per creare, basta che dia il soffio vitale per
animare qualsiasi cosa voglia. Animare, dare un’anima, dal greco ! #%
(soffio, vento), la parte spirituale (da spiritus, che in latino significava
anch’esso “soffio”) e vitale dell’essere vivente che, secondo le religioni,
sarebbe distinta dal corpo materiale. E, insieme all’omega, l’alfa chiude il
cerchio dell’inizio e della fine, facendoli coincidere nell’eternità (d’altronde
si può giocare sull’etimologia di “eterno” o “etterno”, ricollegandola a ex
terno, fuori dalla terna del tempo: passato, presente e futuro). Le due
lettere apocalittiche.
Ecco, a poco a poco ci siamo arrivati. L’indagine all’interno della
produzione, cioè della creazione, di un suono vocale parte proprio dal
colpo di glottide primigenio, dal significato che quest’atto creativo si porta
dietro. Il cantante crea il suo suono, soffia l’anima, lo spirito, dentro ciò
che trasmette all’ascoltatore, crea qualcosa che è assolutamente
incorporeo ma che viene percepito da chi ascolta e quindi esiste.
Sarà una considerazione forse simile a questa che farà scrivere a Giovanni
Battista Vico, citato in Michele Parma, Sopra Giambattista Vico. Studii
Quattro (Milano, 1838):
“[... ] Gli è che il canto, in un ordine massimo delle cose, è superiore alla
parola, e in niuna guisa soggiacente a quelle circoscrizioni che gli usi e le
abitudini pongono al linguaggio: molte cantilene sono lusinghiere, inducono
presto sazietà, passano; ma rimane sempre del canto quella sublime virtù di
scuotere prepotentemente con la più immediata espressione dei più cari
sentimenti, l’idiota e il sapiente, il fanciullo e il vecchio, il ricco e il povero,
l’uomo fortunato e l’uomo infelice”.
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La Rivista di Engramma 152 gennaio 2018
Non sembrava così complicato, vero? Quando si ascolta la voce divina di
Lucano Pavarotti (1935-2007) o di Maria Callas (1923-1977) tutto sembra
liscio come l’olio ma il lavoro, anche solamente a livello intuitivo, che ci sta
dietro è titanico. O, forse in questo caso, orfico, per meglio dire. La
produzione di ogni fonema cantato ha una sua ragion d’essere, e ogni
fonema dev’essere legato all’altro, deve esprimere un senso drammatico,
molto più complesso della voce semplicemente parlata. I suoni più lunghi
devono essere continui e intonati, secondo l’intonazione stabilita
dall’autore, non basta l’accento tonico della parola, che pure c’è, e
intervengono altre misurazioni, sebbene il recitativo conservi una struttura
ritmica legata al verso. E in questo suono, appunto, ci deve anche stare
l’espressione.
A un certo punto, man mano che l’esplorazione della vocalità veniva
approfondita e arricchita dall’esperienza dei compositori e dei cantori, in
alcune arie e/o recitativi, soprattutto nei momenti cadenzali, ossia alla fine
della frase o del periodo musicale, si iniziarono a inventare e introdurre
degli abbellimenti. Un po’ per amor di variazione, anche perché tre ore di
nenie senza fine in un registro compreso in un’ottava e mezzo, ma quasi
sempre insistente sul centro della voce, senza molti cambi di tonalità,
potevano risultare un po’ noiose. Gli abbellimenti, detti anche diminuzioni
perché diminuivano, frammentavano la nota più lunga in molte note che
dovevano essere messe in relazione col contesto armonico, in modo da
‘abbellire’, furono codificati dai cantori virtuosi dell’epoca, primo tra tutti
Giulio Caccini, che con Le nuove musiche (1602) diede un’impronta
virtuosistica al recitativo. Ma l’abbellimento non doveva essere fine a sé
stesso. L’abbellimento era un integratore intimamente connesso alla vera
arte, che era quella di muovere gli affetti, l’espressività.
I risultati si videro presto. La famosa aria di Orfeo dall’atto III
dell’omonima opera (1607) di Claudio Monteverdi (1567-1643), “Possente
spirto”, lamento orientato ad ammorbidire Caronte, il traghettatore
infernale che avrebbe dovuto consentire a Orfeo vivo l’ingresso nel regno
dei morti, cosa impossibile, ha una doppia versione. Una di esse è più
lineare, fedele ai dettami del recitar cantando, dove maggior importanza
era data alla parola o, forse, perché i cantori futuri potessero diminuirla a
loro arbitrio secondo la propria arte. Ma, per la prima assoluta di Mantova
alla presenza dei duchi, avendo a disposizione Francesco Rasi
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(1574-1621), uno dei più celebri virtuosi dell’epoca, Monteverdi compose
anche una versione densissima di variazioni e diminuzioni assai
complesse, degne del grande virtuoso, testimoniando una complessità
tecnica che già doveva essere assai sviluppata. Con questi abbellimenti,
presenti solamente in quest’aria e nel duetto di Orfeo con Apollo, il padre
di Orfeo secondo alcune versioni del mito o, almeno, quella utilizzata dal
librettista Alessandro Striggio Jr. (1573-1630), dove i due tenori duettano a
suon di vocalizzi, il cantante può esprimere non solo il virtuosismo tecnico
ma anche quello espressivo in grande libertà, senza rispettare
strettamente la notazione ritmica indicata sul pentagramma: Orfeo può far
durare di più o di meno un vocalizzo, rallentarlo o accelerarlo secondo il
suo criterio interpretativo, certo, sempre all’interno di un insieme ritmico,
ma assolutamente soggetto alla bravura e all’estro dell’artista.
Ma perché il cantore di tutti i cantori si esprime con un canto
straordinariamente fiorito di melismi e trilli e gorghe e groppi solamente
in quei punti? Perché in quei punti Orfeo si rivolge a una divinità o dialoga
con lei: colle divinità, le normali canzoni e arie possono apparire banali, ci
vuole qualcosa di emotivamente più forte e magari un’aria di bravura.
Apollo non può che essere arcicontento che il suo figliolo lo eguagli in
vocalizzi spericolati e le orecchie di Caronte, personaggio in genere assai
burbero e insensibile, vengono vellicate dalla sapienza canora del trace,
che lo ipnotizza e lo fa addormentare per poter passare oltre.Il ‘basso
continuo’, invenzione barocca, forniva il bordone armonico dentro il quale
la voce poteva spaziare, improvvisare, scatenarsi. Nella lirica classica, la
pratica del canto monodico accompagnata da una cetra si chiamava
citarodica, concettualmente simile al basso continuo, ma in che termini si
eseguisse, e quali fossero le indicazioni degli autori al proposito, non si
sa.
Di certo la lirica greca era basata sul ritmo, l’armonia così come la
intendiamo noi era sconosciuta, e la melodia si avvaleva di tre modi per
esprimere gioia, mestizia e dolore: i modi frigio, mesolidio e lidio. Però il
mistero della musica antica (e quindi del canto) resta irrisolto, perché le
indicazioni musicali, apposte sui papiri posteriormente ai versi, furono
scritte con un inchiostro che non ha resistito al logorio del tempo. Un
inchiostro antipatico. Le ricostruzioni attuali di alcuni frammenti di epitaffi
e inni greci sono fantasiose seppur suggestive ma non ci dicono molto di
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più di ciò che non sappiamo e, forse, non sapremo mai.Aristotele, nella
Poetica, ci racconta che la tragedia nacque dall’improvvisazione,
precisamente da parte di “coloro che cantano il ditirambo” in onore del dio
Dioniso e ci informa anche, nella Politica, della funzione catartica del
teatro e della musica. Come detto prima, non sappiamo in realtà come
questa ‘improvvisazione’ si svolgesse agli albori del teatro, se si facessero
dei vocalizzi, se l’improvvisazione fosse accompagnata da espressioni
corporee, vale a dire danze, e se tutto fosse soggetto all’arbitrio dei
coreuti, né cosa gli autori prescrivessero. La tragedia greca utilizzò il coro,
un insieme di voci, in diversa maniera da Eschilo a Sofocle e, in seguito, a
Euripide, fino lasciare via via maggior spazio ai singoli attori, che
crescevano sempre più numericamente in parallelo all’evoluzione del
teatro. I cori a poco a poco non si limitarono più all’espressione vocale ma
la accompagnarono con movimenti coreografici, su una traccia musicale
eseguita da flauti.
L’accompagnamento musicale della neonata opera lirica era invece
affidato, come abbiamo visto, al “basso continuo” ossia a uno o più
strumenti, un clavicembalo, un organo, una viola da gamba, un violone, un
liuto, un’arpa, un chitarrone, a volte tutti insieme, che fornivano il tappeto
sonoro su cui la voce poteva passeggiare recitando e cantando allo stesso
tempo ma, a differenza del modo antico, inserendosi in un’armonia.
Nell’aria di Orfeo, inoltre, alcuni strumenti sono proprio specificati da
Monteverdi e sono utilizzati in funzione di dialogo colla voce: l’arpa, due
violini e basso da brazzo, due cornetti, l’organo di legno, il chitarrone,
proprio per sottolineare, arricchire o imitare la voce del cantante, spesso
in eco, altro artificio barocco, mentre gli strumenti utilizzati nel teatro
antico erano assai diversi. La versione fiorita dell’aria di Orfeo del III atto è
un preannuncio inconsapevole di ciò che avverrà in futuro nel
melodramma, ossia il cantar recitando piuttosto che il contrario. Al canto
saranno affidati sempre più fioriture, sempre più vocalizzi, sempre più
stupefacenti invenzioni, e i cantanti saranno sempre più specializzati nella
tecnica vocale: l’artificio barocco, la ‘maraviglia’, la bravura, il belcanto.
Peraltro, non bisogna pensare che Claudio Monteverdi fosse sempre
propenso al canto fiorito. In una delle sue massime composizioni, un
madrigale in stile rappresentativo, ossia un madrigale che si poteva
rappresentare come una vera opera, Il Combattimento di Tancredi e
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Clorinda (1624), su alcune ottave della Gerusalemme Liberata di Torquato
Tasso, Monteverdi fa specifica richiesta agli esecutori di non utilizzare
alcun abbellimento, secondo le regole del recitar cantando: il cantante
“Non doverà far gorghe nè trilli in altro loco, che solamente nel canto de la
stanza che incomincia Notte...”. La recitazione cantata, che in questa
composizione raggiunge uno dei suoi massimi storici, sui sublimi versi
tassiani, in un perenne dialogo della voce con pochi strumenti ad arco e un
basso continuo, era lo scopo principale da raggiungere. Il virtuosismo
vocale poteva aspettare, l’espressione era più importante, i gorgheggi
erano solo consentiti nell’aria della Notte, un’invocazione alla sua oscurità,
al suo mistero, alle sue illusioni, ai suoi abissi, acciò che la notte stessa si
disponesse a far risplendere e immortalare le imprese e la fama dei due
guerrieri-amanti, che pur erano nascoste dalla sua oscurità. Simili contrasti
ben potevano essere abbelliti a discrezione del narratore per meglio
esprimere la congerie notturna di sentimenti e sensazioni. Il resto era la
cruda battaglia di due amanti inconsapevoli, colla desolante scoperta
finale di Tancredi che aveva ucciso l’oggetto del suo amore, mentre lo stile
concitato della voce del narratore partecipe e degli strumenti faceva
risaltare lo spirito del combattimento corpo a corpo – colle sue pause, i
suoi scontri, le ferite, lo sdegno, la pietà. Un finale etereo, affidato al canto
soffuso del soprano, chiude il madrigale in pianissimo, in punta di piedi,
coll’ascesa al cielo dell’anima di Clorinda, ormai battezzata, tenendo il
pubblico col fiato sospeso. Anche questa era la “maraviglia” barocca.
L’evoluzione del linguaggio vocale monteverdiano, nei suoi principali
drammi storici e mitologici a noi pervenuti (Il ritorno d’Ulisse in patria,
1640, e L’incoronazione di Poppea, 1642, su due libretti di altissimo
valore poetico, rispettivamente di Iacopo Badoer (1602-1654) e Giovanni
Francesco Busenello (1598-1659), entrambi veneziani), rispetta sempre la
recitazione espressiva di tutti i personaggi, non tralasciando nessun
carattere, lasciando spazio alla virtuosità solo in alcuni momenti. Il
virtuosismo vocale si esprime più nei madrigali degli ultimi libri, dove la
voce umana, d’ogni registro, sfodera spesso vocalizzi complessi e sublimi,
alternando frequentemente ariosi, ciaccone, passacaglie e recitativi
all’interno della stessa composizione.
Il massimo dell’elaborazione virtuosistica vocale Monteverdi lo espresse in
uno dei monumenti della musica sacra di tutti i tempi: il Vespro della Beata
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Vergine, 1610. Lì la voce è veramente utilizzata senza pudore e l’abilità
richiesta ai cantanti è tra le più alte e specialistiche possibili. Lì c’è quasi il
parossismo del virtuosismo, concesso con reticenza al recitar cantando, lì i
narratori sacri devono mostrare vocalità soprannaturali, irraggiungibili,
scioccanti, come se fossero onnipotenti angeli.
La ‘maraviglia’ barocca, a volte, si poteva mutare in orrore. La moda degli
evirati cantori, poveri bambini in età pre-puberale, dotati di voci soavi e
promettenti, ai quali erano asportati gli organi sessuali per impedire lo
sviluppo dei caratteri sessuali come la muta della voce, fu uno degli orrori
più insani che abbia mai insanguinato l’arte del canto. La ragione perversa
di queste castrazioni a fini canori (sebbene le prime notizie di questa
pratica risalgano già al V secolo d.C. a Bisanzio) trae le sue origini dalla
precocissima censura cristiana sul teatro e, di conseguenza, anche sul
canto: le donne non potevano cantare, meno che mai in chiesa, per
pregiudizio, e la necessità della musica di avere voci femminili, soprani e
contralti, sia da solisti che nei cori, esigeva la presenza di voci bianche
maschili per meglio cantare le lodi del Signore. Qualcuno, a quel punto,
ebbe l’orribile idea di iniziare a castrare i bambini per ovviare a questa
necessità. La voce dei castrati si preservava così eternamente pura, come
quella dei bambini, sebbene sviluppasse un timbro assolutamente sui
generis, mentre il corpo cresceva in maniera abnorme, innaturale. Spesso i
castrati erano d’alta statura, con corpi ingombranti, con potenze
polmonari irraggiungibili e fiati lunghissimi, esercitati da lunghi e fitti
training con maestri severissimi, che a volte erano gli stessi compositori di
cui gli sventurati allievi eseguivano la sublime musica, o altri castrati più
anziani. La loro vita diventava un inferno dal punto di vista fisico e umano,
perché gli infelici non potevano avere una normale attività sessuale, oltre a
soffrire frequenti disagi fisici, dovuti a uno sviluppo innaturale, anche se,
in molti casi, essendo dei veri e propri fenomeni vocali e musicali, contesi
da tutti, godevano di agi e ricchezze, quando non di un vero e proprio
prestigio internazionale, a servizio dei regnanti dell’epoca.
Le opere e i ruoli scritti per queste voci uniche dai più grandi compositori
del Seicento e del Settecento, tra i quali troviamo, non per caso molti
“Orfeo”, contengono pagine straordinarie, ma è veramente disperante
soffermarsi a pensare che la bellezza musicale e l’infelicità di quelle
persone fossero due aspetti complementari, così strettamente collegati. La
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cosa ulteriormente strana, specialmente ai nostri occhi moderni, è che i
ruoli che spesso i castrati erano destinati a ricoprire nei melodrammi
erano quelli degli eroi della mitologia classica: dèi, guerrieri, magari anche
sciupafemmine, che rispetto alla mutilata sessualità dell’evirato cantore
avrebbero dovuto essere incompatibili e risultare ridicoli.
Ma non solo. I castrati ricoprivano talvolta anche ruoli femminili, in ispecie
dove le donne non potevano esibirsi. Eppure l’idealizzazione, l’astrazione
e la sublimazione nell’arte, a quell’epoca, rendevano quasi indispensabile
la presenza di almeno un castrato in un’opera di successo, per lo meno in
Italia, Inghilterra, Portogallo, Spagna, principati germanici e Impero austroungarico. La Francia non apprezzava molto i castrati, preferendo l’hautecontre, assimilabile al futuro tenore contraltino. Se Georg Friedrich Händel
(1675-1759) non avesse avuto Senesino (1686-1758), Carestini
(1794-1760), Baldi (1692-1768) e una schiera di valenti musici castrati,
forse i ruoli di quegli eroi sarebbero stati diversi. Oggi li apprezziamo
anche cantati da soprani, mezzi e contralti femminili: quei ruoli sono
scritti in maniera talmente straordinaria, che non ne soffrono.
Coll’avvento dei castrati la voce come veicolo magico di comunicazione
emotiva raggiunse il parossismo. Le cronache riferiscono di svenimenti di
dame, scoppi di pianto a dirotto, scene isteriche tra il pubblico per le
interpretazioni dei castrati del momento. Di certo è difficile per noi
moderni avere un’idea di cosa dovesse essere ascoltare queste voci dai
timbri di là dall’umano, con un’educazione vocale senza pari e capaci di
virtuosismi inaccessibili ai più, strumentisti compresi. I fiati lunghissimi su
cui venivano inanellate lunghe “messe di voce”, ossia dei suoni che
partivano pianissimo per arrivare al fortissimo e ritornare al pianissimo,
mantenendo l’intonazione perfetta e la sensazione che il suono non finisse
più grazie alla potenza respiratoria e all’abilità di cui i castrati
disponevano, restano leggendari. Ma era proprio la qualità di quel suono a
rendere unica la voce del castrato: una voce infantile ma sviluppata al
tempo stesso, con qualche caratteristica adulta, peculiarità sovrannaturali,
quasi angeliche, non di questo mondo. Niente a che vedere coi moderni
falsettisti, molti dei quali assolutamente e ridicolmente sgallettati,
autentica aberrazione del XX e XXI secolo che, paradosso della storia, sono
amatissimi proprio nella Francia che rifiutò i castrati. Il barocco, quindi,
nella sua massima aspirazione alla “maraviglia”, costruì quelle creature che
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erano come macchine biologicamente modificate per la soddisfazione
degli ascoltatori, portando la voce umana oltre i traguardi immaginabili,
come nel mito orfico, ma a prezzo dell’infelicità personale di molti di
quegli esecutori.
A parte quelli più celebri, che da vite di poveri miserabili, com’erano quelle
delle famiglie d’origine da cui molti provenivano, trovarono ricchezza,
stima e fortuna, come Farinelli (1705-1782) o Senesino, c’è una schiera
infinita di molti altri cantanti meno fortunati che non arrivarono a essere
bravi come i quei fuoriclasse, o non erano bravi per niente, e finirono la
loro vita nei cori, coll’aggravante di non poter avere una vita pienamente
vissuta perché sessualmente mutilata. Sovente i ruoli dell’infelice Orfeo
furono scritti per castrato, quasi per ironia della storia. Uno dei più celebri
fu il protagonista di Orfeo ed Euridice di Gluck, il castrato Gaetano
Guadagni (1728-1792), per il quale, a Vienna, fu creato il ruolo e che portò
in giro l’opera per le capitali musicali più importanti. Lo stesso ruolo,
Guadagni lo coprì per un altro Orfeo ed Euridice (1762) sul medesimo
libretto di Ranieri De’ Calzabigi ma con musica di Ferdinando Bertoni
(1725-1813), che rivaleggiò a lungo colla versione gluckiana, almeno in
Italia.
Era passato un secolo e mezzo da L’Orfeo di Monteverdi. Il melodramma si
era evoluto ed era cambiato enormemente. Il recitar cantando era quasi
scomparso, sebbene le qualità attoriali richieste ai cantanti fossero sempre
assolutamente necessarie per infiammare il pubblico e richieste nella
preparazione artistica dai grandi maestri e trattatisti. Guadagni, infatti, era
un campione di canto di espressione, assai distante da quello virtuosistico,
che pure conosceva, ed era dotato di grandi arti sceniche perché si era
formato alla scuola shakespeariana di David Garrick a Londra. Il canto
gluckiano era quasi un ritorno alla purezza delle origini, scordando i fasti
del barocco e avviandosi verso il neoclassicismo.
È singolare come i soggetti mitologici e storici, comunque, non sparirono
quasi mai dal repertorio operistico serio. Perfino in pieno Ottocento e
anche nel Novecento ci furono interpretazioni moderne delle tragedie di
Sofocle o Euripide e Seneca, basti pensare alla Medea (nata in francese
come Médée, 1797) di Luigi Cherubini (1760-1842), o la Medea di
Giovanni Pacini (1796- 1867), o Orpheus e Oedipus Rex di Igor Stravinsky
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(1882-1971), quest’ultimo rivisitato in un latino maccheronico da Jean
Cocteau (1889-1963). La cosa più strana è che quest’ultimo Orpheus è un
balletto. Si perde quindi la potenza evocatrice della voce umana che
ammansisce le belve e commuove gli dèi, mentre risalta la potenza della
bellezza classica del corpo perfetto e statuario dei danzatori, altra
categoria estetica del classicismo e del neoclassicismo.
Ma facciamo un passo indietro e torniamo alla fine del Settecento. I
castrati a poco a poco si estinsero, sia per l’avvento della Rivoluzione
Francese, e quindi di un mutamento epocale dei costumi, delle leggi, della
morale, sia perché nel frattempo la voce aveva trovato altri compositori e
interpreti che preferivano altri registri. Il Preromanticismo incoronò la voce
di tenore per i ruoli dell’eroe per poi confermarlo nel Romanticismo pieno
e nel Verismo, anche come eroe negativo. La voce del tenore, dagli esordi
del melodramma, si era andata trasformando. Un tenore come l’Orfeo
monteverdiano non aveva più alcun senso. Da premettere che le opere
monteverdiane erano già cadute nell’oblio da un bel pezzo, così come
quasi tutte le opere barocche. Démodé. Il concetto che noi abbiamo oggi
di repertorio allora non esisteva ancora: dopo relativamente poche recite le
opere erano destinate ad affollare gli archivi musicali. Le opere più
fortunate di autori celebri come Georg Friedrich Händel, Antonio Vivaldi
(1678-1741) o Nicola Porpora (1686-1768) e non molti altri avevano delle
riprese secondo il successo che avevano riportato, e il successo era di
solito determinato da interpreti di valore, spesso i castrati, ma dopo un
po’, alla morte dei compositori, erano dimenticate.
Qualche aria particolarmente straordinaria sopravviveva perché il cantante
per cui era stata composta la portava con sé e la tirava fuori a grande
richiesta del pubblico, pur se con quell’opera non c’entrava niente (la
cosiddetta “aria di baule”), proprio perché i veri divi dell’epoca erano i
cantanti, molto meno i compositori. Un repertorio operistico iniziò
seriamente a crearsi nella seconda metà del Settecento, quando
compositori come Gluck o Wolfgang Amadeus Mozart (1756-1791) si
affacciarono alla ribalta. E con Mozart l’eroe divenne il tenore. Idomeneo,
Tito, Belmonte, Tamino, sono l’espressione di vari profili di eroe: il re
padre divorato dal rimorso per aver fatto promesse avventate agli dèi,
l’imperatore romano magnanimo, il giovane nobiluomo spagnolo che parte
alla ricerca della moglie rapita dai Turchi, il principe orientale senza
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macchia e innamorato che aspira alla purezza e alla saggezza massima dei
sapienti massoni... La strada per l’eroe romantico e post-romantico del
futuro era spianata: Florestan, Edgardo, Arturo, Manrico, Otello, Rodolfo,
Calaf e così via.
Ma abbiamo parlato sempre e solamente di voci maschili o di uomini che,
per castrazione, avevano voci assimilabili a quelle femminili. Discorso
analogo a quello per le voci maschili si può fare per quelle femminili. In
origine le cantatrici di qualità erano poche e ricercate, perché le donne di
spettacolo erano assimilate spesso a prostitute. Molte di quelle poche,
accolte nelle corti e nelle città più aperte alle arti, come Firenze, Mantova o
Venezia, si fecero apprezzare per le loro doti attoriali e canore. Spesso
erano figlie d’arte, ossia di compositori e cantanti, come Francesca Caccini
(1587-1641), Barbara Strozzi (1619-1677), Vittoria Archilei (1550-1620),
Adriana Basile (c.1580-c.1642) e le sue sorelle, la sua figliola Leonora
Baroni (1611-1670), Anna Renzi (1620- c.1661). Oppure, erano monache.
E lì, le monache erano anche compositrici.
Ma in un mondo maschile, soprattutto quello dominato dalla religione,
difficilmente le compositrici avevano una qualche considerazione (così
come nelle altre arti, d’altro canto; rarissime, come noto, donne pittrici o
scultrici riuscirono a emergere: Artemisia Gentileschi (1593-1654), o,
prima, Properzia de’ Rossi (1490-1530), anche intagliatrice incredibile di
noccioli di ciliegia e di pesca!). Nel Seicento, coll’affermazione progressiva
del melodramma e la moltiplicazione dei teatri pubblici veneziani, in una
città dai costumi più rilassati come, appunto, Venezia, le donne cantatrici
si diffusero sempre più. Le artiste, che non potevano mancare nei
cartelloni di melodrammi sempre più ricchi ed elaborati, a poco a poco si
espandettero a dismisura, pur vivendo sempre all’ombra dei veri divi
dell’epoca – i castrati.
In Inghilterra furono create delle opere, lì conosciute come Masque,
addirittura per collegi femminili, come Dido and Aeneas (1689) di Henry
Purcell (1659-1695), dove gli unici cantanti maschili sono il tenore Aeneas
(peraltro con un ruolo assolutamente marginale rispetto a quelli muliebri),
e i coristi. Caso quasi unico. Per avere altre opere quasi tutte al femminile
bisognerà aspettare Giacomo Puccini (1858-1924) con Suor Angelica e
Francis Poulenc (1899-1963) con Dialogues des Carmélites. Sempre suore.
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Lentamente, a fine Seicento e definitivamente nel Settecento, soprani e
contralti femminili ebbero il loro momento di gloria, soprattutto in Italia,
Austria e Inghilterra, dove Händel creò musica immortale per Anna Strada
del Po, Margherita Durastanti, Francesca Cuzzoni, Faustina Bordoni, tra le
più reclamate star dell’epoca. I grandi personaggi tragici, storici e
mitologici, incarnati da quei soprani e mezzosoprani, come Almirena,
Agrippina, Alcina, Cleopatra, Rodelinda, Asteria, Partenope, Armida, e così
via, restarono nella storia anche per l’evoluzione stessa della vocalità
grazie a un incontro fortunato di compositore e virtuose. Händel quando
componeva, anche per gli strumenti, aveva sempre presente la voce
umana. Le felici linee melodiche affidate spesso agli strumenti solisti, sia
nella musica strumentale che in quella sinfonico-vocale (oltre alle opere c’è
la monumentale produzione di oratori), sono essenzialmente vocali,
Händel fa cantare gli strumenti, soprattutto quelli a fiato, assimilando la
comunicativa e il linguaggio drammatico precipuo della voce umana.
La reinvenzione tardo-barocca dei ruoli classici, soprattutto su testi
metastasiani, apre nuove porte all’interpretazione teatrale e soprattutto
vocale rispetto ai primi melodrammi degli esordi. Lo schema è semplice:
da una parte i recitativi ‘secchi’, spesso interminabili, dove il cantante
recita sopra un basso continuo scarno ed è concentrata l’azione e la
spiegazione di ciò che avviene; dall’altro le arie col da capo, ossia il
massimo momento espansivo della voce, con tutti i virtuosismi possibili e
immaginabili, anche espressivi, dove il cantante può esprimere, attraverso
un suo momento compositivo nel da capo, il suo ‘affetto’ o i contrasti
affettivi in cui la vicenda lo pone. In pratica si mette in secondo piano il
recitar cantando ma si spalancano le porte a ciò che diventerà il canto vero
e proprio nel futuro: l’aria, la canzone, la romanza sarà il momento di
gloria del cantante e anche del compositore. Coll’Ottocento le cose
cambiano e le arie saranno sì il climax emotivo della composizione ma
avranno anche una funzione drammatica più coinvolgente rispetto al
melodramma barocco e tardo-barocco.
Ovviamente ci sarebbe un capitolo a parte sull’opera barocca francese, che
segue in parallelo le vicende dell’opera italiana da cui deriva direttamente
e anch’essa legata profondamente al mondo classico. Ma ne parleremo in
un’altra occasione.
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Ifigenia, Medea, Norma... non è un caso che Maria Callas, una delle
interpreti più straordinarie del Novecento, le abbia rispolverate e rilette
dando un’impronta vocale del tutto personale e tragica, come lei. La Callas
sembrava ricuperare nel suo Inferno più profondo e più segreto la
tristezza, la fragilità e la tragicità di queste donne, la solitudine dell’eroina
contro il fato, contro un mondo esclusivamente maschile, contro tutti, ma
che lasciava alla donna una dimensione magica. Il titanismo delle sue
interpretazioni probabilmente nasceva da una conoscenza profonda del
teatro classico di Euripide, tanto che Medea, per lei, non fu solo un ruolo
operistico ma anche cinematografico, grazie a Pier Paolo Pasolini. E lì la
voce della grande interprete musicale cede il passo all’espressività
corporea dell’attrice tragica: il magico canto che ipnotizzava il pubblico
nei teatri di tutto il mondo non esiste più, lasciando il campo libero alla
recitazione.
C’è un altro sacrificio, però, a cui la Callas andò incontro. Proprio nella
versione italiana del film (la seconda) la voce non è sua. Il suo accento
veneto-balcanico, pur presente di tanto in tanto nella recitazione, fu
giudicato pericoloso da Pasolini per l’uscita del film in Italia, visto che tutti
gli occhi erano puntati sull’evento, e fu preferito il doppiaggio di Rita
Savagnone. Il doppiaggio originale della Callas fu però conservato e si può
ascoltare nel DVD, così come anche nelle versioni francese e inglese del
film, dove la voce è quella della divina. Fu proprio, comunque, la
precedente esperienza melodrammatica della Callas, a partire dalla
riesumazione dell’opera di Cherubini per il Maggio Musicale Fiorentino nel
1953, arricchita da molte altre esibizioni di Medea nella sua carriera, che
contribuì ad infuocare il personaggio cinematografico con arcaici e
misteriosi accenti che solo lei poteva dare.
La Callas, studiosa e filologa che incontrò direttori d’orchestra e registi di
grandi sapienze che l’aiutarono a tirar fuori le sue migliori qualità, trasse
l’eredità belcantistica delle dive del Belcanto ottocentesco, Maria Malibran
(1808-1836) e Giuditta Pasta (1797-1865) soprattutto.
Ciò che la Callas – nuova maschera della maga della Colchide – succhiò dal
profondo del personaggio di Medea stravolse il pubblico e, di lì in avanti,
la maniera di interpretare l’opera. La diva belcantista trovò le sue radici
nella recitazione e nella declamazione neoclassica di Cherubini, ci si
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mosse perfettamente a suo agio ma le unì alla fisicità femminile e al
temperamento mediterraneo che le erano peculiari.
Per restare in tema orfico, Maria Callas interpretò precedentemente anche
un’Euridice nella riesumazione fiorentina, anche questa, di Orfeo ed
Euridice di Franz Joseph Haydn. Resta, inoltre, una bella incisione dell’aria
di Orfeo, precisamente della versione francese dell’opera di Gluck, “J’ai
perdu mon Eurydice”, dando prova della sua versatilità vocale e
drammatica.
Quello della Callas è un esempio splendido del percorso a ritroso che un
cantante può fare, come Orfeo, per trovare la propria Euridice dentro di sé.
Una volta trovata si può anche lasciare andare, la consapevolezza di essere
riusciti a compiere il percorso può essere sufficiente. In fondo Euridice è
l’altra metà del cielo di ognuno di noi e non è necessariamente una
persona, può essere anche la metà oscura. Rischiamo di perderla per un
evento fortuito, non dipendente dalla nostra volontà, ma l’importante è
cercare di ritrovarla, un recupero della più profonda intimità per poi
lasciarla libera di essere trasmessa al pubblico attraverso il nostro canto.
La Callas, negli ultimi anni della sua vita e carriera, aveva perduto
definitivamente, però, la sua Euridice, ossia la sua voce, la sua cosa più
intima e segreta e, come Orfeo, non la ritrovò più – fino a consumare del
tutto sé stessa.
Noi cantanti siamo, bene o male, tutti nipotini di Orfeo, e dobbiamo
incantare col nostro canto ben altre divinità, oggi. La nostra voce, spesso
ormai artefatta e filtrata attraverso strumenti elettronici che ne cambiano
l’identità, ci mette in serie difficoltà. Oltre, naturalmente, al fatto che
siamo assediati senza sosta da fonti sonore e rumori di fondo urbani che
ci distraggono dalla produzione di un suono che provenga veramente dal
nostro io più ancestrale. Noi, infatti, soprattutto chi vive in centri urbani,
viviamo immersi nel rumore, molto di più di quanto non lo fossero i nostri
antenati nel passato. Pensare i suoni, identificarli nel silenzio e poi
studiarli, riprodurli, valutarli, proporli, è sempre più difficile. Se può essere
difficile per uno strumentista, che ha comunque uno strumento esterno a
lui, figuriamoci per un cantante, che deve concentrarsi e azionare cervello,
muscoli, membrane, polmoni, cavità, lingua, denti, laringi, eccetera per
produrre il suono e metterci pure un testo insieme, dare al tutto una forma
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intelligibile che esprima qualcosa di sensato. Non ci si pensa mai
abbastanza.
Ad ogni modo, ciò che da un punto di vista conforta e da un altro
sconcerta, in positivo e in negativo, è l’impatto che la voce umana
continua ad avere sul pubblico, e tornano in mente le parole di Giovanni
Battista Vico. Fa piacere, per esempio, che una voce stupenda come quella
di Luciano Pavarotti abbia galvanizzato milioni di persone attraverso
spettacoloni nazionalpopolari come “Pavarotti&Friends”. Da un altro lato,
operazioni come queste hanno reso apparentemente accessibile ai più un
pianeta assai più complesso, che è quello della lirica e della musica
classica in generale, eredità di un mondo più antico e articolato, come
abbiamo visto, mentre, in realtà, hanno banalizzato il messaggio, spesso
con commistioni impossibili e inadeguate.
Non c’è approfondimento dopo l’esperienza di piazza dei megaspettacoli.
“Nessun dorma” è un brano che viene ormai cantato come una qualsiasi
canzone, col testo cambiato, da voci inadatte, maschili e femminili (!),
tagliato, stravolto, utilizzato quasi come jingle, e oggi sembra normale
equipararlo a qualsivoglia brano commerciale, a una canzone delle Spice
Girls o degli Aqua, per esempio (entrambi i gruppi sono stati ospiti della
kermesse pavarottiana). Non lo è – normale: “Nessun dorma”, così come
tanti altri brani, stravolti in quei bagni di folla popolari, sono introspezioni
formidabili composte da autori altrettanto formidabili, che dovrebbero far
riflettere, oltre che deliziare le orecchie dell’uditorio.
I sogni di Calaf, così come i drammi dei personaggi delle tragedie e dei
melodrammi, di ogni epoca, di ogni tradizione musicale, chi più chi meno,
hanno ancora qualcosa da insegnarci. Ma se vengono consumati come fast
food, la loro essenza viene buttata via, come si fa colla carta che
accompagna l’hamburger e le patatine di cui, peraltro, una volta divorati,
non resta niente, se non un sapore sempre uguale a sé stesso che dura
poco e che non porta a nulla. E la ricerca di Orfeo agli Inferi per la propria
Euridice sarà stata ancora più vana.
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English abstract
How could we manage the Orpheus’ heritage? How to handle a voice that charms
the wild beasts and the gods, moving the rocks and silencing the mermaids?
Apparently it’s easy: it’s enough turning back to look and deal with one’s own
Eurydice. But the path is more mysterious and fraught with pitfalls than one could
imagine.
This short summary about the birth of opera and the development of artistic voice
through the centuries and history of music is described throughout half-serious
reflections of a modern “grandchild of Orpheus”. It begins from the ‘glottal stop’,
that is the origin of the voice (and many other things), following through the
multifaceted phases of the challenges and trials every singer has to experience to
become an artist, and therefore deserving the heritage of the most famous singer of
mithology.
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