MARIA ROSA GIACON
1914 nella Licenza e nei Taccuini dannunziani
In
L'anno iniquo. 1914: Guerra e letteratura europea
Atti del congresso di Venezia, 24-26 novembre 2014
a cura di Alessandro Scarsella (in collaborazione con Giovanni Capecchi e Matteo Giancotti)
Roma, Adi editore, 2017
Isbn: 978-884674651-1
Come citare:
Url = http://www.italianisti.it/ Atti-di-Congresso?pg
=cms&ext=p&cms_codsec=14&cms_codcms=818
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L'anno iniquo. 1914
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MARIA ROSA GIACON
Il 1914 nella Licenza e nei Taccuini dannunziani1
Uscita in Italia nel 1916 e in Francia nel 1922, la Licenza alla Leda senza cigno ricrea nel genere della prosa memoriale la
tormentata materia di vita di d'Annunzio, che, "esule" oltralpe, assiste allo scoppio della Grande Guerra, all'occupazione
tedesca della Piccardia e alla discesa, che parrebbe inarrestabile, dei "barbari" verso Parigi. Impossibilitato a prender parte alle
azioni, il poeta, mentre ammira il generoso tributo di sangue della Douce France, costantemente si duole per l'Italia attestatasi su
posizioni di neutralità da lui giudicate frutto d'ignavia e codardia, certo non della nazione, ma di chi la governa. Se non può
combattere con le armi, d'Annunzio però combatte con la penna: sulle maggiori riviste parigine, da un lato egli esalta il coraggio
francese, dall'altro, inneggiando alla mistica della guerra, si fa garante dell'intervento italiano come ineludibile e prossimo. Il
primo nucleo ideativo della Licenza è perciò rintracciabile nei proclami interventistici di quel 1914 francese, variamente utilizzati
nella futura prosa. Se tali episodi d'enfasi oratoria sono numerosi, il vero centro raccontativo è tuttavia costituito dalle tre
«faville», trascorse da lirica intonazione, L'angoscia, Lo sgomento, La preghiera, comparse sul «Corriere della Sera» durante
l'estate del '14. Precedendo i cartigli veneziani che vanno di concerto con la scrittura del Notturno, a questa anzi strettamente
complementari, tali prose in realtà disvelano l'innervarsi nella Licenza di un diverso o più profondo sistema di significazione,
entro il quale, a garantire la naturale grandezza dell'Italia, e pertanto la certezza del suo intervento accanto alla sorella latina,
non sono le grida della propaganda di guerra, bensì la capacità persuasiva esercitata dai mezzi della lingua e dello stile
nell'attualizzazione delle nostre maggiori auctoritates: di Dante, in special modo, qui assunto a metafora di orgogliosa grandezza
e dignità. Nel fittissimo attingere al patrimonio linguistico della tradizione nazionale e nella fruizione, in particolare, della
Commedia, è implicito un messaggio altamente nobilitante; invero, l'orditura di voci inscritte nel nostro thesaurus e delle tante
presenze dantesche qui rappresenta il mezzo più efficace da d'Annunzio utilizzato a difesa della «patria» per ora, ma non per
sempre, «dimentica» e «irresoluta».
Envoi à la France: anticipata dallo scritto Aveux de l'Ingrat, che ne riportava una parte alla lettera2,
in tal modo fu battezzata la Licenza francese, uscita a puntate nel 1921 sulla «Revue Hebdomadaire»
e poi nel 1922 presso Calmann-Lévy, nella traduzione ad opera di André Doderet3. A differenza
dell'opera italiana apparsa nel 1916 e tiepidamente accolta4, l’Envoi avrebbe ricevuto caldi assensi
presso l’intellettualità transalpina, con attivi interventi da parte di Henry de Régnier, Téodor de
Wyzeva e soprattutto Maurice Barrès. Figlia anch'essa dell’«ombra» e, dunque, stretta sorella del
Notturno, l’operetta (in realtà lunga il doppio della Leda cui si accompagnava)5, meglio riflette nel
1
Si avverte che l'uso del corsivo nel testo e nelle note è sempre nostro; eventuali evidenziazioni presenti
nell'originale recheranno la sigla c.d'A.
2 Cfr. Les Aveux de l'Ingrat, Paris, Grasset, 1919, e la prima sezione del Sudore del sangue, in G. D'ANNUNZIO,
Prose di ricerca, a cura di A. Andreoli e G. Zanetti, Saggio introduttivo di A. Andreoli, Milano, Mondadori,
2005, vol. I, 760-791.
3 Cfr. G. TOSI, La vie et le rôle de D'Annunzio en France au début de la Grande Guerre (1914-1915). Exposé
chronologique d'après des documents inédits, Firenze, Sansoni, 1961, 187, opera dalla quale si traggono anche le
informazioni successive relative alla fortuna degli scritti giornalistici di d'Annunzio in Francia.
4 Per la Licenza, cfr. G. D'ANNUNZIO, La Leda senza cigno, in Prose di romanzi, a cura di A. Andreoli e N.
Lorenzini, Milano, Mondadori, 1988-1989, vol. II. Per via delle citazioni numerose, l'opera sarà indicata con la
sigla L.
5 La composizione della Licenza fu invero assai «frantumata». Come meglio si dirà nel seguito del testo, noto è
che essa comprendeva testi risalenti già all'«estate del ’14 con le tre faville pubblicate sul "Corriere della Sera"
e riproposte quasi in apertura», e che il poeta terminò la stesura «solo tra la primavera e l'estate del ’16,
vergandola su cartigli che si conservano negli Archivi del Vittoriale»: così Lorenzini nel suo commento a
D'ANNUNZIO, Prose di romanzi, vol. II, 1400-1401. Per la «complessa stratigrafia» sottesa alla composizione del
Notturno, le cui bozze «giungono alla Casetta rossa il 13 febbraio 1917», si veda la ricostruzione di Zanetti, in
D'ANNUNZIO, Prose di ricerca, vol. II, 3011-3061.
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titolo francese la nostalgica rammemorazione di quel 1914 glorioso e al tempo stesso tormentato, in
cui invero d’Annunzio da un lato assiste ammirato e commosso al generoso tributo di sangue della
douce France, dall’altro costantemente si duole della patria «dimentica e indimenticabile», pieno di
«pietà, di rimorso, di rampogna, di furia, di onta» per l’Italia «inerme e irresoluta» ad uscire dallo
stato di neutralità intervenendo a fianco della sorella d’oltralpe. A dire il vero, l’opposizione della
razza latina alla "barbarie" germanica ha radici ben antecedenti nell'opera dannunziana,
metaforizzate in artistica veste fin dal 1897 all'insegna di quel passo di Anatole France siglante la
chiusa del Taccuino XV: «Je voudrais que les peuples latins s'unissent pour élever sur quelque plage
illustre et déserte un monument à la Méditerranée morte, qui porta jadis sur ses eaux charmantes la
plus belle chose du monde, le génie grec, et la plus grande, la paix romaine»6. Erano invero stati, in
quell'anno, gli articoli La Rinascenza della tragedia, l'intervista rilasciata a Gordon Bennet e i vari
colloqui sul «Teatro di Festa»; per giungere poi, nel Fuoco, alla dialettica di melodramma
monteverdiano e opera wagneriana, in contemporanea con la celebrazione di un campione
esemplare della civiltà mediterranea quale l'Ulissìde di Maia; per non dire dei potenti soffi
d'irredentismo che, in periodo successivo, agiteranno il Mare nostrum solcato dalla Nave. E tuttavia è
solo in quel 1914 francese che si vedrà la formulazione estetica dannunziana tradursi in effettivo
progetto politico ed esprimersi in una furiosa propaganda interventista sulle maggiori riviste
parigine. Basti qui pensare all'Ode pour la résurrection latine, uscita sul «Figaro» del 13 agosto e
l'indomani in italiano sul «Corriere» di Luigi Albertini, poi in testa al V Libro delle Laudi, i Canti della
guerra latina: inno infiammato, attraversato dalla mistica della guerra santa, in cui si esorta l'Italia a
prender giusto possesso «[...] de Pola romaine | sur l'Adriatique reconquise au Lion» e a
congiungersi alla sorella che già «se tient debout dans le soleil», pronta a cantare, come l'allodola
gallica, «sur tous les sommets de la mort», dal momento che, interroga il poeta, «Qui est contre elle,
sinon le barbare? | Et qui sera près d'elle, sinon toi?»7. All'Ode, accolta con entusiasmo dai lettori
francesi tra i quali Paul Adam, farà seguito su «Le Gaulois» del 24 settembre quella Chanson de
Saucourt8, che, col trarre simbolico spunto dalla vittoria sui Normanni di Luigi III, re dei Franchi
occidentali, e dal suo canto guerriero (il Ludwigslied o Rithmus Teutonicus, in realtà), esalta le miracle
français, così detto per l'«apparition si extraordinaire» d'una «sûpreme expression virile», nell'eroica
difesa non solo della propria terra, ma della splendida civiltà dell'intera razza latina. E, di nuovo,
suscitato dal penoso confronto con il «pays de martyrs et de rois», il pensiero di d'Annunzio corre
alla «triste Italie», che pur un tempo era stata esempio di meravigliosa armonia «entre sa substance
et sa géniture», e di nuovo si afferma l'anelito del poeta a veder comporsi in un unico sangue «les
deux sangs fraternels». Il «rêve» tormentato e doloroso di d'Annunzio, scaturito dalla «puissance de
l'amour» del futuro combattente – «la forza dell'amore mescolava [...] nel mio sogno i due sangui
fraterni», recherà con letterale ripresa la Licenza9 -, e che egli travasava in ogni occasione culturale e
6
Cfr. G. D'ANNUNZIO, Taccuini, a cura di E. Bianchetti e R. Forcella, Milano, Mondadori, 1965, p. 211; v.
anche, per il seguito, Altri Taccuini, a cura di E. Bianchetti, Milano, Mondadori, 1976. Essendo le citazioni
numerose, si adotteranno per tali opere le sigle T/TT e AT/ATT.
7 Con il titolo Canti della guerra latina d'Annunzio avrebbe deciso di designare il precedente Asterope. Per l'Ode,
cfr. G. D'ANNUNZIO, Versi d'amore e di gloria, a cura di A. Andreoli e N. Lorenzini, Introduzione di L.
Anceschi, Milano, Mondadori, 1984, vol. II, 761-768: 766-768, vv. 188-189, 191, 205-206, 209-210.
8 «La Chanson de Saucourt, "Le Gaulois", 24 septembre 1914, reproduit en italien, avec quelques coupures, dans
le "Corriere della Sera" du 25 septembre 1914 et, en français, dans la "Rivista di Roma", 25 oct.-10 nov. 1914,
pp. 742-746»: TOSI, La vie et le rôle..., 186. Il testo di tale intervento si legge largamente trasposto nella Licenza
(La preghiera): cfr. L, 974-976.
9 L, 974. Ma si veda anche L, 961: «Rimpianto e speranza mi fanno delle due patrie una patria sola».
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sede giornalistica, attraversa dunque l'intera prima parte dello scritto del ’16, dopo la quale i cartigli
dannunziani lasceranno l'amata provincia «vallese» per Venezia, in tal caso muovendo da un asse
temporale più recente (1915-1916) e avviando una tematizzazione non soltanto comune, anche
strettamente complementare alla rievocazione notturna (morte di Miraglia, dicembre 1915, e visita a
San Michele, maggio 1916). Di fatto, entro una strutturazione segmentata da un costante
movimento mnestico, con balzi e squisite divagazioni fra tempo della storia e tempo della scrittura,
la Licenza si afferma come il terreno quanto mai complesso di un'officina inter e intratestuale a più
direzioni e a più strati promossi da sollecitazioni numerose e diverse, fra loro composte, osservava
Niva Lorenzini, con quella «tecnica dell'intarsio» esperita sin dai tempi del Piacere10. Per quanto
riguarda la sezione francese, preciso oggetto del nostro intervento, si tratta, in primo luogo, dei
materiali composti già nel 1914, tra i quali i versi e le prose comparsi sulle riviste transalpine, anche
con letterali trasposizioni d'interi passi come nel caso della Chanson de Saucourt. Tuttavia, vero centro
raccontativo del recordari dannunziano, saranno le tre «faville», stese in contemporanea con le azioni
di guerra e con l'occupazione tedesca della patria merovingia, pubblicate sul «Corriere della Sera»
nei numeri del 26 agosto (L'angoscia, ma risalente al 27 luglio), del 14 settembre (Lo sgomento, datato
però 30 agosto) e del 24 settembre (La preghiera, datata 3 settembre). Come ha illustrato Guy Tosi
nel suo tuttora imprescindibile studio11, un primo strato dell'intratestualità dannunziana muove dalla
rielaborazione dei quaderni di guerra, da Tosi allora visionati (e tradotti in francese) direttamente
sugli autografi del Vittoriale. Si tratta del gruppo dei Taccuini LXIX-LXXVI e degli Altri Taccuini 20-27,
per larga parte già vergati con occhio d'artista, com'è vero che, osservava Enrica Bianchetti, in più
d'un caso «gli appunti vennero registrati dal poeta non nei giorni cui sono attribuiti, ma a posteriori,
via via che gli si presentavano alla mente»12: in breve, quella funzione non di semplice annotazione,
ma di preziosa minuta, cui attingere direttamente nella stesura, che è tipica dei quadernetti
dannunziani. Un confronto accurato sarebbe invero in grado di evidenziare la fitta tramatura dei
prelievi che, in una disposizione ad incastro, fra più tasselli in contemporanea, costellano gli episodi
più significativi della Licenza. Solo a rammentare alcune occorrenze, tali il T LXVIII, la cui metafora
averna («Il sentimento che nulla vale [...] | La prospettiva del gran canale – un fiume d'Averno – un
Ade infinito –») ha letterale riscontro nel clima di sospesa incertezza, che, imminente l'apertura delle
ostilità, contrassegna il cuore dell'Angoscia13; l'AT 23, trasposto nello Sgomento a richiamare
l'occupazione della cittadina di La Fère già capitolata nel 1870 «davanti alla medesima forza»14, e
subito di seguito, con accorto assemblage, la trasposizione delle note del T LXIX a descrivere il panico
diffuso in una Parigi che paventa l'invasione prossima15; il fondamentale LXX, che, in tutt'uno con
un nuovo tassello dall'AT 23, ricrea, fra i vari luoghi, il clima allucinato dell'Île de la Cité sconvolta
dalle fortificazioni imposte dal generale Gallieni e invasa da un'immensa mandria di buoi discesa
10
In D'ANNUNZIO, Prose di romanzi, vol. II, 1401.
Cfr. qui la nota 3.
12 In D'ANNUNZIO, ATT, 422.
13 Cfr. TT, 662 e L, 950.
14 Cfr. l'AT 23 «(30 agosto – I Tedeschi a la Fère) Parigi in un'afa d'uragano –. Automobili piene di soldati, in
corsa» (ATT, 223), e L, 952, «Oggi l'invasore è a La Fère, occupa la cittadella forse immemore d'un'altra
capitolazione precipitosa davanti alla medesima forza».
15 TT, 669: «2 settembre. Mattina di pànico. [...] | Vado a far provviste da Augé – all'Ambasciata – poi al
Ministero dell'Interno – Grandi camions negli androni, automobili, movimento convulso. I funzionarii
istupiditi. Nessuno sa nulla, nessuno capisce nulla [...] Da per tutto mollezza, confusione, rassegnazione. | La
razza è perduta!». Come si vedrà, il passo appare sviluppato in L, 952-953.
11
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dalla Piccardia ormai in mano nemica16; il drammatico LXXI, con la visita del poeta al fronte
francese e la vista degli orrori lasciati dalla guerra, gli edifici sventrati e i cavalli uccisi, tutti giacenti
con una zampa all'aria17; il prosieguo della visita al fronte annotato nel T LXXII, cui si è attinta la
rievocazione della rovina abbaziale di Pontlong, in località di Soissons, fra le cui mura residue, la
domenica del 20 settembre il poeta sembra aver presenziato intensamente commosso ad un servizio
che, nel canto dei soldati pronti alla battaglia e alla morte, è attraversato da epico soffio come
nell'«antichissima canzone carolingia», per assistere, subito poi, anche all'arrivo, lungo la via di
Soissons, dei carri dei feriti esposti al fuoco implacabile delle batterie avverse18; e, tralasciando altre
occorrenze, sarà infine, ormai in data 16 marzo 1915, il ricco T LXXVI, cui d'Annunzio ha
specialmente attinto per la descrizione della Cattedrale di Reims, incendiata nel 1914 e, riporterà
Ugo Ojetti, ancora ripetutamente bombardata l'anno successivo19.
Indubbiamente, a nutrire l'elaborazione della Licenza sono intervenuti molti innesti dall'opera
compiuta: le autocitazioni dalle prose di romanzi, come il più vicino Forse che sì forse che no; dal teatro,
con Più che l'amore20; i lasciti, segnalati da Niva Lorenzini, dei libri delle Laudi, di Elettra e Maia
soprattutto, ai quali, tuttavia, andrebbero a parer nostro aggiunti alcuni echi di Alcyone21. Sul piano
poi dell'intertesto, stando ai blocchi degli emprunts da scritti coevi, noti sono i prelievi dal Baedeker
(Paris et ses environs) per la rievocazione dei quartieri parigini fra i quali ama perdersi il poeta cercando
conforto sull'orma di Dante, e, per la descrizione dei tesori architettonici a d'Annunzio più cari, gli
imprestiti dall'opera di Louis Demaison (1911) e Auguste Rodin (1914)22. L'esame minuzioso
condotto da Guy Tosi, in un confronto incrociato con le carte autografe conservate al Vittoriale 23,
ben pone in luce la singolare capacità di lirica rifusione dei dati eruditi che è della generalità
dell'imprestito dannunziano24.
Altro notabile genere d'innesti è quello d'ordine lessicale, rappresentato dalle tante voci arcaiche
e preziose, insolite ad ogni modo come taluni toscanismi, che qui figurano estratte dal thesaurus della
nostra tradizione quali bóllicare (L, 947), massello (959), filiggine (961), cànove, staccheggiare, fondime (962),
16
Cfr. TT, 675, 676, 680, 683 e ATT, 223. L'insieme di queste note, inclusa la visione della «mandra immensa
di buoi fulvi» per le vie di Parigi (ATT, 223), ha corrispettivo in L, 952-956.
17 TT, 688-689, poi L, 984-985. L'atroce ricordo dei cavalli uccisi compare anche nel Notturno: cfr.
D'ANNUNZIO, Prose di ricerca, vol. I, 348.
18 TT 693-694. Le note del Taccuino LXXII sono state rifuse nella terza favilla, la densa e complessa Preghiera,
per la quale si veda L, 974-977.
19 TT, 719-721. Il 16 marzo 1915 d'Annunzio sarebbe stato a Reims in compagnia di Ugo Ojetti e di Joseph
Reinach. Su iniziativa di quest'ultimo, i tre si recheranno in visita dal cardinale Luçon: sarà questi ad informarli
sui continui bombardamenti cui è sottoposta la città e in particolar modo la sua cattedrale. Si veda a riguardo
la documentazione riportata in TOSI, La vie et le rôle..., 120-121.
20 Ivi, p. 69.
21 Si veda in particolar modo La tenzone, vv. 32-35: «Ogni passato mal nell'oblìo cade. | S'estingue ogni desìo
vano e feroce. | Quel che ieri mi nocque, or non mi nuoce; | quello che mi toccò, più non mi tocca», in D'ANNUNZIO,
Versi..., vol. II, 459. Simile principio tematico – la dismissione di abiti consolidati, là per un momento di
panica effusione, qua per l'eccezionale condizione imposta dalla guerra – si legge, in tutt'uno con il modulo
antitetico 'ieri... ora non più', ricontestualizzato in L, 949: «[...] quello che fino a ieri ci valse, oggi non ci vale più; quel
che ci appartenne, non più ci appartiene. I sostegni abituali mancano a un tratto, i comuni rimedii sono inefficaci».
22 Cfr. L. DEMAISON, La Cathédrale de Reims, Paris, Laurens, s.d. (ma 1911) e A. RODIN, Les cathédrales de France,
Introduction de Charles Morice, avec planches de dessins de Rodin, Paris, Colin, 1914.
23 AGV, XIX, 2, ff. 213-2147, Reims, in cui figurano trascritti per mano dannunziana i passi suscettibili di
fruizione.
24 Dal momento che, secondo la norma dell'intertestualità dannunziana, pochi sono i riporti passivi e che, al
contrario, «Tout en lisant et en trascrivant, le poète déjà modifie la lettre, développe l'image, amplifie la
vision»: TOSI, La vie et le rôle..., 165. Per gli imprestiti dannunziani, puntualmente rilevati dallo studioso, si veda
ivi, D'Annunzio et Reims, pp. 157-174 (Appendice V).
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pontare (963), la metatesi infracidare (966), carra (975: «le lunghe carra», in luogo dei carri del T LXXII)25,
stronchi («i gomiti e i polsi», 971), imbracare (975), sguisciare (982), numeroso («tunica numerosa», 978),
embriciare (per embricare, 981 ), brago e pattume (987), mugghi (986, 987), questi ultimi rinvianti all'AT 27
con la descrizione allucinata delle vacche malate di afta. Similmente, costellano il tessuto della
Licenza cospicui prelievi dall'amato Tommaseo-Bellini, con la connotazione auratica loro sottesa da
Dante a Boccaccio, da Ariosto a Cellini: così per fare solicchio, tagliamento («delle genti», 954), abbarrare
(«il passo», 955), rami di gitto (959), strami (962), rosso di robbia (976), cervie (984), proietti (985), carne
morticcia (986), magagnato (987)26. Tutte forme, in realtà, che agiscono in piena sinergia con esiti
espressivistici ben insediati anche nel sistema della prosa di romanzo, come fumigare (L, 975, 981,
986), che è nel Fuoco («gli alberi [...] parevano fumigare per le cime quasi nude»), il toscano dolco (975),
che è nel Forse («Era un tempo umido e dolco»), attortigliare (971), che è nel Piacere (per i capelli che «si
attortigliavano su la nuca» di Maria Ferres), o la torsione suffissale fendute (963), visibilmente
richiamata da un similare contesto di distruzione figurante nelle Vergini delle rocce («Torri dirute,
muraglie fendute, cittadelle abbattute [...]»)27 e tutt'affatto analogica con le forme «battaglione dentato»
(967: la muta di sessanta levrieri del poeta), rempiuto (975), barbato (981: «una di quelle statue barbata»,
ricercata variatio per i «diaconi barbuti» di 962); per non dire, infine, della singolare alterazione
morfologica i due sangui («fraterni», 974)28. Ebbene, in questo attingere al fondo proprio e della
lingua nazionale, evidentissima nella sezione francese, certo presente, ma meno esibita in quella
veneziana, è racchiuso un senso preciso: un appello al riscatto italiano artisticamente molto più
efficace dei tanti proclami interventistici confluiti nell'operetta. Poiché è il piano simbolico il vero
referente del poetico discours di d'Annunzio. Molto più, dunque, della trascorrente associazione
‘Terra-Sangue-Guerra’, ben richiamata da Elena Ledda in un recente intervento pescarese29; molto
più dell'inno alla guerra, che «prepara gli spazii mistici per le apparizioni ideali», e alla terra, deità
vorace30, che converte l'umano «carnaio» in «fermenti sublimi»31, molto più conta nella Licenza la
25
Similmente in L, 976: «dal ciglione della via ingombra di carra cariche di feriti». Alla base del toscanismo
però agisce anche un'esigenza di variatio, come si evince da L, 977: «Altri carri di feriti giungevano, sostavano».
26 Prelievi già segnalati da Lorenzini, in D'ANNUNZIO, Prose di romanzi, vol. II.
27 Si vedano rispettivamente Il fuoco, Forse che sì forse che no, Le vergini delle rocce, in D'ANNUNZIO, Prose di romanzi,
vol. II, 326, 774, 179, e Il piacere, in Prose di romanzi, vol. I, 161.
28 Ricorrente tuttavia, nella Licenza, anche la modificazione suffissale in -iccio: umidiccio (L, 947, 950), smorticcio
(958), torbidiccio (975), bianchiccio (983), morticcio (986).
29 Cfr. E. LEDDA, Scritti guerrieri: ai confini della parola e alla soglia dell’azione, in D'Annunzio, la Guerra, l'Europa, 41°
Convegno del Centro Nazionale di Studi dannunziani, Pescara, 10-11 ottobre 2014, in corso di pubblicazione.
30 «Assorto, lasciavo su me gocciolare il sangue e disseccarsi la mota. Quel fosso deserto mi dava imagine della
trincea tremenda [...] Sentivo dentro di me il mio scheletro prigioniero, involuto di carne riconversa in argilla.
Sentivo, presso e lungi, la insaziabile voracità della terra, e la deità sua» (L, 971). Il poeta, nel tentativo di
frenare la corsa impetuosa dei suoi levrieri, era infatti caduto con i guinzagli attorcigliati ai polsi ed era stato
trascinato per un buon tratto dalla furia dei cani, ferendosi al viso.
31 «Talvolta, all'annunzio d'una strage, penso che la guerra prepara gli spazii mistici per le apparizioni ideali [...]
Quel che un Antico nostro chiamava "il tagliamento delle genti" non ha mai tregua. In ogni attimo le creature
sono agguagliate alla terra che si abbevera del loro sangue furioso, prima d'inghiottirle e di convertirle in sua
grassezza tranquilla. Anche una volta la divinità della terra è testimoniata dall'immane sacrifizio. Ella prende il
corpo orizzontale dell'uomo come misura unica per misurare il più vasto Destino. E se si sazia di carne, poi la
rende in ispirito. Dove il carnaio si dissolve, quivi nascono i fermenti sublimi. Dove si sprofonda il peso
mortale, quivi la libertà dell'anima si leva. Quanto più larga sarà l'offerta, tanto più alto sarà il prodigio. | Così
comprendo come la terra e la guerra sieno entrambe d'essenza divina e per sempre congiunte da un patto non
violabile» (L, 954-955). Ma si veda anche L, 972: «Ed ecco, di sùbito, ella [la Terra] ci riapparisce in una specie
di rivelazione primitiva, come al pastore dei tempi dritto su la collina e rivolto verso i punti sacri del mondo.
Di sùbito, ella ci riafferra, ci riprende la carne e l'alito, ci spalma della sua creata, ci abbraccia ineluttabile [...]
mescola la sua sostanza al nostro coraggio, la nostra morte alla sua immortalità. | Sempre la guerra nei secoli
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persuasio direttamente attivata dalla lingua e dallo stile nella risemantizzazione delle nostre maggiori
auctoritates. Conta ai fini dell'arte, si diceva, quanto per la riuscita della stessa comunicazione
ideologica. In realtà traspare da queste pagine ‘francesi’ l'innervarsi d'un sistema metaforico che è
ben altra cosa dai «momenti [...] esposti all'enfasi oratoria»32 sin troppo numerosi e non sempre
difendibili. Da tale sistema, che non grida e non proclama, ma afferma attraverso la significazione di
altri mezzi testuali, muove un messaggio sottilmente contrastivo-difensivo, tale da riscattare la
«patria dimentica e irresoluta» agli occhi del mondo e soprattutto del paese ospite in guerra: è vero
che, a differenza dell'Italia, «France la douce» sta ora versando il suo sangue generoso per la
salvezza della razza latina, e che lotta con inesausto coraggio per respingere il nemico dai luoghi che
le furono culla: «la contrada regale che custodisce l'anima pura della vecchia Francia e i vestigi della
sua più alta storia, la terra austera e soave che ospitò San Luigi e Bianca di Castiglia» 33, le «città
violate» del Nord, Amiens, Saint-Quentin, Noyon34; ma è pur vero che, nel rievocare l'incanto delle
località vulnerate dall'occupazione nemica, balzano alla struggente vista memoriale del poeta i tesori
dell'arte d'Italia35; la millenaria perizia del suo popolo contadino, dei suoi mietitori e allevatori;
l'armoniosa bellezza delle piane toscane e romane, trascritte con un tachisme alla Fattori e sensibili
echi di Millet e Monet36; le piccole e preziose città dell'Umbria37; l'inquietante fulgore metallico del
lago di Nemi, fissato già nei Taccuini, come nella lirica e nella prosa di romanzo degli anni
Novanta38. E però non si tratta di nóstos solamente. Non è possibile infatti, tale è il significato ultimo
delle liriche associazioni dannunziane, che un popolo di non meno nobile razza, come quello
d'Italia, non si scuota dal torpore in cui è venuto a giacere a causa d'una classe politica ignava, e non
vada a schierarsi accanto alla sorella d'oltralpe, che certo è stata più pronta, ma anche meglio diretta
e governata. E, a farsi garante dell'intervento italiano, sia pur dubitandone talvolta in privato39, ecco
ricondusse le creature verso colei "che ha un vasto e ricco petto" | [...] Ma questa guerra suprema sembra
interamente rifondere tutte le stirpi nella materia originale affinché i loro genii possano alfine rifoggiarli nel
fango sanguinoso e risollevarli alla vita con un soffio più vasto».
32 LORENZINI, in D'ANNUNZIO, Prose di romanzi, vol. II, 1401.
33 L, 966.
34 L, 956.
35L, 960.
36 «Abbasso le palpebre su la mia intollerabile angoscia; e rivedo la mietitura del mio paese, un certo campo
del Lazio tutto sanguigno di papaveri, una mano bruna che ha un certo suo modo di prendere la manata di
spighe da segare, un fastello di covoni coperto di passeri ghiotti nel contado di Settignano, uno stuolo di
mietitori seminudi lungo la via polverosa di Montecassino» (L, 951).
37 «Conoscete, o Chiaroviso, un Borgo che si chiama Longpont? Pontelungo. Somiglia quasi a una delle mie
piccole città umbre, tra l'infranta ossatura della chiesa abbaziale e una porta munita di torricelle eguali a
quell'una che Santa Barbara sorregge nella palma della mano. Il suo aspetto ingannava il mio esilio, come il
suo ricordo oggi mi ravvicina alla seconda patria distante» (L, 974).
38 L'immagine del «tremendo specchio del lago di Nemi nel suo cerchio di selve» (L, 951) è ben cara a
d'Annunzio. Essa compare nel T LXVIII («17 agosto. Versaglia»): «Dall'alto della terrazza, si vede un cimitero
verde [...] in prossimità d'uno stagno triste, circondato di boschi cupi [...] L'acqua cupa, torva, che mi ricorda
quella di Nemi» (TT, 663, c.d'A.). Ma il ricordo di quel cupo pallore, che già era nell'AT 4 (31 marzo 1897), si
trova innanzitutto inscritto nelle Elegie romane: Sul lago di Nemi (Villa Cesarini), vv. 1-4 (D'ANNUNZIO, Versi...,
vol. I, 360), e parimenti nel Trionfo della morte (Prose di romanzi, vol. I, 686).
39 Particolarmente significativa di questo stato d'animo è la fitta corrispondenza con Luigi Albertini. Si veda in
special modo la lettera del 2 gennaio 1915: «[...] Spesso l'ansia e l'angoscia, in questa troppo lunga sospensione
di sorti, si mutano in tedio e in accidia. Il lavoro è difficile: sembra inutile. L'avvenire è incertissimo [...] Penso
che anche voi altri in Italia dovete vivere nella medesima inquietudine penosa. Che si fa? Dove si va? Come?
Quando? | Temo di cedere alla malinconia che mi opprime. Avrei voluto tornare in Italia il giorno della
dichiarazione di guerra. È strano: ho in me il presentimento (rare volte m'inganna) che l'Italia non si batterà»: cfr.
l'utile raccolta D'Annunzio e Albertini. Vent'anni di sodalizio, a cura di F. Di Tizio, Pescara, Ianieri, 2005 2, pp.
255-256 [presentimento è c.d'A.].
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d'Annunzio appellarsi ai modelli della nostra tradizione. Sarà l'esule fiorentino, soprattutto, con i
suoi messaggi di orgogliosa grandezza, a indirizzare d'Annunzio a modalità di riscatto valide per sé,
anch'egli «fuoruscito e discorde», e alla pari per la terra di cui è il figlio tormentato e dubbioso. Vera
e propria quête sulle orme di Dante, quella dannunziana, che si traduce nel testo per mezzo d'una
tramatura continua, costituita da luoghi tematici e citazioni fra le più celebri, quanto da riferimenti
non esplicitamente dichiarati, da allusioni affidate a metaforici richiami o al ricorso a voci lessicali
individue e però immediatamente riconoscibili (tali ciglione, scheggioni, brago, fare solicchio, strami, per
dirne solo alcuni).
Rammentiamo la prima «favilla», L'angoscia. È la fine di luglio. Domina su Parigi un «cielo basso
umidiccio e grigio come il vapore della caldaia che bóllica»: un cielo alla Baudelaire, indubbiamente,
«bas et lourd [...] comme un couvercle»40. Uno stato di spleen, in effetti, d'inerzia e sospensione in cui
il «tedio e l'ansia s'avvicendano» riempiendo l'aria d'un fiato pestilenziale41. Il popolo di Parigi non
vuole pensare alla guerra santa e necessaria, che offre all'«Europa decrepita» l'opportunità
d'immergersi «tutta nel sangue con la certezza di uscirne più giovine»42; s'interessa di più alla vicenda
del processo Cailloux (27-28 luglio), e la speranza della pace ancora «cola pei rigagnoli, alla soglia
delle botteghe, tra chiavica e chiavica, come una immondizia tarda»43. Sarà questo, si chiede il poeta,
«l'ultimo giorno di vituperio»? Egli, idealmente pronto a combattere, s'è già lasciato alle spalle tutto
ciò che «fu la nostra ricchezza illusoria»44. Ma, a causa dell'ignavia comune, ché quanto non è
fervore di lotta è putredine e infezione, egli si muove quale ombra «tra le ombre della vita», «ignudo
di ogni bene e quasi immemore, non dissimile a un ospite delle valli cieche». È «l'antico Ade»,
dunque, già registrato dal T LXVIII, non rinchiuso sotterra, ma rimasto quassù «con gli uomini che
l'imaginarono»45. E che, entro tale immaginare, egli stia pensando proprio all'Antinferno dantesco,
lo si evince subito dopo dalla trasparente memoria del popolo degli ignavi: «È mezzogiorno, è l'ora
alta in cui le carogne abbandonate brulicano di vermi e ronzano di mosche. L'aria è ambigua, calda e
fredda a volta a volta, afosa e umidiccia, quasi ributtante»: «Questi sciaurati, che mai non fur vivi, |
40 Cfr. L, 946 e CH. BAUDELAIRE, Les fleurs du mal, LXXVIII, Spleen, v. 1, che con la personificazione di
Espérance e Angoisse ha forse suggerito a d'Annunzio il tema della «speranza della pace» che «cola pei rigagnoli»
e, soprattutto, il titolo della stessa «favilla»: «Quand la terre est changée en un cachot humide, Où l'Espérance,
comme une chauve-souris, S'en va battant les murs de son aile timide Et se cognant la tête à des plafonds
pourris», e 19-20: «[...] l'Angoisse atroce, despotique, Sur mon crâne incliné plante son drapeau noir» (Spleen, vv.
5-8).
41 L, 946: «Veramente oggi la vita è sospesa; e, così com'è, sembra non valga più la pena d'esser vissuta. Il
tedio e l'ansia s'avvicendano; o l'una attraversa l'altro come la corrente che passa pel mezzo del lago stagnante.
Non so quante cose malate e quante cose morte appestino l'aria. Respiriamo infezioni senza numero e ignote,
come quando la polvere crassa e il fango risecco ribollono sotto la prima acquata in un paese che devastarono
la canicola e la pestilenza».
42 L, 949: «Quale, tra le sorti del mondo, è magnifica come questa che si disegna ai nostri occhi attoniti? [...]
Ecco che l'Europa decrepita, la temporeggiatrice incurvata dal peso delle sue frodi e delle sue viltà, sta per
immergersi tutta nel sangue con la certezza di uscirne più giovine che quando su lei barbara i freschi vènti
della Rinascenza soffiarono dal Mediterraneo! Il più crudo fato diventa una fede inebriante, per gli spiriti
maschi».
43 L, 947-949: «Il fiato di tutti quegli uomini che s'accalcano nel Tribunale sembra appestare la città intera.
Ciascuno di costoro ha messo la sua unghia listata a bruno nei buchi fatti dal piombo alla veste dell'ucciso [...]
| La marea sale? Che è questo romore meraviglioso, il qual sembra venire dalla profondità dell'orizzonte? [...]
| | Tuttavia la speranza della pace cola pei rigagnoli [...], come una immondizia tarda che domattina gli
spazzaturai mescoleranno all'altro sudiciume e porteranno via su' loro carri cigolanti. È l'ultimo giorno di
vituperio? sono l'ultime ore di vergogna?».
44 L, 949, ma v. anche 950: «Dal principio della primavera a questa estate, un sentimento continuo di
precarietà m'ha impedito d'intraprendere qualsiasi cosa e pur di disegnarla».
45 L, 950.
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erano ignudi e stimolati molto | da mosconi e da vespe ch'eran ivi. | | Elle rigavan lor di sangue il
volto, | che, mischiato di lagrime, a' lor piedi | da fastidiosi vermi era ricolto»46.
Lo sgomento: la dichiarazione di guerra del 3 agosto scatena il panico a Parigi. Ovunque, riporta il
T LXIX, «mollezza, confusione, rassegnazione. | La razza è perduta!», esclama il poeta47, sentendosi
«simile a un rottame sperso, a una bottiglia vuota, a una scarpa informe di naufrago», accerchiato da
sgomento e codardia ingeneranti nella massa gli istinti più bassi: «Un gruppo di operai famelici,
sotto un muro spellato di vecchi affissi osceni, non è se non una minaccia d'occhi selvatici e di
bocche ferine. Vetture in corsa, zeppe di carne da macello [...] Visi bianchi di donne [...]
appariscono, nella rapidità dello spavento, di tra i cumuli delle valige e delle scatole, in fuga
disordinata come se già il primo drappello di ulani fosse alla porta Delfina»48. Non si colgono per la
verità, in questa seconda «favilla», precisi echi del poeta fiorentino, benché sia curioso che
d'Annunzio abbia pensato di resuscitare proprio l'immagine, così simile a quella di Bertram dal
Bornio, del «buon patrono San Dionigi» che si reca in difesa della città minacciata «portando tra le
mani ferme il suo capo mozzo»49. La lezione dantesca resta, piuttosto, generale, sottesa alla
rappresentazione figurale dell'inferno dei viventi50.
Altro è il caso della complessa e articolata Preghiera del 3 settembre, che, diversamente, si rivolge
all'opera di Dante con citazioni e luoghi dichiarati entro un'evidente disposizione a climax. Dopo
che «la paura alfine ha lasciato la città» mettendo «in salvo il suo ventre», a Parigi si respira un'aria
non più infetta, bensì «più schietta e più aspra»51; invero, la «materia del mondo» s'è fatta «di nuovo
incandescente», in rispondenza al clima di tesa aspettazione che precede la grande battaglia della
Marna52. Se è dunque confortato dalla ritrovata «anima civica» di Parigi; se vorrebbe trarre un buon
auspicio da quel «giorno mistico» che vede l'elezione del «nuovo Pastore»53, d'altro canto l'italiano
d'Annunzio soffre perché impedito a versare il proprio sangue contro i ‘barbari’ ormai giunti a soli
40 km da Parigi. Eccolo allora, fra biografia e letteratura, identificarsi con la figura di Dante,
cercando consolazione all'«anima affannata» come il poeta fiorentino al canto di Casella. E, fatta
propria la leggenda del soggiorno parigino dell'Alighieri, lo vediamo smarrirsi, nuovo pellegrino, nel
46
Cfr. L, 950-951 e Inferno, III, vv. 64-69.
TT, 669.
48 L, 953.
49 Cfr. L, 956: «Il temporale scoppia sul poggio, come una battaglia. Il tuono imita il fragore del cannone [...]
Una luce sulfurea illividisce la verdura. Le prime gocce di pioggia sono tiepide, come se grondassero da una
larga piaga. Forse il buon patrono San Dionigi cammina sopra le nuvole, verso la città minacciata, portando
tra le mani ferme il suo capo mozzo che cola e non dole?».
50 In primo luogo nel visibile acquisto di violenza espressivistica che attraversa il mezzo stilistico, dalla
similitudine alla metafora, dalla sineddoche alla prosopopea, giungendo ad esiti affatto inediti e liberissimi.
Come nella pregnante personificazione del coraggio e della viltà di L, 953: «Le dodici stazioni di Parigi pompano
il coraggio e la viltà: scaricano fuor della cinta quelli che vanno a combattere e quelli che si salvano» (L, 953),
simile per ardiri a Inferno, III, vv. 112-120, con cui, specie nel ritmo distributivo, non mancherebbe qualche
rispondenza: «Come d'autunno si levan le foglie | l'una appresso de l'altra, fin che 'l ramo | vede a la terra
tutte le sue spoglie | | similemente il mal seme d'Adamo | gittansi di quel lito ad una ad una, | [...] || Così
sen vanno su per l'onda bruna, | e avanti che sien di là discese, | anche di qua nuova schiera s'auna».
51 L, 957: «È un giorno mistico [...] Le vie sembrano più larghe [...], deserte d'uomini inutili [...] Tutta la paura
alfine ha lasciato la città, è fuggita con ogni sorta di veicoli, s'è dispersa per le province più lontane, ha messo
in salvo il suo ventre correndo senza fiato verso le terre immuni e grasse, ha già raggiunto i Pirenei,
l'Atlantico, il Mediterraneo. Si respira un'aria più schietta e più aspra, come se un vento robusto avesse a un
tratto spazzato le infezioni».
52 L, 959: «La materia del mondo è di nuovo incandescente, come il massello che deve patire l'incudine e il
maglio; è in fusione come il bronzo che deve colare per tutti i rami di gitto a riempire la forma cava».
53 L, 961.
47
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«laberinto delle vie scure» della grande città, interrogandosi dove mai sia il «vico degli strami» di
Sigieri; oltrepassare la chiesa di San Giuliano il Povero dove si dice che «Dante abbia pregato», e
infine entrare nell'antico santuario di San Severino, nella cui «ombra calda e bruna», presso la
colonna mediana dell'abside, egli sente che di sicuro «Dante pregò e meditò»54. Una ricreazione che
ben esprime la capacità attualizzante di d'Annunzio, in cui la citazione si fa vettore di esiti
assolutamente originali. Tuttavia, è Ulisse, non quello del mito, bensì quello dantesco, a costituire il
principale tramite simbolico della risemantizzazione dannunziana. Quel medesimo 3 settembre, la
vista dell'Île de la Cité, «simile a una nave incagliata nel limo del fiume» con la prua rivolta
all'Occidente, suscitava in lui il ricordo dell'«Ulisse novello», che «fece de' remi "ale al folle volo"»55.
È il moto d'una precisa attualizzazione poetica e al contempo ideologica, ove per Occidente non è
certo da intendersi «l'Europa [...] incurvata dal peso delle sue frodi e delle sue viltà»56, bensì la
Latinità mediterranea culla delle più nobili stirpi della nostra civiltà, della Francia quindi, ma, si dica
il vero, già dell'Italia57. Da tale abbrivio si snoda un percorso vertiginoso grazie al quale, abolito
l'inganno del tempo come venti anni prima nella Città morta e nel Fuoco, il poeta finirà per recuperare
l'immagine sensibile dell'eroe maestro di «virtute e canoscenza»58. Sono le pagine complesse
dedicate alla Cattedrale di Reims, da d'Annunzio visitata, come attesta il Taccuino LXXVI, solo nel
marzo del 1915, ma che qui figura ancora avvolta dalle fiamme e con tanta vivida immaginazione da
ricreare ai nostri occhi quel pomeriggio del 19 settembre 1914 in cui l'incendio aveva avuto inizio.
Nella rifusione di spunti letteralmente trasposti dall'opera di Auguste Rodin – come sulla scorta del
Rodin egli aveva ricreato la Cattedrale di Soissons59 -, d'Annunzio riprende il motivo a lui caro della
54
Per questi luoghi, dal riferimento a Casella all'immaginazione del poeta fiorentino orante, cfr. L, 961-963.
Cfr. L, 958: «L'Isola, simile a una nave incagliata nel limo del fiume, ha la prua frondosa rivolta
all'Occidente: non soltanto alla parte del cielo ove declina il sole ma al sacro mondo di bellezza, di eroismo e
di gloria che pesa in questa parola nostra dacché verso la plaga incognita l'Ulisse novello fece de' remi "ale al
folle volo". | Occidente, splendore dello spirito senza tramonto, nessun barbaro poté mai spegnerti, nessuno
mai ti spegnerà ne' secoli».
56 Così già in L, 949.
57 L, 973: «Sopra tanti misfatti, tante menzogne, tante vergogne, si spande per noi Latini non so qual pura
magnanimità. Dalle albe più remote risplende a noi la nobiltà delle nostre origini, con i gesti e con i segni. Il
cielo su la nostra battaglia è un tempio aereo simile a quello che l'augure partiva sul suo capo, da settentrione
ad austro, con la sua verga adunca». Simile ritualità è innanzitutto appannaggio d'Italia, non di Francia: tale il
senso della metaforizzazione dannunziana.
58 «L'illusione del tempo è distrutta»: così già in L, 958, ma il tema trascorre per il successivo episodio di
Reims, costituendone la nervatura fondamentale. Cfr. dunque Il fuoco: «Come mai puoi | Vedermi piangere...
[c.d'A.] || La melodia dell'antico amore e dell'antico dolore fluì da quelle labbra con una espressione così pura
e così forte che subitamente per l'anima innumerevole si convertì in una misteriosa felicità. Era quello forse il
divino pianto della Minoide protesa invano le braccia deluse, dalla riva di Nasso deserta, verso l'Ospite flavo?
La favola vaniva, l'inganno del tempo era abolito» (D'ANNUNZIO, Prose di romanzi, vol. II, 265-266). Ma è
innanzitutto teatralmente, nella Città morta, che tale inganno «era abolito», ogni distinzione temporale venuta a
cadere, il passato facendosi presente e all'incontrario. Lo annunciava il poeta, prossimo a terminare il suo
«drama», all'amico Angelo Conti il 13 ottobre del 1896: «Forse in questo mese lo terminerò [...] Credo che tu
ne sarai ebro. Sono riuscito ad abolire il Tempo e a chiudere nello stesso cerchio le anime che vivono oggi e quelle
che vissero nei millenni remoti», in Lettere ad Angelo Conti: Carteggio col «Dottor Mistico» – Con una Notizia di E.
Campana, «Nuova Antologia», LXXIV (1939), vol. CDI, fasc. 1603 (1° gennaio), 10-32, lettera XVIII, 21.
59 Rientrando a Parigi da una visita al fronte, «D'Annunzio n'a pas vu à Soissons ce qu'il décrit. Du moins y
est-il allé. En revanche, il n'est pas allé à Reims et n'a pu voir, comme il le prétend, l'incendie de la cathédrale
qu'il évoque dans l'Envoi. Celle-ci a commencé à recevoir des obus le 18 septembre et à brûler au milieu de
l'après-midi du samedi 19. Le communiqué du 20 déclare que le grand sanctuaire est en flammes. Or,
D'Annunzio, après avoir poussé jusqu'à Soissons dans l'après-midi du 19, a déjà repris, le 20, le chemin du
retour sur Paris, comme nous l'apprennent les Carnets [...] et il ne verra Reims que le 16 mars 1915.
L'incendie évoqué dan l'Envoi, il ne l'a donc vu qu'en imagination ou à travers les récits d'autrui et il a décrit
55
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«fiamma suprema artefice», che, assecondando con la sua «forza saliente» la gotica aspirazione
all'altezza, purifica il moto della pietra – come nella Nave e nella Figlia di Jorio purificava la sostanza
umana – e lo conduce a perfezione. E qui il poeta ha felicemente rintracciato un ritmo imitativo
nella gradatio anaforica e al contempo suffissale che scandisce l'ascesa: «La fiamma eroica [...]
svolgeva il ritmo primiero. La pietra si moveva, la pietra si liberava, la pietra saliva nel firmamento». E
potrà così concludere: «La Cattedrale era fiammeggiante di resurrezione; e l'anima della Francia era
quivi alzata in piè», come il Cristo resuscitato60. Un accenno ideologico, cui è invero sottesa
l'associazione del 'fuoco' col 'sangue' rigeneratore della guerra, ma che sarà felicemente riassorbito
nel secondo tempo dell'episodio: «Dopo mi accadde di approssimarmi al tempio sublimato [...]
L'incendio era spento, ma le fiamme vigevano come gli spiriti della musica si manifestano nella
pausa che segue il suono»61. E qui, largamente approfittando delle note del marzo 1915, d'Annunzio
rintraccia nella Cattedrale combusta (combusta, in realtà, il 20 settembre del 1914) i segni d'una
nuova, stupefacente bellezza. Dinnanzi alla pietra «incotta dall'arsione», del «colore che ha la carne
dei martiri»; all'«immane Crocifisso tutto arrossato dall'incendio [...] senza cranio e non irto di spine
ma d'un lungo chiodo rugginoso», riaffiora in lui la memoria di Dante, quel Cristo arrossato
apparendogli come un novello Marsia «tratto dalla guaina delle sue membra»62. E, ora approfittando
d'una suggestione del Demaison, «subitamente», si scrive, «mi tornò nello spirito una mia
imaginazione d'altro tempo, la quale m'aveva fatto riconoscere la figura dell'Ulisse dantesco in una
di quelle statue barbata e coperta d'una sorta di berretta di navigatore [...] | | Considerate la vostra
semenza. | | Era ben quello il verso eterno da incidere nella fronte dell'orgoglio latino [...] | "È salvo
l'Ulisse di Dante?" chiedeva al mio cuore la mia angoscia. Ma già conoscevo la risposta dell'intimo
dio. Quel che è più bello non perisce»63. Non sarà facile, tuttavia, rinvenire fra quelle «robuste
travature embriciate da sacchi di sabbia» la statua di Ulisse. Insinuandosi «fra travatura e
modanatura», battendo «il capo ora contro una trave ora contro una sagoma», vediamo il poeta
curvarsi nell'ombra dei sacchi, «palpando la pietra con le mani cariche d'anima, come chi nel buio
speri di riconoscere il suo caro tra morienti e morti»64. Ma non è il ricordo – che pur qui nettamente
traspare – del sepolcreto d'Ilio interrogato dalle mani amorose del cieco vate, bensì la trincea il
termine di riferimento: «V'era quasi l'umidità della trincea scavata di recente, la segretezza del
cammino coperto, l'ingombro tumultuario dell'opera difensiva alzata per chiudere la breccia» 65. E
sarà dal grembo di questa umidità buia e silenziosa ch'egli riuscirà infine a disseppellire, intatta,
l'effigie dell'«eroe tirreno». Un ritrovamento che ha del miracolo, dal quale non si potrà che trarre
un fausto auspicio: i «due corni della fiamma antica», Italia e Francia, sono destinati a convergere in
ayant sous la main deux ouvrages sur la cathédrale: l'un de Louis Demaison, l'autre de Rodin. Les pages qu'il
en a tirées n'en sont pas moins parmi les plus superbes, sinon les plus émouvantes, que l'incendie de Reims ait
inspirées à un écrivain»: TOSI, La vie et le rôle..., 73.
60 L, 979.
61 Ibidem.
62 L, 980-981.
63 L, 981-982. La statua «barbata» rappresenterebbe in realtà quella del profeta Abiathar. Pertanto, «Où
D'Annunzio a-t-il pris que cette statue ressemble à Ulysse? Dans son imagination, prétend-il, une des
"imaginations de jadis". La véritable source est [...] le livre de Demaison», che in effetti reca: «Sa tête est
couverte d'une coiffe pointue. Sa barbe et ses cheveux sont traités d'une façon qui semble dénoter aussi quelque
influence de l'art gréco-romain. On a comparé sa tête à celle de certaines statues d'Ulysse"»: TOSI, La vie et le
rôle..., 172, testo e nota 3.
64 L, 982.
65 L, 983.
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un'unica lotta66. In questo poetico immaginare, che congiunge con naturalezza ardua e inaspettata
(persino in un grande come lui) la figura della guerra a un maestro di civiltà quale Dante, quale
Ulisse, d'Annunzio scriveva in realtà la sua più bella pagina a sostegno di quell'intervento cui, nella
sua visione, sarebbero dovute affidarsi le ultime e definitive «giornate del nostro riscatto».
66
Ibidem.
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