UNIVERSALE PAPERBACKS IL MULINO
000.
a Miriam
GIOVANNI BERNARDINI
PARIGI 1919
La Conferenza di pace
IL MULINO
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ISBN
978-88-15-28317-7
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INDICE
Introduzione
I.
II.
p.
7
Dall’armistizio a Parigi
15
1.
2.
3.
4.
15
19
30
41
La fine della guerra
La pace di Woodrow Wilson
Gli obiettivi dei vincitori
La parte degli sconfitti e l’enigma russo
I nodi della Conferenza
51
1.
2.
3.
4.
5.
6.
7.
51
59
62
72
76
82
89
Tempi, luoghi e partecipanti
La (dis)organizzazione della Conferenza
La Società delle Nazioni
La questione razziale
Il sistema dei «mandati»
L’Organizzazione internazionale del Lavoro
Territori e popolazioni
III. I trattati e il futuro
1.
2.
3.
4.
5.
Pace con i tedeschi: le colpe e i costi
Pace con i tedeschi: la sicurezza e le garanzie
Il disordine post-asburgico
Dai Balcani al Medio Oriente
Il convitato di pietra della Conferenza
103
103
114
128
139
149
Conclusioni
155
Bibliografia
163
5
INTRODUZIONE
Il minimo che il lettore dovrebbe chiedere a un libro
come questo è di giustificare la sua presenza sugli scaffali
delle librerie già ingombri di tanti lavori dedicati in passato alla Conferenza di pace di Parigi o che lo saranno in
occasione del suo centesimo anniversario. Chi si aspetta
le rivelazioni inedite e sconvolgenti che altri promettono
(e raramente mantengono) è avvisato della possibilità
di rimanere deluso. Stessa sorte attende chi sia in cerca
dei ritratti personali, dei dettagli piccanti e delle note di
colore che hanno già fatto le fortune di altri più estesi e
spesso degni lavori. Questo volume ha piuttosto l’obiettivo, comune a ogni seria impresa storiografica, di inquadrare il processo della Conferenza all’interno della fase
storica in cui essa ebbe luogo. Collocare le parole e le
azioni, i conflitti e le mediazioni, i progetti e le risoluzioni
che incisero sul corso della conferenza e sui suoi risultati
all’interno delle coordinate spaziali e temporali in cui maturarono significa innanzitutto sottrarsi a quell’«assedio
del presente» che pretende la facile attualizzazione di
complesse questioni storiche fino a farle scadere nell’anacronismo. Detto altrimenti: prima di tentare una cauta
riflessione sulle conseguenze di lungo periodo delle decisioni prese a Parigi, che pure troverà spazio tra le pagine,
questo libro aspira a fornire al lettore gli strumenti necessari (e auspicabilmente sufficienti) a comprendere se e in
che misura la Conferenza mutò il corso degli eventi e lo
spirito dell’epoca, e viceversa quanto questi ultimi siano
penetrati nelle stanze in cui si discuteva il futuro assetto
mondiale, influenzandone il risultato. Ne consegue che
il volume si dedicherà spesso e volentieri, a cominciare
da questa introduzione, a mettere in discussione alcuni
assunti che hanno pregiudicato in passato una compren7
sione realistica di quanto accadde a Parigi. In sostanza: a
spiegare cosa la Conferenza di pace del 1919 non fu.
Innanzitutto, essa non fu l’incontro diplomatico giocato in punta di fioretto né la gara di eloquenza cui
l’hanno ridotta molte ricostruzioni postume. Indubbiamente le capacità tattiche e retoriche dei protagonisti,
così come il mutevole balletto dei loro scontri e convergenze, ebbero un ruolo rilevante sulla ribalta parigina.
Tuttavia, è bene ricordare anche che la conferenza aprì
i battenti soltanto due mesi dopo la fine della peggiore
carneficina sperimentata dall’umanità fino ad allora, di
cui le tante contabilità disponibili restituiscono soltanto
una pallida idea. Una parte della storiografia ha incomprensibilmente dilatato il breve intervallo tra i due eventi
fino a conferirgli i caratteri della frattura epocale che esso
non fu. Se la Conferenza di Parigi fu «un grande laboratorio» del mondo a venire, esso era comunque posto «su
un immenso cimitero», secondo l’efficace metafora del
primo presidente cecoslovacco Tomáš Masaryk. Inoltre,
se la rapida successione degli armistizi conclusa l’11 novembre con la resa della Germania segnò la fine ufficiale
della guerra, essa fu seguita da una lunga serie di conflitti
che trassero alimento dalla nuova fase. La frantumazione
di quattro imperi multinazionali nell’area centro-orientale
del continente lasciò il campo a una miriade di contenziosi
tra gli stati successori, che non conobbe soluzione di continuità rispetto alla fine della Grande guerra e che terminò
soltanto alla metà degli anni Venti. Soprattutto in Germania, ma non soltanto, il disordine conseguente al crollo
delle istituzioni assumeva le fattezze inquietanti delle formazioni paramilitari, a lungo incontrollabili per lo stesso
potere politico che avrebbe dovuto detenere il monopolio
legittimo della violenza. A est, in Russia, una rivoluzione
dai caratteri del tutto inediti lottava ancora per la propria
affermazione e si proponeva come esempio concreto di
sovvertimento politico-sociale: a essa le masse in Europa e
oltre iniziavano a guardare per la rivincita contro l’ordine
che li aveva sottoposti a cinque anni di massacro. Quanto
ai paesi vincitori, la fine delle ostilità fu seguita da una
macchinosa smobilitazione politica e culturale, che pose
problemi non inferiori a quella delle truppe: il potenziale
8
di odio e violenza accumulato nei cinque anni precedenti
contro nemici veri e presunti, ma spesso anche contro gli
alti gradi dell’esercito e la classe politica, le attese rabbiose dei dividenti della vittoria, le inevitabili delusioni,
le nuove urgenze politiche e sociali generate dal conflitto
rendevano la gestione dell’ordine pubblico quanto di più
lontano da un tranquillo dopoguerra, semmai ne è esistito
uno. Tutto questo accadeva in uno scenario generale di
distruzione materiale, prostrazione morale e collasso economico che rendeva impellente un intervento sistemico da
parte di chiunque ne avesse il potere e le capacità. Non si
può dunque afferrare appieno lo spirito della Conferenza
di pace del 1919 fintantoché non si comprende che, a dispetto del suo stesso nome, essa si svolse in un continente
tutt’altro che pacificato, e che per i vincitori l’urgenza di
gestire il presente, alla stregua di un temporaneo governo
europeo o addirittura mondiale, non era secondaria rispetto alla progettazione del futuro.
Fu con questo mondo in continua e imprevedibile
ebollizione, non con un inerte tabellone di Risiko, che
gli artefici della pace si confrontarono. A tal proposito è
anche necessario ridimensionare il mito della Conferenza
come «più grande assemblea diplomatica di tutti tempi».
È vero che vi presero parte circa trenta delegazioni ufficiali di altrettanti paesi o gruppi nazionali, e che queste
invasero letteralmente Parigi con numeri senza precedenti
di diplomatici e tecnici di ogni genere (geografi, etnografi, storici), chiamati a garantire alle decisioni dell’assise tutto l’ottimismo scientista dell’epoca. È altrettanto
vero che nella capitale francese accorsero rappresentanti
più o meno credibili di cause di ogni sorta, nella speranza di essere ricevuti dai decisori. Tuttavia, all’apertura
della Conferenza cinque paesi – Stati Uniti, Francia, Gran
Bretagna, Italia e Giappone – si proclamarono unilateralmente «potenze belligeranti con interessi generali»: la
decisione li poneva al vertice di una gerarchia che contrastava con qualunque speranza, invero nutrita da pochi, di
una rappresentanza paritaria di tutti gli stati, e conferiva
loro enormi privilegi ma anche responsabilità commisurate. Ancora prima dell’apertura della Conferenza, le riunioni decisive furono limitate ai capi di governo e ai mi9
nistri degli Esteri delle cinque potenze, per diventare, da
marzo, incontri a quattro tra i primi e con l’esclusione
dei rappresentanti giapponesi. Si può dunque affermare
come le tante immagini che ritraggono il presidente degli Stati Uniti Woodrow Wilson, il primo ministro britannico David Lloyd George, il presidente del Consiglio
francese Georges Clemenceau e quello italiano Vittorio
Emanuele Orlando intenti in conversazioni riservate non
siano una brutale semplificazione mediatica della Conferenza, ma una raffigurazione essenziale della sua storia,
le cui tappe furono scandite dalle centinaia di incontri
che i quattro intrattennero tra il gennaio e il giugno del
1919. Di lì a pochi anni, il controverso filosofo tedesco
Carl Schmitt avrebbe coniato la definizione del sovrano
come «colui che decide sullo stato d’eccezione», ovvero
quando la necessità di superare le difficoltà impone la
sospensione delle leggi. Lo stato d’eccezione era l’esperienza quotidiana di una Conferenza che si proponeva di
dare un nuovo ordine al mondo dopo l’immane disastro
bellico: chi deteneva un potere preponderante negli affari mondiali non soltanto si arrogò il ruolo di «sovrano»,
ma anche il privilegio e il dovere di scrivere nuove leggi
e regole. Scarsa influenza rimase quindi alle tanto celebrate riunioni plenarie, il cui numero in sei mesi si contò
sulle dita di due mani. Quanto al resto del mondo, l’identificazione dei quattro quali reali detentori del potere
decisionale li rese prima oggetto di un’incessante questua
da parte di chiunque volesse soddisfazione per le proprie
rivendicazioni, più tardi di recriminazioni e accuse per le
inevitabili frustrazioni.
In realtà, i cinque «potenti» erano tali in misura molto
minore di quanto preteso dalle interpretazioni successive.
Un frequente errore di prospettiva tende a proiettare sul
primo dopoguerra alcune caratteristiche di quello successivo al 1945: gli sconfitti annichiliti e in macerie, i vincitori capaci di occupare e gestire l’intero continente e
buona parte del mondo. Nulla di tutto questo era reale nel
1919, se si pensa che le truppe dell’Intesa, dopo il crollo
della Russia zarista, erano assenti da gran parte del settore
centro-orientale europeo, e che al momento dell’armistizio esse non avevano ancora intaccato il territorio nazio10
nale tedesco. Per giunta, il margine di manovra delle potenze vincitrici si ridusse ulteriormente con la precipitosa
smobilitazione degli eserciti: la crescita del malcontento e
dell’insubordinazione negli ultimi anni di guerra sconsigliava di prorogare la ferma dei coscritti, che le esigenze
della ricostruzione spingevano a reintegrare al più presto
nella vita economica nazionale. Le forze armate britanniche, stimate in poco meno di quattro milioni di unità al
momento dell’armistizio, risultavano ridotte del 75% un
anno più tardi. Quanto a quelle italiane, già inferiori, un
quarto fu congedato prima ancora della fine del 1918.
Un’accelerazione ancora maggiore riguardò le truppe statunitensi, dati i problemi logistici connessi al ritorno sul
suolo americano. Persino la Francia, che per ragioni storiche e geografiche aveva più interesse a una vigilanza armata delle trattative, ridusse le proprie truppe da cinque a
tre milioni di unità prima ancora della firma del Trattato
di Versailles. La rapidità del processo, per quanto comprensibile, minava la capacità dei vincitori di imporre i
loro termini per il dopoguerra: sarebbe stata possibile
una nuova mobilitazione in caso di reticenza degli sconfitti a firmare la pace? O per ostacolare l’eventuale avanzata dell’Armata Rossa bolscevica verso il cuore dell’Europa? Interrogativi che rimasero senza risposta soltanto
per mancanza di controprove; non per questo i lavori
della Conferenza furono meno condizionati da una situazione di oggettiva difficoltà dei vincitori che è stata troppo
spesso sottostimata. Un discorso a parte merita la situazione dell’Europa orientale, dove un intervento su vasta
scala per rendere operative le decisioni della Conferenza
era ancora più impensabile. In quei casi i quattro, ammesso e non sempre concesso che i loro progetti collimassero, dovettero supplire alla scarsa presenza diretta con
la speranza che fosse riconosciuta la loro legittimità politica e morale a prendere decisioni per tutti, nonché con
la collaborazione con le forze locali, spesso in conflitto
tra di loro. Tutto questo deve necessariamente condurre
a riconsiderare il tradizionale assunto dell’«Europa prodotta dalla Conferenza di Parigi». In molti e notevoli casi i
quattro dovettero accettare soluzioni già determinate dagli
eventi e cercare di trarne il massimo vantaggio. Valga per
11
tutti l’esempio dell’esplosione dell’Impero austroungarico,
certamente non nei piani iniziali dei futuri vincitori, e la
nascita di nuovi stati che era già un fatto compiuto prima
dell’armistizio. Si dimentica spesso che a Parigi sedevano
già le rappresentanze dalla Cecoslovacchia, dalla Lituania,
dalla Polonia, dal Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (più
tardi Jugoslavia): tutti paesi la cui nuova o rinnovata indipendenza era realtà prima ancora che la Conferenza la
ufficializzasse. Se le grandi potenze si dimostrarono perlopiù favorevoli a tali sviluppi, ciò non significa che in caso
contrario esse avrebbero potuto fare molto più che buon
viso a cattivo gioco. Restava certamente sul terreno, o meglio sulle mappe, la scelta dei criteri in base ai quali definire i nuovi confini: anche in quel caso, mesi di negoziati,
disamine tecniche e discussioni in apposite commissioni
dovettero talvolta cedere il passo al riconoscimento della
realtà di fatto. In questo senso, lungi dal rappresentare un
evento isolato e sospeso nel tempo, la Conferenza visse di
un dialogo continuo con quanto accadeva fuori dalle sue
sedi, dove molte soluzioni presero corpo in virtù dei rapporti di forza più che delle vecchie o nuove regole.
Spesso si è condannata la scarsa propensione dei rappresentanti di Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna, Italia
e Giappone a fare del bene comune il proprio criterio
guida, accantonando i rispettivi interessi particolari. Se
però comprendere la storia non significa istruire improbabili tribunali postumi, quanto piuttosto immedesimarsi nei
panni talvolta sgradevoli delle parti in causa e comprenderne le ragioni, è necessario tener presente alcuni aspetti
oggettivi che impedirono una collaborazione più proficua
tra i vincitori. La guerra era iniziata da ogni parte con la
pericolosa convinzione, inculcata nelle popolazioni dalla
grancassa della propaganda, che essa sarebbe finita presto
e vittoriosamente, portando oltre alla gloria e al prestigio,
oltre all’affermazione di una superiorità morale, culturale e
persino razziale sugli avversari, anche enormi premi materiali. Molte rivendicazioni erano presto diventate bandiere
sotto cui marciare verso il fronte, per dare un senso al sacrificio supremo di alcuni e alle privazioni di molti. Così
era per la liberazione delle «Terre irredente» e il completamento del Risorgimento, proclamati dal presidente del
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Consiglio italiano Antonio Salandra nell’annunciare l’intervento; o della necessità di preservare l’Impero e il primato
sui mari per la Gran Bretagna. Il caso più illuminante era
quello della Francia, che aveva affrontato il conflitto con
l’obiettivo ufficioso ma evidente di recuperare il possesso
dell’Alsazia e della Lorena, cedute al nascente Reich tedesco dopo la disastrosa sconfitta del 1871. Alla fine della
Grande guerra, l’ampiezza dei territori nel nord del paese
martoriati dalle cicatrici delle trincee, dal macabro gioco
delle avanzate e delle ritirate, dagli esperimenti con ogni
genere di armamento all’avanguardia superava di gran
lunga l’estensione delle due regioni da riscattare, e il numero degli abitanti di queste ultime era pari grossomodo
a quello di tutte le vittime patite dalla Francia, militari e
civili. Persino in Gran Bretagna, i cui governanti propendevano per una sorte non troppo severa per la Germania
e per la ricostruzione di un equilibrio continentale privo
di potenze egemoni, le elezioni che ebbero luogo alla vigilia della Conferenza videro gli ambienti governativi fare
campagna sull’onda della promessa di «spremere il limone
tedesco fino a sentirne scricchiolare i semi». Quanto agli
Stati Uniti, il loro sprezzante rifiuto della logica rapace
e spartitoria dei dopoguerra europei non impediva che
la rottura della tradizione di non intervento nel Vecchio
Continente, con tutte le tensioni e i sacrifici che ne erano
conseguiti, rendesse ancora più imperativa la creazione di
un ordine internazionale che si confacesse ai propri desideri e interessi. In ogni angolo del mondo coinvolto nel
conflitto, la crescita dei sacrifici umani e materiali ben
oltre i peggiori timori aveva spinto le promesse dei governanti e le aspettative delle popolazioni a una rincorsa
che sfuggiva al confronto con la realtà. Per tutti i leader
coinvolti nelle trattative, riportare a casa risultati insoddisfacenti per le rispettive popolazioni avrebbe significato quantomeno pregiudicare il proprio futuro politico,
quando non la propria incolumità fisica. Nei casi più
estremi, la frustrazione poteva anche minare la legittimità
degli assetti istituzionali correnti, aprendo spazi imprevedibili al loro superamento violento. Di lì a breve, l’ascesa
del fascismo in Italia avrebbe provato la fondatezza di
quei timori.
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Il lavoro di queste pagine si fonda sull’ampia storiografia riguardante il processo di pace di Parigi, sia nel suo
complesso sia sulle sue tante componenti specifiche. Una
breve selezione di articoli e volumi di riferimento è presente alla fine del volume: si è ritenuto di rimandare il lettore a essa e non al consueto apparato di note per rendere
più scorrevole la lettura di un lavoro che, in definitiva,
non si propone di addurre nuove prove e testimonianze
inedite ma di presentare interpretazioni informate e contestualizzate della Conferenza di pace e del suo significato
storico.
Questo libro non esisterebbe senza il consiglio, l’aiuto
e l’incoraggiamento di Paolo Pombeni, un maestro cui
devo molto sul piano professionale e personale. Essenziali sono stati anche la guida, lo stimolo e i giusti richiami
all’ordine di Ugo Berti della Società editrice il Mulino:
mi auguro di cuore che apprezzi il risultato. Per quanto
sia interamente mia la responsabilità per i contenuti del
volume, desidero ringraziare i tanti amici e colleghi che
hanno voluto condividere con me le loro conoscenze specifiche dei tanti temi che ho affrontato: Duccio Basosi,
Marco Bellabarba, Mauro Campus, Renato Camurri, Maurizio Cau, Laura De Giorgi, Lorenzo Mechi, Marco Mondini, Michael Neiberg, Daniele Pasquinucci, Silvio Pons,
Federico Romero, Leonard Smith, Camilla Tenaglia, Massimiliano Trentin, Antonio Varsori. Chiedo perdono a loro
per aver condensato in modo talvolta brutale i risultati di
dialoghi ben più estesi, e a tutti gli altri che non troveranno il loro nome in questa lista per pura dimenticanza,
non certo per sottovalutazione.
Dedico questo lavoro a Miriam: per tutto ciò che è,
per tutto ciò che siamo.
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