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Chiara Battistella, Professore associato di Lingua e letteratura latina presso l’Università degli Studi di Udine, ha tra i suoi interessi principali la poesia di età augustea (soprattutto Virgilio e Ovidio) e le tragedie di Seneca. Marco Fucecchi, Professore associato di Lingua e letteratura latina presso l’Università degli Studi di Udine, si occupa di poesia dell’età augustea e flavia, in particolare di Virgilio, Ovidio, Silio Italico, Stazio, Valerio Flacco. CHIARA BATTISTELLA – MARCO FUCECCHI (A CURA DI) DOPO OVIDIO L’opera di Ovidio ha condizionato in misura notevole l’evoluzione dei generi letterari a partire dalla prima età imperiale per arrivare, attraverso il tardoantico, fino al medioevo e oltre. Per quanto la memoria ovidiana eserciti spesso un’influenza diretta, la sua è anche un’azione indiretta, sotterranea, che, tuttavia, non per questo va sottovalutata. I saggi qui raccolti si propongono di indagare, secondo approcci e metodi diversi, il modo in cui l’opera di Ovidio riesce fin da subito a sollecitare le energie produttive del sistema letterario e a “riplasmare” il canone. La spinta all’innovazione che l’autore augusteo imprime alla letteratura successiva è paragonabile a un’irradiazione, che interessa sia la produzione in versi sia quella in prosa: essa finirà per lasciare tracce indelebili nella costruzione del sistema letterario a partire dal I secolo d.C., investendo, tra continuità e rottura, aspetti quali il confine tra generi letterari e la presenza e funzione del mito. DOPO OVIDIO ASPETTI DELL’EVOLUZIONE DEL SISTEMA LETTERARIO NELLA ROMA IMPERIALE (E OLTRE) A CURA DI CHIARA BATTISTELLA E MARCO FUCECCHI ISBN 978-88-5756-118-9 MIMESIS Mimesis Edizioni Eterotopie www.mimesisedizioni.it 26,00 euro 9 788857 561189 MIMESIS / ETEROTOPIE MIMESIS / ETEROTOPIE N. 607 Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna comitato scientifico Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid), Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Giuseppe Di Giacomo (Sapienza Università di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio Guerri (Accademia di Belle Arti di Brera), Micaela Latini (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma), Valentina Tirloni (Université Nice Sophia Antipolis), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3) I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review DOPO OVIDIO Aspetti dell’evoluzione del sistema letterario nella Roma imperiale (e oltre) A cura di Chiara Battistella e Marco Fucecchi MIMESIS Questo volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici e del Patrimonio culturale dell’Università di Udine – PRID 2017. MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine) www.mimesisedizioni.it mimesis@mimesisedizioni.it Collana: Eterotopie, n. 607 Isbn: 9788857561189 © 2019 – MIM EDIZIONI SRL Via Monfalcone, 17/19 – 20099 Sesto San Giovanni (MI) Phone: +39 02 24861657 / 24416383 INDICE introduzione Chiara Battistella, Marco Fucecchi 7 I immaginare ovidio come poeta dell’impero: la Consolatio ad liviam de morte drusi Marko Marinčič 15 il poeta e il principe-poeta. riflessioni su ovidio sotto nerone Luigi Galasso 33 et qui Corpora prima transfigurat. la poetica ovidiana di stazio Federica Bessone 53 intertestualità e ricezione: sulle tracce di ovidio nelle argonautiChe di valerio flacco Lavinia Galli Milić, Damien Nelis 71 ii le armi e la morte: elementi ovidiani nella battaglia di marsiglia (lucan. 3, 509 ss.) Marta M. Perilli 95 mira loquor: lo spettacolo (ovidiano) della guerra e l’estetica della morte nella tebaide di stazio Stefano Briguglio 115 guerre sbagliate, guerre inutili: un tema ovidiano in valerio flacco? Marco Fucecchi 133 iii atteone, lelape, diofane, orfeo: ovidio e apuleio Luca Graverini 153 les répétitions comme stratégie ovidienne de constitution d’une œuvre globale: le cas des poèmes politiques de claudien Valéry Berlincourt 171 ovidio in sidonio apollinare: il carme 9 e l’ibis Chiara Battistella 187 molti secoli dopo ovidio. rimodulazioni ovidiane nell’impero carolingio Angela Cossu 201 “ovidio” in greco in terra d’otranto: i verba insidiosa di aconzio nel vind. phil. gr. 310 Fabio Vendruscolo 221 metamorfosi del mito di deucalione e pirra nella “nuova età ovidiana” Francesco Ursini 235 bibliografia 251 luca graverini ATTEONE, LELAPE, DIOFANE, ORFEO: OVIDIO E APULEIO L’importanza di Ovidio per le Metamorfosi di Apuleio è stata oggetto di vari studi in passato, ma se la si analizza nell’ottica di una tradizionale Quellenforschung i risultati appaiono più magri di quello che ci si potrebbe aspettare: in Apuleio, come peraltro in molti altri autori, è soprattutto dell’Eneide che ritroviamo frequenti riprese, sia nel lessico che nelle linee narrative, che mostrano anche i caratteri dell’intenzionalità allusiva. Contatti di questo tipo con la poesia ovidiana ci sono, ma sono più rari e apparentemente limitati ad alcuni ambiti specifici, come inevitabilmente quello della metamorfosi1. Se però ci spingiamo oltre la pura ricerca delle allusioni più facilmente quantificabili e misurabili diventa possibile perfino affermare, come fa Lara Nicolini, che “Ovidio… doveva avere per Apuleio qualcosa di più rispetto a Virgilio. Ovidio era molto probabilmente sentito oltre che come creatore di lingua, come maestro di estetica, un maestro affine per gusto”2. Lo studio della Nicolini raggiunge risultati di grande importanza, e dipinge Ovidio come maestro delle qualità “ecfrastiche” e “spettacolari” proprie della lingua e dello stile di Apuleio. Ed è proprio da una ekphrasis che voglio partire, sia soffermandomi su fatti generici di lingua, stile e tecnica narrativa, sia evidenziando qualche nuovo caso di intertestualità ovidiana. 1 2 Due riferimenti classici per Apuleio e Ovidio sono Bandini 1986; Krabbe 1989, pp. 37 ss. Per un approccio più aggiornato, vd. il lavoro di Lara Nicolini citato nella nota successiva. Per Apuleio e Virgilio, un ottimo punto di partenza è Harrison 2013. Riguardo alla concentrazione di ovidianismi soprattutto nelle sezioni di argomento metamorfico, è comunque lecito un sospetto di circolarità, dato che è soprattutto in questi contesti che gli studiosi inevitabilmente vanno in cerca di tracce di Ovidio. Nicolini 2013, p. 162. Dopo Ovidio 154 1. Atteone Il capitolo 2.4 delle Metamorfosi è dedicato alla descrizione dell’atrio della casa di Birrena, una zia del protagonista Lucio. Al suo centro si trova un gruppo scultoreo che rappresenta il mito di Atteone, il cacciatore curioso che spia Diana mentre si lava nelle acque di un ruscello; il suo atto sacrilego viene punito dalla dea, che trasforma il malcapitato in cervo. Ecco il testo: 1 Atria longe pulcherrima columnis quadrifariam per singulos angulos stantibus attollebant statuas, 2palmaris deae facies, quae pinnis explicitis sine gressu pilae volubilis instabile vestigium plantis roscidis delibantes nec ut maneant inhaerent et iam volare creduntur. 3Ecce lapis Parius in Dianam factus tenet libratam totius loci medietatem, signum perfecte luculentum, veste reflatum, procursu vegetum, introeuntibus obvium et maiestate numinis venerabile. 4Canes utrimquesecus deae latera muniunt, qui canes et ipsi lapis erant; his oculi minantur, aures rigent, nares hiant, ora saeviunt, et sicunde de proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire; 5et in quo summum specimen operae fabrilis egregius ille signifex prodidit, sublatis canibus in pectus arduis pedes imi resistunt, currunt priores. 6 Pone tergum deae saxum insurgit in speluncae modum muscis et herbis et foliis et virgulis et sicubi pampinis et arbusculis alibi de lapide florentibus. 7Splendet intus umbra signi de nitore lapidis. Sub extrema saxi margine poma et uvae faberrime politae dependent, quas ars aemula naturae veritati similes explicuit. 8Putes ad cibum inde quaedam, cum mustulentus autumnus maturum colorem adflaverit, posse decerpi, 9et si fontem, qui deae vestigio discurrens in lenem vibratur undam, pronus aspexeris, credes illos ut rure pendentes racemos inter cetera veritatis nec agitationis officio carere. 10Inter medias frondes lapidis Actaeon simulacrum curioso optutu in deam proiectus iam in cervum ferinus et in saxo simul et in fonte loturam Dianam opperiens visitur. 1 L’atrio era di una bellezza straordinaria. A ciascuno dei quattro angoli faceva svettare in cima a delle colonne delle statue, 2che rappresentavano la dea della vittoria: ad ali spiegate, senza fare nemmeno un passo, con le punte dei piedi umidi di rugiada sfiorano appena il supporto instabile di un globo pronto a rotolare via; vi si poggiano sopra ma non per restarci, e paiono anzi aver già spiccato il volo. 3E lì, esattamente al centro dell’ambiente, c’è un marmo di Paro modellato in forma di Diana, una statua perfetta e splendida: con la veste gonfiata dal vento e il passo atletico, venerabile nella sua maestà divina, sembra venire incontro a chi entra. 4Dei cani, anch’essi scolpiti nel marmo, la scortano L. Graverini - Ovidio e Apuleio 155 ad ambo i lati; lo sguardo aggressivo, le orecchie ritte, le narici dilatate, le fauci rabbiose... se per caso sentissi abbaiare d’intorno, il latrato ti sembrerebbe provenire da quelle gole di marmo. 5E quel sublime scultore aveva dato la prova più alta della sua arte nel rappresentare i cani protesi in avanti a petto dritto, con le zampe posteriori fisse a terra e le anteriori in piena corsa. 6Alle spalle della dea s’innalza una roccia fatta a mo’ di spelonca; dal marmo crescono rigogliosi muschio, erbe, foglie, rametti, e qua e là germogli e arbusti. 7Al suo interno, sulla pietra lucida risplende l’ombra della statua. Dal bordo della roccia pendono pomi e grappoli d’uva, levigati con straordinaria maestria: un’arte capace di imitare la natura li ha rappresentati del tutto simili a frutti veri. 8 Potresti quasi credere che un giorno l’autunno profumato di mosto li soffonderà di un colore maturo, e allora li si potrà cogliere e mangiare. 9 Se ti chinassi a osservare l’acqua della fonte, che scorrendo attorno ai piedi della dea si increspa in onde delicate, ti parrebbe che quei grappoli, proprio come quelli che pendono dai loro tralci in campagna, oltre agli altri tratti di verosimiglianza possedessero anche quello di poter ondeggiare al vento. 10In mezzo a quelle fronde di pietra si può scorgere, sia scolpita nella pietra che riflessa sull’acqua, una statua di Atteone proteso verso la dea con sguardo curioso: e mentre aspetta che Diana si lavi, già si sta trasformando in cervo (Graverini). È piuttosto evidente come la disavventura di Atteone sia a grandi linee analoga a quella di Lucio, una storia di curiosità sacrilega punita con una metamorfosi; e che quindi l’ekphrasis del gruppo scultoreo costituisce una mise en abyme del romanzo che la contiene. Questo effetto è raggiunto tramite alcune innovazioni rispetto alla tradizione mitografica. Nel romanzo, innanzitutto, la metamorfosi di Lucio non è né definitiva né tanto meno letale: il fatto che il gruppo statuario non faccia alcun cenno al finale dell’episodio mitologico, nel quale Atteone trasformato in cervo muore sbranato dai suoi stessi cani da caccia, risponde allo scopo di rendere più facile per il lettore vedere il destino di Lucio rispecchiato in quello del cacciatore. L’adattamento operato da Apuleio è evidente non solo nel mancato finale, ma anche nella gestione di un dettaglio importante: la funzione dei cani. Il loro assalto contro Atteone è un particolare che normalmente ha grande risalto nella tradizione sia iconografica che letteraria (Ovidio dedica i vv. 3.206-225 a un lungo elenco dei loro nomi, più di trenta), ed è 156 Dopo Ovidio dotato chiaramente di un grande appeal emotivo e visivo3. Apuleio sceglie di non ometterlo, ma, dato che la morte del cacciatore viene lasciata fuori scena, gli animali, invece di essere connessi a lui, diventano “guardie del corpo” della dea (par. 4: canes utrimquesecus deae latera muniunt). I cani inoltre sembrano voler aggredire non il cacciatore curioso, ma chi entra in casa di Birrena4: Lucio quindi, e noi lettori con lui. L’avvertimento è implicito e sottile, ma difficile da ignorare: il mito di Atteone potrebbe riguardare Lucio, e forse persino noi lettori che con lui inevitabilmente ci identifichiamo. L’innovazione centrale, infine, riguarda la curiosità di Atteone. In Ovidio e in Callimaco, i due precedenti letterari più importanti, Atteone è soltanto vittima di un destino avverso5. In Apuleio, invece, il cacciatore ammira le grazie della dea curioso optutu attendendo che essa si lavi: la sua curiosità è un importante elemento in comune con il carattere di Lucio6, e contribuisce a fare dell’ekphrasis una buona mise en abyme del romanzo che la contiene. Il gruppo statuario di Diana e Atteone è immerso in un paesaggio naturale estremamente dettagliato, del quale fanno parte anche (par. 7) poma et uuae faberrime politae... quas ars aemula naturae ueritati similes explicuit. Il parallelo tra arte e natura, tra arte e vita, è un topos molto frequentato nella cultura antica. Tuttavia è chiaro che l’arte non imita soltanto la natura, ma anche (e forse soprattutto) altra arte: e qui l’intertestualità guarda chiaramente a Ovidio, in uno dei non numerosi casi di citazione evidente e intenzionale di cui parlavo prima. Come è stato osservato da molti, il modello preciso è Met. 3.155 ss., che è proprio il brano in cui Ovidio descrive il paesaggio naturale che fa da sfondo all’incontro tra Diana e Atteone: uallis erat… / … / cuius 3 4 5 6 Sul catalogo dei nomi dei cani vd. Schlam 1984, p. 84 e n. 5. Per Leach 981, p. 309 nelle rappresentazioni sia letterarie che iconografiche del mito “the destruction of Acteon by his own dogs remains constant”. Immaginiamo i cani rivolti nella stessa direzione della statua di Diana, che è introeuntibus obvium. L’effetto è simile a quello provocato dal canis ingens dipinto all’ingresso della casa di Trimalchione in Petronio, Sat. 29.1. Ov. Met. 3.176 sic illum fata ferebant; Tr. 2.1.105 inscius Actaeon vidit sine veste Dianam. Callimaco, In lavacrum Palladis 113 οὐκ ἐθέλων περ ἴδῃ χαρίεντα λοετρά. Per un precedente iconografico per Atteone rappresentato “as a waiting spy rather than as an accidental intruder” vd. Schlam 1984, p. 100. Sulla curiosità di Lucio, un tema fondamentale nel romanzo, si può partire da Graverini, Nicolini 2019, pp. xxxi ss. e nota a I 2, 17-18, con riferimenti alla letteratura precedente. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 157 in extremo est antrum nemorale recessu / arte laboratum nulla: simulauerat artem / ingenio natura suo. L’ekphrasis di Apuleio quindi, nella quale l’arte imita la natura, scolpisce nel marmo il paesaggio naturale descritto da Ovidio, nel quale la natura imita l’arte. In Ovidio, un Atteone in carne ed ossa si muove in un paesaggio naturale che pare scolpito da mano d’artista; Apuleio gareggia in arguzia con il proprio modello e ne capovolge il paradigma, rovesciando la gerarchia e ricollocando arte e natura nei loro ruoli tradizionali7. Qui vorrei però portare la discussione su di un livello più generale. Ruurd Nauta, parlando di ekphraseis, ha ben osservato che “un’opera d’arte interna a un testo può diventare un’immagine dell’opera d’arte che il testo stesso vuol diventare”8. All’inizio, nel presentare brevemente la descrizione apuleiana, per rendere le cose più semplici ho detto subito che il gruppo statuario descritto da Lucio rappresenta il mito di Diana e Atteone. Nel testo del romanzo le cose non stanno affatto così: la descrizione manca di una visione sintetica iniziale e segue lo sguardo di Lucio che si perde in mille dettagli periferici (le Vittorie alate ai quattro angoli dell’atrio, la bellezza di Diana, i suoi cani, i numerosi dettagli che compongono lo sfondo naturale dell’azione e rivelano la bravura dell’artista), così che fino quasi alla fine chi legge può benissimo pensare che il gruppo statuario rappresenti semplicemente una Diana cacciatrice9. Atteone, con il suo sguardo curioso, compare soltanto alla fine, costringendo il lettore attento ad una reinterpretazione di tutto ciò che viene prima: non una semplice descrizione di Diana quindi, non soltanto un pezzo di bravura retorica, ma una mise en abyme dell’intero romanzo e un avvertimento importante per Lucio, curioso quanto Atteone10. Questa rivelazione finale fa diventare 7 8 9 10 Vd. Hinds 2002, p. 146; Barchiesi, Rosati 2007, p. 153 s.; Barchiesi, Hardie 2010, p. 71; Nicolini 2013, pp. 167 ss. sulla sensibilità visiva che accosta questa ekphrasis alla maniera ovidiana e alla sua “poetica della spettacolarizzazione”. Sull’arte che imita la natura cfr. il grappolo d’uva dipinto da Zeuxi in Plinio, Nat. hist. 35.65; Seneca retore, Controversiae 10.5.27; Seneca, Ep. 65.3 omnis ars naturae imitatio est. Aristofane di Bisanzio si chiedeva chi tra Menandro e la vita imitasse l’altro (Menandro, Test. 83 Kassel-Austin; Siriano, Scholia ad Hermogenem 23). Nauta 2013, pp. 249 ss. Vd. ad es. van Mal-Maeder 2001, p. 98. L’avvertimento, come altri nel romanzo, è destinato a rimanere non colto: vd. sotto nel testo sul commento di Lucio a 2.5.1, che si limita ad un 158 Dopo Ovidio l’ekphrasis una rappresentazione ancor più fedele del romanzo che la contiene, di cui riproduce non solo il tema della curiosità punita ma anche la struttura: come la descrizione del gruppo statuario, infatti, anche il romanzo acquista significato proprio alla fine con la rivelazione isiaca dell’ultimo libro, che ci sollecita ad applicare a quanto abbiamo letto fino a quel punto una chiave interpretativa di tipo filosofico e religioso11. Nell’ekphrasis compare quindi effettivamente l’opera che la contiene, come suggerisce Nauta, e a più livelli. Ma ci possiamo spingere anche oltre: in essa si può scorgere il riflesso, appena distorto come quello dei grappoli d’uva che si riflettono nell’acqua increspata da onde leggere, anche dell’autore. Mi pare del tutto lecito infatti considerare l’egregius… signifex che ha scolpito la statua (par. 5) una manifestazione di Apuleio, che ha scritto il romanzo12. Non solo perché in effetti l’egregio scultore non è altro che una creazione letteraria dell’autore del romanzo, ma anche e soprattutto perché i due artisti sono evidentemente accomunati dal gusto baroccheggiante, dalla ricerca della perfezione stilistica e formale, dalla meticolosa mimesi della realtà. Lo scultore descrive sulla pietra inerte non tanto un’immagine fissa quanto una scena in movimento, una storia che si dispiega di fronte ai nostri occhi – i cani e la natura che circonda la scena sembrano vivi, e Atteone è iam in cervum ferinus, il suo destino si sta compiendo. È un atto in divenire; non una fotografia, ma un film. Si tratta naturalmente di un procedimento comune nelle rappresentazioni iconografiche di questo e altri miti, ma inevitabilmente questa dimensione narrativa della scultura rende il suo autore un buon equivalente del romanziere che gli ha dato vita. 11 12 apprezzamento estetico e superficiale. Questo è in realtà un grosso problema negli studi apuleiani, e la critica lo affronta in modo tutt’altro che unanime. Ho espresso il mio punto di vista in Graverini 2007. La corrispondenza tra scultore e narratore può essere anch’essa un tratto ovidiano, se si pensa a quanto è facile vedere in Pigmalione, che scoplpisce mira… arte (Met. 10.247) una donna bellissima e quasi viva, che poi prenderà realmente vita grazie a Venere, una sorta di allegoria del poeta Ovidio (vd. ad es. Reed 2013, p. 223). Anche nell’episodio di Pigmalione, come in quello di Atteone, Ovidio affronta il tema del rapporto del labile confine tra arte e vita: cfr. 10.250-253 virginis est verae facies, quam vivere credas… ars adeo latet arte sua. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 159 A completare il quadro, in questa parte del romanzo troviamo anche una rappresentazione chiara del lettore, e del processo interpretativo che egli è chiamato a compiere. Come ho detto, per ammirare il gruppo scultoreo e ricrearlo nella nostra phantasia13 noi non possiamo fare altro che seguire lo sguardo di Lucio, che ci guida nel cogliere un dettaglio dopo l’altro ma non offre mai una visione d’insieme, come quella che chi entrasse in casa di Birrena sarebbe certamente in grado di avere14. Questo da una parte risponde all’esigenza di riservare alle righe finali dell’ekphrasis la sorprendente e significativa rivelazione della presenza di Atteone curioso; dall’altra riproduce il modo in cui un lettore, più che non un vero e proprio spettatore, può farsi un’idea di un’opera descritta e non vista direttamente. Si tratta di una descrizione, appunto, lineare, non sintetica, estremamente adatta ad essere inverata nelle linee di un testo scritto. Se l’“egregio scultore” è quindi un analogo dello scrittore Apuleio, Lucio in quanto “lettore” del gruppo scultoreo è un buon analogo del lettore extradiegetico che legge il testo del romanzo: ed è notevole come noi, lettori esterni, qui inevitabilmente diventiamo Lucio, essendo costretti (come sempre, ma con maggiore evidenza) a vedere – o se vogliamo a leggere – le cose esclusivamente tramite il suo sguardo. Leggere una descrizione è un’attività non solo immaginativa ma anche interpretativa: ad esempio, la rivelazione finale della presenza di Atteone è un potente incoraggiamento a riflettere sulla curiosità e sulle sue conseguenze. Ma se l’immaginazione è una facoltà comune più o meno a tutti, lo stesso non si può dire per la capacità di interpretare: e Lucio, come in altre occasioni, ce lo dimostra. Subito dopo l’ekphrasis, il suo commento a 2.5.1 mostra come il suo 13 14 Incitare il pubblico a crearsi vivide immagini mentali di ciò che viene narrato o descritto è un compito fondamentale della retorica antica: ogni buon retore o scrittore doveva essere in grado di conferire evidentia alle proprie parole. L’evidentia (in greco enargeia) costituisce, anche se in maniera implicita, il background concettuale di quasi tutto quello che andrò dicendo in questo lavoro; tra gli studi più importanti recenti in merito vd. Zanker 1981; Walker 1993; Cassin 1997; Webb 1997; Manieri 1998; Webb 2009, spec. pp. 87-130. Di evidentia e romanzo mi sono occupato in Graverini 2013. Si rileva in pratica una sovrapposizione tra la pretesa di oggettività di una descrizione, e la prospettiva soggettiva di chi descrive; su questa tecnica narrativa (applicata al Satyricon di Petronio) vd. ad es. Auerbach 1956, vol. 1 p. 30 “il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna in profondità”. 160 Dopo Ovidio apprezzamento per l’opera dell’egregius signifex sia essenzialmente estetico e superficiale: dum haec identidem rimabundus eximie delector… In sostanza, il lettore che voglia andare oltre il vano apprezzamento della perfezione stilistica sia della scultura virtuale che della virtuosa ekphrasis offerta dal racconto è lasciato a sé stesso, e il testo sembra anzi scoraggiarlo. Questo non vuol dire che il testo non tenti sottilmente di coinvolgere il lettore nell’attività di osservare e interpretare, o male interpretare se vogliamo; è soltanto che Apuleio gli rende le cose non troppo facili. Ed è qui che ancora una volta, come vedremo, si fa sentire forte l’influenza ovidiana. L’ekphrasis ha una struttura non semplicemente descrittiva, ma quasi dialogica, e contiene alcuni verbi alla seconda persona singolare: al par. 4 Lucio afferma che i cani sono scolpiti nel marmo in modo talmente realistico che se per caso si sentisse un latrato si potrebbe pensare (putabis) che fossero quelle fauci di pietra ad emetterlo; al par. 8 dice che pomi e grappoli d’uva sono talmente verosimili che si potrebbe immaginare (putes) di coglierli e mangiarli; e al par. 9 afferma che se ci si chinasse a osservarne il riflesso sull’acqua della fonte sembrerebbe che pomi e grappoli oscillassero al vento, proprio come quelli veri (si fontem aspexeris, credes…). Chi è questo “tu” a cui Lucio si rivolge? Nell’ekphrasis, al dialogo tra Lucio e Birrena si sovrappone chiaramente, fino a sostituirlo del tutto, il dialogo diretto tra autore e lettore15. Spesso i traduttori rendono queste seconde persone singolari con degli impersonali; che è naturalmente lecito, ma non rende giustizia al “tu” chiamato in causa così spesso, al lettore che è invitato sulla scena a contemplare assieme a Lucio questa meraviglia scultorea. In sostanza, l’ekphrasis dell’atrio di Birrena crea metodicamente uno spazio tridimensionale del racconto nel quale il lettore è invitato a entrare assieme al narratore Lucio, osservandolo con gli occhi di lui e persino interpretandolo con la sua testa. Questa naturalmente è una tecnica retorica abbastanza comune nella pratica ecfrastica antica. Il tema della metamorfosi di Atteone tuttavia, e l’intertestualità che abbiamo analizzato finora, puntano decisamente verso Ovidio, che era – come ha ben osservato Gianpiero 15 O, se vogliamo, tra Lucio come narratore retrospettivo e lettore; ma, come sempre, non è facile distinguere tra Lucio-auctor e autore vero e proprio. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 161 Rosati – un maestro nell’uso di questi procedimenti16. Il trattamento ovidiano della metamorfosi di Atteone in effetti è esemplare in questo, e ci offre vari punti di vista sul processo di trasformazione. Il primo, drammaticamente, è proprio quello di Atteone, che si stupisce di vedersi così veloce a fuggire, e commisera la propria sorte nel vedere il proprio riflesso sull’acqua (3.199 s. et se tam celerem cursu miratur in ipso. / Ut vero vultus et cornua vidit in unda...). Poi i cani “vedono” Atteone/cervo a 3.206 videre canes, e a 3.230 Atteone li esorta a riconoscere il loro padrone (dominum cognoscite vestrum). A 3.243 s. i compagni di caccia “cercano Atteone con gli occhi” lamentandosi che l’amico sia troppo lento a seguirli e si perda lo spettacolo della preda catturata dai cani (nec capere oblatae segnem spectacula praedae). L’ultimo sguardo, con elegante composizione ad anello, è di nuovo quello di Atteone stesso, che vellet... videre, / non etiam sentire canum fera facta suorum17. Il visitur con cui si conclude il brano apuleiano può essere utilmente considerato sullo sfondo del frequentissimo videtur (o verbi simili, sia impersonali che alla seconda persona, in vari tempi e modi) che caratterizza le descrizioni ovidiane, e che come ha osservato Rosati fa appello alla percezione visiva del lettore/ascoltatore e lo trasforma in spettatore18. Vedremo tra poco come Apuleio faccia ricorso, per stimolare la phantasia del suo lettore, a elementi lessicali molto simili a quelli prediletti da Ovidio; prima, però, soffermiamoci su un altro caso di intertestualità evidente e probabilmente deliberata. 16 17 18 Vd. Rosati 1983, p. 140 e n. 88. Virgilio ne fa un uso più parco, ma cfr. ad es. le tre apostrofi nella descrizione dello scudo di Enea: Aen. 8.676 videres, 691 credas e 649 s. illum indignanti similem similemque minanti / aspiceres. Il fatto che il prodigio possa essere oggetto dello sguardo – di volta in volta ammirato o esterrefatto – anche del soggetto stesso della metamorfosi (oltre che di spettatori esterni) è un elemento chiave e ricorrente della “spettacolarità” della poesia ovidiana: vd. Rosati 1983, pp. 143 ss. È una lezione che Apuleio sembra aver interiorizzato: ce lo dimostra anzitutto nella descrizione della trasformazione di Lucio, che a 3.24.6 subito dopo essersi trasformato in asino riflette sull’unico motivo di consolazione che può vedere nel suo nuovo aspetto (vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 376 ad loc.). Rosati 1983, p. 139 ss. Il dettaglio del riflesso del volto semiferino di Atteone sull’acqua è naturalmente anche un più deciso ammiccamento verso il modello ovidiano più specifico (3.200 et cornua vidit in unda). Una rappresentazione simile si ha anche in un mosaico africano, sul quale vd. ora Moretti c. d. s. 162 Dopo Ovidio La phantasia del lettore di Apuleio è popolata non soltanto dei dettagli che lui può vedere attraverso lo sguardo di Lucio, ma anche delle suggestioni provocate dall’ekphrasis e che trasformano la pietra in materia vivente. Anche qui siamo in presenza di una tecnica usata magistralmente da Ovidio, che spesso invita il suo lettore a immaginare alcuni aspetti di una scena che risultano particolarmente inverosimili, o che per loro natura possono essere appunto soltanto immaginati e non propriamente descritti. Un caso esemplare è l’idea di vita e movimento suggerita dalla materia inerte, sia da Apuleio nella descrizione del gruppo statuario di Diana e Atteone19, sia da Ovidio in varie occasioni, tra le quali la storia del cane Lelape. L’animale, un infallibile cane da caccia, era stato regalato da Diana a Procri (7.754 s.), che a sua volta ne aveva fatto dono al marito Cefalo. Quest’ultimo lo impiega per tentare di catturare una volpe imprendibile che devasta le campagne di Tebe, dando luogo ad un inseguimento paradossale e potenzialmente infinito: un cane infallibile a caccia di una preda imprendibile. Un dio risolve la situazione pietrificando i due animali che però, pur immobilizzati nel marmo, continuano a sembrare perpetuamente in movimento. La scena è descritta attraverso lo sguardo stupito di Cefalo: … medio (mirum) duo marmora campo / aspicio: fugere hoc, illud captare putares (7.790 s.). Lelape è colto in un atto destinato a ripetersi in eterno senza mai giungere a conclusione20. La situazione è del tutto analoga a quella dei cani di Diana in Apuleio, ritratti nella posa di un’istante che il marmo innaturalmente protrae all’infinito: occhi minacciosi, orecchie ritte, narici spalancate, fauci aperte nell’illusione di un latrato che ovviamente non può venire mai, il corpo slanciato in una corsa che sembra in atto ma rimane immobile. Che i cani di pietra siano di Diana, sia in Ovidio che in Apuleio, può sembrare una coincidenza fortuita, ma in realtà è un dettaglio piuttosto notevole in ambedue gli autori. In Ovidio si tratta di una scelta fra 19 20 Vd. sopra su putabis, putes, credes; e Moretti 2019 sul “realismo illusionistico” dell’ekphrasis apuleiana, in contrasto con Apologia 14 dove l’arte della scultura è detta incapace di rendere il motus. In questo la pietra non tradisce la materia vivente, dato che Lelape era descritto allo stesso modo anche prima della trasformazione: 7.785 s. inminet hic sequiturque parem similisque tenenti / non tenet et vanos exercet in aera morsus. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 163 tradizioni mitografiche diverse21, mentre in Apuleio, come si è visto, l’appartenenza dei cani a Diana è semplicemente divergente nel contesto del mito di Atteone e prepara la sorpresa finale. È possibile che in Apuleio il dettaglio sia influenzato dal racconto ovidiano, nel quale troviamo un cane da caccia “di Diana” pietrificato in una posa aggressiva e piena di movimento; e l’ipotesi acquista ulteriore peso se prestiamo attenzione anche al putares finale, che in Ovidio invita il lettore ad integrare la rappresentazione mentale (un cane pietrificato) con un supplemento di immaginazione, che fa diventare viva la materia inerte. L’operazione è infatti del tutto analoga – anche lessicalmente – a quella che avviene nell’ekphrasis apuleiana: et sicunde de proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire. È piuttosto naturale considerare putabis e putares nell’ottica di una sottile intertestualità che connette Apuleio ad Ovidio, ma è possibile spingersi anche oltre ed aggiungere a questa sottile intertestualità un po’ di spessore. Nel testo ovidiano, il captare che precede putares è congettura di Polle, ma la lezione unanime dei codici è latrare. La congettura ha avuto larga fortuna ed è stata accolta nel testo di varie edizioni, tra cui la recente OCT di Tarrant. L’approvazione non è tuttavia unanime22; senza entrare ora approfonditamente nel merito della questione, vorrei osservare che latrare putares dei codici ovidiani costituisce un ottimo intertesto per eum (sc. latratum) putabis… exire di Apuleio, che quindi probabilmente leggeva latrare e non captare. Sia come sia, il verbo puto, usato ben due volte nella descrizione apuleiana (putabis, putes), fa chiaramente parte dell’idioletto di Ovidio quando il poeta vuole stimolare la phantasia del suo lettore e spingerlo a immaginare la realtà e la vita dietro una descrizione. Limitandoci ad alcuni esempi relativi alle descrizioni di metamorfosi, si possono ricordare: 21 22 Il cane fu donato a Procri da Minosse per Ps.-Apollodoro, Bibl. 2.58, Antonino Liberale 41.5, e Igino astronomo 2.35; il dono è invece fatto direttamente da Artemide, come in Ovidio, secondo Pausania 9.19.1 e Igino mitografo, fab. 189.5. I vari argomenti a supporto della lezione tradita sono ricapitolati e integrati in Felton 2001. Cfr. anche Wheeler 1999, p. 155, per cui latrare supporta bene lo “ecphrastic topos of verisimilitude… the idea that the statue appears so real that one would think it were barking is clearly a variation on the earlier petrifaction of the boasting Nileus”. Dopo Ovidio 164 3.453 posse putes tangi. Narciso descrive la sua immagine riflessa nell’acqua, che “potresti credere di poter toccare”. Il giovane parla alle silvae intorno a lui, ma chiaramente alla sua voce si sovrappone quella di Ovidio che si rivolge al suo lettore 6.104 verum taurum, freta vera putares / ipsa videbatur terras spectare relictas. La verosimiglianza della tela di Aracne, nella parte dove rappresenta il mito di Europa. 6.667 corpora Cecropidum pennis pendere putares: / pendebant pennis. Qui l’immaginazione del lettore diventa immediatamente “realtà”: Procne e Filomela sembrano uccelli, e subito lo diventano. 11.84 nodosaque bracchia veros / esse putes ramos, et non fallare putando. Bacco punisce le donne di Tracia per l’uccisione di Orfeo, e le trasforma in alberi: come nel caso precedente, la phantasia si invera immediatamente. 11.114 Hesperidas donasse putes. Una metamorfosi minore, quella di una mela in mela d’oro (“potresti credere che glie la avessero donata le Esperidi”) in seguito al tocco di Mida. Lo stesso si può dire per credo (cfr. 2.4.1 iam volare creduntur; 9 credes illos... nec agitationis officio carere). Ad esempio: 5.194 ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis. Ancora una volta, figure di pietra che danno l’impressione di vita e di movimento: i nemici di Perseo, impietriti alla vista della testa della Gorgone. Tra questi Nileo, che si esibisce in un’aggressione verbale ma non riesce a finirla. 10.250 virginis est verae facies, quam vivere credas, / et, si non obstet reverentia, velle moveri. / ars adeo latet arte sua. La donna d’avorio creata da Pigmalione, artista sublime e buon alter ego dell’autore extradiegetico, Ovidio – proprio come l’egregius signifex apuleiano. Anche qui l’idea di vita e di movimento offerta da un’opera d’arte (ancora) inanimata dà luogo a una riflessione sul rapporto tra arte e natura. Vorrei chiudere questa breve rassegna, che potrebbe durare ancora a lungo, con un brano veramente esemplare. Vertumno mette a frutto la capacità di alterare il proprio aspetto con travestimenti per avvicinare e conquistare la ritrosa Pomona. Il poeta, non meno esibizionista del suo personaggio, si produce nella rapida descrizione di quattro trasformazioni nello spazio di sei versi (Met. 14.645 ss.): tempora saepe gerens faeno religata recenti desectum poterat gramen versasse videri; saepe manu stimulos rigida portabat, ut illum L. Graverini - Ovidio e Apuleio 165 iurares fessos modo disiunxisse iuvencos. falce data frondator erat vitisque putator; induerat scalas: lecturum poma putares. A volte, recando la fronte fasciata da fieno ancor fresco, poteva sembrare che avesse appena rivoltato l’erba falciata; più spesso, nella mano rigida teneva un pungolo: avresti giurato che avesse appena staccato il giogo ai giovenchi stremati; se gli davi una falce, era uno che sfronda e che pota le viti (Chiarini). Ogni due versi troviamo un appropriato stimolo alle capacità immaginative del lettore, il secondo e il terzo tramite verbi alla seconda persona. Chi legge deve crearsi un’immagine mentale (poterat videri), crederla vera (iurares), interpretarla (putares). La phantasia del lettore e la sua capacità di creazione e decodifica delle immagini mentali sono costantemente chiamate in causa nella costruzione dell’universo narrativo, in Ovidio come in Apuleio; e in ambedue gli autori, il narratore spesso si rivolge direttamente al lettore per cercare di coinvolgerlo più personalmente nell’universo della finzione e fargli immaginare di trovarsi “sulla scena” assieme a lui. Talvolta però, sia in Ovidio che in Apuleio, si verificano situazioni paradossali nelle quali l’autore/narratore, invece di sollecitare la collaborazione del lettore e l’adesione di lui al suo progetto narrativo, sembra disincentivarla. 2. Storie da non credere A 2.12.5, in un brano importante e ben noto del romanzo di Apuleio, un profeta di nome Diofane predice a Lucio un destino di gloria letteraria: mihi denique... multa respondit et oppido mira et satis varia; nunc enim gloriam satis floridam, nunc historiam magnam et incredundam fabulam et libros me futurum. Il profeta diventa inevitabilmente una figura autoriale: il lettore accorto si rende conto che la profezia, seppure profferita da un indovino imbroglione, è vera, dato che sta appunto leggendo la fabula e ha in mano i libri; e capisce che nessun altro se non il suo autore può sapere come andranno a finire le Dopo Ovidio 166 cose23. Ci troviamo quindi nella situazione, senza dubbio paradossale, di un autore che suggerisce al lettore di non credere a ciò che gli viene raccontato: la fabula è infatti incredunda. Qui, come in altri casi, occorre naturalmente leggere il testo tra le righe: se la favola è incredibile, il lettore (al quale fin dal prologo è stato promesso un racconto pieno – tra l’altro – di stupefacenti metamorfosi) non può che essere ancor più invogliato a soddisfare la propria sete di mirabilia proseguendo nella lettura e credendo a ciò che gli viene raccontato – un po’ come l’ordine di “non aprire quella porta” finisce per essere, nelle fiabe come nei film horror, un incitamento irresistibile proprio a compiere l’atto proibito (naturalmente, con la piena solidarietà dell’ascoltatore/lettore). Lo stesso irresistibile richiamo alla lettura è offerto da una storia che rischia di non iniziare: a 2.20.6, ad esempio, Telifrone inizialmente rifiuta di raccontare una propria avventura, irritato dalle prese in giro degli altri invitati alla cena a casa di Birrena. Naturalmente si tratta di espedienti narrativi nobilitati dal tempo: già nell’Odissea, ad esempio, il racconto autobiografico di Odisseo ai Feaci rischia di terminare anzitempo quando l’eroe si interrompe e dice che la notte è fatta per dormire, non per raccontare. Saranno l’insistenza di Alcinoo in Omero, e quella di Birrena in Apuleio, a salvare la situazione e a permettere al racconto rispettivamente di giungere al termine e di iniziare, una volta che la curiosità del lettore è stata debitamente stimolata24. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma anche qui direi che Apuleio sta probabilmente mettendo a frutto una lezione ovidiana. È nel libro 10 delle Metamorfosi che troviamo, se non un propheta come Diofane, un vates (Orfeo) che consiglia ai suoi ascoltatori di non credere a ciò che sta per raccontare; e anche nel suo caso è difficile pensare che alla sua voce non si sovrapponga in qualche modo quella dell’autore extradiegetico, Ovidio. L’avvertimento di Orfeo in realtà è ampio e complesso. Il canto che sta per iniziare riguarda la relazione incestuosa di Cinira e Mirra, e il poeta avverte (10.300 ss.): dira canam; procul hinc natae, procul este parentes aut, mea si vestras mulcebunt carmina mentes, 23 24 Non può saperlo nemmeno Lucio-auctor, il narratore intradiegetico retrospettivo: che può sapere come finirà la sua storia, ma non di essere destinato a diventare una storia e un libro. Sulla pretesa riluttanza del narratore come espediente per stimolare la curiosità di chi lo ascolta vd. Sandy 1970, pp. 467 s. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 167 desit in hac mihi parte fides, nec credite factum, vel, si credetis, facti quoque credite poenam. La storia è tremenda. Allontanatevi o figlie, via di qua o padri, oppure se restate, allettati dal mio canto, esigo che non mi prestiate fede, non crediate a quel che racconto, o altrimenti, se ci credete, credete anche alla punizione (Chiarini). Vale la pena osservare che la poetica del romanzo apuleiano è molto simile a quella di Orfeo, i cui canti hanno il potere di mulcere le mentes di chi li ascolta: convincere, allettare, creare immagini vivide nella phantasia dell’ascoltatore, portarlo anima e corpo all’interno dell’universo narrativo… il parlante del prologo si attribuisce esattamente lo stesso potere quando promette di permulcere le orecchie del suo pubblico (1.1.1)25. Il testo di Ovidio pone un problema preliminare: chi è che ascolta, e chi è che veramente parla? Orfeo si rivolge a natae e parentes, padri e figlie, ma in realtà sappiamo che il suo pubblico è costituito da alberi, animali, uccelli, e perfino pietre capaci di muoversi26. Questa discrepanza ha portato molti interpreti a ritenere che qui Orfeo sia né più né meno che un portavoce di Ovidio27, che tenterebbe di distanziarsi da un racconto che poteva anche risultare sgradito e forse perfino pericoloso nel contesto delle riforme morali augustee. Ora, questa è certamente una posizione troppo estrema: Alessandro Barchiesi ha ben mostrato che ci sono ottimi motivi per prendere seriamente Orfeo come “autore” del prologo alla storia di Cinira e Mirra28. Tuttavia, appare difficile affermare che “non c’è più alcuna ragione per credere che ‘allontanatevi o figlie, via di qui o padri’ si debba riferire al pubblico di Ovidio” (61). Questi versi si riferiscono più probabilmente sia agli ascoltatori di Orfeo (animali, alberi, pietre) sia al pubblico romano di Ovidio, magari con scopi differenti. Un pubblico di “padri e figlie” è soltanto un’ipotesi per Orfeo, il 25 26 27 28 Vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 142, con riferimenti alla letteratura precedente. 10.143: tale nemus vates attraxerat inque ferarum / concilio medius turba volucrumque sedebat; 11.2 saxa sequentia. Vd. ad es. Solodow 1988, pp. 39 s.: “there is little or no separation between him [sc. Orpheus] and our Roman author […] Ovid is peeking out through the figure of Orpheus”. Barchiesi 2001a, pp. 58 ss. 168 Dopo Ovidio cui avvertimento servirà soltanto ad anticipare drammaticamente alcune caratteristiche del racconto che sta per iniziare; per il poema di Ovidio, invece, si tratta di una realtà inevitabile che potrebbe conferire a questi versi un carattere ben più minaccioso, ed è bene avvertire padri e figlie del pericolo che corrono ascoltando il racconto e inevitabilmente identificandosi con i suoi personaggi.29 Ci sono però buoni motivi per pensare che gli scopi di Orfeo e Ovidio siano più simili tra loro di quanto appaia in superficie, tanto che possiamo parlare di un narratore generico alla cui caratterizzazione ambedue contribuiscono. Se è nel fondamentale interesse di ogni narratore sollecitare il proprio pubblico ad ascoltare un racconto e crederlo vero (cioè, identificarsi con i suoi personaggi), è sconcertante come invece questo narratore avverta esplicitamente il suo pubblico che la storia di Cinira e Mirra non dovrebbe essere né ascoltata né creduta, e probabilmente neppure raccontata. È sconcertante, cioè, a meno che le sue parole non costituiscano una provocazione. La storia raccapricciante di una relazione proibita, una storia che dovrebbe esser tenuta segreta… chi mai potrebbe resistere, non ascoltarla, non credere che essa sia realmente accaduta o stia addirittura accadendo a lui stesso? C’è in questi versi una sottile vena di malizia: sia Orfeo che Ovidio sanno bene che, dopo un proemio come questo, il loro pubblico li ascolterà ancora più attentamente. Con uno spunto che appare del tutto originale, Ovidio (e Orfeo con lui) trasforma il topos a cui accennavo sopra, della storia che rischia di non essere raccontata, presentandoci una storia che non dovrebbe mai essere né ascoltata né creduta: il cantore vuole essere libero di fare il suo mestiere, ma avverte i suoi ascoltatori che loro, invece, non dovrebbero fare il loro30. Sia in Ovidio che in Apuleio, quindi, abbiamo brani in cui la voce dell’autore extradiegetico fa capolino, interagendo in modo provocatorio con quella di un personaggio e stimolando la curiosità 29 30 Cfr. Reed 2013, p. 333: “Fondamentale per questo passo è una teoria mimetica della poesia: che l’ascoltatore sia destinato a identificarsi con uno o un altro dei personaggi”. La richiesta di non ascoltare è un’innovazione probabilmente sollecitata dalla tradizione orfica, per cui i non iniziati erano avvertiti che era loro proibito conoscere i misteri del culto; e dalla altrettanto tradizionale riluttanza dei poeti epici a narrare esplicitamente il nefas. Sul primo punto vd. Barchiesi 2001a, p. 59; Reed 2013, p. 234. Sul secondo, Bernstein 2004 e Bessone 2006. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 169 dei suoi ascoltatori tramite una paradossale esortazione a non credere a ciò che viene raccontato. Sebbene questa esortazione a non credere sia molto particolare e, apparentemente, senza precedenti, sarebbe difficile sostenere che l’incredundam fabulam di Diofane debba essere considerata un’eco deliberata del nec credite factum ovidiano. Tuttavia, mi pare si possa suggerire che anche qui Apuleio metta in pratica una lezione ovidiana, una lezione fatta non di parole ma di tecnica narrativa. 3. Metalessi La critica moderna e contemporanea ha un termine ben preciso per definire buona parte di ciò di cui ho parlato in questa comunicazione. Con il nome di metalessi31 si indica in generale la sospensione delle regole che fissano i confini dell’universo narrativo e lo separano da quello reale nel quale vivono l’autore e il lettore; questa sospensione fa sì che l’autore o il narratore possano in alcune occasioni interrompere il racconto e rivolgersi più o meno esplicitamente al lettore, e che quest’ultimo possa talvolta sentirsi parte dell’universo narrativo – in sostanza, credere che la storia sia vera, che stia realmente accadendo, e che lui stesso ne faccia parte. Si può dire dunque che una lezione che Apuleio ha imparato da Ovidio è appunto l’uso di sottili metalessi per stimolare il coinvolgimento del lettore, che è continuamente esortato a vedere, capire, immaginare, stupirsi, (non) credere: tutte azioni che facilitano l’ingresso del lettore nell’universo narrativo e, direbbe Coleridge, la sua “temporanea sospensione dell’incredulità”32. Come dimostra il caso del cane Lelape, Ovidio è senz’altro una buona fonte di intertestualità per Apuleio, ancora solo parzialmente esplorata; eppure, come Lara Nicolini, credo che la lezione ovidiana più importante riguardi non tanto il “cosa” raccontare e descrivere, ma il “come” farlo. 31 32 Per un approccio critico al tema della metalessi si può partire da Nauta 2013 e 2013a. S.T. Coleridge, Biographia literaria (1817), cap. 14: “... It was agreed, that my endeavours should be directed to persons and characters supernatural, or at least romantic, yet so as to transfer from our inward nature a human interest and a semblance of truth sufficient to procure for these shadows of imagination that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic faith”. luca graverini ATTEONE, LELAPE, DIOFANE, ORFEO: OVIDIO E APULEIO L’importanza di Ovidio per le Metamorfosi di Apuleio è stata oggetto di vari studi in passato, ma se la si analizza nell’ottica di una tradizionale Quellenforschung i risultati appaiono più magri di quello che ci si potrebbe aspettare: in Apuleio, come peraltro in molti altri autori, è soprattutto dell’Eneide che ritroviamo frequenti riprese, sia nel lessico che nelle linee narrative, che mostrano anche i caratteri dell’intenzionalità allusiva. Contatti di questo tipo con la poesia ovidiana ci sono, ma sono più rari e apparentemente limitati ad alcuni ambiti specifici, come inevitabilmente quello della metamorfosi1. Se però ci spingiamo oltre la pura ricerca delle allusioni più facilmente quantificabili e misurabili diventa possibile perfino affermare, come fa Lara Nicolini, che “Ovidio… doveva avere per Apuleio qualcosa di più rispetto a Virgilio. Ovidio era molto probabilmente sentito oltre che come creatore di lingua, come maestro di estetica, un maestro affine per gusto”2. Lo studio della Nicolini raggiunge risultati di grande importanza, e dipinge Ovidio come maestro delle qualità “ecfrastiche” e “spettacolari” proprie della lingua e dello stile di Apuleio. Ed è proprio da una ekphrasis che voglio partire, sia soffermandomi su fatti generici di lingua, stile e tecnica narrativa, sia evidenziando qualche nuovo caso di intertestualità ovidiana. 1 2 Due riferimenti classici per Apuleio e Ovidio sono Bandini 1986; Krabbe 1989, pp. 37 ss. Per un approccio più aggiornato, vd. il lavoro di Lara Nicolini citato nella nota successiva. Per Apuleio e Virgilio, un ottimo punto di partenza è Harrison 2013. Riguardo alla concentrazione di ovidianismi soprattutto nelle sezioni di argomento metamorfico, è comunque lecito un sospetto di circolarità, dato che è soprattutto in questi contesti che gli studiosi inevitabilmente vanno in cerca di tracce di Ovidio. Nicolini 2013, p. 162. Dopo Ovidio 154 1. Atteone Il capitolo 2.4 delle Metamorfosi è dedicato alla descrizione dell’atrio della casa di Birrena, una zia del protagonista Lucio. Al suo centro si trova un gruppo scultoreo che rappresenta il mito di Atteone, il cacciatore curioso che spia Diana mentre si lava nelle acque di un ruscello; il suo atto sacrilego viene punito dalla dea, che trasforma il malcapitato in cervo. Ecco il testo: 1 Atria longe pulcherrima columnis quadrifariam per singulos angulos stantibus attollebant statuas, 2palmaris deae facies, quae pinnis explicitis sine gressu pilae volubilis instabile vestigium plantis roscidis delibantes nec ut maneant inhaerent et iam volare creduntur. 3Ecce lapis Parius in Dianam factus tenet libratam totius loci medietatem, signum perfecte luculentum, veste reflatum, procursu vegetum, introeuntibus obvium et maiestate numinis venerabile. 4Canes utrimquesecus deae latera muniunt, qui canes et ipsi lapis erant; his oculi minantur, aures rigent, nares hiant, ora saeviunt, et sicunde de proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire; 5et in quo summum specimen operae fabrilis egregius ille signifex prodidit, sublatis canibus in pectus arduis pedes imi resistunt, currunt priores. 6 Pone tergum deae saxum insurgit in speluncae modum muscis et herbis et foliis et virgulis et sicubi pampinis et arbusculis alibi de lapide florentibus. 7Splendet intus umbra signi de nitore lapidis. Sub extrema saxi margine poma et uvae faberrime politae dependent, quas ars aemula naturae veritati similes explicuit. 8Putes ad cibum inde quaedam, cum mustulentus autumnus maturum colorem adflaverit, posse decerpi, 9et si fontem, qui deae vestigio discurrens in lenem vibratur undam, pronus aspexeris, credes illos ut rure pendentes racemos inter cetera veritatis nec agitationis officio carere. 10Inter medias frondes lapidis Actaeon simulacrum curioso optutu in deam proiectus iam in cervum ferinus et in saxo simul et in fonte loturam Dianam opperiens visitur. 1 L’atrio era di una bellezza straordinaria. A ciascuno dei quattro angoli faceva svettare in cima a delle colonne delle statue, 2che rappresentavano la dea della vittoria: ad ali spiegate, senza fare nemmeno un passo, con le punte dei piedi umidi di rugiada sfiorano appena il supporto instabile di un globo pronto a rotolare via; vi si poggiano sopra ma non per restarci, e paiono anzi aver già spiccato il volo. 3E lì, esattamente al centro dell’ambiente, c’è un marmo di Paro modellato in forma di Diana, una statua perfetta e splendida: con la veste gonfiata dal vento e il passo atletico, venerabile nella sua maestà divina, sembra venire incontro a chi entra. 4Dei cani, anch’essi scolpiti nel marmo, la scortano L. Graverini - Ovidio e Apuleio 155 ad ambo i lati; lo sguardo aggressivo, le orecchie ritte, le narici dilatate, le fauci rabbiose... se per caso sentissi abbaiare d’intorno, il latrato ti sembrerebbe provenire da quelle gole di marmo. 5E quel sublime scultore aveva dato la prova più alta della sua arte nel rappresentare i cani protesi in avanti a petto dritto, con le zampe posteriori fisse a terra e le anteriori in piena corsa. 6Alle spalle della dea s’innalza una roccia fatta a mo’ di spelonca; dal marmo crescono rigogliosi muschio, erbe, foglie, rametti, e qua e là germogli e arbusti. 7Al suo interno, sulla pietra lucida risplende l’ombra della statua. Dal bordo della roccia pendono pomi e grappoli d’uva, levigati con straordinaria maestria: un’arte capace di imitare la natura li ha rappresentati del tutto simili a frutti veri. 8 Potresti quasi credere che un giorno l’autunno profumato di mosto li soffonderà di un colore maturo, e allora li si potrà cogliere e mangiare. 9 Se ti chinassi a osservare l’acqua della fonte, che scorrendo attorno ai piedi della dea si increspa in onde delicate, ti parrebbe che quei grappoli, proprio come quelli che pendono dai loro tralci in campagna, oltre agli altri tratti di verosimiglianza possedessero anche quello di poter ondeggiare al vento. 10In mezzo a quelle fronde di pietra si può scorgere, sia scolpita nella pietra che riflessa sull’acqua, una statua di Atteone proteso verso la dea con sguardo curioso: e mentre aspetta che Diana si lavi, già si sta trasformando in cervo (Graverini). È piuttosto evidente come la disavventura di Atteone sia a grandi linee analoga a quella di Lucio, una storia di curiosità sacrilega punita con una metamorfosi; e che quindi l’ekphrasis del gruppo scultoreo costituisce una mise en abyme del romanzo che la contiene. Questo effetto è raggiunto tramite alcune innovazioni rispetto alla tradizione mitografica. Nel romanzo, innanzitutto, la metamorfosi di Lucio non è né definitiva né tanto meno letale: il fatto che il gruppo statuario non faccia alcun cenno al finale dell’episodio mitologico, nel quale Atteone trasformato in cervo muore sbranato dai suoi stessi cani da caccia, risponde allo scopo di rendere più facile per il lettore vedere il destino di Lucio rispecchiato in quello del cacciatore. L’adattamento operato da Apuleio è evidente non solo nel mancato finale, ma anche nella gestione di un dettaglio importante: la funzione dei cani. Il loro assalto contro Atteone è un particolare che normalmente ha grande risalto nella tradizione sia iconografica che letteraria (Ovidio dedica i vv. 3.206-225 a un lungo elenco dei loro nomi, più di trenta), ed è 156 Dopo Ovidio dotato chiaramente di un grande appeal emotivo e visivo3. Apuleio sceglie di non ometterlo, ma, dato che la morte del cacciatore viene lasciata fuori scena, gli animali, invece di essere connessi a lui, diventano “guardie del corpo” della dea (par. 4: canes utrimquesecus deae latera muniunt). I cani inoltre sembrano voler aggredire non il cacciatore curioso, ma chi entra in casa di Birrena4: Lucio quindi, e noi lettori con lui. L’avvertimento è implicito e sottile, ma difficile da ignorare: il mito di Atteone potrebbe riguardare Lucio, e forse persino noi lettori che con lui inevitabilmente ci identifichiamo. L’innovazione centrale, infine, riguarda la curiosità di Atteone. In Ovidio e in Callimaco, i due precedenti letterari più importanti, Atteone è soltanto vittima di un destino avverso5. In Apuleio, invece, il cacciatore ammira le grazie della dea curioso optutu attendendo che essa si lavi: la sua curiosità è un importante elemento in comune con il carattere di Lucio6, e contribuisce a fare dell’ekphrasis una buona mise en abyme del romanzo che la contiene. Il gruppo statuario di Diana e Atteone è immerso in un paesaggio naturale estremamente dettagliato, del quale fanno parte anche (par. 7) poma et uuae faberrime politae... quas ars aemula naturae ueritati similes explicuit. Il parallelo tra arte e natura, tra arte e vita, è un topos molto frequentato nella cultura antica. Tuttavia è chiaro che l’arte non imita soltanto la natura, ma anche (e forse soprattutto) altra arte: e qui l’intertestualità guarda chiaramente a Ovidio, in uno dei non numerosi casi di citazione evidente e intenzionale di cui parlavo prima. Come è stato osservato da molti, il modello preciso è Met. 3.155 ss., che è proprio il brano in cui Ovidio descrive il paesaggio naturale che fa da sfondo all’incontro tra Diana e Atteone: uallis erat… / … / cuius 3 4 5 6 Sul catalogo dei nomi dei cani vd. Schlam 1984, p. 84 e n. 5. Per Leach 981, p. 309 nelle rappresentazioni sia letterarie che iconografiche del mito “the destruction of Acteon by his own dogs remains constant”. Immaginiamo i cani rivolti nella stessa direzione della statua di Diana, che è introeuntibus obvium. L’effetto è simile a quello provocato dal canis ingens dipinto all’ingresso della casa di Trimalchione in Petronio, Sat. 29.1. Ov. Met. 3.176 sic illum fata ferebant; Tr. 2.1.105 inscius Actaeon vidit sine veste Dianam. Callimaco, In lavacrum Palladis 113 οὐκ ἐθέλων περ ἴδῃ χαρίεντα λοετρά. Per un precedente iconografico per Atteone rappresentato “as a waiting spy rather than as an accidental intruder” vd. Schlam 1984, p. 100. Sulla curiosità di Lucio, un tema fondamentale nel romanzo, si può partire da Graverini, Nicolini 2019, pp. xxxi ss. e nota a I 2, 17-18, con riferimenti alla letteratura precedente. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 157 in extremo est antrum nemorale recessu / arte laboratum nulla: simulauerat artem / ingenio natura suo. L’ekphrasis di Apuleio quindi, nella quale l’arte imita la natura, scolpisce nel marmo il paesaggio naturale descritto da Ovidio, nel quale la natura imita l’arte. In Ovidio, un Atteone in carne ed ossa si muove in un paesaggio naturale che pare scolpito da mano d’artista; Apuleio gareggia in arguzia con il proprio modello e ne capovolge il paradigma, rovesciando la gerarchia e ricollocando arte e natura nei loro ruoli tradizionali7. Qui vorrei però portare la discussione su di un livello più generale. Ruurd Nauta, parlando di ekphraseis, ha ben osservato che “un’opera d’arte interna a un testo può diventare un’immagine dell’opera d’arte che il testo stesso vuol diventare”8. All’inizio, nel presentare brevemente la descrizione apuleiana, per rendere le cose più semplici ho detto subito che il gruppo statuario descritto da Lucio rappresenta il mito di Diana e Atteone. Nel testo del romanzo le cose non stanno affatto così: la descrizione manca di una visione sintetica iniziale e segue lo sguardo di Lucio che si perde in mille dettagli periferici (le Vittorie alate ai quattro angoli dell’atrio, la bellezza di Diana, i suoi cani, i numerosi dettagli che compongono lo sfondo naturale dell’azione e rivelano la bravura dell’artista), così che fino quasi alla fine chi legge può benissimo pensare che il gruppo statuario rappresenti semplicemente una Diana cacciatrice9. Atteone, con il suo sguardo curioso, compare soltanto alla fine, costringendo il lettore attento ad una reinterpretazione di tutto ciò che viene prima: non una semplice descrizione di Diana quindi, non soltanto un pezzo di bravura retorica, ma una mise en abyme dell’intero romanzo e un avvertimento importante per Lucio, curioso quanto Atteone10. Questa rivelazione finale fa diventare 7 8 9 10 Vd. Hinds 2002, p. 146; Barchiesi, Rosati 2007, p. 153 s.; Barchiesi, Hardie 2010, p. 71; Nicolini 2013, pp. 167 ss. sulla sensibilità visiva che accosta questa ekphrasis alla maniera ovidiana e alla sua “poetica della spettacolarizzazione”. Sull’arte che imita la natura cfr. il grappolo d’uva dipinto da Zeuxi in Plinio, Nat. hist. 35.65; Seneca retore, Controversiae 10.5.27; Seneca, Ep. 65.3 omnis ars naturae imitatio est. Aristofane di Bisanzio si chiedeva chi tra Menandro e la vita imitasse l’altro (Menandro, Test. 83 Kassel-Austin; Siriano, Scholia ad Hermogenem 23). Nauta 2013, pp. 249 ss. Vd. ad es. van Mal-Maeder 2001, p. 98. L’avvertimento, come altri nel romanzo, è destinato a rimanere non colto: vd. sotto nel testo sul commento di Lucio a 2.5.1, che si limita ad un 158 Dopo Ovidio l’ekphrasis una rappresentazione ancor più fedele del romanzo che la contiene, di cui riproduce non solo il tema della curiosità punita ma anche la struttura: come la descrizione del gruppo statuario, infatti, anche il romanzo acquista significato proprio alla fine con la rivelazione isiaca dell’ultimo libro, che ci sollecita ad applicare a quanto abbiamo letto fino a quel punto una chiave interpretativa di tipo filosofico e religioso11. Nell’ekphrasis compare quindi effettivamente l’opera che la contiene, come suggerisce Nauta, e a più livelli. Ma ci possiamo spingere anche oltre: in essa si può scorgere il riflesso, appena distorto come quello dei grappoli d’uva che si riflettono nell’acqua increspata da onde leggere, anche dell’autore. Mi pare del tutto lecito infatti considerare l’egregius… signifex che ha scolpito la statua (par. 5) una manifestazione di Apuleio, che ha scritto il romanzo12. Non solo perché in effetti l’egregio scultore non è altro che una creazione letteraria dell’autore del romanzo, ma anche e soprattutto perché i due artisti sono evidentemente accomunati dal gusto baroccheggiante, dalla ricerca della perfezione stilistica e formale, dalla meticolosa mimesi della realtà. Lo scultore descrive sulla pietra inerte non tanto un’immagine fissa quanto una scena in movimento, una storia che si dispiega di fronte ai nostri occhi – i cani e la natura che circonda la scena sembrano vivi, e Atteone è iam in cervum ferinus, il suo destino si sta compiendo. È un atto in divenire; non una fotografia, ma un film. Si tratta naturalmente di un procedimento comune nelle rappresentazioni iconografiche di questo e altri miti, ma inevitabilmente questa dimensione narrativa della scultura rende il suo autore un buon equivalente del romanziere che gli ha dato vita. 11 12 apprezzamento estetico e superficiale. Questo è in realtà un grosso problema negli studi apuleiani, e la critica lo affronta in modo tutt’altro che unanime. Ho espresso il mio punto di vista in Graverini 2007. La corrispondenza tra scultore e narratore può essere anch’essa un tratto ovidiano, se si pensa a quanto è facile vedere in Pigmalione, che scoplpisce mira… arte (Met. 10.247) una donna bellissima e quasi viva, che poi prenderà realmente vita grazie a Venere, una sorta di allegoria del poeta Ovidio (vd. ad es. Reed 2013, p. 223). Anche nell’episodio di Pigmalione, come in quello di Atteone, Ovidio affronta il tema del rapporto del labile confine tra arte e vita: cfr. 10.250-253 virginis est verae facies, quam vivere credas… ars adeo latet arte sua. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 159 A completare il quadro, in questa parte del romanzo troviamo anche una rappresentazione chiara del lettore, e del processo interpretativo che egli è chiamato a compiere. Come ho detto, per ammirare il gruppo scultoreo e ricrearlo nella nostra phantasia13 noi non possiamo fare altro che seguire lo sguardo di Lucio, che ci guida nel cogliere un dettaglio dopo l’altro ma non offre mai una visione d’insieme, come quella che chi entrasse in casa di Birrena sarebbe certamente in grado di avere14. Questo da una parte risponde all’esigenza di riservare alle righe finali dell’ekphrasis la sorprendente e significativa rivelazione della presenza di Atteone curioso; dall’altra riproduce il modo in cui un lettore, più che non un vero e proprio spettatore, può farsi un’idea di un’opera descritta e non vista direttamente. Si tratta di una descrizione, appunto, lineare, non sintetica, estremamente adatta ad essere inverata nelle linee di un testo scritto. Se l’“egregio scultore” è quindi un analogo dello scrittore Apuleio, Lucio in quanto “lettore” del gruppo scultoreo è un buon analogo del lettore extradiegetico che legge il testo del romanzo: ed è notevole come noi, lettori esterni, qui inevitabilmente diventiamo Lucio, essendo costretti (come sempre, ma con maggiore evidenza) a vedere – o se vogliamo a leggere – le cose esclusivamente tramite il suo sguardo. Leggere una descrizione è un’attività non solo immaginativa ma anche interpretativa: ad esempio, la rivelazione finale della presenza di Atteone è un potente incoraggiamento a riflettere sulla curiosità e sulle sue conseguenze. Ma se l’immaginazione è una facoltà comune più o meno a tutti, lo stesso non si può dire per la capacità di interpretare: e Lucio, come in altre occasioni, ce lo dimostra. Subito dopo l’ekphrasis, il suo commento a 2.5.1 mostra come il suo 13 14 Incitare il pubblico a crearsi vivide immagini mentali di ciò che viene narrato o descritto è un compito fondamentale della retorica antica: ogni buon retore o scrittore doveva essere in grado di conferire evidentia alle proprie parole. L’evidentia (in greco enargeia) costituisce, anche se in maniera implicita, il background concettuale di quasi tutto quello che andrò dicendo in questo lavoro; tra gli studi più importanti recenti in merito vd. Zanker 1981; Walker 1993; Cassin 1997; Webb 1997; Manieri 1998; Webb 2009, spec. pp. 87-130. Di evidentia e romanzo mi sono occupato in Graverini 2013. Si rileva in pratica una sovrapposizione tra la pretesa di oggettività di una descrizione, e la prospettiva soggettiva di chi descrive; su questa tecnica narrativa (applicata al Satyricon di Petronio) vd. ad es. Auerbach 1956, vol. 1 p. 30 “il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna in profondità”. 160 Dopo Ovidio apprezzamento per l’opera dell’egregius signifex sia essenzialmente estetico e superficiale: dum haec identidem rimabundus eximie delector… In sostanza, il lettore che voglia andare oltre il vano apprezzamento della perfezione stilistica sia della scultura virtuale che della virtuosa ekphrasis offerta dal racconto è lasciato a sé stesso, e il testo sembra anzi scoraggiarlo. Questo non vuol dire che il testo non tenti sottilmente di coinvolgere il lettore nell’attività di osservare e interpretare, o male interpretare se vogliamo; è soltanto che Apuleio gli rende le cose non troppo facili. Ed è qui che ancora una volta, come vedremo, si fa sentire forte l’influenza ovidiana. L’ekphrasis ha una struttura non semplicemente descrittiva, ma quasi dialogica, e contiene alcuni verbi alla seconda persona singolare: al par. 4 Lucio afferma che i cani sono scolpiti nel marmo in modo talmente realistico che se per caso si sentisse un latrato si potrebbe pensare (putabis) che fossero quelle fauci di pietra ad emetterlo; al par. 8 dice che pomi e grappoli d’uva sono talmente verosimili che si potrebbe immaginare (putes) di coglierli e mangiarli; e al par. 9 afferma che se ci si chinasse a osservarne il riflesso sull’acqua della fonte sembrerebbe che pomi e grappoli oscillassero al vento, proprio come quelli veri (si fontem aspexeris, credes…). Chi è questo “tu” a cui Lucio si rivolge? Nell’ekphrasis, al dialogo tra Lucio e Birrena si sovrappone chiaramente, fino a sostituirlo del tutto, il dialogo diretto tra autore e lettore15. Spesso i traduttori rendono queste seconde persone singolari con degli impersonali; che è naturalmente lecito, ma non rende giustizia al “tu” chiamato in causa così spesso, al lettore che è invitato sulla scena a contemplare assieme a Lucio questa meraviglia scultorea. In sostanza, l’ekphrasis dell’atrio di Birrena crea metodicamente uno spazio tridimensionale del racconto nel quale il lettore è invitato a entrare assieme al narratore Lucio, osservandolo con gli occhi di lui e persino interpretandolo con la sua testa. Questa naturalmente è una tecnica retorica abbastanza comune nella pratica ecfrastica antica. Il tema della metamorfosi di Atteone tuttavia, e l’intertestualità che abbiamo analizzato finora, puntano decisamente verso Ovidio, che era – come ha ben osservato Gianpiero 15 O, se vogliamo, tra Lucio come narratore retrospettivo e lettore; ma, come sempre, non è facile distinguere tra Lucio-auctor e autore vero e proprio. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 161 Rosati – un maestro nell’uso di questi procedimenti16. Il trattamento ovidiano della metamorfosi di Atteone in effetti è esemplare in questo, e ci offre vari punti di vista sul processo di trasformazione. Il primo, drammaticamente, è proprio quello di Atteone, che si stupisce di vedersi così veloce a fuggire, e commisera la propria sorte nel vedere il proprio riflesso sull’acqua (3.199 s. et se tam celerem cursu miratur in ipso. / Ut vero vultus et cornua vidit in unda...). Poi i cani “vedono” Atteone/cervo a 3.206 videre canes, e a 3.230 Atteone li esorta a riconoscere il loro padrone (dominum cognoscite vestrum). A 3.243 s. i compagni di caccia “cercano Atteone con gli occhi” lamentandosi che l’amico sia troppo lento a seguirli e si perda lo spettacolo della preda catturata dai cani (nec capere oblatae segnem spectacula praedae). L’ultimo sguardo, con elegante composizione ad anello, è di nuovo quello di Atteone stesso, che vellet... videre, / non etiam sentire canum fera facta suorum17. Il visitur con cui si conclude il brano apuleiano può essere utilmente considerato sullo sfondo del frequentissimo videtur (o verbi simili, sia impersonali che alla seconda persona, in vari tempi e modi) che caratterizza le descrizioni ovidiane, e che come ha osservato Rosati fa appello alla percezione visiva del lettore/ascoltatore e lo trasforma in spettatore18. Vedremo tra poco come Apuleio faccia ricorso, per stimolare la phantasia del suo lettore, a elementi lessicali molto simili a quelli prediletti da Ovidio; prima, però, soffermiamoci su un altro caso di intertestualità evidente e probabilmente deliberata. 16 17 18 Vd. Rosati 1983, p. 140 e n. 88. Virgilio ne fa un uso più parco, ma cfr. ad es. le tre apostrofi nella descrizione dello scudo di Enea: Aen. 8.676 videres, 691 credas e 649 s. illum indignanti similem similemque minanti / aspiceres. Il fatto che il prodigio possa essere oggetto dello sguardo – di volta in volta ammirato o esterrefatto – anche del soggetto stesso della metamorfosi (oltre che di spettatori esterni) è un elemento chiave e ricorrente della “spettacolarità” della poesia ovidiana: vd. Rosati 1983, pp. 143 ss. È una lezione che Apuleio sembra aver interiorizzato: ce lo dimostra anzitutto nella descrizione della trasformazione di Lucio, che a 3.24.6 subito dopo essersi trasformato in asino riflette sull’unico motivo di consolazione che può vedere nel suo nuovo aspetto (vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 376 ad loc.). Rosati 1983, p. 139 ss. Il dettaglio del riflesso del volto semiferino di Atteone sull’acqua è naturalmente anche un più deciso ammiccamento verso il modello ovidiano più specifico (3.200 et cornua vidit in unda). Una rappresentazione simile si ha anche in un mosaico africano, sul quale vd. ora Moretti c. d. s. 162 Dopo Ovidio La phantasia del lettore di Apuleio è popolata non soltanto dei dettagli che lui può vedere attraverso lo sguardo di Lucio, ma anche delle suggestioni provocate dall’ekphrasis e che trasformano la pietra in materia vivente. Anche qui siamo in presenza di una tecnica usata magistralmente da Ovidio, che spesso invita il suo lettore a immaginare alcuni aspetti di una scena che risultano particolarmente inverosimili, o che per loro natura possono essere appunto soltanto immaginati e non propriamente descritti. Un caso esemplare è l’idea di vita e movimento suggerita dalla materia inerte, sia da Apuleio nella descrizione del gruppo statuario di Diana e Atteone19, sia da Ovidio in varie occasioni, tra le quali la storia del cane Lelape. L’animale, un infallibile cane da caccia, era stato regalato da Diana a Procri (7.754 s.), che a sua volta ne aveva fatto dono al marito Cefalo. Quest’ultimo lo impiega per tentare di catturare una volpe imprendibile che devasta le campagne di Tebe, dando luogo ad un inseguimento paradossale e potenzialmente infinito: un cane infallibile a caccia di una preda imprendibile. Un dio risolve la situazione pietrificando i due animali che però, pur immobilizzati nel marmo, continuano a sembrare perpetuamente in movimento. La scena è descritta attraverso lo sguardo stupito di Cefalo: … medio (mirum) duo marmora campo / aspicio: fugere hoc, illud captare putares (7.790 s.). Lelape è colto in un atto destinato a ripetersi in eterno senza mai giungere a conclusione20. La situazione è del tutto analoga a quella dei cani di Diana in Apuleio, ritratti nella posa di un’istante che il marmo innaturalmente protrae all’infinito: occhi minacciosi, orecchie ritte, narici spalancate, fauci aperte nell’illusione di un latrato che ovviamente non può venire mai, il corpo slanciato in una corsa che sembra in atto ma rimane immobile. Che i cani di pietra siano di Diana, sia in Ovidio che in Apuleio, può sembrare una coincidenza fortuita, ma in realtà è un dettaglio piuttosto notevole in ambedue gli autori. In Ovidio si tratta di una scelta fra 19 20 Vd. sopra su putabis, putes, credes; e Moretti 2019 sul “realismo illusionistico” dell’ekphrasis apuleiana, in contrasto con Apologia 14 dove l’arte della scultura è detta incapace di rendere il motus. In questo la pietra non tradisce la materia vivente, dato che Lelape era descritto allo stesso modo anche prima della trasformazione: 7.785 s. inminet hic sequiturque parem similisque tenenti / non tenet et vanos exercet in aera morsus. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 163 tradizioni mitografiche diverse21, mentre in Apuleio, come si è visto, l’appartenenza dei cani a Diana è semplicemente divergente nel contesto del mito di Atteone e prepara la sorpresa finale. È possibile che in Apuleio il dettaglio sia influenzato dal racconto ovidiano, nel quale troviamo un cane da caccia “di Diana” pietrificato in una posa aggressiva e piena di movimento; e l’ipotesi acquista ulteriore peso se prestiamo attenzione anche al putares finale, che in Ovidio invita il lettore ad integrare la rappresentazione mentale (un cane pietrificato) con un supplemento di immaginazione, che fa diventare viva la materia inerte. L’operazione è infatti del tutto analoga – anche lessicalmente – a quella che avviene nell’ekphrasis apuleiana: et sicunde de proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire. È piuttosto naturale considerare putabis e putares nell’ottica di una sottile intertestualità che connette Apuleio ad Ovidio, ma è possibile spingersi anche oltre ed aggiungere a questa sottile intertestualità un po’ di spessore. Nel testo ovidiano, il captare che precede putares è congettura di Polle, ma la lezione unanime dei codici è latrare. La congettura ha avuto larga fortuna ed è stata accolta nel testo di varie edizioni, tra cui la recente OCT di Tarrant. L’approvazione non è tuttavia unanime22; senza entrare ora approfonditamente nel merito della questione, vorrei osservare che latrare putares dei codici ovidiani costituisce un ottimo intertesto per eum (sc. latratum) putabis… exire di Apuleio, che quindi probabilmente leggeva latrare e non captare. Sia come sia, il verbo puto, usato ben due volte nella descrizione apuleiana (putabis, putes), fa chiaramente parte dell’idioletto di Ovidio quando il poeta vuole stimolare la phantasia del suo lettore e spingerlo a immaginare la realtà e la vita dietro una descrizione. Limitandoci ad alcuni esempi relativi alle descrizioni di metamorfosi, si possono ricordare: 21 22 Il cane fu donato a Procri da Minosse per Ps.-Apollodoro, Bibl. 2.58, Antonino Liberale 41.5, e Igino astronomo 2.35; il dono è invece fatto direttamente da Artemide, come in Ovidio, secondo Pausania 9.19.1 e Igino mitografo, fab. 189.5. I vari argomenti a supporto della lezione tradita sono ricapitolati e integrati in Felton 2001. Cfr. anche Wheeler 1999, p. 155, per cui latrare supporta bene lo “ecphrastic topos of verisimilitude… the idea that the statue appears so real that one would think it were barking is clearly a variation on the earlier petrifaction of the boasting Nileus”. Dopo Ovidio 164 3.453 posse putes tangi. Narciso descrive la sua immagine riflessa nell’acqua, che “potresti credere di poter toccare”. Il giovane parla alle silvae intorno a lui, ma chiaramente alla sua voce si sovrappone quella di Ovidio che si rivolge al suo lettore 6.104 verum taurum, freta vera putares / ipsa videbatur terras spectare relictas. La verosimiglianza della tela di Aracne, nella parte dove rappresenta il mito di Europa. 6.667 corpora Cecropidum pennis pendere putares: / pendebant pennis. Qui l’immaginazione del lettore diventa immediatamente “realtà”: Procne e Filomela sembrano uccelli, e subito lo diventano. 11.84 nodosaque bracchia veros / esse putes ramos, et non fallare putando. Bacco punisce le donne di Tracia per l’uccisione di Orfeo, e le trasforma in alberi: come nel caso precedente, la phantasia si invera immediatamente. 11.114 Hesperidas donasse putes. Una metamorfosi minore, quella di una mela in mela d’oro (“potresti credere che glie la avessero donata le Esperidi”) in seguito al tocco di Mida. Lo stesso si può dire per credo (cfr. 2.4.1 iam volare creduntur; 9 credes illos... nec agitationis officio carere). Ad esempio: 5.194 ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis. Ancora una volta, figure di pietra che danno l’impressione di vita e di movimento: i nemici di Perseo, impietriti alla vista della testa della Gorgone. Tra questi Nileo, che si esibisce in un’aggressione verbale ma non riesce a finirla. 10.250 virginis est verae facies, quam vivere credas, / et, si non obstet reverentia, velle moveri. / ars adeo latet arte sua. La donna d’avorio creata da Pigmalione, artista sublime e buon alter ego dell’autore extradiegetico, Ovidio – proprio come l’egregius signifex apuleiano. Anche qui l’idea di vita e di movimento offerta da un’opera d’arte (ancora) inanimata dà luogo a una riflessione sul rapporto tra arte e natura. Vorrei chiudere questa breve rassegna, che potrebbe durare ancora a lungo, con un brano veramente esemplare. Vertumno mette a frutto la capacità di alterare il proprio aspetto con travestimenti per avvicinare e conquistare la ritrosa Pomona. Il poeta, non meno esibizionista del suo personaggio, si produce nella rapida descrizione di quattro trasformazioni nello spazio di sei versi (Met. 14.645 ss.): tempora saepe gerens faeno religata recenti desectum poterat gramen versasse videri; saepe manu stimulos rigida portabat, ut illum L. Graverini - Ovidio e Apuleio 165 iurares fessos modo disiunxisse iuvencos. falce data frondator erat vitisque putator; induerat scalas: lecturum poma putares. A volte, recando la fronte fasciata da fieno ancor fresco, poteva sembrare che avesse appena rivoltato l’erba falciata; più spesso, nella mano rigida teneva un pungolo: avresti giurato che avesse appena staccato il giogo ai giovenchi stremati; se gli davi una falce, era uno che sfronda e che pota le viti (Chiarini). Ogni due versi troviamo un appropriato stimolo alle capacità immaginative del lettore, il secondo e il terzo tramite verbi alla seconda persona. Chi legge deve crearsi un’immagine mentale (poterat videri), crederla vera (iurares), interpretarla (putares). La phantasia del lettore e la sua capacità di creazione e decodifica delle immagini mentali sono costantemente chiamate in causa nella costruzione dell’universo narrativo, in Ovidio come in Apuleio; e in ambedue gli autori, il narratore spesso si rivolge direttamente al lettore per cercare di coinvolgerlo più personalmente nell’universo della finzione e fargli immaginare di trovarsi “sulla scena” assieme a lui. Talvolta però, sia in Ovidio che in Apuleio, si verificano situazioni paradossali nelle quali l’autore/narratore, invece di sollecitare la collaborazione del lettore e l’adesione di lui al suo progetto narrativo, sembra disincentivarla. 2. Storie da non credere A 2.12.5, in un brano importante e ben noto del romanzo di Apuleio, un profeta di nome Diofane predice a Lucio un destino di gloria letteraria: mihi denique... multa respondit et oppido mira et satis varia; nunc enim gloriam satis floridam, nunc historiam magnam et incredundam fabulam et libros me futurum. Il profeta diventa inevitabilmente una figura autoriale: il lettore accorto si rende conto che la profezia, seppure profferita da un indovino imbroglione, è vera, dato che sta appunto leggendo la fabula e ha in mano i libri; e capisce che nessun altro se non il suo autore può sapere come andranno a finire le Dopo Ovidio 166 cose23. Ci troviamo quindi nella situazione, senza dubbio paradossale, di un autore che suggerisce al lettore di non credere a ciò che gli viene raccontato: la fabula è infatti incredunda. Qui, come in altri casi, occorre naturalmente leggere il testo tra le righe: se la favola è incredibile, il lettore (al quale fin dal prologo è stato promesso un racconto pieno – tra l’altro – di stupefacenti metamorfosi) non può che essere ancor più invogliato a soddisfare la propria sete di mirabilia proseguendo nella lettura e credendo a ciò che gli viene raccontato – un po’ come l’ordine di “non aprire quella porta” finisce per essere, nelle fiabe come nei film horror, un incitamento irresistibile proprio a compiere l’atto proibito (naturalmente, con la piena solidarietà dell’ascoltatore/lettore). Lo stesso irresistibile richiamo alla lettura è offerto da una storia che rischia di non iniziare: a 2.20.6, ad esempio, Telifrone inizialmente rifiuta di raccontare una propria avventura, irritato dalle prese in giro degli altri invitati alla cena a casa di Birrena. Naturalmente si tratta di espedienti narrativi nobilitati dal tempo: già nell’Odissea, ad esempio, il racconto autobiografico di Odisseo ai Feaci rischia di terminare anzitempo quando l’eroe si interrompe e dice che la notte è fatta per dormire, non per raccontare. Saranno l’insistenza di Alcinoo in Omero, e quella di Birrena in Apuleio, a salvare la situazione e a permettere al racconto rispettivamente di giungere al termine e di iniziare, una volta che la curiosità del lettore è stata debitamente stimolata24. Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma anche qui direi che Apuleio sta probabilmente mettendo a frutto una lezione ovidiana. È nel libro 10 delle Metamorfosi che troviamo, se non un propheta come Diofane, un vates (Orfeo) che consiglia ai suoi ascoltatori di non credere a ciò che sta per raccontare; e anche nel suo caso è difficile pensare che alla sua voce non si sovrapponga in qualche modo quella dell’autore extradiegetico, Ovidio. L’avvertimento di Orfeo in realtà è ampio e complesso. Il canto che sta per iniziare riguarda la relazione incestuosa di Cinira e Mirra, e il poeta avverte (10.300 ss.): dira canam; procul hinc natae, procul este parentes aut, mea si vestras mulcebunt carmina mentes, 23 24 Non può saperlo nemmeno Lucio-auctor, il narratore intradiegetico retrospettivo: che può sapere come finirà la sua storia, ma non di essere destinato a diventare una storia e un libro. Sulla pretesa riluttanza del narratore come espediente per stimolare la curiosità di chi lo ascolta vd. Sandy 1970, pp. 467 s. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 167 desit in hac mihi parte fides, nec credite factum, vel, si credetis, facti quoque credite poenam. La storia è tremenda. Allontanatevi o figlie, via di qua o padri, oppure se restate, allettati dal mio canto, esigo che non mi prestiate fede, non crediate a quel che racconto, o altrimenti, se ci credete, credete anche alla punizione (Chiarini). Vale la pena osservare che la poetica del romanzo apuleiano è molto simile a quella di Orfeo, i cui canti hanno il potere di mulcere le mentes di chi li ascolta: convincere, allettare, creare immagini vivide nella phantasia dell’ascoltatore, portarlo anima e corpo all’interno dell’universo narrativo… il parlante del prologo si attribuisce esattamente lo stesso potere quando promette di permulcere le orecchie del suo pubblico (1.1.1)25. Il testo di Ovidio pone un problema preliminare: chi è che ascolta, e chi è che veramente parla? Orfeo si rivolge a natae e parentes, padri e figlie, ma in realtà sappiamo che il suo pubblico è costituito da alberi, animali, uccelli, e perfino pietre capaci di muoversi26. Questa discrepanza ha portato molti interpreti a ritenere che qui Orfeo sia né più né meno che un portavoce di Ovidio27, che tenterebbe di distanziarsi da un racconto che poteva anche risultare sgradito e forse perfino pericoloso nel contesto delle riforme morali augustee. Ora, questa è certamente una posizione troppo estrema: Alessandro Barchiesi ha ben mostrato che ci sono ottimi motivi per prendere seriamente Orfeo come “autore” del prologo alla storia di Cinira e Mirra28. Tuttavia, appare difficile affermare che “non c’è più alcuna ragione per credere che ‘allontanatevi o figlie, via di qui o padri’ si debba riferire al pubblico di Ovidio” (61). Questi versi si riferiscono più probabilmente sia agli ascoltatori di Orfeo (animali, alberi, pietre) sia al pubblico romano di Ovidio, magari con scopi differenti. Un pubblico di “padri e figlie” è soltanto un’ipotesi per Orfeo, il 25 26 27 28 Vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 142, con riferimenti alla letteratura precedente. 10.143: tale nemus vates attraxerat inque ferarum / concilio medius turba volucrumque sedebat; 11.2 saxa sequentia. Vd. ad es. Solodow 1988, pp. 39 s.: “there is little or no separation between him [sc. Orpheus] and our Roman author […] Ovid is peeking out through the figure of Orpheus”. Barchiesi 2001a, pp. 58 ss. 168 Dopo Ovidio cui avvertimento servirà soltanto ad anticipare drammaticamente alcune caratteristiche del racconto che sta per iniziare; per il poema di Ovidio, invece, si tratta di una realtà inevitabile che potrebbe conferire a questi versi un carattere ben più minaccioso, ed è bene avvertire padri e figlie del pericolo che corrono ascoltando il racconto e inevitabilmente identificandosi con i suoi personaggi.29 Ci sono però buoni motivi per pensare che gli scopi di Orfeo e Ovidio siano più simili tra loro di quanto appaia in superficie, tanto che possiamo parlare di un narratore generico alla cui caratterizzazione ambedue contribuiscono. Se è nel fondamentale interesse di ogni narratore sollecitare il proprio pubblico ad ascoltare un racconto e crederlo vero (cioè, identificarsi con i suoi personaggi), è sconcertante come invece questo narratore avverta esplicitamente il suo pubblico che la storia di Cinira e Mirra non dovrebbe essere né ascoltata né creduta, e probabilmente neppure raccontata. È sconcertante, cioè, a meno che le sue parole non costituiscano una provocazione. La storia raccapricciante di una relazione proibita, una storia che dovrebbe esser tenuta segreta… chi mai potrebbe resistere, non ascoltarla, non credere che essa sia realmente accaduta o stia addirittura accadendo a lui stesso? C’è in questi versi una sottile vena di malizia: sia Orfeo che Ovidio sanno bene che, dopo un proemio come questo, il loro pubblico li ascolterà ancora più attentamente. Con uno spunto che appare del tutto originale, Ovidio (e Orfeo con lui) trasforma il topos a cui accennavo sopra, della storia che rischia di non essere raccontata, presentandoci una storia che non dovrebbe mai essere né ascoltata né creduta: il cantore vuole essere libero di fare il suo mestiere, ma avverte i suoi ascoltatori che loro, invece, non dovrebbero fare il loro30. Sia in Ovidio che in Apuleio, quindi, abbiamo brani in cui la voce dell’autore extradiegetico fa capolino, interagendo in modo provocatorio con quella di un personaggio e stimolando la curiosità 29 30 Cfr. Reed 2013, p. 333: “Fondamentale per questo passo è una teoria mimetica della poesia: che l’ascoltatore sia destinato a identificarsi con uno o un altro dei personaggi”. La richiesta di non ascoltare è un’innovazione probabilmente sollecitata dalla tradizione orfica, per cui i non iniziati erano avvertiti che era loro proibito conoscere i misteri del culto; e dalla altrettanto tradizionale riluttanza dei poeti epici a narrare esplicitamente il nefas. Sul primo punto vd. Barchiesi 2001a, p. 59; Reed 2013, p. 234. Sul secondo, Bernstein 2004 e Bessone 2006. L. Graverini - Ovidio e Apuleio 169 dei suoi ascoltatori tramite una paradossale esortazione a non credere a ciò che viene raccontato. Sebbene questa esortazione a non credere sia molto particolare e, apparentemente, senza precedenti, sarebbe difficile sostenere che l’incredundam fabulam di Diofane debba essere considerata un’eco deliberata del nec credite factum ovidiano. Tuttavia, mi pare si possa suggerire che anche qui Apuleio metta in pratica una lezione ovidiana, una lezione fatta non di parole ma di tecnica narrativa. 3. Metalessi La critica moderna e contemporanea ha un termine ben preciso per definire buona parte di ciò di cui ho parlato in questa comunicazione. Con il nome di metalessi31 si indica in generale la sospensione delle regole che fissano i confini dell’universo narrativo e lo separano da quello reale nel quale vivono l’autore e il lettore; questa sospensione fa sì che l’autore o il narratore possano in alcune occasioni interrompere il racconto e rivolgersi più o meno esplicitamente al lettore, e che quest’ultimo possa talvolta sentirsi parte dell’universo narrativo – in sostanza, credere che la storia sia vera, che stia realmente accadendo, e che lui stesso ne faccia parte. Si può dire dunque che una lezione che Apuleio ha imparato da Ovidio è appunto l’uso di sottili metalessi per stimolare il coinvolgimento del lettore, che è continuamente esortato a vedere, capire, immaginare, stupirsi, (non) credere: tutte azioni che facilitano l’ingresso del lettore nell’universo narrativo e, direbbe Coleridge, la sua “temporanea sospensione dell’incredulità”32. Come dimostra il caso del cane Lelape, Ovidio è senz’altro una buona fonte di intertestualità per Apuleio, ancora solo parzialmente esplorata; eppure, come Lara Nicolini, credo che la lezione ovidiana più importante riguardi non tanto il “cosa” raccontare e descrivere, ma il “come” farlo. 31 32 Per un approccio critico al tema della metalessi si può partire da Nauta 2013 e 2013a. S.T. Coleridge, Biographia literaria (1817), cap. 14: “... 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