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Revenant di Alejandro González Iñárritu di Tommaso Romolotti Musicare l’immagine: Revenant Il cinema è “musica dell’immagine”: così Pirandello definisce la settima musa. L’immagine è la sua peculiarità, la violenza dei segni che riesce a imprimere sugli spettatori. Un’immagine che non è una semplice riproduzione non si limita a porci di fronte un’imitazione del reale, ma piuttosto diventa forma costruttiva di senso, come osserva acutamente A. Tagliapietra.1 Il cinema non deve essere inteso attraverso quelle categorie platoniche così radicate nella nostra cultura, nel nostro costume, nel nostro essere: nel cinema l’immagine diventa energia vitale che testimonia un divenire continuo, non più imbrigliata nel concetto di idea, di forma, di immagine assolta statica e definita. Proprio per questa ragione Cocteau potrà affermare che il cinema non è altro che «la vita al lavoro ogni 24 fotogrammi al secondo»2. Cinema come filosofia dell’immagine: questo credo sia il metodo più adatto per poterci addentrare all’interno della pellicola, ossia il privilegiare l’immediatezza sorprendente del fotogramma che cattura la nostra attenzione riducendo a sé tutte le altre componenti (udito, filosofia con il cinema, tatto, filosofia filmica, gusto, storia critica nei film).3 Il film Revenant di Alejandro Iñárritu può tranquillamente essere letto in questa chiave, poiché in esso si sprigiona il potere dell’immagine che è racconto, che è esistenza, che è vita.4 Dentro la pellicola Il vento soffia. Non possiamo disturbarlo. La videocamera ruota lentamente mostrandoci l’immagine di una famiglia coricata su un giaciglio. Continua ad ascoltare. Parole sussurrate, affettuose e paterne intimano a resistere. Le immagini raccontano l’amore presente nella famiglia, un amore sobrio, quasi severo: non c’è disincanto. Il vento continua a soffiare scuotendo i capelli della moglie, che sorride amorevolmente guardando il figlio mentre mostra un sorriso sdentato, sincero e naturale. L’inquadratura cambia, ci troviamo in un altro luogo: il bambino ripreso frontalmente ci guarda, non sorride più. Alle sue spalle una capanna in fiamme e un soldato armato che brandisce una torcia, mentre la voce intanto lo intima a non arrendersi. L’immagine cambia ancora: un villaggio in fiamme, distrutto, desolato e al centro il padre seduto che abbraccia il figlio. Ecco emergere in un leggero crescendo gli archi come fossero suonati dal vento. La sobrietà lascia spazio alla bellezza. 1 Cfr. A. Tagliapietra, Il cinema e la filosofia dell’immagine, pp.19-34 in Come fare filosofia con i film, a cura di Roberto Mordacci, Carrocci editore, Milano 2017. 2 Ibidem. 3 Cfr. R. Mordacci, Introduzione, pp. 11-18 a Come fare filosofia con i film, a cura di Roberto Mordacci, Carrocci editore, Milano 2017. 4 The Revenant è un film del 2015, diretto da Alejandro González Iñárritu. Il film ha vinto molti premi: 3 Golden Globes, e 3 Premi Oscar. “Respira…Continua a respirare”. L’inquadratura ritorna sul volto del padre che incredulo ammira la scena famigliare descritta all’inizio. Inizia una dissolvenza in nero, percepiamo il suono di un ruscello ed eccoci: il film ha inizio. Dopo una prima breve scena di caccia in cui vediamo protagonisti Glass con suo figlio Hawk, veniamo catapultati nell’accampamento di una compagnia di uomini, che dopo sei mesi si preparano a tornare al forte per cogliere i frutti del loro lavoro. Qui ci viene presentato un nuovo personaggio: Fitzgerald. Ciò che si evince immediatamente è che è un uomo forte, risoluto, che conosce il suo mestiere e sa come gestire gli uomini. Presto l’accampamento viene attaccato da una tribù di nativi, il panico serpeggia tra i presenti. I nativi caricano con i cavalli e la battaglia ha inizio: scene truci, violente, il sangue scorre, si combatte con ferocia per la propria vita. La tecnica cinematografica ci racconta molto: le immagini scorrono senza interruzione, non ci sono mai stacchi, si passa da carnefice a vittima e nessuno è esente dalla ripresa, tutti sono colpevoli. Eppure già ora iniziano a emergere le prime differenze tra i due personaggi principali: se Glass irrompe nella battaglia ordinando agli uomini di lasciare le pelli e raggiungere la barca per avere salva la vita, Fitzgerald continua a ripetere: “Prendete le pelli, prendete le pelli!”. Una delle frasi pronunciate da Fitzgerald che meglio descrive il suo personaggio è la sua risposta al capitano, il quale, una volta fuggiti dalla battaglia sulla barca, decide di seguire in consiglio di Glass di abbandonarla e di procedere a piedi, lasciando tutte le pelli nascoste sotto una roccia. A quel punto il capitano dirà rivolgendosi a Fitz: ”Preferisce salvare le pelli o la sua vita?” e Fitzgerald risponderà con queste parole: ”Vita? Di che vita sta parlando? Io non ce l’ho una vita. Io cerco solo di sopravvivere e ci riesco solo grazie a queste pelli.” Qui emerge quindi definitivamente uno dei temi principali del film: la sopravvivenza, ossia capire come questa venga intesa diversamente da i due personaggi principali determinerà la comprensione delle loro diverse figure che per tutto il film procedono parallele senza mai intersecarsi l’una con l’altra. Sopravvivenza rispetto a una natura meravigliosa e malvagia, che si impone nella sua semplicità grandiosa e terribile. Colpisce per la sua bellezza, per la sua grandiosità ma allo stesso tempo tutti condanna a una sorte tremenda e disastrosa. I tempi scorrono lenti, sono contemplativi, i paesaggi sempre più maestosi ospitano scene silenziose e tacite, spesso accompagnate dal suono del vento che scuote le fronde degli alberi, o dal semplice scoppiettio del fuoco che consuma la legna. Le atmosfere sono selvagge, appaiono indomite, indomabili dall’uomo. Di fronte ad esse un’unica legge acquista valore: soccombere o continuare a vivere. La scena del combattimento tra Glass e l’orso lo testimonia eloquentemente: il combattimento è di una violenza primitiva, efferato e truce per la sua durata. La scelta visiva rende ancor meglio questa idea: l’orso carica il cacciatore, che viene travolto come da una forza sovrannaturale, dopo di che viene dominato e mosso come se fosse una marionetta, un corpo incapace di produrre un qualche tipo di resistenza; ma allo stesso tempo la ripresa frontale del suo volto che urla e soffre è carica di tensione e drammaticità e ci è posta davanti come fosse specchio di noi spettatori. Il combattimento si placa. L’orso per un attimo si allontana ma Glass è ancora vivo, arranca con sforzo, riesce a raggiungere il fucile. Le riprese sono ravvicinate, si concentrano sul suo volto: la bocca è aperta, digrigna i denti e sputa per lo strazio del dolore. Aspetta il momento opportuno e spara: riesce a colpire l’orso alla spalla. Il combattimento ricomincia, l’orso ferito si fa ancora più feroce e sgozza con gli artigli il cacciato- re, lo gira di spalle e gli strappa brandelli di carne a morsi. L’orso si placa, è stanco e ferito, la ripresa si sofferma sulla mano di Glass che trova la forza di muoversi e brandire il coltello preparandosi per l’ultimo disperato attacco. ”Respira…Continua a respirare”. La ripresa passa all’orso, non ci sono stacchi, è continua come se la bestia e l’uomo fossero uniti da un oscuro legame. L’orso è ferito, barcolla, la ripresa si sofferma sul lato ferito e sugli occhi esausti della bestia: tenta un ultimo disperato attacco. Glass incomincia a colpirlo con violenti sferzate di coltello e presto cadono entrambi giù da un piccolo dislivello, uno sopra all’altro, di nuovo uniti. Bestialità, efferatezza, sopravvivenza tornano a dipingere la pellicola di un senso tragico. Ma una tragicità che non si traduce nell’annichilimento, ma piuttosto nella resistenza, nella consapevolezza di un valore intrinseco alla vita: “Il vento non può abbattere gli alberi con forti radici”. Queste sono le parole del figlio al padre durante la notte che gli ricorda il fatto -non secondario- che ancora respiri. La drammaticità raggiunge il suo picco però nel momento in cui Fitz convince Glass a farsi soffocare per non metter ulteriormente in pericolo il figlio, ma viene sorpreso da quest’ultimo che vedendo la scena incomincia a strillare chiedendo aiuto. Fitz preso dal panico arriverà ad accoltellarlo davanti agli occhi impotenti del padre. Ancora una volta le riprese ci dicono molto: dall’inquadratura sul coltello che penetra la pancia del povero Hawk, unigenito di Glass, si passa immediatamente a un primo piano del volto del padre legato e impotente, il cui volto sembra poter ormai strapparsi per la tensione che lo dilania. Hawk muore e muore per un fraintendimento, muore per un incomprensione degenerata in panico e violenza. L’unica ragione di vita del padre diviene in un primo momento la sete di vendetta. Questa poi cambierà solo alla fine quando ricordando le parole di un nativo Cherokee incontrato durante il viaggio risparmierà la vita a Fitzgerald gettandolo dentro un ruscello. Sarà in quel momento, in cui protagonista e nemesi trovandosi faccia a faccia che verrà rimarcata definitivamente la loro differenza. Fitzgerald infatti, esattamente come Glass, conosce il mondo e conosce le sofferenze che esso può generare a un uomo, ma a differenza del protagonista egli decide di accettarne la crudeltà. Appare illuminante a questo proposito la scena in cui racconta di una vicenda capitata a suo padre. Riportiamo qui il monologo integrale non solo per l’abilità con il quale è scritto ma anche perché rappresenta in maniera emblematica il personaggio di Fitzgerald: «Il mio vecchio, noi non eravamo... non era un uomo religioso, sai? Se non potevi crescere una cosa, meglio ucciderla o mangiarla, semplicemente non ci credeva, tutto qui. E una volta montò a cavallo e se ne andò a San Saba Hills, conosci San Saba Hills? Prese e se andò a caccia insieme a un paio di rangers amici suoi; roba di routine, capisci? L'aveva fatto centinaia di volte prima, doveva essere una caccia di tre giorni ma... il secondo giorno be'... andò tutto a puttane. Insomma, in qualche modo quella notte si ritrovò separato dai compagni e poi, a farlo apposta arrivarono i comanche e gli fregarono i cavalli. Era affamato, cominciava a sragionare. Così se ne strisciò in questa macchia, questo gruppo di alberi che in pieno deserto spuntava in mezzo alla pianura piena di cespugli e fu lì che trovò la fede. In quel momento, mi raccontava, lui trovò Dio. E si dà il caso che Dio... è uno scoiattolo. Già, un grasso, vecchio scoiattolo. "Ho trovato Dio – ripeteva sempre – e mentre ero lì seduto che mi godevo la gloria e l'immensità della grazia... ho sparato a quel figlio di puttana e l'ho mangiato». Nell’universo di Fitzgerald non c’è posto per tutto ciò che sia oltre alla carne, oltre alle nostre necessità primarie, c’è solo la natura e la violenza ad essa connessa, nulla di più. L’abilità dello sceneggiatore è magistrale nel creare quel contrasto che da sempre dilania il cuore degli uomini: da un lato la bellezza, la spiritualità, tutto ciò che c’è di più maestoso e magnifico e dall’altro i bisogni e le necessità che li limitano o forse addirittura li smentiscono. L’inquadratura procede lenta, sempre più vicina al volto di Fitz: il suo sguardo è immobile quasi vitreo, ha gli occhi sgranati, è come preso da un senso di frenesia. Mentre parla divora il boccone che tiene in mano; la ripresa è fissa sul suo volto ormai, il racconto è finito. Nulla da aggiungere. Glass al contrario è un uomo che non si rassegna, non si arrende. Dopo la perdita del figlio e della moglie infatti riesce ancora a ridere insieme al nativo Cherokee mentre giocano a prendere con la lingua i fiocchi di neve. Conosce la tragedia del vivere, ma anche il privilegio dell’esistere. Per questa ragione alla fine del film avrà salva la vita e non consumerà la sua vendetta, ma piuttosto, seguendo le parole del nativo cherokee sopra citato, lascerà il giudizio a dio. Cenni di Geopolitica in Revenant «La democrazia americana non è nata dal sogno di alcun teoreta […] Essa è sorta dalla foresta americana e ha guadagnato nuovo vigore ogniqualvolta ha toccato una nuova frontiera.» 5 ‑ Il concetto di frontiera è di fondamentale importanza nella cultura americana, da esso si possono evincere molti dei tratti peculiari che rendono gli Stati Uniti tali. Come sosteneva lo storico Frederick Jackson Turner, il carattere americano, impregnato di spirito democratico, di un forte individualismo e di un pronunciato spirito violento, nasce proprio a partire dallo scontro con la frontiera. Essa rappresenta infatti il limite ultimo della civilizzazione, un confine delimitato tra civiltà e barbarie, tra ciò che è conosciuto e ciò che invece deve essere conquistato, domato, soggiogato sotto il controllo dell’uomo. La frontiera dunque rappresentava non solo una sfida ma soprattutto un ideale, oltre quei confini si estendevano immense terre ancora sconosciute in cui potersi guadagnare la propria libertà, non gratuitamente ma attraverso la forza di volontà, la fatica e sopratutto l’impiego delle armi. La libertà dunque per l’americano dei primi decenni del XIX secolo era uno scopo a cui tendere, un dovere a cui rendere omaggio, non un semplice diritto. Gli Stati Uniti d’America, essendo colonie, avevano conosciuto il significato di tirannia e di schiavitù: basti ricordare le parole di Thomas Paine6, che a seguito delle eroiche gesta del generale Arnold7, nell’ottobre del 1776, scriveva sul Journal di Philadelphia: «Questi sono momenti che metto!5 F.J.Turner, La frontiera nella storia americana, citazione tratta da Antonio Moretti, The Hateful Eight di Quentin Tarantino (2015) in Come fare filosofia con i film, a cura di Roberto Mordacci, Carrocci editore, Milano 2017. 6Thomas Paine (Thetford, 29 gennaio 1737 – New York, 8 giugno 1809) fu un rivoluzionario e scrittore americano che partecipò alla Guerra d’indipendenza accanto a George Washington, autore di I diritti dell’uomo (1791). 7 Benedict Arnaold (Norwich, 14 gennaio 1741 – Londra, 14 giugno 1801) fu generale ambizioso, audace ed energico al comando delle forze americane durante la Guerra d’indipendenza, che nel 1776 protesse le vie di accesso al Fort Ticonderoga con una flottiglia di sole sedici unità contrastando la forza inglese sul lago Champlain. no a dura prova gli animi degli uomini . La tirannia, come l’inferno, non è facile da sconfiggere». I Britannici infatti avevano esercitato su quelle terre per decenni una politica spregiudicata e disumana basata sulla regola del divide et impera facendo in modo che le varie colonie fossero isolate, che non potessero avere rapporti l’una con l’altra e pagando con la frusta o con la morte qualunque rappresaglia ribelle. Quel contesto diventa dunque una terra fertile perché possa germogliare e crescere quell’indomabile desiderio di libertà e democrazia, desiderio che facilitò l’alleanza con la Francia in quanto quest’ultima poggiava non solo su questioni di convenienza ma anche, senza farsi strumentalizzare, sugli intenti riformisti liberali e democratici di quella nazione in fasce. Il west dunque rappresentava tutti quegli ideali tipici dell’americano medio, affamato di terra e opportunità di arricchimento. Per questa ragione gli Stati Uniti riuscirono ad ampliare i loro territori come mai nessuno prima di loro. Per essere precisi, la causa ideologica di tale espansione non fu soltanto la teoria della frontiera ma anche della teoria del destino manifesto. Quest’ultima ebbe molto successo in quanto la presenza di grandi spazi da conoscere e colonizzare rappresentavano una soluzione al sovraffollamento demografico presente sulla costa orientale, si riteneva appunto che gli Stati Uniti avessero la missione di espandersi e che tale missione fosse voluta da Dio e che quindi rappresentasse un destino, destino manifesto in quanto ovvio e indubitabile. I colonizzatori del west appartenevano a una classe sociale media e furono loro a plasmare ideologicamente i territori di frontiera portando avanti una cultura particolarmente pragmatica ma allo stesso tempo versatile, che spronava all’avventura, alla curiosità e all’estasi della scoperta, ma sopratutto a un’alta fiducia in se stessi e nelle proprie capacità. Glass e Fitzgerald infatti sono specchio di quella società: entrambi risoluti, non esitano mai difronte a nulla: sono uomini pragmatici, conoscono il bosco, sanno come muoversi, entrambi sono cacciatori. Glass, per l’esattezza, è un trapper ovvero sia un cacciatore che fa spesso uso di trappole (come suggerisce la parola) ma che nel film riveste anche il ruolo di scout, ovvero di guida. Il Capitano Henry è invece un uomo diverso, per ogni perdita appare contrito, è una figura malinconica segnata dal mondo. A differenza di Glass e Fitz appare essere più empatico, la sua sofferenza è disegnata dalle espressioni del viso,dagli sguardi, dalle smorfie al contrario dei due protagonisti i cui volti non lasciano trasparire nulla: sono severi, quasi lapidari. Henry infatti non è un americano medio, non proviene da quella middle class tipica della frontiera, è piuttosto figlio di un dottore, presumibilmente un uomo di cultura, sensibile e riflessivo, infatti non è risoluto, in ogni momento sembra che la sua figura di comandante venga a mancare, la sua vita è tutelata dai gradi e non certo dal suo carattere. Riflettiamo sulla scena in barca: una volta fuggiti dall’attacco Arikara, Fitz lo sfida, punta dritto lo sguardo nei suoi occhi, tiene il volto vicino al suo, dimostra di non voler retrocedere e la risposta del capitano è debole quasi rassegnata. Eppure Fitz si può permettere questo ed altro, anche sussurrare insulti contro il suo capitano, come accade nella scena in cui afferma: “Cazzo se mio padre era un dottore…avrebbe potuto comprare un lavoro da capitano”. Per uomini come Henry non c’è spazio sulla frontiera, egli infatti muore affrontando Fitz in maniera leale, mentre lui dal canto suo si apposta con un fucile dietro a una roccia per tendergli un’imboscata. Anche in questa occasione Fitz non manca di ricordargli che la frontiera non è per uomini come lui: ”Ehi! Non mi aspettavo di trovare un uomo della sua importanza così lontano dalla sua stufa in un mattino freddo come questo, capitano, si... si è perso?” Oltre la frontiera non vi è solamente una natura incontaminata, ma anche i suoi abitanti, quelle tribù autoctone che da sempre popolano quei luoghi: i nativi. La contrapposizione tra le genti autoctone delle Americhe e l’uomo bianco, fosse europeo o colono, ricoprirono un ruolo di fondamentale importanza nella storia americana. Questi popoli erano organizzati in tribù, nel film ne vengono citate tre: gli Arikara, i Pawnee e infine i Cherokee. Essi videro il lento procedere della vaporizzazione della loro cultura, dei loro costumi e della loro religione, spesso i loro territori vennero ceduti senza alcun tipo di autorità dalle potenze politiche europee e purtroppo il loro popolo fu vittima di due grandi stermini verso la fine del XIX secolo, una dei quali per mano del generale George Armstrong Custer. In tutti i modi cercarono di difendere le loro terre e di rivendicare la loro indipendenza, tuttavia uno dei sostanziali problemi fu il loro modo di intendere la tribù in senso atomistico: infatti secondo la loro cultura il criterio di demarcazione fra popoli era legata alla tribù non alla razza, ragione per cui non è mai esistito il Popolo dei nativi unito. Per questa ragione vediamo molto spesso tribù indiane combattere fianco a fianco alle armate dei coloni contro altri nativi, si pensi per esempio alla scena in cui Fitz, adirato per la perdita delle pelli dopo l’attacco Arikara, se la prende con Hawk avanzando l’accusa di tradimento da parte del ragazzo in quanto indiano. A tali accuse vi è la pronta risposta di uno dei compagni che esclude tale ipotesi in quanto le due tribù si odiano reciprocamente. Oppure si pensi alla scena in cui il capo Arikara si appropria dei cavalli di una compagnia di cacciatori francesi: dal dialogo possiamo intuire che siano già stati in affari e che gli Arikara fossero soliti attaccare gli americani per rubarne le pelli e rivenderle a loro. In questo dialogo però emerge un elemento che ci può dire qualcosa in più rispetto all cultura di questi popoli, infatti il capo Arikara afferma di conoscere il significato della parola onore a dispetto del cacciatore francese. Sappiamo che la pratica dello scalpo, tipicamente associata ai nativi, furono gli europei a introdurla. Gli indiani d’America al contrario avevano talmente a cuore il concetto di onore che per alcune tribù la vittoria in guerra contro il proprio avversario si otteneva avvicinandosi il più possibile al rivale e colpendolo con un bastone senza alcun spargimento di sangue. D’altro canto non bisogna generalizzare: anche i nativi furono capaci di atti feroci e scellerati nei confronti di innocui e pacifici coloni, si pensi proprio al caso degli Arikara che, fra tutte le tribù, fu tra le più imprevedibili e spietate, proprio per questo tra le più temute del Nord - Ovest. Revenant: il tragico smentisce la teoria della frontiera Il film affonda le sue radici a partire da una storia realmente accaduta ed è anche vero che vi è una grande attenzione nella resa storica: i costumi, le armi e le ambientazioni. Il tentativo di Iñárritu è diverso, non vuole semplicemente raccontare una vicenda accaduta 200 anni fa e mostrare che cosa significasse vivere la vita di un colono americano dei primi dell’ottocento nel selvaggio nord ovest statunitense, la sua è piuttosto una pellicola tragica dove il racconto procede per immagini, per paesaggi e per sguardi, riprese intessute di emozioni. Sappiamo infatti che per plasmare la storia secondo i suoi intenti il regista cambia la biografia del protagonista. Glass infatti è un trapper americano nato probabilmente vicino a Philadelphia intorno al 1783, in Pennsylvania. Della sua vita prima di diventare esploratore non si sa molto, le principali fonti che ci sono pervenute sono testimonianze dell’amico George C. Yount, che vennero poi trascritti dal prete cattolico Orange Clark nel 1851. Si diceva che Glass fosse un uomo con grandi capacità oratorie, molto abile a raccontare storie e forse proprio questa dote gli consentì di aver salva la vita una volta trovato dalla tribù Pawnee. Glass in- fatti prima di diventare trapper fu un un marinaio ma dovette presto abbandonare la professione in quanto fu vittima di un abbordaggio ad opera di alcuni pirati francesi che lo costrinsero a prender parte della ciurma. Egli riuscì a fuggire raggiungendo a nuoto la costa e lì cadde nelle mani dei Pawnee che lo accolsero nella loro comunità. A differenza di quanto raccontato nel film, non esistono prove del matrimonio con un’appartenente della tribù e nemmeno dell’esistenza di un figlio, mentre in realtà egli partecipò a una spedizione per cacciare animali da pelliccia con il capitano Andrew Henry, i compagni John Fitzgerald e James Bridger, anche se di quest’ultimo non si ha davvero la certezza. Egli venne assalito da un Grizzly, come la pellicola racconta, affidato a questi suoi compagni e abbandonata semplicemente per la paura di un’ennesima incursione Arikara, non certo per l’assassinio del figlio che probabilmente non è neanche mai esistito. Egli sopravvisse e cercò di vendicarsi ma suo malgrado dovette desistere in quanto Fitzgerald essendosi assoldato era immune da ogni tipo di condanna. La vicenda si concluse con un risarcimento del danno di ben 300 dollari e la restituzione del fucile che Fitzgerald gli aveva sottratto durante la convalescenza. Da qui si può ben notare che l’intento del regista non è ne di natura biografica ne storiografica. La pellicola mette in scena un tragedia e nella tragedia non esiste contrapposizione tra le parti, non vi è una demarcazione qualitativa tra i diversi personaggi appartenenti a popolazioni totalmente aliene le une dalle altre. Di fronte alla crudeltà del reale, alla cecità del destino e alla brutalità dello stato naturale tutti gli uomini appaiono uguali, la loro esistenza è egualmente permeata di violenza e sangue, il fine è uguale per tutti: sopravvivere. La teoria della frontiera e il sogno legato alla teoria del destino manifesto si eclissano. Non c’è riscatto e non c’è redenzione, non combattiamo per un futuro migliore, nemmeno per la promessa di una terra lontana capace di offrici ciò di cui abbiamo bisogno per essere finalmente felici. I miti di un mondo nuovo fatto su misura per l’uomo, impregnati di futuro e speranza, di un’ideologia cristiana che ancora permea la cultura americana, crollano di fronte al concetto di tragedia. Non c’è possibilità di riscatto: l’unica scelta che abbiamo da compiere sta nel continuare a vivere o nel ricercare la morte. Certamente Iñárritu ci pone di fronte quella natura selvaggia tipica dell’America di quel secolo, non perché essa venga percepita come un qualcosa di conquistabile, di domabile, ma piuttosto perché sia memento della nostra limitatezza. Non esiste nessun tipo di controllo da parte dell’uomo sul mondo che abita, egli semplicemente lo subisce. Ricordiamolo per maggiore chiarezza: Glass agisce solamente per vendicare il figlio, non c’ alcun tipo di redenzione, non c’è nessun mito di una terra promessa che eliminerà ciò che è stato, vi è solo la determinazione a non morire. Tutte le sfide che affronta il protagonista non sono finalizzate a un controllo, a imprimere la propria potenza sulla natura, ma semplicemente a sopravvivere. La scena in cui squarta il cavallo è emblematica a questo proposito: il bianco della neve risalta il rosso del sangue e delle interiora mentre Glass rimuove gli organi interni della bestia ancora fumanti, lo squarcio nel ventre viene divaricato con forza come se fosse parte di un oggetto, quello che in realtà prima era un essere vivente. Il protagonista si spoglia, getta i vestiti a terra ed entra nudo nella pancia del cavallo, la ripresa aerea ci mostra la carcassa del cavallo sdraiata sul manto di neve, quasi come fosse un basso rilievo a colori; la ripresa passa al volto di Glass (primo piano) adagiato nel ventre della malaugurata bestia. Il contrasto è fortissimo ma è solo così che puoi aver salva la vita. Le basi ideologiche su cui si poggia il concetto stesso di frontiera vengono a mancare, tuttavia non solo per le ragioni fin qui esposte ma anche per la contrapposizione tipica tra uomo civilizzato e barbaro. Il colono infatti dovrebbe rappresentare un eletto destinato a compiere grandi gesta e a conquistare il mondo, come la teoria del destino manifesto spiegava chiaramente. Glass in quanto colono è esattamente il contrario: l’unico destino al quale deve sottostare è semplicemente il fatto di essere umano, di essere limitato e fallibile, esposto alle avversità del mondo, immerso in una realtà che non segue le sue volontà e che lo schiaccia. In questa prospettiva non esiste alcun tipo di contrapposizione tra il barbaro, il nativo, il pellerossa e l’uomo civilizzato, anzi essi sono compagni di fronte alla sorte. Arriviamo dunque all’incontro tra Glass e il nativo Cherokee di cui non si sa nemmeno il nome: è notte, Glass ferito procede strisciando verso la carcassa di un bufalo che prima era stato ucciso e sbranato da un branco di lupi. Lì incontra questo nativo intento a nutrirsi delle sue carni, Glass gli si rivolge parlando la sua stessa lingua, chiedendogli aiuto e raccontandogli la sua vicissitudine con il grizzly. Egli lo fissa, le mani e il volto sporche di sangue, di un rosso vivo acceso, come se il registra volesse mettere in luce la trivialità della scena, stacca un pezzo di carne e glielo lancia. Glass inizia a nutrirsi, continuano a guardarsi mentre divorano la carne, possiamo intendere che sia nato un legame, o almeno un reciproco sentimento di complicità. Tra di loro nascerà un’amicizia, che porterà il nativo Cherokee a prendersi cura di Glass, a curarlo e a dargli riparo durante una tempesta. Un’amicizia nata in un contesto primitivo e bestiale, dove solo l’immagine del fuoco si fa garante dell’umanità dei due personaggi, per di più questo sentimento è rivolto verso un uomo di cui ignoriamo il nome, un innominato esattamente come le bestie ma che, a differenza di tutti gli altri personaggi del film, eccetto Glass, pare essere il più umano. Veniamo ora alla scena conclusiva del film, la resa dei conti: essa appare in un primo momento come una scena di caccia anche se non si è in grado di dire esattamente chi sia il cacciatore e chi sia la preda. Glass inganna Fitz con un tranello, si rincorrono per la foresta. Fitz si nasconde, nè noi spettatori nè Glass siamo in grado di vederlo, la telecamera intanto si muove lenta tracciano una circonferenza intorno a Glass. La paura e la tensione della caccia sono palpabili ed ecco lo sparo. Fitz viene individuata, capitombola giù da un piccolo dislivello, Glass lo segue a capo chino perdendo il suo fucile. Fitz sembra impaurito, temporeggia e pronuncia queste parole: Fitzgerald: Avevamo un accordo, Glass. Ho provato a dirlo al tuo ragazzo, ho provato a fargli capire che per te andava bene ma non voleva ascoltare e continuava a strillare. Stava per farci ammazzare tutti... ma tu e io avevamo un accordo. Tu lo sai cosa è successo laggiù e sulla mia anima, il Signore... il Signore, lui sa cosa è successo laggiù. Glass: Non c'è nessun accordo. Tu hai ucciso mio figlio. Fitzgerald: Allora avresti dovuto farne un uomo invece di una puttanella piagnucolosa. In un primo momento cerca di passare dalla parte della vittima, come se non avesse avuto scelta, come se non fosse stato altro che la tragica vittima del destino ma Glass procede dritto verso di lui, a quel punto si palesa il vero Fitz: non c’è spazio né per il candore né per la debolezza in questo mondo. Vi è un’unica legge: il debole cade e il forte lo inghiotte. Inizia la colluttazione: è efferata, feroce si svolge quasi come una rissa, la telecamera continua a riprendere senza interruzioni, si staccano dita, orecchie ma si continua a combattere, ed infine Glass ha la meglio. Ora Fitz è indifeso e lo intima ad ucciderlo, perché per lui è così che deve andare, non c’è alternativa. Glass allora ricorda le parole del nativo Cherokee su citato: “la vendetta spetta solo a Dio”. Glass lo risparmia gettandolo nel fiume. Fitz morirà per mano degli Arikara che al contrario risparmieranno Glass, il quale aveva liberato la figlia del capo ostaggio dei cacciatori francesi. Glass procederà strisciando verso di noi e per gli ultimi tre secondi prima dei titoli di coda continuerà a fissarci. Silenzio. La metafora dello specchio torna a farsi presente: i nostri occhi sono posati sul suo volto e viceversa, l’immagine violenta i nostri sguardi e non ha bisogno di dirci nulla. Perché parlare? Solo un respiro cadenzato. Sono ancora vivo. Non c’è niente da aggiungere. L’immagine si fa esistenza, si fa vita e nulla deve significare più di questo se non la violenza del suo apparirci, del suo essere vita, del suo essere cinema.