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Marzia Pieri
L’invenzione del teatro
Pensare il teatro: la riscoperta dell’antico
La civiltà rinascimentale italiana riscopre il mondo
classico attraverso avventurose peripezie interpretative, e ne consegna all’Europa fortunosi restauri che
sono spesso altrettante reinvenzioni. Fra queste reinvenzioni, elaborate a partire da un corpus antiquario
disseppellito e attualizzato lungo il 15° sec. dopo un
oblio plurisecolare, c’è anche il teatro rappresentativo
in tutte le sue componenti: testuali, musicali, antropologiche, drammaturgiche, spaziali e architettoniche. Durante il Medioevo, beninteso, erano continuati
a esistere molti ‘teatri’, disseminati in una multiforme
festività rappresentativa e musicale sacra e profana,
ma senza che se ne percepisse culturalmente l’identità. L’ars theatrica, compresa da Ugo da San Vittore
nel Didascalicon (12° sec.) nel novero delle arti meccaniche, si riferiva genericamente a una scientia ludorum comprensiva di un insieme di competenze performative (musicali, ginniche, sportive, coreutiche, e
anche verbali) destinate a essere agite e non certamente
scritte. L’invenzione del teatro moderno, che si produce in Italia a cavallo fra Quattrocento e Cinquecento, si connota dunque, principalmente, come un
processo di riordino teorico e di testualizzazione (prima
manoscritta e poi a stampa) di pratiche recitative e
musicali fino a quel momento soltanto orali.
Nel corso del 15° sec. gli umanisti intravedono le
tracce dello spettacolo classico in una serie di documenti ritrovati, su cui si esercita un’appassionata esegesi collettiva, lunga parecchi decenni, che inevitabilmente si accompagna a immediati e disparatissimi
tentativi di restituzione concreta delle rappresentazioni
antiche; tornano alla luce le scurrili commedie di Plauto,
che la cultura cristiana aveva messo in disparte; il commento di Elio Donato a Terenzio, che ne rivela la natura teatrale e non dialogica; le tragedie di Seneca (forse
ab origine di sola lettura), che si cominciano a recitare
nelle scuole di retorica sulla scorta della Poetica di
Aristotele, per la prima volta tradotta in latino da
Giorgio Valla nel 1498 (inaugurando un’ecdotica che
sarà plurisecolare); il De architectura di Vitruvio, del
1° sec. a.C., l’altro manuale di riferimento in questa
storia, che, da Leon Battista Alberti (1404-1472) in
poi, impegna molte generazioni di architetti nel ripristino degli edifici descritti, fra cui particolarmente
ostico risulta quello teatrale di cui tratta il libro IV,
visto che la cultura medievale identificava con sicurezza il teatro con l’anfiteatro («Coliseus sive theatrum», così recitano le didascalie alle incisioni che illustrano i primi incunaboli terenziani); e ancora,
l’Onomasticon di Giulio Polluce e i componimenti di
Eschilo, Sofocle, Euripide, Aristofane e Menandro.
La prima tappa di questa ricerca collettiva è dunque meramente libresca e ‘archeologica’, e si risolve
in un animato dibattito teorico, in edizioni critiche di
testi e in sperimentali allestimenti in latino di ambito
scolastico e accademico: altrettanti tentativi di far rivivere la commedia latina (e qualche tragedia senecana)
presso cerchie ristrette di spettatori di élite, che affrontano, con molta fantasia, una serie di cruces di difficile
soluzione: le battute si devono cantare o recitare? Come
si può restituire vocalmente la prosodia antica? In che
modo segnalare lo spazio della rappresentazione, e
attraverso quali espedienti realizzare scenicamente il
verosimile che esige la scena classicistica? E ancora:
come disporre fisicamente gli spettatori, e in che modo
indurli ad accettare l’udienza passiva e l’attenzione
qualificata necessarie per la fruizione della commedia,
così diverse dalla svagata interattività fra palco e platea che caratterizzava la festività medievale religiosa e
profana? Quali rapporti instaurare fra le consuetudini
epicizzanti della tradizione festiva cortese, liturgica e
municipale e l’autonomia drammatica che presuppone
lo spettacolo di impianto aristotelico? Cosa può essere,
insomma, il teatro in quanto creazione espressiva,
evento condiviso e, alla fine, edificio?
A cavallo fra Quattrocento e Cinquecento letterati,
musicisti, pittori, architetti e recitanti si dedicano con
entusiasmo a risolvere il problema; strategie politiche
di autopromozione signorile, entusiaste utopie intellettuali e un antico patrimonio di disparate competenze
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MARZIA PIERI
artigianali contribuiscono paritariamente alla ‘creazione’ del teatro moderno, in tutti i suoi codici: ai luoghi della festa subentrano il palcoscenico e la sala teatrale; la triade aristotelico-vitruviana di commedia,
tragedia e pastorale fissa i modelli canonici della drammaturgia; gli spettatori acquistano coscienza di essere
tali, stringendo con i recitanti un patto condiviso di
sospensione dell’incredulità. Si tratta di un processo
molto articolato, che solo tangenzialmente si lega alla
ricerca sull’antico della filologia, e il cui esito sarà l’affermazione tardocinquecentesca del cosiddetto teatro
all’italiana: un edificio simbolico e funzionale particolarmente complesso, a cui un pubblico interclassista accede pagando un biglietto per godere del trattenimento del melodramma e degli spettacoli dei comici
dell’arte. Il made in Italy teatrale e musicale elaborato
nel corso del 16° sec. resterà, sulla lunga durata, una
referenza eccellente e un tratto distintivo di italianità
molto apprezzato in Europa, dove sarà esportato e trapiantato da una diaspora di letterati, musicisti, attori,
pittori e architetti-scenografi sempre richiesti e ben
pagati per i loro servigi dai sovrani stranieri.
È il mecenatismo principesco, degli Este, dei
Gonzaga, degli Sforza e dei Medici, a imprimere una
decisiva accelerazione agli esperimenti di rappresentazioni in latino delle élites intellettuali, che sarebbero
certamente rimaste, in quanto tali, prive di futuro. A
partire dai cosiddetti festival ferraresi di Ercole I d’Este
(1431-1505), che dal 1486 commissiona con regolarità
volgarizzamenti plautini e terenziani ai letterati dello
Studio per festeggiare i carnevali di corte, la commedia volgare, cosiddetta erudita ‒ di impianto realistico
e verosimile, divisa in cinque atti con prologo, e
ambientata su sfondi cittadini e borghesi ‒ monopolizza le feste signorili in rappresentazioni sontuose
destinate a celebrare la magnificenza e il prestigio politico dei padroni di casa. Mentre gli artisti, sulla scorta
di Vitruvio, si dedicano all’invenzione della scena prospettica, che traduce spazialmente le canoniche unità
aristoteliche di luogo, di tempo e di azione, gli scrittori si impegnano a inventare una testualità drammaturgica ancora inesistente, adottando sperimentalmente la rima o la prosa, il dialetto o la lingua per le
commedie in volgare da recitarsi all’interno di feste
finanziate da principi e mecenati, di cui ben presto
esse diventano l’attrazione principale, accanto alle tradizionali egloghe drammatizzate, ai balletti mitologici e alle allegorie ovidiane e lucianesche.
La scrittura e la festa
La drammaturgia cinquecentesca ‒ nelle sue molteplici accezioni di arte di scrivere drammi, metterli
in scena e fissarne le forme teoriche ‒ si struttura
intorno alla triade vitruviana tragico-comico-satirico,
che Leon Battista Alberti collega rispettivamente alle
sventure dei tiranni, alle preoccupazioni dei padri di
famiglia e agli amori dei pastori: tre scomparti tematici a cui dovrebbero corrispondere altrettanti gradi
di stile. Per vari decenni questa generica mappa di
riferimento orienta sperimentazioni sceniche ariosamente polimorfe, che solo a posteriori saranno modellizzate e distinte, tanto più rigidamente quanto più
classicistico sarà il contesto di riferimento (Italia e
Francia versus Inghilterra e Spagna). Ed è capitale
ricordare che i modelli visivi e spaziali della scena precedono di molte lunghezze le forme testuali e, più in
generale, che il lungo percorso di restituzione rappresentativa dello spettacolo drammatico, su cui i letterati esercitano un controllo molto relativo, si svolge
autonomamente dal ripristino della drammaturgia
scritta. In questa storia ‒ largamente collettiva, poliautoriale e pluridisciplinare ‒ gli scenari umanistici di
partenza si contaminano largamente con l’eredità pregressa dello spettacolo medievale (di impianto narrativo e allegorico e spazialmente costruito per luoghi
deputati).
Il dramma unitario e verosimile in cinque atti (di
materia più o meno comica) e la scena a portico di
ascendenza vitruviana sono solo un logo di partenza,
e quando Sebastiano Serlio, nel suo Libro de perspectiva
del 1545, fissa i bozzetti in prospettiva monofocale di
scena tragica, comica e satiresca, egli propone una sintesi puramente teorica, allargando a tutti e tre i generi
le esperienze maturate, fino a quel momento, soprattutto per rappresentare delle commedie volgari durante
alcune memorabili feste cortigiane, giacché la tragedia è ancora oggetto di discussioni letterarie (fino al
solitario exploit ferrarese dell’Orbecche di Giovan Battista Giraldi Cinzio nel 1541) e la pastorale un contenitore di risulta (amoroso, allegorico e fiabesco-mitologica) da strutturare ex novo, mescolando liberamente
poesia, danza e musica. Per tutto il secolo, del resto,
nei vari centri della penisola le concrete prove sceniche continuano a sovrapporre e adattare gli schemi
chiusi della retorica e della poetica antiche agli apparati e alle musiche ereditati dalla festività romanza;
ne scaturisce una fatale dicotomia fra scene e libri che,
in un Paese come l’Italia, scaverà un solco profondo
fra ‘uomini di cultura’ e ‘uomini di spettacolo’.
È dunque la commedia l’autentico nucleo propulsore della reinvenzione del teatro: i testi ritrovati di
Plauto e Terenzio sono molto caratterizzati e riproducibili ( fabulae a lieto fine di impianto realistico, urbano
e borghese di cui sono protagonisti personaggi tipici,
divise in cinque atti spazialmente e cronologicamente
unitari, con un prologo metateatrale ben separato),
oltreché naturalmente contigui alle occasioni carnevalesche, nuziali e mondane entro cui si prova a metterli
in scena. Così la frequentazione della commedia (da
leggere, recitare, cantare, riscrivere in varie forme)
esplode, fra Quattrocento e Cinquecento, entro una
nuova antropologia sociale, come uno strumento di
traduzione scenica della vita mondana e della cronaca
politica; un progetto moderno, che lega all’attualità il
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L’INVENZIONE DEL TEATRO
nascente spettacolo drammatico, nel segno dell’antico
e del comico. Un antico non da contemplare filologicamente, ma da riattivare entro l’utopia di una cultura che coincida con la vita stessa; e un comico fiduciosamente spregiudicato e didattico, che presto dovrà
tuttavia fare i conti con i vincoli e le autocensure imposte dall’etichetta signorile: non è un caso che Il libro
del Cortegiano (1528) di Baldassarre Castiglione dedichi molte (e cervellotiche) riflessioni per delimitare
la fenomenologia del riso, delle facezie e delle burle
accettabili nella cerchia del principe, entro steccati
piuttosto rigidi.
Nel primo trentennio del secolo, dunque, la nuova
commedia volgare è al centro di una vivace sperimentazione collettiva, che ne produce molte e disparate versioni nel concreto farsi dell’esperienza scenica.
«Theatrum est opus», secondo Sulpizio da Veroli ‒
l’umanista Giovanni Sulpizio, primo commentatore
di Vitruvio nella cerchia romana del cardinale Raffaele
Riario ‒ e infatti la commedia, per così dire, nasce rappresentata, come un tassello fra gli altri all’interno del
contenitore festivo, accanto al banchetto drammatizzato, alle prove equestri, ai cori e ai balletti, e li sovrasta rapidamente come un marchio di eccellenza che
celebra la magnificenza del principe-mecenate sullo
sfondo della città ideale trasfigurata in palcoscenico.
I piccoli sovrani delle signorie italiane ‒ che affidano
alla politica culturale un fondamentale compito vicario di compensazione della loro fragilità politica e militare ‒ fanno a gara per accumulare primati nel campo
dello spettacolo, sponsorizzano messinscene costose
ed esibiscono con orgoglio i risultati raggiunti presso
i loro ospiti stranieri. Questa funzione latamente ‘politica’ del teatro di corte ‒ che comincia con Ercole I
d’Este o Ludovico il Moro (1452-1508) – si confermerà una costante fino a Seicento inoltrato, quando i
Medici o i Gonzaga, ormai subalterni alle corone europee, sfrutteranno il più possibile questa rendita di posizione, continuando a ‘prestare’ maestranze, musici,
cantanti e attori alle corti di Vienna, Parigi e Madrid,
e utilizzeranno spesso gli uomini di scena come corrieri diplomatici e persino come agenti segreti.
A partire dagli anni Quaranta del Cinquecento il
format della commedia, che emerge da tante svariate
esperienze, orienterà anche il restauro della tragedia
e poi della favola pastorale, di cui si confezioneranno
in rapida successione i modelli drammaturgici e allestitori; ma è da notare che la loro stabilizzazione letteraria resterà, per varie ragioni, di breve durata: è
Giambattista Cinzio Giraldi a brevettarne per primo
le forme volgari e i modelli rappresentativi, tenendo
insieme le regole della poetica e quelle del palco, nella
sua già ricordata Orbecche, di stampo senecano-boccaccesco, in cinque atti con prologo, e nella sua Egle
antiquaria e semidivina (come l’antico dramma satiresco greco), recitate a Ferrara rispettivamente nel
1541 e nel 1545. Dopo di lui le rappresentazioni tragiche (di materia peraltro ambigua e rischiosa, a corte)
si fanno sempre più rare e più caute; imboccano il
vicolo cieco della monumentalità antiquaria (l’Edipo
re di Sofocle recitato nel 1585 nell’accademico teatro
Olimpico, costruito da Andrea Palladio, è irripetibile)
o del trattenimento fantastico ed evasivo legato al piacere dell’horror e delle lacrime. Fino a Scipione Maffei e a Vittorio Alfieri lo spettacolo della tragedia, giudicata costosa e di cattivo augurio, resta un sogno
proibito degli intellettuali italiani, che ripiegano sulla
lettura accademica dei loro componimenti, o li lasciano
senz’altro nel cassetto; lo soppianta largamente lo spettacolo tragicomico della pastorale, trattenimento di
poca spesa e nessuna regola, di cui Il pastor fido (1589)
di Battista Guarini consegna all’Europa il prototipo
ineguagliabile.
Il montaggio della commedia
Cerchiamo dunque di delineare una storia e una
geografia della commedia volgare nel primo trentennio del 16° sec., che si focalizzano intorno ad alcuni celebri appuntamenti rappresentativi a Ferrara, Urbino,
Roma e Firenze, seppure alimentate anche da una galassia di esperienze minori e minime disseminate in tutto
il territorio nazionale, dove sono i pubblici di riferimento a fare la differenza: la veglia municipale, lo spettacolo di strada, la festa signorile con recita, il trattenimento privato, l’appuntamento goliardico, il
monologo d’occasione sono altrettante sedi rispetto alle
quali si strutturano specifiche drammaturgie comiche.
Questo arcipelago di forme dialogiche, musicali e narrative tout court, che ‘pescano’ in un vasto retroterra di
storie (cavalleresche, mitologiche, novellistiche e pastorali) va pensato come perfettamente contiguo al cosiddetto teatro erudito; in quest’epoca di veloci ma labili
trapassi dall’oralità alla scrittura circolano fittamente
per l’Italia testi cartacei, persone fisiche variamente
addette ai lavori, e memorie condivise di esperienze
spettatoriali; tutte concorrono (senza gerarchie né soluzioni di continuità) a costruire la nuova scena volgare:
gli equivoci si sprecano, i pareri sono discordi, i plagi
e le riprese fulminei e contagiosi.
Nella seconda metà del secolo, tracciando un bilancio di questa vicenda, il canonico fiorentino Vincenzo
Borghini ipotizza che la commedia moderna si sia formata innestando lo schema classicistico in cinque atti
sui monologhi e i contrasti comici recitati in strada
dagli istrioni popolari. E in effetti il contributo di
molti cosiddetti performers di diversa statura intellettuale è decisivo in questa rianimazione dell’antico; fra
loro ci sono celebri attori-dicitori di estrazione colta,
come il lucchese Francesco de’ Nobili (detto Cherea,
per le sue eccellenti interpretazioni terenziane, dal
nome del personaggio di una commedia), che ripropone a Venezia e a Roma le competenze maturate alla
corte di Ercole I d’Este; araldi pubblici che si riciclano in scena, come il celebre Domenico Barlachia,
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MARZIA PIERI
fiorentino, per il quale Niccolò Machiavelli compone la Clizia, e che dirige l’allestimento della Calandra
di Bernardo Dovizi (il Bibbiena, 1470-1520), finanziato dai mercanti fiorentini alla corte di Lione, per
Caterina de’ Medici, nel 1548 (prestigioso ‘lancio’
francese della commedia moderna); ma anche una folta
serie di improvvisatori napoletani reduci dalla diaspora aragonese, come Notturno Napoletano (pseudonimo di Pietro Antonio Caracciolo) e Marcantonio
Epicuro, che tentano la fortuna a Venezia, legandosi
al mercato dell’intrattenimento dei buffoni di mestiere
e a quello editoriale dei primi stampatori volgari, di
cui ‘reclamizzano’ poemetti e fogli volanti nelle loro
recite di strada. Particolarmente abili e richiesti sono
infine una serie di poeti-attori senesi, che esportano
a Roma e a Napoli una competenza recitativa e musicale maturata all’interno della vivacissima vita teatrale della loro città, e agevolata dal possesso di un
dialetto di grande forza espressiva. Il più celebre di
essi, Niccolò Campani, detto lo Strascino, diventa una
star acclamata presso la corte romana della Farnesina
del banchiere Agostino Chigi, e poi presso quella mantovana dei Gonzaga, e, come Ruzzante (Angelo Beolco), recita, da solista o alla guida di piccoli ensembles,
testi di sua composizione che, per attrazione della
commedia erudita, si evolvono dal monologo e dal
contrasto carnevalesco in forme sempre più articolate
e approdano persino alle stampe.
Dopo il lancio ferrarese e romano dei volgarizzamenti plautini e terenziani, infatti, si cominciano a
recitare commedie (più o meno regolari) nei più diversi
consessi sociali, piegandone le strutture ai relativi pubblici, su impianti dialogici e attualizzanti che, sulla
scorta dell’Ars poetica di Orazio, assegnano al genere
la funzione di speculum consuetudinis e imago veritatis. In questa fase una marcata intertestualità e occasionalità caratterizzano il consumo delle ritrovate fabulae classiche: volte in prosa in manoscritti destinati al
piacere della lettura (per esempio, da parte di Isabella
d’Este), volgarizzate (in ottave e in terzine, e poi anche
in prosa o in sdruccioli) per recite di scuola, di corte
o di salotto (di cui si disperdono senza rimorsi i copioni
come parti ‘scannate’, distribuite ai recitanti), con
moderni costumi ‘alla borgognona’ all’interno di poemetti e poemi cavallereschi (per esempio, nell’Innamoramento di Orlando di Matteo Maria Boiardo) e
infine riscritte in modo originale sull’impianto latino,
a partire dalla Cassaria di Ludovico Ariosto del 1508,
che inaugura ufficialmente una nuova storia.
Come Ariosto, sovrintendente appassionato agli
spettacoli estensi e autore di cinque commedie volgari variamente rielaborate in versi o in prosa e sempre testate in palcoscenico, i pionieri della commedia
volgare – Angelo Beolco, il Bibbiena, Niccolò Machiavelli, Pietro Aretino, o Alessandro Piccolomini ‒ sono
Dramaturgen che si buttano con entusiasmo nell’avventura del teatro, preoccupandosi più dell’allestimento e della recita che della composizione scritta.
Per loro l’avventura del teatro è laterale ma non minoritaria rispetto a quella della scrittura: in quest’epoca
le competenze istrioniche degli uomini di spirito (come
il futuro cardinale Dovizi, protagonista del secondo
libro del Cortegiano sulle facezie) non sono ancora
mestieri teatrali, ma apprezzate referenze mondane
entro una civiltà della conversazione incline alla burla
e alla convivialità. In quest’area semiprofessionale si
sviluppa gran parte della nuova civiltà del teatro, che
soltanto i comici dell’Arte trasformeranno in mercato
dello spettacolo nella seconda metà del Cinquecento.
Esemplare è il caso di un grande scrittore-attore
come il già ricordato Angelo Beolco (1496 ca.-1542),
animatore della cerchia padovana del nobile Alvise
Cornaro, accanto a Pietro Bembo e a Palladio, in cui
interpreta il personaggio del contadino Ruzzante
(facendone il proprio nome d’arte) in una serie di componimenti dialettali che, in pochi anni, si articolano,
da contrasti, orazioni e monologhi (Pastoral, Bilora,
Betia, Parlamento), a vere e proprie commedie alla
latina in cinque atti (Moschetta, Anconitana, Piovana,
Fiorina, Vaccaria). La sua esperienza è emblematica
di questo cammino in atto dalla dizione alla scrittura:
un’indubbia eccellenza attoriale lo induce a costruire
un alter ego scenico molto fortunato (il villano grottesco e affamato, ma anche ‘realistico’, della campagna
veneta, guardato con un’empatica ‘cognizione del
dolore’); la protezione di un mecenate e il legame con
un entourage organizzato gli consentono di ampliare il
proprio raggio d’azione dai privati circoli padovani alle
feste della Serenissima, accanto a buffoni e canterini
di mestiere, e a Ferrara, dove collabora con Ariosto
alle recite di corte. Nel frattempo i suoi componimenti
crescono strutturalmente come montaggi di moduli
collaudati e iterabili, tratti da un retroterra liricomusicale, raffinatamente letterario, ma anche carnevalesco e popolare, che sono stati definiti teatrogrammi
(L.G. Clubb, Introduction to G. Della Porta The two
rival brothers, 1980, p. 7).
Nella sua tumultuosa preistoria la nuova commedia volgare, non ancora vincolata alle norme linguistiche bembiane, si afferma dunque in giro per l’Italia come montaggio scenico di questi teatrogrammi di
partenza sul telaio della commedia latina, con diversi
gradi di realismo e di satira del presente, che la censura controriformistica tenderà presto a neutralizzare
in forme sempre più innocue ed evasive. Il primato
ariostesco resta penalizzato da un’opacità linguistica
che Machiavelli, nel suo Discorso o dialogo intorno alla
nostra lingua, definirà priva di «sali propri», e sarà scalzato da una serie di autori toscani che possono attingere alle risorse comiche di un dialetto contemporaneamente letterario e colloquiale; sono loro a fissare i
modelli-base della commedia rinascimentale in una
serie di capolavori ravvicinati molto diversi fra loro:
l’aretino Bernardo Dovizi da Bibbiena scrive, per la
corte romana di Leone X, la Calandra, che contamina
genialmente l’intreccio plautino dei Menaechmi con il
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L’INVENZIONE DEL TEATRO
Decameron. Il tema del doppio, legato alla gemellarità
bisessuale dei due protagonisti Lidio e Santilla (e strumento per ogni sorta di escamotage in forma di travestimenti e scambi di identità), resterà un elemento cardine nella storia scenica europea, fino, per esempio, ai
Due gemelli veneziani e al Servitore di due padroni di
Carlo Goldoni, o al Fidelio di Ludwig van Beethoven.
Opposta e complementare alla Calandra è la Mandragola di Machiavelli del 1519, costruita invece sull’impianto unitario di una tipica beffa boccaccesca, che
oppone all’asettica perfezione strutturale del Bibbiena
(un diplomatico mediceo politicamente vincitore)
l’amara denuncia della mediocrità e della corruzione
che hanno determinato la fine della Repubblica fiorentina e la sconfitta personale dell’autore.
Altrettanto acre e polemica (e come la Mandragola
presto messa in disparte dalla Congregazione dell’Indice) è la Cortigiana di Pietro Aretino ‒ composta a Roma nel 1525, mai stampata nella sua forma
originaria e riscritta da cima a fondo negli anni Trenta
‒ un pettegolo pamphlet antiromano, costruito invece
accumulando una folta congerie di gag e personaggi
in un contenitore solo esteriormente unitario e violentemente espressionistico, in cui è facile riconoscere
la trama del circostante degrado della capitale su cui
sta per abbattersi il trauma del sacco. Forti legami con
la vita di una comunità ristretta e aristocratica raffigurata ‘a chiave’ mostra l’anonima Veniexiana degli
anni Trenta, «non fabula, non comedia, ma vera historia»: un altro capolavoro scritto in dialetto e lasciato
manoscritto, ispirato a una mimesi simbolica, piuttosto che letterale, fondata sull’erotismo e la psicologia.
Ai suoi albori, insomma, il genere della commedia
moderna si rivela potenzialmente assai versatile, e il
realismo che la fonda è sempre concretamente collegato a specifici contesti di riferimento, in un legame
solidale e molto stretto con i destinatari, siano essi una
cerchia di amici privati o la corte di un principe.
Sono alcuni grandiosi appuntamenti cortigiani a
decretare, come si è già detto, il decollo della commedia: a partire dal carnevale urbinate del 1513, in cui
Baldassarre Castiglione, in assenza dell’autore trattenuto altrove da gravi impegni politici, sovrintende una
tre giorni festiva culminante nella recita della Calandra in un teatro di sala costruito da Girolamo Genga,
dove una cinta muraria dipinta sulle pareti include
spettatori e attori in uno spazio unitario e privilegiato,
e la scena dipinta replica in palcoscenico la città reale.
Ogni elemento della festa (i ricchi costumi, gli intermezzi allegorici, i cartigli delle decorazioni) è carico
di valenze simboliche e celebrative che alludono a un
delicato passaggio politico in corso; ma si tratta di un
codice cifrato sovrapposto con leggerezza a un dispositivo drammaturgico perfettamente autonomo.
Dopo questo mitico esordio il danaro e le ambizioni di principi e papi stimolano una serie di grandi
artisti (Donato Bramante, Raffaello Sanzio, Baldassarre Peruzzi, Bastiano da Sangallo, Giorgio Vasari,
Bernardo Buontalenti, Alfonso Parigi) alla creazione
di palcoscenici e sale teatrali sempre più splendide e
suggestive: la scena fissa, di cui Serlio ci trasmette i
bozzetti, diventa presto scena mobile, dove gli spettatori possono ammirare i mutamenti a vista permessi
dai periacti e da una scenotecnica sempre più raffinata, che, a fine secolo, produrrà le meraviglie illusionistiche dello spettacolo barocco su palcoscenici
profondi affollati di macchine e di effetti speciali. Fra
le tappe di questa storia si può ricordare la serie delle
commedie allestite solennemente a Firenze per celebrare le nozze dinastiche, grazie a cui i Medici si imparentano con l’intera nobiltà europea (e dove presto la
magnificenza degli apparati e degli intermezzi finisce
per sovrastare la commedia propriamente detta): nel
1536 l’Aridosia di Lorenzino de’ Medici per lo sposalizio del duca Alessandro con Margherita d’Austria;
nel 1539 il Commodo di Antonio Landi per Cosimo I
ed Eleonora di Toledo; nel 1565 la Cofanaria di
Francesco D’Ambra per Francesco I e Giovanna d’Austria; nel 1586 L’amico fido di Giovanni de’ Bardi per
Virginia de’ Medici e don Cesare d’Este; nel 1589 la
Pellegrina di Girolamo Bargagli per Ferdinando de’
Medici e Cristina di Lorena; fino alle sontuose feste
del 1600 per le nozze di Maria de’ Medici con Enrico
IV di Francia (vero trionfo politico della famiglia),
dove la commedia è sostituita da componimenti musicali di materia mitologica.
Ma alla definizione drammaturgica e testuale della
commedia concorrono anche le esperienze, ‘minori’
delle comunità municipali, dove le recite sono occasioni naturali di satira e di commento della vita mondana e politica circostante, per esempio all’interno delle
‘compagnie di piacere’ fiorentine, veneziane e soprattutto senesi. Siena è una repubblica ghibellina e filoimperiale, collocata lungo la via francigena e dunque naturalmente gravitante verso Roma, dove lo Studio
universitario attira studenti dal Nord Europa con tutte
le conseguenze del caso; sempre antagonista nei confronti di Firenze (che finirà a metà Cinquecento per
conquistarla), è un centro di vita teatrale molto vivace,
dove pubblico e privato si intrecciano strettamente, e
al cui interno le classi sociali tendono a mescolarsi con
una libertà e fluidità altrove impensabili. Dopo la breve
esperienza della signoria dei Petrucci (a cavallo tra 15°
e 16° sec.), la città compensa le défaillances della propria fragile e irrequieta democrazia attraverso la ritualità festiva, cerimoniale e musicale ‒ spesso cifrata e
polemica ‒ promossa da una fitta rete di accademie
aristocratiche e di sodalizi borghesi (le accademie degli
Intronati, degli Insipidi, dei Filomati, la Congrega dei
Rozzi ecc.) protagonisti in prima persona di duri scontri politici, che determinano una ricorrente serie di
diaspore ed esili, le cui vittime si portano dietro, fatalmente, anche memorie, saperi e una mole cospicua di
libri teatrali. Sradicate dal loro fertile contesto d’origine, queste esperienze teatrali subiranno un’ovvia
mutazione genetica di tipo tecnico e commerciale: gli
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attori senesi, prima, i libri e la drammaturgia della
commedia d’intreccio, dell’egloga rappresentativa e
della commedia rusticale, poi, diventano a Roma, a
Napoli, a Venezia, a Padova, a Valladolid (dove la
prima recita di una commedia moderna in territorio
iberico, i Suppositi di Ariosto, è curata nel 1548 dall’esule senese Antonio Vignali), e persino a Firenze,
altrettanti brands di duraturo successo. I modelli drammaturgici, le teorie e le pratiche della recitazione esperiti a Siena entreranno in profondità in particolare nel
dibattito padovano intorno alla Poetica di Aristotele
e saranno saccheggiati dai comici dell’Arte, mentre il
modello della veglia accademica (un eletto trattenimento aristocratico in cui si avvicendano recite, giochi, musica e arguti dialoghi), raccontata e mitizzata
dai fratelli Scipione e Girolamo Bargagli, andrà ad alimentare la nuova antropologia della civile conversazione seicentesca in Italia e in Europa.
Aretino ‒ prudentemente messosi in salvo a Venezia un po’ prima del 1527 – riscrive, come si è detto,
la Cortigiana, insieme ad altre quattro commedie più
o meno ‘letterarie’, in forme relativamente inoffensive, in cui prevalgono gli intrecci di peripezia comica
e romanzesca. Sarà questo l’esito prevalente della commedia in età manieristica e barocca, quando censure
e autocensure politiche ed ecclesiastiche determineranno il prevalere della forma sui contenuti e consiglieranno di limare polemiche e satire: il comico si
moralizza o diventa astrattamente osceno; le trame si
complicano in forme barocche, i personaggi si tipizzano. Il format prevalente sarà quello di una commedia costruita su intrecci multipli e affollata di molti
personaggi, dove gli spunti satirici (antifrateschi, antipedanteschi, antispagnoli) si intrecciano a trame amorose spesso dominate da infelici eroine femminili.
Questo genere di componimenti trova, nella prima
metà del secolo, cultori eccellenti negli accademici
Intronati di Siena, giovani aristocratici che si dedicano al teatro, sotto la guida di Alessandro Piccolomini (che sarà un importante esegeta aristotelico),
componendone, spesso in forma anonima e collettiva,
una serie fortunata, inaugurata da Gl’ingannati del
1532: un’altra commedia-manifesto fondata sul tema
del doppio, e destinata a una straordinaria fortuna
internazionale, che registra nella Dodicesima notte di
William Shakespeare la sua attestazione più celebre.
A fine secolo uno dei pochi trattati teorici sul
genere, la Breve considerazione intorno al componimento
de la comedia de’ nostri tempi di Bernardino Pino da
Cagli, che esce a Venezia nel 1578 come prefazione
all’Erofilomachia di Sforza degli Oddi (una commedia di «eroica virtù», dove «l’amaro del pianto fa più
gioconda la dolcezza del riso»), propugna un’idea pedagogica e logocentrica di commedia ridotta a «ragionamenti» di «dicitori», e con ciò sancisce, con una torsione teorica molto interessante, l’eutanasia annunciata
di una forma che troverà solo fuori d’Italia, in società
dove è possibile una reale dialettica fra palcoscenico
e platea, la possibilità di esprimersi a fondo nelle prove
di Shakespeare, Ben Jonson, Lope de Vega o Molière.
Nessuno, fra gli autori di inizio secolo che abbiamo
citato, si preoccupa del destino dei propri componimenti oltre le occasioni rappresentative che li generano. Sono gli stampatori a intuire il valore commerciale di questi testi occasionali e bistrattati e a curarne
la diffusione per un nascente mercato, avido di accedere alla novità del teatro anche per via di lettura: a
Siena fin dagli anni Dieci del secolo, a Venezia a partire dagli anni Venti, e poi via via in tutta la penisola
con crescente fortuna, vedono dunque la luce, in forma
spesso anonima, anepigrafa e con molta approssimazione filologica, le prime cinquecentine teatrali, di cui
si costruisce progressivamente in tipografia lo specifico assetto grafico e redazionale, con le necessarie
distinzioni fra testi e paratesti, battute e didascalie, e
le partizioni interne in atti e scene che agevolano la
lettura e le riprese recitative.
Nel 1554 esce ancora a Venezia, curata da Girolamo
Ruscelli, un’Antologia di commedie elette, di soli autori
toscani (Calandra, Mandragola e tre commedie prodotte nell’ambito dell’Accademia degli Intronati), che
sancisce l’avvenuta consacrazione di genere per questi componimenti. Ormai la commedia letteraria si è
affermata in forme codificate che la nascente trattatistica aristotelica contribuisce a modellizzare, e su cui
si cimentano centinaia di autori più o meno illustri
(un po’ come accade alla poesia petrarchesca, fondata
su codici altrettanto accessibili); ma la sua stabilità
testuale resta, ancora una volta, effimera, perché, già
a partire dagli anni Quaranta, alle commedie dei letterati (numerose, ma spesso inerti e sempre più libresche) si affiancano con crescente successo le recite
degli attori di mestiere, i cosiddetti Comici dell’Arte,
che stanno creando un mercato dello spettacolo parallelo a quello cortigiano, dove riciclano in forme seriali
gli eletti trattenimenti delle feste aristocratiche facendo
a meno di testi scritti di riferimento.
Lo spettatore pagante
Il teatro ormai esiste, e un più vasto pubblico ne
rivendica la fruizione; a questo pubblico le compagnie
dell’Arte vendono lo spettacolo della commedia (e non
solo) attrezzandosi per una distribuzione nomade e parcellizzata, commercialmente redditizia, fondata su tecniche produttive protoindustriali e su un nomadismo
organizzato che determina la parallela nascita di un
mercato impresariale di appoggio. A partire da metà
secolo le tournées dei comici definiscono una geografia
teatrale che ben presto si allarga dall’Italia centro-settentrionale (nello Stato pontificio le donne non possono recitare e il Regno di Napoli è lontano da raggiungere), alla Francia, all’Austria e al resto d’Europa,
dove si moltiplicano i luoghi deputati ad accogliere le
loro recite: all’aperto, ma preferibilmente al chiuso in
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L’INVENZIONE DEL TEATRO
spazi adattati, come magazzini e dogane (presto trasformati in apposite «stanze per le comedie»), quindi
nei primi teatri a pagamento veri e propri, che si cominciano a costruire a Venezia agli inizi del Seicento per
accogliere l’opera in musica; il successo popolare della
Commedia dell’arte ‒ pur continuamente insidiato
dalle persecuzioni religiose e dalla concorrenza gelosa
dei letterati ‒ si conferma quasi subito anche all’interno delle feste di corte, di cui gli attori di mestiere
diventano presto i beniamini ben pagati.
La disinvolta mescolanza di riso e di lacrime, che
connoterà anche le poetiche teatrali d’Oltralpe, è un
altro loro formidabile punto di forza; nonostante lo
scandalo degli aristotelici e gli anatemi delle varie
Chiese cattoliche contro la corruzione delle scene, essi
creeranno, con le loro tournées che si spingono fino al
Portogallo, alla Polonia e alla remota Russia, un’Europa teatralmente globalizzata e italianisante fino alla
fine almeno del 18° secolo. I comici di mestiere recitano egregiamente anche testi premeditati e sono spesso
abili cantanti, ma la commedia è il loro logo più popolare: Arlecchino, Brighella, Pantalone, Pulcinella e i
loro colleghi divengono rapidamente i beniamini del
pubblico cinquecentesco e seicentesco; gli artisti,
soprattutto stranieri, ne fissano in quadri, incisioni e
manufatti delle arti minori l’iconografia carnevalesca,
che si abbina nell’immaginario collettivo al mito di
un’Italia fiabesca, spensierata e oscena, che il romanticismo tedesco di primo Ottocento rilancerà alle avanguardie russe e tedesche del 20° secolo.
A fine secolo, nel 1598, Angelo Ingegneri traccia
un bilancio alquanto tendenzioso di questa vicenda
nel suo Discorso della poesia rappresentativa e del modo
di rappresentare le favole sceniche, che, rimuovendo
gran parte della storia reale che aveva alle spalle, identifica i prototipi eccellenti di drammaturgia nelle commedie di Ariosto, nella Sofonisba di Trissino e nel
Pastor fido di Guarini, affiancandovi la Canace e
l’Aminta. Soltanto Guarini, in verità, onorerà nei fatti
questo primato, entrando effettivamente a far parte,
insieme a Castiglione, Tasso e Ariosto, di un pantheon
italiano internazionalmente riconosciuto, senza che il
rango di grande ‘classico’ mai ne scalfisca la duratura
popolarità scenica. Non altrettanto può dirsi per la
commedia italiana (che come si è visto, arriverà ai
pubblici d’Oltralpe attraverso i lazzi delle maschere
piuttosto che Bibbiena o Machiavelli), né tantomeno
per la tragedia, che si dissolve nel patetismo dell’opera
in musica, l’ultima ‘invenzione per caso’ di questa
avventurosa filologia rinascimentale. La fiorentina
Camerata dei Bardi, infatti, sperimenta a fine secolo
la novità del «recitar cantando» come un’ennesima,
possibile restituzione della tragedia greca, inaugurando senza saperlo un’altra storia di eccezionale fortuna. L’invenzione cinquecentesca del teatro, frutto
di un’irripetibile miscela di cultura alta, antropologia
civile e saperi tecnici, resterà un’eccellenza italiana
universalmente riconosciuta, ma il moderno teatro
per tutti fiorirà altrove, presso le grandi platee degli
Stati assoluti d’Europa, attingendo ai mestieri e alle
competenze degli italiani piuttosto che ai loro libri.
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