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Parigi 1919. La Conferenza di pace

2019, Parigi 1919. La Conferenza di pace

Organizzata a Parigi nel 1919 fra i vincitori della Grande Guerra, la Conferenza di pace aveva lo scopo di ridisegnare la cartina geopolitica dell’Europa e di parte del mondo. Molto si è discusso sulle speranze e le delusioni che essa generò, sulla mancata corrispondenza tra i proclami di principio e la Realpolitik delle soluzioni, e soprattutto sulle sue conseguenze di medio e di lungo periodo, dall’ascesa del nazionalsocialismo alla crisi odierna in Medio Oriente. Il libro colloca gli eventi nel loro contesto storico originale, segnato dal crescente dissidio tra i vincitori, offrendo al lettore gli strumenti necessari a comprendere quanto e in che modo il processo di pace abbia influenzato gli sviluppi globali dei decenni a venire.

UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO 000. a Miriam GIOVANNI BERNARDINI PARIGI 1919 La Conferenza di pace IL MULINO I lettori che desiderano informarsi sui libri e sull’insieme delle attività della Società editrice il Mulino possono consultare il sito Internet: www.mulino.it ISBN 978-88-15-28317-7 Copyright © 2019 by Società editrice il Mulino, Bologna. Tutti i diritti sono riservati. Nessuna parte di questa pubblicazione può essere fotocopiata, riprodotta, archiviata, memorizzata o trasmessa in qualsiasi forma o mezzo – elettronico, meccanico, reprografico, digitale – se non nei termini previsti dalla legge che tutela il Diritto d’Autore. Per altre informazioni si veda il sito www.mulino.it/edizioni/fotocopie Redazione e produzione: Edimill srl - www.edimill.it INDICE Introduzione I. II. p. 7 Dall’armistizio a Parigi 15 1. 2. 3. 4. 15 19 30 41 La fine della guerra La pace di Woodrow Wilson Gli obiettivi dei vincitori La parte degli sconfitti e l’enigma russo I nodi della Conferenza 51 1. 2. 3. 4. 5. 6. 7. 51 59 62 72 76 82 89 Tempi, luoghi e partecipanti La (dis)organizzazione della Conferenza La Società delle Nazioni La questione razziale Il sistema dei «mandati» L’Organizzazione internazionale del Lavoro Territori e popolazioni III. I trattati e il futuro 1. 2. 3. 4. 5. Pace con i tedeschi: le colpe e i costi Pace con i tedeschi: la sicurezza e le garanzie Il disordine post-asburgico Dai Balcani al Medio Oriente Il convitato di pietra della Conferenza 103 103 114 128 139 149 Conclusioni 155 Bibliografia 163 5 INTRODUZIONE Il minimo che il lettore dovrebbe chiedere a un libro come questo è di giustificare la sua presenza sugli scaffali delle librerie già ingombri di tanti lavori dedicati in passato alla Conferenza di pace di Parigi o che lo saranno in occasione del suo centesimo anniversario. Chi si aspetta le rivelazioni inedite e sconvolgenti che altri promettono (e raramente mantengono) è avvisato della possibilità di rimanere deluso. Stessa sorte attende chi sia in cerca dei ritratti personali, dei dettagli piccanti e delle note di colore che hanno già fatto le fortune di altri più estesi e spesso degni lavori. Questo volume ha piuttosto l’obiettivo, comune a ogni seria impresa storiografica, di inquadrare il processo della Conferenza all’interno della fase storica in cui essa ebbe luogo. Collocare le parole e le azioni, i conflitti e le mediazioni, i progetti e le risoluzioni che incisero sul corso della conferenza e sui suoi risultati all’interno delle coordinate spaziali e temporali in cui maturarono significa innanzitutto sottrarsi a quell’«assedio del presente» che pretende la facile attualizzazione di complesse questioni storiche fino a farle scadere nell’anacronismo. Detto altrimenti: prima di tentare una cauta riflessione sulle conseguenze di lungo periodo delle decisioni prese a Parigi, che pure troverà spazio tra le pagine, questo libro aspira a fornire al lettore gli strumenti necessari (e auspicabilmente sufficienti) a comprendere se e in che misura la Conferenza mutò il corso degli eventi e lo spirito dell’epoca, e viceversa quanto questi ultimi siano penetrati nelle stanze in cui si discuteva il futuro assetto mondiale, influenzandone il risultato. Ne consegue che il volume si dedicherà spesso e volentieri, a cominciare da questa introduzione, a mettere in discussione alcuni assunti che hanno pregiudicato in passato una compren7 sione realistica di quanto accadde a Parigi. In sostanza: a spiegare cosa la Conferenza di pace del 1919 non fu. Innanzitutto, essa non fu l’incontro diplomatico giocato in punta di fioretto né la gara di eloquenza cui l’hanno ridotta molte ricostruzioni postume. Indubbiamente le capacità tattiche e retoriche dei protagonisti, così come il mutevole balletto dei loro scontri e convergenze, ebbero un ruolo rilevante sulla ribalta parigina. Tuttavia, è bene ricordare anche che la conferenza aprì i battenti soltanto due mesi dopo la fine della peggiore carneficina sperimentata dall’umanità fino ad allora, di cui le tante contabilità disponibili restituiscono soltanto una pallida idea. Una parte della storiografia ha incomprensibilmente dilatato il breve intervallo tra i due eventi fino a conferirgli i caratteri della frattura epocale che esso non fu. Se la Conferenza di Parigi fu «un grande laboratorio» del mondo a venire, esso era comunque posto «su un immenso cimitero», secondo l’efficace metafora del primo presidente cecoslovacco Tomáš Masaryk. Inoltre, se la rapida successione degli armistizi conclusa l’11 novembre con la resa della Germania segnò la fine ufficiale della guerra, essa fu seguita da una lunga serie di conflitti che trassero alimento dalla nuova fase. La frantumazione di quattro imperi multinazionali nell’area centro-orientale del continente lasciò il campo a una miriade di contenziosi tra gli stati successori, che non conobbe soluzione di continuità rispetto alla fine della Grande guerra e che terminò soltanto alla metà degli anni Venti. Soprattutto in Germania, ma non soltanto, il disordine conseguente al crollo delle istituzioni assumeva le fattezze inquietanti delle formazioni paramilitari, a lungo incontrollabili per lo stesso potere politico che avrebbe dovuto detenere il monopolio legittimo della violenza. A est, in Russia, una rivoluzione dai caratteri del tutto inediti lottava ancora per la propria affermazione e si proponeva come esempio concreto di sovvertimento politico-sociale: a essa le masse in Europa e oltre iniziavano a guardare per la rivincita contro l’ordine che li aveva sottoposti a cinque anni di massacro. Quanto ai paesi vincitori, la fine delle ostilità fu seguita da una macchinosa smobilitazione politica e culturale, che pose problemi non inferiori a quella delle truppe: il potenziale 8 di odio e violenza accumulato nei cinque anni precedenti contro nemici veri e presunti, ma spesso anche contro gli alti gradi dell’esercito e la classe politica, le attese rabbiose dei dividenti della vittoria, le inevitabili delusioni, le nuove urgenze politiche e sociali generate dal conflitto rendevano la gestione dell’ordine pubblico quanto di più lontano da un tranquillo dopoguerra, semmai ne è esistito uno. Tutto questo accadeva in uno scenario generale di distruzione materiale, prostrazione morale e collasso economico che rendeva impellente un intervento sistemico da parte di chiunque ne avesse il potere e le capacità. Non si può dunque afferrare appieno lo spirito della Conferenza di pace del 1919 fintantoché non si comprende che, a dispetto del suo stesso nome, essa si svolse in un continente tutt’altro che pacificato, e che per i vincitori l’urgenza di gestire il presente, alla stregua di un temporaneo governo europeo o addirittura mondiale, non era secondaria rispetto alla progettazione del futuro. Fu con questo mondo in continua e imprevedibile ebollizione, non con un inerte tabellone di Risiko, che gli artefici della pace si confrontarono. A tal proposito è anche necessario ridimensionare il mito della Conferenza come «più grande assemblea diplomatica di tutti tempi». È vero che vi presero parte circa trenta delegazioni ufficiali di altrettanti paesi o gruppi nazionali, e che queste invasero letteralmente Parigi con numeri senza precedenti di diplomatici e tecnici di ogni genere (geografi, etnografi, storici), chiamati a garantire alle decisioni dell’assise tutto l’ottimismo scientista dell’epoca. È altrettanto vero che nella capitale francese accorsero rappresentanti più o meno credibili di cause di ogni sorta, nella speranza di essere ricevuti dai decisori. Tuttavia, all’apertura della Conferenza cinque paesi – Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone – si proclamarono unilateralmente «potenze belligeranti con interessi generali»: la decisione li poneva al vertice di una gerarchia che contrastava con qualunque speranza, invero nutrita da pochi, di una rappresentanza paritaria di tutti gli stati, e conferiva loro enormi privilegi ma anche responsabilità commisurate. Ancora prima dell’apertura della Conferenza, le riunioni decisive furono limitate ai capi di governo e ai mi9 nistri degli Esteri delle cinque potenze, per diventare, da marzo, incontri a quattro tra i primi e con l’esclusione dei rappresentanti giapponesi. Si può dunque affermare come le tante immagini che ritraggono il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il primo ministro britannico David Lloyd George, il presidente del Consiglio francese Georges Clemenceau e quello italiano Vittorio Emanuele Orlando intenti in conversazioni riservate non siano una brutale semplificazione mediatica della Conferenza, ma una raffigurazione essenziale della sua storia, le cui tappe furono scandite dalle centinaia di incontri che i quattro intrattennero tra il gennaio e il giugno del 1919. Di lì a pochi anni, il controverso filosofo tedesco Carl Schmitt avrebbe coniato la definizione del sovrano come «colui che decide sullo stato d’eccezione», ovvero quando la necessità di superare le difficoltà impone la sospensione delle leggi. Lo stato d’eccezione era l’esperienza quotidiana di una Conferenza che si proponeva di dare un nuovo ordine al mondo dopo l’immane disastro bellico: chi deteneva un potere preponderante negli affari mondiali non soltanto si arrogò il ruolo di «sovrano», ma anche il privilegio e il dovere di scrivere nuove leggi e regole. Scarsa influenza rimase quindi alle tanto celebrate riunioni plenarie, il cui numero in sei mesi si contò sulle dita di due mani. Quanto al resto del mondo, l’identificazione dei quattro quali reali detentori del potere decisionale li rese prima oggetto di un’incessante questua da parte di chiunque volesse soddisfazione per le proprie rivendicazioni, più tardi di recriminazioni e accuse per le inevitabili frustrazioni. In realtà, i cinque «potenti» erano tali in misura molto minore di quanto preteso dalle interpretazioni successive. Un frequente errore di prospettiva tende a proiettare sul primo dopoguerra alcune caratteristiche di quello successivo al 1945: gli sconfitti annichiliti e in macerie, i vincitori capaci di occupare e gestire l’intero continente e buona parte del mondo. Nulla di tutto questo era reale nel 1919, se si pensa che le truppe dell’Intesa, dopo il crollo della Russia zarista, erano assenti da gran parte del settore centro-orientale europeo, e che al momento dell’armistizio esse non avevano ancora intaccato il territorio nazio10 nale tedesco. Per giunta, il margine di manovra delle potenze vincitrici si ridusse ulteriormente con la precipitosa smobilitazione degli eserciti: la crescita del malcontento e dell’insubordinazione negli ultimi anni di guerra sconsigliava di prorogare la ferma dei coscritti, che le esigenze della ricostruzione spingevano a reintegrare al più presto nella vita economica nazionale. Le forze armate britanniche, stimate in poco meno di quattro milioni di unità al momento dell’armistizio, risultavano ridotte del 75% un anno più tardi. Quanto a quelle italiane, già inferiori, un quarto fu congedato prima ancora della fine del 1918. Un’accelerazione ancora maggiore riguardò le truppe statunitensi, dati i problemi logistici connessi al ritorno sul suolo americano. Persino la Francia, che per ragioni storiche e geografiche aveva più interesse a una vigilanza armata delle trattative, ridusse le proprie truppe da cinque a tre milioni di unità prima ancora della firma del Trattato di Versailles. La rapidità del processo, per quanto comprensibile, minava la capacità dei vincitori di imporre i loro termini per il dopoguerra: sarebbe stata possibile una nuova mobilitazione in caso di reticenza degli sconfitti a firmare la pace? O per ostacolare l’eventuale avanzata dell’Armata Rossa bolscevica verso il cuore dell’Europa? Interrogativi che rimasero senza risposta soltanto per mancanza di controprove; non per questo i lavori della Conferenza furono meno condizionati da una situazione di oggettiva difficoltà dei vincitori che è stata troppo spesso sottostimata. Un discorso a parte merita la situazione dell’Europa orientale, dove un intervento su vasta scala per rendere operative le decisioni della Conferenza era ancora più impensabile. In quei casi i quattro, ammesso e non sempre concesso che i loro progetti collimassero, dovettero supplire alla scarsa presenza diretta con la speranza che fosse riconosciuta la loro legittimità politica e morale a prendere decisioni per tutti, nonché con la collaborazione con le forze locali, spesso in conflitto tra di loro. Tutto questo deve necessariamente condurre a riconsiderare il tradizionale assunto dell’«Europa prodotta dalla Conferenza di Parigi». In molti e notevoli casi i quattro dovettero accettare soluzioni già determinate dagli eventi e cercare di trarne il massimo vantaggio. Valga per 11 tutti l’esempio dell’esplosione dell’Impero austroungarico, certamente non nei piani iniziali dei futuri vincitori, e la nascita di nuovi stati che era già un fatto compiuto prima dell’armistizio. Si dimentica spesso che a Parigi sedevano già le rappresentanze dalla Cecoslovacchia, dalla Lituania, dalla Polonia, dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (più tardi Jugoslavia): tutti paesi la cui nuova o rinnovata indipendenza era realtà prima ancora che la Conferenza la ufficializzasse. Se le grandi potenze si dimostrarono perlopiù favorevoli a tali sviluppi, ciò non significa che in caso contrario esse avrebbero potuto fare molto più che buon viso a cattivo gioco. Restava certamente sul terreno, o meglio sulle mappe, la scelta dei criteri in base ai quali definire i nuovi confini: anche in quel caso, mesi di negoziati, disamine tecniche e discussioni in apposite commissioni dovettero talvolta cedere il passo al riconoscimento della realtà di fatto. In questo senso, lungi dal rappresentare un evento isolato e sospeso nel tempo, la Conferenza visse di un dialogo continuo con quanto accadeva fuori dalle sue sedi, dove molte soluzioni presero corpo in virtù dei rapporti di forza più che delle vecchie o nuove regole. Spesso si è condannata la scarsa propensione dei rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia e Giappone a fare del bene comune il proprio criterio guida, accantonando i rispettivi interessi particolari. Se però comprendere la storia non significa istruire improbabili tribunali postumi, quanto piuttosto immedesimarsi nei panni talvolta sgradevoli delle parti in causa e comprenderne le ragioni, è necessario tener presente alcuni aspetti oggettivi che impedirono una collaborazione più proficua tra i vincitori. La guerra era iniziata da ogni parte con la pericolosa convinzione, inculcata nelle popolazioni dalla grancassa della propaganda, che essa sarebbe finita presto e vittoriosamente, portando oltre alla gloria e al prestigio, oltre all’affermazione di una superiorità morale, culturale e persino razziale sugli avversari, anche enormi premi materiali. Molte rivendicazioni erano presto diventate bandiere sotto cui marciare verso il fronte, per dare un senso al sacrificio supremo di alcuni e alle privazioni di molti. Così era per la liberazione delle «Terre irredente» e il completamento del Risorgimento, proclamati dal presidente del 12 Consiglio italiano Antonio Salandra nell’annunciare l’intervento; o della necessità di preservare l’Impero e il primato sui mari per la Gran Bretagna. Il caso più illuminante era quello della Francia, che aveva affrontato il conflitto con l’obiettivo ufficioso ma evidente di recuperare il possesso dell’Alsazia e della Lorena, cedute al nascente Reich tedesco dopo la disastrosa sconfitta del 1871. Alla fine della Grande guerra, l’ampiezza dei territori nel nord del paese martoriati dalle cicatrici delle trincee, dal macabro gioco delle avanzate e delle ritirate, dagli esperimenti con ogni genere di armamento all’avanguardia superava di gran lunga l’estensione delle due regioni da riscattare, e il numero degli abitanti di queste ultime era pari grossomodo a quello di tutte le vittime patite dalla Francia, militari e civili. Persino in Gran Bretagna, i cui governanti propendevano per una sorte non troppo severa per la Germania e per la ricostruzione di un equilibrio continentale privo di potenze egemoni, le elezioni che ebbero luogo alla vigilia della Conferenza videro gli ambienti governativi fare campagna sull’onda della promessa di «spremere il limone tedesco fino a sentirne scricchiolare i semi». Quanto agli Stati Uniti, il loro sprezzante rifiuto della logica rapace e spartitoria dei dopoguerra europei non impediva che la rottura della tradizione di non intervento nel Vecchio Continente, con tutte le tensioni e i sacrifici che ne erano conseguiti, rendesse ancora più imperativa la creazione di un ordine internazionale che si confacesse ai propri desideri e interessi. In ogni angolo del mondo coinvolto nel conflitto, la crescita dei sacrifici umani e materiali ben oltre i peggiori timori aveva spinto le promesse dei governanti e le aspettative delle popolazioni a una rincorsa che sfuggiva al confronto con la realtà. Per tutti i leader coinvolti nelle trattative, riportare a casa risultati insoddisfacenti per le rispettive popolazioni avrebbe significato quantomeno pregiudicare il proprio futuro politico, quando non la propria incolumità fisica. Nei casi più estremi, la frustrazione poteva anche minare la legittimità degli assetti istituzionali correnti, aprendo spazi imprevedibili al loro superamento violento. Di lì a breve, l’ascesa del fascismo in Italia avrebbe provato la fondatezza di quei timori. 13 Il lavoro di queste pagine si fonda sull’ampia storiografia riguardante il processo di pace di Parigi, sia nel suo complesso sia sulle sue tante componenti specifiche. Una breve selezione di articoli e volumi di riferimento è presente alla fine del volume: si è ritenuto di rimandare il lettore a essa e non al consueto apparato di note per rendere più scorrevole la lettura di un lavoro che, in definitiva, non si propone di addurre nuove prove e testimonianze inedite ma di presentare interpretazioni informate e contestualizzate della Conferenza di pace e del suo significato storico. Questo libro non esisterebbe senza il consiglio, l’aiuto e l’incoraggiamento di Paolo Pombeni, un maestro cui devo molto sul piano professionale e personale. Essenziali sono stati anche la guida, lo stimolo e i giusti richiami all’ordine di Ugo Berti della Società editrice il Mulino: mi auguro di cuore che apprezzi il risultato. Per quanto sia interamente mia la responsabilità per i contenuti del volume, desidero ringraziare i tanti amici e colleghi che hanno voluto condividere con me le loro conoscenze specifiche dei tanti temi che ho affrontato: Duccio Basosi, Marco Bellabarba, Mauro Campus, Renato Camurri, Maurizio Cau, Laura De Giorgi, Lorenzo Mechi, Marco Mondini, Michael Neiberg, Daniele Pasquinucci, Silvio Pons, Federico Romero, Leonard Smith, Camilla Tenaglia, Massimiliano Trentin, Antonio Varsori. Chiedo perdono a loro per aver condensato in modo talvolta brutale i risultati di dialoghi ben più estesi, e a tutti gli altri che non troveranno il loro nome in questa lista per pura dimenticanza, non certo per sottovalutazione. Dedico questo lavoro a Miriam: per tutto ciò che è, per tutto ciò che siamo. 14