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UN AGOSTINIANO DEL TRECENTO Attilio Bartoli Langeli Dal testo da me letto a Sansepolcro, per il resto pressoché immutato, tolgo l’esordio, nel quale tentavo di ripercorrere all’indietro, a partire dal 1317-18 fino alla nascita, le tappe della vita di Dionigi in base ai tempi stabiliti dalla legislazione agostiniana per la progressione scolastica: il tema è di Maierù, e gli lascio campo libero. Aggiungo una minima nota bibliografica, con titoli che peraltro immagino ricorrano spesso in questi atti. Ringrazio Emanuela Prinzivalli per l’aiuto prezioso che mi ha dato. La prima notizia biografica che abbiamo di Dionigi da Borgo San Sepolcro, in attesa che altre ne vengano da questo convegno, riguarda i suoi studi a Parigi: nello studio generale degli agostiniani è lettore delle Sententiae di Pietro Lombardo nel 1317-1318. Aveva dunque conseguito il baccalaureato non molto tempo prima. Ottenuto il dottorato in teologia dopo il quinquennio di rito, Dionigi insegnò come magister sacre pagine dal 1324 al 1328, più o meno. Da agostiniano, non era poco: le costituzioni dell’ordine, paventando la «paucitas magistrorum in loco nostro de Parisius», aveva stabilito la presenza fissa di due magistri, a rotazione periodica. Perciò nel 1329, terminata la docenza parigina, egli si trasferì ad Avignone, dove per otto anni insegnò allo studio generale degli agostiniani; presso la curia papale si legò ai cardinali Giovanni Colonna e Napoleone Orsini, per non dire del sodalizio con Francesco Petrarca. Seguì la permanenza a Napoli, presso la corte di Roberto d’Angiò (1337-1342), dove Dionigi conobbe Giovanni Boccaccio e scrisse, come pare, il commento ai Facta et dicta memorabilia di Valerio Massimo, la sua opera più fortunata tra le poche conservate. Non risulta con certezza, ma è altamente probabile che egli abbia insegnato nello studio generale che gli agostiniani avevano a Napoli. Qui morì il 31 marzo del 1342, non certo quarantaduenne ma almeno cinquantenne, da vescovo di Monopoli, titolo che gli era stato conferito da papa Benedetto XII due anni prima. Dionigi partecipò in posizioni di primo ma non primissimo piano all’attività istituzionale e diplomatica del suo ordine: prese parte in qualità di diffinitor al capitolo generale degli agostiniani che si svolse a Parigi nel 1329; fu inviato nel settembre di quell’anno in Umbria dal cardinale Napoleone Orsini; figura di nuovo come diffinitor nel 1332 al capitolo di Venezia e come priore provinciale della Valle Spoletana (la provincia alla quale apparteneva il convento di Borgo San Sepolcro) nel 1335 al capitolo di Grasse. Quanto al periodo di permanenza nel Regno, è nota la sua missione pacificatrice all’Aquila nel 1338. Questi i dati biografici “ufficiali” di Dionigi, certo autorevoli ma relativamente poveri. La sua carriera accademica non ha adeguato riscontro nelle poche cose di teologia e di logica che ha lasciato; non restano tracce della sua eventuale, ma verosimile attività di predicatore; grande spicco, però tutto privato e personale, hanno le sue relazioni con i grandi della letteratura italiana trecentesca. Se dunque, per fortuna, gli italianisti lo conoscono bene (il che gli è valsa una voce nel Dizionario biografico degli Italiani), scorri qualche storia generale dell’ordine agostiniano e il suo nome non lo trovi, né ai canonici capitoli sugli “studi” o sulla “spiritualità” né altrove. Dionigi ebbe responsabilità istituzionali, quelle di diffinitor in due Capitoli generali e di priore provinciale della Valle spoletana, solo nel breve tempo dal 1329 al 1337, coincidente con la permanenza ad Avignone; in politica, l’ambasceria a Todi e nell’Umbria nel 1329 e la pacificazione aquilana del 1338 non bastano a farne un diplomatico di spicco; semmai fu lo scambio epistolare con Giovanni Villani su Castruccio Castracani a dargli fama di profeta, almeno in ambito fiorentino. Ma frate era, Dionigi da Borgo San Sepolcro: un frate agostiniano, appartenente all’ordine degli eremitani di sant’Agostino; e il suo stato visse con piena coerenza, per quello che possiamo giudicare. Vengo così al compito che mi è stato affidato, di presentare alcune linee di descrizione del fenomeno agostiniano nel tempo di Dionigi, senza preoccuparmi se dirò cose note. L’ordine era nato nel 1244 per iniziativa del papa Innocenzo IV, che aveva conferito la regola di sant’Agostino a «tutti gli eremiti di Tuscia». Nel 1256 il successore, Alessandro IV, unì a questo primo nucleo altre associazioni eremitiche: i seguaci di Giovanni Bono (giamboniti), gli eremiti di S. Guglielmo (guglielmiti), quelli di Montefavale e di Brettino, variamente distribuiti nella Lombardia e nella Marca d’Ancona: è la cosiddetta magna unio, che però ben presto perse alcuni pezzi: i guglielmiti tornarono subito all’autonomia (lasciando al nuovo ordine le case che avevano in Germania e in Ungheria), così come gli eremiti di Montefavale, che confluirono nei cistercensi. In compenso, si aggregavano all’ordine i “poveri cattolici di Lombardia”. Nel giro di un decennio l’ordo heremitarum sancti Augustini (detto comunemente degli agostiniani o eremitani) aveva acquisito la configurazione che lo caratterizzò a lungo. Ma dovette, per mantenerla, superare una prova difficile. Al II concilio di Lione, 1274, si discusse della soppressione di alcuni ordini, tra quelli sorti successivamente al IV concilio Lateranense del 1215; gli agostiniani si salvarono, insieme coi frati minori, i predicatori, i servi di Maria (serviti) e i frati di S. Maria del Carmelo (carmelitani). La costituzione conciliare Religionum diversitatem nimiam chiudeva il numero, e accomunava i cinque ordini sotto il nome di “mendicanti”, enfatizzando il voto di povertà che essi professavano. Tra i cinque, gli agostiniani occupavano e occuperanno il terzo posto, dopo i frati predicatori e i frati minori. Si accentuò allora un processo, già avviato in precedenza, di assimilazione e insieme differenziazione fra i tre ordini: assimilazione per forza di cose, soprattutto sul piano organizzativo e istituzionale; differenziazione per via di concorrenza, sul piano delle finalità, dell’attività, del rapporto con la Chiesa, con le istituzioni, con le popolazioni. Vale l’immagine di una gara a inseguimento che vede in testa i domenicani e gli altri due ordini che corrono alla loro ruota: mentre gli agostiniani dovevano soltanto recuperare il ritardo iniziale, che comunque non era cosa da poco, quelli in maggiore difficoltà erano i frati minori, che avevano un handicap ben più pesante, un fondatore altrettanto venerato che scomodo: di qui le divisioni interne (inesistenti tra i domenicani, esistenti ma attutite tra gli agostiniani), le oscillazioni ideologiche, l’andamento a singhiozzo dell’evoluzione francescana. Soffermiamoci sull’aspetto organizzativo. Gli ordini mendicanti erano “esenti”, ossia non erano soggetti all’autorità diocesana, collegandosi direttamente alla Sede apostolica; da cui la loro extraterritorialità. Dal vertice della Chiesa essi furono autorizzati alla predicazione, a ricevere le confessioni, a seppellire i devoti che ne facessero richiesta, a ricevere lasciti e beneficenze: ne derivava una catena ininterrotta di vertenze con i vescovi e col clero secolare, che ebbe riflessi anche nella discussione dottrinale (vedi i ripetuti conflitti parigini tra maestri secolari e maestri mendicanti). I novi ordines si amministravano autonomamente, attraverso una gerarchia propria e una propria organizzazione territoriale. Il tramite istituzionale con la Sede apostolica era la figura del cardinale protettore, meno rilevante tuttavia presso gli agostiniani che, ad esempio, presso i francescani; in effetti nel periodo di Dionigi la funzione fu a lungo vacante. La gerarchia interna vedeva al vertice il capitolo generale, che si riuniva ogni tre anni (a partire dal 1281 per gli agostiniani, in ritardo sugli altri; lo stesso dicasi per la prassi di convocarli alternativamente in Italia e fuori d’Italia, che i nostri introdussero solo nel 1290). Per ogni capitolo si nominava una commissione di diffinitores, che aveva il compito, diremmo oggi, di approntare l’ordine del giorno e di predisporre le deliberazioni, continuando per tre anni a “definire” le materie istituzionali e disciplinari. Le deliberazioni capitolari, compresa la nomina del generale, venivano – almeno in via di principio, perché numerose furono le deroghe – sottoposte per l’approvazione al papa. Il capitolo generale aveva tra i suoi compiti l’elezione (o la conferma) del capo operativo dell’ordine, il priore generale. La qualifica merita attenzione: invece che priore, il generale dei domenicani si chiamava maestro, quello dei francescani ministro – i tre termini sono rispettivamente un’eco monastica, scolastica e di minoritas. Il priore generale degli agostiniani fu a lungo un italiano; ad esempio, menzioniamoli almeno, i generali al tempo di Dionigi furono Alessandro da Sant’Elpidio (1312-26) e Guglielmo da Cremona (1326-42); il primo generale non italiano fu Tommaso da Strasburgo, eletto nel 1345. A questo esito i domenicani e i francescani erano arrivati cent’anni prima: gli uni con Giordano di Sassonia, omonimo dell’autore agostiniano trecentesco (per non dire dello stesso Domenico di Guzmàn), con Aimone di Faversham gli altri. L’articolazione periferica del governo era fornita dai priori provinciali, i capi delle province, e dai priori locali, i capi dei conventi; in verità al provinciale gli agostiniani preferirono dapprima un visitatore, al modo delle congregazioni monastiche riformate. Anche a questi livelli funzionava la responsabilità collegiale, attraverso i capitoli provinciali e conventuali. Dunque le stesse strutture (un priore, coadiuvato da socii, visitatori e definitori, e il capitolo) si ripetevano, su un ritmo triennale, ai tre livelli: generale, provinciale, conventuale. Viene a proposito, a questo punto, descrivere per quanto possibile numero e distribuzione delle sedi dell’ordine e il loro accorpamento in province. Il tema della geografia mendicante è del più alto interesse, come dimostrano gli studi condotti in proposito per l’ordine dei frati minori (non altrettanto è stato fatto per i domenicani): l’articolazione in province, infatti, era proporzionale e funzionale all’estensione territoriale dell’ordine, alla dislocazione delle sedi, al numero stesso dei frati. La più antica lista delle province agostiniane risale al 1295 (lista dei priori provinciali presenti al capitolo generale di Siena), la successiva al 1324. L’ordine era diviso in province già al momento della magna unio, quando si trattò di prendere atto, per così dire, degli addensamenti dei gruppi preesistenti e confluiti nel nuovo ordine. È lecito immaginare che nel 1256 una o due province corrispondessero alle Marche, dove erano presenti soprattutto gli eremiti di Brettino, e che nell’Italia settentrionale si costuissero due o tre province; sicuramente fin dall’inizio esistevano la provincia romana, quella della Valle Spoletana, una o due in Toscana, così come quelle di Germania, Francia, Spagna e Inghilterra. Non molto dovette cambiare di lì a quarant’anni, poiché nel 1295 le province erano 16, dieci delle quali italiane (le elencheremo più avanti). Il salto avvenne nei trent’anni successivi, poiché nel 1324 si era passati a 24 province, dodici in Italia (con incremento al sud: non più soltanto provincia del Regno ma, oltre a questa, province di Terra di Lavoro o napoletana e siciliana) e dodici fuori d’Italia: l’espansione, da cui la necessità di una maggiore articolazione territoriale, si ebbe dunque oltralpe (da due a quattro province in Francia, da una a due in Spagna, da una a quattro in Germania; nuova la provincia di Terra Santa, comprensiva in realtà delle isole del Mediterraneo orientale). Numero e distribuzione delle province rimasero immutati fino al 1465. Per valutare quanti erano, e dov’erano, i conventi agostiniani in Italia al tempo di Dionigi mi sono giovato della tabella ottimamente elaborata da van Luijk per il Dizionario degli istituti di perfezione, dove per ciascuna delle 787 località elencate si fornisce la data di prima attestazione. Isolati così i conventi che risultano documentati entro il primo quarto del Trecento, si ha un totale di poco più di duecento conventi (per l’esattezza 210). Si può azzardare una valutazione demografica? Immaginando una media di dieci frati per luogo (intuitivamente ma non solo, se è vero che il capitolo 7° delle costituzioni di Ratisbona del 1290 stabilisce norme particolari per i conventi con più di 12 frati), si dovrebbe essere intorno ai duemila frati: un numero che si pone a gran distanza dalle stratosferiche cifre dei francescani (almeno cinquantamila) ma alla stessa altezza, se non al di sopra, del numero dei domenicani, l’ordine elitario. Vediamo comunque qual’era la distribuzione dei luoghi agostiniani italiani. Nel prospetto che segue distinguo i conventi urbani da quelli rurali, in base a un criterio semplicemente formale (essendo i primi situati in civitates, in città vescovili), senza riferimento alla consistenza demica o economica dell’insediamento – cosicché nella categoria dei conventi rurali stanno insieme, per dire, il convento di Sansepolcro e l’eremo più sperduto. totale urbani rurali. Italia settentrionale: Lombardia Marca Trevigiana (ultra Padum) 23 9 19 8 4 1 Italia centrale: Romandiola (citra Padum) Senese e Pisana Firmana e Anconitana Spoletana Romana 17 46 37 24 27 6 13 13 9 11 11 33 24 15 16 Italia meridionale e insulare: Regno Terra di Lavoro Sicilia 8 11 8 4 6 5 4 5 3 210 94 116 totali Questa ineguale distribuzione, che è sincronica (essa risale al passaggio fra XIII e XIV secolo, all’altezza del completamento della prima fase di crescita), fa vedere con evidenza uno sviluppo diacronico. Zona d’elezione degli agostiniani è l’Italia centrale, e in particolare la fascia appenninica. Di qui si diparte una linea d’orientamento verso nord-ovest, che si sviluppa lungo l’asse delle città emiliane e produce un insediamento abbastanza consistente nelle città lombarde: orientamento favorito peraltro dalla preesistente diffusione nell’area degli eremiti di Giovanni Bono e incentivato dalla necessità del collegamento verso la Francia e Parigi. Questo sviluppo lascia fuori il Veneto, dove gli agostiniani hanno sedi sol- tanto nelle principali città, e soprattutto l’Italia meridionale e insulare, con esclusione della Campania costiera. Se nell’articolazione delle province l’ordine degli eremiti di sant’Agostino ripete più o meno l’esperienza distributiva dei domenicani e dei francescani, quanto alla presenza insediativa le differenze sono abbastanza forti. Non tanto fuori d’Italia, dove i tre ordini si piazzano nelle città vescovili principali, quanto in Italia. Non è da farsi un confronto con i frati minori, la cui espansione numerica e geografica è di straordinaria precocità e ampiezza: essi erano tanti e si stabilirono ovunque, per dirla molto in breve. I frati predicatori invece attuarono una strategia insediativa che li portò programmaticamente alla costruzione dei grandi conventi nelle maggiori città, cioè a una rete distributiva a maglie relativamente larghe. Gli agostiniani presentano, rispetto ai due ordini gemelli, una caratteristica originale, ferma restando l’irrinunciabile, ma selettiva, presenza nelle città: ed è la frequenza di conventi nei centri minori di campagna e di montagna. Sui 210 conventi che abbiamo contato, più della metà, 116, si trovano in centri minori o in posizioni isolate. Sono quasi tutti, 99 per l’esattezza, nelle regioni centroitaliane; cosicché, se qui l’incidenza dei conventi “rurali” rispetto ai conventi “cittadini” è del 65% (99 su 151), essa cala al 44% nell’Italia meridionale e insulare (12 su 27) e al 16% nell’Italia settentrionale (5 su 32). Guardando specialmente all’Italia centrale, per gli agostiniani non vale l’equazione, stabilita tempo fa da Le Goff, tra “apostolato mendicante e fatto urbano”. Giocava in questo, senza dubbio, l’originaria impostazione eremitica dei gruppi confluiti nella magna unio del 1256; ma, per quanto è dato capire, quei conventini e romitori restarono a lungo vitali, caratterizzando da par loro la configurazione comparativa dell’ordine rispetto agli altri mendicanti. Se tutto quanto ho detto finora contribuisce alla comprensione dell’ordine agostiniano nei suoi elementi istituzionali e materiali, resta da dire qualcosa sui suoi caratteri culturali, che è naturalmente il tema più idoneo a inquadrare Dionigi da Borgo San Sepolcro. Appena possibile, l’ordine si orientò decisamente verso la valorizzazione degli studi, giustificata in funzione dell’apostolato; si pose cioè senza imbarazzi né contraddizioni sulla scia dei domenicani. Fin dal 1259 il priore generale acquistò una sede a Parigi (nel 1293 lo Studio generale degli agostiniani si trasferì nel convento già dei Saccati, ordine soppresso dal concilio di Lione del 1274, detto poi Grands-Augustins). Il primo magister di teologia dell’ordine fu Egidio Romano, nel 1285. La serie successiva non è foltissima, e Dionigi vi fa la sua figura. Per arrivare a quell’esito, il nostro fu favorito dalla legislazione dell’ordine, quale fu approvata nel capitolo generale di Ratisbona nel 1290 (con il contributo determinante di Egidio Romano, non ancora priore generale) e rivista nel 1306. Il capitolo 36° di queste costituzioni generali, che tratta «de forma circa studentes et lectores et predicatores nostros servanda», è in asso- luto la più precisa, concreta e analitica tra le codificazioni mendicanti al riguardo, superiore in questo anche a quella stabilita dai domenicani: una vera e propria ratio studiorum “ante litteram”. Esso, insieme col capitolo 15° («de modo receptionis novitiorum»), offre l’opportunità di seguire passo passo, per scansioni anagraficamente nette, la “carriera” di un intellettuale dell’ordine come fu il nostro Dionigi, col problema soltanto di non poter stabilire (che io sappia) a quale età egli sia entrato nell’ordine. L’età minima era di 14 anni, inferiore a quella prescritta dai domenicani e dai francescani (18 anni per gli uni e per gli altri; i secondi facevano qualche eccezione, ma non al di sotto dei 15 anni): in tal modo, pare di capire, si potevano coltivare fin dall’inizio gli ingegni migliori – proprio quello che è detto da talune fonti sul Dionigi adolescente. Dopo di che, la progressione degli studi individuali, dall’anno (e un giorno, tanto per la precisione) di noviziato al triennio di grammatica e logica nello studio generale della provincia al biennio di teologia e dottrina in uno degli studi generali ai tre anni (come minimo) per accedere al lettorato a Parigi, è scandita in maniera ferrea – rinvio comunque alla relazione di Maierù. Naturalmente ad ogni livello si operavano selezioni; e alla fine uscivano i migliori, incoraggiati e favoriti in ogni modo. Che cosa questa strategia scolastica abbia prodotto in termini speculativi, è tema che lascio ad altri. Se esiste una “scuola” teologica agostiniana, essa vive all’ombra del grande Egidio Romano, che forse Dionigi fece in tempo a conoscere – non a Parigi (che il maestro aveva lasciato fin dal 1295) ma semmai, nel viaggio verso Parigi, ad Avignone, dove Egidio morì alla fine del 1316. A parte l’agostinianesimo, uno degli aspetti intesi a dare storicità concreta al rapporto genetico, ovviamente insussistente, con un “fondatore” come sant’Agostino, mi pare caratteristica un’attitudine compromissoria, quale più volte manifestò Egidio, ad esempio nel conflitto esploso a Parigi nel 1270-80 tra volontaristi e intellettualisti. Interessa piuttosto saggiare l’ideologia ecclesiologica e politica espressa dagli agostiniani, perché quel torno di tempo non si può capire se non in questa chiave. Egidio Romano aveva fatto parte, nel 1309-12, della commissione nominata dal papa per esaminare le dottrine del frate minore Pietro di Giovanni Olivi, e fu lui a stendere la lista dei 23 articoli erronei (Impugnatio doctrinae Petri Iohannis). Dieci anni più tardi, nel 1322, scoppiava, a Parigi come nell’intera cristianità, la quaestio sulla povertà di Cristo e degli apostoli: «utrum asserere quod Christus et apostoli non habuerunt aliquid sive in proprio sive in communi sit hereticum», chiedeva molto seccamente il pontefice Giovanni XXII. Il referendum, rivolto al collegio cardinalizio e ai «magistri in theologia in sua curia existentibus» (tra i quali non c’era ancora Dionigi, allora impegnato a studiare a Parigi), diede l’esito scontato: quell’affermazione era eretica. Si badi che ciò non pregiudicava l’asserita povertà di tutti gli ordini mendicanti, ma solo quella dei frati minori, gli unici a bandire la povertà sive in proprio sive in communi. In effetti i domenicani e gli agostiniani interpellati si schierarono contro l’asserzione paupe- ristica – mentre gli agostiniani abruzzesi sceglievano un altro terreno: a Penne, in Abruzzo, «fratres ordinis heremitarum sancti Augustini… fratres minores earundem partium [scil. Pennensium] capitali odio persequentes, dictos minores ubicumque repertos invadere eisque inferre vulnera presumebant» (così scriveva lo stesso pontefice nel maggio 1323). La solidarietà tra i mendicanti, se mai c’era stata, era cosa del passato. L’ordine dei frati minori da quelle vicende uscì distrutto e diviso: com’è noto, il deposto ministro generale finì nel 1328 per accodarsi all’impresa italiana di Ludovico il Bavaro, e francescano fu l’antipapa eletto dall’imperatore, Pietro da Corbara. Nulla sappiamo del comportamento di Dionigi in quel durissimo frangente, che pure lo vedeva, negli anni 1324-28, insegnare a Parigi la sacra pagina; sappiamo solo di quell’ambasceria commissionatagli dal cardinale Napoleone Orsini a Todi (roccaforte dei bavariani) nel settembre 1329, per la quale rinvio alla relazione Suitner. Ma sappiamo abbastanza degli agostiniani, che fecero parte dello schieramento antiminoritico. Ripeto che questa loro posizione era coerente sia con l’assetto istituzionale dell’ordine, che (sulla scorta della regola di sant’Agostino) prescriveva la povertà individuale e non quella collettiva, sia con le convinzioni ecclesiologiche assunte dall’ordine in tema di plenitudo potestatis pontificia: Egidio Romano aveva scritto il De ecclesiastica potestate, e tra i suoi epigoni va citato almeno Agostino d’Ancona con la sua monumentale (e oltranzista) Summa de potestate ecclesiastica. Era questo il nocciolo della questione. Gli agostiniani abbracciarono nettamente la tesi della supremazia del potere spirituale sul potere temporale, ossia di Bonifacio VIII su Filippo il Bello prima, di Giovanni XXII su Ludovico il Bavaro dopo. Si considerino infine, allora, alcuni tratti della biografia di Dionigi: l’amicizia ad Avignone con i vecchi cardinali Giovanni Colonna e Napoleone Orsini, e il ritiro presso la corte di Roberto d’Angiò. Non sono personaggi indifferenti in quei tormentati trent’anni d’inizio secolo; erano infatti tra i più autorevoli protettori degli Spirituali, la frangia dissidente dei francescani. Chissà che la breve esperienza avignonese e per così dire ufficiale di Dionigi, durata meno di un decennio, non dipendano da un suo disagio. Si considerino inoltre alcuni tratti della sua personalità: gli interessi culturali (l’astrologia, i classici: interessi estravaganti per un magister), la fama di preveggente, la disponibilità – improntata alla discrezione e alla privatezza – al consiglio spirituale. Non vogliamo farne un dissidente, come quel Simone Fidati da Cascia, suo confratello, che ammirava e seguiva Angelo Clareno; ma l’impressione che la sua vicenda suggerisce è quella di un religioso che, come dire, avrebbe potuto fare di più, sia sotto il profilo della vita del suo ordine sia sotto il profilo del magistero teologico. Sappiamo che la fama di Dionigi non è legata al suo curriculum fratesco, ma alla trama delle sue relazioni umane e culturali, alla sua consuetudine con la grande letteratura (quella del passato, i classici, e quella del suo presente). Potrebbe essersi trattato di una scelta. Nota bibliografica Per la biografia di Dionigi da Borgo Sansepolcro mi rifaccio alla voce redatta da M. Moschella per il Dizionario biografico degli Italiani, 40 (1991), pp. 194-197. La migliore storia dell’ordine (dall’interno, come lo scritto citato subito dopo) è D. Gutierrez, Storia dell’ordine di sant’Agostino. Gli agostiniani nel medioevo, Roma 1986, litogr. Molto informata è la voce Agostiniani curata da B. Rano per il Dizionario degli istituti di perfezione, I, Roma 1974, coll. 278-382; qui, col. 357, si legge (a correzione parziale di quanto scrivo nella relazione) una menzione di Dionigi come amico del Petrarca e “umanista”, non comunque in altre sezioni. Le costituzioni ratisbonensi sono edite da I. Aramburu Cendoya, Las primitivas constituciones de los agustinos, Valladolid 1966. Bisogna poi consultare la rivista di studi storici dell’ordine, “Analecta augustiniana”. Poiché si è citato più volte Egidio Romano, vale di nuovo, per comodità, il rinvio al Dizionario biografico degli Italiani, 42 (1993), pp. 319-341 (la voce si deve a F. Del Punta, S. Donati e C. Luna). Per il discorso sugli insediamenti agostiniani due-trecenteschi ho utilizzato il prospetto Diffusione degli agostiniani in Italia (1650-1750) a cura di B. van Luijk, coll. 327-340 della voce citata nel Dizionario degli istituti di perfezione. Assumo come spunto l’intenso lavoro sulle dinamiche insediative dei frati minori, che prese le mosse da J. Le Goff, Apostolat mendiant et fait urbain dans la France médiévale: l'implantation des ordres mendiants. Programme-questionnaire pour une enquête, in «Annales. Economie, sociétés, civlisations» 23 (1968), pp. 335-353. I saggi migliori sono quelli di L. Pellegrini, raccolti in Insediamenti francescani nell'Italia del Duecento, Roma 1984; una panoramica larga è fornita dallo stesso, I quadri e i tempi dell’espansione dell’ordine, in Francesco d’Assisi e il primo secolo di storia francescana, Torino 1997 («Biblioteca Einaudi», 1), pp. 165-201. Circa la gigantesca quaestio sulla povertà apostolica, il contributo più analitico mi risulta essere ancora A. Bartoli Langeli, Il manifesto francescano di Perugia del 1322. Alle origini dei fraticelli “de opinione”, in Spirituali e fraticelli nell'Italia centro-orientale. “Picenum seraphicum”, XI (1974), pp. 204-261. L’unico brano riportato che meriti giustificazione è quello della lettera di Giovanni XXII del 1323 sui fattacci avvenuti «in partibus Pennensibus»: ivi, p. 24 nota 90.