Chiara Battistella, Professore associato di Lingua e letteratura latina presso l’Università degli Studi di Udine,
ha tra i suoi interessi principali la poesia di età augustea (soprattutto Virgilio e Ovidio) e le tragedie di Seneca.
Marco Fucecchi, Professore associato di Lingua e letteratura latina presso l’Università degli Studi di Udine, si
occupa di poesia dell’età augustea e flavia, in particolare di Virgilio, Ovidio, Silio Italico, Stazio, Valerio Flacco.
CHIARA BATTISTELLA – MARCO FUCECCHI (A CURA DI) DOPO OVIDIO
L’opera di Ovidio ha condizionato in misura notevole l’evoluzione dei generi letterari a partire
dalla prima età imperiale per arrivare, attraverso il tardoantico, fino al medioevo e oltre. Per
quanto la memoria ovidiana eserciti spesso un’influenza diretta, la sua è anche un’azione
indiretta, sotterranea, che, tuttavia, non per questo va sottovalutata. I saggi qui raccolti si
propongono di indagare, secondo approcci e metodi diversi, il modo in cui l’opera di Ovidio
riesce fin da subito a sollecitare le energie produttive del sistema letterario e a “riplasmare”
il canone. La spinta all’innovazione che l’autore augusteo imprime alla letteratura successiva
è paragonabile a un’irradiazione, che interessa sia la produzione in versi sia quella in prosa:
essa finirà per lasciare tracce indelebili nella costruzione del sistema letterario a partire dal I
secolo d.C., investendo, tra continuità e rottura, aspetti quali il confine tra generi letterari e la
presenza e funzione del mito.
DOPO OVIDIO
ASPETTI DELL’EVOLUZIONE DEL SISTEMA
LETTERARIO NELLA ROMA IMPERIALE (E OLTRE)
A CURA DI CHIARA BATTISTELLA E MARCO FUCECCHI
ISBN 978-88-5756-118-9
MIMESIS
Mimesis Edizioni
Eterotopie
www.mimesisedizioni.it
26,00 euro
9 788857 561189
MIMESIS / ETEROTOPIE
MIMESIS / ETEROTOPIE
N. 607
Collana diretta da Salvo Vaccaro e Pierre Dalla Vigna
comitato scientifico
Pierandrea Amato (Università degli Studi di Messina), Stefano G. Azzarà (Università di Urbino), José Luis Villacañas Berlanga (Universidad Complutense de Madrid),
Oriana Binik (Università degli Studi Milano Bicocca), Pierre Dalla Vigna (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Giuseppe Di Giacomo (Sapienza Università
di Roma), Raffaele Federici (Università degli Studi di Perugia), Maurizio Guerri
(Accademia di Belle Arti di Brera), Micaela Latini (Università degli Studi “Insubria”, Varese), Luca Marchetti (Sapienza Università di Roma), Valentina Tirloni
(Université Nice Sophia Antipolis), Salvo Vaccaro (Università degli Studi di Palermo), Jean-Jacques Wunenburger (Université Jean-Moulin Lyon 3)
I testi pubblicati sono sottoposti a un processo di peer-review
DOPO OVIDIO
Aspetti dell’evoluzione del sistema
letterario nella Roma imperiale (e oltre)
A cura di Chiara Battistella e Marco Fucecchi
MIMESIS
Questo volume è pubblicato con il contributo del Dipartimento di Studi Umanistici
e del Patrimonio culturale dell’Università di Udine – PRID 2017.
MIMESIS EDIZIONI (Milano – Udine)
www.mimesisedizioni.it
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Collana: Eterotopie, n. 607
Isbn: 9788857561189
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Sesto San Giovanni (MI)
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INDICE
introduzione
Chiara Battistella, Marco Fucecchi
7
I
immaginare ovidio come poeta dell’impero: la Consolatio
ad liviam de morte drusi
Marko Marinčič
15
il poeta e il principe-poeta.
riflessioni su ovidio sotto nerone
Luigi Galasso
33
et qui Corpora prima transfigurat.
la poetica ovidiana di stazio
Federica Bessone
53
intertestualità e ricezione: sulle tracce di ovidio nelle
argonautiChe di valerio flacco
Lavinia Galli Milić, Damien Nelis
71
ii
le armi e la morte: elementi ovidiani nella battaglia
di marsiglia (lucan. 3, 509 ss.)
Marta M. Perilli
95
mira loquor: lo spettacolo (ovidiano) della guerra e l’estetica
della morte nella tebaide di stazio
Stefano Briguglio
115
guerre sbagliate, guerre inutili: un tema ovidiano in valerio
flacco?
Marco Fucecchi
133
iii
atteone, lelape, diofane, orfeo: ovidio e apuleio
Luca Graverini
153
les répétitions comme stratégie ovidienne de constitution
d’une œuvre globale: le cas des poèmes politiques de claudien
Valéry Berlincourt
171
ovidio in sidonio apollinare: il carme 9 e l’ibis
Chiara Battistella
187
molti secoli dopo ovidio. rimodulazioni ovidiane
nell’impero carolingio
Angela Cossu
201
“ovidio” in greco in terra d’otranto: i verba insidiosa
di aconzio nel vind. phil. gr. 310
Fabio Vendruscolo
221
metamorfosi del mito di deucalione e pirra nella
“nuova età ovidiana”
Francesco Ursini
235
bibliografia
251
luca graverini
ATTEONE, LELAPE, DIOFANE, ORFEO:
OVIDIO E APULEIO
L’importanza di Ovidio per le Metamorfosi di Apuleio è stata
oggetto di vari studi in passato, ma se la si analizza nell’ottica di una
tradizionale Quellenforschung i risultati appaiono più magri di quello
che ci si potrebbe aspettare: in Apuleio, come peraltro in molti altri
autori, è soprattutto dell’Eneide che ritroviamo frequenti riprese, sia
nel lessico che nelle linee narrative, che mostrano anche i caratteri
dell’intenzionalità allusiva. Contatti di questo tipo con la poesia
ovidiana ci sono, ma sono più rari e apparentemente limitati ad alcuni
ambiti specifici, come inevitabilmente quello della metamorfosi1.
Se però ci spingiamo oltre la pura ricerca delle allusioni più
facilmente quantificabili e misurabili diventa possibile perfino
affermare, come fa Lara Nicolini, che “Ovidio… doveva avere
per Apuleio qualcosa di più rispetto a Virgilio. Ovidio era molto
probabilmente sentito oltre che come creatore di lingua, come
maestro di estetica, un maestro affine per gusto”2. Lo studio della
Nicolini raggiunge risultati di grande importanza, e dipinge Ovidio
come maestro delle qualità “ecfrastiche” e “spettacolari” proprie
della lingua e dello stile di Apuleio. Ed è proprio da una ekphrasis
che voglio partire, sia soffermandomi su fatti generici di lingua,
stile e tecnica narrativa, sia evidenziando qualche nuovo caso di
intertestualità ovidiana.
1
2
Due riferimenti classici per Apuleio e Ovidio sono Bandini 1986; Krabbe
1989, pp. 37 ss. Per un approccio più aggiornato, vd. il lavoro di Lara
Nicolini citato nella nota successiva. Per Apuleio e Virgilio, un ottimo punto
di partenza è Harrison 2013. Riguardo alla concentrazione di ovidianismi
soprattutto nelle sezioni di argomento metamorfico, è comunque lecito un
sospetto di circolarità, dato che è soprattutto in questi contesti che gli studiosi
inevitabilmente vanno in cerca di tracce di Ovidio.
Nicolini 2013, p. 162.
Dopo Ovidio
154
1. Atteone
Il capitolo 2.4 delle Metamorfosi è dedicato alla descrizione
dell’atrio della casa di Birrena, una zia del protagonista Lucio. Al
suo centro si trova un gruppo scultoreo che rappresenta il mito di
Atteone, il cacciatore curioso che spia Diana mentre si lava nelle
acque di un ruscello; il suo atto sacrilego viene punito dalla dea, che
trasforma il malcapitato in cervo. Ecco il testo:
1
Atria longe pulcherrima columnis quadrifariam per singulos
angulos stantibus attollebant statuas, 2palmaris deae facies, quae
pinnis explicitis sine gressu pilae volubilis instabile vestigium
plantis roscidis delibantes nec ut maneant inhaerent et iam volare
creduntur. 3Ecce lapis Parius in Dianam factus tenet libratam totius
loci medietatem, signum perfecte luculentum, veste reflatum, procursu
vegetum, introeuntibus obvium et maiestate numinis venerabile. 4Canes
utrimquesecus deae latera muniunt, qui canes et ipsi lapis erant; his
oculi minantur, aures rigent, nares hiant, ora saeviunt, et sicunde de
proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire; 5et in
quo summum specimen operae fabrilis egregius ille signifex prodidit,
sublatis canibus in pectus arduis pedes imi resistunt, currunt priores.
6
Pone tergum deae saxum insurgit in speluncae modum muscis et herbis
et foliis et virgulis et sicubi pampinis et arbusculis alibi de lapide
florentibus. 7Splendet intus umbra signi de nitore lapidis. Sub extrema
saxi margine poma et uvae faberrime politae dependent, quas ars aemula
naturae veritati similes explicuit. 8Putes ad cibum inde quaedam, cum
mustulentus autumnus maturum colorem adflaverit, posse decerpi, 9et
si fontem, qui deae vestigio discurrens in lenem vibratur undam, pronus
aspexeris, credes illos ut rure pendentes racemos inter cetera veritatis
nec agitationis officio carere. 10Inter medias frondes lapidis Actaeon
simulacrum curioso optutu in deam proiectus iam in cervum ferinus et
in saxo simul et in fonte loturam Dianam opperiens visitur.
1
L’atrio era di una bellezza straordinaria. A ciascuno dei quattro angoli
faceva svettare in cima a delle colonne delle statue, 2che rappresentavano
la dea della vittoria: ad ali spiegate, senza fare nemmeno un passo,
con le punte dei piedi umidi di rugiada sfiorano appena il supporto
instabile di un globo pronto a rotolare via; vi si poggiano sopra ma non
per restarci, e paiono anzi aver già spiccato il volo. 3E lì, esattamente
al centro dell’ambiente, c’è un marmo di Paro modellato in forma di
Diana, una statua perfetta e splendida: con la veste gonfiata dal vento
e il passo atletico, venerabile nella sua maestà divina, sembra venire
incontro a chi entra. 4Dei cani, anch’essi scolpiti nel marmo, la scortano
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
155
ad ambo i lati; lo sguardo aggressivo, le orecchie ritte, le narici dilatate,
le fauci rabbiose... se per caso sentissi abbaiare d’intorno, il latrato
ti sembrerebbe provenire da quelle gole di marmo. 5E quel sublime
scultore aveva dato la prova più alta della sua arte nel rappresentare i
cani protesi in avanti a petto dritto, con le zampe posteriori fisse a terra
e le anteriori in piena corsa. 6Alle spalle della dea s’innalza una roccia
fatta a mo’ di spelonca; dal marmo crescono rigogliosi muschio, erbe,
foglie, rametti, e qua e là germogli e arbusti. 7Al suo interno, sulla pietra
lucida risplende l’ombra della statua. Dal bordo della roccia pendono
pomi e grappoli d’uva, levigati con straordinaria maestria: un’arte
capace di imitare la natura li ha rappresentati del tutto simili a frutti veri.
8
Potresti quasi credere che un giorno l’autunno profumato di mosto li
soffonderà di un colore maturo, e allora li si potrà cogliere e mangiare.
9
Se ti chinassi a osservare l’acqua della fonte, che scorrendo attorno
ai piedi della dea si increspa in onde delicate, ti parrebbe che quei
grappoli, proprio come quelli che pendono dai loro tralci in campagna,
oltre agli altri tratti di verosimiglianza possedessero anche quello di
poter ondeggiare al vento. 10In mezzo a quelle fronde di pietra si può
scorgere, sia scolpita nella pietra che riflessa sull’acqua, una statua di
Atteone proteso verso la dea con sguardo curioso: e mentre aspetta che
Diana si lavi, già si sta trasformando in cervo (Graverini).
È piuttosto evidente come la disavventura di Atteone sia a grandi
linee analoga a quella di Lucio, una storia di curiosità sacrilega punita
con una metamorfosi; e che quindi l’ekphrasis del gruppo scultoreo
costituisce una mise en abyme del romanzo che la contiene. Questo
effetto è raggiunto tramite alcune innovazioni rispetto alla tradizione
mitografica. Nel romanzo, innanzitutto, la metamorfosi di Lucio non
è né definitiva né tanto meno letale: il fatto che il gruppo statuario
non faccia alcun cenno al finale dell’episodio mitologico, nel quale
Atteone trasformato in cervo muore sbranato dai suoi stessi cani da
caccia, risponde allo scopo di rendere più facile per il lettore vedere il
destino di Lucio rispecchiato in quello del cacciatore. L’adattamento
operato da Apuleio è evidente non solo nel mancato finale, ma anche
nella gestione di un dettaglio importante: la funzione dei cani. Il loro
assalto contro Atteone è un particolare che normalmente ha grande
risalto nella tradizione sia iconografica che letteraria (Ovidio dedica
i vv. 3.206-225 a un lungo elenco dei loro nomi, più di trenta), ed è
156
Dopo Ovidio
dotato chiaramente di un grande appeal emotivo e visivo3. Apuleio
sceglie di non ometterlo, ma, dato che la morte del cacciatore viene
lasciata fuori scena, gli animali, invece di essere connessi a lui,
diventano “guardie del corpo” della dea (par. 4: canes utrimquesecus
deae latera muniunt). I cani inoltre sembrano voler aggredire non il
cacciatore curioso, ma chi entra in casa di Birrena4: Lucio quindi, e
noi lettori con lui. L’avvertimento è implicito e sottile, ma difficile
da ignorare: il mito di Atteone potrebbe riguardare Lucio, e forse
persino noi lettori che con lui inevitabilmente ci identifichiamo.
L’innovazione centrale, infine, riguarda la curiosità di Atteone.
In Ovidio e in Callimaco, i due precedenti letterari più importanti,
Atteone è soltanto vittima di un destino avverso5. In Apuleio, invece,
il cacciatore ammira le grazie della dea curioso optutu attendendo
che essa si lavi: la sua curiosità è un importante elemento in comune
con il carattere di Lucio6, e contribuisce a fare dell’ekphrasis una
buona mise en abyme del romanzo che la contiene.
Il gruppo statuario di Diana e Atteone è immerso in un paesaggio
naturale estremamente dettagliato, del quale fanno parte anche (par.
7) poma et uuae faberrime politae... quas ars aemula naturae ueritati
similes explicuit. Il parallelo tra arte e natura, tra arte e vita, è un topos
molto frequentato nella cultura antica. Tuttavia è chiaro che l’arte non
imita soltanto la natura, ma anche (e forse soprattutto) altra arte: e qui
l’intertestualità guarda chiaramente a Ovidio, in uno dei non numerosi
casi di citazione evidente e intenzionale di cui parlavo prima. Come
è stato osservato da molti, il modello preciso è Met. 3.155 ss., che è
proprio il brano in cui Ovidio descrive il paesaggio naturale che fa
da sfondo all’incontro tra Diana e Atteone: uallis erat… / … / cuius
3
4
5
6
Sul catalogo dei nomi dei cani vd. Schlam 1984, p. 84 e n. 5. Per Leach 981,
p. 309 nelle rappresentazioni sia letterarie che iconografiche del mito “the
destruction of Acteon by his own dogs remains constant”.
Immaginiamo i cani rivolti nella stessa direzione della statua di Diana, che è
introeuntibus obvium. L’effetto è simile a quello provocato dal canis ingens
dipinto all’ingresso della casa di Trimalchione in Petronio, Sat. 29.1.
Ov. Met. 3.176 sic illum fata ferebant; Tr. 2.1.105 inscius Actaeon vidit sine veste
Dianam. Callimaco, In lavacrum Palladis 113 οὐκ ἐθέλων περ ἴδῃ χαρίεντα
λοετρά. Per un precedente iconografico per Atteone rappresentato “as a waiting
spy rather than as an accidental intruder” vd. Schlam 1984, p. 100.
Sulla curiosità di Lucio, un tema fondamentale nel romanzo, si può partire da
Graverini, Nicolini 2019, pp. xxxi ss. e nota a I 2, 17-18, con riferimenti alla
letteratura precedente.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
157
in extremo est antrum nemorale recessu / arte laboratum nulla:
simulauerat artem / ingenio natura suo. L’ekphrasis di Apuleio quindi,
nella quale l’arte imita la natura, scolpisce nel marmo il paesaggio
naturale descritto da Ovidio, nel quale la natura imita l’arte. In Ovidio,
un Atteone in carne ed ossa si muove in un paesaggio naturale che
pare scolpito da mano d’artista; Apuleio gareggia in arguzia con il
proprio modello e ne capovolge il paradigma, rovesciando la gerarchia
e ricollocando arte e natura nei loro ruoli tradizionali7.
Qui vorrei però portare la discussione su di un livello più
generale. Ruurd Nauta, parlando di ekphraseis, ha ben osservato
che “un’opera d’arte interna a un testo può diventare un’immagine
dell’opera d’arte che il testo stesso vuol diventare”8. All’inizio,
nel presentare brevemente la descrizione apuleiana, per rendere le
cose più semplici ho detto subito che il gruppo statuario descritto
da Lucio rappresenta il mito di Diana e Atteone. Nel testo del
romanzo le cose non stanno affatto così: la descrizione manca di
una visione sintetica iniziale e segue lo sguardo di Lucio che si
perde in mille dettagli periferici (le Vittorie alate ai quattro angoli
dell’atrio, la bellezza di Diana, i suoi cani, i numerosi dettagli che
compongono lo sfondo naturale dell’azione e rivelano la bravura
dell’artista), così che fino quasi alla fine chi legge può benissimo
pensare che il gruppo statuario rappresenti semplicemente una Diana
cacciatrice9. Atteone, con il suo sguardo curioso, compare soltanto
alla fine, costringendo il lettore attento ad una reinterpretazione di
tutto ciò che viene prima: non una semplice descrizione di Diana
quindi, non soltanto un pezzo di bravura retorica, ma una mise en
abyme dell’intero romanzo e un avvertimento importante per Lucio,
curioso quanto Atteone10. Questa rivelazione finale fa diventare
7
8
9
10
Vd. Hinds 2002, p. 146; Barchiesi, Rosati 2007, p. 153 s.; Barchiesi, Hardie
2010, p. 71; Nicolini 2013, pp. 167 ss. sulla sensibilità visiva che accosta questa
ekphrasis alla maniera ovidiana e alla sua “poetica della spettacolarizzazione”.
Sull’arte che imita la natura cfr. il grappolo d’uva dipinto da Zeuxi in Plinio,
Nat. hist. 35.65; Seneca retore, Controversiae 10.5.27; Seneca, Ep. 65.3 omnis
ars naturae imitatio est. Aristofane di Bisanzio si chiedeva chi tra Menandro e
la vita imitasse l’altro (Menandro, Test. 83 Kassel-Austin; Siriano, Scholia ad
Hermogenem 23).
Nauta 2013, pp. 249 ss.
Vd. ad es. van Mal-Maeder 2001, p. 98.
L’avvertimento, come altri nel romanzo, è destinato a rimanere non colto:
vd. sotto nel testo sul commento di Lucio a 2.5.1, che si limita ad un
158
Dopo Ovidio
l’ekphrasis una rappresentazione ancor più fedele del romanzo che
la contiene, di cui riproduce non solo il tema della curiosità punita
ma anche la struttura: come la descrizione del gruppo statuario,
infatti, anche il romanzo acquista significato proprio alla fine con
la rivelazione isiaca dell’ultimo libro, che ci sollecita ad applicare a
quanto abbiamo letto fino a quel punto una chiave interpretativa di
tipo filosofico e religioso11.
Nell’ekphrasis compare quindi effettivamente l’opera che la
contiene, come suggerisce Nauta, e a più livelli. Ma ci possiamo
spingere anche oltre: in essa si può scorgere il riflesso, appena
distorto come quello dei grappoli d’uva che si riflettono nell’acqua
increspata da onde leggere, anche dell’autore. Mi pare del tutto lecito
infatti considerare l’egregius… signifex che ha scolpito la statua (par.
5) una manifestazione di Apuleio, che ha scritto il romanzo12. Non
solo perché in effetti l’egregio scultore non è altro che una creazione
letteraria dell’autore del romanzo, ma anche e soprattutto perché i due
artisti sono evidentemente accomunati dal gusto baroccheggiante,
dalla ricerca della perfezione stilistica e formale, dalla meticolosa
mimesi della realtà. Lo scultore descrive sulla pietra inerte non tanto
un’immagine fissa quanto una scena in movimento, una storia che
si dispiega di fronte ai nostri occhi – i cani e la natura che circonda
la scena sembrano vivi, e Atteone è iam in cervum ferinus, il suo
destino si sta compiendo. È un atto in divenire; non una fotografia,
ma un film. Si tratta naturalmente di un procedimento comune
nelle rappresentazioni iconografiche di questo e altri miti, ma
inevitabilmente questa dimensione narrativa della scultura rende il
suo autore un buon equivalente del romanziere che gli ha dato vita.
11
12
apprezzamento estetico e superficiale.
Questo è in realtà un grosso problema negli studi apuleiani, e la critica lo
affronta in modo tutt’altro che unanime. Ho espresso il mio punto di vista in
Graverini 2007.
La corrispondenza tra scultore e narratore può essere anch’essa un tratto
ovidiano, se si pensa a quanto è facile vedere in Pigmalione, che scoplpisce
mira… arte (Met. 10.247) una donna bellissima e quasi viva, che poi
prenderà realmente vita grazie a Venere, una sorta di allegoria del poeta
Ovidio (vd. ad es. Reed 2013, p. 223). Anche nell’episodio di Pigmalione,
come in quello di Atteone, Ovidio affronta il tema del rapporto del labile
confine tra arte e vita: cfr. 10.250-253 virginis est verae facies, quam vivere
credas… ars adeo latet arte sua.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
159
A completare il quadro, in questa parte del romanzo troviamo anche
una rappresentazione chiara del lettore, e del processo interpretativo
che egli è chiamato a compiere. Come ho detto, per ammirare il
gruppo scultoreo e ricrearlo nella nostra phantasia13 noi non possiamo
fare altro che seguire lo sguardo di Lucio, che ci guida nel cogliere un
dettaglio dopo l’altro ma non offre mai una visione d’insieme, come
quella che chi entrasse in casa di Birrena sarebbe certamente in grado
di avere14. Questo da una parte risponde all’esigenza di riservare alle
righe finali dell’ekphrasis la sorprendente e significativa rivelazione
della presenza di Atteone curioso; dall’altra riproduce il modo in
cui un lettore, più che non un vero e proprio spettatore, può farsi
un’idea di un’opera descritta e non vista direttamente. Si tratta di una
descrizione, appunto, lineare, non sintetica, estremamente adatta ad
essere inverata nelle linee di un testo scritto. Se l’“egregio scultore”
è quindi un analogo dello scrittore Apuleio, Lucio in quanto “lettore”
del gruppo scultoreo è un buon analogo del lettore extradiegetico che
legge il testo del romanzo: ed è notevole come noi, lettori esterni, qui
inevitabilmente diventiamo Lucio, essendo costretti (come sempre,
ma con maggiore evidenza) a vedere – o se vogliamo a leggere – le
cose esclusivamente tramite il suo sguardo.
Leggere una descrizione è un’attività non solo immaginativa ma
anche interpretativa: ad esempio, la rivelazione finale della presenza
di Atteone è un potente incoraggiamento a riflettere sulla curiosità
e sulle sue conseguenze. Ma se l’immaginazione è una facoltà
comune più o meno a tutti, lo stesso non si può dire per la capacità
di interpretare: e Lucio, come in altre occasioni, ce lo dimostra.
Subito dopo l’ekphrasis, il suo commento a 2.5.1 mostra come il suo
13
14
Incitare il pubblico a crearsi vivide immagini mentali di ciò che viene narrato
o descritto è un compito fondamentale della retorica antica: ogni buon retore
o scrittore doveva essere in grado di conferire evidentia alle proprie parole.
L’evidentia (in greco enargeia) costituisce, anche se in maniera implicita,
il background concettuale di quasi tutto quello che andrò dicendo in questo
lavoro; tra gli studi più importanti recenti in merito vd. Zanker 1981; Walker
1993; Cassin 1997; Webb 1997; Manieri 1998; Webb 2009, spec. pp. 87-130.
Di evidentia e romanzo mi sono occupato in Graverini 2013.
Si rileva in pratica una sovrapposizione tra la pretesa di oggettività di una
descrizione, e la prospettiva soggettiva di chi descrive; su questa tecnica
narrativa (applicata al Satyricon di Petronio) vd. ad es. Auerbach 1956, vol. 1
p. 30 “il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna
in profondità”.
160
Dopo Ovidio
apprezzamento per l’opera dell’egregius signifex sia essenzialmente
estetico e superficiale: dum haec identidem rimabundus eximie
delector… In sostanza, il lettore che voglia andare oltre il vano
apprezzamento della perfezione stilistica sia della scultura virtuale
che della virtuosa ekphrasis offerta dal racconto è lasciato a sé
stesso, e il testo sembra anzi scoraggiarlo. Questo non vuol dire che
il testo non tenti sottilmente di coinvolgere il lettore nell’attività di
osservare e interpretare, o male interpretare se vogliamo; è soltanto
che Apuleio gli rende le cose non troppo facili. Ed è qui che ancora
una volta, come vedremo, si fa sentire forte l’influenza ovidiana.
L’ekphrasis ha una struttura non semplicemente descrittiva,
ma quasi dialogica, e contiene alcuni verbi alla seconda persona
singolare: al par. 4 Lucio afferma che i cani sono scolpiti nel
marmo in modo talmente realistico che se per caso si sentisse un
latrato si potrebbe pensare (putabis) che fossero quelle fauci di
pietra ad emetterlo; al par. 8 dice che pomi e grappoli d’uva sono
talmente verosimili che si potrebbe immaginare (putes) di coglierli
e mangiarli; e al par. 9 afferma che se ci si chinasse a osservarne
il riflesso sull’acqua della fonte sembrerebbe che pomi e grappoli
oscillassero al vento, proprio come quelli veri (si fontem aspexeris,
credes…). Chi è questo “tu” a cui Lucio si rivolge? Nell’ekphrasis,
al dialogo tra Lucio e Birrena si sovrappone chiaramente, fino a
sostituirlo del tutto, il dialogo diretto tra autore e lettore15. Spesso
i traduttori rendono queste seconde persone singolari con degli
impersonali; che è naturalmente lecito, ma non rende giustizia al
“tu” chiamato in causa così spesso, al lettore che è invitato sulla
scena a contemplare assieme a Lucio questa meraviglia scultorea. In
sostanza, l’ekphrasis dell’atrio di Birrena crea metodicamente uno
spazio tridimensionale del racconto nel quale il lettore è invitato a
entrare assieme al narratore Lucio, osservandolo con gli occhi di lui
e persino interpretandolo con la sua testa.
Questa naturalmente è una tecnica retorica abbastanza comune
nella pratica ecfrastica antica. Il tema della metamorfosi di Atteone
tuttavia, e l’intertestualità che abbiamo analizzato finora, puntano
decisamente verso Ovidio, che era – come ha ben osservato Gianpiero
15
O, se vogliamo, tra Lucio come narratore retrospettivo e lettore; ma, come
sempre, non è facile distinguere tra Lucio-auctor e autore vero e proprio.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
161
Rosati – un maestro nell’uso di questi procedimenti16. Il trattamento
ovidiano della metamorfosi di Atteone in effetti è esemplare in
questo, e ci offre vari punti di vista sul processo di trasformazione. Il
primo, drammaticamente, è proprio quello di Atteone, che si stupisce
di vedersi così veloce a fuggire, e commisera la propria sorte nel
vedere il proprio riflesso sull’acqua (3.199 s. et se tam celerem cursu
miratur in ipso. / Ut vero vultus et cornua vidit in unda...). Poi i cani
“vedono” Atteone/cervo a 3.206 videre canes, e a 3.230 Atteone li
esorta a riconoscere il loro padrone (dominum cognoscite vestrum).
A 3.243 s. i compagni di caccia “cercano Atteone con gli occhi”
lamentandosi che l’amico sia troppo lento a seguirli e si perda lo
spettacolo della preda catturata dai cani (nec capere oblatae segnem
spectacula praedae). L’ultimo sguardo, con elegante composizione
ad anello, è di nuovo quello di Atteone stesso, che vellet... videre,
/ non etiam sentire canum fera facta suorum17. Il visitur con cui si
conclude il brano apuleiano può essere utilmente considerato sullo
sfondo del frequentissimo videtur (o verbi simili, sia impersonali
che alla seconda persona, in vari tempi e modi) che caratterizza le
descrizioni ovidiane, e che come ha osservato Rosati fa appello alla
percezione visiva del lettore/ascoltatore e lo trasforma in spettatore18.
Vedremo tra poco come Apuleio faccia ricorso, per stimolare la
phantasia del suo lettore, a elementi lessicali molto simili a quelli
prediletti da Ovidio; prima, però, soffermiamoci su un altro caso di
intertestualità evidente e probabilmente deliberata.
16
17
18
Vd. Rosati 1983, p. 140 e n. 88. Virgilio ne fa un uso più parco, ma cfr. ad es.
le tre apostrofi nella descrizione dello scudo di Enea: Aen. 8.676 videres, 691
credas e 649 s. illum indignanti similem similemque minanti / aspiceres.
Il fatto che il prodigio possa essere oggetto dello sguardo – di volta in volta
ammirato o esterrefatto – anche del soggetto stesso della metamorfosi (oltre
che di spettatori esterni) è un elemento chiave e ricorrente della “spettacolarità”
della poesia ovidiana: vd. Rosati 1983, pp. 143 ss. È una lezione che Apuleio
sembra aver interiorizzato: ce lo dimostra anzitutto nella descrizione della
trasformazione di Lucio, che a 3.24.6 subito dopo essersi trasformato in
asino riflette sull’unico motivo di consolazione che può vedere nel suo nuovo
aspetto (vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 376 ad loc.).
Rosati 1983, p. 139 ss. Il dettaglio del riflesso del volto semiferino di Atteone
sull’acqua è naturalmente anche un più deciso ammiccamento verso il modello
ovidiano più specifico (3.200 et cornua vidit in unda). Una rappresentazione
simile si ha anche in un mosaico africano, sul quale vd. ora Moretti c. d. s.
162
Dopo Ovidio
La phantasia del lettore di Apuleio è popolata non soltanto dei
dettagli che lui può vedere attraverso lo sguardo di Lucio, ma anche
delle suggestioni provocate dall’ekphrasis e che trasformano la
pietra in materia vivente. Anche qui siamo in presenza di una tecnica
usata magistralmente da Ovidio, che spesso invita il suo lettore a
immaginare alcuni aspetti di una scena che risultano particolarmente
inverosimili, o che per loro natura possono essere appunto soltanto
immaginati e non propriamente descritti. Un caso esemplare è l’idea
di vita e movimento suggerita dalla materia inerte, sia da Apuleio
nella descrizione del gruppo statuario di Diana e Atteone19, sia da
Ovidio in varie occasioni, tra le quali la storia del cane Lelape.
L’animale, un infallibile cane da caccia, era stato regalato da Diana
a Procri (7.754 s.), che a sua volta ne aveva fatto dono al marito
Cefalo. Quest’ultimo lo impiega per tentare di catturare una volpe
imprendibile che devasta le campagne di Tebe, dando luogo ad
un inseguimento paradossale e potenzialmente infinito: un cane
infallibile a caccia di una preda imprendibile. Un dio risolve la
situazione pietrificando i due animali che però, pur immobilizzati
nel marmo, continuano a sembrare perpetuamente in movimento. La
scena è descritta attraverso lo sguardo stupito di Cefalo: … medio
(mirum) duo marmora campo / aspicio: fugere hoc, illud captare
putares (7.790 s.). Lelape è colto in un atto destinato a ripetersi
in eterno senza mai giungere a conclusione20. La situazione è del
tutto analoga a quella dei cani di Diana in Apuleio, ritratti nella
posa di un’istante che il marmo innaturalmente protrae all’infinito:
occhi minacciosi, orecchie ritte, narici spalancate, fauci aperte
nell’illusione di un latrato che ovviamente non può venire mai, il
corpo slanciato in una corsa che sembra in atto ma rimane immobile.
Che i cani di pietra siano di Diana, sia in Ovidio che in Apuleio, può
sembrare una coincidenza fortuita, ma in realtà è un dettaglio piuttosto
notevole in ambedue gli autori. In Ovidio si tratta di una scelta fra
19
20
Vd. sopra su putabis, putes, credes; e Moretti 2019 sul “realismo illusionistico”
dell’ekphrasis apuleiana, in contrasto con Apologia 14 dove l’arte della
scultura è detta incapace di rendere il motus.
In questo la pietra non tradisce la materia vivente, dato che Lelape era
descritto allo stesso modo anche prima della trasformazione: 7.785 s. inminet
hic sequiturque parem similisque tenenti / non tenet et vanos exercet in aera
morsus.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
163
tradizioni mitografiche diverse21, mentre in Apuleio, come si è visto,
l’appartenenza dei cani a Diana è semplicemente divergente nel
contesto del mito di Atteone e prepara la sorpresa finale. È possibile
che in Apuleio il dettaglio sia influenzato dal racconto ovidiano, nel
quale troviamo un cane da caccia “di Diana” pietrificato in una posa
aggressiva e piena di movimento; e l’ipotesi acquista ulteriore peso
se prestiamo attenzione anche al putares finale, che in Ovidio invita il
lettore ad integrare la rappresentazione mentale (un cane pietrificato)
con un supplemento di immaginazione, che fa diventare viva la materia
inerte. L’operazione è infatti del tutto analoga – anche lessicalmente –
a quella che avviene nell’ekphrasis apuleiana: et sicunde de proximo
latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire.
È piuttosto naturale considerare putabis e putares nell’ottica di una
sottile intertestualità che connette Apuleio ad Ovidio, ma è possibile
spingersi anche oltre ed aggiungere a questa sottile intertestualità un
po’ di spessore. Nel testo ovidiano, il captare che precede putares è
congettura di Polle, ma la lezione unanime dei codici è latrare. La
congettura ha avuto larga fortuna ed è stata accolta nel testo di varie
edizioni, tra cui la recente OCT di Tarrant. L’approvazione non è
tuttavia unanime22; senza entrare ora approfonditamente nel merito
della questione, vorrei osservare che latrare putares dei codici ovidiani
costituisce un ottimo intertesto per eum (sc. latratum) putabis… exire
di Apuleio, che quindi probabilmente leggeva latrare e non captare.
Sia come sia, il verbo puto, usato ben due volte nella descrizione
apuleiana (putabis, putes), fa chiaramente parte dell’idioletto di
Ovidio quando il poeta vuole stimolare la phantasia del suo lettore
e spingerlo a immaginare la realtà e la vita dietro una descrizione.
Limitandoci ad alcuni esempi relativi alle descrizioni di metamorfosi,
si possono ricordare:
21
22
Il cane fu donato a Procri da Minosse per Ps.-Apollodoro, Bibl. 2.58, Antonino
Liberale 41.5, e Igino astronomo 2.35; il dono è invece fatto direttamente da
Artemide, come in Ovidio, secondo Pausania 9.19.1 e Igino mitografo, fab.
189.5.
I vari argomenti a supporto della lezione tradita sono ricapitolati e integrati in
Felton 2001. Cfr. anche Wheeler 1999, p. 155, per cui latrare supporta bene
lo “ecphrastic topos of verisimilitude… the idea that the statue appears so
real that one would think it were barking is clearly a variation on the earlier
petrifaction of the boasting Nileus”.
Dopo Ovidio
164
3.453 posse putes tangi. Narciso descrive la sua immagine riflessa
nell’acqua, che “potresti credere di poter toccare”. Il giovane parla alle
silvae intorno a lui, ma chiaramente alla sua voce si sovrappone quella
di Ovidio che si rivolge al suo lettore
6.104 verum taurum, freta vera putares / ipsa videbatur terras
spectare relictas. La verosimiglianza della tela di Aracne, nella parte
dove rappresenta il mito di Europa.
6.667 corpora Cecropidum pennis pendere putares: / pendebant
pennis. Qui l’immaginazione del lettore diventa immediatamente
“realtà”: Procne e Filomela sembrano uccelli, e subito lo diventano.
11.84 nodosaque bracchia veros / esse putes ramos, et non fallare
putando. Bacco punisce le donne di Tracia per l’uccisione di Orfeo, e
le trasforma in alberi: come nel caso precedente, la phantasia si invera
immediatamente.
11.114 Hesperidas donasse putes. Una metamorfosi minore, quella
di una mela in mela d’oro (“potresti credere che glie la avessero donata
le Esperidi”) in seguito al tocco di Mida.
Lo stesso si può dire per credo (cfr. 2.4.1 iam volare creduntur; 9
credes illos... nec agitationis officio carere). Ad esempio:
5.194 ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis. Ancora una volta,
figure di pietra che danno l’impressione di vita e di movimento: i nemici
di Perseo, impietriti alla vista della testa della Gorgone. Tra questi
Nileo, che si esibisce in un’aggressione verbale ma non riesce a finirla.
10.250 virginis est verae facies, quam vivere credas, / et, si non obstet
reverentia, velle moveri. / ars adeo latet arte sua. La donna d’avorio creata
da Pigmalione, artista sublime e buon alter ego dell’autore extradiegetico,
Ovidio – proprio come l’egregius signifex apuleiano. Anche qui l’idea
di vita e di movimento offerta da un’opera d’arte (ancora) inanimata dà
luogo a una riflessione sul rapporto tra arte e natura.
Vorrei chiudere questa breve rassegna, che potrebbe durare
ancora a lungo, con un brano veramente esemplare. Vertumno mette
a frutto la capacità di alterare il proprio aspetto con travestimenti
per avvicinare e conquistare la ritrosa Pomona. Il poeta, non meno
esibizionista del suo personaggio, si produce nella rapida descrizione
di quattro trasformazioni nello spazio di sei versi (Met. 14.645 ss.):
tempora saepe gerens faeno religata recenti
desectum poterat gramen versasse videri;
saepe manu stimulos rigida portabat, ut illum
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
165
iurares fessos modo disiunxisse iuvencos.
falce data frondator erat vitisque putator;
induerat scalas: lecturum poma putares.
A volte, recando la fronte fasciata da fieno ancor fresco,
poteva sembrare che avesse appena rivoltato l’erba falciata;
più spesso, nella mano rigida teneva un pungolo: avresti
giurato che avesse appena staccato il giogo ai giovenchi stremati;
se gli davi una falce, era uno che sfronda e che pota le viti (Chiarini).
Ogni due versi troviamo un appropriato stimolo alle capacità
immaginative del lettore, il secondo e il terzo tramite verbi alla
seconda persona. Chi legge deve crearsi un’immagine mentale
(poterat videri), crederla vera (iurares), interpretarla (putares).
La phantasia del lettore e la sua capacità di creazione e decodifica
delle immagini mentali sono costantemente chiamate in causa nella
costruzione dell’universo narrativo, in Ovidio come in Apuleio; e
in ambedue gli autori, il narratore spesso si rivolge direttamente al
lettore per cercare di coinvolgerlo più personalmente nell’universo
della finzione e fargli immaginare di trovarsi “sulla scena” assieme
a lui. Talvolta però, sia in Ovidio che in Apuleio, si verificano
situazioni paradossali nelle quali l’autore/narratore, invece di
sollecitare la collaborazione del lettore e l’adesione di lui al suo
progetto narrativo, sembra disincentivarla.
2. Storie da non credere
A 2.12.5, in un brano importante e ben noto del romanzo di
Apuleio, un profeta di nome Diofane predice a Lucio un destino di
gloria letteraria: mihi denique... multa respondit et oppido mira et satis
varia; nunc enim gloriam satis floridam, nunc historiam magnam
et incredundam fabulam et libros me futurum. Il profeta diventa
inevitabilmente una figura autoriale: il lettore accorto si rende conto che
la profezia, seppure profferita da un indovino imbroglione, è vera, dato
che sta appunto leggendo la fabula e ha in mano i libri; e capisce che
nessun altro se non il suo autore può sapere come andranno a finire le
Dopo Ovidio
166
cose23. Ci troviamo quindi nella situazione, senza dubbio paradossale,
di un autore che suggerisce al lettore di non credere a ciò che gli viene
raccontato: la fabula è infatti incredunda. Qui, come in altri casi, occorre
naturalmente leggere il testo tra le righe: se la favola è incredibile, il
lettore (al quale fin dal prologo è stato promesso un racconto pieno –
tra l’altro – di stupefacenti metamorfosi) non può che essere ancor più
invogliato a soddisfare la propria sete di mirabilia proseguendo nella
lettura e credendo a ciò che gli viene raccontato – un po’ come l’ordine
di “non aprire quella porta” finisce per essere, nelle fiabe come nei film
horror, un incitamento irresistibile proprio a compiere l’atto proibito
(naturalmente, con la piena solidarietà dell’ascoltatore/lettore). Lo
stesso irresistibile richiamo alla lettura è offerto da una storia che
rischia di non iniziare: a 2.20.6, ad esempio, Telifrone inizialmente
rifiuta di raccontare una propria avventura, irritato dalle prese in giro
degli altri invitati alla cena a casa di Birrena. Naturalmente si tratta di
espedienti narrativi nobilitati dal tempo: già nell’Odissea, ad esempio,
il racconto autobiografico di Odisseo ai Feaci rischia di terminare
anzitempo quando l’eroe si interrompe e dice che la notte è fatta per
dormire, non per raccontare. Saranno l’insistenza di Alcinoo in Omero,
e quella di Birrena in Apuleio, a salvare la situazione e a permettere al
racconto rispettivamente di giungere al termine e di iniziare, una volta
che la curiosità del lettore è stata debitamente stimolata24.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma anche qui direi che
Apuleio sta probabilmente mettendo a frutto una lezione ovidiana.
È nel libro 10 delle Metamorfosi che troviamo, se non un propheta
come Diofane, un vates (Orfeo) che consiglia ai suoi ascoltatori di non
credere a ciò che sta per raccontare; e anche nel suo caso è difficile
pensare che alla sua voce non si sovrapponga in qualche modo quella
dell’autore extradiegetico, Ovidio. L’avvertimento di Orfeo in realtà è
ampio e complesso. Il canto che sta per iniziare riguarda la relazione
incestuosa di Cinira e Mirra, e il poeta avverte (10.300 ss.):
dira canam; procul hinc natae, procul este parentes
aut, mea si vestras mulcebunt carmina mentes,
23
24
Non può saperlo nemmeno Lucio-auctor, il narratore intradiegetico
retrospettivo: che può sapere come finirà la sua storia, ma non di essere
destinato a diventare una storia e un libro.
Sulla pretesa riluttanza del narratore come espediente per stimolare la curiosità
di chi lo ascolta vd. Sandy 1970, pp. 467 s.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
167
desit in hac mihi parte fides, nec credite factum,
vel, si credetis, facti quoque credite poenam.
La storia è tremenda. Allontanatevi o figlie,
via di qua o padri, oppure se restate, allettati dal mio canto,
esigo che non mi prestiate fede, non crediate a quel che racconto,
o altrimenti, se ci credete, credete anche alla punizione (Chiarini).
Vale la pena osservare che la poetica del romanzo apuleiano
è molto simile a quella di Orfeo, i cui canti hanno il potere di
mulcere le mentes di chi li ascolta: convincere, allettare, creare
immagini vivide nella phantasia dell’ascoltatore, portarlo anima e
corpo all’interno dell’universo narrativo… il parlante del prologo
si attribuisce esattamente lo stesso potere quando promette di
permulcere le orecchie del suo pubblico (1.1.1)25.
Il testo di Ovidio pone un problema preliminare: chi è che ascolta,
e chi è che veramente parla? Orfeo si rivolge a natae e parentes, padri
e figlie, ma in realtà sappiamo che il suo pubblico è costituito da
alberi, animali, uccelli, e perfino pietre capaci di muoversi26. Questa
discrepanza ha portato molti interpreti a ritenere che qui Orfeo
sia né più né meno che un portavoce di Ovidio27, che tenterebbe
di distanziarsi da un racconto che poteva anche risultare sgradito e
forse perfino pericoloso nel contesto delle riforme morali augustee.
Ora, questa è certamente una posizione troppo estrema: Alessandro
Barchiesi ha ben mostrato che ci sono ottimi motivi per prendere
seriamente Orfeo come “autore” del prologo alla storia di Cinira e
Mirra28. Tuttavia, appare difficile affermare che “non c’è più alcuna
ragione per credere che ‘allontanatevi o figlie, via di qui o padri’ si
debba riferire al pubblico di Ovidio” (61). Questi versi si riferiscono
più probabilmente sia agli ascoltatori di Orfeo (animali, alberi,
pietre) sia al pubblico romano di Ovidio, magari con scopi differenti.
Un pubblico di “padri e figlie” è soltanto un’ipotesi per Orfeo, il
25
26
27
28
Vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 142, con riferimenti alla letteratura precedente.
10.143: tale nemus vates attraxerat inque ferarum / concilio medius turba
volucrumque sedebat; 11.2 saxa sequentia.
Vd. ad es. Solodow 1988, pp. 39 s.: “there is little or no separation between
him [sc. Orpheus] and our Roman author […] Ovid is peeking out through the
figure of Orpheus”.
Barchiesi 2001a, pp. 58 ss.
168
Dopo Ovidio
cui avvertimento servirà soltanto ad anticipare drammaticamente
alcune caratteristiche del racconto che sta per iniziare; per il poema
di Ovidio, invece, si tratta di una realtà inevitabile che potrebbe
conferire a questi versi un carattere ben più minaccioso, ed è bene
avvertire padri e figlie del pericolo che corrono ascoltando il racconto
e inevitabilmente identificandosi con i suoi personaggi.29
Ci sono però buoni motivi per pensare che gli scopi di Orfeo e
Ovidio siano più simili tra loro di quanto appaia in superficie,
tanto che possiamo parlare di un narratore generico alla cui
caratterizzazione ambedue contribuiscono. Se è nel fondamentale
interesse di ogni narratore sollecitare il proprio pubblico ad ascoltare
un racconto e crederlo vero (cioè, identificarsi con i suoi personaggi),
è sconcertante come invece questo narratore avverta esplicitamente
il suo pubblico che la storia di Cinira e Mirra non dovrebbe essere
né ascoltata né creduta, e probabilmente neppure raccontata. È
sconcertante, cioè, a meno che le sue parole non costituiscano una
provocazione. La storia raccapricciante di una relazione proibita, una
storia che dovrebbe esser tenuta segreta… chi mai potrebbe resistere,
non ascoltarla, non credere che essa sia realmente accaduta o stia
addirittura accadendo a lui stesso? C’è in questi versi una sottile vena
di malizia: sia Orfeo che Ovidio sanno bene che, dopo un proemio
come questo, il loro pubblico li ascolterà ancora più attentamente.
Con uno spunto che appare del tutto originale, Ovidio (e Orfeo con
lui) trasforma il topos a cui accennavo sopra, della storia che rischia
di non essere raccontata, presentandoci una storia che non dovrebbe
mai essere né ascoltata né creduta: il cantore vuole essere libero di
fare il suo mestiere, ma avverte i suoi ascoltatori che loro, invece, non
dovrebbero fare il loro30.
Sia in Ovidio che in Apuleio, quindi, abbiamo brani in cui la
voce dell’autore extradiegetico fa capolino, interagendo in modo
provocatorio con quella di un personaggio e stimolando la curiosità
29
30
Cfr. Reed 2013, p. 333: “Fondamentale per questo passo è una teoria mimetica
della poesia: che l’ascoltatore sia destinato a identificarsi con uno o un altro
dei personaggi”.
La richiesta di non ascoltare è un’innovazione probabilmente sollecitata dalla
tradizione orfica, per cui i non iniziati erano avvertiti che era loro proibito
conoscere i misteri del culto; e dalla altrettanto tradizionale riluttanza dei
poeti epici a narrare esplicitamente il nefas. Sul primo punto vd. Barchiesi
2001a, p. 59; Reed 2013, p. 234. Sul secondo, Bernstein 2004 e Bessone 2006.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
169
dei suoi ascoltatori tramite una paradossale esortazione a non credere
a ciò che viene raccontato. Sebbene questa esortazione a non credere
sia molto particolare e, apparentemente, senza precedenti, sarebbe
difficile sostenere che l’incredundam fabulam di Diofane debba essere
considerata un’eco deliberata del nec credite factum ovidiano. Tuttavia,
mi pare si possa suggerire che anche qui Apuleio metta in pratica una
lezione ovidiana, una lezione fatta non di parole ma di tecnica narrativa.
3. Metalessi
La critica moderna e contemporanea ha un termine ben preciso per
definire buona parte di ciò di cui ho parlato in questa comunicazione.
Con il nome di metalessi31 si indica in generale la sospensione delle
regole che fissano i confini dell’universo narrativo e lo separano da
quello reale nel quale vivono l’autore e il lettore; questa sospensione fa
sì che l’autore o il narratore possano in alcune occasioni interrompere
il racconto e rivolgersi più o meno esplicitamente al lettore, e che
quest’ultimo possa talvolta sentirsi parte dell’universo narrativo – in
sostanza, credere che la storia sia vera, che stia realmente accadendo,
e che lui stesso ne faccia parte.
Si può dire dunque che una lezione che Apuleio ha imparato
da Ovidio è appunto l’uso di sottili metalessi per stimolare il
coinvolgimento del lettore, che è continuamente esortato a vedere,
capire, immaginare, stupirsi, (non) credere: tutte azioni che facilitano
l’ingresso del lettore nell’universo narrativo e, direbbe Coleridge, la sua
“temporanea sospensione dell’incredulità”32. Come dimostra il caso
del cane Lelape, Ovidio è senz’altro una buona fonte di intertestualità
per Apuleio, ancora solo parzialmente esplorata; eppure, come Lara
Nicolini, credo che la lezione ovidiana più importante riguardi non
tanto il “cosa” raccontare e descrivere, ma il “come” farlo.
31
32
Per un approccio critico al tema della metalessi si può partire da Nauta 2013 e
2013a.
S.T. Coleridge, Biographia literaria (1817), cap. 14: “... It was agreed, that
my endeavours should be directed to persons and characters supernatural, or
at least romantic, yet so as to transfer from our inward nature a human interest
and a semblance of truth sufficient to procure for these shadows of imagination
that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic
faith”.
luca graverini
ATTEONE, LELAPE, DIOFANE, ORFEO:
OVIDIO E APULEIO
L’importanza di Ovidio per le Metamorfosi di Apuleio è stata
oggetto di vari studi in passato, ma se la si analizza nell’ottica di una
tradizionale Quellenforschung i risultati appaiono più magri di quello
che ci si potrebbe aspettare: in Apuleio, come peraltro in molti altri
autori, è soprattutto dell’Eneide che ritroviamo frequenti riprese, sia
nel lessico che nelle linee narrative, che mostrano anche i caratteri
dell’intenzionalità allusiva. Contatti di questo tipo con la poesia
ovidiana ci sono, ma sono più rari e apparentemente limitati ad alcuni
ambiti specifici, come inevitabilmente quello della metamorfosi1.
Se però ci spingiamo oltre la pura ricerca delle allusioni più
facilmente quantificabili e misurabili diventa possibile perfino
affermare, come fa Lara Nicolini, che “Ovidio… doveva avere
per Apuleio qualcosa di più rispetto a Virgilio. Ovidio era molto
probabilmente sentito oltre che come creatore di lingua, come
maestro di estetica, un maestro affine per gusto”2. Lo studio della
Nicolini raggiunge risultati di grande importanza, e dipinge Ovidio
come maestro delle qualità “ecfrastiche” e “spettacolari” proprie
della lingua e dello stile di Apuleio. Ed è proprio da una ekphrasis
che voglio partire, sia soffermandomi su fatti generici di lingua,
stile e tecnica narrativa, sia evidenziando qualche nuovo caso di
intertestualità ovidiana.
1
2
Due riferimenti classici per Apuleio e Ovidio sono Bandini 1986; Krabbe
1989, pp. 37 ss. Per un approccio più aggiornato, vd. il lavoro di Lara
Nicolini citato nella nota successiva. Per Apuleio e Virgilio, un ottimo punto
di partenza è Harrison 2013. Riguardo alla concentrazione di ovidianismi
soprattutto nelle sezioni di argomento metamorfico, è comunque lecito un
sospetto di circolarità, dato che è soprattutto in questi contesti che gli studiosi
inevitabilmente vanno in cerca di tracce di Ovidio.
Nicolini 2013, p. 162.
Dopo Ovidio
154
1. Atteone
Il capitolo 2.4 delle Metamorfosi è dedicato alla descrizione
dell’atrio della casa di Birrena, una zia del protagonista Lucio. Al
suo centro si trova un gruppo scultoreo che rappresenta il mito di
Atteone, il cacciatore curioso che spia Diana mentre si lava nelle
acque di un ruscello; il suo atto sacrilego viene punito dalla dea, che
trasforma il malcapitato in cervo. Ecco il testo:
1
Atria longe pulcherrima columnis quadrifariam per singulos
angulos stantibus attollebant statuas, 2palmaris deae facies, quae
pinnis explicitis sine gressu pilae volubilis instabile vestigium
plantis roscidis delibantes nec ut maneant inhaerent et iam volare
creduntur. 3Ecce lapis Parius in Dianam factus tenet libratam totius
loci medietatem, signum perfecte luculentum, veste reflatum, procursu
vegetum, introeuntibus obvium et maiestate numinis venerabile. 4Canes
utrimquesecus deae latera muniunt, qui canes et ipsi lapis erant; his
oculi minantur, aures rigent, nares hiant, ora saeviunt, et sicunde de
proximo latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire; 5et in
quo summum specimen operae fabrilis egregius ille signifex prodidit,
sublatis canibus in pectus arduis pedes imi resistunt, currunt priores.
6
Pone tergum deae saxum insurgit in speluncae modum muscis et herbis
et foliis et virgulis et sicubi pampinis et arbusculis alibi de lapide
florentibus. 7Splendet intus umbra signi de nitore lapidis. Sub extrema
saxi margine poma et uvae faberrime politae dependent, quas ars aemula
naturae veritati similes explicuit. 8Putes ad cibum inde quaedam, cum
mustulentus autumnus maturum colorem adflaverit, posse decerpi, 9et
si fontem, qui deae vestigio discurrens in lenem vibratur undam, pronus
aspexeris, credes illos ut rure pendentes racemos inter cetera veritatis
nec agitationis officio carere. 10Inter medias frondes lapidis Actaeon
simulacrum curioso optutu in deam proiectus iam in cervum ferinus et
in saxo simul et in fonte loturam Dianam opperiens visitur.
1
L’atrio era di una bellezza straordinaria. A ciascuno dei quattro angoli
faceva svettare in cima a delle colonne delle statue, 2che rappresentavano
la dea della vittoria: ad ali spiegate, senza fare nemmeno un passo,
con le punte dei piedi umidi di rugiada sfiorano appena il supporto
instabile di un globo pronto a rotolare via; vi si poggiano sopra ma non
per restarci, e paiono anzi aver già spiccato il volo. 3E lì, esattamente
al centro dell’ambiente, c’è un marmo di Paro modellato in forma di
Diana, una statua perfetta e splendida: con la veste gonfiata dal vento
e il passo atletico, venerabile nella sua maestà divina, sembra venire
incontro a chi entra. 4Dei cani, anch’essi scolpiti nel marmo, la scortano
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
155
ad ambo i lati; lo sguardo aggressivo, le orecchie ritte, le narici dilatate,
le fauci rabbiose... se per caso sentissi abbaiare d’intorno, il latrato
ti sembrerebbe provenire da quelle gole di marmo. 5E quel sublime
scultore aveva dato la prova più alta della sua arte nel rappresentare i
cani protesi in avanti a petto dritto, con le zampe posteriori fisse a terra
e le anteriori in piena corsa. 6Alle spalle della dea s’innalza una roccia
fatta a mo’ di spelonca; dal marmo crescono rigogliosi muschio, erbe,
foglie, rametti, e qua e là germogli e arbusti. 7Al suo interno, sulla pietra
lucida risplende l’ombra della statua. Dal bordo della roccia pendono
pomi e grappoli d’uva, levigati con straordinaria maestria: un’arte
capace di imitare la natura li ha rappresentati del tutto simili a frutti veri.
8
Potresti quasi credere che un giorno l’autunno profumato di mosto li
soffonderà di un colore maturo, e allora li si potrà cogliere e mangiare.
9
Se ti chinassi a osservare l’acqua della fonte, che scorrendo attorno
ai piedi della dea si increspa in onde delicate, ti parrebbe che quei
grappoli, proprio come quelli che pendono dai loro tralci in campagna,
oltre agli altri tratti di verosimiglianza possedessero anche quello di
poter ondeggiare al vento. 10In mezzo a quelle fronde di pietra si può
scorgere, sia scolpita nella pietra che riflessa sull’acqua, una statua di
Atteone proteso verso la dea con sguardo curioso: e mentre aspetta che
Diana si lavi, già si sta trasformando in cervo (Graverini).
È piuttosto evidente come la disavventura di Atteone sia a grandi
linee analoga a quella di Lucio, una storia di curiosità sacrilega punita
con una metamorfosi; e che quindi l’ekphrasis del gruppo scultoreo
costituisce una mise en abyme del romanzo che la contiene. Questo
effetto è raggiunto tramite alcune innovazioni rispetto alla tradizione
mitografica. Nel romanzo, innanzitutto, la metamorfosi di Lucio non
è né definitiva né tanto meno letale: il fatto che il gruppo statuario
non faccia alcun cenno al finale dell’episodio mitologico, nel quale
Atteone trasformato in cervo muore sbranato dai suoi stessi cani da
caccia, risponde allo scopo di rendere più facile per il lettore vedere il
destino di Lucio rispecchiato in quello del cacciatore. L’adattamento
operato da Apuleio è evidente non solo nel mancato finale, ma anche
nella gestione di un dettaglio importante: la funzione dei cani. Il loro
assalto contro Atteone è un particolare che normalmente ha grande
risalto nella tradizione sia iconografica che letteraria (Ovidio dedica
i vv. 3.206-225 a un lungo elenco dei loro nomi, più di trenta), ed è
156
Dopo Ovidio
dotato chiaramente di un grande appeal emotivo e visivo3. Apuleio
sceglie di non ometterlo, ma, dato che la morte del cacciatore viene
lasciata fuori scena, gli animali, invece di essere connessi a lui,
diventano “guardie del corpo” della dea (par. 4: canes utrimquesecus
deae latera muniunt). I cani inoltre sembrano voler aggredire non il
cacciatore curioso, ma chi entra in casa di Birrena4: Lucio quindi, e
noi lettori con lui. L’avvertimento è implicito e sottile, ma difficile
da ignorare: il mito di Atteone potrebbe riguardare Lucio, e forse
persino noi lettori che con lui inevitabilmente ci identifichiamo.
L’innovazione centrale, infine, riguarda la curiosità di Atteone.
In Ovidio e in Callimaco, i due precedenti letterari più importanti,
Atteone è soltanto vittima di un destino avverso5. In Apuleio, invece,
il cacciatore ammira le grazie della dea curioso optutu attendendo
che essa si lavi: la sua curiosità è un importante elemento in comune
con il carattere di Lucio6, e contribuisce a fare dell’ekphrasis una
buona mise en abyme del romanzo che la contiene.
Il gruppo statuario di Diana e Atteone è immerso in un paesaggio
naturale estremamente dettagliato, del quale fanno parte anche (par.
7) poma et uuae faberrime politae... quas ars aemula naturae ueritati
similes explicuit. Il parallelo tra arte e natura, tra arte e vita, è un topos
molto frequentato nella cultura antica. Tuttavia è chiaro che l’arte non
imita soltanto la natura, ma anche (e forse soprattutto) altra arte: e qui
l’intertestualità guarda chiaramente a Ovidio, in uno dei non numerosi
casi di citazione evidente e intenzionale di cui parlavo prima. Come
è stato osservato da molti, il modello preciso è Met. 3.155 ss., che è
proprio il brano in cui Ovidio descrive il paesaggio naturale che fa
da sfondo all’incontro tra Diana e Atteone: uallis erat… / … / cuius
3
4
5
6
Sul catalogo dei nomi dei cani vd. Schlam 1984, p. 84 e n. 5. Per Leach 981,
p. 309 nelle rappresentazioni sia letterarie che iconografiche del mito “the
destruction of Acteon by his own dogs remains constant”.
Immaginiamo i cani rivolti nella stessa direzione della statua di Diana, che è
introeuntibus obvium. L’effetto è simile a quello provocato dal canis ingens
dipinto all’ingresso della casa di Trimalchione in Petronio, Sat. 29.1.
Ov. Met. 3.176 sic illum fata ferebant; Tr. 2.1.105 inscius Actaeon vidit sine veste
Dianam. Callimaco, In lavacrum Palladis 113 οὐκ ἐθέλων περ ἴδῃ χαρίεντα
λοετρά. Per un precedente iconografico per Atteone rappresentato “as a waiting
spy rather than as an accidental intruder” vd. Schlam 1984, p. 100.
Sulla curiosità di Lucio, un tema fondamentale nel romanzo, si può partire da
Graverini, Nicolini 2019, pp. xxxi ss. e nota a I 2, 17-18, con riferimenti alla
letteratura precedente.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
157
in extremo est antrum nemorale recessu / arte laboratum nulla:
simulauerat artem / ingenio natura suo. L’ekphrasis di Apuleio quindi,
nella quale l’arte imita la natura, scolpisce nel marmo il paesaggio
naturale descritto da Ovidio, nel quale la natura imita l’arte. In Ovidio,
un Atteone in carne ed ossa si muove in un paesaggio naturale che
pare scolpito da mano d’artista; Apuleio gareggia in arguzia con il
proprio modello e ne capovolge il paradigma, rovesciando la gerarchia
e ricollocando arte e natura nei loro ruoli tradizionali7.
Qui vorrei però portare la discussione su di un livello più
generale. Ruurd Nauta, parlando di ekphraseis, ha ben osservato
che “un’opera d’arte interna a un testo può diventare un’immagine
dell’opera d’arte che il testo stesso vuol diventare”8. All’inizio,
nel presentare brevemente la descrizione apuleiana, per rendere le
cose più semplici ho detto subito che il gruppo statuario descritto
da Lucio rappresenta il mito di Diana e Atteone. Nel testo del
romanzo le cose non stanno affatto così: la descrizione manca di
una visione sintetica iniziale e segue lo sguardo di Lucio che si
perde in mille dettagli periferici (le Vittorie alate ai quattro angoli
dell’atrio, la bellezza di Diana, i suoi cani, i numerosi dettagli che
compongono lo sfondo naturale dell’azione e rivelano la bravura
dell’artista), così che fino quasi alla fine chi legge può benissimo
pensare che il gruppo statuario rappresenti semplicemente una Diana
cacciatrice9. Atteone, con il suo sguardo curioso, compare soltanto
alla fine, costringendo il lettore attento ad una reinterpretazione di
tutto ciò che viene prima: non una semplice descrizione di Diana
quindi, non soltanto un pezzo di bravura retorica, ma una mise en
abyme dell’intero romanzo e un avvertimento importante per Lucio,
curioso quanto Atteone10. Questa rivelazione finale fa diventare
7
8
9
10
Vd. Hinds 2002, p. 146; Barchiesi, Rosati 2007, p. 153 s.; Barchiesi, Hardie
2010, p. 71; Nicolini 2013, pp. 167 ss. sulla sensibilità visiva che accosta questa
ekphrasis alla maniera ovidiana e alla sua “poetica della spettacolarizzazione”.
Sull’arte che imita la natura cfr. il grappolo d’uva dipinto da Zeuxi in Plinio,
Nat. hist. 35.65; Seneca retore, Controversiae 10.5.27; Seneca, Ep. 65.3 omnis
ars naturae imitatio est. Aristofane di Bisanzio si chiedeva chi tra Menandro e
la vita imitasse l’altro (Menandro, Test. 83 Kassel-Austin; Siriano, Scholia ad
Hermogenem 23).
Nauta 2013, pp. 249 ss.
Vd. ad es. van Mal-Maeder 2001, p. 98.
L’avvertimento, come altri nel romanzo, è destinato a rimanere non colto:
vd. sotto nel testo sul commento di Lucio a 2.5.1, che si limita ad un
158
Dopo Ovidio
l’ekphrasis una rappresentazione ancor più fedele del romanzo che
la contiene, di cui riproduce non solo il tema della curiosità punita
ma anche la struttura: come la descrizione del gruppo statuario,
infatti, anche il romanzo acquista significato proprio alla fine con
la rivelazione isiaca dell’ultimo libro, che ci sollecita ad applicare a
quanto abbiamo letto fino a quel punto una chiave interpretativa di
tipo filosofico e religioso11.
Nell’ekphrasis compare quindi effettivamente l’opera che la
contiene, come suggerisce Nauta, e a più livelli. Ma ci possiamo
spingere anche oltre: in essa si può scorgere il riflesso, appena
distorto come quello dei grappoli d’uva che si riflettono nell’acqua
increspata da onde leggere, anche dell’autore. Mi pare del tutto lecito
infatti considerare l’egregius… signifex che ha scolpito la statua (par.
5) una manifestazione di Apuleio, che ha scritto il romanzo12. Non
solo perché in effetti l’egregio scultore non è altro che una creazione
letteraria dell’autore del romanzo, ma anche e soprattutto perché i due
artisti sono evidentemente accomunati dal gusto baroccheggiante,
dalla ricerca della perfezione stilistica e formale, dalla meticolosa
mimesi della realtà. Lo scultore descrive sulla pietra inerte non tanto
un’immagine fissa quanto una scena in movimento, una storia che
si dispiega di fronte ai nostri occhi – i cani e la natura che circonda
la scena sembrano vivi, e Atteone è iam in cervum ferinus, il suo
destino si sta compiendo. È un atto in divenire; non una fotografia,
ma un film. Si tratta naturalmente di un procedimento comune
nelle rappresentazioni iconografiche di questo e altri miti, ma
inevitabilmente questa dimensione narrativa della scultura rende il
suo autore un buon equivalente del romanziere che gli ha dato vita.
11
12
apprezzamento estetico e superficiale.
Questo è in realtà un grosso problema negli studi apuleiani, e la critica lo
affronta in modo tutt’altro che unanime. Ho espresso il mio punto di vista in
Graverini 2007.
La corrispondenza tra scultore e narratore può essere anch’essa un tratto
ovidiano, se si pensa a quanto è facile vedere in Pigmalione, che scoplpisce
mira… arte (Met. 10.247) una donna bellissima e quasi viva, che poi
prenderà realmente vita grazie a Venere, una sorta di allegoria del poeta
Ovidio (vd. ad es. Reed 2013, p. 223). Anche nell’episodio di Pigmalione,
come in quello di Atteone, Ovidio affronta il tema del rapporto del labile
confine tra arte e vita: cfr. 10.250-253 virginis est verae facies, quam vivere
credas… ars adeo latet arte sua.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
159
A completare il quadro, in questa parte del romanzo troviamo anche
una rappresentazione chiara del lettore, e del processo interpretativo
che egli è chiamato a compiere. Come ho detto, per ammirare il
gruppo scultoreo e ricrearlo nella nostra phantasia13 noi non possiamo
fare altro che seguire lo sguardo di Lucio, che ci guida nel cogliere un
dettaglio dopo l’altro ma non offre mai una visione d’insieme, come
quella che chi entrasse in casa di Birrena sarebbe certamente in grado
di avere14. Questo da una parte risponde all’esigenza di riservare alle
righe finali dell’ekphrasis la sorprendente e significativa rivelazione
della presenza di Atteone curioso; dall’altra riproduce il modo in
cui un lettore, più che non un vero e proprio spettatore, può farsi
un’idea di un’opera descritta e non vista direttamente. Si tratta di una
descrizione, appunto, lineare, non sintetica, estremamente adatta ad
essere inverata nelle linee di un testo scritto. Se l’“egregio scultore”
è quindi un analogo dello scrittore Apuleio, Lucio in quanto “lettore”
del gruppo scultoreo è un buon analogo del lettore extradiegetico che
legge il testo del romanzo: ed è notevole come noi, lettori esterni, qui
inevitabilmente diventiamo Lucio, essendo costretti (come sempre,
ma con maggiore evidenza) a vedere – o se vogliamo a leggere – le
cose esclusivamente tramite il suo sguardo.
Leggere una descrizione è un’attività non solo immaginativa ma
anche interpretativa: ad esempio, la rivelazione finale della presenza
di Atteone è un potente incoraggiamento a riflettere sulla curiosità
e sulle sue conseguenze. Ma se l’immaginazione è una facoltà
comune più o meno a tutti, lo stesso non si può dire per la capacità
di interpretare: e Lucio, come in altre occasioni, ce lo dimostra.
Subito dopo l’ekphrasis, il suo commento a 2.5.1 mostra come il suo
13
14
Incitare il pubblico a crearsi vivide immagini mentali di ciò che viene narrato
o descritto è un compito fondamentale della retorica antica: ogni buon retore
o scrittore doveva essere in grado di conferire evidentia alle proprie parole.
L’evidentia (in greco enargeia) costituisce, anche se in maniera implicita,
il background concettuale di quasi tutto quello che andrò dicendo in questo
lavoro; tra gli studi più importanti recenti in merito vd. Zanker 1981; Walker
1993; Cassin 1997; Webb 1997; Manieri 1998; Webb 2009, spec. pp. 87-130.
Di evidentia e romanzo mi sono occupato in Graverini 2013.
Si rileva in pratica una sovrapposizione tra la pretesa di oggettività di una
descrizione, e la prospettiva soggettiva di chi descrive; su questa tecnica
narrativa (applicata al Satyricon di Petronio) vd. ad es. Auerbach 1956, vol. 1
p. 30 “il punto di vista vien portato dentro all’immagine, e questa ne guadagna
in profondità”.
160
Dopo Ovidio
apprezzamento per l’opera dell’egregius signifex sia essenzialmente
estetico e superficiale: dum haec identidem rimabundus eximie
delector… In sostanza, il lettore che voglia andare oltre il vano
apprezzamento della perfezione stilistica sia della scultura virtuale
che della virtuosa ekphrasis offerta dal racconto è lasciato a sé
stesso, e il testo sembra anzi scoraggiarlo. Questo non vuol dire che
il testo non tenti sottilmente di coinvolgere il lettore nell’attività di
osservare e interpretare, o male interpretare se vogliamo; è soltanto
che Apuleio gli rende le cose non troppo facili. Ed è qui che ancora
una volta, come vedremo, si fa sentire forte l’influenza ovidiana.
L’ekphrasis ha una struttura non semplicemente descrittiva,
ma quasi dialogica, e contiene alcuni verbi alla seconda persona
singolare: al par. 4 Lucio afferma che i cani sono scolpiti nel
marmo in modo talmente realistico che se per caso si sentisse un
latrato si potrebbe pensare (putabis) che fossero quelle fauci di
pietra ad emetterlo; al par. 8 dice che pomi e grappoli d’uva sono
talmente verosimili che si potrebbe immaginare (putes) di coglierli
e mangiarli; e al par. 9 afferma che se ci si chinasse a osservarne
il riflesso sull’acqua della fonte sembrerebbe che pomi e grappoli
oscillassero al vento, proprio come quelli veri (si fontem aspexeris,
credes…). Chi è questo “tu” a cui Lucio si rivolge? Nell’ekphrasis,
al dialogo tra Lucio e Birrena si sovrappone chiaramente, fino a
sostituirlo del tutto, il dialogo diretto tra autore e lettore15. Spesso
i traduttori rendono queste seconde persone singolari con degli
impersonali; che è naturalmente lecito, ma non rende giustizia al
“tu” chiamato in causa così spesso, al lettore che è invitato sulla
scena a contemplare assieme a Lucio questa meraviglia scultorea. In
sostanza, l’ekphrasis dell’atrio di Birrena crea metodicamente uno
spazio tridimensionale del racconto nel quale il lettore è invitato a
entrare assieme al narratore Lucio, osservandolo con gli occhi di lui
e persino interpretandolo con la sua testa.
Questa naturalmente è una tecnica retorica abbastanza comune
nella pratica ecfrastica antica. Il tema della metamorfosi di Atteone
tuttavia, e l’intertestualità che abbiamo analizzato finora, puntano
decisamente verso Ovidio, che era – come ha ben osservato Gianpiero
15
O, se vogliamo, tra Lucio come narratore retrospettivo e lettore; ma, come
sempre, non è facile distinguere tra Lucio-auctor e autore vero e proprio.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
161
Rosati – un maestro nell’uso di questi procedimenti16. Il trattamento
ovidiano della metamorfosi di Atteone in effetti è esemplare in
questo, e ci offre vari punti di vista sul processo di trasformazione. Il
primo, drammaticamente, è proprio quello di Atteone, che si stupisce
di vedersi così veloce a fuggire, e commisera la propria sorte nel
vedere il proprio riflesso sull’acqua (3.199 s. et se tam celerem cursu
miratur in ipso. / Ut vero vultus et cornua vidit in unda...). Poi i cani
“vedono” Atteone/cervo a 3.206 videre canes, e a 3.230 Atteone li
esorta a riconoscere il loro padrone (dominum cognoscite vestrum).
A 3.243 s. i compagni di caccia “cercano Atteone con gli occhi”
lamentandosi che l’amico sia troppo lento a seguirli e si perda lo
spettacolo della preda catturata dai cani (nec capere oblatae segnem
spectacula praedae). L’ultimo sguardo, con elegante composizione
ad anello, è di nuovo quello di Atteone stesso, che vellet... videre,
/ non etiam sentire canum fera facta suorum17. Il visitur con cui si
conclude il brano apuleiano può essere utilmente considerato sullo
sfondo del frequentissimo videtur (o verbi simili, sia impersonali
che alla seconda persona, in vari tempi e modi) che caratterizza le
descrizioni ovidiane, e che come ha osservato Rosati fa appello alla
percezione visiva del lettore/ascoltatore e lo trasforma in spettatore18.
Vedremo tra poco come Apuleio faccia ricorso, per stimolare la
phantasia del suo lettore, a elementi lessicali molto simili a quelli
prediletti da Ovidio; prima, però, soffermiamoci su un altro caso di
intertestualità evidente e probabilmente deliberata.
16
17
18
Vd. Rosati 1983, p. 140 e n. 88. Virgilio ne fa un uso più parco, ma cfr. ad es.
le tre apostrofi nella descrizione dello scudo di Enea: Aen. 8.676 videres, 691
credas e 649 s. illum indignanti similem similemque minanti / aspiceres.
Il fatto che il prodigio possa essere oggetto dello sguardo – di volta in volta
ammirato o esterrefatto – anche del soggetto stesso della metamorfosi (oltre
che di spettatori esterni) è un elemento chiave e ricorrente della “spettacolarità”
della poesia ovidiana: vd. Rosati 1983, pp. 143 ss. È una lezione che Apuleio
sembra aver interiorizzato: ce lo dimostra anzitutto nella descrizione della
trasformazione di Lucio, che a 3.24.6 subito dopo essersi trasformato in
asino riflette sull’unico motivo di consolazione che può vedere nel suo nuovo
aspetto (vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 376 ad loc.).
Rosati 1983, p. 139 ss. Il dettaglio del riflesso del volto semiferino di Atteone
sull’acqua è naturalmente anche un più deciso ammiccamento verso il modello
ovidiano più specifico (3.200 et cornua vidit in unda). Una rappresentazione
simile si ha anche in un mosaico africano, sul quale vd. ora Moretti c. d. s.
162
Dopo Ovidio
La phantasia del lettore di Apuleio è popolata non soltanto dei
dettagli che lui può vedere attraverso lo sguardo di Lucio, ma anche
delle suggestioni provocate dall’ekphrasis e che trasformano la
pietra in materia vivente. Anche qui siamo in presenza di una tecnica
usata magistralmente da Ovidio, che spesso invita il suo lettore a
immaginare alcuni aspetti di una scena che risultano particolarmente
inverosimili, o che per loro natura possono essere appunto soltanto
immaginati e non propriamente descritti. Un caso esemplare è l’idea
di vita e movimento suggerita dalla materia inerte, sia da Apuleio
nella descrizione del gruppo statuario di Diana e Atteone19, sia da
Ovidio in varie occasioni, tra le quali la storia del cane Lelape.
L’animale, un infallibile cane da caccia, era stato regalato da Diana
a Procri (7.754 s.), che a sua volta ne aveva fatto dono al marito
Cefalo. Quest’ultimo lo impiega per tentare di catturare una volpe
imprendibile che devasta le campagne di Tebe, dando luogo ad
un inseguimento paradossale e potenzialmente infinito: un cane
infallibile a caccia di una preda imprendibile. Un dio risolve la
situazione pietrificando i due animali che però, pur immobilizzati
nel marmo, continuano a sembrare perpetuamente in movimento. La
scena è descritta attraverso lo sguardo stupito di Cefalo: … medio
(mirum) duo marmora campo / aspicio: fugere hoc, illud captare
putares (7.790 s.). Lelape è colto in un atto destinato a ripetersi
in eterno senza mai giungere a conclusione20. La situazione è del
tutto analoga a quella dei cani di Diana in Apuleio, ritratti nella
posa di un’istante che il marmo innaturalmente protrae all’infinito:
occhi minacciosi, orecchie ritte, narici spalancate, fauci aperte
nell’illusione di un latrato che ovviamente non può venire mai, il
corpo slanciato in una corsa che sembra in atto ma rimane immobile.
Che i cani di pietra siano di Diana, sia in Ovidio che in Apuleio, può
sembrare una coincidenza fortuita, ma in realtà è un dettaglio piuttosto
notevole in ambedue gli autori. In Ovidio si tratta di una scelta fra
19
20
Vd. sopra su putabis, putes, credes; e Moretti 2019 sul “realismo illusionistico”
dell’ekphrasis apuleiana, in contrasto con Apologia 14 dove l’arte della
scultura è detta incapace di rendere il motus.
In questo la pietra non tradisce la materia vivente, dato che Lelape era
descritto allo stesso modo anche prima della trasformazione: 7.785 s. inminet
hic sequiturque parem similisque tenenti / non tenet et vanos exercet in aera
morsus.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
163
tradizioni mitografiche diverse21, mentre in Apuleio, come si è visto,
l’appartenenza dei cani a Diana è semplicemente divergente nel
contesto del mito di Atteone e prepara la sorpresa finale. È possibile
che in Apuleio il dettaglio sia influenzato dal racconto ovidiano, nel
quale troviamo un cane da caccia “di Diana” pietrificato in una posa
aggressiva e piena di movimento; e l’ipotesi acquista ulteriore peso
se prestiamo attenzione anche al putares finale, che in Ovidio invita il
lettore ad integrare la rappresentazione mentale (un cane pietrificato)
con un supplemento di immaginazione, che fa diventare viva la materia
inerte. L’operazione è infatti del tutto analoga – anche lessicalmente –
a quella che avviene nell’ekphrasis apuleiana: et sicunde de proximo
latratus ingruerit, eum putabis de faucibus lapidis exire.
È piuttosto naturale considerare putabis e putares nell’ottica di una
sottile intertestualità che connette Apuleio ad Ovidio, ma è possibile
spingersi anche oltre ed aggiungere a questa sottile intertestualità un
po’ di spessore. Nel testo ovidiano, il captare che precede putares è
congettura di Polle, ma la lezione unanime dei codici è latrare. La
congettura ha avuto larga fortuna ed è stata accolta nel testo di varie
edizioni, tra cui la recente OCT di Tarrant. L’approvazione non è
tuttavia unanime22; senza entrare ora approfonditamente nel merito
della questione, vorrei osservare che latrare putares dei codici ovidiani
costituisce un ottimo intertesto per eum (sc. latratum) putabis… exire
di Apuleio, che quindi probabilmente leggeva latrare e non captare.
Sia come sia, il verbo puto, usato ben due volte nella descrizione
apuleiana (putabis, putes), fa chiaramente parte dell’idioletto di
Ovidio quando il poeta vuole stimolare la phantasia del suo lettore
e spingerlo a immaginare la realtà e la vita dietro una descrizione.
Limitandoci ad alcuni esempi relativi alle descrizioni di metamorfosi,
si possono ricordare:
21
22
Il cane fu donato a Procri da Minosse per Ps.-Apollodoro, Bibl. 2.58, Antonino
Liberale 41.5, e Igino astronomo 2.35; il dono è invece fatto direttamente da
Artemide, come in Ovidio, secondo Pausania 9.19.1 e Igino mitografo, fab.
189.5.
I vari argomenti a supporto della lezione tradita sono ricapitolati e integrati in
Felton 2001. Cfr. anche Wheeler 1999, p. 155, per cui latrare supporta bene
lo “ecphrastic topos of verisimilitude… the idea that the statue appears so
real that one would think it were barking is clearly a variation on the earlier
petrifaction of the boasting Nileus”.
Dopo Ovidio
164
3.453 posse putes tangi. Narciso descrive la sua immagine riflessa
nell’acqua, che “potresti credere di poter toccare”. Il giovane parla alle
silvae intorno a lui, ma chiaramente alla sua voce si sovrappone quella
di Ovidio che si rivolge al suo lettore
6.104 verum taurum, freta vera putares / ipsa videbatur terras
spectare relictas. La verosimiglianza della tela di Aracne, nella parte
dove rappresenta il mito di Europa.
6.667 corpora Cecropidum pennis pendere putares: / pendebant
pennis. Qui l’immaginazione del lettore diventa immediatamente
“realtà”: Procne e Filomela sembrano uccelli, e subito lo diventano.
11.84 nodosaque bracchia veros / esse putes ramos, et non fallare
putando. Bacco punisce le donne di Tracia per l’uccisione di Orfeo, e
le trasforma in alberi: come nel caso precedente, la phantasia si invera
immediatamente.
11.114 Hesperidas donasse putes. Una metamorfosi minore, quella
di una mela in mela d’oro (“potresti credere che glie la avessero donata
le Esperidi”) in seguito al tocco di Mida.
Lo stesso si può dire per credo (cfr. 2.4.1 iam volare creduntur; 9
credes illos... nec agitationis officio carere). Ad esempio:
5.194 ora loqui credas, nec sunt ea pervia verbis. Ancora una volta,
figure di pietra che danno l’impressione di vita e di movimento: i nemici
di Perseo, impietriti alla vista della testa della Gorgone. Tra questi
Nileo, che si esibisce in un’aggressione verbale ma non riesce a finirla.
10.250 virginis est verae facies, quam vivere credas, / et, si non obstet
reverentia, velle moveri. / ars adeo latet arte sua. La donna d’avorio creata
da Pigmalione, artista sublime e buon alter ego dell’autore extradiegetico,
Ovidio – proprio come l’egregius signifex apuleiano. Anche qui l’idea
di vita e di movimento offerta da un’opera d’arte (ancora) inanimata dà
luogo a una riflessione sul rapporto tra arte e natura.
Vorrei chiudere questa breve rassegna, che potrebbe durare
ancora a lungo, con un brano veramente esemplare. Vertumno mette
a frutto la capacità di alterare il proprio aspetto con travestimenti
per avvicinare e conquistare la ritrosa Pomona. Il poeta, non meno
esibizionista del suo personaggio, si produce nella rapida descrizione
di quattro trasformazioni nello spazio di sei versi (Met. 14.645 ss.):
tempora saepe gerens faeno religata recenti
desectum poterat gramen versasse videri;
saepe manu stimulos rigida portabat, ut illum
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
165
iurares fessos modo disiunxisse iuvencos.
falce data frondator erat vitisque putator;
induerat scalas: lecturum poma putares.
A volte, recando la fronte fasciata da fieno ancor fresco,
poteva sembrare che avesse appena rivoltato l’erba falciata;
più spesso, nella mano rigida teneva un pungolo: avresti
giurato che avesse appena staccato il giogo ai giovenchi stremati;
se gli davi una falce, era uno che sfronda e che pota le viti (Chiarini).
Ogni due versi troviamo un appropriato stimolo alle capacità
immaginative del lettore, il secondo e il terzo tramite verbi alla
seconda persona. Chi legge deve crearsi un’immagine mentale
(poterat videri), crederla vera (iurares), interpretarla (putares).
La phantasia del lettore e la sua capacità di creazione e decodifica
delle immagini mentali sono costantemente chiamate in causa nella
costruzione dell’universo narrativo, in Ovidio come in Apuleio; e
in ambedue gli autori, il narratore spesso si rivolge direttamente al
lettore per cercare di coinvolgerlo più personalmente nell’universo
della finzione e fargli immaginare di trovarsi “sulla scena” assieme
a lui. Talvolta però, sia in Ovidio che in Apuleio, si verificano
situazioni paradossali nelle quali l’autore/narratore, invece di
sollecitare la collaborazione del lettore e l’adesione di lui al suo
progetto narrativo, sembra disincentivarla.
2. Storie da non credere
A 2.12.5, in un brano importante e ben noto del romanzo di
Apuleio, un profeta di nome Diofane predice a Lucio un destino di
gloria letteraria: mihi denique... multa respondit et oppido mira et satis
varia; nunc enim gloriam satis floridam, nunc historiam magnam
et incredundam fabulam et libros me futurum. Il profeta diventa
inevitabilmente una figura autoriale: il lettore accorto si rende conto che
la profezia, seppure profferita da un indovino imbroglione, è vera, dato
che sta appunto leggendo la fabula e ha in mano i libri; e capisce che
nessun altro se non il suo autore può sapere come andranno a finire le
Dopo Ovidio
166
cose23. Ci troviamo quindi nella situazione, senza dubbio paradossale,
di un autore che suggerisce al lettore di non credere a ciò che gli viene
raccontato: la fabula è infatti incredunda. Qui, come in altri casi, occorre
naturalmente leggere il testo tra le righe: se la favola è incredibile, il
lettore (al quale fin dal prologo è stato promesso un racconto pieno –
tra l’altro – di stupefacenti metamorfosi) non può che essere ancor più
invogliato a soddisfare la propria sete di mirabilia proseguendo nella
lettura e credendo a ciò che gli viene raccontato – un po’ come l’ordine
di “non aprire quella porta” finisce per essere, nelle fiabe come nei film
horror, un incitamento irresistibile proprio a compiere l’atto proibito
(naturalmente, con la piena solidarietà dell’ascoltatore/lettore). Lo
stesso irresistibile richiamo alla lettura è offerto da una storia che
rischia di non iniziare: a 2.20.6, ad esempio, Telifrone inizialmente
rifiuta di raccontare una propria avventura, irritato dalle prese in giro
degli altri invitati alla cena a casa di Birrena. Naturalmente si tratta di
espedienti narrativi nobilitati dal tempo: già nell’Odissea, ad esempio,
il racconto autobiografico di Odisseo ai Feaci rischia di terminare
anzitempo quando l’eroe si interrompe e dice che la notte è fatta per
dormire, non per raccontare. Saranno l’insistenza di Alcinoo in Omero,
e quella di Birrena in Apuleio, a salvare la situazione e a permettere al
racconto rispettivamente di giungere al termine e di iniziare, una volta
che la curiosità del lettore è stata debitamente stimolata24.
Gli esempi potrebbero moltiplicarsi, ma anche qui direi che
Apuleio sta probabilmente mettendo a frutto una lezione ovidiana.
È nel libro 10 delle Metamorfosi che troviamo, se non un propheta
come Diofane, un vates (Orfeo) che consiglia ai suoi ascoltatori di non
credere a ciò che sta per raccontare; e anche nel suo caso è difficile
pensare che alla sua voce non si sovrapponga in qualche modo quella
dell’autore extradiegetico, Ovidio. L’avvertimento di Orfeo in realtà è
ampio e complesso. Il canto che sta per iniziare riguarda la relazione
incestuosa di Cinira e Mirra, e il poeta avverte (10.300 ss.):
dira canam; procul hinc natae, procul este parentes
aut, mea si vestras mulcebunt carmina mentes,
23
24
Non può saperlo nemmeno Lucio-auctor, il narratore intradiegetico
retrospettivo: che può sapere come finirà la sua storia, ma non di essere
destinato a diventare una storia e un libro.
Sulla pretesa riluttanza del narratore come espediente per stimolare la curiosità
di chi lo ascolta vd. Sandy 1970, pp. 467 s.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
167
desit in hac mihi parte fides, nec credite factum,
vel, si credetis, facti quoque credite poenam.
La storia è tremenda. Allontanatevi o figlie,
via di qua o padri, oppure se restate, allettati dal mio canto,
esigo che non mi prestiate fede, non crediate a quel che racconto,
o altrimenti, se ci credete, credete anche alla punizione (Chiarini).
Vale la pena osservare che la poetica del romanzo apuleiano
è molto simile a quella di Orfeo, i cui canti hanno il potere di
mulcere le mentes di chi li ascolta: convincere, allettare, creare
immagini vivide nella phantasia dell’ascoltatore, portarlo anima e
corpo all’interno dell’universo narrativo… il parlante del prologo
si attribuisce esattamente lo stesso potere quando promette di
permulcere le orecchie del suo pubblico (1.1.1)25.
Il testo di Ovidio pone un problema preliminare: chi è che ascolta,
e chi è che veramente parla? Orfeo si rivolge a natae e parentes, padri
e figlie, ma in realtà sappiamo che il suo pubblico è costituito da
alberi, animali, uccelli, e perfino pietre capaci di muoversi26. Questa
discrepanza ha portato molti interpreti a ritenere che qui Orfeo
sia né più né meno che un portavoce di Ovidio27, che tenterebbe
di distanziarsi da un racconto che poteva anche risultare sgradito e
forse perfino pericoloso nel contesto delle riforme morali augustee.
Ora, questa è certamente una posizione troppo estrema: Alessandro
Barchiesi ha ben mostrato che ci sono ottimi motivi per prendere
seriamente Orfeo come “autore” del prologo alla storia di Cinira e
Mirra28. Tuttavia, appare difficile affermare che “non c’è più alcuna
ragione per credere che ‘allontanatevi o figlie, via di qui o padri’ si
debba riferire al pubblico di Ovidio” (61). Questi versi si riferiscono
più probabilmente sia agli ascoltatori di Orfeo (animali, alberi,
pietre) sia al pubblico romano di Ovidio, magari con scopi differenti.
Un pubblico di “padri e figlie” è soltanto un’ipotesi per Orfeo, il
25
26
27
28
Vd. Graverini, Nicolini 2019, p. 142, con riferimenti alla letteratura precedente.
10.143: tale nemus vates attraxerat inque ferarum / concilio medius turba
volucrumque sedebat; 11.2 saxa sequentia.
Vd. ad es. Solodow 1988, pp. 39 s.: “there is little or no separation between
him [sc. Orpheus] and our Roman author […] Ovid is peeking out through the
figure of Orpheus”.
Barchiesi 2001a, pp. 58 ss.
168
Dopo Ovidio
cui avvertimento servirà soltanto ad anticipare drammaticamente
alcune caratteristiche del racconto che sta per iniziare; per il poema
di Ovidio, invece, si tratta di una realtà inevitabile che potrebbe
conferire a questi versi un carattere ben più minaccioso, ed è bene
avvertire padri e figlie del pericolo che corrono ascoltando il racconto
e inevitabilmente identificandosi con i suoi personaggi.29
Ci sono però buoni motivi per pensare che gli scopi di Orfeo e
Ovidio siano più simili tra loro di quanto appaia in superficie,
tanto che possiamo parlare di un narratore generico alla cui
caratterizzazione ambedue contribuiscono. Se è nel fondamentale
interesse di ogni narratore sollecitare il proprio pubblico ad ascoltare
un racconto e crederlo vero (cioè, identificarsi con i suoi personaggi),
è sconcertante come invece questo narratore avverta esplicitamente
il suo pubblico che la storia di Cinira e Mirra non dovrebbe essere
né ascoltata né creduta, e probabilmente neppure raccontata. È
sconcertante, cioè, a meno che le sue parole non costituiscano una
provocazione. La storia raccapricciante di una relazione proibita, una
storia che dovrebbe esser tenuta segreta… chi mai potrebbe resistere,
non ascoltarla, non credere che essa sia realmente accaduta o stia
addirittura accadendo a lui stesso? C’è in questi versi una sottile vena
di malizia: sia Orfeo che Ovidio sanno bene che, dopo un proemio
come questo, il loro pubblico li ascolterà ancora più attentamente.
Con uno spunto che appare del tutto originale, Ovidio (e Orfeo con
lui) trasforma il topos a cui accennavo sopra, della storia che rischia
di non essere raccontata, presentandoci una storia che non dovrebbe
mai essere né ascoltata né creduta: il cantore vuole essere libero di
fare il suo mestiere, ma avverte i suoi ascoltatori che loro, invece, non
dovrebbero fare il loro30.
Sia in Ovidio che in Apuleio, quindi, abbiamo brani in cui la
voce dell’autore extradiegetico fa capolino, interagendo in modo
provocatorio con quella di un personaggio e stimolando la curiosità
29
30
Cfr. Reed 2013, p. 333: “Fondamentale per questo passo è una teoria mimetica
della poesia: che l’ascoltatore sia destinato a identificarsi con uno o un altro
dei personaggi”.
La richiesta di non ascoltare è un’innovazione probabilmente sollecitata dalla
tradizione orfica, per cui i non iniziati erano avvertiti che era loro proibito
conoscere i misteri del culto; e dalla altrettanto tradizionale riluttanza dei
poeti epici a narrare esplicitamente il nefas. Sul primo punto vd. Barchiesi
2001a, p. 59; Reed 2013, p. 234. Sul secondo, Bernstein 2004 e Bessone 2006.
L. Graverini - Ovidio e Apuleio
169
dei suoi ascoltatori tramite una paradossale esortazione a non credere
a ciò che viene raccontato. Sebbene questa esortazione a non credere
sia molto particolare e, apparentemente, senza precedenti, sarebbe
difficile sostenere che l’incredundam fabulam di Diofane debba essere
considerata un’eco deliberata del nec credite factum ovidiano. Tuttavia,
mi pare si possa suggerire che anche qui Apuleio metta in pratica una
lezione ovidiana, una lezione fatta non di parole ma di tecnica narrativa.
3. Metalessi
La critica moderna e contemporanea ha un termine ben preciso per
definire buona parte di ciò di cui ho parlato in questa comunicazione.
Con il nome di metalessi31 si indica in generale la sospensione delle
regole che fissano i confini dell’universo narrativo e lo separano da
quello reale nel quale vivono l’autore e il lettore; questa sospensione fa
sì che l’autore o il narratore possano in alcune occasioni interrompere
il racconto e rivolgersi più o meno esplicitamente al lettore, e che
quest’ultimo possa talvolta sentirsi parte dell’universo narrativo – in
sostanza, credere che la storia sia vera, che stia realmente accadendo,
e che lui stesso ne faccia parte.
Si può dire dunque che una lezione che Apuleio ha imparato
da Ovidio è appunto l’uso di sottili metalessi per stimolare il
coinvolgimento del lettore, che è continuamente esortato a vedere,
capire, immaginare, stupirsi, (non) credere: tutte azioni che facilitano
l’ingresso del lettore nell’universo narrativo e, direbbe Coleridge, la sua
“temporanea sospensione dell’incredulità”32. Come dimostra il caso
del cane Lelape, Ovidio è senz’altro una buona fonte di intertestualità
per Apuleio, ancora solo parzialmente esplorata; eppure, come Lara
Nicolini, credo che la lezione ovidiana più importante riguardi non
tanto il “cosa” raccontare e descrivere, ma il “come” farlo.
31
32
Per un approccio critico al tema della metalessi si può partire da Nauta 2013 e
2013a.
S.T. Coleridge, Biographia literaria (1817), cap. 14: “... It was agreed, that
my endeavours should be directed to persons and characters supernatural, or
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that willing suspension of disbelief for the moment, which constitutes poetic
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