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a ri Il volume è corredato da un allegato multimediale contenente norme e documenti istituzionali sui temi trattati scaricabile gratuitamente dall’area Biblioteca Multimediale del nostro sito www.francoangeli.it. Studi urbani e regionali PIANO PROGETTO PAESAGGIO Urbanistica e recupero del bene comune Massimo Angrilli Postfazione di Francesc Muñoz PIANO PROGETTO PAESAGGIO i Il degrado e la banalizzazione del paesaggio sono diventati caratteri distintivi della condizione contemporanea del Paese. Il fenomeno sta cambiando progressivamente la percezione collettiva del nostro ambiente di vita, mostrandone un volto nuovo, sfigurato da incuria e abusi, sempre più distante da quello che ancora conserviamo nel nostro immaginario. Il libro, lungi dall’essere un cahier de doléances, assegna all’urbanistica un ruolo chiave nel processo di recupero dei paesaggi degradati, da esercitare mediante piani e progetti urbanistici capaci di rielaborare l’idea di territorio, facendola evolvere dalla dimensione funzionale-quantitativa a quella morfologico-qualitativa. Il tema è affrontato in due passaggi. Il primo tende a precisare le forme del disvalore più ricorrenti attraverso l’osservazione diretta delle mutazioni che alcuni contesti nella nostra penisola e all’estero hanno subito negli ultimi decenni. Mutazioni che hanno spesso causato l’impoverimento e il degrado del paesaggio, ponendo con urgenza il tema del suo recupero. Ne emerge un quadro complesso, irriducibile ad un’unica forma di intervento, in cui le trasformazioni attivate sono l’esito, talvolta imprevisto, di modifiche normative, di innovazioni tecnologiche, o di comportamenti sociali. Il secondo passaggio, pur riconoscendo la difficoltà di individuare un approccio univoco, prova a definire, con indirizzi, criteri ed esempi che ne sostanziano i contenuti, un protocollo per il progetto urbanistico di recupero del paesaggio, dove la parola progetto è da intendersi con un’ampia latitudine di significati, cha variano al variare delle dimensioni dell’area di intervento e della complessità dei problemi e degli attori in gioco. M. ANGRILLI Massimo Angrilli è professore associato di Urbanistica all’Università G. d’Annunzio di ChietiPescara e visiting professor all’Università Autonoma di Barcellona, dove insegna presso il Master Landscape Intervention & Heritage Management. Svolge attività di ricerca e di consulenza scientifica nei campi della progettazione e pianificazione urbanistica, con particolare attenzione al tema della sostenibilità ecologica e paesaggistica. 1740.148 e 1740.148_1740.138 16/05/18 16:51 Pagina 1 FrancoAngeli La passione per le conoscenze € 32,00 (U) FrancoAngeli 1740.148_1740.138 16/05/18 16:51 Pagina 2 PIANO PROGETTO PAESAGGIO Urbanistica e recupero del bene comune Massimo Angrilli Postfazione di Francesc Muñoz FrancoAngeli Indice Introduzione pag. 9 Parte prima Mutazioni del paesaggio. Forme e fenomeni del degrado 1. Paesaggi con rovine. La Grecia dopo la crisi » 19 2. Paesaggi globalizzati. L’Oasi urbana di Al Hafayer » 32 3. Paesaggi cancellati. Ju Qu River, Zhongshan » 43 4. Paesaggi transfrontalieri duty free. Pas de la Casa e Andorra la Vella » 57 5. Paesaggi balneari adriatici » 80 6. Paesaggi balneari tirrenici » 94 7. Paesaggi rurali e collinari in evoluzione » 101 8. Paesaggi rurali e montani marginali » 110 9. Paesaggi abusati » 119 10. Paesaggi identitari » 126 11. Paesaggi simbolici » 144 12. Paesaggi rurali incontaminati » 150 13. Paesaggi della colonizzazione rurale » 158 7 14. Paesaggi di prossimità del centro antico pag. 164 15. Paesaggi lacustri tutelati » 173 16. Paesaggi moderni » 184 17. Paesaggi periferici » 192 Parte seconda Piani e progetti di recupero dei paesaggi degradati Premessa » 201 1. Processo di qualità del progetto » 203 2. Promozione della qualità del progetto. “Grand Prix National du Paysage”* » 205 3. Landscape Sensitive Design » 214 4. Contesto di riferimento del progetto » 217 5. Strategie progettuali » 220 6 Una proposta di metodo » 223 7. Criteri generali per la qualità del progetto » 227 8. Protocollo del progetto di recupero dei paesaggi degradati » 230 Postfazione a cura del Comitato Scientifico Paesaggi degradati, paesaggi take away, di Francesc Muñoz » 257 Bibliografia » 261 8 Introduzione Posso dire senz’altro che il vero fascismo è […] questo potere della civiltà dei consumi che sta distruggendo l’Italia. E questa cosa è avvenuta talmente rapidamente che, in fondo, non ce ne siamo resi conto, è avvenuto tutto in questi ultimi cinque, sei, sette, dieci anni. È stato una specie di incubo, in cui abbiamo visto l’Italia intorno a noi distruggersi e sparire. Adesso, risvegliandoci forse da questo incubo e guardandoci intorno, ci accorgiamo che non c’è più niente da fare. (Pier Paolo Pasolini, 1973) Il degrado del paesaggio italiano, cominciato già diversi anni prima che Pasolini girasse per la Rai il breve ma incisivo documentario La forma della città (1973), è proseguito incessantemente in questi ultimi quaranta anni. Ma è proprio vero che non c’è più niente da fare? Questo libro, lungi dall’essere un cahier de doléances e tantomeno un J’accuse, sostiene l’ipotesi che molto si possa, anzi si debba fare, e che occorra promuovere una nuova cultura paesaggistica all’interno della disciplina urbanistica, che sappia associare alla tutela un’efficace azione di recupero. E che questa azione di recupero debba fare l’oggetto principale di piani e progetti, capaci di rielaborare l’idea di spazio nel tentativo di superare la visione quantitativa che dal dopoguerra in poi ha dominato la pianificazione urbanistica. Per far questo occorre in primo luogo saper guardare criticamente al passato e riconoscere come l’urbanistica abbia avuto un ruolo nel processo di riduzione del paesaggio a spazio quantitativo, a merce dissociabile dai valori estetici e disponibile virtualmente a qualsiasi uso in nome della funzionalità e dello sviluppo, sacrificando così proprio l’idea di paesaggio come bene comune. L’aver sostituito la zonizzazione tipo-morfologica, che, mediante la ripartizione delle zone residenziali sulla base dei tipi edilizi garantiva il controllo della forma urbana, con la zonizzazione funzionale e quantitativa, ha dissociato le scelte di disciplina del suolo dalla qualità dei suoi esiti formali. Così come l’aver portato, con la legge Galasso, l’attenzione della pianificazione paesaggistica sull’ambiente, considerato in quegli anni «una superiore unità che includesse urbanistica, paesaggio e beni culturali» (Settis, 2012, p. 226) ha contribuito ad affermare una visione quantitativa e scientifica del paesaggio, ridotto a componente minore dell’ambiente. 9 È piuttosto noto il sospetto che le scienze ecologiche nutrono per il paesaggio, visto, secondo il filosofo Paolo D’Angelo, come «residuo passatistico, debolezza estetizzante», nella convinzione che «tutto quel che il termine paesaggio denota possa essere espresso, senza perdite significative e anzi con un acquisto in scientificità e controllabilità, dal termine ambiente» (2014, p. 152). L’ostracismo verso il termine paesaggio ha condizionato a lungo l’urbanistica, almeno fino agli anni Duemila. Chi scrive si è visto bocciare seccamente da un coordinatore di un dottorato in urbanistica una proposta di tesi che avrebbe avuto per titolo “Il paesaggio come materiale del progetto urbanistico”. All’epoca, cinque anni prima della Convenzione europea del paesaggio (Cep), per la nostra disciplina la parola paesaggio era un tabù, in seguito il termine conquistò prepotentemente la scena, forse per l’intensa esposizione mediatica del fenomeno, «nella stampa quotidiana e nelle pubblicazioni specializzate, sugli schermi e sui muri, nei prospetti e nelle coscienze» (Jacob, 2009, p. 7), o piuttosto come conseguenza della presa di coscienza dello scadimento di qualità dei nostri contesti di vita, provocato da decenni di trasformazioni dissennate. Fatto sta che da allora molte discipline (urbanistica, geografia, filosofia, ecologia, antropologia) hanno preso a occuparsi intensamente di paesaggio. Questo interessamento ha rappresentato per alcuni urbanisti l’occasione per ripensare il proprio sapere; in alcuni ambienti di ricerca, in particolare nella scuola di architettura di Harvard, ha portato all’elaborazione di una nuova disciplina, situata all’incrocio tra quelle dell’urbanistica e dell’architettura del paesaggio, il Landscape urbanism. Sorto da una critica a un certo modo di fare urbanistica, ma anche dall’insoddisfazione per l’approccio estetizzante di larga parte del mondo dell’architettura del paesaggio, il Landscape urbanism ha ibridato i modelli delle due pratiche professionali in modo fertile e stimolante, contagiando molti studiosi in tutto il mondo. In Europa il processo di riabilitazione del paesaggio ha ricevuto un forte impulso dall’Unione Europea, che con la Cep ha riaffermato il ruolo del paesaggio quale capitale territoriale non trasferibile, come bene comune fondamentale per lo sviluppo economico e per il miglioramento della vita, e ha inteso restituirgli la centralità che merita in tutte le «politiche di pianificazione del territorio, urbanistiche e in quelle a carattere culturale, ambientale, agricolo, sociale ed economico, nonché nelle altre politiche che possono avere un’incidenza diretta o indiretta sul paesaggio» (Cep, art. 5 comma d). L’idea che al paesaggio sia possibile riconoscere lo statuto di bene comune, implicita nella Cep, e affermata da diversi studiosi italiani (Settis, 2012; Magnaghi, 2012), esplicita quanto, in fondo, già affermato dalla Costituzione 10 italiana, che all’art. 9 recita: «La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura e la ricerca scientifica e tecnica. Tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della nazione». Applicare al paesaggio lo statuto di bene comune richiede tuttavia qualche cautela, il paesaggio è infatti un bene a titolarità diffusa, ne possono cioè far parte, oltre a beni pubblici, anche beni privati, talvolta in misura preponderante – si pensi per esempio a un paesaggio rurale composto in larga parte di terreni coltivati di proprietà privata – a un bene siffatto sarebbe poco opportuno applicare la disciplina riservata ai beni comuni. Un chiarimento parziale della questione sarebbe potuto giungere dal disegno di legge delega elaborato dalla commissione presieduta da Stefano Rodotà, il cui iter si è interrotto prima della discussione in Parlamento. Il Ddl proponeva di considerare le zone paesaggistiche tutelate tra quei beni comuni «che non rientrano stricto sensu nella specie dei beni pubblici, poiché sono a titolarità diffusa, potendo appartenere non solo a persone pubbliche, ma anche a privati. Ne fanno parte, essenzialmente, le risorse naturali, come i fiumi, i torrenti, i laghi e le altre acque; l’aria; i parchi, le foreste e le zone boschive; le zone montane di alta quota, i ghiacciai e le nevi perenni; i tratti di costa dichiarati riserva ambientale; la fauna selvatica e la flora tutelata; le altre zone paesaggistiche tutelate». Spesso però il paesaggio è riconosciuto come bene comune solo quando ci si accorge della sua perdita, per un evento che lo danneggia in modo irreparabile (avente cause naturali o antropiche): «L’attacco e la distruzione dei beni e dei luoghi comuni provocano la consapevolezza della loro esistenza, troppo spesso data per scontata e mai apprezzata finché essi non vengono distrutti» (Mattei, 2011, p. 24). Emerge, in questo caso, la possibilità di attribuire al paesaggio il “valore di esistenza”, che prescinde da ogni suo possibile utilizzo, attuale e futuro. Tale valore, che viene misurato in economia dalla disponibilità a pagare per l’esistenza o la salvaguardia di un bene, può essere spiegato chiamando in causa, oltre a considerazioni di ordine etico e morale, il cosiddetto “valore di lascito”, consistente nella volontà di preservare il bene a beneficio delle generazioni future (Pareglio, 2007). L’interesse per la conservazione e la riqualificazione del paesaggio può essere letto come un’altra faccia del disagio che la nostra società prova per la profonda trasformazione che il territorio ha subito in decenni di espansione e dispersione, o, per dirla con Muñoz (2008) di “urbanalizzazione”. Il degrado e la banalizzazione del paesaggio sono diventati caratteri distintivi della condizione contemporanea del Paese. Il fenomeno sta cambiando progressivamente la percezione collettiva del nostro paesaggio, mostrandone il volto 11 nuovo, sfigurato da incuria e abusi, sempre più distante da quello che ancora permane nel nostro immaginario. Secondo l’indagine Istat Aspetti della vita quotidiana, il deterioramento del paesaggio è fra i cinque principali “problemi ambientali” del Paese, un fattore che causerebbe preoccupazione per una sempre crescente percentuale di cittadini, allarmati dall’eccessiva costruzione di edifici (Istat, 2015). La minaccia di distruzione del paesaggio è avvertita come una minaccia per la nostra identità, d’altra parte il concetto stesso di paesaggio è permeato dei concetti di memoria collettiva e identità culturale, e il ruolo del paesaggio come archivio storico della società e della sua identità è ampiamente riconosciuto, generando, soprattutto in Italia, un’ampia produzione legislativa in materia di protezione dei beni paesaggistici. Meno presente è invece la cultura del recupero del paesaggio, soprattutto qualora lo si intenda come esito di un piano o di un progetto urbanistico, non è un caso che si parli più spesso di restauro del paesaggio, inteso come estensione della pratica del restauro architettonico a porzioni di territorio con valore storico e testimoniale. Il progetto urbanistico è considerato, per molta parte della società civile, antinomico al paesaggio, essendo prevalentemente associato a pratiche di urbanizzazione e di cancellazione di segni e testimonianze. D’altra parte, è innegabile che il rapporto del piano/progetto urbanistico con le tracce che sostanziano il ruolo del paesaggio come deposito delle memorie di un luogo e della società che lo ha abitato è un rapporto quasi sempre prevaricatorio. Il più delle volte il piano/progetto tende a forzare le preesistenze, spezzando le catene relazionali che le legano al presente, rendendole di fatto mute e incapaci di contribuire alla narrazione dei luoghi e della storia dei suoi abitanti, evidenziando spesso un atteggiamento narcisistico da parte del progettista, che per affermare le proprie scelte ostenta disinteresse verso il passato. Altre volte, all’opposto, il progetto si ritrae su posizioni di subordinazione rispetto alle tracce della storia, negando la possibilità che il paesaggio continui a rappresentare il presente, oltre che il passato. L’attitudine del piano e del progetto urbanistico verso il paesaggio dovrebbe consentire di introiettare tracce e significati del passato all’interno delle proprie scelte, modificando consapevolmente i luoghi secondo un approccio che privilegi la costruzione di reti di relazioni tra i nuovi manufatti e le tracce depositate nell’esistente, rifiutando impostazioni aprioristiche e autoreferenziali o, al suo opposto, di subordinazione alla storia e al suo linguaggio. Al centro di questo sforzo occorre collocare il rapporto tra progetto e tempo, tra progetto, cioè, e dinamica evolutiva legata al trascorrere del 12 tempo, piuttosto che come rilettura al presente del tempo passato. Nella pianificazione e nel progetto di paesaggio la dimensione temporale è una delle dimensioni più significative, di cui occorre saper tenere conto almeno quanto di quella spaziale. Il paesaggio è, infatti, un’entità dinamica, costituita in larga parte da processi in continuo divenire, oltre che da sistemi organici e quindi soggetti allo scorrere del tempo. Ciò richiede al progetto di proiettare al futuro le trasformazioni previste e di farsi carico dell’evoluzione di un luogo a seguito delle trasformazioni impresse, ben sapendo che il paesaggio costituisce l’esito dinamico ed evolutivo di un complesso rapporto tra le azioni dell’uomo, le risorse primarie, i processi di uso dei luoghi e i comportamenti dei suoi abitanti. Ciò implica che gli effetti prodotti da un progetto non siano soltanto quelli direttamente provocati dalle trasformazioni in un determinato luogo e in un dato momento, ma anche (e talvolta soprattutto) quelli che da essi sono innescati e che possono dispiegare i propri effetti nel medio e lungo periodo, secondo un processo relazionale di causa-effetto mediato dalle complesse relazioni di funzionamento del paesaggio (come si osserva chiaramente in alcuni dei casi sottoposti all’osservazione diacronica in questo volume). Occorre quindi saper valutare con attenzione gli effetti sul funzionamento del paesaggio delle trasformazioni previste, non limitandosi a considerare le trasformazioni dirette e rivolte separatamente ai suoi diversi fattori costitutivi, ma estendendo l’interesse anche al sistema delle relazioni reciproche, che pongono in connessione le azioni dell’uomo e le risorse primarie. Il progetto di recupero del paesaggio, più che in ogni altra forma di progettazione, dovrebbe dunque esprimere la propria posizione rispetto al tempo, sia nelle sue proiezioni al passato che al futuro, attraverso il confronto continuo con il contesto, cercando di entrare in risonanza con il luogo e con le sue multiple stratificazioni e inscrivendo le nuove opere nella sequenza narrativa del tempo, senza per questo rinunciare all’innovazione. Un compito difficile, che pone molte domande al progettista, il quale deve interpretare consapevolmente, contesto per contesto, il proprio ruolo di agente della trasformazione, in un difficile equilibrio tra continuità e innovazione, tra passato e futuro. I piani paesaggistici di nuova generazione sono chiamati non solo a tutelare quanto resta del paesaggio tra i più apprezzati del pianeta, ma anche a rimediare ai danni già fatti. La tesi che in questo volume si intende sostenere è che un ruolo importante della riqualificazione paesaggistica possa essere giocato dai progetti di recupero dei paesaggi compromessi e degradati, previsti dal Codice dei beni culturali e del paesaggio (d.lgs. 42/2004). 13 La questione del piano/progetto di recupero del degrado del paesaggio, scarsamente presente nel dibattito disciplinare, coinvolge oltre le dimensioni dell’identità e del tempo, anche la dimensione patrimoniale. Nel suo estendere l’attenzione del pianificatore a tutto il territorio, il Codice opera un processo di patrimonializzazione territoriale, facendo evolvere il piano stesso dalla sola funzione di salvaguardia dei paesaggi eccezionali alla funzione di riqualificazione dei paesaggi degradati, sebbene, come si vedrà più avanti, ancora poco praticata in Italia. Recupere paesaggi evoca oggi la tensione a “riparare il mondo” (Langer, 2005) come diversa maniera di interpretare lo sviluppo e creare nuova economia. È ormai tramontata l’epoca in cui il modello di sviluppo dissipativo, fondato essenzialmente su processi speculativi e sullo sfruttamento della rendita urbana, consentiva all’economia di crescere, lasciando in eredità un territorio sempre meno salubre e attrattivo. Riparare paesaggi, riqualificare città, consolidare le migliori produzioni agricole, sostenere le imprese sane e quelle più innovative, sono alcune delle opzioni possibili per dare inizio a una diversa stagione della crescita (Russo, 2014) e per promuovere una nuova idea di Paese, più attento ai paesaggi e alla cultura, alle economie ben radicate nel territorio, un Paese che favorisca i processi di innovazione e internazionalizzazione delle imprese e la riqualificazione dell’ambiente urbano (Lanzani, Pasqui, 2011). Il libro affronta questi temi in due passaggi, il primo tende a precisare le forme del disvalore paesaggistico più ricorrenti, attraverso l’osservazione diretta delle mutazioni che alcuni contesti paesaggistici nella nostra penisola e all’estero hanno subito negli ultimi decenni. Mutazioni che hanno spesso causato l’impoverimento e il degrado del paesaggio, ponendo il tema del suo recupero attraverso l’esercizio di forme diversificate di intervento. Per alcuni di questi paesaggi è stata svolta una riflessione critica sulla base della comparazione tra foto aeree a diverse epoche, e sulla scorta di una vasta letteratura e documenti d’archivio, prospettando talvolta scenari per il recupero paesaggistico. Per altri si è focalizzata l’attenzione su specifici fenomeni, quali l’abusivismo o il turismo di massa, responsabili di gravi offese ai valori e all’identità territoriali. Ne emerge un quadro multiforme, dal quale si stagliano alcune figure ricorrenti del degrado paesaggistico, tra cui alcune molto note accanto ad altre più inedite. La loro comparsa, messa in rapporto con i processi socioeconomici che li hanno determinati, è spesso rappresentativa di determinati momenti storici, veri e propri punti di svolta nella storia di territori che abbandonato un modello produttivo ne avviano un altro. Altre volte le trasformazioni del paesaggio riflettono cambiamenti apparentemente irrilevanti, 14 come per esempio un’innovazione tecnologica nel settore agricolo, o una norma di poco conto in una legge regionale, capaci però di generare effetti moltiplicatori del degrado. In tutti i casi alla descrizione dei fenomeni del degrado si accompagnano indicazioni per il loro recupero, talvolta solo accennate sotto forma di obiettivi di qualità, talvolta formalizzate in figure di progetto. Il secondo passaggio prova a definire, con indirizzi e criteri che ne sostanziano i contenuti, un approccio al progetto urbanistico di recupero del paesaggio, dove la parola progetto è da intendersi con un’ampia latitudine di significati, cha variano al variare delle dimensioni del contesto di intervento e della complessità dei problemi e degli attori in gioco. Un progetto, come si vedrà, che spazia da quello puntuale d’opera a quello delegato e differito incarnato dal contratto di paesaggio. Un progetto che sappia tenere conto della dimensione collettiva del paesaggio, in altre parole del suo essere bene comune atipico, mettendo a fuoco quanto di un paesaggio costituisce il fattore di maggior coesione per i soggetti che con esso si identificano, elaborando la propria appartenenza e identità. Ed è pertanto un progetto che deve saper mobilitare consapevolmente i molteplici soggetti che a vario titolo agiscono nel paesaggio (Clementi, 2016), in cui l’elaborazione di visioni strategiche ricopre un ruolo rilevante, finalizzato a far coagulare impegni e responsabilità di ciascuno nel raggiungere gli obiettivi di recupero del bene comune, un recupero che si ritiene propedeutico al rilancio delle economie territoriali, di cui il paesaggio può essere fattore strategico. Come si vedrà la forma che si attribuisce in questa proposta al progetto di recupero del paesaggio è soprattutto (anche se non solo) quella di uno strumento volontario, che prevede la stipula di accordi per la gestione pattizia del bene comune, intendendo far leva sulla disponibilità ad assumere impegni verso il miglioramento del paesaggio e sul nuovo senso di responsabilità nei confronti del nostro ambiente di vita e di lavoro. È un’ipotesi che vuole affiancare all’attuale modello di gestione del paesaggio, che privilegia l’azione dall’alto, tipica del modello della tutela esercitata attraverso il vincolo, il modello opposto e complementare, che fa appello al senso di responsabilità di ciascuno, quello della governance partecipativa. Ma è soprattutto un’ipotesi che affida al progetto il compito di farsi promotore di un’idea condivisa di futuro, capace di far convergere le molteplici azioni che dinamicamente costruiscono l’opera collettiva che chiamiamo paesaggio, chiedendo a ciascuno, nel compiere le proprie azioni, di interpretare il proprio ruolo. 15 I capitoli che compongono questo libro sono la riscrittura di saggi, articoli, relazioni a convegni e rapporti di ricerca, originati da diverse occasioni di studio, pianificazione e progettazione sulle tematiche del paesaggio, in Italia e all’estero, svolte spesso in collaborazione con altri ricercatori. Il desiderio, a lungo coltivato, di dare compiutezza alle molte riflessioni sviluppate a ridosso delle pratiche in questi ultimi dieci anni è la ragione che mi ha convinto a portare a termine il compito. Desidero ringraziare il direttore di collana, prof. Francesco Indovina, per aver letto le bozze e per avermi offerto nuovi punti di vista da cui guardare al mio lavoro. 16