Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                
STORIA E LETTERATURA R A C C O LTA D I S T U D I E T E S T I 276 ROMA E IL PAPATO NEL MEDIOEVO STUDI IN ONORE DI MASSIMO MIGLIO II PRIMI E TARDI UMANESIMI: UOMINI, IMMAGINI, TESTI a cura di ANNA MODIGLIANI ROMA 2012 EDIZIONI DI STORIA E LETTERATURA TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI «DOLORE ÈNE DE RECORDARE». TESTIMONIANZA DIRETTA E MODELLI LETTERARI NELLA MORTE DI COLA DI RIENZO NARRATA DALL’ANONIMO ROMANO Quando Dorothy giunse alla porta della Città degli Smeraldi capitale del regno di Oz, il Guardiano le mise un paio di occhiali dalle lenti verdi, poi la fece entrare. Tutto era verde: non solo il marmo degli edifici, non solo il lastricato delle strade e i vetri alle finestre, ma «persino la volta del cielo sopra quella città straordinaria aveva riflessi verdastri, come il sole che la illuminava»1. Il sole e il cielo che sovrastano la Città degli Smeraldi – è ovvio – non sono verdi per davvero, così come non lo sono altre cose in quel regno incantato: non appena è uscita dalla città e ha restituito gli occhiali, Dorothy si accorge che il suo bel vestitino non è più verde, ma è diventato bianco. Gli occhiali sugli occhi della gente, trucco del Gran Mago Oz, sono una possente metafora dell’ambiguo rapporto tra soggettività e oggettività e del nesso tra testimonianza autoptica e ‘realtà’. Il senso comune ci porta a ritenere che ciò che vediamo con i nostri occhi non ci inganni e che la testimonianza diretta rappresenti il criterio migliore per avvicinarci alla ricostruzione esatta di un evento. Ma ci sbagliamo, perché tante sono le realtà rappresentabili quanti sono i punti di vista e i modelli culturali di chi sta guardando. Quando poi passiamo a raccontare la nostra esperienza personale, di nuovo siamo persuasi di descrivere dati di fatto, e di nuovo ci sbagliamo, perché il testo (in senso lato) che produciamo si conforma ai nostri schemi di rappresentazione (a cominciare, naturalmente, dall’uso della nostra specifica lingua), non importa se ne siamo coscienti oppure no. Il senso comune del valore probatorio della testimonianza personale si ritrova negli autori medievali e in ispecie nei cronisti trecenteschi (quando l’autobiografismo è ormai emerso come elemento ben presente nella 1 L. F. Baum, Il mago di Oz, Milano, Rizzoli, 1978, p. 139 (ediz. orig. The Wonderful Wizard of Oz, Chicago, George M. Hill Co, 1900). 50 TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI narrazione)2. Sono note, per esempio, le giustificazioni che adduce Dino Compagni all’inizio della sua opera per attestare l’attendibilità di quanto scrive: «Quando io incominciai, propuosi di scrivere il vero delle cose certe che io vidi e udi’, però che furon cose notevoli, le quali ne’ loro princìpi nullo le vide certamente come io»3. L’Anonimo romano, autore fra i principali del Trecento italiano del quale commenteremo qualche passo4, dimostra di indossare lo stesso abito mentale quando introduce il proprio lavoro scrivendo: «Quello che io scrivo sì ène fermamente vero. E de ciò me sia testimonio Dio e quelli li quali mo’ vivo con meco, ché le infrascritte cose fuoro vere. E io le viddi e sentille»5. L’Anonimo attribuisce rilevanza alla memoria personale e in particolare alla memoria visiva, tanto che inizia il proprio racconto con il ricordo di una parata di cavalieri – con i loro colori e pennacchi – cui aveva assistito da bambino nel 1325. La reminiscenza è sbiadita nell’uomo adulto che scrive, ma ancora molto presente come emozione: «Bene me ne ricordo como per suonno»6. Successivamente, l’Anonimo accenna in più occasioni alla sua presenza, sempre marginale ma comunque degna di essere rammentata, in alcuni episodi che va narrando7. L’Autobiografia nel medioevo. Atti del XXXIV convegno storico internazionale, Todi, 12-15 ottobre 1997, Spoleto, Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 1998; L’individu au Moyen Âge. Individuation et individualisation avant la modernité, sous la direction de B. M. Bedos-Rezak et D. Iogna-Prat, Paris, Aubier, 2005. 3 Dino Compagni, Cronica, edizione critica a cura di D. Cappi, Roma, Istituto storico italiano per il medio evo, 2000 (Fonti per la storia dell’Italia medievale, RIS, 1), p. 3. 4 G. Contini, Invito a un capolavoro, «Letteratura», IV (1940), pp. 3-13; M. Miglio, Anonimo Romano, in Il senso della storia nella cultura medievale italiana (1100-1350). Atti del XV Convegno internazionale di studio, Pistoia, 14-17 maggio 1993, s. l., 1995, pp. 175-187. 5 Anonimo romano, Cronica, edizione critica a cura di G. Porta, Milano, Adelphi, 1979, Prologo, p. 5, ll. 81-89. Cfr. in generale Miglio, Anonimo romano; G. Seibt, Anonimo romano. Scrivere la storia alle soglie del Rinascimento, Roma, Viella, 2000, spec. pp. 57-58. Sul suo scrivere autobiografico: M. Miglio, La Cronaca dell’Anonimo romano (recensione all’ediz. tedesca del libro di Seibt), «RR roma nel rinascimento», (1992), pp. 30-37: 32: «Rimane la diversità della Cronica dell’Anonimo, insieme testo storico e narrativo, trattato e novella, racconto e predica. Ma anche autobiografia, nel senso più completo del termine, non in quanto scrittura delle vicende dell’autore, quanto trasposizione totale del suo pensiero e delle sue riflessioni». 6 Cronica, cap. II, pp. 10-11. 7 I ricordi autobiografici e l’affiorare dell’Io del cronista sono analizzati da G. Billanovich, Come nacque un capolavoro: la «Cronica» del non più Anonimo romano. Il vescovo Ildebrandino Conti, Francesco Petrarca e Bartolomeo di Iacovo da Valmontone, «Rendiconti dell’Accademia nazionale dei Lincei. Classe di scienze morali, storiche e filologiche», a. CCCXCII, s. IX, VI (1995), 1, pp. 195-211: 199-203, da Seibt, Anonimo romano, pp. 57-64, 2 LA MORTE DI COLA DI RIENZO NARRATA DALL’ANONIMO ROMANO 51 Che cosa succede nel celebre racconto della morte di Cola di Rienzo (8 ottobre 1354), uno dei momenti più alti della sua prosa? Le scene della narrazione sono vivide, composte con ritmo pressante e sature di tali e tanti particolari, da far ritenere con buona plausibilità che l’Anonimo sia stato testimone diretto di almeno una parte degli accadimenti8. La sua sapienza narrativa è tale da farci immergere profondamente nel testo, di confonderci tra la gente presente allora, di non lasciarci spiragli per eventuali dubbi sul modo in cui si sarebbe consumato il fattaccio brutto9. Il racconto, che copre l’arco di una mattinata, si svolge in sei sequenze fondamentali: 1. Il popolo assedia il Campidoglio. 2. Cola di Rienzo tenta invano di parlare al popolo. 3. È incerto se affrontare la morte onorevolmente o fuggire. 4. Decide di travestirsi e tenta di uscire dal palazzo. 5. Viene preso e riconosciuto. 6. Viene ucciso e il suo cadavere viene straziato. Tutto il racconto respira dello stato d’animo deluso dell’Anonimo, il quale però esprime apertamente il proprio turbamento solo in un caso, nel momento che considera il più tragico della vita di Cola: quando questi decide di posare le armi e le insegne del comando, si sforbicia la barba, si tinge la faccia di nero, entra nell’abituro del portinaio e si mette addosso un vile mantello e una coperta per tentare la fuga. «Dolore ène de recordare», scrive allora l’Anonimo, ritornando al momento in cui il Tribuno ha tradito in modo inequivocabile, con la forza del simbolo di una anti-vestizione, la propria missione e i propri ideali: «Se spogliao le insegne della baronia, l’arme puse io’ in tutto»10. «Dolore è ricordare»; non solo per lui, ma per chiunque abbia creduto in Cola. Questo è il senso della frase, espressa come un sospiro collettivo di pausa nella narrazione. Il momento è talmente doloroso – più ancora del ricordo della morte vera e propria – che l’autore lo riprende alla fine del capitolo (capitolo con il quale termina anche l’opera nelle redazioni che ci da A. Modigliani nella sua recensione all’edizione tedesca del libro di Seibt: La Cronaca dell’Anonimo romano, «RR roma nel rinascimento», (1992), pp. 19-30: 23-24. 8 Cronica, cap. XXVII, pp. 259-265. 9 Per la «empatia» che suscita nel lettore questa descrizione «talmente viva e concreta»: Seibt, Anonimo, p. 271. Un’altra narrazione della morte di Cola è contenuta in Matteo Villani, Cronica di Matteo Villani, a miglior lezione ridotta coll’aiuto de’ testi a penna, a cura di I. Moutier, vol. II, Firenze, Magheri, 1825, pp. 190 sgg. 10 Cronica, p. 263: «Dunque se spogliao le insegne della baronia, l’arme puse io’ in tutto. Dolore ène de recordare. Forficaose la barba e tenzese la faccia de tenta nera. Era là da priesso una caselluccia dove dormiva lo portanaro. Entrato là, tolle uno tabarro de vile panno, fatto allo muodo pastorale campanino. Quello vile tabarro vestìo. Puoi se mise in capo una coitra de lietto e così devisato ne veo ioso». 52 TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI sono giunte), intessendo una lunga comparazione tra la fine di Cola e quella dell’antico romano Papirio. Questi infatti, sapendo di dover morire per mano dei barbari, veste gli abiti solenni delle cariche pubbliche che aveva ricoperto e riceve coraggiosamente la morte: «Lo buono romano dunqua non voize morire colla coitra [coltre] in capo como Cola de Rienzi morio»11. L’Anonimo scrive testualmente «Dolore ène de recordare». Ma cosa ricordava, in realtà? Forse il ricordo di un ricordo altrui. Se anche egli poté essere presente ad una parte degli avvenimenti (vide forse il cadavere di Cola appeso per i piedi, che descrive come «uno esmesurato bufalo overo vacca a maciello»)12, egli non poteva essere però testimone della scena sciagurata della rinuncia alle vesti senatoriali, poiché Cola era chiuso nel palazzo ed era invisibile dall’esterno. Solo i prigionieri e Locciolo Pellicciaro, traditore di Cola, potevano averlo visto, e forse l’Anonimo elaborò questa sua descrizione a partire dai loro racconti13. Ma fece anche molto di più, poiché egli si mise nella condizione di accedere ai pensieri del Tribuno, interpretandone le intenzioni dai gesti che andava compiendo: Staienno allo scopierto lo tribuno denanti alla cancellaria, ora se traieva la varvuta, ora se.lla metteva. Questo era che abbe da vero doi opinioni. La prima opinione soa, de volere morire ad onore armato colle arme, colla spada in mano fra lo puopolo a muodo de perzona magnifica e de imperio. E ciò demostrava quanno se metteva la varvuta e tenevase armato. La secunna opinione fu de volere campare la perzona e non morire. E questo demostrava quanno se cavava la varvuta. Queste doi voluntate commattevano nella mente soa. Venze la voluntate de volere campare e vivere. Omo era como tutti li aitri, temeva dello morire14. Sia detto in breve: l’Anonimo romano raccontò, come se l’avesse vista, una scena cui non aveva assistito, ma che gli provocava un dolore talmente bruciante da ritornare impetuoso anche nell’atto successivo dello scrive- Ibidem, p. 267, ll. 422b-423b. Ibidem, p. 265, ll. 362b-363b. 13 Come sembra desumersi per ibidem, p. 261, l. 264b: «Nella presone erano li presoneri; vedevano tutto». 14 Ibidem, pp. 262-263. Lo stesso procedimento viene impiegato dall’autore anche altrove: cfr. per es. pp. 244-245. Una utile sintesi metodologica sull’argomento in M. Dorati (che ringrazio per la sua attenta lettura di questo contributo): L’accesso al pensiero nei personaggi delle storie di Erodoto, conferenza, Università di Pavia, 16 dic. 2010, in corso di stampa con il titolo Der Zugang zu den Gedanken von Personen in Herodots Historien, in Kosmos und Nomos bei Herodot’, hgg. von Th. Poiss und K. Geus, Berlin, Freie Universität – Walter de Gruyter. Sull’Anonimo descrittore di gesti: M. Miglio, Scritture, Scrittori e Storia. I. Per la storia del Trecento a Roma, Manziana, Vecchiarelli, 1991, pp. 143-144. 11 12 LA MORTE DI COLA DI RIENZO NARRATA DALL’ANONIMO ROMANO 53 re15. Certo, Cola aveva cercato di scappare, e questo l’Anonimo non glielo perdonò, visto che il Tribuno si era impegnato a morire in servizio del popolo16. Ma a voler essere generosi, introducendo un’ipotesi diversa per spiegare il suo stato fisico quando fu catturato, si potrebbe per esempio sostenere che è del tutto naturale che, per attraversare un incendio (il palazzo infatti andava a fuoco), ci si metta addosso uno spesso mantello e ci si copra con una coperta, e che l’attraversamento delle fiamme fosse stata la vera ragione per cui quell’uomo fu trovato con la barba rovinata e il viso annerito. L’Anonimo, che mostra partecipazione per la sorte di Cola ma non misericordia, esclude questa possibilità senza prenderla in considerazione, scrivendo «fuoco non lo toccao»17. In realtà la sua testimonianza è il frutto di una robusta costruzione letteraria nella quale è forte l’ingresso nel dominio della finzione: come è evidente nel fatto che l’autore accede ai pensieri di Cola addirittura in prossimità della di lui morte, cioè in una situazione nella quale non è neppure verisimile che essi siano mai venuti a sua conoscenza. Questa autopsia dichiarata come fattuale ma in realtà finzionale, è l’elemento necessario per comporre una simmetria con un secondo elemento contrapposto, che è il racconto della vestizione dei panni curiali e la morte di Papirio. Cola si spoglia, Papirio si ammanta: Cola deve comportarsi in modo diametralmente opposto rispetto a Papirio (che l’abbia fatto davvero oppure no), perché la struttura retorica lo richiede. Egli, che si professava un antico romano redivivo, si dimostra in realtà tutto l’opposto di un «buon romano». Ora, la morte di Papirio (un episodio dell’invasione gallica del 390 a.C) è narrata da Tito Livio, uno degli autori più amati dall’Anonimo, oltre che dallo stesso Cola18. Il modello letterario occhieggia dall’altra parte delle lenti verdi e si impone alla penna dello scrittore, condizionando nel profondo la sua narrazione e offrendo lo spunto per plasmare credibili «effetti di realtà». Questo accade in modo del tutto scoperto e consapevole, come si evince senza ombra di dubbio semplicemente leggendo il suo Prologo19. Non credo infatti che la frase «staienno allo scopierto lo tribuno denanti alla cancellaria» possa far pensare che il Tribuno fosse visibile dall’esterno dal palazzo, dove, se presente, si sarebbe potuto trovare il cronista. 16 Seibt, Anonimo, p. 268. 17 Cronica, p. 263, l. 319b 18 Liv. V, 41; Miglio, Scritture, pp. 36, 40, 43; Seibt, Anonimo, pp. 87 sgg. per il rapporto con Livio (pp. 89-90 per l’episodio di Papirio); Modigliani, La Cronica, pp. 29-30. 19 Cronica, pp. 3-6; cfr. anche il proemio di Compagni, Cronica, p. 3. Si veda Miglio, Scritture, pp. 36-39. 15 54 TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI In quella Città degli Smeraldi che è Roma, il nostro autore sa benissimo di portare sul naso degli occhiali e non ha alcuna intenzione di toglierseli. Se lo facesse, non saprebbe in quale modo scrivere. Se lo facesse, si troverebbe costretto ad abbandonare un abito mentale che è caratteristico della cultura medievale (e non solo di quella): ovvero la convinzione dell’esistenza di una simmetria perfetta tra fatto e simbolo, tra essere e parola, tra creato e Libro, tra verità e autorità. Nonostante la dichiarata attenzione per l’empirismo autoptico, che per il nostro comune sentire dovrebbe portare a escludere l’uso di modelli autoritativi condizionanti, ‘realtà’ (cioè fatto storico) e ‘modello’ (sia esso scritturistico o, come in questo caso, letterario classico) non sono avvertiti come contrapposti, ma come correlativi, come due valve della stessa conchiglia. Addirittura, la proiezione del passato sul presente (o, per meglio dire, dell’auctoritas, che risiede nel passato, sul presente) e dunque il tentativo di dare al presente le forme del passato, è ritenuto il modo migliore per comprendere il senso del mondo in cui si vive. Ed è proprio il modus operandi – tanto letterario quanto politico – di Cola di Rienzo20. Il parallelismo tra il buon romano Papirio e il cattivo romano Cola, ottenuto attraverso il confronto tra un modello letterario e un racconto che si propone come descrizione del reale, è del tutto manifesto e costruito proprio per essere riconosciuto. Mi chiedo però se, oltre a questo, un altro modello letterario, questa volta inespresso e forse inconsapevole, non abbia condizionato la narrazione della morte del Tribuno. Si tratta della morte di Vitellio (22 dic. del 69 d.C) così come viene narrata da Svetonio nelle Vite dei dodici Cesari. Alcune parti dell’opera dell’Anonimo riecheggiano il modello svetoniano: la descrizione della trasformazione di Cola in tiranno (smodato bevitore e mangiatore, omicida degli amici), ma soprattutto la sua fuga vigliacca, tortura e morte21. M. Miglio, Il Senato in Roma medievale, in Il Senato nella storia. II. Il Senato nel Medioevo e nella prima Età moderna, Roma, Istituto poligrafico e Zecca dello Stato, 1997, pp. 117 -172, spec. il cap. II, «L’eclissi del Senato». 21 Suet. VIII, Vitellius, 16-17. La morte di Vitellio è narrata anche da Tacito (Historiae, III, 84-86) e da Dione Cassio (Dion. Cass. LXV, 20-21, in greco). Le sillogi medievali di storia romana conosciute dall’Anonimo (la Historia miscella di Landolfo Sagace, le Storie de Troya et de Roma), non mostrano nessi diretti con il passo della morte di Cola. Cfr. però Seibt, Anonimo, p. 79, a proposito del possibile accostamento tra la descrizione negativa di Cola e quelle di Ottaviano, Tiberio, Claudio e Traiano contenute nelle Storie de Troja et de Roma (Storie de Troya et de Roma altrimenti dette Liber Ystoriarum Romanorum. Testo romanesco del secolo XIII, ed. critica a cura di E. Monaci, Roma, Società romana di storia patria, 1920). Seibt, Anonimo, p. 83, propone anche un parallelismo con la descrizione della morte del tiranno Ezzelino III da Romano da parte di Rolandino da Padova (Cronica in 20 LA MORTE DI COLA DI RIENZO NARRATA DALL’ANONIMO ROMANO 55 In questo caso, la domanda da porsi è se si tratta di due eventi che si svolsero in modo sostanzialmente simile, oppure se abbiamo a che fare con la riproduzione di un evento contemporaneo per mezzo della matrice di un modello letterario. Di certo, molti dei fatti narrati dall’Anonimo somigliano a quelli raccontati da Svetonio perché si svolsero in modo oggettivamente simile. Per esempio, sono purtroppo insiti nella natura rerum il fatto che la tirannide mostri la sua ferocia con precise movenze e che, soprattutto a Roma, siano testimoniati molti episodi di oltraggio sui cadaveri dei capi massacrati, episodi che rispettano veri e propri rituali. In questo senso, non ho dubbi a pensare che Cola di Rienzo compì davvero azioni da tiranno, e che, esattamente come accadde a Seiano, Commodo ed Eliogabalo (e come rischiarono anche Cesare e Tiberio), il suo corpo fu trascinato per le vie di Roma e molto probabilmente le sue ceneri finirono nel Tevere22. factis et circa facta Marchie Trivixane, a cura di A. Bonardi, Città di Castello, S. Lapi, 19051908 [RIS2, VIII, 1], lib. XII, 7-9, pp. 164-167): «Sorprendenti risultano le analogie tra la rappresentazione della morte di Cola di Rienzo, vittima della folla inferocita, e la narrazione fatta da Rolandino della fine di Ezzelino prigioniero, abbandonato allo scherno del popolo. La situazione vissuta da Ezzelino è simile a quella di Cola di Rienzo e, dunque, induce a un racconto analogo. In tal senso, piace immaginare che l’Anonimo avesse in mente la scena contenuta nella cronaca di Rolandino, allorché si accinse a descrivere la fine del Tribuno». Questo è il passo, sulla cui affinità con il testo dell’Anonimo si può discutere (p. 166): «Captus permanet Ecelinus silencio comminanti conclusus, vulto demisso sevissimo et eius alta indignatione repressa. Et ecce concurrunt undique gentes et populi conclamando, videre volentes equidem virum potentissimum condam, pre ceteris mundi principibus horribilem, terribilem et famosum, et gaudium quodammodo generale. Sic aves aliquando, nictimene, que noctua dicitur, in specula constituta, undique decurrunt inordinate, garriunt, vociferant et minantur». Questo è invece il passo della Cronica, p. 264: «Nullo remedio era se non de stare alla misericordia, allo volere altruio. Preso per le vraccia, liberamente fu addutto per tutte le scale senza offesa fi’ allo luoco dello lione, dove li aitri la sentenzia vodo, dove esso sentenziato aitri aveva. Là addutto, fu fatto uno silenzio. Nullo omo era ardito toccarelo. Là stette per meno de ora, la varva tonnita, lo voito nero come fornaro, in iuppariello de seta verde, scento, colli musacchini inaorati, colle caize de biada a muodo de barone. Le vraccia teneva piecate. In esso silenzio mosse la faccia, guardao de.llà e de cà». In seguito il racconto diverge: i signori che hanno preso prigioniero Ezzelino non vogliono che sia ferito ed esposto all’ira della folla e lo fanno entrare in una tenda; poi lo portano via. I medici lo curano, ma Ezzelino muore per la ferita al piede che si era procurato in battaglia, pochi giorni dopo la cattura (ca 1° ott. 1259). Cola, invece, viene ucciso immediatamente, da un colpo di spada che rompe l’attesa fremente e che fa scatenare la ferocia della folla sul suo cadavere. 22 Cfr. L. Canfora, Quando il tiranno finiva nel Tevere. “Infierire sul corpo dei defunti è un gesto di malsana religiosità”, «Corriere della Sera», 2 novembre 2008, p. 15 (a commento storico dell’articolo di L. Cremonesi, Coltellate su Saddam dopo l’impiccagione. Il capo delle guardie: venne sfregiato dai boia, ibidem); cfr. K. M. Sprenger, The Tiara in the Tiber. An 56 TOMMASO DI CARPEGNA FALCONIERI La presenza quasi impercettibile di Svetonio, però, mi sembra possa essere snidata in quel medesimo luogo narrativo che l’Anonimo considera negativamente come culminante: il momento della trasformazione di Cola da una «perzona de imperio» in un codardo. Infatti Svetonio racconta che Vitellio se ne ritorna al palazzo imperiale, scortato solamente dal cuoco e dal fornaio, e lo trova completamente vuoto. Anche Cola di Rienzo si ritrova «abannonato da onne perzona vivente che in Campituoglio staieva», solo con tre persone. Vitellio si riempie una cintura di monete d’oro e si rifugia nella cella del portinaio, lega un cane fuori della porta e ammassa i culcita, cioè i materassi e le coperte. Anche Cola di Rienzo entra nella «caselluccia dove dormiva lo portanaro», e lì prende «uno tabarro de vile panno» e si mette in capo «una coitra de lietto». Poi il racconto si discosta parzialmente: Vitellio, uomo vilissimo, viene extractus e latebra e sulle prime tenta di salvarsi con la menzogna spacciandosi per un altro, ma viene riconosciuto, condotto in ludibrio, torturato, scorticato, trascinato con i ganci e infine gettato nel Tevere23. Anche Cola di Rienzo tenta di fuggire con l’inganno, fingendosi un ciociaro, ma viene fermato e riconosciuto perché sotto agli spregevoli panni porta bracciali dorati; una volta scoperto, non nega la propria identità. Portato nel luogo delle esecuzioni, poco dopo viene ucciso, quindi il suo corpo viene massacrato e trascinato con le funi, appeso per due giorni, infine arso24. Essay on the damnatio in memoria of Clement III (1084-1100) and Rome’s River as a Place of Oblivion and Memory, «Reti Medievali Rivista», in corso di stampa. 23 Suet. VIII, 16-17: «[16]. Postridie responsa opperienti nuntiatum est per exploratorem hostes appropinquare. Continuo igitur abstrusus gestatoria sella, duobus solis comitibus, pistore et coco, Aventinum et paternam domum clam petit, ut inde in Campaniam fugeret; mox levi rumore et incerto, tamquam pax impetrata esset, referri se in Palatium passus est. Ubi cum deserta omnia repperisset, dilabentibus et qui simul erant, zona se aureorum plena circumdedit confugitque in cellulam ianitoris, religato pro foribus cane lectoque et culcita obiectis. [17] Irruperant iam agminis antecessores ac nemine obvio rimabantur, ut fit, singula. Ab is extractus e latebra, sciscitantes quis esset (nam ignorabatur) et ubi esset Vitellium sciret, mendacio elusit; deinde agnitus rogare non destitit, quasi quaedam de salute Vespasiani dicturus, ut custodiretur interim vel in carcere, donec religatis post terga manibus, iniecto cervicibus laqueo, veste discissa seminudus in forum tractus est inter magna rerum verborumque ludibria per totum viae Sacrae spatium, reducto coma capite, ceu noxii solent, atque etiam mento mucrone gladii subrecto, ut visendam praeberet faciem neve summitteret; quibusdam stercore et caeno incessentibus, aliis incendiarium et patinarium vociferantibus, parte vulgi etiam corporis vitia exprobrante; erat enim in eo enormis proceritas, facies rubida plerumque ex vinulentia, venter obesus, alterum ferum subdebile impulsu olim quadrigae, cum auriganti Gaio ministratore exhiberet. Tandem apud Gemonias minutissimis ictibus excarnificatus atque confectus et inde unco tractus in Tiberim». 24 Anche Matteo Villani, Cronica, p. 190 sgg., racconta l’episodio discostandosi per alcuni particolari: l’assedio del Campidoglio dura fino a sera, Cola decide di far aprire le porte LA MORTE DI COLA DI RIENZO NARRATA DALL’ANONIMO ROMANO 57 La casetta del portiere, la coperta: certo è un po’ poco per stabilire un nesso25, se non fosse che questi richiami tra i due testi affiorano proprio in quella zona del racconto dell’Anonimo che è tra le più brillanti dal punto di vista dell’invenzione narrativa, ma anche la più opaca riguardo alla possibile aderenza a fatti accertati. È la zona angosciosa nella quale l’autore, pur scrivendo «dolore ène de recordare», non poteva sapere che cosa Cola stesse facendo davvero, ma nella quale la sua volontà di narrare è così forte da presumere di poter entrare addirittura nella testa del suo personaggio. Chissà, forse Locciolo Pellicciaro, oltre a tradire Cola comunicando ai rivoltosi le sue mosse all’interno del palazzo, raccontò questa storia all’Anonimo. O forse il portinaio di Campidoglio riconobbe il povero mantello e la coperta che gli appartenevano, cosicché la vicenda poté essere ricostruita basandosi su questa dichiarazione. O forse ancora, lo stesso Anonimo fu tra le persone rimaste vicino a Cola, fra i tre compagni o i carcerati: ma allora, perché non dirlo? O forse infine, e lo ritengo molto più probabile, il vuoto di testimonianze su che cosa avesse fatto Cola di Rienzo pochi minuti prima di venire catturato, fu riempito con l’eco del gesto attribuito a un altro tiranno romano di milletrecento anni prima. del palazzo dalla sua famiglia per consentirne il saccheggio come da usanza, e non vi è menzione dell’incendio. Tuttavia, anche qui sono ricordati il tentativo di camuffarsi («tramutato l’abito suo in abito di ribaldo») e «il fascio d’una materassa con altri panni dal letto» che Cola aveva finto di rubare per confondersi con gli altri razziatori, ma che andando a urtare per sbaglio contro un tale, lo fece riconoscere decretandone il linciaggio immediato. 25 Cfr. Seibt, Anonimo, p. 90, che sottolinea come, per tutti gli altri autori a parte Livio, «l’indipendenza dell’Anonimo rende difficile addurre prove stringenti di tipo filologico che vadano al di là di semplici analogie». Svetonio non viene neppure ricordato dall’anonimo nel Prologo, dove egli cita Livio, Lucano e Sallustio.