MIMESIS / LAW WITHOUT LAW
N. 33
Collana di Sociologia del diritto fondata da Morris L. Ghezzi
COMITATO DI REDAZIONE
Simonetta Balboni Ghezzi
Nicoletta Ladavac
Michele Marzulli
COMITATO SCIENTIFICO INTERDISCIPLINARE
Simonetta Balboni Ghezzi (L.I.D.U), Luisella Battaglia (Università di Genova),
Paolo Becchi (Università di Genova e di Lucerna), Claudio Bonvecchio (Università
degli Studi dell’Insubria, Varese), Gabriele Caiati (Università di Milano), Agostino
Carrino (Università di Napoli, Federico II), Luigi Domenico Cerqua † (Magistrato),
Dennis Chavéz de Paz (Universidad Nacional Major San Marcos – Perù), Dino
Cofrancesco (Università di Genova), Arturo Colombo † (Università di Pavia), Pierre
Dalla Vigna (Università degli Studi dell’Insubria, Varese), Enrico Damiani di Vergada
Franzetti (Università di Milano), Edoardo Fittipaldi (Università di Milano), Paolo
Virginio Gastaldi (Università di Pavia), Morris L. Ghezzi † (Università di Milano),
Giulio Giorello (Università di Milano), Gustavo Ghidini (Università di Milano),
Paolo Grasso (Avvocato), Nicoletta Ladavac (Thémis, Ginevra), Realino Marra
(Università di Genova), Antonello Martinez (Avvocato), Michele Marzulli (L.I.D.U),
Isabella Merzagora (Università di Milano), Antonio Panaino (Università di Bologna,
sede di Ravenna), Luigi Pannarale (Università di Bari), Carlo Pennisi (Università di
Catania), Nicola Piepoli (Istituto Piepoli), Giovanni Puglisi (I.U.L.M.), Frederick
Schauer (Virginia University), Michela Sciannelli (A.I.G.I. – A. B. I.), Vinicio Serino
(Università di Siena), Francesco Sidoti (Università di L’Aquila), Massimo Teodori
(Storico americanista), Antonio Toffoletto (Avvocato).
DARIO FIORENTINO
XENIA CHIARAMONTE
IL CASO 7 APRILE
Il processo politico
dall’Autonomia Operaia ai No Tav
MIMESIS
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
mimesis@mimesisedizioni.it
Collana: Law without law, n. 33
Isbn: 9788857555157
© 2019 – MIM EDIZIONI SRL
Via Monfalcone, 17/19 – 20099
Sesto San Giovanni (MI)
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In copertina: immagine di Francesca Gabriele
INDICE
IL PUNTO E LA LINEA. Nota introduttiva alla storia di un processo
politico nell’Italia degli anni Settanta del Novecento
di Floriana Colao
7
INTRODUZIONE
di Dario Fiorentino e Xenia Chiaramonte
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IL CASO DEL 7 APRILE: IL PROCESSO PENALE DEL NEMICO
di Dario Fiorentino
Prologo
Pratiche giudiziarie durante gli anni di piombo
Nascita e caratteristiche dell’inchiesta 7 aprile
Il “teorema Calogero”: mutamenti di funzione del giudice penale
I criteri di selezione degli imputati: il rituale del capro espiatorio
L’algebra penale del 7 aprile: uso dei reati associativi
e successive trasformazioni delle accuse
I criteri di applicazione dei delitti associativi e la costruzione
della prova
La spettacolarizzazione mediatica
Conclusioni
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DOSSIER SUL PROCESSO 7 APRILE
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IL LABORATORIO DELLA GIUSTIZIA POLITICA
di Xenia Chiaramonte
Pratiche punitive
Le filiazioni del 7 aprile
Le tecniche del processo politico
Verso un modello antisovversivo
L’ultimo paradigma: i processi politici ai No Tav
Un laboratorio globale
Bibliografia
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FLORIANA COLAO
IL PUNTO E LA LINEA
Nota introduttiva alla storia di un processo politico
nell’Italia degli anni Settanta del Novecento
“È cosa veramente sorprendente la fiducia accordata in genere dagli uomini all’intervento dei tribunali. Essa è tanto grande che si appiglia alla
forma giudiziaria anche quando la sostanza non esiste più, e dà corpo alle
ombre”. Otto Kirchheimer ha posto questo breve passo della Democrazia
in America di Alexis de Tocqueville in esergo a Political Justice1; i saggi di Xenia Chiaramonte e Dario Fiorentino sembrano confermare questa
“grande fondazione”, nel ricostruire le scansioni di un processo politico
particolare, “il 7 aprile”, dagli autori ricompreso nelle pratiche della legislazione detta dell’emergenza2. Taluni lessero quella stagione nei noti
termini di Agamben sullo “stato di eccezione e forma legale di ciò che non
può avere forma legale”3; d’altro canto, la riflessione sui processi politici
degli anni Settanta, e oltre, non può non fare i conti con la domanda che
Guizot poneva nel 1821: “Dove iniziano l’azione legale e l’efficacia del
potere giudiziario contro gli attacchi e i pericoli che minacciano la sicurezza dello Stato? Quali sono, a tal riguardo, i doveri della politica e i diritti
della giustizia, e quali limiti li separano?”4.
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O. Kirchheimer, Political Justice. The Use of Legal Procedure for Political Ends,
Princeton University Press, Princeton 1961. Una recente rilettura in P. Portinaro,
La spada sulla bilancia. Funzioni e paradossi della giustizia politica, in “Quaderni fiorentini”, XXXVIII, 2009, pp. 95 ss; L. Lacchè, Sulla forma giudiziaria.
Dimensione costituzionale della giustizia e paradigmi del processo politico tra
Otto e Novecento, in F. Colao, L. Lacchè, C. Storti (a cura di), Giustizia penale e
politica in Italia tra Otto e Novecento. Modelli ed esperienze tra integrazione e
conflitto, Giuffrè, Milano 2015, pp. 3 ss.
F.C. Palazzo, La recente legislazione penale, Cedam, Padova 1985.
G. Agamben, Lo stato d’eccezione. Homo sacer, II, Bollati Boringhieri, Torino
2003, p. 9.
F. Guizot, I giudici e la politica (Cospirazioni e giustizia politica), a cura di
A. Carrino, ESI, Napoli 2002.
8
Il caso 7 aprile
In prospettiva storica, il caso 7 aprile può essere letto come il punto di
una linea, che è poggiato e poggia – lo ricorda Chiaramonte a proposito
delle “filiazioni”, fino ai “No Tav” – sul “paradosso della libertà”. Quanto
conflitto è disposto a tollerare lo Stato di diritto senza rinnegare le proprie
ragioni? Quando la dialettica tra ordine e libertà, individuo e autorità, diventa polarità, e il rapporto tra diritto e violenza si fa sfuggente?5. Da qui,
per gli autori, una sorta di “premessa” sul “terrorismo di estrema sinistra
[che] aveva raggiunto, nel triennio 1978-1980, livelli di inusitata ferocia”,
come scrive Dario Fiorentino. Un esempio: pochi mesi separavano l’avvio
dell’inchiesta di Padova e il dibattimento alle Assise di Torino, che nel 1978
metteva in scena l’(auto)rappresentazione dell’attacco al cuore dello Stato.
Il drammatico processo alle Brigate Rosse (17 maggio 1976-23 giugno
1978) mostrava all’Italia il terrorismo politico, tra omicidi “d’occasione”
– Fulvio Croce, difensore d’ufficio di dieci degli imputati – e il diritto dei
brigatisti, sedicenti prigionieri politici, all’autodifesa e la loro lettura delle
Strategie di Vergès. Negli stessi giorni il processo intentato ad Aldo Moro
nella prigione del popolo si chiudeva con la sentenza di condanna a morte,
nell’anno più buio della Repubblica6. Di recente Ferrajoli ha ricordato che
all’epoca tutti concordarono, “destra e sinistra”, fautori e critici delle prassi
dell’emergenza, a negare ai terroristi lo “status di belligeranti”7.
In occasione dei trent’anni dal 7 aprile, alcuni tra i protagonisti del processo iniziato con l’inchiesta sull’area dell’Autonomia a Padova hanno
ricordato pretesi torti giudiziari e pretese ragioni politiche, autorappresentandosi “voci della città degna”8. Nel 1986 Rodolfo Bettiol – docente nella
città “dove tutto era cominciato”, difensore di Negri – perorava con successo la “tradizione giuridica liberal-democratica, sovvertita dall’emergenza”9;
eppure, quel “processo-inchiesta”10 è stato banco di prova della difficoltà
di separare giustizia e politica, di negare l’evidenza del conflitto che, nella
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Cfr. C. Galli, Diritto e politica: profili teorici e politici del loro rapporto, in
A. Gamberini, R. Orlandi (a cura di), Delitto politico e diritto penale del nemico,
Monduzzi, Bologna 2007, pp. 45 ss.
E.R. Papa, Il processo alle Brigate Rosse, FrancoAngeli, Milano 2017; R. Rossanda, Sequestro e uccisione di Aldo Moro, in M. Isnenghi (a cura di), I luoghi della
memoria. Strutture ed eventi dell’Italia unita, Laterza, Roma-Bari 2010, pp. 493 ss.
L. Ferrajoli, Due ordini di politiche e di garanzie in tema di lotta al terrorismo,
numero speciale di “Questione giustizia”, settembre 2016.
Processo sette aprile. Padova trent’anni dopo. Voci della «città degna», manifestolibri, Roma, 2009.
R. Bettiol, Dietro l’angolo, in La difesa penale, 1988, pp. 9 ss.
Sia consentito rinviare a F. Colao, Giustizia e politica. Il processo penale nell’Italia repubblicana, Giuffrè, Milano 2013, pp. 228 ss.
F. Colao - Il punto e la linea
9
modernità penale, avvicina e allontana politica e diritto. Il caso 7 aprile risalta dunque come un punto della storia della sfuggente identità del delitto
politico, che, al tempo della repressione del brigantaggio, aveva “spezzato
la penna” del Francesco Carrara, teorico del Programma – studiato da Mario Sbriccoli nel 197311 –, non dell’intellettuale giurista, impegnato nella
redazione di un codice penale “liberale per un’Italia che lo era ben poco”12.
Chiaramonte intitola il suo saggio Il laboratorio della giustizia politica; a me sembra che la scena giudiziaria dei “lunghi” anni Settanta abbia
mostrato la differenza strutturale tra la giustizia politica, totalitaria, che
perverte lo strumento giudiziario ai propri fini di dominio assoluto – la
Russia sovietica13, la Germania nazista14 – e la giustizia “politica” dello
Stato nazionale, prima liberale, poi democratico, che non è stato in grado
di calcolare l’esito dei processi politici nelle loro diverse forme. I tribunali
sono stati un delicato campo di tensione atto a rivelare, in misura diversa,
momenti di neutralizzazione e di “foucaultiane” integrazioni del conflitto.
In particolare la Repubblica non ha sperimentato il ricorso al “doppio livello di legalità”15, l’istituzione dei tribunali speciali militari, come nella
lunga crisi di fine Ottocento16, e del Tribunale speciale per la difesa dello
Stato, strumentale a una “multifunzionale” giustizia fascista, strumento di
repressione e costruzione di consenso17. Nel 1984 Marco Ramat ricordava
che Vittorio Foa aveva tracciato un paragone con il processo 7 Aprile, e
annotava: “Detto da chi l’ha subito preoccupa”18.
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“Politica e giustizia non nacquero sorelle”. Se ne disse “sventuratamente convinto” F. Carrara, Programma del Corso di diritto criminale, Lucca, 1871, VIII, p.
635. Sul grande penalista cfr. ancora M. Sbriccoli, Dissenso politico e diritto penale in Italia tra Otto e Novecento. Il problema dei reati politici dal Programma di
Carrara al Trattato di Manzini (1973), ora in Id., Storia del diritto penale e della
giustizia. Scritti editi e inediti (1972-2007), Giuffrè, Milano 2009, pp. 725 ss.
M. Sbriccoli, La penalistica civile. Teorie e ideologie del diritto penale nell’Italia
unita, in Id., Storia del diritto penale, cit., p. 541. Indicazioni in F. Colao, Il diritto
penale politico nel codice Zanardelli, in S. Vinciguerra (a cura di), I codici preunitari e il codice Zanardelli, Cedam, Padova 1993, pp. 652 ss.
M. Cossutta, Tra giustizia e arbitrio. Il principio di legalità nell’esperienza giuridica sovietica, in “Quaderni fiorentini”, XXXVI, 2007, pp. 1083 ss.
T. Vornbaum, Diritto e nazionalsocialismo. Due lezioni, EUM, Macerata 2013.
M. Sbriccoli, Caratteri originari e tratti permanenti del sistema penale italiano
(1860-1990), in Id., Storia del diritto penale, cit., pp. 595 ss.
C. Latini, “Una società armata”. La giustizia penale militare e le libertà nei
secoli XIX-XX, in Giustizia e politica, cit., pp. 29 ss.
Anche per indicazioni cfr. L. Lacchè (a cura di), Il diritto del Duce. Giustizia e
repressione nell’Italia fascista, Donzelli, Roma 2015.
M. Ramat, Le sbarre del «7 aprile», in “Democrazia e diritto”, 4, 1984, pp. 147 ss.
10
Il caso 7 aprile
Nella complessa vicenda iniziata con un’inchiesta a Padova – il punto – risaltano inoltre certi nodi “strutturali” della giustizia nazionale – la
linea – non solo “politica”: il peso dell’opinione pubblica nella “logica”
del processo19; le contraddizioni del “modello misto” – il ruolo preponderante dell’istruttoria20 –; i processi indiziari, “maxi” e “infiniti” dai tempi
del caso Cuocolo (1906-1930)21; similitudini e differenze tra “il giudice
e lo storico”, tematizzate nel 1939 da Calamandrei, in nome del principio
di legalità contro le derive del diritto libero22, problematizzate poi da
Carlo Ginzburg a proposito del caso Sofri23. Del resto, la magistratura
ha svolto un ruolo nevralgico nel leggere la violenza politica “con gli
occhiali del penale”, alla ricerca di una verità processuale come verità
storica degli anni di piombo; questo potere dello Stato – che pagò un
contributo di sangue alla “lotta” alla criminalità politica e comune – non
appare un monolite: esemplare anche la diversa lettura dell’Autonomia
tra Calogero e Palombarini, che risalta nei saggi di Chiaramonte e Fiorentino. Pare persuasiva la categoria del “giudice di scopo”24, interprete
di un segmento drammatico della nostra storia, gravato dal peso delle
vittime, dalla strage di Piazza Fontana ai delitti delle Brigate Rosse, ai
maxiprocessi degli anni Ottanta e Novanta alla mafia e alla camorra. Nel
prisma della storia giudiziaria della Repubblica il lavoro del giudice si
incrociava con le pressioni del governo, dei partiti e movimenti, dell’opinione pubblica, delle articolazioni della stessa magistratura. Pentitismo
e chiamate in correità – cui giustamente Chiaramonte e Fiorentino dedicano molte pagine – improntavano la giustizia nazionale; più del caso
“politico” di un Fioroni o di un Marino, l’opinione pubblica era colpita
dalla sconcertante vicenda giudiziaria di Enzo Tortora, a buon titolo entrata nell’importante volume sulla criminalità della Storia d’Italia Einau-
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Indicazioni in F. Colao, L. Lacchè, C. Storti (a cura di), Processo penale in Itala
tra Otto e Novecento, il Mulino, Bologna 2008.
G. Alessi, Le contraddizioni del processo misto, in M. Marmo, L. Musella (a cura
di), La costruzione della verità giudiziaria, ClioPress, Napoli 2003, pp. 13 ss.
M. Marmo, “Processi indiziari non se ne dovrebbero mai fare”. Le manipolazioni
del processo Cuocolo (1906-1930), in La costruzione della verità giudiziaria, cit.,
pp. 101 ss.
P. Calamandrei, Il giudice e lo storico, in “Rivista di diritto processuale civile”,
XVII, 1939, p. 119, su cui B. Croce, La relatività del concetto di azione, in “Rivista di diritto processuale civile”, XVI, 1939, pp. 445 ss.
C. Ginzburg, Il giudice e lo storico. Considerazioni in margine al processo Sofri
(1991), con Postfazione, Milano, 2006.
L. Violante, Magistrati, Einaudi, Torino 2009, p. 51.
F. Colao - Il punto e la linea
11
di25. Le criticità iscritte nell’“impulso e conduzione diretta da parte del
giudice dell’inchiesta”26 erano tra le matrici del sospirato varo del Codice
Pisapia-Vassalli, con il cardine della prova da formarsi nel contraddittorio; dopo l’ultima estate di Falcone e Borsellino, le sentenze della Corte costituzionale e poi il “giusto processo” adottavano meccanismi per
l’“annoso problema del dichiarante silenzioso”27.
Quanto ai “tipi politici d’autore”, dai neofascisti al “magma” dell’Autonomia e del terrorismo, i reati associativi consentivano di “interpretare” la violenza politica a partire dalle singole fattispecie, in primo luogo
dall’insurrezione contro i poteri dello Stato, in prospettiva storica messa
a fuoco come sollevazione di masse in armi da Ettore Gallo28. Nell’aula
di tribunale non rilevava la responsabilità penale, quanto l’ideologia politica; in particolare, il saggio di Fiorentino ricorda certi appelli degli intellettuali divisi tra quelli che chiedevano la prova, i fatti, e quelli che temevano di apparire “quasi neutrali” di fronte al terrorismo, per non aver
fatto i conti con l’“album di famiglia”29. Alla tesi della “tenuta di fondo
delle istituzioni”30, sostenuta nel 1983 da Grevi all’inizio del processo
nell’aula bunker del Foro italico, facevano da contrappunto le “sbarre del
7 aprile”, ricordate da Ramat, critico dell’eccesso di carcerazione preventiva, denunciata anche da Amnesty International31. Tra i “detriti” di
quella complessa vicenda giudiziaria, Ramat coglieva il cuore vitale nel
compito “immane”, per i giudici, di riconoscere ai tanti diversi imputati
il “suo politico”32.
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M.V. Foschini, S. Montone, Il processo Tortora, in L. Violante (a cura di), Storia
d’Italia. Annali 12, Einaudi, Torino 1997, pp. 685 ss; cfr. anche R. Alfonso, Introduzione. Il fenomeno del pentitismo e del maxiprocesso, in G. Tinebra, R. Alfonso,
A. Centonze, Fenomenologia del maxiprocesso. Venti anni di esperienze, Giuffrè,
Milano 2011, pp. 3 ss.
A. Gamberini, G. Insolera, Terrorismo, Stato e sistema delle libertà: l’inchiesta 7
Aprile, in “Questione giustizia”, 2, 1979, pp. 301 ss.
G. Alessi, Il processo penale. Profilo storico, Laterza, Roma-Bari 2001, p. 205.
E. Gallo, Insurrezione armata contro i poteri dello Stato, in “Giustizia penale”, 2,
1981, pp. 243 ss.
R. Rossanda, L’album di famiglia, in “il manifesto”, 4 aprile 1978.
V. Grevi, Sistema penale e leggi dell’emergenza: la risposta legislativa al terrorismo, in G. Pasquino (a cura di), La prova delle armi, il Mulino, Bologna 1983,
p. 67.
Il caso 7 aprile, Roma (1979-1984), Amnesty International, Roma 1986; Processo
7 aprile. Italia, in La difesa penale, 1986, pp. 13 ss.
M. Ramat, Le sbarre del «7 aprile», cit.
12
Il caso 7 aprile
La categoria “diritto penale del nemico” – oggi chiamato in causa per il
terrorismo post 11 settembre33 – si rivela tutt’altro che un ossimoro per la
capacità del discorso giuridico a definire identità ed estraneità. La storia ci
mostra infatti i nemici della città, della societas cristiana, della Rivoluzione, dell’ordine, della razza, della sicurezza dell’ordine internazionale, dei
criminali come nemici, nella messa in scena di una “proteiforme alterità minacciosa e ostile”34. Termini come strategia della tensione o strage di Stato
sono oggi tra gli attrezzi dello storico, non sembrano rimandare a uno Stato
“criminale italiano” contro i lavoratori e i giovani dell’estrema sinistra, piuttosto ad almeno “due” fedeltà politiche, le diverse “gladio”, operanti nella
guerra fredda, pro e contro il comunismo. Dalla più grande e vera crisi della seconda metà del Novecento l’Italia usciva grazie alla “tenuta collettiva
della società”; a proposito dei pentiti “a partita perduta”, pare persuasiva la
recente riflessione sulla “soave inquisizione”35 di Padovani (1981), da parte
di Prosperi, autore di Tribunali della coscienza36.
“Secondo me, in questa materia, il fine non giustifica mai i mezzi”. Nel
1989, quando il nuovo codice di procedura penale entrava in vigore, l’enunciato di Ferrajoli sul “modello costituzionale del processo penale” era
il perno di un volume di oltre mille pagine, che, tra storia e sistema, costruiva una “teoria del garantismo penale”; l’autore vi ripresentava anche
i suoi più risalenti interventi, all’epoca critici delle pratiche degli anni di
piombo37. Chiaramonte e Fiorentino discutono criticamente il senso del
garantismo, tematizzandolo – mi sembra – per certi versi come funzionale alla “foucaultiana” legittimazione dello Stato “a democrazia protetta”,
specie attraverso la individuazione del “capro espiatorio”. A mio avviso,
allora come oggi, le garanzie per l’imputato sono pensabili come garanzie
per l’ordine liberal-democratico di tutti, oltre che dell’imputato, non ideale
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M. Donini, Definizioni e strategie, nemici, criminali, Stato di diritto, in Id., Lotta
al terrorismo e ruolo della giurisdizione. Dal codice delle indagini preliminari a
quello postbattimentale, numero speciale di “Questione giustizia”, cit.
Per tutti cfr. P. Costa, I diritti dei nemici: un ossimoro, in “Quaderni fiorentini”,
38, 2009, p. 40.
T. Padovani, La soave inquisizione. Osservazioni e rilievi a proposito delle nuove ipotesi di ravvedimento, in “Rivista italiana di diritto e procedura penale”, 2,
1981, pp. 545 ss.
A. Prosperi, Tribunali della coscienza. Inquisitori, confessori, missionari, Einaudi, Torino 2009; A. Prosperi, L’esperienza della storia italiana, antica e recente,
numero speciale di “Questione giustizia”, cit.
L. Ferrajoli, Diritto e ragione. Teoria del garantismo penale, Laterza, Roma-Bari
1990, pp. 761 ss.
F. Colao - Il punto e la linea
13
e limite – come taluni sostennero all’epoca – di un penale “formale”38. Il
garantismo ha il suo cuore vitale nel contrasto di quelle che Cacciari definì “astrazioni giudiziarie”, sostitutive del processo penale, vocato, entro
le “grandi fondazioni” della giustizia moderna, a ricostruire le “personali
responsabilità”39.
Oggi sono peraltro lontani i “manifesti giuridici” degli anni Settanta e
l’“alternativa presa sul serio”40; il discorso pubblico sulla giustizia penale
e la politica pare arroccato da tempo su un’altra “alternativa”, quella, stucchevole, tra giustizialismo e garantismo, quest’ultima diventata una “brutta
parola”. Una conclusione: nel 1979 Francesco De Gregori cantava l’Italia
del 12 dicembre, “con gli occhi asciutti nella notte scura […] l’Italia che
non ha paura”; nella “notte triste” di quarant’anni dopo si “alimenta e governa la paura”, guardando alla giustizia penale come “premoderna” vendetta41, un popolare cavallo di battaglia di costruzione del consenso, che
sfrutta un preteso bisogno di sicurezza di una società impaurita e, quel che
è peggio, il dolore, vero, delle vittime. All’incalzare del “populismo penale”, tra le altre voci, è ancora quella di Ferrajoli a chiamare il legislatore
alla scuola della “razionalità”42.
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Sul punto cfr. invece A. Baratta, M. Silbernagl, La legislazione dell’emergenza e
la cultura giuridica garantista nel processo penale, in “Dei delitti e delle pene”,
3, 1983, p. 546.
M. Cacciari, Complessità del fenomeno terroristico e astrazioni giudiziarie, in
Democratica Magistratura (a cura di), La magistratura di fronte al terrorismo e
all’eversione di sinistra, FrancoAngeli, Milano 1982, pp. 123 ss.
P. Costa, L’alternativa “presa sul serio”. Manifesti giuridici degli anni Settanta,
in “Democrazia e diritto”, 1-2, 2010, pp. 242 ss.
“La storia del ‘penale’ può essere pensata come la storia di una lunga fuoriuscita
dalla vendetta, […] la fuoruscita dalla vendetta non è, da secoli, impresa da poco.”
M. Sbriccoli, Giustizia criminale, in Id., Storia del diritto penale, cit., pp. 3, 44.
L. Ferrajoli, Il paradigma garantista: un progetto politico mancato, in A. Apollonio (a cura di), Processo e legge penale nella Seconda Repubblica. Riflessioni
sulla giustizia da Tangentopoli alla fine del berlusconismo, Carocci, Roma 2015,
pp. 73 ss. Con riferimento alle proposte di riforma della giustizia da parte del
governo gialloverde cfr. per ora https://www.volerelaluna.it (L. Pepino, Il ministro
della paura).
DARIO FIORENTINO E XENIA CHIARAMONTE
INTRODUZIONE
Che senso ha a quarant’anni da quel processo scrivere un libro ancora
sul 7 aprile?
Noi abbiamo creduto che, benché la letteratura sul tema non manchi,
sulla questione resti qualcosa di originale da dire. Prova ne è il fatto che, a
distanza di quattro decenni, non esiste una lettura critica ma al contempo
distaccata rispetto alle questioni più schiettamente politiche in gioco.
Con ciò non intendiamo affatto negare che queste fossero cruciali e che
a tutt’oggi siano inevase, ma si tratta di un’analisi che lasciamo ad altri
studiosi e altri tempi.
La nostra intenzione è quella di offrire uno sguardo sulle tecniche punitive del processo politico e, con questo fine, esplorare un laboratorio che
crediamo di veder nascere paradigmaticamente col “caso 7 aprile”. Data
l’età di chi scrive, la facoltà di distanziarsi da quei fatti è resa possibile,
come forse possibile non è per i protagonisti del “caso”.
Per questo motivo ci siamo creduti in grado di affrontare una vicenda
tanto decisiva quanto ancora “calda” della politica e, in particolare, della
politica giudiziaria italiana. La nostra intenzione, allora, è quella di sostare
sulla capacità del diritto di funzionare come tecnica “immunizzante” rispetto al conflitto sociale e non di rimpolpare la bibliografia apologetica sul
“caso 7 aprile”, che sia partigiana per un verso o per un altro.
D’altronde, recente letteratura in questo senso non manca: un caso
esemplare è quello de Il terrorismo di destra e di sinistra in Italia e in
Europa (2018) la cui proposta è quella di porre “storici e magistrati a
confronto” – alcuni fra i quali furono i principali protagonisti del “caso”.
L’introduzione del libro è utile a connettere ieri e oggi, poiché ci avverte
sin da subito che la minaccia anarchica nel passato, così come nel presente, è centrale nella considerazione che si deve avere del fenomeno
terroristico. Il testo prende avvio e si fa sostenere dalle considerazioni di
Theodore Roosevelt – Presidente degli Stati Uniti per il primo decennio
16
Il caso 7 aprile
del ’900 –, secondo cui la lotta al terrorismo e, in particolare, la distruzione della minaccia anarchica non hanno paragoni con nessun altro tipo
di questione sociale per priorità1.
Quello che, a cavallo fra i due secoli e poi all’inizio del secolo scorso,
costituiva un pericolo centrale dei sovrani pare aver lasciato una scia che
giunge fino a noi: nel 2014, a Torino, in occasione della cerimonia di apertura dell’anno giudiziario, l’allora procuratore generale annuncia la stessa
assoluta priorità da anteporre a ogni altra questione di politica del diritto
penale, dicendo che
esiste un’area marginale ma non trascurabile di soggetti anarchici che, operando su un doppio livello, palese e occulto, costituiscono una minaccia per le
regole costituzionali del paese puntando, attraverso atti di terrorismo, all’eversione del sistema democratico (www.torino.repubblica.it, 25 gennaio 2014).
La discrasia fra fatti di reato e loro sussunzione giuridica appare sempre evidente nei processi politici, costituendone di solito una ricorrenza. Il
“caso 7 aprile” non solo conferma questa costante tensione fra la percezione che si ha di atti potenzialmente “sovversivi” e l’interpretazione omogeneizzante e amplificante offerta dai giudici, ma può essere considerato il
“capostipite” della storia giudiziaria repubblicana.
L’importanza del processo “7 aprile” risiede nel fatto che quest’esperienza giudiziaria può essere considerata come un laboratorio nel quale,
da un lato, vengono riattivate pratiche che hanno connotato alcuni modelli
storici ben rodati nel campo della repressione penale politica e, dall’altro,
viene costituito il campo di sperimentazione di nuove e originali tecniche
in combinazione con le prime.
Nel corso quasi decennale dell’inchiesta del 7 aprile, si cristallizzeranno
alcuni tratti innovatori del processo penale politico in Italia, i quali saranno
suscettibili a loro volta d’essere replicati e sistematizzati per far fronte ad
altre situazioni di emergenza che hanno colpito la società italiana negli
anni a venire: mafia, cospirazioni massoniche, corruzione politica “ambientale”, movimenti ambientalisti.
Da un punto di vista storico-giuridico, la vicenda permette di confrontarci, da diverse angolazioni, con ciò che – dal dibattito tra storici e specia-
1
Il riferimento è all’introduzione di Fumian: Il problema dello Stato tra verità storica e verità giudiziaria, in C. Fumian, A. Ventrone (a cura di), Il terrorismo di
destra e di sinistra in Italia e in Europa. Storici e magistrati a confronto, Padova
University Press, Padova 2018.
D. Fiorentino e X. Chiaramonte - Introduzione
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listi del processo penale – è stato definito come “l’inconscio inquisitorio”
del sistema punitivo italiano2.
Divenendo il paradigma per antonomasia della risposta giudiziaria alla
vasta fenomenologia della violenza politica in tutte le sue declinazioni, lo
studio delle procedure di questa straordinaria vicenda può rappresentare
il vettore privilegiato per comprendere almeno due ordini di problemi.
In primo luogo: come si costruisce la figura dell’imputato-nemico contestando la sola attività politica di tipo ideologico e, a seguire, le ragioni
storiche e tecniche di un’apparente ripetizione strutturale delle pratiche
giudiziarie che concretizzano tale risposta istituzionale nel trattamento
del problema della sovversione politica. E ciò, a ben vedere, all’interno
di un contesto formalmente democratico e costituzionale e facendo coesistere moduli punitivi la cui origine e ragion d’essere appartengono a
coordinate spazio-temporali assai diverse. I due punti dell’analisi sono
strettamente intrecciati e la comprensione del primo dipende inevitabilmente dall’articolazione del secondo.
Da un punto di vista storico, la questione del “processo politico” si
presta a un doppio livello di studio e di comparazione, sincronico e diacronico, tra mondi lontani e differenti. E già una ricognizione che semplificasse, per modelli, la fenomenologia plurisecolare della giustizia politica
permetterebbe di cogliere lo sviluppo e il riprodursi, nel tempo, di sottili
mescolanze e coesistenze di analogie, differenze, sovrapposizioni di strategie e pratiche punitive risalenti a diversi contesti storici.
Ma, soprattutto, da un punto di vista tecnico e operativo, lo studio
di un processo politico di tal fatta permette di cogliere come si riattivi
e riadatti, al contempo e puntualmente, quel meta-codice che distingue
l’amico dal nemico, e come il giudice, condividendo eventualmente le
opzioni ideologiche dei partiti al potere (anche se indipendente), possa
riassumere il ruolo di mediazione patriarcale esercitata nella penombra
della positivizzazione giuridica e della razionalizzazione e secolarizzazione formale del ceto cui appartiene, tornando a svolgere una funzione
sacerdotale oltre che politica3.
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3
Si riprende l’espressione dal titolo di uno studio a cura di L. Garlati, L’inconscio
inquisitorio. L’eredità del Codice Rocco nella cultura processualpenalistica italiana, Giuffrè, Milano 2010.
F. Di Donato, La rinascita dello Stato. Dal conflitto magistratura-politica alla
civilizzazione istituzionale europea, il Mulino, Bologna 2010, pp. 71-72 e 478;
C. Costantini, La legge e il tempio. Storia comparata della giustizia inglese, Carocci, Roma 2007.
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Il caso 7 aprile
Ecco allora che il processo penale nella sua versione politica, grazie
all’enfasi posta sull’istruttoria o sul dibattimento – condotti unilateralmente –, non dirime una controversia, ma la conduce e la governa presentandosi come una terapia del presente minacciato dalla sovversione, verso cui ha
l’ambizione e la pretesa di una riparazione.
In altre parole, ciò che preme sottolineare è che l’immunizzazione giuridica4 che segue all’uso distorto del mezzo processuale, intesa come ragione
di Stato, permette al sistema del diritto di darsi una continuità operativa, di
non bloccarsi innanzi a norme, principi e decisioni in contrasto con tutte le
operazioni che possano assicurare l’illusione dell’ordine e della sicurezza.
L’invenzione del nemico è storicamente una finzione che si esplica finzionando, permettendo cioè alla giustizia politica e all’inquisizione penale di
diventare uno strumento come un altro dell’arsenale delle democrazie che
vogliono estirpare “l’assolutamente aspro” di hegeliana memoria5 o domare la foucaultiana “esteriorità selvaggia”6.
Il processo politico, dunque, non è soltanto operazione meramente giudiziaria, dal momento che, domando la materia sociale “in eccesso”, riduce
quest’ultima a formato discorsivo compatibile coi gangli della struttura politica ed economica che intende difendere. Anche se la “verità” è l’invenzione di un mentitore, come diceva Heinz von Foerster, grande studioso di
cibernetica, ciò non è rilevante nella dimensione di realtà creata dal processo politico, perché, per dirla con Foucault,
è sempre possibile dire il vero nello spazio di una esteriorità selvaggia; ma
non si è nel vero se non ottemperando alla regola di una polizia discorsiva che
si deve riattivare in ciascuno dei suoi discorsi. La disciplina è un principio di
controllo della produzione del discorso; essa fissa dei limiti col gioco d’una
identità che ha la forma di una permanente riattualizzazione della regola. […]
In ogni società la produzione del discorso è insieme controllata, selezionata,
organizzata e distribuita tramite un certo numero di procedure che hanno la
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5
6
Ci si riferisce nello specifico all’utilizzazione inflazionata del mezzo processuale
penale che è stato utilizzato, a partire dalla fine degli anni ’70, con frequenza
sempre crescente, fino a coinvolgere migliaia di imputati accusati sulla base di
contestazioni dal contenuto meramente ideologico. Sulle problematiche “giuridiche” di un tale impiego del processo penale in funzione politica e sulla relazione
con il concetto di immunizzazione, si rinvia a D. Fiorentino, Conflittualità sociale
e funzione immunizzante del diritto: qualche nota per una lettura sistemica della
repressione penale politica nelle società complesse, in X. Chiaramonte, A. Senaldi (a cura di), Violenza politica. Una ridefinizione del concetto oltre la depoliticizzazione, Ledizioni, Milano 2018.
G.W.F. Hegel, Lineamenti di filosofia del diritto, Laterza, Roma-Bari 1965, p. 195.
M. Foucault, L’ordine del discorso, Einaudi, Torino 1966, p. 28.
D. Fiorentino e X. Chiaramonte - Introduzione
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funzione di scongiurare i poteri e i pericoli, di padroneggiarne l’evento aleatorio, di schivarne la pesante, terribile materialità.7
Il discorso e le pratiche vivono in costante dialogo. Entrambi possono
funzionare bene e congiuntamente ai fini della giustizia politica. Oggi lo
vediamo nelle forme della criminalizzazione di movimenti sociali, non più
eminentemente politici quanto a base popolare. La giustizia politica assume con lo Stato globale delle sembianze nuove.
Questo libro è il tentativo di connettere le pratiche giudiziarie di alcuni
decenni fa e, in particolare, le tecniche punitive offerte dal paradigmatico
7 aprile con quelle odierne. La struttura del testo si sviluppa a partire da un
saggio su questo “paradigma”, prosegue con un dossier sul processo – in
modo tale da offrire alla lettrice e al lettore l’insieme di “prove” necessarie
a corroborare la ricostruzione critica – e infine si conclude con un saggio
che offre le tracce possibili dell’attuale modello antisovversivo.
7
Ivi, pp. 28-29.