Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
Diritto, Immigrazione e Cittadinanza Fascicolo n. 3/2019 Le istanze di accesso civico come strumento di trasparenza democratica di Marcella Ferri Abstract: Il diritto ad una riparazione e a un risarcimento equo per le vittime di tortura e trattamenti inumani e degradanti è riconosciuto dall’art. 14 della Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura. Tale disposizione ha suscitato un ampio dibattito dottrinale circa la sua idoneità a porre obblighi in capo agli Stati anche in relazione agli atti di tortura commessi fuori dalla propria giurisdizione. Tale questione, focalizzatasi sull’eventuale riconoscimento di un principio di giurisdizione civile universale, ha lasciato in secondo piano la riabilitazione: questa forma di riparazione mira a ripristinare l’autonomia e le capacità fisiche, mentali, sociali e professionali della persona vittima di atti di tortura, al fine di garantirne un pieno reinserimento all’interno della società. Partendo dall’analisi di alcune significative pronunce del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura (General Comment n° 3 (2012), AN v. Switzerland e Adam Harun v. Switzerland) e della Corte di Giustizia dell’Unione Europea (MP c. Secretary of State for the Home Department, C-353/16), questo scritto ha l’obiettivo di evidenziare che la riabilitazione presenta alcune specificità rispetto alle altre forme di riparazione e, per sua natura, deve essere garantita dagli Stati anche in relazione agli atti di tortura commessi al di fuori della propria giurisdizione. Questa specificità della riabilitazione può avere alcune ricadute significative nell’ordinamento italiano, dopo l’abolizione del permesso di soggiorno per motivi umanitari da parte del d.l. 113/2018. Abstract: The right to redress and compensation for victims of torture and inhuman and degrading treatment is recognised by article 14 of the UN Convention against torture. Starting from this provision, a significant debate arose about its applicability to acts of torture committed outside the States’ jurisdiction. Focusing on the issue of universal civil jurisdiction, this debate has not paid a great deal of attention to the rehabilitation: this form of reparation aims to assure the restoration of physical, psychological, social, and professional independence of victims in order to promote their reintegration into society. Starting from some meaningful decisions of the United Nations Committee against torture (General Comment No. 3 (2012), AN v. Switzerland e Adam Harun v. Switzerland) and the Court of Justice of the European Union (MP c. Secretary of State for the Home Department, C-353/16), this paper aims to stress that rehabilitation has certain characteristic features that make it distinct from other forms of reparation: by its nature, it must be guaranteed by States also to persons who have been victims of torture outside their jurisdiction. This conclusion may be particularly relevant in the Italian legal system, after the abrogation of humanitarian residence permits by the Decree-Law 113/2018. © 2017-2019 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza. Tutti i diritti riservati. ISSN 1972-4799 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 di Marcella Ferri* SOMMARIO: 1. Introduzione. – 2. L’applicabilità extraterritoriale dell’articolo 14: la questione della giurisdizione civile universale (cenni). – 3. Il rapporto tra diritto alla riparazione (redress) e diritto al risarcimento (compensation). – 4. La nozione di riabilitazione elaborata dal Comitato contro la tortura nel General Comment n° 3 (2012). – 5. Il riconoscimento del diritto alla riabilitazione come diritto autonomo nella prassi più recente del Comitato. – 6. La rilevanza della riabilitazione ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria: la sentenza MP della Corte di Giustizia dell’Unione Europea. – 7. Osservazioni conclusive: la specificità della riabilitazione come forma di riparazione da garantire anche in relazione agli atti di tortura commessi all’estero. – 8. (segue) e la sua rilevanza nell’ordinamento italiano dopo l’abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari. Come noto, il verificarsi di un illecito internazionale determina il sorgere di un obbligo di riparazione in capo allo Stato autore dell’illecito. Nell’ipotesi in cui questo derivi dalla violazione di una norma di tutela dei diritti umani, è bene operare una distinzione tra gli obblighi esistenti nell’ambito dei rapporti interstatali e quelli tra lo Stato e l’individuo vittima della violazione. Come autorevolmente evidenziato in dottrina, la violazione di norme internazionali in materia di diritti umani non impedisce, infatti, il prodursi di un obbligo interstatale di riparazione in capo allo Stato autore dell’illecito. Se per un verso, il contenuto della norma violata si riflette in alcuni aspetti dell’obbligo di riparazione e in particolare nell’ambito dei diritti umani, l’obbligo di riparazione si caratterizza per avere una portata erga omnes e non limitata al solo Stato leso, d’altra parte, anche in tale materia la riparazione assume le forme tradizionali della restitutio in integrum, del risarcimento del Assegnista di ricerca in Diritto dell’Unione Europea presso il Dipartimento di Scienze Giuridiche dell’Università degli Studi di Firenze. L’Autrice desidera ringraziare le Professoresse Chiara Favilli e Sara De Vido per i preziosi spunti di riflessione forniti nel corso della redazione del lavoro; un ulteriore ringraziamento ai Revisori anonimi per i suggerimenti proposti rispetto ad una precedente versione dello scritto. Eventuali errori e imprecisioni devono, ovviamente, essere attribuiti solo all’Autrice. * 102 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 danno, della soddisfazione e delle garanzie di non ripetizione, definite nel Progetto di articoli sulla responsabilità degli Stati per atti illeciti internazionali1. Per quanto concerne l’obbligo di riparazione dello Stato nei confronti degli individui vittime delle violazioni, le evoluzioni del diritto internazionale contemporaneo hanno consentito alla dottrina di giungere ad affermare l’esistenza di una norma di diritto internazionale consuetudinario che riconosce l’obbligo dello Stato autore della violazione di assicurare all’individuo il diritto ad un’adeguata riparazione 2 e il diritto ad un rimedio interno effettivo3. Giova rimarcare che, come evidenziato da un autorevole Autore, anche qualora si voglia adottare un’interpretazione restrittiva della prassi e dell’opinio iuris degli Stati al riguardo, deve ugualmente riconoscersi l’esistenza di tali obblighi in relazione alle gross violations e alle violazioni di norme di diritto internazionale umanitario e dei diritti umani aventi valore di ius cogens, tra le quali rientra certamente la norma in materia di divieto di tortura4. A quest’ultimo proposito, si ricordi infatti che tale divieto non è disposto solo da norme di diritto pattizio, tra cui in particolare la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, ma anche da norme di diritto consuetudinario imperativo, come in più occasioni affermato dalla giurisprudenza internazionale e, in particolare, dalla sentenza della Corte Internazionale di Giustizia relativa al caso Belgio v. Senegal5. La ricostruzione del contenuto dell’obbligo di riparazione esistente in capo allo Stato in seguito a violazioni di diritti umani risulta evidentemente complessa. Da un lato, occorre tenere conto delle forme tradizionali che la riparazione assume nell’ambito del regime di 1. F. Lattanzi, Garanzie dei diritti dell’uomo nel diritto internazionale generale, Milano, Giuffrè, p. 159 ss.; R. Pisillo Mazzeschi, International Obligations to Provide for Reparation Claims?, in A. Randelzhofer, C. Tomuschat (eds.), State Responsibility and the Individual: Reparation in Instances of Grave Violations of Human Rights, The Hague, Martinus Nijhoff Publishers, 1999, pp. 149-172, in particolare p. 154; Id., La riparazione per violazione dei diritti umani nel diritto internazionale e nella Convenzione europea, in La Comunità Internazionale, n. 53.1998, pp. 215-235; G. Bartolini, Riparazione per violazione dei diritti umani e ordinamento internazionale, Napoli, Jovene Editore, 2009. 2. R. Pisillo Mazzeschi, Il rapporto fra norme di ius cogens e la regola sull’immunità degli Stati: alcune osservazioni critiche sulla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012, in Dir. um. e dir. intern., n. 2.2012, pp. 310-326. Cfr. altresì P. d’Argent, Le droit de la responsabilité international complété ? Examen des principes fondamentaux et directives concernant le droit à un recours et à la réparation des victimes de violations flagrantes du droit international des droits de l’homme et de violations graves du droit international humanitaire, in Annuaire Français de Droit International, n. 51.2005, pp. 27-55. 3. Si tratta di quello che, in altra sede, Pisillo Mazzeschi definisce un obbligo di riparazione “procedurale”; cfr. R. Pisillo Mazzeschi, La riparazione per violazione dei diritti umani nel diritto internazionale e nella Convenzione europea, op. cit., p. 217. 4. R. Pisillo Mazzeschi, Il rapporto fra norme di ius cogens e la regola sull’immunità degli Stati: alcune osservazioni critiche sulla sentenza della Corte internazionale di giustizia del 3 febbraio 2012, op. cit. 5. Corte Internazionale di Giustizia, Questions relating to the Obligation to Prosecute or Extradite (Belgium v. Senegal), Judgment, I.C.J. Reports 2012, par. 99: «the prohibition of torture is part of customary international law and it has become a peremptory norm (jus cogens)». Si vedano altresì, inter alia, Tribunale penale internazionale per l’ex Jugoslavia, The Prosecutor v. Anto Furundzija, 10 december 1998, case n° TI-95-17/1-T. (1999) 38, par. 144; Corte EDU, Al-Adsani v. the United Kingdom, App. No. 35763/97, sentenza 21 novembre 2001, par. 60. 103 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 responsabilità degli Stati per illecito internazionale e, dunque, di quanto delineato nel Progetto di articoli. D’altra parte, è necessario tenere conto della specifica natura della norma internazionale violata e, in particolare, considerare che la riparazione avrà come destinatario l’individuo vittima6. Particolarmente esemplificativi al riguardo sono i Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law adottati dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite nel 20057. Come autorevolmente evidenziato in dottrina, è possibile constatare una «manière d’isomorphisme»8 tra i Principi e il diritto in materia di responsabilità internazionale dello Stato: i Principi, infatti, riprendono in gran parte le categorie enucleate nel Progetto di Articoli, pur tuttavia presentando alcune considerevoli differenze 9 . Nell’ambito di tali differenze, particolarmente significativa è la figura della riabilitazione: i Basic Principles qualificano la riabilitazione come una forma di riparazione, unitamente alla restituzione, all’indennizzo, alla soddisfazione e alle garanzie di non ripetizione, specificando che essa dovrebbe includere «medical and psychological care as well as legal and social services» 10. L’istituto della riabilitazione 11 è oggetto di numerosi richiami nel diritto internazionale dei 6. Al riguardo, cfr. G. Bartolini, op. cit., p. 206. 7. UN General Assembly, Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law, UN Doc. A/RES/60/147, 16 December 2005. 8. P. d’Argent, op. cit., p. 50. 9. Per un’analisi approfondita di tali categorie e delle specificità che esse assumono con riferimento alla riparazione per violazione dei diritti umani, cfr. ancora G. Bartolini, op. cit., p. 207 ss. 10. UN General Assembly, Basic Principles and Guidelines on the Right to a Remedy and Reparation for Victims of Gross Violations of International Human Rights Law and Serious Violations of International Humanitarian Law, cit., par. 21. 11. Per una disamina più completa della riabilitazione nel diritto internazionale, cfr. inter alia REDRESS, Rehabilitation as a form of reparation under international law, London, Redress 2009, redress.org/wpcontent/uploads/2018/01/The-right-to-rehabilitation.pdf; N. Sveaass, Gross human rights violations and reparation under international law: approaching rehabilitation as a form of reparation, in European Journal of Psychotraumatology, n. 1.2013, p. 4 ss.; International Commission of Jurists, The right to a remedy and to reparation for gross human rights violations. A Practitioners Guide, International Commission of Jurists, Geneva, 2018, p. 204 ss. Sulla riparazione a seguito di gravi violazioni dei diritti umani, cfr. tra gli altri D. Shelton, Remedies in International Human Rights Law, Oxford, Oxford University Press, 2005; Id., The right to reparations for acts of torture: what right, what remedies?, in Torture, n. 17.2007, pp. 96-116; M. Nowak, E. McArthur, The United Nations Convention Against Torture: A Commentary, Oxford, Oxford University Press, 2008, p. 452 ss.; S. Pinton, La riparazione dovuta alle vittime di tortura, in S. Pinton, L. Zagato, La tortura nel nuovo millennio, Padova, Cedam, 2010, pp. 95-129; C. Evans, The Right to Reparation in International Law for Victims of Armed Conflict, Cambridge, Cambridge University Press, 2012, in particolare p. 44 ss.; R. Falk, Reparations, International Law, and Global Justice: A New Frontier, in P. de Greiff (eds.), The Handbook of Reparations, Oxford, Oxford University Press, 2008, pp. 478-503; C. Tomuschat, Reparation for Victims of Grave Human Rights Violations, in Tulane Journal of International and Comparative Law, n. 10.2002, pp. 157-184; Id., Reparation in Favour of Individual Victims of Gross Violations of Human Rights and International Humanitarian Law, in M.G. Kohen (eds.), Promoting Justice, Human Rights and Conflict Resolution through International Law. La promotion de la justice, des droits de l’homme et du règlement des conflits par le droit international, Leinden, Nijhoff, 2007, pp. 569-590; H. Rombouts, P. Sardaro, S. Vandeginste, The Right to Reparation for Victims of 104 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 diritti umani12. Al riguardo rilevano in particolare la Convenzione per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata 13, la Convenzione sui diritti delle persone con disabilità14 e la Convenzione contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. Come si approfondirà nel corso della trattazione, in tale contesto la riabilitazione deve intendersi come quel processo olistico volto a ripristinare l’autonomia della vittima e le sue capacità fisiche, mentali, sociali e professionali, al fine di garantirne un pieno reinserimento all’interno della società15. Significativi riferimenti alla riabilitazione compaiono altresì nella prassi dello Human Rights Commitee che, in alcuni General Comments, l’ha annoverata tra le forme di riparazione che gli Stati sono tenuti a garantire a fronte delle violazioni del diritto alla vita 16, del divieto di tortura e di trattamenti inumani e degradanti 17 e, più in generale, di tutti i diritti riconosciuti dal Patto Internazionale sui diritti civili e politici 18. La riabilitazione è Gross and Systematic Violations of Human Rights, in K. De Feyter, S. Parmentier, M. Bossuyt, P. Lemmens (eds.), Out of the Ashes: Reparation for Victims of Gross Human Rights Violations, Intersentia, Antwerp, Oxford, 2005, pp. 345503. 12. La riabilitazione è inoltre annoverata dall’articolo 75 dello Statuto della Corte penale internazionale tra le forme di riparazione che la Corte deve garantire a favore delle vittime o dei loro aventi diritto. 13. Convenzione per la protezione di tutte le persone dalla sparizione forzata, articolo 24, parr. 4 e 5: «Ogni Stato Parte assicura nell’ambito del proprio ordinamento giuridico che le vittime di sparizione forzata abbiano il diritto di ottenere riparazione ed un indennizzo rapido, equo e adeguato. 5. Il diritto di ottenere una riparazione di cui al paragrafo 4 del presente articolo comprende i danni materiali e morali nonché, laddove opportuno, altre forme di riparazione quali: a) restituzione in integro; b) riabilitazione c) soddisfazione, compresa la restituzione della dignità e della reputazione; d) garanzie di non ripetizione». 14. Convenzione sui diritti delle persone con disabilità, articolo 16, par. 4: «Gli Stati Parti prenderanno tutte le misure appropriate per facilitare il recupero fisico, cognitivo e psicologico, la riabilitazione e la reintegrazione sociale delle persone con disabilità che siano vittime di qualsiasi forma di sfruttamento, violenza o maltrattamenti, in particolare attraverso l’offerta di servizi di protezione. Il recupero e la reintegrazione dovranno avere luogo in un ambiente che promuova la salute, il benessere, il rispetto verso sé stessi, la dignità e l’autonomia della persona e che prenda in considerazione le esigenze specifiche legate al genere e all’età». La nozione di riabilitazione è presente altresì in altri Trattati in materia di diritti umani con un significato diverso. Nella Convenzione sulla protezione dei diritti di tutti i lavoratori migranti e dei membri delle loro famiglie (articolo 17, par. 4), essa è richiamata con riferimento ai diritti dei soggetti privati della propria libertà personale per affermare che il trattamento detentivo deve avere la finalità di promuovere la riabilitazione sociale, intesa pertanto in un’ottica di reintegrazione e reinserimento all’interno della comunità; nella Convenzione sui diritti del fanciullo (articolo 24, par. 1; articolo 23, par. 3) e in talune disposizioni della Convenzione sui diritti delle persone con disabilità (articolo 25, par. 1 e articolo 26), la riabilitazione è invece prevista in relazione al diritto alla salute, riferendosi a quel complesso di trattamenti volti a favorire il recupero fisico e psicologi co della persona. 15. Si veda al riguardo D. Shelton, op. cit., pp. 302-303; l’Autrice definisce la riabilitazione come «the process of restoring the individual’s full health and reputation after the trauma of a serious attack on one’s physical or mental integrity, aims to restore what has been lost […] It seeks to achieve maximum physical and psychological fitness». 16. Human Rights Committee, General comment No. 36 (2018) on article 6 of the International Covenant on Civil and Political Rights, on the right to life, UN Doc. CCPR/C/GC/36, par. 28. 17. Human Rights Committee, General comment No. 20 (1992): Article 7 (Prohibition of torture, or other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment), par. 15. 18. Human Rights Committee, General Comment No. 31 (2004), The Nature of the General Legal Obligation Imposed on States Parties to the Covenant, UN Doc. CCPR/C/21/Rev.1/Add. 13, par. 16: «The Committee notes that, where appropriate, reparation can involve restitution, rehabilitation and measures of satisfaction, such as public apologies, 105 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 ampiamente riconosciuta quale forma di riparazione delle violazioni dei diritti umani anche nella giurisprudenza della Corte Inter-americana dei diritti umani che, in molteplici occasioni, ha disposto l’adozione delle misure necessarie a ristabilire la piena riabilitazione della vittima19. Il presente contributo si focalizzerà in particolare sulla riabilitazione prevista dall’articolo 14 della Convenzione delle Nazioni Unite in forza del quale «Each State Party shall ensure in its legal system that the victim of an act of torture obtains redress and has an enforceable right to fair and adequate compensation, including the means for as full rehabilitation as possible»20. Questa disposizione ha trovato ampia applicazione con pressoché esclusivo riferimento all’esperimento di azioni giurisdizionali volte ad ottenere in sede civile il risarcimento dei danni derivanti da atti di tortura. Tale aspetto che, peraltro ha sollevato numerose questioni interpretative con riferimento alla possibilità di enucleare un principio di giurisdizione civile universale in relazione ai crimini di tortura, ha lasciato per lungo tempo in secondo piano la questione della riabilitazione. In tempi recenti, tale istituto ha invece ricevuto una rinnovata attenzione da parte del Comitato contro la tortura (CAT): la riabilitazione è stata al centro di importanti specificazioni nel General Comment n° 3 (2012) 21 sull’articolo 14 e, ben più significativamente, è stata riconosciuta quale oggetto di un diritto autonomo nel parere reso nell’agosto 2018 in relazione al caso AN c. Svizzera. Un importante riferimento alla riabilitazione compare altresì nella sentenza MP, adottata qualche mese prima dalla Corte di Giustizia dell’Unione Europea, in cui i giudici di Lussemburgo hanno attribuito rilevanza public memorials, guarantees of non-repetition and changes in relevant laws and practices, as well as bringing to justice the perpetrators of human rights violations». 19. Cfr. inter alia, Inter-american Court of Human Rights, Case Barrios Altos v. Peru. Reparations and Costs. Judgment of November 30, 2001. Series C No. 87, paras. 42-45; Case of Barrios Family, v. Venezuela. Merits, Reparations and Costs. Judgment of November 24, 2011. Series C No. 238, para. 329; Case of Atala Riffo and Daughters v. Chile. Merits, Reparations and Costs, Judgment of February 24, 2012 Series C No. 232; Case of Contreras et al. v. El Salvador. Merits, reparations and costs. Judgment of August 31, 2011 Series C No. 232, para. 199. Al riguardo cfr. T. Antkowiak, Remedial Approaches to Human Rights Violations: The Inter-American Court of Human Rights and Beyond, in Columbia Journal of Transnational Law, n. 46.2008, pp. 351-419, in particolare p. 375 ss.; G. Donoso, InterAmerican Court of Human Rights’ reparation judgments strengths and challenges for a comprehensive approach, in Revista del Instituto Interamericano de Derechos Humanos, n. 49.2009, pp. 29-68. 20. Nella versione italiana: «Ogni Stato Parte, nel proprio ordinamento giuridico, garantisce alla vittima di un atto di tortura il diritto ad una riparazione e ad un risarcimento equo ed adeguato che comprenda i mezzi necessari ad una riabilitazione la più completa possibile. Se la vittima muore in seguito ad un atto di tortura, gli aventi causa hanno diritto ad un risarcimento. 2. Il presente articolo lascia impregiudicato ogni diritto ad un risarcimento di cui la vittima, o qualsiasi altra persona, gode in virtù delle leggi nazionali». Occorre svolgere qualche precisazione dal punto di vista terminologico: la traduzione italiana della disposizione fa riferimento al diritto alla riparazione (corrispondente all’inglese redress) e al risarcimento (compensation), che deve ricomprendere anche i mezzi per assicurare la riabilitazione (rehabilitation) più completa possibile. 21. CAT, General comment No. 3 (2012), Implementation of article 14 by States parties, UN Doc. CAT/C/GC/3 (2012). 106 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 all’articolo 14 della Convenzione contro la tortura ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della Direttiva qualifiche. Dopo aver brevemente richiamato la dibattuta questione relativa alla possibilità di riconoscere, a partire dall’articolo 14, un principio di giurisdizione civile universale, questo scritto si concentrerà sul rapporto esistente tra il diritto alla riparazione (redress) e il diritto al risarcimento (compensation) e, infine, sullo specifico contenuto che l’istituto della riabilitazione assume nell’ambito delle altre forme di riparazione. L’analisi si concentrerà sulle pronunce rese dal CAT e dalla Corte di Giustizia che, pur costituendo una prassi certamente ancora molto limitata e suscettibile di ulteriori sviluppi, appaiono particolarmente significative poiché concorrono a qualificare la riabilitazione come una forma di riparazione che, per sua natura, determina l’insorgere in capo agli Stati di obblighi anche in relazione agli atti di tortura commessi al di fuori della loro giurisdizione. Come si sottolineerà in sede conclusiva, il riconoscimento di tale diritto può assumere una particolare rilevanza nell’ordinamento italiano in seguito all’abrogazione, disposta dal d.l. 113/2018, del permesso di soggiorno per motivi umanitari. L’interpretazione dell’articolo 14 della Convenzione contro la tortura ha dato adito a un intenso dibattito in relazione all’applicabilità extraterritoriale della disposizione e, in particolare, alla possibilità di riconoscere un principio di giurisdizione civile universale. I dubbi ermeneutici trovano origine nel fatto che l’articolo 14 non contiene alcun riferimento volto a limitarne l’applicabilità ai soli atti di tortura verificatisi all’interno del territorio sottoposto alla giurisdizione dello Stato. Sotto questo profilo, la disposizione si differenza significativamente dall’articolo 5 che, invece, definisce precisamente le condizioni per l’esercizio della giurisdizione penale e, al paragrafo 2, sancisce un principio di giurisdizione universale. I dubbi riguardo all’ambito di applicazione dell’articolo 14 sono oltremodo alimentati dai lavori preparatori della disposizione. La proposta, presentata dai Paesi Bassi, di inserire uno specifico riferimento ai soli atti «committed in any territory under its jurisdiction», inizialmente accettata dal Working Group della Commissione dei diritti umani, fu poi eliminata nella versione finale, senza peraltro che nei lavori preparatori si trovi traccia delle motivazioni all’origine di tale modifica. Rileva altresì al riguardo la riserva formulata dagli Stati Uniti che, in sede di ratifica, dichiararono di limitare la portata della disposizione ai soli atti di tortura posti in essere nel territorio sottoposto alla giurisdizione statunitense. Essa, se da un lato, consente di desumere l’implicita volontà degli altri Stati di non limitare l’applicabilità della disposizione sotto il profilo geografico, d’altra parte sembra alimentare ulteriori dubbi poiché, durante la discussione del progetto di legge di ratifica della 107 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 Convenzione davanti al Senato statunitense, la soppressione del preesistente riferimento ai soli atti commessi sotto la giurisdizione dello Stato, fu attribuita ad un errore 22. La successiva prassi del Comitato al riguardo non è particolarmente copiosa. Rileva innanzitutto al riguardo il parere reso sul caso Marcos Roitman Rosenmann v. Spain (2002)23, relativo ad un cittadino spagnolo di origini cilene vittima di atti di tortura durante il periodo della dittatura di Pinochet. Davanti al CAT, egli lamentava che il governo spagnolo non avesse prestato la diligenza necessaria per completare la procedura di estradizione avviata dalle autorità giudiziarie nei confronti di Pinochet e, in tal modo, avesse violato, tra gli altri, l’articolo 14 della Convenzione contro la tortura. In tale occasione il Comitato ha considerato inammissibile la comunicazione ritenendo che il diritto al risarcimento di cui all’articolo 14 potesse trovare applicazione solo nei confronti dello Stato responsabile degli atti di tortura. Successivamente, con il General Comment n° 3 (2012), specificamente dedicato all’articolo 14 della Convenzione, il Comitato ha esplicitamente affermato che «the application of article 14 is not limited to victims who were harmed in the territory of the State party or by or against nationals of the State party»24. Questa definizione dell’ambito di applicazione della disposizione dal punto di vista territoriale trova giustificazione – ha precisato il Comitato – da un lato, nella ratio dell’articolo 14 da rintracciarsi nella necessità di garantire a tutte le vittime di tortura e di trattamenti crudeli, inumani e degradanti di avere accesso a mezzi di ricorso e ottenere riparazione, dall’altro, nella constatazione del fatto che, talvolta, per le vittime risulta impossibile esercitare i diritti che sono loro riconosciuti dall’articolo 14 nello Stato in cui gli atti sono stati posti in essere25. La questione è stata successivamente affrontata dal Comitato nel parere sul caso Z. v. Australia (2014)26, riguardante un cittadino australiano vittima di atti tortura da parte 22. Summary and Analysis of the Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, in Message from the President of the Unites States transmitting the Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, 20 May 1998, 10th Congress, 2nd Session, Treaty Doc. 100-20. 23. CAT, Marcos Roitman Rosenmann v. Spain, Communication No. 176/2000, U.N. Doc. CAT/C/28/D/176/2000 (2002), par. 6.6. 24. General comment No. 3 (2012), cit., par. 22. 25. CAT, General comment No. 3 (2012), cit., par. 22: «The Committee considers that the application of article 14 is not limited to victims who were harmed in the territory of the State party or by or against nationals of the State party. The Committee has commended the efforts of States parties for providing civil remedies for victims who were subjected to torture or ill-treatment outside their territory. This is particularly important when a victim is unable to exercise the rights guaranteed under article 14 in the territory where the violation took place. Indeed, article 14 requires States parties to ensure that all victims of torture and ill-treatment are able to access remedy and obtain redress». 26. CAT, Z. v. Australia, Communication No. 511/2012, UN Doc. CAT/C/53/D/511/2012. 108 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 delle autorità cinesi. Nella comunicazione presentata al CAT egli lamentò una violazione dell’articolo 14 poiché la domanda risarcitoria, esperita davanti alle Corti australiane nei confronti dell’ex presidente cinese e di altri esponenti del governo cinese, era stata respinta a fronte della necessità di riconoscere a costoro l’immunità dalla giurisdizione delle Corti territoriali. Benché in tale occasione il Comitato abbia dichiarato irricevibile la domanda, negando la propria competenza a conoscere di atti commessi fuori dal territorio dello Stato contro cui era stata presentata la comunicazione, tale decisione non è sufficiente a tacciare la prassi del CAT di incoerenza e contraddizione27. Rileva in questo senso la circostanza che il Comitato, pur giungendo a tale conclusione, abbia richiamato quanto affermato nel General Comment n° 3 (2012) sull’applicabilità dell’articolo 14 anche in relazione a fatti verificatisi fuori dal territorio dello Stato e abbia posto l’accento sulle specifiche circostanze del caso di specie28. Non può infatti essere sottovalutato il fatto che nel caso in esame le Corti australiane avessero negato la propria competenza in ragione della necessità di garantire l’immunità agli agenti di uno Stato estero: il difetto di giurisdizione derivante dal riconoscimento dell’immunità deve, infatti, tenersi distinto dal difetto di giurisdizione territoriale. Occorre d’altra parte riconoscersi che quanto affermato dal CAT nel General Comment n° 3 (2012) non trova riscontro nella prassi degli Stati che si dimostrano tutt’altro che disponibili a dare applicazione al principio della giurisdizione civile universale. Particolarmente importante è al riguardo la chiusura operata, nel noto caso Kiobel, dalla Corte Suprema degli Stati Uniti in relazione all’Alien Tort Statute (ATS) che, per lungo tempo, ha rappresentato «the most spectacular example of the exercise of the extraterritorial jurisdiction in protection of human right»29. Questa normativa federale, risalente al 178930, 27. Questa osservazione sembra emergere nella sentenza della Grande Camera della Corte europea dei diritti umani sul caso Naït-Liman v. Switzerland in cui la Corte ha affermato che nei pareri resi sulle comunicazioni individuali il CAT dimostra «a more reserved attitude towards the geographical scope of Article 14»; cfr. Corte EDU, Naït-Liman v. Switzerland [GC], App. No. 51357/07, 15 March 2018, par. 54; in tal senso si veda in dottrina E. Benvenuti, Quale tutela del diritto di accesso alla giustizia civile per le vittime di gravi violazioni dei diritti umani? Riflessioni a margine della decisione della grande camera della Corte europea nel caso Nait-Liman, in Ordine internazionale e diritti umani, n. 3.2018, pp. 322-332, in particolare p. 326. 28. CAT, Z. v. Australia, cit., par. 6.3: «The Committee recalls its general comment No. 3 (2012) on the implementation of article 14 by States parties, in which it considers that “the application of article 14 is not limited to victims who were harmed in the territory of the State party or by or against nationals of the State party” and that “article 14 requires States parties to ensure that all victims of torture and ill-treatment are able to access remedy and obtain redress”. However, the Committee observes that, in the specific circumstances of this case, the State party is unable to establish jurisdiction over officials of another State for alleged acts committed outside the State party’s territory» (corsivo aggiunto). 29. O. De Schutter, International Human Rights Law. Cases, Materials, Commentary, Cambridge: Cambridge University Press, 2014, p. 195. 30. L’Alien Tort Statute (Judiciary Act of 1789) afferma che «The district courts shall have original jurisdiction of any civil action by an alien for a tort only, committed in violation of the law of nations or a treaty of the United States». 109 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 fu significativamente valorizzata a partire dalla sentenza Filártiga v. Pena Irala31, relativa alle torture subite in Paraguay da alcuni cittadini paraguayani, residenti negli Stati Uniti. La Corte federale di appello per il Secondo distretto riconobbe, in forza dell’ATS, la propria giurisdizione in relazione alla domanda risarcitoria presentata dalle vittime per gli atti di tortura subiti da parte di un ex ufficiale paraguayano che, al momento della presentazione della domanda, si trovava negli Stati Uniti essendovisi trasferito, peraltro illegalmente. Questa sentenza segnò l’inizio di un’ampia giurisprudenza in cui le Corti statunitensi, considerando sufficiente la presenza nel territorio del foro del presunto autore di gravi violazioni dei diritti umani commesse all’estero, si riconoscevano competenti a conoscere le azioni risarcitorie avviate nei loro confronti dalle vittime 32 . L’ATS trovò una rilevante applicazione anche in relazione alle violazioni dei diritti umani commesse fuori dal territorio statunitense da imprese multinazionali che avessero un contatto, anche minimo con gli USA, costituito da un ufficio, una rappresentanza o finanche dallo svolgimento stabile e continuativo delle proprie attività. La giurisprudenza post-Filártiga fu talmente ampia e consolidata da condurre autorevole dottrina a ritenere che la giurisdizione civile universale, quale pendant della giurisdizione penale universale, potesse «considerarsi come avallata dal diritto internazionale generale» 33. Questa significativa giurisprudenza ha conosciuto una paradigmatica battuta di arresto con l’Opinion resa dalla Corte Suprema degli Stati Uniti nel caso Kiobel v. Royal Dutch Petroleum Co.34, relativo alle gravi violazioni dei diritti umani di cui si era resa complice la sussidiaria nigeriana della società anglo-olandese Royal Dutch Petroleum ai danni di alcuni membri delle tribù Ogoni nell’area del delta del Niger. In tale occasione, la Corte ha affermato l’esistenza di una «presumption against extraterritoriality» in relazione all’ATS ed è giunta a concludere che la presenza degli uffici della multinazionale nel territorio statunitense non potesse considerarsi sufficiente a superare tale presunzione. Con una formula tutt’altro che chiara, la Corte ha infatti statuito che «even where the claims touch and concern the territory of the United States, they must do so with sufficient force to displace the presumption against extraterritorial application» 35 e, in tal modo, ha significativamente limitato la portata dell’ATS ai fini dell’esercizio della giurisdizione civile universale36. 31. United States Court of Appeals for the Second Circuit, Filártiga v. Peña-Irala, 630 F.2d 876 (2d Cir. 1980). 32. Cfr. inter alia, US Court of Appeal, D.C. Cir., Tel-Oren v. Libyan Arab Republic, 517 F. Supp. 542 (D.D.C. 1981); United States District Court, D. Massachusetts, Xuncax v. Gramajo and Ortiz v. Gramajo, 886 F. Supp. 162 (D. Ct. Mass. 1995); United States Court of Appeals, Second Circuit, Kadic v. Karadzic, 74 F.3d 377 (2nd Cir. 1996). 33. B. Conforti (a cura di M. Iovane), Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017, p. 219. 34. United States Supreme Court, Kiobel v. Royal Dutch Petroleum Co., 133 S. Ct. 1663 (2013). 35. Ivi, p. 14. 36. La letteratura sull’ATS e sulle implicazioni della pronuncia Kiobel con specifico riferimento alla responsabilità delle multinazionali per violazioni dei diritti umani è estremamente ampia; si vedano, inter alia, N. Boschiero, Corporate 110 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 Estremamente significativa – per l’autorevolezza dell’organo in questione – appare poi la sentenza resa nel 2018 dalla Corte europea dei diritti umani in relazione al noto caso Naït-Liman c. Svizzera37. In tale occasione, la Grande Camera della Corte, confermando a larga maggioranza quanto già affermato due anni prima dalla seconda sezione, ha affermato che il rifiuto dei Tribunali svizzeri di riconoscere la propria competenza giurisdizionale nei confronti di un’azione di risarcimento dei danni subiti all’estero da un cittadino tunisino non costituisce una violazione del diritto di accesso al giudice, riconosciuto dall’articolo 6 della CEDU. La Corte è giunta a tale soluzione ritenendo che né la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, né tantomeno il diritto internazionale consuetudinario impongono agli Stati l’obbligo di riconoscere un principio di giurisdizione civile universale in relazione agli atti di tortura commessi all’estero. Pur addivenendo a tale decisione la Corte, nell’ambito delle sue conclusioni generali, ha tenuto a precisare che quanto statuito nel caso di specie non va in alcun modo ad intaccare «the broad consensus within the international community on the existence of a right for victims of acts of torture to obtain appropriate and effective redress»38 e, in tale prospettiva, ha incoraggiato gli Stati a garantire effettività a tale diritto estendendo la competenza delle proprie Corti ad esaminare le domande risarcitorie presentate in relazione a fatti di tortura commessi al di fuori dei propri territori. La soluzione della Corte sembra quindi porsi in linea con quella prospettata da un’autorevole responsibility in transnational human rights cases. The U.S. Supreme Court decision in Kiobel v. Royal Dutch Petroleum, in Rivista di diritto internazionale privato e processuale, n. 2.2013, pp. 249-292; A. Bonfanti, No Extraterritorial Jurisdiction under the Alien Tort Statute: Which "Forum" for Disputes on Overseas Corporate Human Rights Violations after "Kiobel"? in Dir. um. e dir. intern., n. 2.2013, pp. 379-400; M. Fasciglione, Corporate Liability, Extraterritorial Jurisdiction and the Future of the Alien Tort Claims Act: Some Remarks after “Kiobel”, in Dir. um. e dir. intern., n. 2.2013, pp. 401-435; C. Macchi, Imprese multinazionali, violazioni ambientali e diritti individuali: la sentenza Shell della Corte distrettuale dell’Aja, in Dir. um. e dir. intern., n. 2.2013, pp. 517-524; C. Bright, L’esercizio extraterritoriale della giurisdizione civile con riferimento alle gravi violazioni dei diritti umani da parte delle imprese multinazionali, EUI Working Paper LAW 2015/44, 2015, https://cadmus.eui.eu/bitstream/handle/1814/38188/LAW_2015_44.pdf?sequence=1&isAllowed=y; R. Cadin, Di pirati e multinazionali: l’Alien Tort Statute e la tutela extraterritoriale dei diritti umani da parte della giurisprudenza civile degli Stati Uniti, in Ordine internazionale e diritti umani, n. 4.2018, pp. 435-456; M. M. Porcelluzzi, M. Winkler, C’era una volta “Kiobel”: i giudici americani tornano a pronunciarsi sull'extraterritorialità dell’“Alien Tort Statute”, in Il Diritto del commercio internazionale, n. 3.2015, pp. 892-906. Si veda altresì la posizione di Conforti che, nella più recente versione del manuale, ha rivisto la posizione precedentemente richiamata (v. nota 33) affermando che, alla luce della giurisprudenza Kiobel, il principio di giurisdizione civile universale non trova più riscontro nella prassi; cfr. B. Conforti (a cura di M. Iovane), Diritto internazionale, Napoli, Editoriale Scientifica, 2017, p. 225. 37. Corte EDU, Naït-Liman v. Switzerland [GC], cit.; per un commento su questa sentenza cfr. inter alia E. Benvenuti, op. cit.; R. Pavoni, Giurisdizione civile universale per atti di tortura e diritto di accesso al giudice la sentenza della grande camera della Corte europea dei diritti umani nel caso Naït-Liman, in Riv. dir. intern., n. 3.2018, pp. 888896; M. Buscemi, Atti di tortura commessi all’estero e azioni risarcitorie basate su fori esorbitanti, in Giur. it., n. 1.2019, pp. 71-82; sulla sentenza resa sullo stesso caso dalla seconda sezione della Corte in data 21 giugno 2016, cfr. B. Bonafé, La Corte europea dei diritti dell’uomo e la giurisdizione universale in materia civile, in Riv. dir. intern., n. 4.2016, pp. 1100-1122; C. Ryngaert, From Universal Civil Jurisdiction to Forum of Necessity : Reflections on the Judgment of the European Court of Human Rights in Nait-Liman, in Riv. dir. intern., n. 3.2017, pp. pp. 782-807. 38. Corte EDU, Naït-Liman v. Switzerland [GC], cit., par. 218. 111 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 dottrina, secondo cui l’articolo 14 della Convezione contro la tortura – nonché il diritto internazionale consuetudinario –, pur non sancendo l’obbligo degli Stati di riconoscere la giurisdizione civile universale in relazione agli atti di tortura, non pone un divieto in tal senso39. Gli obblighi che la Convenzione pone in capo agli Stati parte della Convenzione a seguito della violazione del divieto di tortura sono definiti dagli articoli 12, 13 e 14. Essi sanciscono, rispettivamente, l’obbligo di avviare un’indagine immediata e imparziale, l’obbligo di assicurare ad ogni persona, che affermi di essere stata sottoposta a tortura, il diritto di sporgere denuncia e, infine, il diritto alla riparazione e al risarcimento. È opportuno soffermarsi sul legame esistente tra queste disposizioni e su quanto affermato al riguardo dal Comitato in alcuni pareri resi su comunicazioni individuali. Esso ha in più occasioni riconosciuto che l’inefficacia delle indagini, tale da impedire di ricostruire la natura e le circostanze degli atti di tortura verificatisi e di individuare i responsabili, oltre a determinare una violazione dell’obbligo di cui all’articolo 12, implica altresì una violazione del diritto, sancito all’articolo 13, di presentare una denuncia al fine di avviare un esame immediato e imparziale. Appare particolarmente significativo evidenziare quanto emerge dalla prassi del Comitato circa il legame tra l’inefficacia delle indagini, cui consegue il mancato adempimento degli obblighi posti dagli articoli 12 e 13, e la violazione dell’articolo 14. Tale connessione emerge, infatti, solo parzialmente: se da un lato l’assenza di un’indagine effettiva preclude altresì l’avvio della procedura giudiziaria necessaria per ottenere il diritto al risarcimento del danno subito, d’altra parte, il Comitato in più di un’occasione ha evidenziato che l’articolo 14 va oltre il “mero” diritto al risarcimento, poiché riconosce un più ampio diritto ad una riparazione. Tale aspetto emerge chiaramente laddove il CAT ha riconosciuto il diritto alla riparazione come un diritto autonomo che prescinde dal risarcimento eventualmente già corrisposto dallo Stato. Particolarmente significativo al riguardo quanto affermato nel parere sul caso Kepa Urra Guridi v. Spain, relativo ad un cittadino spagnolo vittima di atti 39. Cfr. tra gli altri M. Nowak, E. McArthur, op. cit., p. 492 ss.; A. Byrnes, Civil Remedies for Torture Committed Abroad: An Obligation under the Convention Against Torture?, in C. Scott (ed.), Torture as Tort, Oxford, Hart, 2001, pp. 537 ss; K. Parlett, Universal Civil Jurisdiction for Torture, in European Human Rights Law Review, n. 5.2007, pp. 921937; S. Yee, Universal Jurisdiction: Concept, Logic, and Reality, in Chinese Journal of International Law, n. 10.2011, pp. 503-530, in particolare p. 527. Tra gli Autori che invece sostengono la pacifica applicabilità dell’articolo 14 della Convenzione contro la tortura anche agli atti di tortura commessi all’estero, cfr. C.K. Hall, The Duty of States Parties to the Convention against Torture to Provide Procedures Permitting Victims to Recover Reparations for Torture Committed Abroad, in European Journal of International Law, n. 5.2007, pp. 921-937; A. Orakhelashvili, State Immunity and Hierarchy of Norms: Why the House of Lords Got It Wrong, in The European Journal of International Law, n. 5.2008, pp. 955-970, in particolare pp. 960 ss. 112 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 di tortura da parte di agenti della Guardia Civil che erano stati poi condannati ad una pena detentiva e al pagamento di un risarcimento. Urra Guridi lamentò davanti al Comitato una violazione dell’articolo 14 poiché la grazia successivamente concessa ai poliziotti, consentendo loro di non scontare la pena detentiva, equivaleva ad una negazione dei fatti e delle sofferenze da egli subite. Il dato significativo è rappresentato dal fatto che, nonostante il risarcimento già corrisposto alla vittima, il Comitato ha riconosciuto una violazione dell’articolo 14, affermando che «the State party indicates that the complainant received the full amount of compensation ordered by the trial court and claims that the Convention has therefore not been violated. However, article 14 of the Convention not only recognizes the right to fair and adequate compensation but also imposes on States the duty to guarantee compensation for the victim of an act of torture. The Committee considers that compensation should cover all the damages suffered by the victim, which includes, among other measures, restitution, compensation, and rehabilitation of the victim, as well as measures to guarantee the non-repetition of the violations, always bearing in mind the circumstances of each case. The Committee concludes that there has been a violation of article 14, paragraph 1, of the Convention»40. Come emerge dal passaggio citato, il diritto al risarcimento (compensation) costituisce solo uno degli elementi che compongono il più ampio diritto alla riparazione (redress). Tale principio è stato altresì affermato dal Comitato con specifico riferimento al mancato riconoscimento di quelle misure necessarie a garantire un’adeguata riabilitazione alle vittime di tortura41. A ben vedere, infatti, la riabilitazione è l’istituto in relazione al quale si coglie maggiormente l’autonomia esistente tra il diritto al risarcimento e quello alla riparazione: 40. CAT, Kepa Urra Guridi v. Spain, Communication No. 212/2002, U.N. Doc. CAT/C/34/D/212/2002 (2005), par. 6.8 (corsivo aggiunto). 41. CAT, Jean Ndagijimana v. Burundi, Communication No. 496/2012, U.N. Doc. CAT/C/62/D/496/2012 (2018), par. 8.7: «The Committee recalls that article 14 of the Convention not only recognizes the right to fair and adequate compensation but also requires States parties to ensure that the victim of an act of torture obtains redress. Redress should cover all the harm suffered by the victim. It encompasses, among other measures, restitution, compensation and guarantees of non-repetition, while taking into account the circumstances of each case. In this case, the Committee has noted the complainant’s claim that he is experiencing the consequences – back trouble, for instance, and the loss of physical capacity – of the treatment he suffered. He has nonetheless not benefited from any treatment or rehabilitation measures»; Rached Jaïdane v. Tunisia, Communication No. 654/2015, U.N. Doc. CAT/C/61/D/654/2015 (2017), par. 7.12: «The Committee further notes that the victim has not benefited from any rehabilitation measure for the severe physical and psychological after-effects that he continues to suffer and that have been categorically attested by medical examinations. The Committee therefore considers that the complainant has been denied his right to redress and compensation under article 14 of the Convention»; Kabura v. Burundi, Communication No. 549/2013, UN Doc. CAT/C/59/D/549/2013 (2017), par. 7.6; Ennaâma Asfari v. Morocco, Communication No. 606/2014, UN Doc. CAT/C/59/D/606/2014 (2017), par. 13.6; Niyonzima v. Burundi, Communication No. 514/2012, UN Doc. CAT/C/53/D/514/2012 (2015), par. 8.6. 113 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 tale aspetto emerge in modo particolarmente significativo dall’analisi di quanto affermato dal Comitato nel General Comment n° 3 (2012). L’articolo 14 è stato oggetto di uno dei pochissimi General Comment adottati dal CAT e, in particolare, del già richiamato General Comment n° 3 (2012)42. Il Comitato in tale occasione ha affermato che l’obbligo degli Stati di garantire riparazione alle vittime di tortura si caratterizza per una duplice natura: sostanziale e procedurale. Sotto il profilo sostanziale, la riparazione (redress) può assumere cinque forme: la restituzione, l’indennizzo, la riabilitazione, la soddisfazione e il diritto alla verità e, infine, le garanzie di non ripetizione. Per quanto riguarda specificatamente la riabilitazione, essa è definita come «the restoration of function or the acquisition of new skills required as a result of the changed circumstances of a victim in the aftermath of torture or ill-treatment»43. La riabilitazione deve intendersi secondo un approccio olistico e interdisciplinare tale da ricomprendere non solo un trattamento medico, fisico e psicologico, ma anche un sostegno 42. Per un’analisi sul General Comment n° 3(2012), cfr. C. Grossman, O. Amezcua, Panel II: The Role of the Committee against Torture in Providing Full and Adequate Reparation to Victims, in Human Rights Brief, n. 4.2013, pp. 19-23. Gli altri due General Comments riguardano l’articolo 2 relativo all’obbligo degli Stati di adottare i provvedimenti necessari a impedire il compimento di atti di tortura nel territorio sottoposto alla loro giurisdizione (General Comment No. 2, Implementation of article 2 by States parties, UN Doc. CAT/C/GC/2) e l’articolo 3 relativo al principio di non-refoulement in relazione alla presentazione di comunicazioni individuali davanti al Comitato ai sensi dell’articolo 22 della Convenzione (General comment No. 4 (2017) on the implementation of article 3 of the Convention in the context of article 22, UN Doc. CAT/C/GC/4). La circostanza che il Comitato abbia adottato solo tre General Comments e che uno di questi riguardi proprio l’articolo 14 costituisce un’ulteriore conferma dell’importanza di tale disposizione. L’importanza della disposizione trova conferma in quanto affermato da alcuni Stati a fronte della dichiarazione presentata dal Bangladesh il quale, in sede di adesione alla Convenzione, ha dichiarato di applicare l’articolo 14 conformemente alla legislazione nazionale (United Nations Treaty Collection, UN Convention against Torture and Other Cruel, Inhuman or Degrading Treatment or Punishment, Declarations and Reservations, Bangladesh: «The Government of the People’s Republic of Bangladesh will apply article 14 para 1 in consonance with the existing laws and legislation in the country», https://treaties.un.org/Pages/ViewDetails.aspx?src=TREATY&mtdsg_no=IV-9&chapter=4&clang=_en#EndDec). Alcuni Stati e, in particolare Germania, Paesi Bassi, Francia, Spagna, Svezia, hanno evidenziato che la dichiarazione dovesse considerarsi dal punto di vista sostanziale una riserva e, ponendo l’accento sulla natura generale della riserva, hanno obiettato che essa fosse incompatibile con l’oggetto e lo scopo della Convenzione; pur non rilevando l’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo della Convenzione, un’obiezione di analogo tenore è stata sollevata dalla Finlandia. Il richiamo, operato dagli Stati obiettanti, all’incompatibilità con l’oggetto e lo scopo è espressione dell’importanza riconosciuta all’articolo 14; tale elemento emerge peraltro esplicitamente dalle dichiarazioni rese al riguardo dalla Francia e dalla Spagna, i quali hanno sottolineato che le disposizioni relative al diritto delle vittime degli atti di tortura di ottenere riparazione e risarcimento hanno natura essenziale per assicurare la concreta implementazione degli obblighi derivanti in capo agli Stati dalla Convenzione. 43. CAT, General comment No. 3 (2012), cit., par. 11. 114 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 legale e un programma di formazione professionale e reinserimento sociale e, in generale, tutti quegli interventi che risultino necessari per ripristinare, per quanto possibile, l’autonomia e l’indipendenza del soggetto, le sue funzionalità e capacità fisiche, mentali, sociali e professionali e per promuoverne una piena reintegrazione e partecipazione all’interno della società. Come specificato dal Comitato, l’obbligo degli Stati di garantire la riabilitazione non può dipendere dalle risorse in essi disponibili e non può essere differita nel tempo. Al contrario, «[i]n order to fulfil its obligations to provide a victim of torture or ill-treatment with the means for as full rehabilitation as possible, each State party should adopt a long-term, integrated approach and ensure that specialist services for victims of torture or ill-treatment are available, appropriate and readily accessible»44. Le vittime devono poter accedere il prima possibile ai programmi di riabilitazione che devono essere modulati e formulati tenendo conto delle specifiche caratteristiche della vittima, dei suoi bisogni, della sua capacità di resilienza, nonché della sua cultura e identità. Come precisato dal Comitato, peraltro, l’obbligo di riabilitazione deve essere distinto dall’obbligo di garantire, immediatamente dopo il verificarsi degli atti di tortura i servizi medici e psico-sociali necessari alle vittime: quest’ultimo obbligo, infatti, non esaurisce l’obbligo di riabilitazione e, d’altra parte, l’obbligo di riparazione si configura come autonomo e distinto rispetto ad esso. Appare infine particolarmente significativo sottolineare che, se da un lato, l’articolo 14 implica l’obbligo degli Stati di mettere a disposizione i rimedi giurisdizionali necessari a ottenere un’adeguata riparazione, d’altra parte, tali rimedi hanno sia natura giurisdizionale che non giurisdizionale; tale elemento trova particolare rilevanza proprio con riferimento alla riabilitazione poiché, come esplicitamente affermato dal Comitato, l’accesso ai programmi di riabilitazione prescinde dall’esperimento di azioni giurisdizionali. Alla luce dell’analisi qui svolta, appare particolarmente significativo evidenziare quanto affermato dal CAT nello specificare gli obblighi procedurali connessi alla riparazione che gli Stati devono garantire alle vittime ai sensi dell’articolo 14. Si è già avuto modo di ricordare che, nel General Comment, il Comitato ha chiaramente definito l’ambito di applicazione di tale disposizione, specificando che essa non deve ritenersi limitata a coloro che sono stati oggetto di atti di tortura all’interno del territorio degli Stati parte o commessi da o nei confronti di cittadini degli Stati parte. Un altro aspetto fortemente evidenziato fin dalle prime battute del Comment è quello secondo cui la disposizione deve applicarsi a tutte le vittime di tortura e trattamenti inumani e degradanti, senza alcuna discriminazione, a 44. Ibi, par. 13. 115 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 prescindere dalla loro identità e dall’appartenenza a gruppi vulnerabili e pertanto – come peraltro esplicitamente precisato dal Comitato – anche ai richiedenti asilo e ai rifugiati. Al riguardo, giova altresì rimarcare che in numerose Concluding Observations, adottate dal Comitato in relazione ai rapporti periodici presentati dagli Stati riguardo all’implementazione delle disposizioni della Convenzione, esso ha raccomandato l’adozione delle misure necessarie a garantire che i rifugiati e i richiedenti asilo, che siano stati vittime di tortura, abbiano accesso ad adeguati programmi di riabilitazione 45. A questo proposito, un altro interessante riferimento alla riabilitazione compare nel Rapporto presentato nel 2010 dallo Special Rapporteur sulla tortura che ha avuto specificamente ad oggetto i centri di riabilitazione per le vittime di tortura e il ruolo fondamentale da essi svolto per cercare di far fronte alle conseguenze psicologiche, oltre che fisiche, che gli atti di tortura lasciano, in modo spesso duraturo e drammatico, sulle vittime 46 . Nell’esprimere la propria preoccupazione per le difficoltà finanziarie di cui tali centri soffrono a causa delle limitate risorse ad essi garantite dagli Stati, lo Special Rapporteur ha posto l’accento sul ruolo cruciale di tali centri per garantire sostegno medico e psicologico ai rifugiati che sono stati vittime di tortura47. Come già richiamato la riabilitazione ha trovato significativo riconoscimento nel parere reso dal CAT nell’agosto 2018 sul caso AN c. Svizzera48. Esso riguardava un cittadino eritreo che, accusato di aver aiutato un proprio conoscente a lasciare illegalmente il Paese, 45. Cfr. inter alia Concluding Observations Sud Africa, CAT/C/ZAF/CO/2 (2019), par. 37, lett. h); Germania, CAT/C/DEU/CO/5 (2011), par. 15, lett. b); Croazia, CAT/C/HRV/CO/4-5 (2014), par. 15, lett. c); Stati Uniti d’America, CAT/C/USA/CO/3-5 (2014), par. 29; Australia, CAT/C/AUS/CO/4-5 (2014), par. 18, lett. b); Serbia, CAT/C/SRB/CO/2 (2015), par. 13; Francia, CAT/C/FRA/CO/7 (2016), parr. 38-39; Finlandia, CAT/C/FIN/CO/7 (2017), par. 13, lett. d); Irlanda, CAT/C/IRL/CO/2 (2017), par. 12, lett. c). Particolarmente esemplificativo quanto affermato nelle Concluding Observations adottate in relazione al Rapporto presentato da Israele, in cui il CAT ha affermato di essere «concerned that the measures taken by the State party do not seem to fully ensure the effective identification of victims of torture among asylum seekers and to guarantee that they receive adequate State-sponsored holistic rehabilitation support and free legal aid when they do not qualify as victims of trafficking (arts. 2, 3, 14 and 16)», cfr. Israele, CAT/C/ISR/CO/5 (2016), par. 46. 46. Special Rapporteur on torture and other cruel, inhuman or degrading treatment or punishment, Interim report, UN Doc. A/65/273 (2010), par. 63. 47. Ivi, par. 73: «Rehabilitation centres within the EU assume a crucial role in providing services to thousands of individuals who have had to flee their home countries and seek refuge after experiencing war, persecution and torture. […] The availability in those States of well-functioning rehabilitation centres where many refugees can open up and receive medical treatment for the first time is essential and their value cannot be overestimated». 48. CAT, A.N. v. Svizzera, UN Doc. CAT/C/64/D/742/2016 (2018); per un primo commento riguardo a tale decisione, cfr. L. Della Torre, Comitato ONU contro la tortura e rinvii “Dublino” dalla Svizzera verso l’Italia, in Dir. um. e dir. intern., n. 1.2019, pp. 226-230. 116 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 fu arrestato e detenuto per cinque anni in condizioni disumane: sottoposto a continue minacce, violenze verbali e torture fisiche. Una volta rilasciato, riuscì finalmente a lasciare il Paese e a raggiungere, attraverso il deserto, la Libia dove fu rapito da un gruppo di trafficanti e soggetto a ulteriori maltrattamenti. Raggiunte le coste italiane a bordo di un’imbarcazione di fortuna, dopo pochi giorni scappò in Svizzera e qui presentò domanda di asilo. A fronte della decisione della Segreteria di Stato per la Migrazione di trasferire il richiedente in Italia, in forza del c.d. Regolamento di Dublino III 49, egli presentò ricorso davanti al Tribunale Amministrativo Federale facendo valere le conseguenze derivanti da un suo trasferimento in Italia. AN non si limitò a richiamare le carenze del sistema italiano di accoglienza dei richiedenti asilo, ma fece altresì valere che, accusando i sintomi tipici di un disturbo da stress post traumatico, fin dal suo ingresso in Svizzera aveva intrapreso un percorso di recupero presso la clinica specializzata in trattamento dei traumi per le vittime di guerra e tortura dell’ospedale universitario di Ginevra. Come certificato nel rapporto medico presentato dal richiedente, il trasferimento in Italia avrebbe compromesso il trattamento da lui avviato, determinando il rischio di un serio aggravamento delle sue condizioni psicologiche. Inoltre, l’allontanamento dalla Svizzera avrebbe comportato la separazione del richiedente dal fratello, il cui supporto morale e la cui vicinanza erano riconosciuti dai medici svolgere un ruolo fondamentale per il buon esito del trattamento psicologico cui era sottoposto. A fronte della decisione di manifesta infondatezza del Tribunale Amministrativo Federale, egli fu trasferito in Italia dove tuttavia non ricevette alcuna informazione riguardo alla procedura di asilo e nessuna assistenza, tanto che dopo soli due giorni, fuggì nuovamente in Svizzera e ivi presentò una nuova domanda di asilo. La Segreteria di Stato per la Migrazione, dopo aver presentato alle autorità italiane una richiesta di presa in carico del richiedente, ne dispose il trasferimento. L’esecuzione della decisione fu tuttavia sospesa a seguito della richiesta di misure provvisorie presentata dal richiedente nell’ambito della procedura nel frattempo avviata davanti al CAT. Nella sua comunicazione davanti al Comitato, il richiedente affermava che il trasferimento verso l’Italia avrebbe comportato una violazione degli articoli 3 (principio di non-refoulement), 14 (diritto alla riparazione) e 16 (divieto di trattamenti crudeli, inumani o degradanti) della Convenzione contro la tortura. In primo luogo, richiamando i dati dell’Asylum Information Database, i Rapporti di alcune ONG, nonché quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza Tarakhel c. Svizzera 50 , AN asseriva che, a seguito dell’elevato numero di rifugiati giunti in Italia, le autorità italiane non sarebbero state in 49. Regolamento (UE) n. 604/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio, del 26 giugno 2013, che stabilisce i criteri e i meccanismi di determinazione dello Stato membro competente per l’esame di una domanda di protezione internazionale presentata in uno degli Stati membri da un cittadino di un Paese terzo o da un apolide. 50. Corte EDU, Tarakhel v. Switzerland, App. No. 29217/12, 4 November 2014. 117 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 grado di garantirgli accesso all’alloggio, alle cure mediche e alle procedure per la presentazione della domanda di asilo. Tale situazione avrebbe costretto il richiedente alla necessità di cercare protezione altrove, esponendolo al rischio di essere soggetto ad una serie di respingimenti fino al suo Paese di origine, in violazione dell’articolo 3 della Convenzione. In secondo luogo, il richiedente sosteneva che, in considerazione dell’impossibilità di beneficiare di cure adeguate a fronte del grave disturbo psicologico da cui era affetto, il suo trasferimento in Italia avrebbe configurato un trattamento crudele, inumano e degradante, determinando una violazione degli articoli 16 e 3 della Convenzione. Il dato interessante è rappresentato dalle argomentazioni presentate dal richiedente per sostenere che il trasferimento in Italia avrebbe altresì determinato una violazione dell’articolo 14. In relazione a tale diritto, AN non richiamava esclusivamente la violazione del diritto ad un ricorso effettivo nell’ambito della procedura di riconoscimento della protezione internazionale, ma altresì la violazione del diritto alla riabilitazione. Egli affermava, infatti, che il trasferimento in Italia, privandolo del supporto offertogli dal fratello e impedendogli di continuare ad avere accesso ad un trattamento medico specializzato, avrebbe potuto avere effetti traumatici sulla sua salute psichica, privandolo del diritto alla riabilitazione, riconosciuto dall’articolo 14 della Convenzione alle vittime di tortura. Stante il carattere innovativo di tale richiamo, il contraddittorio tra lo Stato e l’autore della comunicazione è stato incentrato, oltre che sulle condizioni garantite dal sistema italiano di accoglienza dei rifugiati, sulla possibilità di invocare l’articolo 14. In particolare, lo Stato convenuto contestava che, in relazione a tale disposizione, la comunicazione fosse ammissibile ratione materiae 51 , asserendo che l’obbligo di riparazione da essa sancito sussista esclusivamente in capo allo Stato all’interno del cui territorio siano stati commessi atti di tortura o i cui cittadini siano stati vittime o autori di tali atti. Ad avviso del governo svizzero, benché né l’articolo 14 né il General Comment n° 3 (2012) escludano la possibilità degli Stati di assicurare la riabilitazione alle vittime, queste non possono ritenersi titolari del diritto di scegliere lo Stato in cui ottenere uno specifico trattamento 52. A fronte di tali obiezioni, AN ribatteva che il governo svizzero non aveva dato esecuzione all’obbligo di cooperazione da esso stesso richiamato: le autorità svizzere infatti si erano limitate a informare quelle italiane delle condizioni di salute del richiedente, ma non avevano richiesto 51. Lo Stato convenuto affermava l’inammissibilità ratione materiae della comunicazione anche in relazione all’articolo 16 (divieto di trattamenti inumani e degradanti); in tale sede ci si limiterà tuttavia ad analizzare i profili riguardanti l’articolo 14. 52. Lo Stato convenuto contestava la fondatezza della comunicazione in relazione all’articolo 14 anche sotto il profilo sostanziale, asserendo che il richiedente non si trovasse in una condizione di particolare vulnerabilità e che non vi fosse ragione di ritenere che in Italia egli non avrebbe potuto beneficiare di un trattamento analogo a quello di cui fruiva in Svizzera. 118 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 alcuna rassicurazione circa il trattamento che gli sarebbe stato assicurato. Per quanto concerne l’applicabilità geografica dell’articolo 14, l’autore della comunicazione evidenziava che solo gli obblighi di riparazione (redress) e risarcimento (compensation) sussistono in capo allo Stato nel cui territorio sono stati commessi gli atti di tortura; al contrario, il diritto alla riabilitazione non soffre di alcuna limitazione geografica. Tale conclusione si fonda sul principio, sancito nel General Comment n° 3 (2012), secondo cui l’obbligo degli Stati di garantire le misure di riabilitazione non può essere in alcun modo differito e, conseguentemente, deve essere attuato in modo che le vittime di tortura abbiano accesso alla riabilitazione più completa disponibile. Da ultimo, AN evidenziava la contraddittorietà insita nell’argomentazione del governo: qualora la tesi della limitazione geografica del diritto alla riabilitazione fosse stata fondata, infatti, l’articolo 14 non avrebbe determinato alcun obbligo neppure in capo all’Italia. L’argomentazione di AN è stata accolta dal Comitato che nella propria decisione ha respinto l’obiezione di inammissibilità ratione materiae presentata dallo Stato. Appare significativo evidenziare che il CAT non si sia limitato a richiamare – ed evidentemente a fare propria – l’argomentazione dell’autore della comunicazione, ma abbia affermato che «the obligations of States parties towards the rehabilitation of victims of torture require them to ensure that their legal systems allow for such protection in situations in which, under some circumstances, deportation to another State party may raise questions under article 16. Accordingly, the Committee finds the complainant’s allegations under articles 14 and 16 admissible ratione materiae»53. In tal modo il Comitato ha fatto espresso riferimento agli obblighi degli Stati di garantire la riabilitazione delle vittime di atti di tortura, a prescindere dal luogo in cui questi siano stati commessi. Per quanto concerne il merito della decisione, il Comitato ha riconosciuto che il trasferimento verso l’Italia avrebbe comportato una violazione della Convenzione sotto un duplice profilo. In primo luogo, la situazione in cui il richiedente si sarebbe trovato a vivere in Italia, unitamente al mancato sostegno offertogli dal fratello, avrebbe comportato un aggravamento delle sue condizioni di salute tale da esporlo al rischio di suicidio; poiché il maltrattamento cui egli sarebbe stato sottoposto avrebbe pertanto raggiunto un livello paragonabile alla tortura, il CAT è giunto alla conclusione che il trasferimento in Italia avrebbe comportato una violazione del principio di non-refoulement. In secondo luogo, il Comitato ha attribuito particolare rilevanza al fatto che le autorità svizzere, in occasione del primo trasferimento, si erano limitate ad informare le autorità 53. CAT, A.N. v. Svizzera, par. 7.3. 119 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 italiane delle condizioni di salute del richiedente, senza tuttavia specificare che questi era stato vittima di tortura e senza richiedere alcuna assicurazione circa il trattamento cui egli avrebbe potuto accedere. Il secondo trasferimento era stato addirittura disposto senza neppure inserire nel modulo di richiesta di presa in carico alcuna informazione riguardo alle condizioni di salute del richiedente e ai suoi specifici bisogni. In considerazione di ciò, il Comitato ha affermato che le autorità svizzere avrebbero dovuto procedere ad una valutazione individualizzata circa il rischio «reale e personale» cui il richiedente sarebbe andato incontro a seguito del trasferimento in Italia e non basare invece la propria decisione sul presupposto che egli non si trovasse in una condizione di particolare vulnerabilità e avrebbe potuto fruire, anche in Italia, di un adeguato trattamento. L’elemento significativo è rappresentato dal fatto che il Comitato ha individuato esplicitamente nel diritto alla riabilitazione l’oggetto della valutazione da operare e delle assicurazioni da ottenere da parte delle autorità dello Stato destinatario del trasferimento. «Against this background, the Committee considers that the State party should have ascertained whether appropriate rehabilitation services in Italy were actually available and accessible to the complainant in order to satisfy his right to rehabilitation as a victim of torture, and to seek assurances from the Italian authorities to ensure that the complainant would have immediate and continuing access to such treatments until such time as he no longer needed them» 54. Alla luce di tali considerazioni, il Comitato è giunto alla conclusione che lo Stato non abbia svolto una valutazione sufficientemente adeguata e individualizzata circa le conseguenze cui il richiedente, alla luce delle sue condizioni personali, sarebbe stato esposto a seguito del trasferimento e ciò ha determinato una duplice violazione. «The Committee therefore considers that, by deporting the complainant to Italy, the State party would deprive him of his right to rehabilitation, and that this situation would by itself amount, in the circumstances of the complainant, to ill-treatment. Accordingly, forcibly returning the complainant to Italy would constitute a breach of articles 14 and 16 of the Convention» 55. Come emerge dal passaggio citato, il CAT ha ritenuto che il trasferimento avrebbe privato il richiedente del diritto alla riabilitazione e tale privazione avrebbe a sua volta determinato, stante le particolari condizioni del richiedente, un trattamento disumano e degradante. Le conclusioni cui è prevenuto il Comitato in tale parere appaiono estremamente significative per un duplice ordine di ragioni. In primo luogo, il diritto alla riabilitazione è 54. Ibi, par. 8.8. (corsivo aggiunto). 55. Ibidem (corsivo aggiunto). 120 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 riconosciuto nella sua dignità di diritto autonomo che deve rientrare a pieno titolo nella valutazione svolta dalle autorità di uno Stato quando dispongono il trasferimento verso un altro Stato membro dell’Unione europea ai sensi del Regolamento Dublino III. In secondo luogo, appare particolarmente importante quanto affermato dal Comitato in relazione alle violazioni esistenti qualora le autorità non svolgano tale valutazione: da un lato, si configura una violazione del diritto alla riabilitazione di per sé considerato; d’altra parte, in talune circostanze – quali quelle esistenti nel caso di specie – il mancato riconoscimento di tale diritto può determinare altresì un trattamento disumano e degradante. Pochi mesi dopo la decisione sul caso AN, il CAT ha adottato un parere su un caso simile, giungendo invece a una soluzione di segno parzialmente diverso. Si tratta del caso Adam Harun c. Svizzera 56 relativo ad un cittadino etiope che, imprigionato per ragioni politiche, era stato vittima di gravi atti di tortura. Temporaneamente rilasciato a causa delle sue gravi condizioni di salute, riuscì a raggiungere la Libia e successivamente l’Italia dove ottenne lo status di rifugiato. Costretto a lasciare la comunità di accoglienza in cui era ospitato e a vivere per strada per alcuni mesi, decise di fuggire in Norvegia, dove presentò una nuova domanda di asilo. Le autorità norvegesi domandarono all’Italia di prendersi carico del richiedente e ne disposero quindi il trasferimento, assicurandogli che egli avrebbe avuto tutta l’assistenza sociale e medica necessaria. Al contrario, al suo arrivo in Italia gli fu negata qualsiasi possibilità di cura e di alloggio e gli furono ritirati i documenti, tanto che Adam Harun decise di fuggire in Svizzera e qui presentò una nuova domanda di asilo. In considerazione del fatto che egli aveva già ottenuto lo status di rifugiato in Italia, l’Ufficio Federale delle Migrazioni chiese a quelle italiane la sua riammissione in forza dell’Accordo europeo sul trasferimento della responsabilità relativa ai rifugiati. Adam Harun presentò un rapporto medico in cui si attestava che, poco dopo il suo ingresso in Svizzera, egli aveva iniziato ad essere seguito da un medico, instaurando una forte relazione terapeutica con lui che sarebbe venuta meno a seguito di un suo rinvio in Italia, aggravando ulteriormente lo stato di grave depressione da cui egli era affetto. Nonostante ciò, l’Ufficio Federale delle Migrazioni, con una decisione successivamente confermata dal Tribunale Amministrativo Federale, dispose il rinvio in Italia, ritenendo che qui egli avrebbe potuto ottenere le cure adeguate al suo stato di salute. Analogamente al caso AN, anche in questo caso l’autore della comunicazione lamentava davanti al CAT che il suo trasferimento avrebbe determinato una violazione del principio di non-refoulement (articolo 3), del divieto di trattamenti crudeli, inumani e degradanti (articolo 16), ma anche del suo diritto alla riabilitazione (articolo 14), in considerazione del fatto che il venir meno della relazione terapeutica con il suo medico, a seguito del rinvio in 56. Adam Harun, UN Doc. CAT/C/65/D/758/2016 (2018). 121 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 Italia, avrebbe potuto essergli fatale. A differenza del parere precedentemente esaminato, in tale occasione il Comitato ha ritenuto che Adam Harun non avesse dimostrato che i fatti all’origine della comunicazione sollevassero delle questioni distinte in relazione all’articolo 14 (e all’articolo 16) e ha pertanto deciso di esaminarla esclusivamente sotto il profilo dell’articolo 3. Appare al riguardo interessante richiamare l’opinione dissenziente di uno dei membri del CAT, Mr. Hani, il quale ha affermato la propria posizione contraria proprio in relazione alla decisione del Comitato di ritenere che i fatti all’origine della comunicazione non ponessero questioni rilevanti e distinte in relazione agli articoli 3, 14 e 16. Con specifico riferimento all’articolo 14, l’esperto indipendente, oltre a sottolineare la contraddizione esistente tra la decisione adottata dal CAT nel caso di specie e la precedente decisione nel caso AN, ha evidenziato che lo Stato convenuto non aveva dimostrato di aver proceduto ad una valutazione individuale circa la situazione personale del richiedente e, in particolare, circa le condizioni di vulnerabilità in cui egli versava a fronte delle precedenti torture subite e il suo specifico bisogno di fruire di un’adeguata riabilitazione. La violazione lamentata non riguardava l’effettività del diritto alla riabilitazione in Svizzera, bensì il rischio di subire una violazione di tale diritto a seguito di un rinvio verso l’Italia; peraltro la Svizzera, in quanto Stato parte della Convenzione contro la tortura non avrebbe potuto liberarsi degli obblighi derivanti dall’articolo 14 semplicemente “scaricandoli” su altri Stati. Particolarmente rilevante per la questione trattata appare infine la sentenza adottata, nell’aprile 2018, dalla Grande Sezione della Corte di Giustizia dell’Unione Europea nel caso MP57. Esso riguardava un cittadino dello Sri Lanka che presentò domanda di asilo nel Regno Unito in ragione delle torture subite in patria e del timore di essere vittima di nuovi maltrattamenti qualora avesse fatto ritorno nel Paese d’origine. La domanda fu respinta dal Regno Unito ritenendo che le autorità dello Sri Lanka non avessero più alcun interesse nei suoi confronti. La decisione fu successivamente confermata dall’Upper Tribunal (Tribunale superiore del Regno Unito) che, nonostante le prove attestanti la grave forma depressiva e il disturbo da stress post traumatico di cui era affetto MP e la sua determinazione a togliersi la vita in caso di rientro nel Paese d’origine, ritenne che non gli si potesse riconoscere lo status di rifugiato in forza della Convenzione sullo status dei rifugiati e della Direttiva 57. Corte di Giustizia (Grande Sezione), MP c. Secretary of State for the Home Department, Causa C-353/16, sentenza 24 aprile 2018. 122 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 qualifiche 58 . Il giudice inglese accolse, invece, il ricorso in forza dell’articolo 3 CEDU, sostenendo che tale norma precludesse un rientro di MP nel Paese di origine poiché, nonostante egli non corresse il rischio di subire atti di tortura, l’inaccessibilità e l’inadeguatezza dei servizi di salute mentale in Sri Lanka avrebbero reso impossibile la fruizione delle cure di cui egli necessitava a fronte del suo grave stato psichico. Tale decisione fu successivamente confermata dalla Court of Appeal e nuovamente impugnata da MP davanti alla Supreme Court of the United Kingdom (Corte Suprema del Regno Unito). In tale sede, MP contestò in particolare l’interpretazione eccessivamente restrittiva adottata tanto dall’Upper Tribunal che dalla Court of Appeal in relazione al campo di applicazione della Direttiva qualifiche: a suo avviso, infatti, egli avrebbe dovuto beneficiare della protezione sussidiaria considerando che la patologia mentale da cui era affetto non derivava da cause naturali, bensì era conseguenza delle torture subite nel Paese di origine e che, in caso di ritorno, egli non avrebbe potuto beneficiare di cure adeguate stante l’inadeguatezza dei servizi medici presenti. La questione pregiudiziale, sollevata dalla Corte Suprema britannica, verteva pertanto sulla possibilità di riconoscere la protezione sussidiaria al cittadino di un Paese terzo che, in caso di rientro nel Paese di origine, sarebbe stato esposto al rischio effettivo di subire danni gravi alla sua salute, stante l’impossibilità di beneficiare delle cure necessarie a trattare le conseguenze di precedenti episodi di tortura subiti in tale Paese. La Corte, dopo aver ribadito che il criterio dell’effettività del rischio sancito dalla Direttiva qualifiche, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, e un’interpretazione sistematica di tale Direttiva devono condurre a escludere che il fatto di aver subito in passato atti di tortura sia di per sé sufficiente a determinare il riconoscimento della protezione sussidiaria qualora il rischio effettivo del ripetersi di tali atti sia venuto meno, ha evidenziato le specificità caratterizzanti la situazione di MP. Egli infatti, pur non correndo alcun rischio nel caso di rientro nel Paese di origine, soffriva delle gravi conseguenze psicologiche derivategli dagli atti di tortura qui subiti in passato e il rientro avrebbe ulteriormente aggravato tali conseguenze fino al punto di indurlo al suicidio. Seguendo il ragionamento della Corte, è bene delineare con precisione l’oggetto della questione sottopostale. Richiamando quanto affermato dalla Corte EDU nella sentenza 58. Direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta; la Direttiva è stata rifusa nella Direttiva 2011/95/UE del Parlamento europeo e del Consiglio, del 13 dicembre 2011, recante norme sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario di protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonché sul contenuto della protezione riconosciuta. La questione oggetto di interpretazione nella presente sentenza non è stata peraltro modificata da parte della Direttiva 2011/95/UE. 123 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 Paposhvili59 e la giurisprudenza della Corte di Giustizia relativa all’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’UE (divieto di tortura e trattamenti inumani e degradanti) 60, i giudici della Grande Sezione hanno evidenziato che gli articoli 4 e 19, par. 2 (principio di non respingimento), della Carta precludano l’allontanamento di una persona verso uno Stato terzo qualora da esso possa derivare un aggravamento «significativo e irrimediabile» del disturbo mentale di cui soffre e, in particolare, qualora tale aggravamento possa essere tale da mettere a rischio la sua sopravvivenza. Come evidenziato in dottrina 61, si tratta di un importante obiter dictum: pur ponendosi nel solco di quanto precedentemente affermato nei casi CK e Abdida, la Corte è giunta qui per la prima volta ad affermare che gli Stati membri non possono allontanare il cittadino di un Paese terzo, affetto da disturbi fisici o psicologici estremamente gravi qualora l’assenza di cure mediche adeguate a trattare tali disturbi o la difficoltà di accedervi nel Paese di origine, metta in pericolo la sua vita, poiché in tali ipotesi l’allontanamento configurerebbe un trattamento disumano e degradante. Svolta questa precisazione, la Corte ha opportunamente sottolineato che la questione pregiudiziale sottopostale non riguardava la tutela contro l’allontanamento ai sensi dell’articolo 3 CEDU, nonché dell’articolo 4 della Carta – tutela che, invero, era stata riconosciuta dai giudici nazionali –, bensì il riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della Direttiva qualifiche e, in particolare, la necessità di riconoscere tale forma di protezione al cittadino di un Paese terzo che, a seguito del rientro nel Paese di origine, potrebbe andare incontro ad un aggravamento, fino a commettere suicidio, delle conseguenze psicologiche di cui soffre a causa degli atti di tortura ivi subiti. A tale riguardo, la Corte ha posto l’accento sul fatto che i disturbi psichici di cui egli era affetto erano conseguenza delle torture subite nel Paese di origine e, sotto questo profilo, essa ha individuato un elemento distintivo tra il caso in esame e quello oggetto della sentenza M’Bodj62 in cui, invece, il disturbo di cui soffriva il cittadino di un Paese terzo era stato determinato da un’aggressione di cui era stato vittima nello Stato membro in cui soggiornava. Ad avviso della Corte, benché l’aggravamento sostanziale delle condizioni psicologiche di MP non potesse configurare di per sé un trattamento inumano o degradante, tale aggravamento e le cause delle sue attuali condizioni di salute – da ricercarsi negli atti di tortura subiti nel Paese di origine – dovevano assumere rilevanza ai fini dell’interpretazione della nozione di danno grave adottata dalla Direttiva qualifiche. 59. Corte EDU, Paposhvili v. Belgium [GC], App. No. 41738/10, sentenza 13 dicembre 2016. 60. La Corte ha richiamato in particolare Corte di Giustizia (Quinta Sezione), C. K. e a. c. Republika Slovenija, Causa C-578/16, sentenza 16 febbraio 2017. 61. S. Bartolini, Arrêt “MP”: dans quelles conditions une victime de tortures passées bénéficie-t-elle de la protection subsidiaire? in Journal de droit européen, 251.2018, pp. 270-271. 62. Corte di Giustizia (Grande Sezione), M’Bodj c. État belge, Causa C-542/13, sentenza 18 dicembre 2014. 124 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 Alla luce di tale valutazione, la Corte ha nuovamente richiamato quanto affermato nella sentenza M’Bodj in cui essa aveva attribuito particolare importanza alla circostanza che la Direttiva qualifiche indichi tassativamente i soggetti responsabili del danno grave 63 e sancisca il principio secondo cui i rischi cui è esposta in modo generale la popolazione di un Paese «di norma non costituiscono di per sé una minaccia individuale da definirsi come danno grave»64. Alla luce di ciò, essa era giunta ad affermare che le carenze generali del sistema sanitario del Paese di origine non sono di per sé sufficienti a configurare il concetto di danno grave e che, conseguentemente, la protezione sussidiaria non possa riconoscersi al cittadino di un Paese terzo gravemente malato a fronte del rischio di un aggravamento delle sue condizioni di salute derivante dall’assenza di terapie adeguate nel Paese di origine, qualora tali carenze non siano conseguenza di una «privazione di assistenza sanitaria inflittagli volontariamente» 65. L’elemento interessante della sentenza MP è rappresentato dalla circostanza che la Corte, dopo aver richiamato quanto affermato nella pronuncia M’Bodj e pur continuando ad attribuire particolare rilevanza al criterio della «privazione intenzionale delle cure», ha affermato che la valutazione relativa all’effettiva esistenza di tale rischio deve avvenire, conformemente a quanto affermato nel Preambolo della Direttiva, alla luce degli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani66 e, tra questi, ha in particolare richiamato l’articolo 14 della Convenzione contro la tortura che, come si vedrà, assume un ruolo imprescindibile ai fini della decisione cui perviene la Corte. A differenza della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura non è stata oggetto di particolari richiami da parte della Corte di Giustizia nella sua giurisprudenza. Sollecitata dalle Conclusioni dell’Avvocato Generale Bot che, peraltro giungevano ad una soluzione opposta a quella infine adottata nella sentenza, la Corte in questa decisione ha avuto per la prima volta l’occasione di chiarire i rapporti tra la Convenzione contro la tortura e la Direttiva qualifiche. I giudici di Lussemburgo hanno affrontato tale questione evidenziando che la Convenzione contro la tortura e la Direttiva qualifiche perseguono finalità diverse e, conseguentemente, definiscono sistemi di protezione distinti. Alla luce di tali considerazioni, deve ritenersi che una violazione dell’articolo 14 non possa considerarsi di per sé sufficiente a determinare un automatico riconoscimento della protezione sussidiaria. La valutazione circa la rilevanza di tale violazione sarà invece 63. Direttiva 2004/83/CE, articolo 6, corrispondente all’articolo 6 della Direttiva 2011/95/UE. 64. Direttiva 2004/83/CE, considerando 26, corrispondente al considerando 35 della Direttiva 2011/95/UE. 65. Corte di Giustizia (Grande Sezione), M’Bodj c. État belge, cit., par. 36. 66. La Corte si riferisce in particolare al Considerando 25 della Direttiva 2004/83/CE corrispondente al considerando 34 della Direttiva 2011/95/UE, in forza del quale «È necessario introdurre criteri comuni per l’attribuzione, alle persone richiedenti protezione internazionale, della qualifica di beneficiari della protezione sussidiaria. Tali criteri dovrebbero essere elaborati sulla base degli obblighi internazionali derivanti da atti internazionali in materia di diritti dell’uomo e sulla base della prassi esistente negli Stati membri». 125 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 rimessa al giudice del rinvio cui spetterà considerare se, a fronte del ritorno nel Paese di origine, il richiedente sarebbe esposto al rischio di subire «una privazione intenzionale delle cure adeguate» a trattare le conseguenze fisiche e psicologiche derivategli dalle torture commesse nei suoi confronti dalle autorità di tale Paese. Il concetto di privazione intenzionale delle cure è specificato dalla Corte affermando che tale ipotesi si configurerebbe in particolare «se, in circostanze nelle quali, come nel procedimento principale, il cittadino di un Paese terzo rischia di commettere suicidio a causa del trauma derivante dalle torture che gli sono state inflitte dalle autorità del suo Paese di origine, risulti chiaro che le stesse autorità, nonostante l’obbligo di cui all’articolo 14 della Convenzione contro la tortura, non siano disposte a garantirne la riabilitazione. Un rischio del genere potrebbe anche presentarsi qualora risultasse che dette autorità abbiano un comportamento discriminatorio in termini di accesso ai servizi di assistenza sanitaria, avente l’effetto di rendere più difficile, per taluni gruppi etnici o alcune categorie di persone, nelle quali rientrerebbe MP, l’accesso al trattamento dei postumi fisici o mentali degli atti di tortura commessi da tali autorità»67. Benché questa specificazione offra alcune indicazioni riguardo alle concrete modalità applicative del criterio della privazione intenzionale, il riferimento a tale criterio appare ampiamente criticabile in ragione del suo carattere estremamente indeterminato e impreciso e del considerevole onere probatorio che esso pone in capo al richiedente68. Peraltro, come evidenziato da un’attenta dottrina 69, il riferimento a tale criterio non appare coerente con l’articolo 6 della Direttiva qualifiche che, nell’indicare i responsabili della persecuzione o del danno grave, si fonda sulla teoria della protezione contro la persecuzione e non sulla teoria della responsabilità nella persecuzione 70 . Giova infatti ricordare che la lettera c) della disposizione indica tra i responsabili anche i soggetti non statali, qualora si dimostri che lo Stato o i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio, «comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire la 67. Corte di Giustizia (Grande Sezione), MP, cit., par. 57. 68. Al riguardo si veda in dottrina H. Gribomont, Le champ d’application de l’article 15, b), de la directive qualification de plus en plus précis, in Cahiers de l’EDEM, www.uclouvain.be/fr/instituts-recherche/juri/cedie, juin 2018; l’Autrice definisce questo criterio «flou et difficilement prouvable», evidenziando al riguardo che «Les difficultés auxquelles ferait face un demandeur de protection internationale qui tenterait de prouver l’intention des autorités de son pays d’origine de le priver de soins de santé sont évidentes. Une charge de la preuve partagée entre le demandeur et les autorités compétentes – prévue par les principes généraux et les législations et consacrée par les jurisprudences mais encore laborieusement concrétisée en pratique – sera dans ce cas plus que nécessaire». 69. J.Y. Carlier, L. Leboeuf, Droit européen des migrations, in Journal de droit européen, 3.2019, p. 124. 70. Sul punto cfr. J.M. Lehmann, Availability of Protection in the Country of Origin: An Analysis under the EU Qualification Directive, in C. Bauloz, M. Ineli-Ciger, S. Singer, V. Stoyanova (eds.), Seeking Asylum in the European Union, Leiden-Boston, Brill, 2015, pp. 111-140. 126 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 protezione contro persecuzioni o danni gravi» 71. Il riferimento alla circostanza che le autorità statali non possano garantire protezione risulta contrario a quell’elemento di intenzionalità adottato invece dalla Corte nella sentenza M’Bodj e ribadito nella pronuncia MP72. Nonostante ciò, la sentenza MP rappresenta indubbiamente una pronuncia estremamente importante, laddove la Grande Sezione della Corte, peraltro adottando una soluzione contraria a quella indicata dall’Avvocato Generale, ha richiamato l’articolo 14 della Convenzione contro la tortura per elaborare un’interpretazione estensiva della nozione di danno grave, rilevante ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria. Nonostante l’articolo 14 della Convenzione contro la tortura non sia stato espressamente richiamato dalla Corte nel dispositivo della sentenza73, a differenza dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali, appare infatti evidente che esso funga da parametro interpretativo. Pur non essendo questa la sede per una dettagliata disamina della pronuncia, preme sottolineare alcuni aspetti particolarmente rilevanti ai fini dell’analisi qui svolta. Innanzitutto, appare interessante evidenziare l’importanza assunta ai fini della pronuncia della Corte di Giustizia non tanto dall’articolo 14 complessivamente considerato, bensì proprio dall’istituto della riabilitazione. Tale aspetto risulta di per sé evidente se si considera che il riferimento operato dalla Corte alle cure necessarie al trattamento dei postumi fisici e psicologici derivanti dagli atti di tortura richiama grandemente la nozione di riabilitazione adottata dal CAT nel General Comment n° 3 (2012). Questa evidenza trova un’ulteriore e interessante conferma nella lettura delle Conclusioni presentate dall’Avvocato Generale secondo cui il diritto alla riparazione, di cui all’articolo 14 della Convenzione contro la tortura, deve considerarsi ammissibile a condizione che «sia stata presentata una denuncia 71. Direttiva 2011/95/UE, Articolo 6: «I responsabili della persecuzione o del danno grave possono essere: a) lo Stato; b) i partiti o le organizzazioni che controllano lo Stato o una parte consistente del suo territorio; c) soggetti non statuali, se può essere dimostrato che i responsabili di cui alle lettere a) e b), comprese le organizzazioni internazionali, non possono o non vogliono fornire la protezione contro persecuzioni o danni gravi di cui all’articolo 7»; la norma corrisponde all’articolo 6 della precedente Direttiva 2004/83. 72. Cfr. al riguardo J.Y. Carlier, L. Leboeuf, op. cit.; gli Autori evidenziano che è proprio l’elemento dell’intenzionalità a caratterizzare la distinzione tra la nozione di persecuzione tipica del diritto penale internazionale e, in particolare, dell’articolo 7 dello Statuto della Corte Penale Internazionale, e la nozione di persecuzione su cui si fonda il diritto internazionale dei rifugiati: solo la prima si caratterizza, infatti, per l’elemento di intenzionalità. 73. Corte di Giustizia (Grande Sezione), MP, cit.: «L’articolo 2, lettera e), e l’articolo 15, lettera b), della direttiva 2004/83/CE del Consiglio, del 29 aprile 2004, recante norme minime sull’attribuzione, a cittadini di Paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonché norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta, letti alla luce dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, devono essere interpretati nel senso che è ammissibile allo status di protezione sussidiaria il cittadino di un Paese terzo torturato in passato dalle autorità del suo Paese di origine e non più esposto a un rischio di tortura in caso di ritorno in detto Paese, ma le cui condizioni di salute fisica e mentale potrebbero, in un tale caso, deteriorarsi gravemente, con il rischio che il cittadino di cui trattasi commetta suicidio, in ragione di un trauma derivante dagli atti di tortura subiti, se sussiste un rischio effettivo di privazione intenzionale in detto paese delle cure adeguate al trattamento delle conseguenze fisiche o mentali di tali atti di tortura, circostanza che spetta al giudice del rinvio verificare». 127 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 o che sia stato proposto un ricorso giurisdizionale» volto a ottenere un risarcimento 74. Tale affermazione non trova alcun riscontro nella pronuncia della Grande Sezione la quale dimostra così di aver tenuto conto che, conformemente a quanto affermato dal CAT nel General Comment, l’articolo 14 non pone in capo alla vittima diritti esigibili esclusivamente per via giudiziale e, in particolare, l’accesso a programmi di riabilitazione prescinde dall’esperimento di un’azione giurisdizionale. Se sotto questo profilo la Corte ha adottato una posizione assolutamente in linea con la nozione di riabilitazione elaborata dal CAT nel General Comment e la pronuncia MP deve certamente salutarsi con favore, occorre evidenziare che, per altri versi, la Corte ha dato applicazione alla figura della riabilitazione adottando una posizione maggiormente restrittiva rispetto a quella elaborata dal CAT. Tale aspetto emerge in primo luogo considerando che il diritto alla riabilitazione non assume rilevanza autonoma, bensì in quanto la sua violazione costituisca un trattamento inumano e degradante. Ciò trova riscontro considerando l’importanza, riconosciuta dalla Corte, al rischio che MP giungesse a togliersi la vita a seguito dell’aggravamento derivante alle sue condizioni psichiche a seguito del rientro nel Paese d’origine. Il legame individuato dai giudici della Grande Sezione tra l’articolo 14 della Convenzione contro la tortura e il divieto di trattamenti inumani e degradanti trova ulteriore conferma nel fatto che essi, tanto nel paragrafo conclusivo della pronuncia quanto nel dispositivo, abbiano affermato di giungere alla conclusione di cui si è detto interpretando la nozione di danno grave alla luce dell’articolo 4 della Carta dei diritti fondamentali. In secondo luogo, il richiamo al criterio della «privazione intenzionale delle cure», già elaborato in M’Bodj, ha condotto la Corte a subordinare il riconoscimento della protezione sussidiaria alla circostanza, eventualmente accertata dal giudice remittente, che il richiedente sia esposto nel Paese di origine ad un rischio effettivo di privazione intenzionale delle cure a lui necessarie. Se per un verso tali discrepanze tra l’interpretazione elaborata dalla Corte e quella delineata dal CAT sono giustificate dalla Grande Sezione alla luce dei distinti ambiti di applicazione della Convenzione contro la tortura e della Direttiva qualifiche – e più in generale del sistema europeo comune di asilo –, d’altra parte esse si ricollegano al complesso rapporto tra la Carta dei diritti fondamentali dell’UE e gli strumenti internazionali di tutela dei diritti umani. Al riguardo giova richiamare l’articolo 53 della Carta 75 , in forza del quale il livello di tutela offerto dagli 74. Conclusioni dell’Avvocato Generale Y. Bot presentate il 24 ottobre 2017, Causa C-353/16, MP c. Secretary of State for the Home Department, par. 60. 75. Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, articolo 53: «Nessuna disposizione della presente Carta deve essere interpretata come limitativa o lesiva dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali riconosciuti, nel rispettivo ambito di applicazione, dal diritto dell’Unione, dal diritto internazionale, dalle convenzioni internazionali delle quali 128 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 strumenti di diritto internazionale dei diritti umani di cui siano parte tutti gli Stati Membri, tra i quali deve annoverarsi la Convenzione contro la tortura, non può essere in alcun modo compromesso dalle disposizioni della Carta76. Questo paradigma interpretativo non sembra trovare piena applicazione nella sentenza MP, laddove la Corte ha dimostrato di voler difendere strenuamente la propria autonomia e di essere disposta a conformarsi, solo parzialmente, allo standard di tutela definito dal CAT in materia di diritto alla riabilitazione77. Da ultimo, appare significativo domandarsi se la Corte potrebbe riconoscere la protezione sussidiaria ad un soggetto che in caso di ritorno nel Paese di origine, pur non essendo più esposto al rischio di subire atti di tortura, andrebbe incontro al rischio di essere intenzionalmente privato delle cure adeguate a trattare i disturbi fisici e psicologici di cui soffre, qualora tali disturbi fossero il risultato degli atti di tortura subiti in un Paese diverso da quello di origine. A tale questione sembra doversi dare risposta negativa. Certamente si tratterebbe di una soluzione in contrasto con quanto affermato dal CAT nel General Comment; una tale interpretazione particolarmente restrittiva non dovrebbe peraltro stupire alla luce della già richiamata autonomia che la Corte tende a rivendicare quando si trova a valutare il rapporto tra il sistema di tutela dei diritti fondamentali nell’Unione e le fonti di diritto internazionale. Con specifico riferimento al caso ipotizzato, la Corte farebbe probabilmente riferimento al fatto che, ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria ai sensi della Direttiva qualifiche rileva esclusivamente il rischio effettivo di subire «tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante ai danni del richiedente nel suo Paese di origine». L’esclusivo riferimento 78 al Paese di origine ai fini dell’esistenza del rischio di subire torture potrebbe portare la Corte a negare qualsiasi rilevanza alle torture subite in un Paese diverso da quello di origine ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria. Come si è visto, determinante nel ragionamento operato dalla Corte nella pronuncia MP è la distinzione operata tra il caso oggetto di tale sentenza e il caso M’Bodj, l’Unione, la Comunità o tutti gli Stati membri sono parti contraenti, in particolare la Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, e dalle Costituzioni degli Stati membri». 76. Al riguardo si vedano G. Gaja, The Charter of Fundamental Rights in the Context of International Instruments for the Protection of Human Rights, in European Papers, n. 3.2016, pp. 791-801; A. Rosas, The Charter and Universal Human Rights Instruments, in S. Peers et al. (eds.), The EU Charter of Fundamental Rights. A Commentary, Oxford: Oxford University Press, 2014, p. 1699. 77. Sotto questo profilo, con specifico riferimento all’interpretazione elaborata dalla Corte in relazione al principio dei best interests of the child e al rapporto tra la posizione della Corte e quella elaborata dal Comitato per i diritti del fanciullo, si permette di rinviare a M. Ferri, Il rapporto tra clausola di sovranità e diritti fondamentali: riflessioni critiche a partire dalla sentenza della Corte di giustizia M.A., S.A., A.Z. sui trasferimenti Dublino verso il Regno Unito, in Osservatorio sulle fonti, www.osservatoriosullefonti.it, n. 1.2019, in particolare p. 17 ss. 78. Riguardo alla significativa limitazione derivante dall’esclusivo riferimento al Paese di origine, cfr. in dottrina S. Peers, V. Moreno-Lax, M. Garlick, E. Guild, EU Immigration and Asylum Law (Text and Commentary), Brill, LeidenBoston, 2015, p. 136. 129 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 proprio in considerazione del fatto che nel primo le condizioni fisiche e psicologiche di cui soffriva il richiedente erano la conseguenza delle torture di cui era stato vittima nel Paese di origine. Ed è proprio «la causa delle attuali condizioni di salute del cittadino di un Paese terzo in una situazione come quella di cui al procedimento principale, vale a dire le torture inflitte dalle autorità del suo Paese di origine in passato» 79 uno degli elementi di cui, ad avviso della Corte, occorre tenere conto per interpretare la nozione di danno grave ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria. L’analisi svolta consente di evidenziare che la riabilitazione presenta alcune specificità che la distinguono rispetto alle altre forme di riparazione cui è tenuto lo Stato responsabile della violazione del divieto di tortura. Questa specificità deriva dalla natura stessa della riabilitazione: essa mira, infatti, ad assicurare un pieno recupero fisico, psicologico e socioeducativo della vittima e, in quanto tale, è oggetto di un obbligo indifferibile in capo agli Stati. L’accesso ai programmi di riabilitazione non può infatti dipendere dalle risorse economiche in essi disponibili 80 , deve essere garantito alle vittime il prima possibile 81 e prescinde dall’esperimento di un’azione giurisdizionale 82. Tali aspetti, che trovano ragione ultima nel carattere indifferibile della riabilitazione, conducono ad affermare che essa costituisce una peculiare forma di riparazione: a differenza delle altre categorie, previste dall’articolo 14, essa deve infatti essere garantita dagli Stati anche in relazione agli atti di tortura commessi al di fuori della propria giurisdizione. Questo aspetto della riparazione non si pone peraltro in conflitto con il mancato riconoscimento della giurisdizione civile universale; al riguardo giova infatti notare che, se da un lato, la riabilitazione può costituire una delle forme di riparazione che lo Stato in cui si sono verificati gli atti di tortura è tenuto a garantire nell’ambito dell’azione di risarcimento ivi esperita in sede civile, d’altra parte, il riconoscimento della riabilitazione prescinde dall’esperimento di un’azione giurisdizionale. La specificità della riabilitazione trova ulteriore conferma nel General Comment n° 3 (2012) e nelle Concluding Observations laddove il Comitato ha esplicitamente affermato che la riabilitazione deve essere garantita altresì ai richiedenti asilo e ai rifugiati i quali, come noto, per definizione si trovano fuori dallo Stato nel quale hanno in passato subito atti di tortura. Quanto detto riguardo alla peculiare natura della riabilitazione emerge altresì nel 79. Corte di Giustizia (Grande Sezione), MP, cit., par. 47. 80. CAT, General comment No. 3 (2012), cit., par. 12: «The obligation does not relate to the available resources of States parties and may not be postponed». 81. Ivi, par. 15: «Torture victims should be provided access to rehabilitation programmes as soon as possible following an assessment by qualified independent medical professionals». 82. Ibidem: «Access to rehabilitation programmes should not depend on the victim pursuing judicial remedies». 130 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 parere reso dal CAT nel caso AN e, indirettamente, nella sentenza pronunciata dalla Corte di Giustizia nel caso MP. In primo luogo, il parere del Comitato ha qualificato espressamente la riabilitazione come oggetto di un diritto autonomo; l’autonomia del diritto alla riabilitazione ha trovato ulteriore riscontro, se pur implicitamente, nella sentenza MP in cui l’interpretazione elaborata dalla Corte è stata orientata proprio dal diritto alla riabilitazione. In secondo luogo – e in modo strettamente correlato – il caso AN ha offerto un’ulteriore conferma del fatto che la riabilitazione non deve essere assicurata solo dallo Stato autore della violazione del divieto di tortura: nella misura in cui essa si configura come indifferibile, essa deve essere, al contrario, assicurata da qualsiasi Stato in cui si trovi l’individuo vittima degli atti di tortura, a prescindere dal luogo in cui questi si siano verificati. Anche sotto questo profilo, rileva la sentenza MP laddove la Corte ha qualificato la riabilitazione come oggetto di un diritto che, se pur in determinate condizioni, deve essere garantito attraverso il riconoscimento della protezione sussidiaria dallo Stato in cui si trova il richiedente asilo. Occorre, più in generale, evidenziare che la riabilitazione, per esempio in quanto titolo per il riconoscimento nell’ambito del nostro ordinamento del diritto di asilo, può contribuire a colmare quel «right-remedy gap»83 denunciato da alcuni Autori in relazione alle più gravi violazioni dei diritti umani e, in particolare, del divieto di tortura. Al riguardo è stato, infatti, evidenziato che talvolta le Corti tendono a privilegiare un approccio meramente risarcitorio che impedisce di cogliere la natura «straordinaria» del divieto di tortura cui dovrebbe corrispondere una reazione altrettanto straordinaria del «diritto con riguardo alle condizioni delle vittime […] e dei bisogni di riparazione di cui sono portatrici» 84. A questo proposito e in guisa di conclusione, appare opportuno interrogarsi circa la rilevanza che la peculiare natura della riabilitazione può avere nell’ordinamento italiano con specifico riferimento all’assetto delineato dal legislatore a seguito dell’emanazione del d.l. 113/2018, convertito dalla l. 132/201885, che per effetto dell’articolo 1, comma 1, lett. b) è andato a modificare l’articolo 5, comma 6 del TU sull’immigrazione laddove consentiva il 83. T. Antkowiak, op. cit., p. 354. 84. S. Pinton, op. cit., p. 97. 85. D.l. 4 ottobre 2018, n. 113 recante «Disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata»; per un commento si rinvia a C. Favilli, Il Re è morto, lunga vita al Re! Brevi note sull'abrogazione del permesso di soggiorno per motivi umanitari, in Riv. dir. intern., n. 1.2019, pp. 164-171; C. Padula, Quale sorte per il permesso di soggiorno umanitario dopo il dl 113/2018? in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 21 novembre 2018. 131 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 rilascio del permesso di soggiorno qualora sussistessero «seri motivi, in particolare di carattere umanitario o risultanti da obblighi costituzionali o internazionali dello Stato italiano» 86 . Nel previgente assetto normativo, infatti, la situazione di vulnerabilità del richiedente era valutata tenendo conto altresì delle gravi violenze subite e dei traumi intercorsi nel corso del viaggio precedente all’arrivo in Italia e, in particolare, durante il transito in Libia. È possibile rintracciare alcuni significativi provvedimenti in cui tale aspetto, unitamente all’effettiva integrazione raggiunta in Italia 87 , è stato tenuto in particolare conto dai Tribunali di merito quale elemento su cui fondare il riconoscimento della protezione umanitaria88. Particolarmente significativi appaiono due provvedimenti del Tribunale di Genova in cui si è censurato il fatto che la Commissione territoriale non avesse attribuito alcuna rilevanza ai traumi subiti nei Paesi di transito. Ad avviso del Tribunale tale aspetto si pone in contrasto con l’articolo 8 del d.lgs. 25/2008 di attuazione della Direttiva qualifiche, in forza del quale la domanda di protezione internazionale deve essere esaminata tenendo conto delle informazioni relative alla situazione generale non solo del Paese di origine del richiedente, ma anche di quella dei Paesi di transito89. In considerazione di ciò, il Tribunale ha rilevato che tale norma impone di tenere conto «dei traumi subiti dal richiedente non solo nel Paese di origine, ma anche in quelli di transito e più in generale nel corso del viaggio dal proprio Paese all’Italia, quando questi abbiano lasciato un segno nel richiedente, quanto meno ai fini di una eventuale protezione umanitaria» 90. In entrambe le occasioni, il Tribunale ha richiamato quanto evidenziato dall’Handbook elaborato dall’UNHCR in relazione alle cause di cessazione dello status di rifugiato previste 86. D.lgs. 25.7.1998 n. 286, Testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell’immigrazione e norme sulla condizione dello straniero. 87. L’integrazione sociale ai sensi dell’articolo 8 CEDU ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria era stata in particolare valorizzata dalla Corte di cassazione nella sentenza n. 4455/2018; al riguardo si veda in dottrina, C. Favilli, La protezione umanitaria per motivi di integrazione sociale. Prime riflessioni a margine della sentenza della Corte di cassazione n. 4455/2018, in Questione Giustizia, www.questionegiustizia.it, 14 marzo 2018. 88. Si richiamano in particolare Tribunale di Genova, ordinanza 6.12.2017 (RG. 10172/2017) e ordinanza 9.2.2018 (RG. 12138/2017); Tribunale di Bologna, ordinanza 28.7.2018 (RG. 14618/2016); Corte d’appello di Trieste sentenza n. 246/2018 (RG. 293/2017). Una posizione diversa è stata assunta dalla Corte di cassazione nell’ordinanza n. 2861/2018 in cui la Corte ha ritenuto che il richiedente non avesse sufficientemente illustrato la connessione esistente tra il transito nel territorio libico e la sua domanda di protezione internazionale; si veda al riguardo in questa Rivista, Rassegna di giurisprudenza «Asilo politico e protezione internazionale», 1, Marzo 2018. In relazione alla rilevanza del transito in Libia ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, si veda altresì nello stesso numero N. Zorzella, La protezione umanitaria nel sistema giuridico italiano, pp. 14-15. 89. D.lgs. 25 del 28 gennaio 2008 «Attuazione della direttiva 2005/85/CE recante norme minime per le procedure applicate negli Stati membri ai fini del riconoscimento e della revoca dello status di rifugiato», articolo 8, comma 3 (prima parte): «Ciascuna domanda è esaminata alla luce di informazioni precise e aggiornate circa la situazione generale esistente nel Paese di origine dei richiedenti asilo e, ove occorra, dei Paesi in cui questi sono transitati». 90. Tribunale di Genova, ordinanza 6.12.2017 (RG. 10172/2017), p. 3 e ordinanza 9.2.2018 (RG. 12138/2017), p. 3. 132 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 dall’articolo 1(C), numeri 5 e 6 della Convenzione di Ginevra, relative alle ipotesi in cui, venute meno le circostanze in base alle quali la persona è stata riconosciuta come rifugiato o apolide, essa può fare ritorno nel Paese di cui ha la cittadinanza o, nel caso dell’apolide, il domicilio; tali clausole non trovano tuttavia applicazione qualora la persona possa far valere l’esistenza di gravi motivi legati a persecuzioni precedenti. In relazione a tale aspetto, l’Handbook dell’UNHCR evidenzia che le eccezioni previste «reflect[s] a more general humanitarian principle, which could also be applied to refugees other than statutory refugees. It is frequently recognized that a person who – or whose family – has suffered under atrocious forms of persecution should not be expected to repatriate» 91. Come si è già evidenziato, il caso in cui le torture subite non siano da attribuirsi alle autorità del Paese di origine, bensì a quelle del Paese di transito potrebbe difficilmente rilevare ai fini del riconoscimento della protezione sussidiaria, come interpretata dalla Corte di Giustizia nel caso MP; per quanto una nuova pronuncia della Corte con specifico riferimento alla possibilità di riconoscere la protezione in tale ipotesi sarebbe certamente auspicabile, i motivi sopra richiamati non lasciano intravedere una risposta positiva da parte dei giudici di Lussemburgo. Come visto, peraltro, il riconoscimento della protezione sussidiaria sarebbe in ogni caso subordinato alla possibilità di ravvisare il rischio di una privazione intenzionale delle cure necessarie; non rileverebbero invece quelle carenze del sistema sanitario del Paese di origine che, pur essendo generali e non quindi sufficienti al riconoscimento della protezione sussidiaria, sarebbero tuttavia tali da precludere un trattamento adeguato dei postumi psicologici di cui soffre il richiedente. In relazione a quelle situazioni che, nel previgente assetto normativo, sarebbero state ricondotte all’istituto della protezione umanitaria, paiono intravedersi oggi tre ipotesi. In primo luogo, la riabilitazione, come interpretata dal CAT, potrebbe essere valorizzata ai fini del riconoscimento del permesso di soggiorno per cure mediche introdotto dal d.l. 113/2018 a favore dello straniero affetto da «condizioni di salute di particolare gravità» che, come precisato nella Relazione illustrativa al disegno di legge di conversione del d.l., siano «tali da arrecare un irreparabile pregiudizio alla sua salute in caso di rientro nel Paese di origine»92. Occorre certamente richiamare che i nuovi permessi di soggiorno per casi speciali soffrono di numerosi limiti derivanti, come evidenziato in dottrina, sia dalle loro caratteristiche intrinseche – si tratta infatti di permessi di durata annuale e non convertibili 91. UNHCR, Handbook on Procedures and Criteria for Determining Refugee Status under the 1951 Convention and the 1967 Protocol relating to the Status of Refugees, Ginevra, 1992, HCR/IP/4/Eng/REV.1, par. 136. 92. Relazione illustrativa «Conversione in legge del decreto-legge 4 ottobre 2018, n. 113, recante disposizioni urgenti in materia di protezione internazionale e immigrazione, sicurezza pubblica, nonché misure per la funzionalità del Ministero dell’interno e l’organizzazione e il funzionamento dell’Agenzia nazionale per l’amministrazione e la destinazione dei beni sequestrati e confiscati alla criminalità organizzata», Atto Senato n. 840, XVIII Legislatura, p. 6. 133 Diritto, Immigrazione e Cittadinanza, fasc. n. 3/2019 in permessi per motivi di lavoro – sia dalla loro generale incapacità di «includere le diverse tipologie di vulnerabilità che potevano essere protette attraverso il permesso di soggiorno per motivi umanitari» 93 . Stante questa imprescindibile premessa, il nuovo permesso di soggiorno per cure mediche è quello che, rispetto alle altre tipologie di permessi di soggiorno per casi speciali, può assumere maggiore rilevanza per offrire tutela ad alcune, pur certamente limitate, ipotesi che precedentemente erano ricoperte dall’istituto della protezione umanitaria94. Una significativa valorizzazione del permesso di soggiorno per cure mediche potrebbe aversi proprio richiamando il diritto alla riabilitazione: il contenuto attribuito dal CAT a tale diritto consente di affermare che il rimpatrio del soggetto cui debba riconoscersi il diritto di accedere a un adeguato programma di riabilitazione comporti – tra l’altro – quell’«irreparabile pregiudizio alla [sua] salute» tale da giustificare il rilascio di un permesso di soggiorno per cure mediche. In secondo luogo, deve qui richiamarsi l’ipotesi, prospettata da un’autorevole dottrina 95, di un’applicazione diretta del diritto di asilo costituzionale, sancito dall’articolo 10, comma 3, della Costituzione e di una «valorizzazione del rapporto» tra tale disposizione, l’articolo 2 della Costituzione e quegli obblighi internazionali cui il permesso di soggiorno per motivi umanitari consentiva di garantire attuazione96. In tale prospettiva, le libertà costituzionali, richiamate dall’articolo 10, comma 3, Cost., la cui negazione assume rilevanza ai fini del riconoscimento del diritto di asilo (costituzionale) devono ricomprendere tutti i diritti fondamentali oggetto di obblighi internazionali. La soluzione prospettata potrebbe consentire, attraverso un contestuale richiamo sia dell’articolo 8 CEDU che dell’articolo 14 della Convenzione contro la tortura di garantire nuovamente tutela a quelle situazioni in cui la protezione umanitaria era riconosciuta in ragione dei traumi subiti nei Paesi di transito e dell’integrazione sociale raggiunta in Italia. La rilevanza, che in tale prospettiva, potrebbe assumere l’articolo 14 della Convenzione contro la tortura trova fondamento se si considera che nel General Comment n° 3 (2012) la riabilitazione si configura come una forma di riparazione da cui discendono obblighi in capo agli Stati che non sono in alcun modo differibili; questo loro carattere di indifferibilità implica che essi vengano a costituire un limite all’allontanamento, come si evince peraltro chiaramente nel parere reso dal CAT relativamente al caso AN. 93. C. Favilli, Il Re è morto, lunga vita al Re!, op. cit., p. 165. 94. A questo riguardo, si veda ancora la Relazione illustrativa, in cui si afferma che nell’ambito delle ipotesi riconducibili al permesso di soggiorno per cure mediche «rientra anche il caso di colui che, affetto da gravi patologie, non possa essere adeguatamente curato nel Paese di origine o di provenienza», cit., p. 6. 95. C. Favilli, Il Re è morto, lunga vita al Re!, op. cit., p. 168 ss. 96. Ivi, p. 170. Questa valorizzazione si pone, peraltro, nel solco della sentenza della Corte di cassazione 4455/2018. 134