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ENDOXA/PROSPETTIVE SUL PRESENTE 5, 25, 2020 MAGGIO 2020 www.endoxai.net ISSN 2531-7202 2 3 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, MAGGIO 2020 IDIOSINCRASIE 7 RICCARDO DAL FERRO Editoriale 11 MATTEO BONICIOLLI Idiosincrasie di uno sportivo professionista 15 LUKHA B. KREMO Idiosincrasie sensuali 23 GABRIELE CROZZOLI Sofferenza della luce (i colori sono azioni) 27 PIER MARRONE Epidemie emotive 33 RICCARDO DAL FERRO L’influencer contro il wrang-wrang: il valore di ciò che detestiamo 37 GIANFRANCO CARBONE L’anagramma impossibile 43 CRISTINA RIZZI GUELFI Stato di repellenza 47 ULDERICO POMARICI Agamben e l’idiosincrasia della morte: stato di eccezione e nuda vita nell’epidemia di coronavirus 51 SILVIA D’AUTILIA Il virus e la paralisi della mente 59 FRANCO FERRANT La scienza degli idioti 65 GENNARO CARILLO “In ira e malevolenza”: idiosincrasia comica 73 SAVERIO FATTORI Il virus e la carpa a specchio 77 PEE GEE DANIEL Cuckold lockdown di qualche 4 85 JURI CAMBARAU Pandemia, distopia, idiosincrasia 89 DAVIDE ASSAEL L’idiosincrasia dell’Occidente 97 GIANPIERO COLETTA I discorsi d’odio e le strategie adottate nel nostro paese per contrastarli 101 PAOLO CASCAVILLA Questa non è una guerra 107 MICHELANGELO DE BONIS Ma quale idiosincrasia: chissà come si divertivano 111 PIER GIUSEPPE PUGGIONI Relazioni repulsive: legge, natura e musica in un’opera buffa di Rousseau 117 ANDREA RACITI Tanto peggio per i fatti: l’idiosincrasia del positivismo giuridico 127 MATTIA ZANCANARO Ortega y Gasset e le masse: un’intolleranza lungimirante 131 GIULIANA VENDOLA Emergenza e filosofia dell’estraneo: cosa può insegnarci Bernhard Wandelfels 137 MASSIMO FILIPPI Una particolare mescolanza 143 INFORMAZIONI RIVISTA SULLA 5 6 IDIOSINCRASIE 7 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 7-9 IDIOSINCRASIE - EDITORIALE RICCARDO DAL FERRO La repulsione, il rifiuto e il rigetto sono forze talmente potenti da stare al di fuori del nostro controllo. In effetti, sono quasi tutti termini che si riferiscono ad un respingimento istintivo, organico: si rigetta un organo trapiantato, si prova repulsione per un agente alieno, patogeno, si rifiuta ciò che è incompatibile non solo intellettualmente, ma anche e soprattutto fisiologicamente. Per questo “idiosincrasia” è una parola tanto potente, presa a prestito dal greco antico e riportata in auge durante il Rinascimento, soprattutto nel gergo medico. L’idiosincrasia è l’atto di rifiuto più basilare, fondamentale e inestirpabile, e designa ciò che raggiunge un grado quasi ontologico di incompatibilità. Ogni individuo, ogni cultura, ogni società, persino ogni elemento chimico possiede le sue idiosincrasie, ed è soprattutto attraverso di esse che quell’individuo, quella cultura, quell’elemento chimico può essere definito nella sua identità: 8 RICCARDO DAL FERRO cos’altro è l’identità se non la serie di elementi diversi da noi che rigettiamo senza possibilità di appello? Idiosincratica è la parola che ci fa ribrezzo e che desideriamo espellere dal nostro vocabolario, la parola che determina lo spirito linguistico di un popolo soprattutto attraverso ciò che quel popolo rifiuta di dire. Idiosincratica è l’idea politica che una comunità desidera espungere dal proprio territorio e discorso collettivo perché ripugna l’idea che essa stessa ha auto-prodotto e che perciò determina quello che è. Idiosincratico è l’individuo che non faremmo mai entrare in casa nostra e che proprio per questo definisce più di qualsiasi altra cosa la qualità del focolare domestico che vogliamo proteggere. L’idiosincrasia è il confine entro il quale ci sentiamo di poterci definire “umani” per quanto un’epoca possa permetterci, oltre il quale desideriamo lanciare tutti gli elementi che non fanno parte dell’immagine auto-prodotta di noi stessi, sia come individui che come comunità. Perciò noi di Endoxa abbiamo voluto proporre le riflessioni sul concetto di “Idiosincrasia” da un punto di vista filosofico e non solo. E se qualcuno, leggendo queste pagine, proverà una repulsione atavica e innominabile, probabilmente saremo noi ad aver delineato quel confine e quel limite così fecondo per il pensiero. Ma non odiateci troppo, anche noi abbiamo le nostre idiosincrasie. Foto di Kaboompics .com da Pexels 9 Idiosincrasie - editoriale 10 11 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 11-14 IDIOSINCRASIE DI UNO SPORTIVO PROFESSIONISTA MATTEO BONICIOLLI Sono un privilegiato. Dal 1988, una vita, il mio lavoro è la mia passione. Insegnamento e pallacanestro sono le due cose che ho amato di più e l'essere diventato un allenatore professionista di questo sport mi ha concesso di coniugare questi due elementi facendoli diventare il mio mestiere. In più, complice qualche successo, il lavoro mi ha consentito non soltanto di viaggiare molto, ma addirittura di vivere continuativamente, per periodi più o meno lunghi, in tre continenti diversi, Europa, Asia e Nord America. Questo percorso mi ha fatto vivere personalmente ciò che l’antropologo Orin Sfarn ha definito transculturation, ossia l'adattamento di un’attività sportiva, normata da regole e gesti che dovrebbero essere sostanzialmente identici, all'ambiente all'interno dei quali si manifesta. 12 MATTEO BONICIOLLI Per cui, anche se può sembrare stranissimo, la pallacanestro insegnata e praticata nei Paesi dell'ex Unione Sovietica è radicalmente diversa da quella insegnata negli Stati Uniti o in un Paese europeo come il Belgio o la Francia. Ho utilizzato questa premessa, mi auguro non troppo lunga e noiosa, per arrivare a raccontare brevemente come questo lavoro magnifico sia venuto sviluppandosi nel nostro Paese. L'aspetto più affascinante del coaching è, senza ombra di dubbio, quello della costruzione. O meglio: della progettazione e della costruzione di un giocatore, di un Club, qualche volta addirittura di un successo, persino di una vittoria. È facilmente intuibile che l'alleato più forte per chi costruisce sia il tempo. È solo un progetto di medio o lungo periodo quello che ti consente di costruire partendo da solide fondamenta, fondamenta che ti consentiranno di rimanere in piedi in periodi di difficoltà, che inesorabilmente si avvicenderanno ai risultati positivi. Soltanto un giocatore fortemente consapevole dei suoi mezzi e delle sue capacità potrà resistere, senza scoraggiarsi, ad un periodo in cui le sue prestazioni sportive non saranno aderenti alle aspettative di tifosi, stampa, sponsor e proprietari, così come soltanto una Società solida potrà far fronte a quei momenti critici, in cui le sconfitte sono piuù frequenti delle vittorie. Purtroppo, invece di proporsi come esempio virtuoso, gran parte dello sport professionistico italiano è andato omologandosi a quella caratteristica oramai dominante nel nostro Paese, drammaticamente rappresentata dal mondo politico, che è quella della ricerca del risultato, spesso del tutto fragile, nel qui e ora. La prospettiva, se così possiamo chiamarla, del qui e ora, e mi limito a parlare di sport (anche se sono convinto che questo valga in qualsiasi ambito), porta con sé delle conseguenze molto difficilmente gestibili da chi vive in questo mondo. Se il filtro attraverso il quale il lavoro di un gruppo di persone viene valutato è il risultato di una singola partita, o, nel migliore dei casi, di un breve periodo, spesso non superiore a uno, due mesi, è evidente che le scelte e le modalità operative di un allenatore saranno orientate a privilegiare l'impiego di risorse umane immediatamente utilizzabili, senza quindi occuparsi del futuro del proprio club, della crescita di qualche giovane giocatore, le quali inevitabilmente dovranno passare attraverso prove ed errori. Se si adotta la prospettiva del risultato immediato, i soldi necessari ad allestire una squadra sportiva saranno sempre "spesi", e mai "investiti". con conseguenze negative facilmente intuibili per gli stessi risultati che si desiderano raggiungere. A questo già complicatissimo aspetto si aggiunge un altro elemento, giustamente ritenuto fondamentale nello sport professionistico, ossia la comunicazione. Rispetto ad un passato nemmeno troppo lontano, in cui a tener desta l'attenzione degli appassionati durante la settimana erano interessantissime interviste di grandi allenatori che si provocavano, si sfidavano pubblicamente, esplicitavano le 13 Idiosincrasie di uno sportivo professionista ambizioni loro e dei loro Club, siamo passati ad una comunicazione per la massima parte omologata, che ha il sapore di un prodotto artefatto, in cui vengono ripetuti all'infinito concetti banalissimi, non impegnativi e deresponsabilizzanti per l'allenatore, più volti a scaricare sugli altri "l'obbligo" di vincere, piuttosto che a trasmettere un sano desiderio di arrivare al successo. A questo proposito mi piace ricordare quanto scritto qualche anno fa da un vero intellettuale dello sport italiano, Gianluca Vialli, attaccante della Sampdoria Campione d'Italia e della Nazionale, a riguardo alla sua esperienza inglese come giocatore e successivamente allenatore del Chelsea. Vialli, mettendo a confronto le sue esperienze di sportivo di alto livello in Italia e in Inghilterra, scrisse che “in Inghilterra vincere è una gioia, in Italia vincere è un sollievo”. Questo concetto, che mi colpì moltissimo e che, per certi versi, l’ho sempre reputato l'epitaffio più adatto da imprimere sulla pietra tombale del nostro sport in Italia, mi porta a concludere questo mio intervento accennando ad un ultimo aspetto, importantissimo, dello sport professionistico, che da sempre comporta degli aspetti molto complessi. Mi riferisco al ruolo del pubblico, cioè del principale fruitore dello spettacolo sportivo. Negli Stati Uniti, la patria della pallacanestro, come del baseball e del football, le stagioni sportive delle singole discipline vengono proposte al pubblico in maniera tale da non accavallarsi nella programmazione televisiva, se non per brevissimi periodi. Le persone arrivano all'impianto sportivo spesso con addosso i colori della squadra del cuore, si siedono in magnifici impianti e, seduti fianco a fianco con gli altri tifosi della squadra avversaria, a loro volta vestiti con i colori sociali, tifano per la loro squadra. Il tifo è molto coinvolgente, soprattutto nello sport universitario, che è vissuto con grande partecipazione. Al termine della partita gli spettatori si alzano e se ne vanno. Nel nostro Paese è invece accaduto spesso che le Questure proibissero l'arrivo di tifosi ospiti, oppure che questi venissero relegati e rinchiusi in spazi appositamente dedicati all'interno degli impianti sportivi, per evitare che le opposte fazioni venissero a contatto. Quando ciò è accaduto, spesso ci siamo ritrovati a fare la conta dei feriti, dei contusi, se non addirittura dei morti. È palese che giocare in un clima del genere, perché di gioco si tratta, rappresenta una contraddizione sin troppo stridente, anche qui con conseguenze evidenti sulla qualità del gioco proposto a pubblico e televisioni. Sotto questo aspetto il ruolo negativo dei social media è stato cruciale, perché hanno esacerbato frustrazioni e ostilità che non avrebbero ragione di esistere se lo sport, anche quello professionistico, recuperasse in Italia, la sua dimensione di progetto e di costruzione, che io penso abbia anche un fondamentale spessore 14 MATTEO BONICIOLLI educativo. Mi chiedo anche come, in un paese sin troppo pieno di leggi come il nostro, non ci si sia ancora decisi ad obbligare i frequentatori della rete a firmare i propri commenti con nome e cognome, anziché con improponibili nickname. Progetto, costruzione, comunicazione, rapporto con il pubblico sono, nella mia esperienza, aspetti che possono e devono andare insieme. Le alternative, per quello che ho potuto sperimentare, non sono altro che devastanti e non solo per la pratica sportiva. Foto di David Mark 15 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 15-21 IDIOSINCRASIE SENSUALI LUKHA B. KREMO Norma ha voglia di cioccolata. Sì, quella fantastica sostanza vischiosa che d’estate si spiattella sul pane e d’inverno s’ingromma sul coltello e si fa fatica a spalmare. Quella che tutti amano. La Nutella, o una delle tante imitazioni. O, perché no?, un bellissimo blocco di cioccolato fondente. Nero, consistenze, amaro. Pazzesco. Sì, perché Norma non ha mai amato la cioccolata, figuriamoci il cacao. Non ricorda bene il motivo, probabilmente da piccola l’aveva associata a qualcosa di spiacevole, insieme a molti altri alimenti. Da bambini, si sa, contano più il colore e la forma che il gusto. E qualcosa era andato per il verso sbagliato. Poi, con gli anni, aveva superato questi blocchi psicologici per quasi tutti i cibi. Tranne la cioccolata. Per quella le era rimasta un’idiosincrasia: si allontanava già sentendo l’aroma speziato e amarognolo del cacao, ma anche l’odore intenso e dolce della cioccolata. 16 LUKHA B. KREMO Ma ora basta, oggi si è svegliata così: ha voglia di cioccolata. La sua magrezza non si offenderà. Ha anche il sospetto che tutto dipenda da com’è andata la notte precedente con Furio, il suo amante. Sette ore sotto le lenzuola, sudatissime, a suon di carezze, manate, strizzate da paura, rovesciamenti di fronte con la stoffa che si avvinghiava ai corpi rendendoli dei bozzoli umani. E alla fine niente. Cioè, niente orgasmo. E questo non poteva che innervosirla, dopo sette ore di ginnastica sconclusionata. Non era la prima volta che Furio faceva cilecca. Stava diventando preoccupante. E allora, cosa le poteva fare di male una sostanza dolciastra che non aveva quasi mai assaggiato? Scorre sul cellulare. Internet gli propone una quantità di creme e barrette di ogni tipo, alla nocciola, ai pinoli, alle arachidi, agli anacardi, allo zenzero. L’incredibile cioccolato al peperoncino. E ancora, alle bacche di goji, al cardamomo, alla paprika, al… sale? Norma chiude tutto. Inutile esplorare il vaso di Pandora del web. Lei ha voglia di assaggiare la cioccolata subito. Non può aspettare che qualche corriere glielo porti sotto casa o, come succede oggi, un drone glielo lasci sul balcone. C’è una pasticceria pregiata poco lontano da casa. Una pasticceria vintage. Di quelle con i dolci infiocchettati in vetrina, il nome in corsivo anni Trenta e le praline dappertutto. Tra le arti culinarie, la pasticceria è sempre stata la parte più affezionata al kitsch. Già negli anni Cinquanta andavano di moda torte rosa, gialle e violette, anche a più piani, ma per confermarlo basterebbe un tortino con la foto sfocata del festeggiato stampata sull’ostia, o il cartone animato più in voga, o finanche un pokémon che spara un raggio dal deretano. Norma, si è capito, non è mai stata una grande amante della pasticceria in generale. Crescendo, ha sempre sospettato che la sua ritrosia nei confronti della cioccolata avesse più che altro a che fare con la consistenza e il colore. Insomma, Norma entra. La pasticceria sa di dolciastro, il bancone trasparente bombato simula l’abbondanza, mostrando le torte poggiate su splendenti piedistalli di acciaio. Queste opere di alto artigianato o, verrebbe da dire, oreficeria, sono perfette e colorate, ma danno un’idea ambivalente di sé: da una parte c’è la freschezza della panna appena munta, la leggerezza dell’impasto spugnoso, il pan di Spagna pregno di rum (o di crema catalana, alla faccia dei secessionismi postmoderni). Dall’altra appaiono anche oggetti immobili, consistenti, cementati quasi, di stucco (stuccosi e stucchevoli) come fossero lì da decenni, delle specie di fossili, allo stesso modo di come le statue di cera imitano le persone di ciccia. Un posto particolare è riservato per le torte alla frutta e quelle vegane, per chi si sente sano o per sopire un po’ il senso di colpa. Solitamente sono immerse in gelatine trasparenti colorate, glasse vitree che sembrano imbalsamare i pezzi di frutta, immobilizzati come insetti nell’ambra. A fianco ci sono i pasticcini più esosi, ciambelloni con glasse fluo, krapfen bolsi e infarinati dai cui fori s’intravede la crema pasticcera pronta a trasferirsi nello 17 Idiosincrasie sensuali stomaco. Solitamente questo posto è riservato alla pasticceria regionale, vero sprezzo a ogni regola alimentare, creme, ricotte e marmellate, cannoli da prendere a due mani, maritozzi che rigurgitano panna, babà pantagruelici che sanno di alcool etilico e ogni variante provinciale e municipale che si distingue per un ingrediente, il nome o anche una lettera soltanto, disprezzando il suo simile come la cosa più immangiabile al mondo. Infine i pasticcini di ordinanza, diplomatici, obbligatori, bignè, qualche babà ridotto, per signorine, e i soliti frutti mummificati. Infine, l’ultima parte, quella vicino alla cassa, è riservata alla pasticceria secca, biscottoni di pasta frolla, cialde sbriciolone, spesso con colori innaturali, o forse troppo naturali. La pasticciera è sempre molto carina e gentile, ma professionale; ecco, non dev’essere propriamente dolce, per non aumentare la glicemia psicologica al cliente. Norma è entrata pochissime volte, quasi sempre per accompagnare un’amica o comprare dei biscotti. E si sente imbarazzata come se fosse ancora una ragazzina. Per fortuna sa cosa vuole. Ci sarebbero quei biscotti che sembrano bocche da cui sbava la cioccolata. Baci di Dama si chiamano, nientemeno. Oppure quegli enormi grossi blocchi neri coi quadratoni stampati, che sembrano armi da impugnare contro malintenzionati. Con le varianti con nocciole o pistacchi, che dovrebbero servire per scarificare l’eventuale vittima. Epperò: lei è uscita di casa con l’idea di quel vaso ricolmo di pasta marrone, la cioccolata piemontese alla nocciola. E quel barattolone confezionato artigianalmente la conquista definitivamente. Compreso il vetro, peserà un chilo. — Sono 14 euro. Norma non sente nemmeno il prezzo. Ha già deciso. Se è cara vuol dire che è buona. Passa la carta di credito e la pasticciera sorride, mostrando l’ottimo lavoro di sbiancamento del suo dentista. — Mi dispiace. Non posso venderle questo prodotto. Norma rimane un po’ interdetta. Chiede perché con l’espressione. — Idiosincrasia di terzo tipo — legge la tizia sulla cassa. Norma fa mente locale. — Ma io non sono allergica al cacao. — Mi dispiace — dice la pasticciera riconsegnando la carta. Non ha certo voglia di mettersi a sindacare sulle allergie o le intolleranze di tutti. Sulla carta risulta così e lei non può vendergli la cioccolata. Punto. Norma valuta se comprarsi qualcos’altro. Ma è evidente, è faticosamente entrata qui per quel motivo e in qualche modo otterrà la sua cioccolata. La donna esce dalla pasticceria e comincia a pensare. Ricorda: aveva un’intolleranza al cacao. Non una vera allergia. Così era stata classificata dal Ministero della Salute. A dire la verità non sa nemmeno quali sintomi abbia, dato che non la mangia da una vita. Forse l’aveva fatto una volta, come può ricordare? 18 LUKHA B. KREMO Va al Centro Commerciale. La sfilza di venticinque casse le mette sicurezza. Non ci faranno caso, pensa. Entra, va diretta al reparto delle confetture e prende la sua pesante boccia di cioccolata. Questa volta è proprio Nutella. Industriale, ma sempre ottima, a quanto dicono. Quando Norma arriva in cassa, la scena è la stessa. Non posso venderle questo prodotto. Questa volta Norma si ferma a chiederle quale sia il motivo. — Intolleranza al cacao. Effetti registrati: amenorrea e ritenzione idrica. Norma non può che assentire abbandonando il vasetto. Ritenzione idrica? Amenorrea! Ma questa è follia. Torna a casa e fa una ricerca connettendosi al sito del Ministero. Trova la data e il luogo in cui ha assunto cioccolato. In base a quell’esperienza, le sono stati vietati l’acquisto e l’assunzione di cacao. La donna cerca di ricordare: l’indirizzo e il calendario le suggeriscono che si trovava da sua madre, durante un pranzo pasquale. Qualche parente su di giri per un limoncello di troppo le aveva messo in bocca un pezzo di uova di cioccolato. Ricorda solo il disgusto per quel pezzo di stucco marrone, probabilmente cioccolato di pessima qualità. Non ha idea di come abbiano fatto a registrare amenorrea e ritenzione idrica. Certamente, in un certo periodo della sua vita, come quasi tutte le donne, aveva sofferto di ritardi mestruali, e non esitava a pensare che avesse ancora sintomi di ritenzione idrica, ma che la presunta intolleranza al cioccolato le provocasse quegli effetti era abbastanza ridicolo. Decide di chiamare Marika. — Avrei bisogno di un favore… Marika porta il boccione di Nutella a casa di Norma. — Ecco qua — dice lei tutta orgogliosa. — Non so come hai fatto finora a vivere senza. — Grazie — dice lei. — Non mi è mai piaciuta. Ma uno strappo alla regola si può fare, no? Marika era una sua amica di vecchia data. Norma non ricorda nemmeno perché l’avesse conosciuta. Aveva idee un po’ diverse dalle sue. Norma era la perfettina che seguiva le regole e le leggi e non aveva mai fatto male a una mosca in vita sua. Marika non era certo una fuorilegge, ma era sempre stata sospettosa nei confronti di politici, banchieri e in generale tutti i potenti; era una specie di vegana con eccezioni a proprio piacimento, animalista senza contatti con animali, no-vax pourparler. Per cui non aveva mai affrontato certi discorsi con lei. — No che non si può — risponde alla fine l’amica. Lo stupore di Norma dura un istante, è chiaro che sia ironica. — Lo sai come la penso, — si affretta infatti a precisare l’amica, — ma sei tu quella che segue le regole. — Io non sono intollerante alla cioccolata. Non mi è mai piaciuta, tutto qui. E ora ho deciso di mangiarla. 19 Idiosincrasie sensuali — Vedi, Norma, non dovrei essere io a dirtelo. Ma se hai una reazione negativa al cacao potresti aver bisogno di cure, che pesano sulle spese del Paese. Per cui non puoi. — Ok, ma questa è una decisione che spetta a me. — Non più, da quando hai consegnato ogni tuo minimo dato alle autorità pubbliche. “Io non ho niente da nascondere” dicevi. Ricordi? Certo che lo ricorda, Norma. Aveva fatto una specie di manifesto per il fatto di essere onesta e trasparente. Gli altri avevano qualcosa da nascondere, non lei. Ma Marika è inesorabile: — Eppure tutti noi abbiamo qualcosa da nascondere. Ma non perché siamo dei delinquenti. Ma perché esiste una sfera privata e una addirittura intima, che quella pubblica non possono violare. — Mi hai già fatto questi discorsi. — Ma forse mi prendevi per una complottista... Ora Norma dà un nuovo significato alle parole dell’amica. L’orgoglio di mostrarsi sempre pulita e trasparente si scontra con l’evidenza dell’ingiustizia che sta subendo. E ora si trovava nella situazione di riconoscere che qualcosa non doveva essere così trasparente, in quanto appartenente alla propria privacy. — Lo Stato sa quante volte mangi, quante volte fai la pipì in un giorno e quanta cacca fai. Sa quante volte scopi — insiste Marika. — Tutto criptato, cioè scollegato dal tuo nome. Ma lo sa. E se qualcuno decritta, ha in mano la tua vita. Norma riconosce che il discorso dell’amica ha un senso, ma lei vorrebbe rimanere fedele alla sua idea di donna genuina e trasparente. — Grazie, Marika. Ti farò sapere se mi piace — taglia corto. — E se veramente mi sono persa qualcosa nella vita. Lei sghignazza. — Di niente, se ne vorrai ancora chiamami. Norma rimane da sola osservando il vasetto. — E ora a noi due. Il cucchiaio da tè è il migliore: ha la lunghezza sufficiente per affondare nella crema e la capacità giusta per estrarre un bolo sferico e turgido, all’apparenza procace. Una specie di topolino marrone con la coda che si allunga verso il basso. Norma apre la bocca vogliosa e vi penetra la palla di crema. Le sue papille registrano la pasta zuccherina dalla consistenza molle e piacevole. Subito dopo sente il retrogusto amaro del cacao e quello legnoso della nocciola. È quello il sentore che gli crea l’idiosincrasia. Le mandibole le si bloccano. Sente i ricordi delle urla della madre. Vede il vasetto a terra, il vetro rotto da cui fuoriesce la crema, spaparacchiata sul pavimento come la macchia di un delitto. E poi il tonfo dello schiaffo sulla guancia. Il dolore, le lacrime, il momento dolce e idilliaco che si trasforma nella tragedia di lei bambina. Fine. Norma apre gli occhi come se si fosse risvegliata. Ha ancora quella materia semisolida marrone in bocca. Sente ancora lo schiaffo, il dolore. Ma si concentra sul gusto. Il dolce, l’amarognolo. E ingurgita la melassa. 20 LUKHA B. KREMO Infine espira, come se avesse concluso una delle fatiche maggiori della propria vita. Nessun’altra reazione. Per l’amenorrea e la ritenzione idrica devo aspettare. Norma ride. — Buona — dice alla fine. Osserva il cucchiaino infossato nella cioccolata. E le viene voglia di fare un secondo boccone. Lo fa, ma poi chiude. Meglio non esagerare. La donna è soddisfatta. Era certa che la sua non fosse un’intolleranza ma un’idiosincrasia infantile che si era trascinata troppo nel tempo. Ricorda vagamente quel momento, come un flash, in cui il vasetto cadde dal tavolo e si ruppe in mille pezzi. E lo schiaffo della madre. E le urla. E la cioccolata a terra come uno spruzzo di diarrea. Norma decide di uscire. Vuole festeggiare l’evento con una passeggiata. Dopo un centinaio di metri, un agente la ferma. — Lei è in contravvenzione. Norma apre la bocca. Non riesce nemmeno a esprimere il suo stupore per quello che è evidentemente un errore. — In base ai suoi spostamenti e a quelli di Marika Caproni, sappiamo che lei ha mangiato un alimento a lei vietato. E ne possiede una quantità a lei pericolosa. Sono quattrocento euro per l’assunzione e altre quattrocento se non mi consegna il vasetto integro entro dieci minuti. — Ma... ma io non sono allergica! E nemmeno intollerante al cacao, infatti adesso... mi guardi! — dice lei allargando le braccia come a mostrarsi sana in viso. Lui non l’ascolta nemmeno e compila qualcosa sul cellulare. — Per firmare tocchi lo schermo, grazie. Norma insiste. — Mi ha sentito? Io non sono intollerante al cacao! — grida. L’agente la guarda con gli occhi di fuoco. — Prima di tutto, non urli. Il cellulare ha registrato i decibel e ora dovrò aggiungerle cinquanta euro per mancanza di rispetto a Pubblico Ufficiale. A Norma verrebbe da gridargli dietro ancora, e tirargli uno schiaffo. A lui e a tutti gli uomini. Compreso Furio, che parla in pubblico di sesso e poi non combina niente. Ma la donna sa controllarsi. Soprattutto con i tutori dell’Ordine. È la sua caratteristica. — È un errore — dice semplicemente, mentre tocca lo schermo dell’agente — Se vuole può rivedere la sua posizione prenotando una visita al Ministero a sue spese per abilitarla all’assunzione delle intolleranze. Per ora è tutto, se vuole evitare le seconda contravvenzione consegni il vasetto alla più vicina stazione di Polizia entro dieci minuti. Il vigile se ne va e Norma rimane immobile, sul marciapiede, a guardare la gente che passa col capo chino sul cellulare. Le è passata la voglia di passeggiare e le è tornata quella d’ingurgitare Nutella. 21 Idiosincrasie sensuali Torna a casa. Prende il vasetto e affonda il cucchiaino nella pasta come la spada in una roccia. Ha deciso che pagherà anche l’altra multa. Ottocentocinquanta euro per uno sfizio! Norma si sente ingannata. Si rende conto di essere stata ingenua, si aspettava una ricompensa ed è arrivata la punizione. Ma non può credere di essere davanti a un castello di carte. È stato solo un errore, cerca di convincersi. Mentre le sue fauci sono impastate di cioccolata, qualcuno suona al citofono. È Furio. — Sali — dice con un ghigno Norma. Norma ha più di un sassolino nella scarpa. Gli deve spiegare cos’è successo e vediamo se capisce la causa di tutto ciò. Furio sale, la saluta con un mugugno. Non sembra abbia nemmeno voglia di parlare. Lei si mostra con la bocca sporca di cioccolata e il vasetto al centro del tavolo con il cucchiaio ficcato dentro. — Allora? Non dici nulla? Lui scuote la testa. — Ma non vedi? Sto mangiando Nutella! Una confezione intera! Lui annuisce, come fosse la cosa più normale del mondo. Allora Norma comincia a intuire che forse c’è qualcosa di più grave. — Mi hanno interdetto — dice chinando la testa, come se avesse perso ogni energia. Norma fa la faccia di chi non capisce. — In che senso interdetto? — Interdetto, interdetto! — grida lui quasi isterico. — Non posso più fare sesso. Sono classificato intollerante al sesso. — Ma... — Sì, grazie ai tuoi “non ho niente da nascondere” ora non possiamo più fare nulla, nemmeno provarci! Norma ha ancora un piccolo bolo di cioccolata in bocca. E lo sputa a terra. La forma della macchia sul pavimento le fa davvero schifo. Come quella volta da bambina. Osserva Furio. Vorrebbe gridargli che è un mezzo uomo, un inutile essere impotente. Ma non ne sarebbe capace. E non sarebbe giusto. La donna invita Furio a sedersi, gli avvicina il boccione di cioccolata, estrae il cucchiaio immerso nella melassa marrone e, mentre si lecca avidamente le labbra sporche, lo infila nella bocca dell’uomo. Foto di Miguel Á. Padriñán da Pexels 22 23 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 23-26 SOFFERENZA DELLA LUCE (I COLORI SONO AZIONI) GABRIELE CROZZOLI Camminare, osservare, camminare e osservare senza smettere mai di credere che dietro l’angolo ci sarà l’emozione, perché non sono io a trovare le foto, sono loro che cercano me, io devo solo essere pronto a scattare l’otturatore. 24 GABRIELE CROZZOLI 25 Sofferenza della luce (i colori sono azioni) 26 GABRIELE CROZZOLI 27 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 24, Maggio 2020, pp. 27-31 EPIDEMIE EMOTIVE PIER MARRONE Le emozioni sono generalmente connotate in senso positivo dal senso comune. Basta farsi un giro su Facebook per vedere la quantità di like che attirano foto di gattini e esibizioni autoincensanti della propria emotività, per lo più da parte di mature signore. Per non parlare poi dell’esibizione sentimentale in ambito politico, che è l’argomento che qui mi interessa. Questa iperconsiderazione delle emozioni ha le sue ragioni. Infatti, molto prima dell’esplorazione del mondo attraverso il nostro pensiero razionale, noi ci rapportiamo a quanto sta al di fuori della nostra mente attraverso le nostre passioni, come le chiamava la filosofia moderna in Occidente, ossia attraverso quelle che noi comunemente chiamiamo emozioni. Forse non è nemmeno esatto dire che ci sia qui un prima (le emozioni) e un dopo (il pensiero razionale), perché dal punto di vista evolutivo non c’è una reale soluzione di continuità tra questi due strumenti per comprendere cosa diavolo sta accadendo là fuori. 28 PIER MARRONE Ma dal punto di vista evolutivo una ragione forse c’è per mantenere questa distinzione. Noi siamo l’unica specie apparsa sul nostro piccolo pianeta a possedere un linguaggio così riccamente articolato. Impossibile che le nostre capacità linguistiche non abbiamo retroagito sulla nostra esplorazione del mondo attraverso le emozioni. Il linguaggio non serve certamente soltanto per parlare del mondo nei termini di quelle attività che normalmente associamo a criteri di razionalità (come le discipline scientifiche e tutte le attività tecniche), ma viene articolato principalmente per intrattenere un rapporto emotivo con il mondo. Quello che viene ritenuto il padre del razionalismo moderno, Descartes poco prima di morire, pubblicò nel 1649 nei Paesi Bassi, un trattato sulle passioni, Le passioni dell’anima, che non manca di mostrare una continuità tra passioni e ragione, che credo da molti sarebbe sottoscritta. Descartes, ha un’attitudine sospettosa verso le passioni, proprio come ce l’avevano molti filosofi prima di lui. Quando scrive che la funzione della saggezza (la nostra capacità di orientarsi nel mondo attraverso la ragione) è principalmente quella di renderci capaci di dominare le passioni “con tanta bravura, che i mali che esse causano sono del tutto sopportabili, e si può perfino trarne qualche gioia”, Descartes ripete un luogo comune della riflessione filosofica, che riteneva molte passioni un pericolo dal quale guardarsi e che occorre cercare di padroneggiare, dal momento che, sfortunatamente, non possiamo farne a meno. Ma alcune sue intuizioni sono prodigiosamente attuali, come quando scrive che “quando la Speranza è così forte da scacciare interamente il Timore, essa cambia natura e si chiama Sicurezza o Certezza”. Se con “speranza” intendiamo il grado di probabilità che noi attribuiamo a un evento futuro, quanto più questa stima della probabilità è vicina ad 1, tanto maggiore sarà la nostra aspettativa che questo evento si verifichi. Poiché non puoi avere un’assoluta certezza che il sole sorgerà domani, l’unica mossa è approssimarsi probabilisticamente alla verità. Questa approssimazione è la speranza di raggiungere un alto grado di sicurezza. Nel corso della storia del pensiero sono state elaborate varie strategie per raggiungere gradi elevati di certezza, cioè di conoscenza affidabile, ossia, come si dice con espressione tecnica, di “credenza vera giustificata” (assured true belief aka ATB). Affidarsi alle “sensate esperienze e necessarie dimostrazioni”, come diceva Galilei, ad esempio, oppure affidarsi a chi ne sa più di noi, che poi sarebbero i cosiddetti esperti. Quando ci affidiamo agli esperti, inevitabilmente riconosciamo loro un determinato potere sulle nostre scelte, anche se ci peritiamo di avere una mente supercritica che non si fa influenzare da nessuno. Ma rimane il fatto che è ben difficile precisare che cosa mai giustifichi una credenza vera giustificata, se non l’appello a un determinate contenuto emotivo, per quanto edulcorato e apparentemente anestetizzato, come ad esempio la fiducia. Se non hai motivi strettamente ed esclusivamente razionali per credere che il sole sorgerà domani, figuriamoci se ne hai per dare credito, a prescindere, agli 29 Democrazia oscura e algocrazia esperti. Eppure di qualcuno ti devi pur fidare. Ognuno di noi lo fa continuamente. Saliamo sugli autobus nella convinzione che l’autista non sia un fanatico religioso che si farà saltare in aria con una cintura esplosiva. Compriamo da mangiare al supermercato convinti che le nostre marche preferite non hanno avvelenato il cibo perché gli stiamo antipatici. Sembrano essere opzioni del tutto ragionevoli ed addirittura con un elevatissimo grado di certezza, ma solo nel senso che indica Descartes. Quindi, verrebbe da dire: la razionalità è solo un’emozione frigida. Eppure io non credo sia del tutto vero, perché anche l’altra idea di Descartes, che gli derivava da una tradizione filosofica antecedente, ha una sua parte di verità. Questa non deve essere sottovalutata e potrebbe essere espressa così: le emozioni distorcono la realtà, le passioni ti fanno credere che esista qualcosa che non esiste. Questa distorsione del reale la sperimentiamo molto spesso nella nostra vita. L’osservazione di Descartes implica qualcosa di importante, ossia che noi preferiamo tutti vivere nella verità, per quanto ci è possibile. Questo ha due chiare conseguenze. (1) non vogliamo essere manipolati dall’esibizione delle emozioni di altre persone; (2) non vogliamo che le emozioni che proviamo noi stessi ci manipolino. Vogliamo che la nostra fiducia sia ben riposta, perché pensiamo che il nostro interlocutore è una persona affidabile. Non vogliamo che la nostra fiducia sia assegnata a una persona che ci pugnalerà alle spalle. Non vogliamo che la persona che amiamo ci dimostri un affetto falso. Non desideriamo provare attrazione per qualità di una persona che immaginiamo soltanto noi. Non vogliamo tutte queste cose perché è meglio vivere nella verità (salvo casi molto speciali). Tuttavia, dobbiamo anche chiederci che cosa c’è di così speciale nell’idea di vivere nella verità. Non deve esserci necessariamente e soltanto qualcosa di speciale e raro, ma anche qualcosa di molto comune, perché nessuno potrebbe mai vivere, se non avesse un larghissimo bagaglio di credenze che si dimostrano vere. Avere delle credenze vere è un ausilio indispensabile alla nostra sopravvivenza come individui e come specie. I Darwin Award sono gli ironici riconoscimenti che vengo attribuiti a chi ha tolto di mezzo il proprio genoma, ammazzandosi spesso grottescamente per la propria stupidità. Avere entro certi limiti un controllo delle proprie emozioni non ha, però, a che fare unicamente con la conoscenza, bensì anche con la sofferenza. Poiché le emozioni spesso ingannano, perché ci fanno credere che esistano eventi che nella realtà non esistono, controllarle, per quanto ne siamo capaci, è un farmaco contro la possibilità di incrociare il dolore nelle nostre vite più di quanto sia necessario. Le emozioni sono una colla che ci fa attaccare spesso in maniera del tutto non desiberabile alle situazioni. Si pensi alla rabbia o alla gelosia o alle pulsioni naricisistiche: emozioni con un forte contenuto negativo, che hanno un effetto distorcente sulla nostra esperienza della realtà. Questo è riconosciuto anche in una 30 PIER MARRONE certa misura da espressioni del linguaggio comune, che parlano di “esame spassionato” e di “ragionare a mente fredda”, così come di “teste calde” e di “ormoni impazziti” (con una bella virata dalle passioni alla neurobiologia). Le passioni, quindi, ci manipolano. Gli autori della manipolazione possiamo essere noi stessi oppure gli altri. Spesso, l’altro che ci manipola con il sapiente dosaggio delle emozioni è il potere politico. Il potere sollecita sempre, in ogni luogo, per perpetuarsi, e soprattutto in momenti critici, il sorgere di emozioni che devono avere la funzione di riunire i cittadini attorno a sé per sostenerlo. Questa è una vecchia storia, vecchia come il sorgere di aggregati politici tra gli uomini. Nella Roma antica il pianto era tanto strumento di crontrapposizione tra fazioni quanto strumento di sollecitazione diplomatica. Durante la seconda Guerra Punica, i peteliani, alleati dei romani insediati a Bruttium nell’estremità meridionale della penisola italiana, si recano nel Senato romano riempiendolo di lamenti e di pianti per sollecitare Roma al rispetto dell’alleanza, suscitando secondo Tito Livio grandissima afflizione tra il popolo e i senatori. Il 26 gennaio 1996, la prima frase che pronuncia Silvio Berlusconi per annunciare il suo ingresso ufficiale nella contesa politica, ingresso che di fatto era già avvenuto, sin da quando nella competizione per il sindaco di Roma aveva dichiarato che avrebbe votato Gianfranco Fini, allora segretario di un partito neofascista chiamato Movimento Sociale Italiano, non ha nulla a che fare con programmi politici e nemmeno è un appello diretto a sentimenti del suo uditorio, ma è l’esibizione di un sentimento personale, anche se non privato. “L’Italia è il paese che amo”, dice Berlusconi aprendo così una campagna elettorale che in pochi mesi lo porterà alla guida del Paese. In poche ore il videomessaggio di Berlusconi, che, inizialmente deriso dalla maggior parte dei partiti politici, dominerà la politica italiana per i seguenti vent’anni, è visto da più di venti milioni di italiani. In questi esempi, l’esibizione di emozioni, che sospettiamo non essere del tutto vere, sono in funzione del raggiungimento di obbiettivi politici determinati: cementare un’allenza con una potenza, candidarsi alla guida di una nazione. Nei due esempi che ho citato l’idea è che l’empatia venga suscitata come funzione positiva. Ma certamente non è questa l’unica strategia che il potere ha per utilizzare le emozioni. Esiste anche una funzione politica delle emozioni negative, prima tra tutte la paura, che può essere trasformata in empatia negativa. In situazioni percepite come altamente critiche, la paura è un potente filtro distorcente. Credo lo si veda molto bene proprio in questi giorni, quando alla diffusione epidemica in alcune nazioni di un virus precedentemente sconosciuto si è assistito anche alla diffusione epidemica di paure irrazionali alimentate da governi nazionali e locali. Infatti, ci sono nazioni che della recente epidemia di Covid-19 sono state toccate solo in maniera estremamente marginale, ma che hanno messo in atto strategie di comunicazione terrorizzanti. A fronte di poche centinaia di morti (molti di meno di quante ne generano guerriglia armata e 31 Democrazia oscura e algocrazia narcotraffico), circa la metà dei colombiani teme di morire di Coronavirus, un virus che colpisce prevalentemente persone anziane con precedenti condizioni sanitarie critiche. Quando Montaigne visita nel 1580 la città di Augusta, è impressionato dalle misure di sicurezza alle quali ogni visitatore deve sottoporsi per entrare dentro le mura cittadine: quattro porte di legno riforzate con piastre di ferro, un ponte sul fossato e un ponte levatoio prima di accedere a una stanza solitaria dove pagare un pedaggio. Il clima di insicurezza era tanto diffuso quanto fondato. Come puoi fidarti di chi non conosci? Il nostro mondo ha annullato apparentemente le distanze, lo sappiamo tutti. In maniera istantanea possiamo venire a conoscenza di quanto accade in posti molto distanti dal nostro. Questi posti possono diventare improvvisamente vicini, perché la paura crediamo ce li renda familiari. Così, non stupisce che il potere, qualsiasi potere, familiarizzi rapidamente con la paura empatica che diviene endemica e la veda come uno strumento per annullare le capacità di ragionamento che la maggior parte della gente possiede, al contrario di quanto qualche snob spesso crede. Noam Chomski, un anarchico incredibilmente ottimista sulla natura umana, come in effetti dovrebbe essere ogni libertario, sosteneva che la presenza di queste capacità critiche diffuse nella popolazione generale è provata dalla diffusa capacità di discutere di sport in modo argomentato. Non sottovaluterei questa osservazione, non solo perché proviene da un intellettuale tutt’altro che ingenuo. Ma questi non sono certo i giorni dell’ottimismo per quanto riguarda le capacità critiche, che vengono annullate dalle metafore delle guerra e da quelle del nemico invisibile, metafore che vengono utilizzate per perseguire progetti ingengnerististi per plasmare situazioni future nel lavoro, nell’istruzione, nei debiti dei quali ci caricheremo, come se noi fossimo nelle condizioni di governare la realtà. Foto di Enrique Lopez Garre 32 33 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 33-35 L’INFLUENCER CONTRO IL WRANGWRANG: IL VALORE DI CIÒ CHE DETESTIAMO RICCARDO DAL FERRO Viviamo nell’epoca degli influencer e ciò ci convince che a spingerci verso un ideale, una convinzione oppure un gesto, sia l’atto di persuasione dell’idolo verso cui nutriamo stima e ammirazione. Se il nostro sportivo preferito, il nostro youtuber prediletto o il politico di grande spessore ci dice che qualcosa è giusto, noi siamo più propensi a seguire la sua indicazione. Ne veniamo, per dirla spicciola, “influenzati”. Ma le cose sono un po’ più complicate di così. Kurt Vonnegut, nel suo capolavoro Ghiaccio-Nove ci presenta la figura del “wrang-wrang”, ovvero di colui che, suscitando in noi un’atavica e irrazionale antipatia, suo malgrado ci spinge verso il contrario di ciò che vorrebbe proporci. Il wrang-wrang che Vonnegut ci narra è un “poeta nichilista” che 34 RICCARDO DAL FERRO vorrebbe convincere il protagonista dell’assoluta verità del nichilismo: per fare questo egli ne devasta l’appartamento (gentilmente concessogli come alloggio), copre di merda le pareti, distrugge frigorifero e mobilia e lascia post-it incomprensibili sparsi per la stanza. Nonostante questo atto persuasivo volesse spingere protagonista di “Ghiaccio-Nove” verso il nichilismo e la verità del nonsense esistenziale, egli si sente al contrario spinto verso l’altra sponda e prova un rifiuto totale nei confronti del nichilismo. Vonnegut ci ricorda che gran parte delle nostre convinzioni non sono il frutto di positivi atti di persuasione portati avanti dai nostri “idòla”, bensì negative reazioni di idiosincrasia nutrite nei confronti di chi ci sta antipatico. È ciò che odiamo che spesso ci spinge dall’altra parte. Tutta l’economia comportamentale, e in particolare le opere di Richard Thaler (“Nudge - La spinta gentile”), ci ricorda che il nostro sistema di valori si forma grazie ad un complesso meccanismo di incentivi e disincentivi, spinte positive o negative che sono rappresentate dalla marea di stimoli che ci circondano in ogni istante della nostra esistenza: dalla persuasione del marketing all’educazione ricevuta a scuola, dal modo con cui i piatti vengono ordinati in un menu al sistema fiscale di una nazione, fino a giungere nei recessi più insospettabili della nostra società, come le thumbnail dei video di YouTube (ovvero le immagini di anteprima che vediamo prima di aprire il video) o l’ordine con cui ci vengono presentati gli argomenti di cronaca in un quotidiano. Non solo, l’economia comportamentale è giunta alla chiara conclusione che i sentimenti negativi, quali la paura, l’avversione, l’antipatia e il sospetto, sono estremamente più efficaci di quelli postivi, come l’amore, l’attaccamento, la fiducia e la determinazione, nel farci seguire una strada al posto di un’altra, nel farci prendere decisioni anche sostanziali sulla nostra vita. Ciò significa che, se è vera l’idea secondo cui le nostre convinzioni politiche, filosofiche, sociali ed economiche, ma anche i giochi che preferiamo, le amicizie che ci scegliamo, i film che inseriamo tra i prediletti e i libri che leggiamo, sono frutto delle “gentili spinte” di cui ci circondiamo ogni giorno, è allora vero che l’influencer ha un ruolo ridicolo in questa strana economia delle idee, mentre il wrang-wrang è estremamente potente nello spingerci verso una determinata direzione, fosse o meno il suo obiettivo. L’idiosincrasia, insomma, è molto più potente di qualsiasi idolatria, e l’odio che proviamo nei confronti di qualcuno è un’energia molto più efficace nel persuaderci dell’esatto opposto. Ciò che spesso ci sfugge è che il sentimento negativo, l’angoscia o l’odio, l’antipatia o l’ossessività, è una forza persuasiva infinitamente più potente e riesce in minor tempo e con minore difficoltà a spingerci verso ciò che poi forma la nostra personalità. Se tu sei un comunista, è molto più probabile che sia stato l’odio nei confronti di Berlusconi o di Steve Jobs a spingerti verso quell’ideale, così come se sei un liberale sarà stata l’antipatia nei confronti della barba di Marx o delle giacche di 35 L’influencer contro il wrang-wrang: il valore di ciò che detestiamo Bertinotti a farti aderire primariamente ad una certa convinzione. Dopodiché è ovvio, l’approfondimento e lo studio ti permettono di conoscere a fondo le ragioni dietro quelle idee: ciò che separa l’individuo stupido da quello intelligente è la consapevolezza di dover osservare in modo autocritico le proprie convinzioni, ricercandone sempre, quando possibile, le radici. Ma è indubitabile che la prima spinta, quella superficiale e determinante, sia arrivata più per odio che per amore. Il wrang-wrang è perciò il vero influencer poiché è l’influencer che ci sta sulle balle a spingerci verso una determinata direzione. Ed è difficile sapere se quell’atto sia stato deliberato (se il wrang-wrang abbia voluto farsi odiare per mandarci di là) o se sia stato involontario (e lui volesse davvero portarci laddove diceva). Queste sono questioni che non possiamo affrontare qui. Ma se c’è una cosa che ho imparato è che il pragmatismo mi ha inizialmente sedotto molto più per l’antipatia nei confronti di Hegel (mio wrang-wrang preferito) che non per l’amore verso Peirce. Il fatto che io abbia poi trovato delle ragioni più profonde per detestare Hegel e amare Peirce potrebbe essere frutto di un approfondimento di quell’idiosincrasia, più che di una ricerca razionale e libera dal mio wrang-wrang. Quale conclusione dare a questo ragionamento? Difficile dirlo, anche perché l’abbattimento che potremmo provare nell’osservare l’abisso della nostra economia comportamentale è dietro l’angolo. Ciò che ho imparato però è che devo stare molto più attento ai miei wrang-wrang che agli influencer di cui sembra popolato il mondo. Sono molti di più coloro nei confronti dei quali nutriamo idiosincrasia rispetto a coloro che potremmo eleggere, più o meno istintivamente, nostri idoli. E gli idoli, ci piaccia o meno, hanno molta meno influenza su di noi rispetto ai wrang-wrang. In fin dei conti, la libertà consiste non nello scegliere i giusti wrang-wrang, ma nello sperare di essere scelti da quelli sbagliati. E imparare così a riconoscerli, sapendo riflettere un po’ più lucidamente su quello che ci compone come individui. 36 37 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 37-41 L’ANAGRAMMA IMPOSSIBILE GIANFRANCO CARBONE Idiosincrasia: sostantivo, elemento del sistema linguistico che designa una persona o cosa qualsiasi (ente, concreto o astratto, singolo o collettivo) nei cui confronti si esprime una valutazione o un giudizio che è, in sé, autosufficiente ad esprimerli (a differenza dell'aggettivo che determina la qualità dei sostantivi se qualificativo o la loro situazione nell'ambiente se pronominale). La parola “idiosincrasia” ha un significato puntuale nel linguaggio corrente: essa esprime “'forte avversione per qualcosa o qualcuno', 'ripugnanza esasperata', profonda insofferenza, rifiuto assoluto, incompatibilità radicale che causa repulsione' (definizioni di Zingarelli, Devoto-Oli, Sabatini-Coletti). 38 GIANFRANCO CARBONE Nel linguaggio medico rispecchia un concetto parzialmente diverso e indica l'enfatizzazione negativa di un aspetto di contrasto fra la cura e la patologia. Per molti medici determinare l’idiosincrasia fra cura e paziente comporta l’ 'individuazione della natura della persona malata. È una scuola di pensiero antica. Lo scrisse per primo Galeno in Methodus medendi. La parola è composta da tredici lettere: (sette vocali e sei consonanti). Le lettere sono: quattro i, due a, due esse, una erre, una ci, una di, una enne, una o. In italiano non ci sono altre parole formate da queste lettere e così “idiosincrasia” non ha anagrammi possibili. Non ci sono anagrammi parziali (logogrifi : gioco enigmistico che consiste nel formare parole di varia lunghezza utilizzando solo alcune delle lettere di una parola di partenza) con 12 lettere. C’è un solo anagramma, parziale, utilizzando 11 lettere: la parola “disarcionai” (e restano in panchina le lettere i ed s . I linguisti discutono se l'aggettivo più corretto per indicare chi è "affetto da idiosincrasia" sia idiosincratico oppure idiosincrasico I puristi preferiscono la variante con la lettera s (idiosincrasico) perché sostengono che la variante con -t- sia meno rispettosa dell’etimo in quanto di derivazione inglese ( idiosyncratic), coniata sul modello di apostasia - apostatico, oppure enfasi – enfatico anche se gli aggettivi con il suffisso derivazionale “ticus” derivano, normalmente, dal tardo latino e quindi, i puristi, storcendo il naso agli anglicismi rimuovono la radice latina che, in tempo di sovranismi, non è una scelta da poco ma a questa contraddizione ci conduce l’eterogenesi dei fini come conseguenza non intenzionale di una scelta culturale intenzionale. Si vuole difendere la purezza tradizionale linguistica e ci si immerge, implicitamente, nei meandri della contaminazione ma anche questa potrebbe essere un’astuzia della ragione (così forse avrebbe pensato Hegel) in un mondo globalizzato sempre più dipendente da un lessico omogeneizzato But be careful! Coloro che si addentrano in questa sottile riflessione etimologica sui terminanti dell’aggettivo pronti a criticare o ad apprezzare la sua origine inglese non pensino di avviare una discussione con un inglese vero che ascolterebbe allibito. L’unico significato comune fra italiano e inglese è l’uso medico (ad esempio, idiosyncrasy individual hypersensitiveness as to a drug or food) mentre nell’uso corrente quello che per noi italiani è una forte avversione per qualcosa o per qualcuno per un inglese è invece “a peculiarity of constitution or temperament: an individualizing characteristic or quality” oppure “characteristic peculiarity (as of temperament); broadly: eccentricity”. Dal timore o dall’insofferenza all’originalità o al relativismo del “in linea di massima” Attenzione: siamo pieni di stranieri in patria, non se ne sente la mancanza. 39 L’anagramma impossibile Torniamo in Italia. Quante persone conoscono esattamente il significato del termine e parlando fra loro si capiscono? Luigi Pirandello che, che si laureò in Germania dove fece analisi approfondite sull’uso di termini nelle diverse lingue. nel dramma Sei personaggi in cerca d’autore evidenzia il tema dell’incomprensione, e mette in risalto l’impossibilità degli uomini di esprimersi e comunicare intendendosi in modo concreto. È doverosa una citazione del testo: “Ma se è tutto qui il male! Nelle parole! Abbiamo tutti dentro un mondo di cose; ciascuno un suo mondo di cose! E come possiamo intenderci, signore, se nelle parole ch’io dico metto il senso e il valore delle cose come sono dentro di me; mentre chi le ascolta, inevitabilmente le assume col senso e col valore che hanno per sé, del mondo com’egli l’ha dentro? Crediamo d’intenderci; non c’intendiamo mai!”. Ma qui tocchiamo un livello diverso di riflessione. Ognuno di noi alla base della struttura del pensiero categorizza diverse idee, oggetti e situazioni. Utilizziamo delle procedure mentali. Utlizziamo (consapevolmente? Non credo) l’astrazione, ricercando gli aspetti che due o più oggetti, idee, situazioni hanno in comune, e la generalizzazione con un procedimento induttivo per associare ad una varietà di elementi o di esperienze lo stesso significato. In ognuno di noi i concetti derivano dall’esperienza e parlare con qualcuno di qualche cosa è la capacità cognitiva che più ci caratterizza nella sua duplice funzione comunicativa e simbolica, che consente di descrivere oggetti o eventi attraverso simboli e concetti. La mia avversione per qualcosa o qualcuno, quindi la mia “idiosincrasia” si trasforma in concetto espresso dalle mie parole sulla base di un’esperienza personalissima nella quale sono sedimentate le mie paure o le mie antipatie o i giudizi che ho elaborato. Se li esprimo in un discorso con un’altra persona trasmetto inevitabilmente il significante, il tono acustico o l’immagine, ossia la faccia esterna del mio pensiero per come viene percepita da un altro ma non il significato che ho interiorizzato con la mia vita. Comunico la mia “idiosincrasia” per qualcuno o qualche cosa ma chi parla con me comprende la mia avversione ma non ne coglie l’emotività anche perché quel “qualcuno” o quella “cosa” può essere per lui del tutto indifferente o, persino, suscitarli una reazione positiva o di empatia. La parole può assumere quindi sfumature di valore e significati ambivalenti; nell’uso si opacizza e non sempre è riconducibile in senso stretto all’etimo. Mutata, come un virus (riferimento attualissimo) nel gioco delle esperienze individuali può esprimere rigetto o capriccio, ossessione, persino arbitrarietà. 40 GIANFRANCO CARBONE Molti intellettuali ne hanno piegato il senso alle proprie esigenze e sono testimoni dell’adattabilità del termine al contesto, sulla base di una spinta del tutto individuale con margini altissimi di soggettività. L’idiosincrasia dei testi di Croce non è la stessa definita da Bacchelli così come per Pavese spazia in un ambito differente da quello di Magris o Arbasino. Ha forse ragione Edmondo De Amicis che nel suo libro L’idioma gentile la prende di mira e ironizza considerandola “parola indegna” “Le declamazioni d'una liberale e civile idiosincrasia. C'è chi ne va matto !". Ma poi, nel linguaggio corrente, viene capita? Siamo proprio sicuri che utilizzando la parola venga afferrato il concetto, almeno quello elementare e definito dal dizionario di “profonda insofferenza” o di “rifiuto assoluto”? Non ne sarei tanto sicuro. Gira un testo che descrive un corteggiamento. Un giorno, un galante sagittabondo decise di tentare un esperimento: si vestì come il peggiore degli sciamannati e uscì di casa, ben deciso a conquistare una bella sgarzigliona. Non appena intravide la predestinata, tuttavia, la mente del gaglioffo si obnubilò e lui commise un errore lapalissiano: le si avvicinò meditabondo, le girandolò intorno e e la stordì con un discorso talmente pleonastico da sembrare artefatto. La fanciulla, trasecolata dall’aspetto bislacco dello smargiasso, dapprima si spaventò, poi lo apostrofò con una bella ramanzina. “Signorina, qui ci troviamo di fronte a un grosso granciporro! Non si lasci ingannare dai miei abiti frusti e venga a cena con me.” La donzella, ammaliata da quel lessico forbito, accettò un pasto luculliano, al termine del quale il nostro amico –solipsista solo in apparenza- lasciò addirittura una generosa buonamano. Sottoposto a verifica in una ampia platea di lettori una percentuale inimmaginabile non solo non conosceva il significato di tantissime parole (dalle più inusuali come “frusto” o “solipsista” alle più intuitive come “meditabondo” o “obnubilato”) ma non riuscì ad afferrare il senso della frase che altro non descrive che un comunissimo corteggiamento. È quindi assolutamente realistico il dialogo fra Sandy e Frenchy nel film Grease. “Dovrò vincere la mia idiosincrasia” afferma Sandy. “Che cos’è? Una specie di psoriasi?” risponde Frency. Nella confusione restano le mie paure, le mie repulsioni, i miei rifiuti assoluti che io definisco “idiosincrasie”. Mi sento come Lucrezio nella “De rerum natura” ed ho elaborato il mio personalissimo tetrafarmaco nei suoi quattro componenti essenziali:: non si deve 41 L’anagramma impossibile aver paura della morte, non si deve aver paura degli dei, il bene è facilmente raggiungibile, il male è facilmente evitabile. Lo considero, direbbe Petrarca, un capitolo de remediis utriusque fortunae della mia esistenza condito da un rassicurante Oderint dum metuant (Mi odino, purché mi temano) che viene trattato dal Machiavelli nel Il principe a cui dedica un capitolo intero, il XVII La crudeltà e la pietà; e se sia preferibile essere amati piuttosto che temuti, o il contrario, e questa è la risposta del segretario fiorentino: “Ma perché è gli è difficile accozzarli insieme, è molto più sicuro essere temuto che amato, quando si abbi a mancare dell'uno de' dua. […] li uomini hanno meno rispetto a offendere uno che si facci amare, che uno che si facci temere: perché lo amore è tenuto da uno vinculo di obligo, il quale, per essere gl'uomini tristi, da ogni occasione di propria utilità è rotto, ma il timore è tenuto da una paura di pena che non ti abbandona mai.” Ma è proprio così per noi sudditi timorosi? La mia cura è efficace nei confronti di un singolo ma del “potere”? Nel frontespizio della prima edizione del Leviatano di Hobbes, è riprodotto il corpo a mezzo busto di un sovrano che incombe sulla città, che sorveglia i sudditi ma che li protegge dai nemici e contiene numerosissime figure umane che guardano in alto verso il loro re. È stata offerta un duplice interpretazione di questa immagine, che ad un esame sommario sembra voler dire che il sovrano è tale per volontà ed effetto dei sudditi, ma è stato aggiunto nell’interpretazione che «i sudditi sono gli autori della loro propria paura ed è il loro sguardo spettrale a rendere il viso del Leviatano, altrimenti benigno, non solo maestoso, ma anche minaccioso» (così ne pensa Corey Robin, Paura. La politica del dominio). E queste diventano le mie cure banali delle mie idiosincrasie contro qualcuno: chi mi sta sul cazzo lo mando a fan culo. Nei confronti del re o in generale del potere non mi dimentico che “è nudo” sempre pronto a denunciarne i limiti perché, oltre a tutto, mi sento in credito per tutte le volte che un potere ha reso me nudo. E l’idiosincrasia per qualche cosa? Per un ragno o un serpente. Per questa non ho un rimedio. Me la tengo. Mi rassicuro come Totò che dice nel suo film Figaro: “Il coraggio non mi manca. È la paura che mi frega.” Se vedo un serpente scappo, provo una ripugnanza esasperata, una vera idiosincrasia. Foto di Nino Carè da Pixabay 42 43 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 43-46 STATO DI REPELLENZA CRISTINA RIZZI GUELFI idiosincrasia /i·dio·sin·cra·ṣì·a/ sostantivo femminile […] manifestazione di repellenza verso una sostanza, un soggetto, un luogo, un’idea, ecc.; una manifestazione, anche astratta, di ipersensibilità emotiva o fisica. L’amore è un perfetto esempio di idiosincrasia: lo si ricerca con convinzione per tutta la vita e quando lo si trova cominciano a manifestarsi reazioni allergiche insopportabili. Sponsorizzato da testi sacri nelle piccole collettività, nelle borse anguste delle famiglie, nei corridoi incerati degli appartamenti. Pubblicizzato sul piccolo 44 CRISTINA RIZZI GUELFI schermo da famiglie perfette, con tiritere assorbite a memoria nelle sere annoiate adagiati su pavimenti a mattonelle con le gambe scoperte. Cantilene uscite da famiglie stabili e numerose. Sette figli con il muso scarlatto e orecchie a sventola e una successione eterna di indumenti di passaggio nuovi e colorati. Famiglie che hanno creato la loro agiatezza autoalimentandosi con sospiri di incitamento al lavoro. Benessere in scodelle traboccanti di latte e lana sui giacigli. Famiglie la cui fede nel quotidiano è sorretta da ordinari difetti di un’esistenza di sgobbate spezza giunture e da una fanciullesca tirchieria portata con disinvoltura. Quell’amore in PAL che guardo con idiosincratica espressione e con la compostezza delle suore in lettura. 45 Emergenza e filosofia dell’estraneo: cosa può insegnarci Bernhard Waldenfels 46 CRISTINA RIZZI GUELFI 47 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 47-50 AGAMBEN E L’IDIOSINCRASIA DELLA MORTE: STATO DI ECCEZIONE E NUDA VITA NELL’EPIDEMIA DI CORONAVIRUS ULDERICO POMARICI 1. Con alcuni interventi sull’epidemia in corso – ormai trasformata in pandemia – pubblicati sul sito di Quodlibet tra febbraio e marzo, il filosofo Giorgio Agamben, fa alcune affermazioni molto gravi e perentorie: l’epidemia sarebbe un’invenzione indotta dal potere politico che non perderebbe occasione per instaurare lo stato di eccezione, rendendolo permanente al fine di privare i cittadini delle loro libertà fondamentali. ‘Strumento’ di diffusione di questa sottomissione generalizzata al potere sarebbe l’idea di contagio, diffusa ad arte per ingenerare panico nella popolazione e indurre alla sottomissione tacitando ogni opposizione sociale e politica. Così, mentre l’Italia segue col cuore in gola il drammatico decorso dell’epidemia di Coronavirus, Agamben ne teorizza la natura politica, con una chiamata di correità per tutta la popolazione italiana, colpevole di 48 ULDERICO POMARICI sottomettersi al diktat del potere, disposta com’è a sacrificare tutte le libertà fondamentali aggrappandosi miseramente alla ‘nuda vita’. Una provocazione dadaista? Un’ovvietà? Non proprio. Due sono i concetti classici che risaltano in questa interpretazione dell’evento epidemico, entrambi usati da Agamben in modo fin troppo disinvolto. Nuda vita e stato di eccezione. Il primo, come si sa, frutto del genio di Walter Benjamin, il secondo, invece, utilizzato, ma non creato, da Carl Schmitt. Agamben è un grande esperto di entrambi questi pensatori, dunque ancora più rilevante appare la topica nella quale mi sembra incorrere con questa interpretazione dell’epidemia. Non si possono traslare concetti che hanno una tradizione e una pratica storicamente determinata in qualsivoglia altro contesto. 2. In buona sostanza qui è in gioco un certo modo di fare filosofia, quando, come appare nel caso di Agamben, la teoria si appropria della realtà, sequestrandola per soppiantarla. La domanda è: cosa si interpreta se viene meno il fatto? Che cos’è la filosofia, fin dalle sue origini, se non melete thanatou, meditatio mortis, riflessione sul fatto – sul mistero – della morte? Su questo topos si è soffermata prevalentemente, sebbene non esclusivamente, una parte importante del pensiero occidentale. E cosa c’è di più mortifero di una pandemia? Definire quindi questa epidemia un’invenzione è come rimuovere il fatto della morte. E, rimuovendola, rimuovere la vita stessa. Come se l’istinto di conservarla non ne facesse parte, non ne fosse alla base. Anzi, come se fosse un peccato. Peccato, sì, ma peccato mortale del filosofo che rimuovendo la morte ne rimuove il senso proprio, riposto in nient’altro che nella vita. Il fatto della morte. Al quale siamo esposti fin dalla nascita e che ci accompagna, l’orizzonte degli eventi, per così dire, anche perché rende uguali le nostre vite. “A morte o’ ssaj ched’é? ... è una livella”, diceva Totò. Una grande livellatrice che pone tutti sullo stesso piano. Come e perché non reagire, allora, alla minaccia della morte da parte di un nemico invisibile e sconosciuto? Questo è anche nostro, porre innanzi la vita, porre la vita contro la morte. La vita, non la nuda vita! Cosa c’è di più umano che contrapporre alla morte il desiderio di restare vivi! Non la nuda vita, come vorrebbe Agamben, ma la salus, la salute, che esprime salvezza e di cui si fa portatrice la nostra Costituzione in uno dei suoi articoli più importanti, il 32 al primo comma: “la Repubblica tutela la salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività”. E l’aggettivo fondamentale non è di poco peso, visto che ricorre lungo l’intero testo solo in questa occasione. 3. E invece per Agamben non è così. Sfuggire il pericolo, la morte, ricercare la salvezza abbandonando temporaneamente le consuete abitudini della socialità (anche queste, evidentemente, salvifiche nello stato normale) è da vigliacchi: “gli italiani sono disposti a sacrificare praticamente tutto, le condizioni normali di vita, i rapporti sociali, il lavoro, perfino le amicizie, gli affetti e le convinzioni religiose e politiche al pericolo di ammalarsi. La nuda vita – e la paura di perderla – non è qualcosa che unisce gli uomini, ma li acceca e separa”. Questa ricerca quasi spasmodica del particulare, del ripiegare nella propria abitazione privata, viene 49 Agamben e l’idiosincrasia della morte: stato di eccezione e nuda vita nell’epidemia di coronavirus letta da Agamben come una sorta di asservimento volontario al potere, in un modo che richiama lo splendido scritto di Étienne de La Boétie. Infatti la ‘peste’ come manifestazione perversa del potere, dice Agamben, è un fiume carsico, una dynamis che l’epidemia ha solo resa reale. La peste dell’asservimento. É fin troppo evidente, invece, che nelle situazioni ‘normali’ la vita al suo grado zero (non la nuda vita !!), sia solo conditio sine qua non dell’esistenza e non certo conditio per quam, fine al quale tendere. Tuttavia, quando ne va della vita stessa, è semplice istinto di conservazione (ché noi siamo anche animali) difenderla contro tutto e contro tutti, come nell’esempio classico che fa Kant dei due naufraghi attaccati a un solo asse di legno: nel caso di eccezione è lecito salvarsi la vita anche a danno di un altro. Non c’è giudice, afferma Kant, per un ‘reato’ del genere. Ma anche in questo caso non è nuda vita ma solo il male estremo al quale la forma-di-vita può ridursi. Quando la vita sociale è sospesa per necessità e regredisce alla sua essenza come in questa epidemia, la forma-di-vita minimale diventa provvisoriamente una conditio per quam solo perché c’è la minaccia concretissima di poterla perdere. Ma non c’è alcuna colpa in ciò. Stato di eccezione sì, ma non politico bensì esistenziale. 4. Idiosincrasia è l’avversione verso una determinata cosa, una incompatibilità radicale a un certo elemento. A cosa è avverso Agamben? All’idea che non si possa né si debba anteporre la nuda vita, la zoè, alla forma-di-vita, il bios. Ma possiamo noi produrre la nuda vita o non siamo in presenza – visto che è opera dell’uomo – sempre e ancora di una forma-di-vita? Allontanandoci apparentemente dal tema vorrei argomentarlo muovendo da Walter Benjamin. Nel suo Il compito del traduttore, Benjamin discute un concetto di nuda vita che potrebbe aprire una riflessione ulteriore sul tema in questione. Nel parlare del rapporto fra originale e traduzione Benjamin istituisce un parallelismo con la vita: “Come le manifestazioni vitali sono intimamente connesse col vivente senza significare qualcosa per lui, così la traduzione procede dall’originale, anche se non dalla sua vita quanto piuttosto dalla sua sopravvivenza”. Su questa traccia, ma in modo più radicale, Derrida sopraggiunge affermando che l’originale è irraggiungibile, nel senso che è già da sempre esso stesso una ‘traduzione’ di altri testi sopravviventi. La sopravvivenza è il modo di essere del testo. Ma questo cosa implica per il nostro discorso sulla ‘nuda vita’? Che non si dà mai per l’umano un regresso al di là della zoé per produrla. Anche la clonazione non è certo il raggiungimento di una Herrschaft assoluta (un dominio) sulla vita così da imporre la forma dovunque. La zoè, invece, può essere riguardata solo come quel limite invalicabile dove tace il linguaggio. Non siamo noi che possiamo dominarlo, come questa epidemia dimostra ad abundantiam. L’indicibile che esiste nonostante la nostra presenza. La vita, pur nella degradazione, è sempre ancora forma-di-vita. Anche quella del lager è una messa-in-forma della vita. Terribile, ma forma che infatti, in quanto tale, implica la possibilità della pena. C’è un non-oltre. E qui ci soccorre un 50 ULDERICO POMARICI pensiero della Arendt: “È molto improbabile che noi, che possiamo conoscere, determinare e definire l’essenza naturale di tutte le cose che ci circondano, di tutto ciò che non siamo, possiamo mai essere in grado di fare lo stesso per noi: sarebbe come scavalcare la nostra ombra” (Arendt, Vita activa, 9-10). L’idea di anteporsi alla zoè, alla nuda vita come se potessimo elaborarla da noi appare un pensiero onnipotente, che nega proprio ciò che invece dovrebbe essere affermato, che c’è un limite per l’umano e che noi viviamo sempre all’interno di questo limite, che è il limite del linguaggio. “È solo quando si riconosce vita a tutto ciò che si dà storia e che non è solo lo scenario di essa, si rende giustizia al concetto di vita” (Benjamin, Il compito del traduttore, 41). Noi non siamo centro, ma sempre e solo de-centrati. Punto di vista. Misconoscerlo ci preclude il pensiero del limite. Non volerlo accettare esprime dunque una seconda idiosincrasia, verso tutto ciò che non posso raggiungere. La natura appare come l’indicibile fin quando non diventa una forma. Prima non c’è per noi. Altrimenti davvero tutto diventerebbe possibile. La vicenda dell’epidemia del Covid19 non dimostra nella sua assoluta imprevedibilità esattamente questo? Ogni dialogo con la natura nello sviluppo tecnologico contemporaneo è diventato un monologo terribile. E oggi la sempre più veloce obliterazione della ‘natura’ da parte della tecnica ci rende responsabili verso noi stessi e verso tutti coloro che verranno dopo di noi in modo incomparabilmente superiore rispetto alle generazioni precedenti. Il nostro destino è sempre più nelle nostre mani, così che non possiamo più appellarci come gli antichi all’immutabilità della natura. La natura non ci fa più da schermo. Tuttavia, proprio per questo dobbiamo essere in grado di trovare un limite a questa onnipotenza. Degradarla. Non tutto ciò che tecnologicamente si può fare deve per ciò stesso essere fatto. Dopo che per millenni hanno marciato divise e spesso contrapposte, negli ultimi decenni i ritmi delle tecno-scienze hanno bruciato ogni distanza fra vita naturale e tecnica. Stiamo assistendo oggi a una naturalizzazione della tecnica. E questo è un processo che può condurre anche a risultati aberranti. Proprio per la natura neutrale della tecnica. Esistono tutte le condizioni tecno-scientifiche affinché le forme di vita future, inconoscibili oggi, possano manifestarsi in modo non catastrofico e espandersi liberamente. Condizioni che, tuttavia, non possono crearsi in assenza di “un quadro culturale e sociale in grado di reggerne il peso” (Aldo Schiavone). Problema, questo, enorme, di legittimazione democratica. 51 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 51-57 IL VIRUS E LA PARALISI DELLA MENTE SILVIA D’AUTILIA A Massimo, per le possibilità di confronto Non ci è dato per il momento sapere come muteranno le nostre vite fra uno, due o cinque anni, in seguito a questa emergenza, ma una cosa è certa: il vuoto di critica e pensiero che l’ha accompagnata produrrà effetti considerevoli. Col diffondersi del Covid19, sono state adottate una serie di misure di contenimento sociale che hanno comportato un restringimento, quando non un annullamento, delle libertà personali. A partire da questo momento e con un riduttivismo sbalorditivo, ha preso vita sulla scacchiera sociale una grottesca contrapposizione tra sostenitori e detrattori dei provvedimenti adottati a tutela della pubblica salute. Come se il discorso attorno alla radicale trasformazione delle nostre vite possa essere sbrigativamente ricondotto a un asfittico dualismo manicheo di favorevoli o 52 SILVIA D’AUTILIA sfavorevoli, mancando l’appuntamento con la complessità del dibattito che la situazione ha generato. A pagare il prezzo di questa demarcazione è stata innanzitutto la riflessione sul soggetto e sulla condizione di eccezionalità che sta attraversando. È la prima volta che stiamo facendo i conti con un io inedito, non più padrone di sé, e non certo nella declinazione psicoanalitica della questione, ma in relazione a uno sfilacciamento della sua autenticità politica, sociale e culturale. Una materia che ha visto improvvisamente uscire di scena fior fior d’intellettuali e attivisti dello spirito. Non solo. Anche i solerti militanti delle passate cause sociali e dei diritti sacrosanti adesso, tutto d’un tratto, preferiscono anestetizzare le coscienze dietro alla minaccia di un virus che, a quanto pare, oltre agli effetti sul corpo, è anche in grado di paralizzare le menti. La grave latenza di queste categorie è stata ed è tanto più ingiustificabile quanto più prendono piede, nella più generalizzata indifferenza sociale, politiche d’infragilimento del vecchio soggetto di diritto, a favore di un mero “residuo di soggettività”. Sono divenuti residuali: il diritto alla libertà personale, alla circolazione, alla libertà di riunione, i rapporti economici, la salvaguardia dell’istruzione e della cultura, della libertà di pensiero ed espressione, (il cui deterioramento sta toccando soglie davvero allarmanti) e in generale un intero ordinamento repubblicano. Il tutto in nome di un virus. Si replicherà che è sbagliata la percezione, in quanto non si tratta di decurtazioni della libertà personale, ma di indicazioni terapeutiche di spessore sociale in un contesto di drammatica emergenza sanitaria. Ebbene, l’occasione è buona per evidenziare una volta per tutte che il vero nodo del problema è proprio questo: proprio perché si tratta di accadimenti mai vissuti prima abbiamo l’indifferibile dovere di non assopire il pensiero, di non abbassare per un solo istante la guardia, riducendo ogni attività sinaptica al consenso o dissenso su quello che ci viene – cit. – consentito o non consentito di fare, (con buona pace dei nostri vecchi diritti costituzionali!) Dacché l’epidemia ha reso oggetto di decisionalità politica la ridefinizione delle nostre quotidianità fin nei più privati particolari, andrebbero rivendicate cornici di dibattito che si occupino per intero della questione. Tutelando fino al capello la società dal Covid19, che pure ha mietuto e continuerà a mietere innumerevoli vittime, la si lascia completamente scoperta e sottotutelata dal resto dei problemi. A dimostrazione di questo atteggiamento, si è visto come sia stata demandata quasi interamente la gestione del problema alla figura dello specialista, divenuto il nuovo arbitro biopolitico. Nei più noti salotti televisivi, dove si è prodotto il fenomeno 53 Il virus e la paralisi della mente sociale dell’attesa della pronuncia specialistica abissando i restanti aspetti della discussione, non solo si è consumata una stagnante ripetitività dei tecnici interpellati, ma nemmeno ci si è curato di esporre questi personaggi al contraddittorio con colleghi di opinione differente. Il livello di conoscenze attorno al virus e soprattutto alle modalità con cui conviverci - perché è questo il vero tema - è al momento talmente esiguo da richiedere a maggior ragione analisi di rango dialettico. Si è rivelata fin troppo bene la debolezza di una decisionalità esclusivamente giocata sul tavolo della titolata tecnicità. A febbraio uno dei più noti esperti in materia ci ha perfino tranquillizzato sul rischio zero del contagio in Italia. Va da sé che non si vuole fare il processo a un errore di calcolo pure lecito e ammissibile in un clima d’incertezza e novità, ma a un atteggiamento scientifico granitico e presuntuoso, nonostante appunto l’incertezza e la novità. Quello dell’erronea previsione del contagio è solo uno dei numerosi esempi per cui sarebbe immediatamente auspicabile un ridimensionamento dell’ipse dixit specialistico davanti a un’epidemia che come un riflettore ha repentinamente fatto luce su una lunga trafila di problemi di vecchia data: dalle politiche di privatizzazione ai tagli sanitari, dalla generalizzata carenza di personale medico nel SSN e negli ultimi anni proprio in quei reparti che il virus ha messo in ginocchio al progressivo impoverimento della ricerca, dalla debilitazione del turnover occupazionale al persistere di una crisi economica che, con l’arrivo dell’epidemia, stando a quanto riportato dall’Istituto per gli studi di politica internazionale ISPI, farà pagare all’Italia il prezzo più alto nel contesto dell’Eurozona. Oseremo ancora dire che il problema sia solo il virus o molto più onestamente affermeremo che di fronte a un parassita si è in realtà esplicitata la cronica debolezza del sistema? Se per salvarsi dal cancro al polmone si presta ascolto solamente all’invito a smettere di fumare pronunciato dallo pneumologo, senza ricevere concrete politiche di tutela dal contatto con i cancerogeni chimici a cui la stessa persona è esposta per ragioni lavorative, ci sono ben poche speranze di evitare la disgrazia. C’è una sfida inderogabile che questa epidemia ha lanciato alla nostra società ed è la sensibilizzazione del singolo nell’esercitare una coscienza critica che vada ben al di là della passiva assimilazione della propaganda mediatica. Tutto il contrario di quello che accade in questi giorni, quando si lanciano grida di biasimo a chi, sprovvisto di competenze, non ha ragioni di discutere di certi argomenti. Il non-tecnicismo è una colpa da espiare col silenzio ossequioso. È uno scenario sociale non avulso e privo di paternità, ma figlio diretto di quella moda ad uso e abuso di taluni esperti in materia 54 SILVIA D’AUTILIA incline al blastare, fino allo zittire, quanti non hanno titolo per avere un’idea e poterla esprimere. Risale a poco più di tre anni fa la dichiarazione del più noto virologo del web – e da qualche mese anche dello spettacolo - di procedere a cancellare dalla sua pagina Facebook tutti i commenti impertinenti, lasciando diritto di parola solo a chi ha studiato e non certo al cittadino comune. Terminava col motto divenuto egida del suo personaggio mediatico: “la scienza non è democratica.” La cosa dovrebbe destare forte allarmismo rispetto al nuovo ritratto di scienza che ne sta emergendo: un monolite che risponde di sé e delle due pratiche a nessuno meno che a sé medesimo. Uno scivolone metodologico che lede non poco quell’immagine di sapere basata sull’itinerante dialettica del dubbio, e che fa dello scambio col sociale la condizione stessa del suo procedere. La scienza, infatti, può/deve non essere democratica in laboratorio, ma lo deve necessariamente essere in termini di analisi dei dati, raggiungimento delle conclusioni e discussioni che ne derivano. Non potremmo nemmeno pensare all’aggettivo “scientifico” senza l’imprescindibile operazione comunicativa, ovvero quel momento in cui le conoscenze, venendo trasferite al pubblico, si traducono in occasione di progresso e sviluppo sociale. Una divulgazione scientifica efficace ha come prerequisito la capillarizzazione delle sue informazioni fino all’ultimo attore del tessuto sociale. È questo, tra gli altri, uno dei principali messaggi dell’UNESCO World Report del 2005 Toward knowledge societies, attento a ridefinire le società della conoscenza attraverso l’invito a una partecipazione attiva nei processi divulgativi della scienza. Secondo i capisaldi della società della conoscenza ciascun cittadino, nessuno escluso, con la sua formazione, il suo percorso e la sua particolare interazione col sapere, può aggiungere altra conoscenza alla conoscenza con cui s’interfaccia. Sempre all’inizio degli anni 2000, anche da Oltremanica si fa pressante l’esigenza di un legame più stretto tra scienza e società: il precedente paradigma di Public Understanding of Science (PUS), che aveva segnato alla fine degli anni ’80 un’iniziale apertura del mondo scientifico verso il pubblico, viene ripensato alla luce di un rapporto meno frontale e più inclusivo, di reale collaborazione tra esperti e non esperti, secondo un modello che fu denominato Public Engagement with Science and Technology (PEST). L’intento era quello di coinvolgere concretamente la società nei traguardi scientifico-tecnologici e nella loro comunicazione, al fine di colmare quella distanza tra specialisti e non specialisti che iniziava a produrre una generale sfiducia dei secondi verso i primi. La lontananza tra questi due mondi non era solo fisica e materiale ma rappresentativa del 55 Il virus e la paralisi della mente diverso atteggiamento con cui venivano approcciate tematiche d’interesse pubblico e sociale. Per rendere l’idea evochiamo brevemente lo studio di Brian Wynne sulla crisi delle “pecore radioattive”. In concomitanza all’incidente nucleare di Černobyl, nel 1986, alcuni allevatori inglesi, avendo osservato delle anomalie nei terreni sui quali pascolavano le loro greggi, sostennero la possibilità che gli animali potessero aver assorbito dal terreno la radioattività. Il governo rispose inviando sul campo degli esperti che, una volta effettuate tutte le analisi del caso, minimizzarono enormemente il problema. Alla lunga le ricognizioni degli allevatori però si rivelarono sensate: per ben due anni fu vietata la macellazione ovina proveniente da quei territori e alle valutazioni degli esperti fu associata la volontà del governo d’insabbiare velocemente la vicenda. Episodi come questo hanno portato a un ripensamento delle politiche di comunicazione della scienza, attraverso una valorizzazione della cosiddetta lay knowledge, il sapere laico per intenderci, non più valutato come debole o inferiore, ma semplicemente caratterizzato da expertise qualitativamente diverse rispetto a quelle degli scienziati. Ebbene, la vistosa esasperazione della competenza medica per il Covid19 rischia d’incappare in nuove logiche di distanziamento tra esperti e non esperti se non s’interviene per tempo a modificare orientamenti scientifici unidirezionali e autarchici. Già numerosi segnali s’intravedono nella volontà del pubblico di sentire altre campane di tecnici, di ricercare un tipo d’informazione diversa da quella suggeritaci come “ufficiale” e, guarda caso, prontamente bollata come “disinformativa”. Nel calderone della disinformazione oggi finiscono tutti coloro che stentano a uniformarsi con le linee guida convenzionali o che solo accennano a volerne sapere di più. Basti pensare a uno spot del mainstream, di un autoreferenzialismo disarmante, che invita a fidarsi cit. “dei reali professionisti dell’informazione”. Ora, stante la melensa biforcazione tra informazione giusta e informazione sbagliata, la reale domanda è: ma chi stabilisce questi valori? Il quesito ha un sapore per così dire postmoderno, nella misura in cui, in un clima di generalizzata carenza di certezze, risulta abbastanza improvvido rivendicare il possesso di un verum che altri invece non avrebbero. Sicchè la questione arriva ai seguenti esiti: o i sedicenti depositari dell’informazione inconfutabile sono realmente convinti di detenere questo primato, il chè evoca una certa presunzione, per non dire onnipotenza, oppure temono così tanto la contraddizione da tacciarla in partenza come non-informazione. Forzare la credibilità, arrogandosi una superiorità non 56 SILVIA D’AUTILIA richiesta, è una strategia neppure troppo velata per avere il terreno libero da impacci e avversari. Le masse, queste flotte di soggetti turbati e angosciati, sono divenute gli strumenti privilegiati con cui condurre la battaglia dell’impoverimento delle menti, dell’invito a pensare che non ci sia più nient’altro a cui pensare. Il contraddittorio va combattuto con la negazione dello stesso e non solo in termini linguistici ma anche ontologici: tutto quanto non si conforma ad A non solo non è A, ma non è neppure B, C, D, E... semplicemente non esiste! Il vuoto di critica e di analisi è la vittoria! Peccato che ogni ricerca del consenso condotta nel segno della rigidità abbia sempre rivelato un certo indice di timore. Giordano Bruno non aveva dubbi già nel 1600, quando, dopo la lettura della sentenza di condanna a morte per eresia, affermò: maiore forsan cum timore sententiam in me fertis quam ego accipiam, “forse tremate più voi nel pronunciare questa sentenza che io nell'ascoltarla.” In ogni ambito, e a maggior ragione nella scienza, la libertà di parola è un problema solo per chi la teme. Non la teme chi la considera una più che valida occasione di confronto, da cui ricavare, a prescindere dal risultato, un progresso scientifico. È il cosiddetto principio di falsificabilità teorizzato dal filosofo Karl Popper, per cui una teoria è veramente scientifica se si presta alla confutabilità, ovvero se è sottoponibile all’errore: qualsiasi sia l’esito di questa falsificazione non potrà che dare utili contributi all’avanzamento della questione. Ma quanto l’epidemia ha reso abbastanza tangibile è ravvisabile nelle riflessioni sul concetto di sapere che alla fine degli anni ’70 Jean-François Lyotard elaborò nel testo La condizione postmoderna. Secondo il filosofo francese, nel tramonto delle verità salvifiche nell’alveo dell’etica, della politica e della religione, il destino del sapere è e sarà la sua vendibilità, in un continuo sali e scendi di prezzi e stime. Come non sentire echeggiare rumorosamente in queste parole gli interessi derivanti dallo stabilire rigidamente cos’è informazione e cosa no? Se, nell’imposizione del restare a casa, nel controllo a vista dei corpi e nella militarizzazione dei territori, si evince una vera e propria esasperazione del dominio biopolitico, va segnalato che una nuova declinazione del potere sta affermandosi con forza: il condizionamento delle menti. Non basta più che i corpi siano addomesticati, oggi più che mai occorre che lo siano anche le menti, e non tanto disciplinandosi a pensare secondo modelli o stereotipi, ma prendendo ad accettare che oltre alla comunicazione di una data informazione non c’è proprio nient’altro a cui pensare. C’è chi a questo proposito ha parlato non erroneamente di “psicopolitica”, asserendo che le guerre delle nostre civiltà non hanno più connotati materiali e concreti, ma 57 Il virus e la paralisi della mente sono basate sul controllo del mentale e sulla prevenzione sorvegliata e istituzionalizzata della loro attività. Foucault metteva in guardia da questo rischio già nel 1971, quando nel testo Nietzsche, la genealogia, la storia, stabilisce la distinzione tra la storia degli storici e la storia effettiva. Se la prima è un sapere ordinato secondo un continuum di senso e significato, la seconda è direttamente calata nell’autenticità dei fatti. Non badare a questa differenziazione corrisponde dice Foucault- a non prendere atto che “il sapere non è tanto fatto per comprendere, ma per prendere posizione”. Corrisponde a ritenere che non ci sia alcun’altra conoscenza da rivendicare. E soprattutto corrisponde a lasciare che, un domani, i nostri figli non abbiano più diritto ad alcuna libera curiosità da esercitare. Foto di Tumisu da Pixabay 58 59 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 59-64 LA SCIENZA DEGLI IDIOTI FRANCO FERRANT C’è un aggettivo che in italiano viene spesso usato in modo singolare, vale a dire l’aggettivo “singolare”. Il quale non va, dunque, ad indicare puramente la proprietà dell’uno, ma trova implicita in questa unicità una certa stranezza. Infatti, in ogni vocabolario, i sinonimi che vengono accostati a “singolare” sono “insolito. raro, bizzarro” Sembra scontato, nel senso comune, che la condizione dell’unicità porti in sé un’inevitabile stravaganza. Tanto che l’aggettivo “singolare”, nel senso di “strano”, viene paradossalmente usato, talvolta addirittura al plurale, anche ad indicare proprietà collettive di gruppi di individui Ciò è ovviamente di grande aiuto all’autostima individuale, in una civiltà ormai rassegnata a pensarsi come civiltà di massa; serve da protezione contro l’insignificanza dell’esistenza singola e il rischio dell’omologazione coatta. Però la rivendicazione della particolarità può avere anche risvolti fastidiosi, particolarmente quando ad essa si associ una certa sofferenza; quando, cioè, alla nostra unicità, che in fondo è anche la nostra stranezza, risulti intollerabile la normalità statistica degli altri. 60 FRANCO FERRANT È il caso delle idiosincrasie, che, anche al di fuori di un ambito strettamente medico, e della casistica, a volte tragica, delle reazioni allergiche e anafilattiche, esprimono la nostra propria individuale insofferenza verso cose che, apparentemente, per gli altri non sono dannose. Vi è una dose di artisticità nelle idiosincrasie, una specie di poesia dell’esistenza concreta, una rivendicazione dell’attualità del presente, liberata dalla dittatura della specie e dalla biologia astratta delle tassonomie. L’idiosincrasia, come repulsione e rigetto, è pura resistenza contro il dato, cotto e mangiato. Sarà anche per questo che in linguistica l’idiosincrasia non descrive l’intolleranza, a volte più noiosa della pedissequità, quanto piuttosto la creatività. In linguistica essa è legata al singolo atto di “parole”, trasgressivo rispetto alla norma linguistica immanente, ma proprio per questo creativo e innovativo. Del resto la radice greca “idio-” è di uso comune in linguistica. Significa letteralmente “che sta a parte, da sé” “che riguarda singoli individui” La troviamo in termini come “idioma” e “idioletto”. L’idioma è l’espressione linguistica particolare di un territorio o di un gruppo etnico. Può essere una lingua nazionale, ma anche un dialetto o qualunque parlata caratteristica di una comunità storico-sociale. Il termine “idioletto” , usato in senso tecnico, restringe il campo: sarebbe, infatti, la peculiarità d’uso di ogni singolo parlante del sistema linguistico di una comunità. In altre parole, la marca individuale di utilizzo di un idioma. Ma io sono interessato alla radice “idio-”, anche e soprattutto in un più largo contesto. Fino a un certo punto, nonostante certe reazioni di avversione istintiva, che si potrebbero anche considerare normali, da parte della maggioranza silenziosa, nei confronti degli idiosincratici metaforici, vissuti come snob schifiltosi e rompiballe, penso che l’idiosincratico sia visto da molti con simpatia. Anzi, resto intimamente convinto che l’idiosincrasia emotiva sventoli il vessillo della libertà. Ma ancor più interessante è, oggi, lo specifico ruolo che la radice “idio-” gioca nel termine “idiota”. Con questo termine “idiòtes” nel mondo greco si indicava il privato cittadino che non ricopriva cariche pubbliche. Il fatto che, nel corso del tempo, sia diventato quasi sinonimo di “deficiente” indica, innanzitutto, in quale alta considerazione i greci tenessero la politica, l’impegno di gestione della polis. E poi sembra anche suggerire implicitamente che la prospettiva del singolo privato cittadino, per quanto illustre, rischia, proprio per l’ ovvia ristrettezza dell’angolo visuale, la grossolanità. Naturalmente anche in questo caso non è necessario che l’“idiòtes” sia il singolo, ma il concetto può essere esteso ad indicare, più in generale, prospettive, angoli visuali particolari, o modelli interpretativi condivisi da interi gruppi o categorie di individui. Proprio di questo vorrei trattare brevemente. 61 La scienza degli idioti Mi rendo altresì conto che usare questo termine in italiano, invece che nella sua originaria veste greca, potrebbe risultare insultante. Ma anche su questo molti paladini del politically correct e del linguaggio non-ostile hanno sparso più nebbia che enlightenment. Ricordo, ad esempio, che all’University College Dublin, dove ferve una vivace e autonoma attività studentesca, con circoli di indirizzo che organizzano dibattiti tematici ed invitano personalità di rilievo a confrontarsi su temi caldi, non mancavano mai proposte provocatorie. Una di queste, che mi incuriosì molto, ipotizzava la legittimità dell’insulto, in nome della difesa della libertà di parola. Non ho approfondito la cosa, ma lo stesso fatto di porsi il problema mi sembrava già rilevante. Al di là della calunnia o del bullismo o dell’aggressione verbale programmata, tutte cose legalmente perseguibili, ancora oggi non sono sicuro che l’insulto debba essere considerato un tabù. Io, ad esempio, non mi sento particolarmente lacerato nel mio amor proprio da un insulto. Ad ogni buon conto, specifico che in questo contesto l’aggettivo “idiota” è usato in senso etimologico. Vi è un genere di idiozia particolarmente diffusa nel mondo contemporaneo e particolarmente pericolosa, legata alla mistificazione e all’uso equivoco del concetto di scienza. Lasciando da parte le scienze formali, come logica matematica e geometria, che, per la loro natura assiomatica, conferiscono verità universali e necessarie, l’unica scienza naturale rigorosa oggi è la fisica (comprendendo ormai anche la chimica). Non fornisce verità universali e necessarie, ma non è disposta ad accettare conclusioni falsificabili o a compromettersi con le eccezioni. Poi ci sono tutti gli altri ambiti di ricerca e conoscenza, naturali e umane, ognuna con i propri modelli di indagine, i propri indirizzi, le proprie metodologie di verifica. Tutti questi indirizzi sono validi ed ognuno di loro ha una sua utilità e un suo ambito di applicazione E possono, a buon diritto, chiamarsi scienze, ma quello che non debbono fare è giocare sull’equivoco. Alcune di loro si servono dell’apporto ausiliario delle scienze formali e della fisica, ma la loro attendibilità o è statistica o è condizionale e, soprattutto, non fornisce parametri sicuri di falsificabilità. Nel momento in cui surrettiziamente tendono a usurpare lo statuto delle scienze formali o fisiche stanno implicitamente barando. La questione si complica quando questa pretesa si combina con la sindrome dell’idiota È inevitabile che a un giocatore di poker professionista la vita sembri, un po’ tutta, una mano di poker o che a un commerciante al dettaglio situazioni di vita reale ricordino dinamiche di negozio o strategie di vendita o che a un dietologo risultino lampanti i benefici di una buona digestione e assimilazione dei nutrienti, 62 FRANCO FERRANT ma nessuno di loro avanzerà la pretesa di spiegare tutta la vita nelle sue complesse manifestazioni come una partita di poker o una transazione soddisfacente o una buona digestione e, soprattutto, nessuno di questi “privati cittadini” rivendicherà il diritto di guidare la politica. Invece oggi ci sono molti idioti in molti centri di ricerca ed elaborazione in tutto il mondo che avanzano spudoratamente tali pretese e rivendicazioni. L’obiettivo è assolutizzare il contenuto di verità delle loro asserzioni e dimostrare l’inconsistenza e inutilità di altri approcci. In particolare è inquietante quando l’obiettivo delle loro incursioni diventa non solo l’arte, o la religione, o la filosofia, ma anche e soprattutto la politica. Ci sono essenzialmente tre ambiti nei quali gli idioti imperversano: economia, medicina e genetica, condizionando gran parte della logistica e dei finanziamenti delle università a sostegno delle loro pretese. In economia la tendenza è spacciare per leggi naturali quelle che sono prassi condizionali, finalizzate all’acquisizione di un vantaggio. Oltre a tutto, sottoposte a variabili marcatamente aleatorie. Le leggi economiche sono “leggi” più in senso giuridico che in senso fisico. Ma il capitalismo trionfante, particolarmente nella sua declinazione finanziaria globale, ne ha fatto un sistema dogmatico, con profusione di spregiudicato abuso di strumenti matematici fuori contesto E, a ruota, nelle scuole di questa nuova religione, pretesa scienza esatta, fioriscono i catechismi più bizzarri, tipo “economia comportamentale”, “neurofinanza” ed altre facezie del genere Probabilmente non c’è concetto più mistificato del PIL, generalmente trattato invece come una grandezza fisica. Naturalmente in questo ambito gli idioti sono altamente perniciosi per l’interesse comune ma ossimoricamente intelligenti per il proprio, anche e soprattutto quando, scomodando la teoria dei giochi, si sforzano di spiegare che è nella natura delle strategie competitive trovare un punto di equilibrio, con buona pace di tutti. In medicina vi sono due irresistibili tendenze idiotiche. La prima ha per protagonisti medici che, fin dall’inizio, o a un certo punto del loro iter professionale, rendendosi conto di non aver mai veramente avuto intenzione di esercitare la professione, hanno cercato qualche via di fuga, che non li rendesse dei reietti, ma che, almeno in parte, si armonizzasse con la loro situazione di fatto. La più battuta di queste vie è rivelare al mondo i misteri medici sottostanti a tutte le altre attività umane, in primis quelle artistiche o filosofiche. E naturalmente, per lustrarsi con il lustro altrui, le indagini devono riguardare i maestri riconosciuti della storia spirituale dell’umanità. Fioriscono in tal modo le diagnosi a posteriori, le autopsie in assenza di cadavere, le anamnesi delineate su indizi. Dunque Dante ha scritto la commedia in trance ipnotica perché sofferente di narcolessia. 63 La scienza degli idioti Michelangelo era tormentato dall’osteoartrosi degenerativa La filosofia di Leopardi deve molto alla spondilite. L’afflato romantico di Schubert e Schumann era in qualche modo in relazione con la sifilide, così come le note tenebrose dei Capricci di Goya e dei suoi Disastri della guerra, il nichilismo di Nietzsche e il suicidio metafisico di Michelstaedter La pennellata di Van Gogh testimonia l’epilessia del lobo temporale (patologia di elezione anche per scrittori come Poe, Lewis Carrol e Dostoevskj) e la sua notte stellata non è che la trasposizione pittorica degli effetti ottici causatigli dalla digitale che prendeva per curarla E così via. La seconda tendenza porta avanti un progetto che è diventato egemone nel paradigma terapeutico del terzo millennio: vale a dire la “medicalizzazione permanente”. In questa prospettiva, dalla nascita alla morte l’individuo vivente deve restare costantemente sotto controllo, in una sorta di bolla diagnostica. Tutte le manifestazioni perturbate o sgradevoli dell’organismo vivente sono monitorate in tempo reale e tempestivamente curate, quando non preferibilmente anticipate. Questa seconda tendenza, connessa ad enormi interessi economici, regna pressoché incontrastata negli istituti di ricerca di tutto il mondo, attraendo le energie fresche degli aspiranti idioti, fortemente incoraggiati ad avviarsi in questa direzione. Naturalmente non sono solo le malattie classiche ad essere bersaglio della sollecitudine, ma ogni genere di disagio, sia fisico che psichico. Che poi quello psichico è fondamentalmente fisico e quindi curabilissimo con ormoni e chirurgia, se dovuto a motivi estetici, o disforia di genere, o con la farmacopea in tutti i casi di sofferenza mentale o emotiva. Non solo ansia o depressione, ma anche elaborazioni del lutto, nostalgia, spleen, noia o dipendenza. Un giovane genio inglese ha, ad esempio, recentemente trovato il rimedio chimico infallibile contro il mal d’amore. Un paio di pillole e l’immagine dell’amato/a non ti tormenta più. Non ha avuto un grande successo commerciale perché, come effetto collaterale, distrugge la libido nei confronti di chicchessia. I resoconti dei lavori sperimentali riempiono le miriadi di riviste “scientifiche” specializzate, la cui principale funzione è quella di dispensare credibilità a carriere in fase di decollo. In genere si tratta di esperimenti condotti, nell’arco di pochi mesi o qualche anno, su una popolazione di poche centinaia di soggetti. I risultati vengono, poi, elaborati statisticamente in risibile spregio alla legge dei grandi numeri . In tal modo, anche riconoscendo l’onestà dello sperimentatore che, come rivelato più volte da frequenti scandali, è tutt’altro che garantita, si può “dimostrare” qualunque cosa e il suo contrario. E quanto più eclatante è la tesi emersa, tanto più spazio trova nei rotocalchi di costume e sul web, diventando verità conclamata. L’ultimo campo nel quale gli idioti prosperano, certamente il più insidioso per possibili sviluppi futuri, è quello della genetica. Ormai quasi tutto trova 64 FRANCO FERRANT spiegazione nei geni. Non solo le malattie di cui si conosce già da tempo l’origine genetica, non solo la predisposizione a contrarre nel corso della vita certe patologie, ma anche alterazioni le cui cause restano a tutt’oggi sconosciute. Per cui la schizofrenia, l’autismo, la depressione, l’ansia, hanno, in quest’ottica, una spiegazione genetica. Ma il genetista idiota non si trattiene e non si ferma qui. Anche i tratti morali sono scritti nei geni. Ho sentito uno dire che il razzismo avrebbe un’origine genetica con il candore di chi non riesce neppure a rendersi conto di quanto razzista sia questa affermazione. Ho letto un genetista di buona reputazione collocare nel corredo genetico il segreto della felicità. Il che è a suo modo rassicurante, perché se tu quel gene lì ce l’hai, qualsiasi disgrazia ti possa capitare non perderai mai il tuo buon umore. E lo stesso, per dimostrare l’innegabile tendenza al suicidio dei temperamenti artistici, insita nei loro geni, rispetto alla più equilibrata dotazione genica degli scienziati, non mancava di citare Virginia Woolf o Sylvia Plath o Pavese o Van Gogh. A cui di rimando si potrebbero citare Boltzmann o Turing, o le ricorrenti pulsioni suicide di Wittgenstein, se prestarsi a un confronto del genere non fosse mettersi sullo stesso umiliante piano di idiozia. Ecco, o la scienza, esatta o meno che sia, riconquista la propria integrità e la chiarezza dei propri obiettivi, senza tracimare in territori che non le competono, prendendo atto che vita, storia e civiltà sono qualcosa di molto più complesso delle semplificazioni dello spazio protetto di un laboratorio o rischia di deragliare rovinosamente, non essendo in grado di esaurire compiti che competono ad altre logiche e ad altre più ampie prospettive. 65 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 65-71 “IN IRA E MALEVOLENZA”: DI QUALCHE IDIOSINCRASIA COMICA GENNARO CARILLO Il comico, talvolta, picchia duro. Per farlo, deve alimentarsi di idiosincrasie profonde, di cui Aristofane teorizza la legittimità morale, oltre che la produttività politica: «Insultare (loidoresai) gli abietti (ponerous) non è una colpa ma, a ragionarci bene (eu logizetai), un rendere onore (time) ai buoni (toisi chrestoisi)» (Aristofane, Cavalieri, 1274-1275). Tutto molto schematico. Il comico presuppone la polarità buoni-cattivi e, su questa base, colpisce con la loidoria, spingendosi fino ad auspicare o addirittura a ‘suggerire’ la morte di qualcuno come misura benefica per la polis. È il caso di Cleone nei Cavalieri: «Sarà dolcissima (hediston) la luce del giorno per i cittadini e i visitatori, se Cleone morirà (en Kleon apoletai)» (973-976). Tutto questo alla presenza, in teatro, del demagogo odiato e pericolosissimo, al quale la polis democratica riconosce il privilegio della proedria, un posto riservato in prima fila. Ed è il caso di Cleofonte nelle Rane: «la rondine di Tracia […] intona un canto (nomon) funebre, perché lui [Cleofonte] muore (apoleitai), anche se il processo finisce in parità (isai)» (681-685). 66 GENNARO CARILLO Quantunque trasfigurata in chiave comica, la morte violenta aleggia sulla scena aristofanesca, prefigurando un destino tragico per la comunità politica. Su Aristofane tornerò alla fine. Ora vorrei fornire qualche altro esempio dell’idiosincrasia come materia prima del comico. Eros e Priapo di Gadda non è solo un’invettiva feroce contro Mussolini. È anche un tentativo – ilare e tragico – di ricercare la causa del consenso tributato al fascismo in una malattia peculiare dell’ethos nazionale: il menadismo, l’invasamento, l’enthousiasmos, la «ninfomania politica» di una nazione femmina (e per troppi secoli «malchiavata») nei confronti dell’espressione massima di un virilismo retorico e istrionico, il Duce, appunto. Nessuna motivazione logicorazionale, in questo consenso della moltitudine, ma solo un eros tirannico, un rovesciamento della gerarchia platonica dell’apparato psichico sano, con gli «impulsi animali a non dire animaleschi […] topicizzati nello epithymetikon, cioè nel pacco dello addome, […] il gran vaso di tutte le trippe» (E. Gadda, Eros e Priapo (Da furore a cenere) [1967], in Saggi Giornali Favole e altri scritti, II, Milano, Garzanti 1992, p. 231), che s’insediano nell’acropoli dell’anima e da qui comandano indisturbati. Due idiosincrasie operano dunque in Gadda: quella verso Mussolini e il fascismo, a un primo livello; la misoginia, a un livello meno superficiale. Ecco un ritratto idiosincrasico del Duce: “Questo qui, Madonna bona!, non avea manco finito di imparucchiare quattro sue scolaresche certezze, che sono qua mè son qua mè, a fò tutt mè a fò tutt mè. Venuto dalla più sciapita semplicità, parolaio da raduno communitosi del più misero bagaglio di frasi fatte, tolse ecco a discendere secondo fiume dietro al numero: a sbraitare, a minacciare i fochi ne’ pagliai, a concitare ed esagitare le genti; e pervenne infine, dopo le sovvenzioni del capitale e dopo una carriera da spergiuro, a depositare in càtedra il suo deretano di Pirgopolinice smargiasso, addoppiato da pallore giacomo-giacomo, cioè sulla cadrèga di Presidente del Consiglio in bombetta e guanti giallo canarino. Pervenne, pervenne. Pervenne a far correre trafelati bidelli a un suo premere di bottone su tastiera, sogno massimo dell’ex agitatore massimalista. Pervenne alle ghette color tortora, che portava con la disinvoltura d’un orango, ai pantaloni a righe, al tight, al tubino già detto, ai guanti bianchi del commendatore e dell’agente di cambio uricemico, dell’odiato ma lividamente invidiato borghese. […] Sui morti, sui mummificati e risecchi dalle orbite nere contro il cielo, […] sui morti e dentro il fetore della morte lui ci aveva già lesto il caval bianco, il pennacchio, la spada dell’Islam, fattagli da’ Maomettani di Via Durini a Milano. Per la pompa e la priapata alessandrina. E la differenza la sapete bene qual è, la differenza che passa tra Lissandro Magno e codesto brav’uomo: che l’Alessandro Magno l’è arrivato (sic) ad Alessandria col 67 “In ira e malevolenza”: di qualche idiosincrasia comica cocchio: e lui c’è arrivato col cacchio. Riscappò via co’ sua cochi e marmellate dell’ulcera. Scipione Affricano del due di coppe (ivi, pp. 227s.).” È un’immagine miracolosa, fecondante, quella del Duce, per le moltitudini di Bassaridi che pendono dalle sue labbra perennemente estrovertite e in lui ravvisano «il solo genitale eretto disponibile sulla piazza»: “E talvolta, bastava il sogno, la imago. Le più pazze, le più prese dalla imago, non bisognavano marito, né ganzo, né drudo. Checché. Gli bastava la Idea, la Idea sola della Patria, e del kuce. Gli bastava imaginare il kuce nell’atto di salvar la Patria per sentirsi salvate e pregne anche loro in compagnia della Patria. Una di codeste pazze riuscì a fare un figlio: col ritratto del kuce. Ed ebbe il pupo, al nascere, le quadrate mascelle del Mascellone, tanto che lo ricoverarono al Cottolengo. Dove il mostriciattolo pisciò, cioccolattò, crebbe e proferì apoftegmi in tutto simili a quelli del Padre.” Qui l’idiosincrasia si sposa a un «atto di conoscenza», sia pure «tardivo»: non ci sono solo Aristofane, Platone o Machiavelli, tra le fonti di Gadda; c’è anche la psicologia delle folle. Certo, l’iperbole deforma e la misoginia deborda; eppure, se la tentazione del mutato nomine de te fabula narratur è così forte, vuol dire che Gadda coglie, per via idiosincrasica, un universale, l’essenza erotica dei meccanismi sui quali si fonda un consenso altrimenti inspiegabile. Il paradosso di Eros e Priapo è che fa dimenticare il Mussolini storico o comunque lo disincarna, facendolo regredire a carattere, ad allegoria. Proprio nel senso dell’aliquid stat pro aliquo: Mussolini sta per qualcos’altro e qualcun altro. E questo qualcun altro è chiunque, dopo di lui, ne indossi più o meno consapevolmente la maschera, personificandolo. Non a caso, chi abbia messo in scena Eros e Priapo (Fabrizio Gifuni, Massimo Verdastro, Sandro Lombardi) si è visto costretto a esplicitare di non aver manipolato il testo gaddiano, di non avervi aggiunto nulla di ‘contemporaneo’: il pubblico credeva di riconoscere in Mussolini il principe, appena dissimulato, del momento e accusava il teatrante di faziosità. Cambiamo scena, restando tuttavia in Italia. Ha già fatto epoca, tra le idiosincrasie recenti, quella di Franco Cordero verso Silvio Berlusconi, ribattezzato il «Caimano», il «nomofobo», il «re delle lanterne magiche», rubricato come «caso clinico», esecrato come causa prima o almeno sintomo più evidente del «morbo italico». Ma, per Cordero, Berlusconi è soprattutto la figura eminente di una «convulsa pittura espressionista». Convulsa perché popolosissima. Cordero cita Werner Tübke, ma forse nobilita troppo il quadro politico. Che piuttosto fa pensare a Benito Jacovitti. Se Berlusconi, sulla scena, campeggia, chi gli orbita intorno appare altrettanto a proprio agio. Fausto Bertinotti, per esempio. Eccolo brillare nel teatrino delle stelle fisse: «[…] i rifondatori comunisti hanno un pilota primesautier, innamorato della scena, facile parlatore in erre moscia nei salotti televisivi». Una pietra tombale, più che il ritratto di un narcisista: quei «birignao nel salotto televisivo» gli e ci costeranno cari. 68 GENNARO CARILLO Ma è nel ritratto di D’Alema che Cordero si supera. L’idiosincrasia partorisce grande letteratura: “Le style c’est l’homme: eccolo, Mercurio onnipresente […]. L’insonne conversa, predica, disserta, detta, recita, scrive, sfila, allude, sogghigna, ammonisce, gioca d’occhi e sopracciglia, sta al timone: s’espone ai fornelli col grembiule, intento al risotto; modula sintagmi eleganti; tiene banco su temi planetari commiserando i poveri diavoli il cui orizzonte sta nel cortile; voce e gesto taglienti, dispensa mille interviste dove la minima battuta è testo marmoreo da scolpire; frequenta anche i santi o almeno, san José Maria Escrivá, fondatore dell’Opus Dei, incline a due dittatori poco raccomandabili quali Franco e Pinochet. Oltre che «uomo di mare», lo sappiamo «appassionato d’archivi»: vive «nelle antiche carte»; ha letto tutto l’erede d’Eugène Sue; in letteratura contemporanea «sono uno dei conoscitori più importanti d’Italia» […]. Insomma, non soffre d’autodisistima, né passa giorno senza un’epifania, premurosamente ripercossa dai media: il coro dei finti indipendenti l’acclama riformista par excellence; il sire d’Arcore se lo augura papa d’oppositori dialoganti. Che ispiri poca simpatia, l’ammettono anche i caudatari, ma qui non interessano appeal, look, portamento. La questione è se l’uomo, visto quale somma d’atti compiuti o pronosticabili, venga utile ai vertici della partita. Nella mia sommessa opinione, no. Lo vedo piuttosto cinico, egocrate autocontemplatore, cannibale, perfido, garrulo-fatuo; e se qualcuno crede d’avere letto un rosario d’ingiurie querelabili, sbaglia; è lessico tecnico, nomenclatura d’antropologia politica. Cominciamo dall’ultimo predicato: solo un gaffeur poteva allestire la commedia bicamerale, convinto d’avere catturato B.; andava a scuola dall’ex piduista veteroberlusconiano M. Costanzo. Sopraffino però nelle guerre intestine e quanto sia cannibale, lo dicono i teschi. In amor sui vale B. Se vede un palco, vi monta: la politica militante non è filantropia ascetica ma lui straripa dal consueto habitus […]. Nessuno l’ha visto al naturale, se ne ha uno. S’è sciolto in vorticosi manierismi vocali, mimici, gestuali. […] Non accorda mai risposte congrue, però batte le frasi sull’incudine: plana au-dessus de la mêlée; agli avversari concede mezzi sorrisi-smorfia, almeno fossero della sua taglia. B. è attore da music-hall, con varie cadute nell’avanspettacolo sbracato. Lui filodrammatico contegnoso, tra Niccodemi e Beautiful […].” Teniamo presente quell’«egocrate autocontemplatore» di Cordero. Diventa la chiave per comprendere un altro affondo anti-dalemiano. È un D’Alema decaduto, però, quello su cui infierisce Claudio Giunta. Un D’Alema costretto a ripetersi. A interpretare il ruolo che lo ha reso famoso. Più che dalle parti di King Lear, siamo da quelle di Gigi Baggini (Ugo Tognazzi), in Io la conoscevo bene di Pietrangeli: “[…] presentando il movimento ConSenso davanti alla fronda PD, D’Alema non ha resistito. Ha fatto il classico, mica l’alberghiero, e poi quattro anni di Scuola Normale, è un capitale simbolico che bisogna spendere. Così ha detto: «…come 69 “In ira e malevolenza”: di qualche idiosincrasia comica avrebbe scritto un grande poeta, Quandoquidem dòrmitat Homerus. Mi sfogo qui, perché nel Partito Democratico non si può più parlare in latino». Ilarità, applausi.” Il problema non è che sono tre parole e due errori, dato che il verso di Orazio (il «grande poeta») dice quandoque, ‘e quando, anche quando’, non quandoquidem, e in dormitat la i è lunga, quindi si pronuncia dormìtat, con l’accento sulla i, non sulla o. Il problema è proprio il latino, l’impiego minatorio del latino, l’idea della cultura non come silenzioso possesso ma come distinzione, da far valere nel confronto con chi quella distinzione non ce l’ha, perché non ha fatto le scuole giuste o ha colpevolmente liquidato l’umanesimo perché occupato a inseguire idoli più effimeri (il mercato, internet, il pop). Il fatto che D’Alema ignori il latino aggiunge solo un tratto patetico a questo snobismo: come lamentarsi, ruttando, del dilagare della maleducazione (C. Giunta, E se non fosse la buona battaglia?, Bologna, il Mulino 2017, p. 280). Non serve scomodare la Verneinung freudiana per capire che, invece, il problema sono proprio gli errori di latino (ed è inutile aggiungere che «Non serve scomodare la Verneinung freudiana» è, a sua volta, un esempio classico di Verneinung). Altrimenti non si spiegherebbe perché Giunta li corregga con implacabilità professorale e la deplorazione sacrosanta dell’uso intimidatorio del latino passi in secondo piano, data l’albagia che l’errante conserva anche nella sua fase di declino. Questo D’Alema prigioniero del personaggio gli offre un’occasione troppo ghiotta per lasciarsela sfuggire. E il censore lo morde, inscenando un contrappasso che sta tutto in quella sentenza senz’appello: «D’Alema ignor(a) il latino». Una ferita mortale, per un egocrate, la cui supponenza intellettuale arma letteralmente il critico, innescando il pedagogo spietato che è in lui. Il pedagogo, non il pedagogista, per carità: ché verso il pedagogismo – e in particolare verso Franco Frabboni: un’autorità – l’idiosincrasia di Giunta tocca vertici sublimi e liberatorii (per chi è costretto a fare i conti con la neolingua della vittima). Al confronto, quella a D’Alema è una carezza. Il paragone col rutto, infine, è una trovata degna di quel moralista classico che fu Paolo Villaggio, ascritto da Giunta a un pantheon del comico di cui fanno parte anche Rocco Tanica e lo Sgargabonzi. Torniamo ad Aristofane, per concludere. Ci riportano a lui i caratteristi che hanno da tempo saturato i luoghi di produzione del discorso pubblico, la compagnia di giro saltabeccante di studio in studio, i pensosi, i pensanti, le seriose autorità intellettuali di una nazione poco seria. Ci riportano a lui le maîtresses che li orchestrano, che se li disputano e li giocano con sapienza combinatoria, titillandone la corda narcissica. Ci vorrebbe un Aristofane, oppure, non dico un Proust, ma almeno un Parini o un Alan Bennett, «un perfido talento mimetico» (A. Arbasino, Ritratti e immagini, Milano, Adelphi 2016, p. 54) che sappia restituircela, questa guitteria, debitamente deformata ma credibile. L’irrisione dell’autorità intellettuale è un motivo ricorrente nelle commedie dell’archaia e in particolare nel corpus di Aristofane. Come ha notato Alan H. 70 GENNARO CARILLO Sommerstein, c’è un solo modo per fugare il rischio di diventare komo(i)doumenos (= oggetto di deprecazione comica) sulla scena: condurre una vita la più oscura possibile, astenersi dallo spiccare sui molti, dissimulare le deroghe eventuali al senso comune. C’è dunque un fondo retrivo, se non reazionario, che incattivisce la commedia, più censoria che censurata. Non è un caso che il catalogo dei komo(i)doumenoi aristofaneschi stilato da Sommerstein comprenda, tra gli altri, filosofi/sofisti (il Socrate di Aristofane è un sophistes, financo con tic gorgiani, l’opposto di quel che sarà il Socrate platonico), i novissimi della tragedia (Euripide in testa, bollato come troppo effettistico, fumista, compiaciuto del proprio immoralismo estremo), i demagoghi tanto violenti quanto persuasivi (Cleone, che intenterà un processo contro il comico), le drag queen più in vista (Clistene, solo omonimo del grande riformatore democratico). Tuttavia, davanti all’autorità, specie quella politica, il poeta comico fa sfoggio di parrhesia estrema: rivendica una franchezza di parola, un discorso-che-dicetutto, senza autocensure (questo il senso etimologico di parrhesia) e incurante dei pericoli che ne derivano. Il presupposto di questa libertà (che secondo Bachtin intrattiene non pochi rapporti con le licenze del carnevale) riposa su un assunto preciso: «anche la commedia (la trygo(i)idia, il canto del vino nuovo: si noti la polarità per opposizione con la tragedia) conosce (oide) il giusto (to…dikaion)» (Acarnesi, 500). Sono parole che Diceopoli, eroe comico degli Acarnesi, indirizza direttamente al pubblico, con una di quelle rotture dell’illusione drammatica che costituiscono una peculiarità esclusiva del comico. Nel quale è evidente l’istanza paideutica: il comico sa e non ha remore a esporre in pubblico argomenti deina (tremendi) ma al tempo stesso dikaia (giusti): Acarnesi, 501. L’arma con cui il comico disinnesca il potere, mettendolo di fronte al proprio nulla o almeno alla propria miseria, resta l’irrisione. Un’irrisione fondata sul disconoscimento radicale dell’autorità. L’esempio più perspicuo è offerto ancora una volta dagli Acarnesi, con l’agone comico tra l’eroe ‘pacifista’, Diceopoli (nomen omen: colui che rende giusta la polis), e l’antagonistes, il bellicista Lamaco. Agone linguistico, prima ancora che retorico: all’alto tonitruante e borioso del registro di Lamaco si contrappone il basso corporeo di Diceopoli, il cui odio verso il conflitto con i Lacedemoni non ha alcuna matrice ideologica ma si fonda sulla constatazione amara dello scadimento della qualità della vita materiale in tempo di guerra. Mangiare poco, mangiare male, sognarsi le anguille (a causa dell’embargo voluto da Pericle contro Megara), bere poco e male (vino spezzato con troppa acqua), scopare pochissimo: la consapevolezza di queste perdite gravi, non altre considerazioni, rende sommamente indesiderabile la guerra e insopportabile la retorica bellicistica. L’agone tra Diceopoli e Lamaco è talmente efficace, sotto il profilo comico, da diventare un modello per tutte le irrisioni a venire. Addirittura Diceopoli usa una penna del cimiero di Lamaco per indursi a vomitare. Qualcosa di altrettanto 71 “In ira e malevolenza”: di qualche idiosincrasia comica improprio e spiazzante fa Antonio Scannagatti (Totò) con il fazzoletto imprestatogli dall’onorevole Cosimo Trombetta (Mario Castellani) nell’immortale episodio del vagone-letto in Totò a colori di Steno, con Isa Barzizza nel ruolo di improbabile eppure sensuosa dark lady. Sono gesti che scoronano e scornano il nemico comico, detronizzandolo, svuotandone dall’interno la pienezza di sé, anzi rovesciandogli contro la sua stessa boria e la propensione al ‘tragicismo’ (lemma caro a Petrolini: versione iperbolica e contraffatta del tragico, assai pertinente connotazione del genus italicum). Diceopoli vs Lamaco e Scannagatti vs Trombetta si corrispondono a distanza con una puntualità che appare evidente. Il che farebbe pensare a una ‘funzione’ Aristofane da cui dipenda tutto il comico politico a venire. O il comico sic et simpliciter. Basti riandare al Fortunello di Petrolini, il quale, in Racconto idiota, inanella cinque epiteti con suffisso –ico che riproducono la congeries di epiteti in –ikos (addirittura otto) con cui Aristofane sfotteva la neolingua sofistica (Cavalieri, 1378-1381): “Sono: Omerico, Isterico Generico Chimerico Clisterico.” Chioserei che Petrolini fu amico di Ettore Romagnoli, il quale peraltro ne dettò la lapide commemorativa per il Teatro Quirino. Romagnoli pubblicò nel 1909 per l’editore Bocca (non il cognato dell’onorevole Trombetta…) la traduzione delle Commedie di Aristofane. 72 73 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 73-76 IL VIRUS E LA CARPA A SPECCHIO SAVERIO FATTORI Padania sud-est, Ottobre 2004 Da dodici giorni non ho alcun contatto con M.O. Computer infestato da virus. Allegati alle mail in Word pad che si aprono sempre più lentamente, poi via via sempre più inaccessibili. Sono ai ferri corti con il negozio di assistenza tecnica. Ho minacciato azioni legali. Hanno sradicato le metastasi virulente e sostituito il sistema operativo, ma si sono permessi di svuotare tutto, tutti i file, le interiora del disco rigido. E comunque non riescono a capire dove si annidi il problema. I due tecnici si guardano in faccia, le loro ipotesi sembrano ragionevoli ma io sono sempre più nervoso. Li seguo gravido di aspettative, neanche avessi un parente al primo ciclo di chemio. Pensano abbia una tresca amorosa che viaggia via mail, pensano che sia una piccola testa di cazzo dedita alle chat line. Interpretano così la 74 SAVERIO FATTORI mia ansia probabilmente. Sto al gioco. Non ho voglia di raccontare nel nostro carteggio infinito, della follia della nostra falsa biografia autorizzata, di come tutto il materiale sia scivolato in qualche buco di culo di antimateria di questo imbroglio tecnologico. Nemmeno M.O. riesce a leggere i documenti, così almeno mi giura al telefono, ma alterna le versioni, si contraddice, a volte dice che addirittura non ha ricevuto nulla (sto dunque definitivamente impazzendo? O è questo che vorrebbe farmi credere?). Gli chiedo di mandarmi una mail di prova. Il ragazzo con barba e forfora ha modi pacati e scandisce bene le parole. Non ho dimestichezza con i termini tecnici in generale, ho molte difficoltà nel gestire problemi e a compiere azioni risolutrici, e ora che sono in panico non riesco a concentrarmi, mi limito a biascicare bestemmie. Il ragazzo con la forfora anche nella barba mi deve scrivere STRUMENTI, ACCOUNT, PROPRIETA’, POP 3, SMPT, APPLICA, OK, su un post it giallo e mi suggerisce di mandare una mail a me stesso. Così, per prova. Devastante, ma a lui sembra assolutamente normale. È entrato in negozio un tipo sulla trentina completamente glabro e di una bruttezza rara. Sgradevoli macchie scendono lungo il collo. Tiene in mano una videocassetta sulla pesca alla carpa dal titolo It’s my life, credo voglia riversarla su dvd o su una chiavetta usb. Trovo tutto questo molto irritante. Il tecnico non può distrarsi per questa cosa orrenda, il mio problema è vitale. Io vengo prima di tutto. Anche la carpa in copertina è glabra. È una carpa a specchio di minimo venti chili. È un animale repellente che ci ciba di mais e nei casi più rari anche di larve di mosca carnaria. Non mi viene in mente nulla di più ripugnante. Il pescatore maculato deve uscire entro trenta secondi o sfascio tutto. Il mio pc non riesce più ad aprire il documento nominato Chi ha ucciso i Talk Talk? Devo prendere atto di questa evidenza, mentre l’ordigno scricchiola una clessidra appare al centro dello schermo aumentando il mio sconforto. Sono rimasto seduto immobile a fissare le prevedibili evoluzioni di questa piccola inutile clessidra credo per ore, molte ore. Come ipnotizzato. Non saprei dire per quante ore, giorni, mesi, anni. Ho pianto. Quasi il pianto per una volta avesse funzionato come una preghiera laica, il documento mi è apparso, quasi un sogno, ma scorrendo le pagine mi rendo conto che molte parti risultano illeggibili. File interminabili di lettere e numeri in ordine casuale si alternano a frasi superstiti. Il disco rigido emette scricchiolii strozzati sempre più sofferti. E la clessidra è sempre lì, al centro. Sto appiccicato al telefono, sudo acido, le mie frasi escono sconnesse, imprecise, il tono a volte è violento, poi supplichevole, il tecnico all’altro capo del filo dice che ci sono stati problemi con la rete Telecom nella nostra zona, perfino un idiota come me può capire che mente, prende tempo, ho la voce acutizzata dall’isteria, in chiusura di chiamata sbatto giù il telefono fino a crepare la plastica lungo tutta la lunghezza della cornetta. 75 Il virus e la carpa allo specchio Sono le 11.19 di sabato 20 ottobre quando devo rassegnarmi al fatto che il documento in word pad è pressoché distrutto, le frasi superstiti galleggiano misteriose tra aaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaaa££££££££££££££££££££££££££££££££QQ QQQQQQQQParti male ragazzo????????????????????555555555555555555pppppppppppppppppp pppppppppppppppppppppppppppppppppIl gioco delle facili seduzioni&&&&&&&&&&&&&&&&&&&&I ricordi comuni di una generazione mi mettono lo schifo addossoMMMMMi ricordo di Atlas Ufo RobotMi ricordo i nomi Actarus e Goldrake Mi ricordo la casetta di Barbie che avevo costruito per mia sorella Mi ricordo Carosello Mi ricordo It’s my life dei Talk TalkùùùùùùùùùùChe ci faccio con minimi comuni multipli del genere Misere cazzate rielaborate da cervelli in decomposizione senileççççççççççççççççççççççç$$$$$$$$$$$Che fine hanno fatto i Talk Talk? Perché non hanno combinato più un cazzo dopo Such a shame0000================================================ =====================Le solite storie di eccessi&drogheLe solite disarmonie post successo)))))))))))))(((((((((((((((Fragili ali spezzate LA CONFERMA DELLA FRAGILITA’ è LA NON SOPRAVVIVENZA O NE CONOSCETE UNA PIU? NETTA?òòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòòtONDELLI, ANCORA LUI, sempre così ingombranteeeeeeeeeeeeNella sua grandezza la sua padanità cosmica da Correggio mi mette sempre di cattivo umore^^^^^^^^^Non ho intenzione di incontrare M.O. in futuro///////////////////Per me tornare sul luogo del delitto Piano ammezzato Errore666L’errore più geniale Afterhours)))))))) Io non ho mai trovato collocazione&Fuori tempo&Fuori posto Ovunque Disallineato Disarmonico Scaleno33333333£££££££££££££££££££ììììììììììì+++++++++++è la mia forza la mia malattia è la mia stessa forza ma sono carne in un reticolo di nervi e un mare di sangueeeeeeeeeeeeM.O. arrivi a Bologna nel 197777777777777777777777????????????????Dov’eri il 12 marzo 1977 Confessa ne avevi i coglioni pieni di molotov e radicalismi politici___________________________________________________________ ___________________________________________________________Il resto è sparito. Riconosco che il virus ha lavorato seguendo una sua idea di performance legata alla scrittura, una forma d’arte visiva. Dai sintomi è come se non riconoscesse il formato del carattere del documento. Adesso uscirò da questa casa, mi chiuderò la porta alle spalle, scenderò le scale, avvierò l’auto lungo il vialetto e arriverò al negozio in tre minuti secchi. Quei coglioni dovranno spiegarmi cosa cazzo sta succedendo. Non attendo il mio turno, mi sono fatto una lista delle cose che non vanno e devono capire quanto possa essere pericoloso e non pagherò nulla per i 76 SAVERIO FATTORI programmi che mi hanno installato, il virus non è stato estirpato, si riproduce, riproduce sé stesso. Il tecnico pare dimagrito dall’ultima volta, il rimorso forse l’ammorba, ma è convincente, dice che non c’è bisogno che paghi subito per il loro lavoro, dice che il mio pc è solo un po’ lento e che verrà a fare un salto a casa mia per alcune verifiche. Appena troverà tempo. Il negozio è affollatissimo. I virus di ultima generazione sono subdoli e devastanti, ma gli ultimi aggiornamenti di antivirus che mi hanno installato avrebbero dovuto tutelarmi. Il tipo blocca lo sguardo gelido nella mia direzione poi fa la domanda che tiene tra la lingua e i denti da alcuni giorni: “Ma in quali siti vai a curiosare? È pericoloso navigare a vista.” Un paio di avventori alle mie spalle si fanno scappare due sottili risolini. Dovrei davvero squartarvi, dovrei rendervi simili a enormi, schifose, lucide, carpe a specchio. “No, niente di particolare, niente siti strani, senti non fa di fare il cittadini indignato, ma col computer ci lavoro, ok, non ci mangio, voglio dire, non è proprio un lavoro, non ci campo, vabbè, lasciamo perdere, ma scrivo cose poi mando aggiornamenti quotidiani a una persona, cose che la riguardano, insomma ci rimpalliamo i file modificati e ora dice che non riesce ad aprire i miei allegati, il suo antivirus lo avverte che sono potenzialmente pericolosi e in effetti nemmeno io riesco a ritrovarli integri. È un grosso problema, c’è il lavoro di mesi dietro.” Il ragazzo con la barba e la forfora anche nella barba si gratta la testa, nel suo cervello pigro sta comunque nascendo una larva di pensiero. “E gli altri documenti? E con altri indirizzi di posta ha problemi?” “Ho problemi solo su questi documenti e la posta elettronica funziona.” “E non ha salvato nulla…” “No. Ottanta fottute cartelle. Stavo dando un senso ad appunti che non avevano nessun senso logico.” “Noi crediamo che il tuo pc sia a posto.” “A posto un cazzo.” “E se fosse la persona cui mandi questi documenti ad avere infettato il file?” I due alle mie spalle emettono uno strano rumore all’unisono. È il risucchio della carpa a specchio quando nei mesi estivi di caldo torrido boccheggia in superficie elemosinando ossigeno. Estrapolazione da Saverio Fattori, Chi ha ucciso i Talk Talk?, Alberto Gaffi Editore, Roma, 2006. Photo by Edwin Hooper on Unsplash 77 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 77-83 CUCKOLD LOCKDOWN PEE GEE DANIEL Era una domenica. Alda mi fa: «Vado al concerto dei Diaframma.» «Ok» rispondo io. Tanto ci ero abituato. C’era sempre qualche misterioso concerto a cui andare o cose del genere. La novità è che, per una volta, dopo che ho messo a letto la bambina, decido di controllare sul motore di ricerca, così per sfizio. Risultato: non c'è alcun concerto dei Diaframma in giro. 78 PEE GEE DANIEL Glielo scrivo per conferma: “Sei al concerto dei Diaframma?”. Lei: “Sì sì.” E io, con la massima nonchalance: “Guarda che non c'è alcun concerto dei Diaframma stasera, ho controllato.” Silenzio imbarazzato. Alla fine una risposta arriva: “Eh no, ma non sono i Diaframma, è solo il cantante, Fiumani.” Controllo. Nessun concerto di Fiumani in giro. Glielo scrivo. Risposta: “Non so cosa dirti, se non lo hanno scritto non è colpa mia.” Chiedo: “Ma dove sei?”. Silenzio imbarazzato. “Domanda difficile?” la incalzo, dopo un po’. Passa ancora qualche minuto prima che risponda: “Monza.” Controllo: non c'è alcun concerto a Monza, quella sera. Manco di una tribute band degli Inti-Illimani, tanto per dire. Glielo comunico. Risposta: “Non so cosa dirti, se non c'è scritto.” Domando: “In che locale sei?”. Silenzio imbarazzato. Dopo varie sollecitazioni: “Al Noir qualche cosa, ma ora sto tornando.” Ma come? Non eri al concerto tre domande fa? Comunque controllo. In zona c'è un solo locale con quel nome, che tra l'altro è un ristorante. Strano. Controllo. Non annunciano alcun concerto per la domenica. Non fanno concerti, in generale. È più un posto per coppiette in cerca di intimità, a giudicare dalle foto... Glielo faccio presente. Stessa risposta di prima. Scrivo al locale, chiedendo se ci fosse stato un concerto di Fiumani o dei Diaframma. Mi rispondono di no. Glielo faccio presente. Risponde: “Non so cosa dirti. Ero con degli amici di Asti, era un concerto a inviti. Un evento riservato.” “Così riservato che quelli del locale manco lo sapevano?!”. Va beh. Scrivo direttamente ai Diaframma, attraverso la pagina Facebook, e chiedo se loro o Fiumani abbiano suonato in zona Monza domenica. Mi rispondono di no. Glielo faccio presente. Risposta piccata: “Oh, ma cosa stai dicendo?”. Fu allora che finalmente capii cosa doveva ricordarsi, in realtà, quando ha scritto sul calendario diaframma... Va beh, poco male, me l’aspettavo. Era sempre andata così: di quando in quando capitava che sparisse per serate con amici che si prolungavano anche sino alle quattro di notte, viaggi al mare o in qualche parco acquatico in compagnia di qualche persona particolarmente cara, e mai meglio precisata, concertini fuori provincia, aperitivi o caffè consumati chissà con chi e chissà dove, e via dicendo. Ci avevo fatto il callo. Non che rientri nella categoria “cornuti e contenti”: uno di quei pervertiti che se sospettano che la partner vada con qualcun altro, anziché 79 Cuckold lockdown risentirsi si eccitano. Semplicemente, ci avevo messo una pietra sopra. Per me con Alda era finita da anni, mi focalizzavo sulle esigenze di nostra figlia e sul trantran quotidiano, nell’attesa dell’occasione in cui, prima o poi, la avrei presa in castagna, che era prontamente arrivata. Una sensazione di euforia mi percorse quando, con un paio di facili mosse, riuscii finalmente a sgamarla in maniera inequivocabile, per quanto lei, a sua difesa, non fosse capace di fare altro di negare l’evidenza. Era la scuola di sua madre quella: gli uomini sono tutti stupidi, le aveva insegnato sin da piccina, e lei lo aveva preso per oro colato. Era un punto di non ritorno: ormai non potevo più abbozzare, avevo le prove, per quanto indiziarie. Tanto bastava. Mi rivolsi immediatamente a un legale, finché il pasticcio era ancora caldo. Googlando, trovai un’avvocatessa della mia città, una scelta a caso o poco più. A breve presi un appuntamento nel suo studio, quasi in centro. Concordammo le linee principali per la separazione. Eravamo già sul piede di guerra quando… scatta la quarantena! Già si potevano cogliere i primi segnali del destino verso cui la nazione stava precipitando dal fatto che quando porsi la mano all’avvocatessa lei mi fece la finta, indicandomi con il pollice dove fosse l’uscita, inoltre, per l’intera durata del colloquio mi aveva puntato nel centro del petto la punta di un ombrello che assicurava della lunghezza di un metro abbondante. Non me ne curai più di tanto, avevo altro a cui pensare. Ci scambiammo una manciata di mail nei giorni a venire, per tenerci reciprocamente aggiornati. Finché, a neanche una settimana da quell’iniziale contatto, si entrò nel pieno dei provvedimenti contro il Coronavirus. Da cui conseguiva che i tribunali sarebbero rimasti chiusi sine die, che quello che avevo finalmente trovato il coraggio di fare era stato sospeso chissà per quanto tempo e che non si poteva più mettere il naso fuori dalle proprie abitazioni. Tradotto: me ne sarei dovuto rimanere intampato a casa mia in una promiscuità continuativa con quella da cui avrei voluto invece distanziarmi il più possibile. Un tempismo eccezionale, non c’è che dire. Una delle ultime mail inoltratemi dalla leguleia, a mo’ di messaggio infilato dentro una bottiglia gettata tra i flutti prima di lasciarmi solo al mio destino, mi intimava: “Mi raccomando, non abbandoni il tetto coniugale prima della sentenza di un giudice. Resista!”. E così, giorno per giorno, settimana dopo settimana, mese dopo mese mi ci ritrovo a convivere 24/7. La peggiore compagnia che mi potessi scegliere in una contingenza come questa, considerando che, tra le altre cose, Alda è una cacasotto a livelli olimpionici. Già normalmente, quando non c’è la minima emergenza, lei vive costantemente sul chi-va-là. Ha sempre avuto una paura fregata di tutto ciò che desse anche solo lontanamente qualche segno di vita: ladri, malattie, extracomunitari, altre donne che intravedesse appena appena più carine di lei. Uno 80 PEE GEE DANIEL snervante ricettacolo di paranoie e ipocondrie irrazionali. Per la sicurezza domestica ha preteso sbarre alle finestre (nonostante abitassimo all’ottavo piano), porta-blindata, sistema antifurto, serratura antiscasso, catenaccio. Ricordo che, mentre il fabbro era ancora al lavoro, le domandai se il prossimo passo sarebbe stata una buca riempita d’acqua e piranha proprio davanti all’uscio. Ho sempre impressa in mente quella volta che in autostrada si mise a strillare per la mia guida, malgrado rispettassi con largo margine i limiti di velocità. Mi rimproverava perché stavo superando come un pazzo una decina di autoveicoli tutti insieme. Mi voltai a guardare e scoprii trattarsi di una bisarca carica di nuovi modelli caricati per qualche autosalone. L’aspetto peggiore è che non riconosce assolutamente questa sua inclinazione, vanificando così ogni possibilità di guarigione. Anzi, tende a offendersi, se glielo si fa presente, difendendo strenuamente la propria obiettività di giudizio (con forza perlomeno equipollente a quella impiegata per ribadire la propria specchiata fedeltà). Potete immaginare come abbia preso la minaccia Covid-19: qualcosa di potenzialmente letale e allo stesso tempo invisibile, dunque una fonte d’angoscia ancora maggiore dei semplici rapinatori a mano armata o degli incidenti stradali. Qualcosa di paragonabile a quei minuscoli microbi che furono capaci di vincere i giganteschi alieni supertecnologici nel finale di La guerra dei mondi. Finora non ha fatto che subissarmi di notizie sanitarie spesso contraddittorie carpite qua e là, rapsodicamente, da siti, giornali, trasmissioni spesso tutt’altro che attendibili, ma che hanno questo di buono dalla loro parte: riuscire a fomentare le più intime paure dell’utente. Benzina a cento ottani gettata sul fuoco. In fondo non è poi questo a cui, in segreto, aspirano i paranoidi? Farsela sotto sino a riempirsi le brache? Ho sempre sospettato che sia una forma di masochismo sotto mentite spoglie la loro. Ci godono nell’apprendere brutte notizie, in realtà. Altrimenti non si spiegherebbe il perché, anche quando tutto sembra procedere per il verso giusto, si vadano a cercare lo spauracchio ad hoc, rimestando tra le news e le dicerie più improbabili, pur di sentirsi cullati da quel senso di impotenza di fronte all’ineluttabile, che per loro sembra essere la fonte del massimo, quanto perverso, piacere (seppure si guardino bene dal confessarlo apertamente). Quanto a lei, è stata ligia all’ordinanza, restandosene diligentemente in casa, notte e giorno. Per andare anche solo sul balcone mancava poco che si intabarrasse dentro uno scafandro da apicultore. La sua tendenza a rendere tragico quel ch’è già di per sé sufficientemente drammatico l’aveva portata a credere, supportata non si capiva bene da quale indiscrezione ministeriale, che il virus viaggiasse liberamente attraverso l’aria, come le particelle d’ossigeno, e fosse quindi continuamente respirabile se non si fossero usate le debite accortezze, come quella di non respirare a oltranza – suppongo -. A questo si aggiunga che anche l’acqua del rubinetto, a detta sua, poteva essere satura di Coronavirus – ho preferito non indagare sui meccanismi virologici che lo avrebbero consentito -. Ogni doccia, ogni risciacquo, 81 Cuckold lockdown ogni gargarismo avrebbero potuto rivelarsi letali. A sentire lei, il Covid19 è diventata la componente aggiuntiva alla formula chimica classica dell’acqua corrente: H2O-SARS-CoV-2. L’igiene personale sembra avere ormai assunto i contorni di un’emozionante roulette russa. Ogni volta che ti lavi i denti potrebbe essere l’ultima. La gran strizza, che rappresenta di lei l’aspetto dominante, l’ha avuta vinta su ogni altra sua peculiarità, tant’è vero che nel corso della Fase1, al posto delle sue consuete sortite serali, si limitava tutt’al più a trincerarsi in camera da letto per ore con la scusa di certe telefonate, anche in questo caso mai meglio specificate, seguite da misteriosi bidè, a cui si apprestava non appena riemergesse da quelle chiamate in solitaria. Appena è scoccata la Fase2, invece, munita di una semplice mascherina da elettrauto, pedibus calcantibus o inforcando il suo vecchio motorino, ha ricominciato ad assentarsi delle ore per destinazione vaga, se non del tutto ignota. Dopo settimane di deliranti psicosi, le è poi bastata una mezza rassicurazione ministeriale perché le sue smanie extra-domestiche tornassero a briglia sciolte. Meglio così, non importa, ovunque vada, sempre meglio che averla tra i piedi. Io mi godo la mia piccola Adele, e tanto basta. Infatti, se la convivenza sotto emergenza pandemica con un’ansiogena fifona del genere non fosse già abbastanza stressante di per sé, a questo si accompagna una crescente intolleranza da parte mia verso ogni suo tic comportamentale, anche il più innocuo. Quando segue le patetiche dirette Instagram di Vincenzo Menga, il suo cantante preferito, con il volume sparato a palla, squittendo allegra a ogni battutina di quel supremo coglione, quando pilucca il cibo a punta di forchetta come una scimmia inappetente, quando commenta il film che sto guardando o il libro che sto leggendo con aria di sufficienza. Mi infastidiscono il suo tono di voce, i suoi difetti di pronuncia, la tinta dello smalto per unghie. Addirittura il modo in cui dice il mio nome, “Giulio!”, facendo geminare tra le labbra la palatale iniziale e insistendo sulla l, che pronuncia come il gruppo gl. Spinto dal risentimento, ho iniziato a provare intolleranza per molti di quegli aspetti che un tempo trovavo caratteristici. Del resto è così che funziona la trappola dell’attrazione. La natura ti frega, doppiamente: da impareggiabile prestigiatrice qual è, ti fa prendere per gradevolezze quelli che a lungo andare risulteranno essere ai tuoi occhi difetti o incompatibilità, e tutto questo a meri fini riproduttivi, che a loro volta ti imbonisce sotto la pomposa quanto evanescente dicitura di “amore”. Quel che davvero le sficchia è l’imperitura preservazione della specie, in barba ai sentimenti di un povero tapino, offuscato nelle proprie scelte da motivazioni zoppicanti e precipitose. Quando l’amorosa ti incastra definitivamente, allora Maya cala il velo. Ricordo ancora, seppur vaghissimamente, come appartenente a una diversa e remota temperie storica, quando, i primi tempi, la ammiravo incantato e non facevo 82 PEE GEE DANIEL che ripetermi: “Che fortunato che sono! Ma come fa una così a voler uscire con uno come me?”. Ora le cose si sono nettamente ribaltate e quando la osservo non faccio chiedermi: “Ma come cazzo ho fatto a uscire con questa?”. Se un tempo rimanevo ammirato da quei boccoli che le ricadevano sulle spalle e le circondavano la nuca come un cesto di molle, ora, che i suoi capelli me li ritrovo ovunque per casa, anche dentro le mutande, la sua capigliatura appare ai miei occhi più che altro come una pecora morta poggiatale sopra la testa, in stile Davy Crockett. Quel suo sguardo languido, in cui allora rischiavo tutte le volte di annegare, ora mi ricorda gli occhi spenti di un pesce bollito. Avevo ragione in quel periodo o in questo? Non credo sia poi così rilevante. È lo stato d’animo a generare le interpretazioni. “La amo!” proclamiamo a viva voce, all’inizio della relazione. “Amo! Amo! Amo!”. E infatti quello è: un amo. Una volta che ho abboccato, il resto è venuto da sé: gravidanza, frutto dell’amore, responsabilità. E anche nel momento in cui, grazie a una sfrontatezza tutta nuova, legittimata dalla consapevolezza di avermi ormai legato a filo doppio, tale e quale a un salame, ha scoperto le carte, mostrando di che pasta fosse fatta, quel che non sopportavo di lei me lo sono fatto andare bene, o meglio, l’ho ignorato, tirando avanti, un po’ per il quieto vivere, un po’ in nome di esigenze superiori, o che ci raccontiamo come tali. Del resto lo sapete, no, qual è l’anagramma di “il peggiore dei mali”? “È di pigliare moglie”. Ma è stata questa convivenza forzosa, che ha visto crescere geometricamente le ore da condividere gomito a gomito, spalla a spalla, fiato a fiato, parole su parole, proprio quando avrei fatto carte false per separare le nostre strade, a portare la mia insofferenza a livelli nevrastenici. Fiumi di parole in tv, sui giornali, per radio per quanto concerne uomini possessivi e violenti che non vogliono lasciare libere di andarsene le proprie partner, ma di un disgraziato che invece pagherebbe per vederla smammare e non ce la fa non si interessa mai nessuno? Di tutte le cose che mi tocca sopportare, quella che mi dà poi particolarmente sui nervi è come ami denigrare il mio lavoro. Anche se ci dovrei aver fatto il callo, visto che si tratta di una vecchia consuetudine “Scrivi solo cazzate” è la critica che esce più ricorrente da quella sua bocca tumida, ogni volta che mi nego perché impegnato a finire un pezzo per qualche rivista o a chiudere un capitolo che mi stia particolarmente a cuore. Dice che butto via il mio tempo, proprio lei che nella vita ha fatto giusto un tirocinio al fulmicotone e un impiego temporaneo di un paio di mesi al massimo, entrambi coronati dalle continue lamentele dei rispettivi superiori per la sua scarsa resa lavorativa. C’è però una cosa che le devo riconoscere: da che siamo rinchiusi dentro casa ha cominciato a darsi da fare con le pulizie. Vetri, fornelli, sanitari, pavimenti. È 83 Cuckold lockdown un continuo. Che, fino a poco tempo fa, se passava l’aspirapolvere alle feste comandate era già una conquista. Sarà per fare un po’ di movimento? Sarà per passare i lunghi tempi morti? Sarà per sanificare l’abitazione, rispondendo alle solite fisime che sempre la accompagnano? Mah, secondo me invece deve aver equivocato, quella volta che presumo sua mamma le abbia suggerito: “Sai che devi fare perché non se la squagli? Scopa!”. 84 85 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 85-88 PANDEMIA, DISTOPIA, IDIOSINCRASIA JURI CAMBARAU Alle 18:30 la spiaggia era deserta. Il vento di maggio alzava debolmente i granelli di sabbia superficiali. Era l’ora che lei preferiva. Prese il telo e lo adagiò ad appena un metro dal bagnasciuga, poco prima che finisse la sabbia asciutta, così da poterci infilare i piedi nudi fino alle caviglie. Distolse per un attimo lo sguardo dall’orizzonte e si voltò indietro per guardare l’inclinazione della prima luce del tramonto infrangersi addosso ai pochi recinti di plexiglass dello stabilimento balneare ormai opacizzati e rimasti ancora in piedi, al centro dei quali un paio di anni fa si ergevano ombrelloni a spicchi gialli e arancioni. Ricordò con tristezza, dentro all’accenno di un sorriso, quel goffo e ostinato tentativo che l’uomo utilizzò 86 JURI CAMBARAU per illudersi di poter dare una parvenza di normalità durante la prima ondata della pandemia. Ogni volta che qualche raffica di vento rinforzava da est, la donna si tirava gli occhiali da sole sulla testa per scrutare meglio l’orizzonte, poi, quando il vento sembrava rabbonirsi, appoggiava di nuovo gli occhiali sul naso e tornava a distendersi sul suo telo verde acqua. Aveva con se due libri, uno era il suo preferito, Le memorie di Adriano e l’altro era dentro la sua borsa, avvolto in una camicia da uomo bianca, forse un regalo per qualcuno. Amava quel libro particolarmente. Non era un libro da spiaggia, ma era un libro da solitudine, come quella che provava in quel momento, lì. Amava ancor di più i Taccuini di appunti che si trovavano in fondo a quel libro e soprattutto il pensiero di Flaubert che catturò la Yourcenar, quel pensiero rinchiuso in una frase che lesse nella sua mente, scandendone bene le parole per darle l’intonazione che meritava. «Quando gli dèi non c’erano più e Cristo non ancora, tra Cicerone e Marco Aurelio, c’è stato un momento unico in cui è esistito l’uomo, solo». La rilesse per l’ennesima volta e ci cadde dentro nuovamente. La rileggeva ancora e ancora, di tanto in tanto si tirava su a sedere per tornare a guardare verso l’orizzonte, dove il tramonto non sembrava ancora tramonto, dove il tramonto era ancora una promessa. Le piaceva quell’odore di sale, di quel che resta di morte, sesso e banchetti di alghe e pesci, ma decise che lo avrebbe rovinato per un po’, abbandonando per un attimo il libro e accendendosi una Chesterfield blu. Nello stesso momento vide qualcosa, lontano lontano, a un passo dall’orizzonte. «Strano…» pensò. Quel qualcosa sembrava avvicinarsi in modo lento ma costante. «Eppure le imbarcazioni sono ancora proibite» pensò ancora la donna, mentre la linea delle labbra le si scuciva in un sorriso come solo la felicità tanto attesa riesce a fare. Allora prese la sigaretta, succhiò l’ultima boccata e la soffocò spingendola fino a farla sparire sotto la sabbia. Ora quel puntino che sembrava essere sgocciolato dall’orlo dell’orizzonte non era più un puntino. Era un uomo. Un uomo che nuotava verso la riva. Un uomo che nuotava per lei. La donna guardava le bracciate lente dell’uomo, quasi a scandirle col battito degli occhi. «Chissà da quanto è che nuota?» si domandò. L’uomo a circa dieci metri dalla riva emerse dall’acqua fino alla vita e continuò il suo avvicinamento camminando. Era nudo. Un sorriso che si può accennare solo 87 Pandemia, distopia, idiosincrasia a chi si ama prese il posto della smorfia della fatica. Arrivato di fronte a lei, che era rimasta seduta col libro in mano, chiese: «Posso sedermi lì, accanto a te?». Parlarono per un po’, ma questa è una storia secondaria. Forse lui le spiegò cosa pensava ad ogni bracciata di quel viaggio lungo i 200 chilometri di distanza che li avevano separati fino a quel momento. Forse lei gli confessò immodestamente che non si sentiva quella meraviglia per cui vale la pena compiere il viaggio e soprattutto che il mare di maggio era un segreto solo suo fatto di vento e silenzio. Quel silenzio che raccolsero in un bacio infinito di sale, vento, fatica e nicotina. Dopo un po’ l’uomo disse: «Prima o poi questa incompatibilità forzata, questa idiosincrasia tra l’amore e il virus scomparirà. Nel frattempo proviamo a gestire il dolore della lontananza. Smettila di dubitarti e custodisci gelosamente la tua meraviglia». La donna annuì e poggiò la fronte contro quella dell’uomo. Stettero così a guardarsi per il tempo sufficiente a far sì che ognuno di loro vedesse un solo occhio dell’altro a causa dell’estrema vicinanza del contatto visivo. Fecero l’amore per un paio d’ore. Quando ebbero finito, respirarono quell’odore di sale, di quel che resta di morte, sesso e banchetti di alghe e pesci, seduti sul bagnasciuga, in silenzio, un po’ infreddoliti. La donna, nuda, si alzò di scatto. L’uomo la guardò dal basso e le sorrise. Lei prese l’altro libro dentro alla sua borsa, avvolto in una camicia da uomo bianca e glielo porse. Poi Prese il suo Le memorie di Adriano e gli porse pure quello dicendo «abbine cura». L’uomo sorrise a sua volta. «Adesso tocca a me, giusto?» chiese lei, cercando di mantenere il sorriso che cercava di rimanere aggrappato nonostante la consapevolezza dell’addio. Allora le sembrò di essere nel libro, come l’imperatore Adriano «Piccola anima smarrita e soave, compagna e ospite del corpo, ora t'appresti a scendere in luoghi incolori, ardui e spogli, ove non avrai più gli svaghi consueti. Un istante ancora, guardiamo insieme le rive familiari, le cose che certamente non vedremo mai più... Cerchiamo d'entrare nella morte a occhi aperti…». Si concesse subito alla prima onda che la colpì all’altezza delle ginocchia e piano si abbandonò al mare. Si girò soltanto un attimo verso l’uomo per accennare un saluto. Aveva occhi dello stesso colore che hanno il cielo e il mare quando si incontrano all’orizzonte. La prima lacrima di lei si perse nel mare alla prima bracciata. La prima lacrima di lui cadde e finì assorbita dalla carta della pagina dell’introduzione di Viaggio al termine della notte che la donna gli aveva porto avvolto in una camicia bianca. La seconda lacrima cadde sulla V di Viaggiare «Viaggiare, è proprio utile, fa lavorare l’immaginazione. Tutto il resto è delusione e fatica. Il viaggio che ci è dato è interamente immaginario. Ecco la sua 88 JURI CAMBARAU forza. Va dalla vita alla morte. Uomini, bestie, città e cose, è tutto inventato. È un romanzo, nient’altro che una storia fittizia. Lo dice Littré, lui non sbaglia mai. E poi in ogni caso tutti possono fare altrettanto. Basta chiudere gli occhi. È dall’altra parte della vita». L’uomo si infilò la camicia e continuò a piangere vedendola allontanare un poco alla volta. La centotrentottesima lacrima cadde sull’ultima pagina del libro. Precisamente sulla L di Lontano «Lontano, il rimorchiatore ha fischiato; il suo richiamo ha passato il ponte, ancora un'arcata, un'altra, la chiusa, un altro ponte, lontano, più lontano... Chiamava a sé tutte le chiatte del fiume tutte, e la città intera, e il cielo e la campagna, e noi, tutto si portava via, anche la Senna, tutto, che non se ne parli più». La donna ormai era solo un puntino che si adagiava sul tramonto. L’uomo la osservò sparire all’orizzonte. Prese il libro che la donna gli aveva affidato e lo avvolse nel telo verde acqua, poi andò via. La spiaggia di maggio tornò a essere un segreto fatto di vento e silenzio. 89 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 89-96 L’IDIOSINCRASIA DELL’OCCIDENTE DAVIDE ASSAEL Non è facile definire l’idiosincrasia, tanta è l’ampiezza semantica di questo concetto, che compare negli ambiti più svariati. Esistono idiosincrasie psicologiche, di cui tanto si è occupata la letteratura psicoanalitica. Esistono idiosincrasie sociologiche, con intere comunità che hanno sviluppato affetti idiosincratici nei confronti di altri gruppi sociali. Non è certo difficile trovare nella storia, anche recente, esempi di odio etnico. Esistono anche idiosincrasie politiche, che sempre si fondano su tabù inavvicinabili. Dovendo trovare una definizione generale, potremmo dire che l’idiosincrasia è l’immagine dell’alterità, sia essa percepita con categorie psicologiche, sociologiche, oppure politiche. È, dunque, una categoria identitaria, in quanto è quel limite che separa noi dagli altri, confine consustanziale ad ogni identità. Per quanto varie siano le identità, tutte riflettono una distinzione Io/Tu, che appare, appunto, come il loro fondamento ontologico. Nel corso della storia umana esiste solo una cultura che abbia tentato di superare questo schema: la civiltà occidentale. Lo aveva ben capito il vecchio Husserl, quando, lui ebreo in un’Europa in cui si era affermato il virus nazista, si confronta con una crisi culturale di cui vede le radici assai più indietro. Parliamo di quel grande libro, per alcuni il vertice della filosofia del ‘900, che risponde al nome de La crisi delle scienze europee e la fenomenologia trascendentale, ultima opera del filosofo a cui lavora ininterrottamente dal 1935 al 1937. Qui Husserl ha 90 DAVIDE ASSAEL il coraggio della domanda radicale: cos’è Europa? E cosa la distingue dalle altre civiltà, come l’India o la Cina? Domande attualissime in un momento in cui queste stesse realtà progettano il «sorpasso» sull’Occidente in termini economici e geopolitici. La risposta husserliana è coraggiosa quanto la domanda: Europa non è una civiltà fra le altre, ma l’unica che ha voluto sviluppare una cultura universalistica, che ha forse trovato la sua massima espressione nella cultura scientifica. Non è un caso che la globalizzzione con cui oggi facciamo i conti sia stata in fondo un’occidentalizzazione. Un’adozione da parte degli altri del modello occidentale. Non è la medicina tradizionale cinese ad essersi diffusa nel mondo, ma la scienza medica occidentale. Andare in un ospedale a Pechino, non è così diverso che andarci a Parigi o Londra. Così in un laboratorio di fisica, o di qualunque altra scienza. Di matrice occidentale è la Carta universale dei diritti dell’uomo, occidentale è l’idea stessa di istituzioni sovranazionali. Insomma, utilizzando un ossimoro potremmo dire che la specificità dell’Occidente è la sua universalità. Ma universale è, per definizione, ciò che non ha limiti, ciò che non conosce idiosincrasie perché abolisce la distinzione dentro/fuori. Lo schema identitario sopra richiamato sembra dissolversi. Ma siamo sicuri che una società universalistica sia priva di idiosincrasie? Oppure si fonda su una grande idiosincrasia rimossa perché inaccettabile alla sua coscienza? Fra i tanti testi a fondamento della civiltà occidentale su cui potremmo concentrarci, forse nessuno come la Bibbia, l’antica Torah ebraica, può aiutarci a rispondere a questa domanda. Tra Abramo e Giacobbe: la Torah e l’Occidente La costruzione dell’identità occidentale, nella Torah, coincide con le vicende dei tre patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe. Il punto di inizio lo troviamo nel Cap. 12 della Genesi, in quel Lech Lechà, che significa contemporaneamente «Vai via» e «Vai verso te stesso», che Dio rivolge ad Abramo intimandogli (l’espressione è coerente con l’imperativo con cui è declinato il verbo) di lasciare «la tua terra, la tua famiglia, la casa di tuo padre» per dirigersi «verso il posto che ti mostrerò». Una simbolica di distacco dalle pulsioni di possesso territoriale, familistiche e genealogiche, che basterebbe da sola a riassumere un intero manuale psicoanalitico. Per questo gesto, invero ripetuto più volte da altre figure bibliche, Abramo verrà definitivo ‫( עברי‬ivrì, ebreo), dal verbo ebraico ‫( לעבור‬laavor), oltrepassare. Abramo è letteralmente «colui che attraversa». Cosa attraversa il primo patriarca? Per riassumere, potremmo dire che attraversa il limite etnico per fondare una società universalistica. Abbandona la logica gerarchica dei due grandi imperi egizio e babilonese per fondare un modello sociale e politico in cui venga riconosciuta la comune radice adamitica di tutti gli individui. Il gesto che dà origine all’identità ebraica è, dunque, lo stesso che stabilisce quell’orizzonte valoriale che nutrirà tutto l’Occidente. Ancor prima che 91 L’idiosincrasia dell’Occidente greca, l’identità occidentale è ebraica. Origine troppo spesso dimenticata, se non esplicitamente rimossa. Il percorso abramitico si concluderà ben oltre la sua morte, con la vicenda del nipote Giacobbe, rinominato «Israele» proprio a conferma di un compimento identitario. Siamo sempre nella Genesi, nel Capitolo 25. Come tutte le matriarche, anche Rebecca, moglie di Isacco, non riesce a rimanere incinta. Così il figlio di Abramo si rivolge a Dio affinché la aiuti a concepire. «L’Eterno accolse la preghiera di Isacco e sua moglie Rebecca restò gravida» (Gen. 25, 21). La gravidanza di Rebecca non fu semplice. La Torah racconta dei dolori che le procurava, tanto che la matriarca si rivolgerà al Signore con un’espressione che ancora oggi riassume i disagi esistenziali di ogni genitore, che sempre verifica la distanza fra desiderio e realtà: «Se è così perché ho pregato tanto per questo?». E «Andò a consultare il Signore» (Gen. 25, 22). La risposta alla domanda era già stata in parte anticipata dal testo biblico, che aveva usato il plurale ‫( בנים‬banìm), figli per descrivere cosa stava accadendo nel suo ventre: «Nel tuo ventre ci sono due nazioni, due popoli si dirameranno dalle tue viscere, una nazione sarà più forte dell’altra, ma il più grande servirà il più piccolo» (Gen. 25, 23). La profezia, parlando di popoli e nazioni, allarga di molto il significato di questa gravidanza, aggiungendo una tonalità politica ancor più rimarcata dall’ultima parte, che informa di un ribaltamento delle gerarchie tradizionali. A conferma, come del resto già chiaro dai precedenti rapporti di fratellanza (Caino/Abele e Isacco/Ismaele), di quanto l’etica biblica a fondamento dell’Occidente sia un’etica dei figli minori. Come noto, la lotta fra i fratelli per uscire per primi dalla pancia della mamma sarà vinta da Esaù, che nacque per primo. Il primo nato, per la convenzione antica, è considerato primogenito. Fin da subito è chiaro che fra i due fratelli sarà Giacobbe ad ereditare quella propensione al superamento del limite che aveva contraddistinto suo nonno Abramo. Nel descrivere la nascita, la Torah si concentra su un passo apparentemente senza significato: è scritto che Giacobbe nasce con la mano attaccata al calcagno di Esaù. Proprio da qui il nome Yaakov (Giacobbe), che deriva da ‫( עקב‬ekev), tallone. Perché un testo che parla di liberazione dei popoli e grandi orizzonti etici si concentra su un particolare che definiremmo da ostetricia? Il commento è chiaro in proposito: Giacobbe afferra il fratello per un tallone perché vuole trascinarlo giù e superarlo, non rassegnato al ruolo di fratello minore che la natura gli aveva imposto. Fin da subito i due gemelli manifestano caratteristiche opposte. Riassumiamo quelle principali: anzitutto i nomi. Esaù è fatto derivare dal verbo ‫( לעשות‬laaśot), fare. Significherebbe, quindi, «fatto» nel senso di già compiuto in se stesso. Di Yaakov, invece, viene sottolineato come la prima lettera sia «la Yod, che corrisponde al numero dieci, e sta per il Decalogo; la seconda la ‘Ayn, settanta, cioè i settanta anziani alla guida del popolo; la terza è la Qof, che vale cento e indica il Tempio, alto cento cubiti; l’ultima consonante è infine la Bet, il cui valore è due, come Le 92 DAVIDE ASSAEL Tavole della Legge» (tratto da, Louis Ginzberg, Le leggende degli ebrei. II. Da Abramo a Giacobbe, Adelphi, Milano, 1997, p. 127). Esaù era amato dal padre, Giacobbe dalla madre, che esprime un amore gratuito, meno legato alle logiche genealogiche che definiscono la figura paterna. Esaù è uomo di caccia e dei campi, Giacobbe invece era «uomo integro» e risiedeva nelle tende. Il commento ci dice che si tratta delle tende di Shem ed Ever, le prime yeshivòt, le case di studio dove ancora oggi si impartisce l’educazione rabbinica. Le differenze fra fratelli confermano le caratteristiche che la Torah assegna al primogenito, sempre costretto a sacrificare la propria individualità alle aspettative genitoriali. Il secondo, invece, gode di un amore più libero. È il primo ad essere il ricettacolo di tutti quei meccanismi proiettivi che caratterizzano la maternità e la paternità. Il secondo, invece, gode di un amore più libero. Le consuetudini antiche erano, però, chiarissime: il primo uscito eredita il ruolo di capofamiglia. Non rassegnato al proprio ruolo e descritto con la stessa sfrontatezza che ritroveremo nel figlio Giuseppe, Giacobbe passerà l’intera giovinezza a progettare il modo di sottrarre la primogenitura al fratello. Il momento adatto arriva quando Esaù è di ritorno dalla caccia. Il Midrash ci dice che il gemello maggiore fosse un grande cacciatore, che aveva addirittura sottratto a Nimrod, il primo ribelle nei confronti del Signore, la veste che gli consentiva di attirare a sé tutte le prede. Ma la caccia, soprattutto in epoca antica, è una pratica molto rischiosa, in cui si può perdere la vita ad ogni istante. È, quindi, questo il momento in cui l’orizzonte esistenziale di Esaù, già di per sé compromesso, è più chiuso. Yaakov lo sa bene e fa scattare il proprio piano. Si farà trovare intento a mangiare una zuppa, che la tradizione ha fatto coincidere con un piatto di lenticchie. Sempre il commento ci mostra Giacobbe impegnato a far uscire l’odore della zuppa dalla finestra della casa in modo da stuzzicare il fratello mentre tornava. Appena entrato Esaù chiese a Giacobbe un po’ di ciò che stava mangiando. Il fratello gli rispose che glielo avrebbe dato in cambio della primogenitura. Le parole con cui Esav accetta sono una sintesi perfetta del suo stato d’animo: «Se devo morire, cosa me ne faccio della primogenitura?». A confermare questo stato d’animo è proprio l’immagine delle lenticchie, mai citate nel testo, che invece parla di una «zuppa rossa» (alcuni interpreti fanno derivare da qui il nome Edom, da cui Edomiti, la discendenza di Esaù). La lenticchia, per la tradizione biblico-ebraica, è il cibo del lutto in quanto è circolare come la morte che circola inesorabilmente fra le persone e anche perché è senza fori. Così come senza aperture verso l’esterno è colui che deve rispettare il silenzio nei giorni di lutto. Tanti di più quanto è stretto il legame di parentela. In questo clima ben studiato da Giacobbe avvenne lo scambio. Il Midrash ci dice che il gemello minore aveva anche preparato un contratto scritto, onde evitare future rivendicazioni. Il passaggio della primogenitura, però, doveva essere sancito dalla benedizione paterna. L’occasione non tardò ad arrivare. Ormai stanco e cieco, Isacco sentiva 93 L’idiosincrasia dell’Occidente che i suoi giorni erano alla fine. Percezione quanto mai sbagliata perché in realtà vivrà ancora a lungo, ma quanto bastava per chiamare il primogenito e dirgli di procurarsi della selvaggina per la benedizione della primogenitura. Rebecca, è anche questa una scena notissima, udite le parole fra il marito e il figlio, chiamerà Giacobbe per dirgli di camuffarsi da Esaù, mentre lei andava a prendergli uno dei suoi capretti. È il primo momento in cui vediamo Yaakov vacillare perché ben sapeva che una cosa è un accordo fra fratelli, un’altra è lo stesso accordo approvato dai genitori. Per di più la tradizione ci informa quanto Esaù sia stato disposto ad accettare le privazioni imposte dal suo ruolo solo per amore verso il padre, che venerava. Come sappiamo, il piano della mamma ebbe buon fine e Giacobbe venne benedetto al posto del fratello. La grande questione è qui se Isacco fosse consapevole di impartire la benedizione al figlio più piccolo. Il commento è unanime nel dire di sì. Molti gli indizi che ce lo fanno pensare. Anzitutto il passo di Gen. 27, 22, in cui Isacco dice: «La voce è la voce di Giacobbe, ma le mani sono le mani di Esaù». In secondo luogo vi è la questione dell’odore. Rashi di Troyes (1040 - 1105), commentatore principe della Torah, dice che Isacco sentì l’odore del gan Eden, il giardino dell’Eden dove risiedevano Adamo ed Eva. È il testo stesso ad orientarci in quella direzione: «l’odore di mio figlio è come la fragranza di un campo che l’Eterno ha benedetto» (Gen. 27, 27). Un odore che certo non può essere attribuito ad Esaù per come la Torah ha descritto i due fratelli. In ultimo, la forma della benedizione che Isacco impartisce al figlio. Sempre Rashi dice che si tratta della benedizione che si attribuisce ai giusti, dove la maledizione profetizzata a coloro che malediranno viene prima di quella a coloro che benediranno perché «i giusti incontrano , all’inizio, delle sofferenze e poi, alla fine, godono della pace». Insomma, Isacco conferma qui la qualità che la tradizione gli attribuisce: la ‫גבורה‬ (ghevurah), il coraggio. Coraggio di scardinare antiche logiche identitarie, sociali e politiche. Saputo di aver perso la benedizione, Esaù andrà alla ricerca del fratello per ucciderlo. Ci si chiede perché Esaù si sia così risentito dal momento che aveva già ceduto la primogenitura. Ma la risposta l’abbiamo già avuta: una cosa è la relazione a due, un’altra quella a tre. La benedizione a Giacobbe fu vissuta da lui come un tradimento insopportabile. Del resto solo un ingenuo poteva pensare di ridurre la vita a rapporti giuridici. Sembra qui ripetersi lo stesso errore di Abele nei confronti di Caino. Abele definito «il muto» dalla tradizione, in quanto nel Capitolo 4 della Genesi, dove è narrata la storia dei primi fratelli, non si trova una sola sua parola. Nulla ha fatto per lenire l’invidia del fratello nei suoi confronti. E sarebbe finita allo stesso modo se non fosse stato per l’intervento della madre, la quale, vista la reazione del figlio maggiore, intimò Giacobbe di riparare da suo fratello Labano finché la rabbia di suo fratello non fosse scemata. Nel percorso verso la terra dello zio, Giacobbe si «imbattè nel luogo» (Genesi 28, 11), da molti inteso come il Monte Moriah, per eccellenza luogo della manifestazione divina. Qui si addormenta e farà il famoso sogno della scala, altra immagine che si è sedimentata nel nostro immaginario. La scala, con gli angeli che 94 DAVIDE ASSAEL salgono e scendono, e con al vertice Dio stesso, è simbolo di comunicazione. È anche proiezione delle angosce di Giacobbe, che per la prima volta sperimenta il fallimento dei suoi progetti. Come per rassicurarlo, l’Eterno gli confermerà la promessa fatta al nonno, aggiungendo, «Io sono con te e ti proteggerò ovunque andrai» (Genesi 28, 13-15). Il Dio di Israele, pur mantenendo un rapporto privilegiato con la terra d’origine che decifreremo fra breve, non è una divinità locale. È un Dio universale, che, come dice la comunicazione stessa si estende a Oriente come a Occidente. Appena giunto nella terra dello zio, Giacobbe incontra sua figlia Rachele e se ne innamora (Genesi 29). Incontrato Labano, la chiede in moglie. Lo zio acconsentirà, ma pattuirono che, per sposarla, Giacobbe avrebbe dovuto lavorare per lui sette anni. Così fece, ma al termine Labano, invece di Rachele, gli farà trovare nel letto nuziale la figlia maggiore Lea. Di fronte allo stupore di Giacobbe, la risposta dello zio sarà alquanto significativa. Alla domanda del nipote, «Perché mi hai ingannato?», Labano ribatterà «Non si fa così nel nostro paese, di dar marito alla minore prima che alla maggiore. Finisci la settimana di questa, e ti daremo anche l’altra, per il servizio che mi presterai per altri sette anni.» (Genesi 29, 2728). Alla fine Giacobbe rimarrà da Labano 20 anni e per sposare Rachele dovrà prima prendere in moglie, oltre a Lea, anche la sua serva e quella di Rachele stessa. Lo zio non rispetterà nessuno dei patti stabiliti e la motivazione sarà sempre quella: da noi si fa così. Sempre più il patriarca capirà che l’unico modo per realizzare la profezia divina sarà tornare a casa propria. Del resto, con quale diritto imporre il proprio modello ad altri? Così, una notte, Giacobbe «mise i figli e le mogli sui cammelli, portò via il suo bestiame, tutti i beni che aveva acquistato, il bestiame che aveva messo insieme in Paddan-Aram per tornare da suo padre Isacco in terra di Canaan» (Genesi 31, 17-18). Quando, tre giorni dopo, Labano lo raggiungerà per chiedergli conto della fuga notturna, Giacobbe risponderà con parole che sintetizzano quanto scritto sopra: «In vent’anni che sono stato con te, le tue pecore e le tue capre non hanno partorito feti morti, né ho mangiato i montoni del tuo gregge. Non ti ho mai portato animali dilaniati da bestie feroci, rifondevo io il danno, mi chiedevi conto dei furti commessi sia di giorno che di notte. Mi trovavo in condizione che di giorno mi consumava il gran caldo, il gelo di notte, e il sonno se ne andava dai miei occhi. Dei vent’anni che sono stato in casa tua, quattordici ti ho servito per le tue figlie e sei per il tuo bestiame; tu hai cambiato la mia mercede dieci volte.» (Genesi 31, 41-42). La lotta con l’angelo e l’idiosincrasia dell’Occidente Nella vicenda di Giacobbe ed Esaù, c’è un’altra immagine iconica: la lotta con l’angelo. Quando si trovava con la sua carovana ormai sulla strada di casa, Giacobbe si accorge di aver dimenticato qualcosa indietro e deciderà di riattraversare il fiume Yabbok per prendere questi oggetti apparentemente insignificanti. Un atto mancato degno del dott. Freud. Arrivato sull’altra riva il sole era ormai calato, decise allora di pernottare lì. Nella notte arriva un malach, figura 95 L’idiosincrasia dell’Occidente di difficile definizione in ambito ebraico perché significa contemporaneamente angelo e messaggero. Del resto, il pensiero ebraico non è di impronta metafisica, ma esperienziale. Si può dire che quella angelica sia una funzione che si incarna nelle vicende quotidiane. In ogni caso, il commento tende ad identificare questa figura con l’angelo di Esaù perché è col fratello che Giacobbe deve combattere. Al termine della lotta durata tutta la notte, Giacobbe ebbe la meglio e, proprio per questo, il malach gli cambierà il nome in «Israele». Tanti i significati attribuiti al nuovo nome, il più frequente è «Ish roeh El», «Uomo che guarda a Dio», ma è certo che con questo passaggio si conclude il percorso inaugurato da Abramo. L’identità biblica è compiuta, anche se si tratterà di saperla tradurre in tutti i suoi aspetti. È un’identità caratterizzata da una zoppia, in quanto Giacobbe rimarrà claudicante perché ferito al nervo sciatico. È questa zoppia, questa imperfezione il grande rimosso dell’Occidente, che l’ha sostituita con l’immagine dell’eroe greco, tanto tragica quanto esempio di forza e splendore. Ormai cosciente del torto subito dal fratello, Giacobbe è pronto ad incontrarlo. Quando Esaù gli correrà incontro per ucciderlo, il gemello minore si chinerà davanti a lui prostrandosi sette volte, con tutto il valore simbolico che questo numero assume nella narrazione biblica. I due fratelli si abbracceranno come segno di riconciliazione. Divideranno la terra ed ognuno potrà badare alla propria famiglia. La conciliazione fra Giacobbe ed Esaù è il modo in cui l’universalismo occidentale, rappresentato dall’etica del fratello minore, assume la consapevolezza del proprio limite: l’essere nato in luogo particolare. La claudicanza di Giacobbe appare come il segno più tangibile dell’assunzione di questa consapevolezza. La rimozione occidentale della propria matrice ebraica significa esattamente la rimozione della Gerusalemme terrestre in nome di quella celeste. Ben presto, però, le differenze fra i fratelli riappariranno. Giacobbe, assai più bravo negli affari rispetto al gemello, vedrà crescere il suo bestiame e le proprie ricchezze, tanto da rendere difficile la convivenza con Esaù, che si ritirerà sul monte Seir (Genesi 36, 6). E non è un caso, crediamo, che in ebraico capro espiatorio si dica proprio Seir. Esaù, con le pulsioni genealogiche, familiari e di possesso territoriale, che rappresenta in quanto fratello maggiore, è il grande sacrificato all’universalismo occidentale. È lui la grande idiosincrasia che l’Occidente non può ammettere perché considerata come un tradimento della sua identità. Ed è da questa rimozione che nascono i problemi di relazione con l’Altro che hanno definito il nostro mondo. Dalle crociate, alle battaglie napoleoniche, fino alle recenti guerre di esportazione della democrazia. Perché trovare un punto di conciliazione con Esaù significa sì una contraddizione rispetto ad ogni visione universalistica, ma è anche riconoscere un’origine particolare, che è antidoto contro ogni volontà di potenza imperialista. Più che rimuovere queste pulsioni bisognerebbe sublimarle in un progetto pedagogico e politico, che, citando il sociologo Michael Walzer, potremmo definire un «universalismo concreto» 96 DAVIDE ASSAEL (Michael Walzer, Geografia della morale. Democrazia, tradizioni e universalismo, Edizioni Dedalo, Bari, 1994). Universalismo, come tale, sempre imperfetto, sempre da ridefinire. Ma il Midrash aveva già detto tutto quando, commentando l’abbraccio fra i due fratelli, descrive un Esaù intento a mordere l’orecchio di Giacobbe. Se si parla di Occidente, si parla di una strada sempre aperta, che mai può trovare una conclusione definitiva. Se non sublimate, queste pulsioni si riaffacceranno nei momenti propizi, quando il progetto universalistico occidentale mostrerà delle crepe, favorendo instabilità sociale. La Torah aggiunge un ultimo particolare, che a noi appare come un monito: se si scorre la genealogia di Esaù nel Cap. 36 della Genesi, si vede che ad un certo punto compare la figura di Amalèk, la tribù senza volto che ha un solo compito: l’annientamento del popolo ebraico. Si dice che sia comparsa solo tre volte nella storia ebraica: appena dopo l’uscita dall’Egitto, quando i figli di Israele cominciano a mostrare dubbi nei confronti delle parole di Mosè (Esodo 17, 8), durante la fallita strage raccontata nella Meghillat Ester, il rotolo che si legge durante la festività di Purim. Infine con il nazismo. Amalèk è il residuo della rabbia di Esaù e torna per riprendersi la primogenitura sottratta dai fratelli minori. Torna per risvegliare dal «grande inganno» ed imporre «la morale dei signori» con «la morale dei servi». 97 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 97-100 I DISCORSI D’ODIO E LE STRATEGIE ADOTTATE NEL NOSTRO PAESE PER CONTRASTARLI GIANPIERO COLETTA 1. Negli ultimi anni si è assistito ad un considerevole aumento dei crimini d’odio e, di fronte a questa situazione, nell’ottobre del 2019 il Senato della Repubblica ha approvato una mozione per l’istituzione di una Commissione straordinaria diretta a contrastare l’intolleranza, il razzismo, l’antisemitismo e le varie forme di istigazione all’odio e alla violenza. Con l’approvazione di tale mozione, che ha avuto come prima firmataria la senatrice Liliana Segre, si è inteso soprattutto arginare la diffusione di quella particolare tipologia di crimini d’odio costituita dai discorsi d’odio, nella consapevolezza che gli stessi, pur non essendo sempre perseguibili sul piano penale, rappresentano in ogni caso un serio pericolo per la convivenza civile. 98 GIANPIERO COLETTA Come è noto, in ambito giuridico non esiste una descrizione generalmente condivisa dei discorsi d’odio. Tuttavia, in base a quanto previso dal Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa nella raccomandazione n. 20 del 1997 ed a quanto più volte evidenziato dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, si può sostenere che sono certamente discordi d’odio tutti quelli che diffondono, incitano, promuovono o giustificano il razzismo, la xenofobia, l’antisemitismo e ogni altra forma di forte avversione basata sull’intolleranza. Per provare a contrastare in modo efficace la proliferazione dei discorsi in parola, con la mozione approvata in Senato si è deciso di attribuire alla Commissione straordinaria numerose ed importanti prerogative. In particolare, nella mozione si è stabilito che i venticinque membri della Commissione hanno il compito di studiare le varie manifestazioni d’odio che hanno come destinatari singoli individui o intere comunità e devono anche raccogliere, ordinare e rendere pubblici le normative vigenti sui diversi crimini d’odio, i risultati delle rilevazioni statistiche su tali crimini e quelli delle ricerche scientifiche effettuate sulle medesime condotte. Occorre, poi, ricordare che il Senato ha attribuito ai commissari pure il compito di controllare la corretta attuazione delle norme volte ad arginare la diffusione delle manifestazioni d’odio ed ha riconosciuto loro la possibilità di formulare proposte dirette a modificare la legislazione vigente, anche allo scopo di renderla più coerente con la normativa dell’Unione europea e con le previsioni contenute nelle Convenzioni internazionali in materia di prevenzione e lotta contro ogni forma d’intolleranza, razzismo ed antisemitismo. Non vi è dubbio, allora, che, con l’istituzione della Commissione straordinaria, si è deciso di prendere sul serio il problema del considerevole aumento dei discorsi d’odio e che, con l’attribuzione ai commissari di numerose ed importanti prerogative, ci si è resi conto del fatto che, per cercare di risolvere il problema in questione, bisogna studiarne in modo approfondito le caratteristiche, comprenderne l’effettiva dimensione e sollecitare l’adozione di tutte le misure idonee al raggiungimento dell’obiettivo. 2. È opinione diffusa che, nel prossimo futuro, la Commissione straordinaria fortemente voluta da Liliana Segre avrà un ruolo centrale nel provare ad arginare la proliferazione dei discorsi d’odio. Va, tuttavia, segnalato che, ben prima dell’istituzione di tale Commissione, il nostro legislatore ha cercato di contrastare il fenomeno in parola, facendo ricorso al diritto penale. Come sappiamo, il principale intervento legislativo con il quale si è deciso di sanzionare penalmente i diversi discorsi d’odio è individuabile nella legge n. 654 del 1975, che ha ratificato e dato esecuzione alla Convenzione internazionale di New York sull’eliminazione di tutte le forme di discriminazione razziale. Non sfugge, infatti, che l’articolo 3 di tale legge ha introdotto nell’ordinamento quattro 99 I discorsi d’odio e le strategie adottate nel nostro paese per contrastarli distinte figure di reato caratterizzate da condotte discriminatorie nei confronti di soggetti appartenenti ad un gruppo diverso dal proprio e che, nella sua versione più recente, ha considerato perseguibile penalmente anche chi propaganda odio razziale, etnico, nazionale o religioso e chi motiva la sua forte avversione nei confronti di singoli individui o di intere comunità con la negazione della Shoah, dei crimini di guerra e di quelli contro l’umanità. A ben guardare, la scelta di provare ad arginare la diffusione dei discorsi d’odio ricorrendo allo strumento penale è stata compiuta anche da diversi altri Paesi europei ed è sicuramente in linea con le numerose disposizioni di diritto internazionale che limitano la libertà di manifestazione del pensiero per contrastare ogni forma di discriminazione. Occorre, però, sottolineare che, con tale scelta, è stata introdotta nell’ordinamento una previsione normativa che diversi studiosi hanno considerato non rispettosa dell’articolo 21 della Costituzione. Come è noto, la disposizione costituzionale in parola garantisce ad ogni individuo la libertà di manifestazione del pensiero e prevede, come unico limite all’esercizio di tale libertà, il rispetto del buon costume. Sembrerebbe, quindi, che l’articolo 3 della legge n. 654 - i cui contenuti sono stati, peraltro, trasposti all’interno del codice penale nel 2018 - non sia coerente con la Costituzione, perché l’articolo del testo fondamentale che disciplina la manifestazione del pensiero non giustifica in alcun modo il divieto di propagandare idee d’odio. Bisogna, tuttavia, ricordare che, accanto a quello del buon costume, esistono limiti ulteriori all’esercizio della libertà di espressione, che trovano fondamento in altri interessi costituzionalmente protetti. È evidente, infatti, che il legislatore ordinario può limitare la manifestazione del pensiero se, con un’operazione di questo tipo, va a tutelare altri diritti costituzionali senza giungere alla totale negazione della libertà in questione. Si può, quindi, affermare che la disposizione che sanziona penalmente la diffusione di discorsi d’odio potrebbe essere legittima se si rivelasse strumentale alla ragionevole protezione di altri beni costituzionalmente rilevanti. In realtà, la disposizione in esame non è mai stata oggetto di scrutinio da parte della Corte Costituzionale, ma in più di un’occasione la Corte di Cassazione ha fatto presente che la stessa limita la libertà di espressione in modo corretto perché, sanzionando penalmente la propaganda dell’odio, va a tutelare il bene giuridico costituzionale della dignità umana. Occorre, però, considerare che nella legge n. 654 la dignità delle persone offese da espressioni d’odio non è stata protetta con una limitazione della libertà di manifestazione del pensiero, ma con il suo totale azzeramento. In altre parole, il nostro legislatore non ha assicurato un equo contemperamento tra interessi di rilievo costituzionale e ha determinato un vero e proprio “azzeramento” della libertà di espressione. 100 GIANPIERO COLETTA Pertanto, la disposizione che impone ai giudici di punire quanti propagandano odio risulta essere di dubbia legittimità, perché va a comprimere la libertà di manifestazione del pensiero in misura eccessiva. È auspicabile, allora, un intervento legislativo che modifichi la normativa in vigore e non vieti più in modo assoluto l’esercizio della libertà di espressione a coloro che diffondono idee d’odio, prevedendo, magari, di sanzionarli penalmente solo se la pubblica manifestazione delle loro idee sia diretta a scatenare comportamenti violenti o discriminatori. Non vi è dubbio, infatti, che, con un intervento di questo tipo, la nostra legislazione diventerebbe rispettosa del dettato costituzionale e l’autorità giudiziaria potrebbe legittimamente contrastare la diffusione dei discorsi d’odio insieme alla Commissione straordinaria. Photo by Markus Spiske on Unsplash 101 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 101-105 QUESTA NON È UNA GUERRA PAOLO CASCAVILLA L’uso di metafore di guerra è frequente. In modo particolare lo si trova per sintetizzare in modo efficace e comprensibile un percorso complesso: guerra al cancro, alla criminalità, alla droga... Ma mai si era parlato in modo così intenso ed esteso di guerra per descrivere una grave e globale emergenza sanitaria. Vi è chi ritiene utile tale riferimento in questa pandemia, con un nemico invisibile e un 102 PAOLO CASCAVILLA pericolo che non si percepisce immediatamente. Il richiamo alla guerra sembra necessario per far accettare al popolo scelte dolorose e sacrifici e per sviluppare uno spirito di collaborazione e di obbedienza. I popoli hanno identità nazionali che si rafforzano contro un nemico comune. È possibile oggi far capire che è difficile e incerta una vittoria dei singoli stati sulla pandemia, mentre va dedicato ogni sforzo per costruire una collaborazione e una cooperazione internazionale? Metafore e parole di guerra possono aiutare in questa direzione? Bush nel 2005 e Obama nel 2014 intervengono al National Institutes of Health sulle future pandemie. Esprimono preoccupazione per quelle nate da virus provenienti dagli uccelli (già sperimentate), che si affacceranno di nuovo nel giro di 5 o 10 anni. Di qui la necessità di elaborare strategie per prevenire e isolare i focolai, accelerare la produzione di vaccini, stabilire forme di cooperazione internazionale. Ma soprattutto, per fronteggiare una pandemia, ci vogliono cittadini informati: sono essi che devono proteggere se stessi e gli altri, essi possono interrompere la diffusione del virus. Nessuno dei due ex presidenti parla di guerra. Entrambi esprimono in modo articolato le azioni di contrasto alla pandemia, le strategie future, la partecipazione dei cittadini. Non i tweet di Trump, che si è definito il presidente dei tempi di guerra, e paragona la pandemia a Pearl Harbor o all’11 settembre. I giornali statunitensi fanno i conti e dicono che alla fine i morti supereranno quelli di Corea, Vietnam, Afghanistan. Macron (16 marzo 2020) ripete più volte “siamo in guerra” con un “nemico invisibile, inafferrabile, che avanza e richiede la mobilitazione generale”. Non così Angela Merkel (18 marzo 2020). Oltre a non pronunciare mai la parola guerra, parla di “una situazione dalla quale imparare continuamente”, di “consapevolezza condivisa”, di capacità di agire “con il cuore e la ragione”. In Italia è un coro diffuso, su giornali e televisione, con metafore belliche e visioni collegate alla guerra (prima linea, trincea, eroi, armi, munizioni, economia di guerra, chiamata alle armi…). Il riferimento inconscio è alla prima guerra mondiale, lì troviamo le immagini ricorrenti: trincee, armi antiquate, logistica carente, vulnerabilità (“Si sta come d’autunno sugli alberi le foglie”), conquiste e perdite, attesa e logoramento… Tutto è cominciato con “Io resto a casa”. Solo stando a casa difendiamo gli eroi, che combattono in prima linea. Della guerra vi sono inizialmente le file ai mercati, gli scaffali vuoti ed anche le prime rivolte per il pane. Guerra al nemico invisibile, eppure la sua immagine è ovunque. È inafferrabile. Imprevedibile. Non si conoscono le sue mosse. Qualcosa di analogo ci viene descritto nella guerra del Vietnam: i vietcong invisibili, nelle foreste, nelle paludi, e gli americani per stanarli sono costretti a usare il napalm. In Usa, dopo le prime comunicazioni presidenziali, molti corrono ad armarsi. 103 Questa non è una guerra+ In Italia arriva il commissario Arcuri. Nella prima conferenza stampa delinea la sua strategia. Siamo in guerra e non abbiamo armi e munizioni, il nostro esercito rischia di non farcela. Stiamo perdendo anche la guerra diplomatica. Ci stanno rubando in casa mascherine e attrezzature. E allora? Acquistare tutto quello che è possibile, bloccare l’export della produzione italiana, riconvertire industrie per la produzione di materiale utile a questa guerra. A Milano il coronavirus è peggio che i bombardamenti dell’ultimo conflitto mondiale; in Lombardia i morti sono 5 volte più di allora. Interviene l’esercito, che monta ospedali e offre personale. Si deve vincere il virus. Il paese in guerra è sorretto da un rinnovato orgoglio patriottico: si ripete spesso che siamo i primi (a chiudere i voli dalla Cina, a creare le zone rosse), tutti ci imitano. C’è un modello Italia. I cittadini devono “stare dentro”. L’Italia lo richiede e dice “grazie”. Tutta la pubblicità si adegua. Conte con un tweet sintetizza: “60 milioni di cittadini lottano insieme per sconfiggere questo nemico invisibile. Sventoliamo orgogliosi il nostro tricolore. Intoniamo fieri il nostro inno nazionale. Uniti. Responsabili. Coraggiosi”. Gli operatori sanitari in prima linea. Applausi dai balconi, davanti agli ospedali. Nonostante dicano: “Non siamo eroi, dateci solo gli strumenti necessari”, eroi sono definiti; e il termine deborda, non solo operatori sanitari, ma protezione civile, forze armate, altri settori. Pure i funzionari della Pubblica amministrazione sono sollecitati dalla Coldiretti a divenire essi stessi eroi per accelerare le pratiche burocratiche. Ogni sera il bollettino di guerra. Ci obbliga a essere obbedienti, silenziosi, senza alternative. Abbiamo smarrito quel comportamento che ci porta a rispettare l’autorità, ma anche a parlare, a dire… All’inizio muoiono gli anziani, tutti con patologie pregresse, sottolineano i cronisti, poi con un gesto della mano fanno intendere che sarebbero morti comunque. La lunga cronaca di morte è accettata con fatalismo. Qualche lieve critica per le attrezzature mancanti. Nessuno chiede come si “sta dentro”. I bambini, gli anziani, i sofferenti psichici, gli autistici… Artisti e vip insegnano come stare dentro: leggere, scrivere, suonare, mettere in ordine… “se proprio non sapete far niente prendete una pentola e suonatela”. C’è chi canta, intrattiene il popolo, sulla falsariga dei divi di Hollywood che vanno a rincuorare le truppe al fronte. Si coltivano, nei giardini e sui balconi, verdure e piante aromatiche. Il governo nei tanti interventi non parla mai dei corpi intermedi (associazioni, vicinato…) che occupano man mano un posto importante ed aiutano, informano, incoraggiano… La guerra diventa geopolitica e si riconoscono nemici e alleati: “Ci ricorderemo di quelli che non ci aiutano”. Conte chiede i coronabond e apre un fronte contro L’Europa: “Noi stiamo scrivendo la storia… e la storia ci darà ragione”. Il linguaggio bellico deborda su un altro fronte: gli investimenti economici: “Per la cura Italia una poderosa potenza di fuoco. Un bazooka”. Quasi tutti i giornali raffigurano il bazooka. 104 PAOLO CASCAVILLA Intanto gli scienziati e i ricercatori fin dall’inizio occupano la scena. Discutono, dicono di non sapere, se non sanno. E anche se la televisione chiede loro di fare gli indovini, si defilano. Vediamo dall’interno come si muovono i ricercatori, alternano certezze e dubbi, ascoltano, verificano, non nascondono di muoversi in un territorio inesplorato. Litigano e collaborano. La scienza non ha la pretesa di assolutezza, si mette in discussione, aperta a nuove ipotesi. Un laboratorio a cielo aperto. Un apprendimento collettivo. Impariamo che contano le competenze, l’esperienza passata, gli studi fatti, tenere la mente aperta… Osservare, riflettere, sperimentare. È il metodo galileiano 22 giugno 1633. Galilei è per l’ultima volta davanti al Tribunale dell’Inquisizione. Gli amici lo aspettano fiduciosi. Poi le campane annunciano l’abiura. Galilei (nella versione di Brecht) entra nella stanza e un suo discepolo disilluso e amareggiato: “Sventurata quella terra che non ha eroi”. Lo scienziato è prostrato, stanco, contestato. Poi in tono sommesso: “No. Sventurata la terra che ha bisogno di eroi”. Come in guerra non tutto viene detto, poche le foto e clandestine. Il bisogno di verità viene soddisfatto riempiendo tutta la tv di coronavirus. Le stesse notizie ripetute dieci, venti volte. Una pandemia e un contagio di informazioni, senza ampliamenti e approfondimenti. Tutta l’attenzione è concentrata sull’Italia e poco su atri paesi. Affiora la stanchezza, l’angoscia, il panico. La paura degli altri, del futuro non si trasforma in premura per gli altri, per il futuro. Si sta in silenzio e in attesa. Il dolore è dentro, soffocato. Ma talvolta esce fuori (una chiacchierata con i vicini sul balcone, una telefonata, una pagina letta, il sole primaverile…), e da esso si riesce ad imparare qualcosa e si provano a definire le responsabilità proprie e di altri, esprimere dubbi, fare domande… E i malati? Sono chiamati a lottare. Le prime immagini di chi ce la fa, di quelli che hanno sconfitto il virus, intorno applausi, pugni stretti, segni di vittoria, che sugli altri non hanno effetto. Preferirebbero parole tenui, non essere considerati soldati. Depressi, abbandonati, senza forze cercano volti familiari. Gli inviti a lottare e a resistere aumentano la sofferenza. Lentamente escono le parole dei necrologi, prima due pagine poi quattro, otto, infine decine. Sono vietati i funerali, le bare sono portate fuori di notte. Come sarà dopo? Progetti, impegni, doveri… usciremo e festeggeremo, verrà la primavera, la festa degli abbracci…. Si ha paura della distanza. È la cosa più difficile da imparare, l’uso di parole nuove, la cura dello sguardo e dei gesti. I bambini si trovano meglio, non si danno la mano, né si abbracciano, né si scambiano baci. Una bambina sorridendo saluta in modo discreto con la mano, la nonna si intravede lontano, dietro una finestra. E noi cosa impariamo? Qui la scena è tutta del Papa, quotidianamente da S. Marta richiama la vicinanza creativa, la semplicità dei gesti, il rispetto del creato, l’amore verso chi soffre… dice ai preti di non essere come don Abbondio. 105 Questa non è una guerra+ Bisogno di verità e di parole esatte. Ci aiutano a capire meglio. Parole come emergenza, tragedia collettiva, agenti patogeni, spillover, invasione del corpo sociale… Le metafore aiutano a descrivere l’ignoto con il noto, una realtà diversa con ciò che conosciamo. Ci riescono? O non creano piuttosto una nuova realtà? Parlare di Stato di guerra, unione sacra tra governanti e governati, concordia nazionale, eroismo non aiuta a ragionare di cura, inclusione, condivisione… Il linguaggio bellico non è adeguato a descrivere quello che stiamo vivendo. È più facile, più emotivo. Acuisce la separatezza, la solitudine, invece di creare solidarietà ed empatia. Le parole di guerra modificano gesti e azioni. In guerra niente è considerato eccessivo. Nessuna parola o espressione è fuori posto. Nessun sacrificio è troppo grande. È il linguaggio di guerra a spingere tanti a nascondersi e a morire a casa. Nelle case di riposo si muore di Covid e di assistenza che non c’è. A Milano, nel cimitero, vi è un’area con sepolture che nessuno piange. Altrove, nel mondo, le fosse comuni. Su “L’eco di Bergamo” i figli, i parenti scrivono piccole memorie: il distacco momentaneo, l’attesa in quarantena, il rimpianto di non essere stati vicini, non avere dato l’ultimo saluto. Qualcuno ha ricevuto i disegni dei nipoti appesi dagli infermieri sulla sponda del letto. Una madre positiva al virus non è andata in ospedale, è stata in casa vicino al figlio con sindrome autistica. I vecchi sono morti soli. Se fossero stati colpiti i bambini avremmo sopportato che le madri si fossero tenute lontano per paura del contagio? Corpi senza vestizione. La chiesa non ha reclamato quel momento per cercare di dare un senso a qualcosa di inspiegabile. Un piccolo spazio in chiesa, pochi momenti per raccogliere la nostra vulnerabilità, fraternità, comunanza dei destini. Non si sa né come né quando l’inno nazionale ha lasciato il posto a Bella ciao. Pare siano stati prima i vigili del fuoco inglesi. Non più inni nazionali, ma ovunque un canto d’amore e di libertà. Alcuni speravano di celebrare la memoria della Resistenza con la liberazione dal virus. Ma Bella Ciao, “inno europeo” di solidarietà e coraggio, ha finito per adombrare l’unità nazionale e patriottica. Photo by Daniel Tafjord on Unsplash 106 107 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 107-110 MA QUALE IDIOSINCRASIA: CHISSÀ COME SI DIVERTIVANO! MICHELANGELO DE BONIS “Margie lo scrisse perfino nel suo diario, quella sera. Sulla pagina che portava la data 17 maggio 2157, scrisse: ‘Oggi Tommy ha trovato un vero libro!’” La vita è imprevedibile. Mentre pensavo ad una idea per l’articolo mi è capitato di rileggere un racconto che Asimov scrisse nel 1954, Chissà come si divertivano! Un racconto schietto, immediato, tre pagine in cui si parla di didattica a distanza 108 MICHELANGELO DE BONIS e della didattica nel futuro, proprio in un periodo in cui la didattica a distanza si è impadronita della vita di milioni di alunni, docenti e genitori. È paradossale leggere un racconto in cui Margie e suo fratello Tommy trovano un libro, addirittura un libro vero!, che parla di scuola in cui tutte le storie e i racconti sono stampati su carta. C’era stato un periodo in cui su pagine gialle e fruscianti le parole erano ferme, non si muovevano e se si ritornava indietro alla pagina precedente si vedevano le stesse identiche di prima. Una realtà che oggi come società siamo chiamati a realizzare. Nel racconto ci sono degli spunti di come verremo visti nel futuro e di come ci giudicheranno per come lasceremo questo periodo per scrivere il successivo. “Questo è un tipo di scuola molto antico, come l’avevano centinaia e centinaia di anni fa.” Non passeranno centinaia di anni, sarà invece un processo molto più veloce di quanto potessimo immaginare. La didattica a distanza è arrivata dal futuro e si è palesata, improvvisamente, e noi tutti siamo stati travolti da questo uragano. Un vento forte che ha scosso la vita degli attori principali: alunni, docenti e genitori. Certo non è un caso dire che il futuro ci viene incontro (già altre volte ho citato Ferdinando Menga con il suo monito nel suo volume Lo scandalo del futuro. Per una giustizia intergenerazionale) e che oggi più che mai abbiamo l’obbligo di ripensare il futuro. “Certo che avevano un maestro, ma non era un maestro regolare. Era un uomo.” I due fratelli si meravigliano perché il docente era un essere umano, e non un maestro digitale. Ma chi se lo sarebbe mai aspettato: un essere umano! Un uomo non avrebbe avuto la possibilità di essere competente in tutti gli argomenti che la scuola del futuro deve insegnare. E come dare torto a Margie e Tommy. Ma allora, nella scuola di oggi, il ruolo dei docenti così come lo conosciamo ha le ore contate? Inutile dire che siamo una società in divenire. Il lavoro del futuro è una incognita, non c’è modo di sapere quale sarà. Certo avremo modo di ipotizzare gli ambiti di sviluppo: robotica, intelligenza artificiale, game theory, informatica in generale, solo per restare in tema tecnologico. Ma, in questi ambiti, quale sarà lo scopo e il lavoro vero e proprio? Nessuno con certezza può dirlo. Il trend che si 109 Ma quale idiosincrasia: chissà come si divertivano! segue per prevenire, e forse minimizzare, le incognite dal futuro è insegnare agli studenti il learning to learn, l’imparare a imparare. Qualunque cosa gli uomini di domani faranno avrà a che fare con nuove tecnologie, nuovi strumenti, nuove idee e un mondo rinnovato rispetto all’attuale. Perché dovranno loro stessi essere in grado di imparare a gestire le sfide per il futuro dell’umanità. Quegli uomini avranno necessità di basi solide su cui poggiarsi e il nostro oggi, il nostro presente, sarà le loro radici. Queste basi solide della cultura sono le foundation delle singole discipline. Sono la base di qualsiasi trasformazione a cui assisteremo nei prossimi anni. Un maestro umano difficilmente potrà essere al passo nella sua carriera scolastica con le tecnologie emergenti e con le trasformazioni reali del futuro. È plausibile, direi umano, che molti possano avere delle idiosincrasie a riguardo. La tecnologia ha schiacciato e spazzato via le realtà di moltissimi maestri che non erano pronti a scontrarsi con il futuro già oggi. Ma questo non li ha spezzati, il loro ruolo resta vitale per i propri studenti. Moltissimi hanno messo da parte la loro fobia tecnologica e hanno raccolto la sfida. Cosa trasferiscono ai propri studenti? Le foundation. Le fondamenta, le basi e radici del nostro futuro. Margie e Tommy diranno: “Un uomo? Come faceva un uomo a fare il maestro? Un uomo non può saperne quanto un maestro.” E noi nel passato saremo in grado di fornire a loro delle risposte adeguate? “E imparavano tutti la stessa cosa?” Siamo tutti uguali? Ci insegnano le stesse cose? Tutti impariamo la stessa cosa? Insegnare a studiare e cavarsela da soli, in modo indipendente. Ecco cosa ognuno di noi deve imparare in modo personale. Gli alunni devono avere delle caratteristiche nel loro DNA, un approccio alla didattica di tipo sprint. In poco tempo devono essere in grado, sfruttando la tecnologia e non demonizzandola, di acquisire nuovi metodi e nuovi punti di vista per un approccio ai problemi pluridisciplinare e in modo da poter collegare in modo nuovo elementi di ambiti diversi. Pensiamo alla macchina a guida autonoma, non ha solo problemi di tipo tecnico (la programmazione del veicolo) ma anche problemi morali ed etici. Non è quindi la personalizzazione delle attività didattiche. È l’approccio personale alla risoluzione di problemi che mettono insieme aspetti diversi della vita, proprio come la figura retorica dell’antitesi: accostare in un’unica soluzione elementi opposti. Non è imparare la stessa cosa… è imparare! 110 MICHELANGELO DE BONIS “Io non ce lo vorrei un estraneo in casa mia, a insegnarmi.” È la parte più sconvolgente, il capovolgimento culturale, forse la parte più difficile da ripensare, non andare nello stesso edificio, nello stesso luogo fisico per incontrare gli altri e apprendere con gli altri, dagli altri. Ma essere noi a casa a ricevere il maestro e la relativa didattica. Culturalmente non siamo pronti, forse è l’aspetto peggiore del momento che stiamo vivendo, non siamo in grado di ricevere costantemente un’azione di questo tipo. Qui abbiamo una idiosincrasia vera. Asimov conclude il suo racconto lasciando a noi uomini del futuro una lezione di vita. “Lo schermo era illuminato e stava dicendo – Oggi la lezione di aritmetica è sull’addizione delle frazioni proprie. Prego inserire il compito di ieri nell’apposita fessura. Margie obbedì con un sospiro. Stava pensando alle vecchie scuole che c’erano quando il nonno di suo nonno era bambino. Ci andavano i ragazzi di tutto il vicinato, ridevano e vociavano nel cortile, sedevano insieme in classe, tornavano a casa insieme alla fine della giornata. Imparavano le stesse cose, così potevano darsi una mano a fare i compiti e parlare di quello che avevano da studiare. E i maestri erano persone... L’insegnante meccanico stava facendo lampeggiare sullo schermo: – Quando addizioniamo le frazioni 1/2 + 1/4... Margie stava pensando ai bambini di quei tempi, e a come dovevano amare la scuola. Chissà come si divertivano!, pensò.” Nel progettare il futuro ricordiamoci di Margie e Tommy, insegniamo ai nostri figli, ai nostri alunni, a vivere la loro didattica e la loro scuola di oggi, come dovrebbero amarla e non odiarla e come si dovrebbero divertire e non annoiare! 111 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 111-116 RELAZIONI REPULSIVE: LEGGE, NATURA E MUSICA IN UN’OPERA BUFFA DI ROUSSEAU PIER GIUSEPPE PUGGIONI 1. Il Rousseau compositore e le sue ‘idiosincrasie’ – Ogni tanto, quando ci accostiamo alla storia della letteratura, potremmo chiederci quanta parte di ciò che i grandi autori hanno consegnato ai posteri – o, meglio, di quello che i posteri hanno raccolto da loro – corrisponda alle aspirazioni che tali autori avevano in vita. Molto spesso, infatti, si celebrano importanti intellettuali, attribuendo ad alcune loro opere un valore che essi, magari, avrebbero desiderato per altre. La figura del grande Jean-Jacques Rousseau (1712-1778), in effetti, corrisponde in larga misura a questa descrizione, dal momento che, se quasi tutti ne conoscono il genio filosofico e letterario, non tutti sanno della sua passione per la musica e delle sue ambizioni di compositore. Non è un caso, d’altronde, che nelle Confessioni il riferimento alla propria esperienza compositiva – e in particolare ad un lavoro che vedremo qui – compaia con frequenza quasi maggiore rispetto alle opere che lo hanno reso, dopo la sua morte, il filosofo della Rivoluzione francese. 112 PIER GIUSEPPE PUGGIONI La dedizione di Rousseau alla musica, in realtà, non sorprende più di tanto, in quanto molti dei suoi contemporanei (intellettuali di spicco quali erano gli enciclopedisti) lasciarono contributi e studi su teoria e pratica musicale pur senza essere musicisti di professione. A suscitare un potenziale interesse è, piuttosto, l’opportunità che abbiamo di leggere il fattore musicale all’interno del pensiero rousseauiano, aiutandoci, in particolare, con un lavoro operistico che l’autore ebbe molto a cuore. Nell’Indovino del villaggio (Le devin du village), di cui Rousseau scrisse testo e musica, si possono osservare diversi aspetti della sua riflessione filosofica, tradotti, da una parte, nella poesia del libretto e, dall’altra, in un particolare approccio tecnico alla composizione. Ora, prima di cominciare, è opportuno – come si suole dire – ‘mettere le mani avanti’. Chi scrive non è, infatti, uno storico della musica, bensì uno studioso di filosofia del diritto che, per qualche misteriosa e trascendente circostanza, si trova a convivere con un viscerale attaccamento alla musica ed una modesta competenza in materia. Non potrà avere luogo, dunque, una minuziosa analisi musicologica, ma sarà importante fare riferimento, di volta in volta, ad alcuni temi e concetti musicali di un certo rilievo, onde comprendere, da un lato, il modo in cui Rousseau traduce il proprio pensiero nella partitura, scoprendo, dall’altro, che questo esercizio musicale ci permette di rimarcare alcuni aspetti – forse un po’ sottovalutati – della riflessione politica dell’autore. Attraverso il libretto e lo spartito del Devin, cercherò di osservare, in modo particolare, il rapporto tra natura e civiltà, quello tra felicità e legge, nonché la distinzione fra le relazioni umane proprie dello stato primitivo e quelle che, invece, l’uomo instaura nella società civile. Sembra, infatti, che la famosa caratterizzazione dell’uomo rousseauiano provocasse nei suoi lettori una sorta di intima repulsione – o, addirittura, di ‘idiosincrasia’ – verso la società cetuale d’Ancien Régime, tanto far dire a Voltaire che, a leggere i Discorsi, veniva voglia «di camminare a quattro zampe» (Lettera del 30 agosto 1755). Il significato di una simile repulsione, tuttavia, va indagato con una certa attenzione, per non fraintendere il senso e – per certi versi – lo ‘scopo’ che potrebbe rivelarsi adombrato in esso. Ai fini di questo discorso, il lavoro musicale di Rousseau ci dà un grande aiuto, poiché sembra avallare una lettura per cui, nella sua raffigurazione dello stato di natura, l’uomo non sarebbe in realtà completamente isolato, ma farebbe esperienza di alcuni contesti relazionali, che a differenza delle relazioni «civili» hanno qualcosa di ‘buono’. 2. L’indovino del villaggio: una pedagogia delle opposizioni – L’opera di cui parliamo rappresenta il miglior prodotto dell’esperienza compositiva di Rousseau, il quale in effetti se ne mostra assai orgoglioso. Tuttavia non si tratta, come anticipato, del suo unico lavoro musicale. A precederlo sono infatti alcune composizioni, sacre e profane, che sembrano dare del filosofo ginevrino un’impressione di relativa mediocrità. Non a caso, egli racconta che, al momento 113 Relazioni repulsive: legge, natura e musica in un’opera buffa di Rousseau della presentazione dell’Indovino all’Opéra, nel 1752, era tutt’altro che ottimista nei riguardi della propria musica, visto «l’insuccesso delle Muse galanti» (opera composta circa una decina d’anni prima). D’altronde, trattandosi «di un genere del tutto nuovo, al quale le orecchie non erano assuefatte» (Conf., VIII, 1), l’autore non si stupì del disprezzo ricevuto da musicisti del calibro di Rameau. Pare, tuttavia, che il pubblico nobiliare apprezzasse il lavoro, tanto che lo stesso re di Francia, dopo averlo ascoltato, non smetteva di cantare, «con la voce più stonata del suo regno», il tema e le parole della prima aria (VIII, 2). Prima di analizzare vari aspetti interessanti di questo «intermezzo buffo», conviene fare una breve ricognizione della trama, a cui, peraltro, Mozart si ispirerà per la scrittura di Bastien und Bastienne. Ambientata in un villaggio di campagna nei pressi di una corte signorile, la vicenda si svolge in un unico atto e gravita intorno a tre ruoli principali: la pastorella Colette, interpretata da un soprano; l’indovino del villaggio, un simpatico basso particolarmente autorevole nella piccola comunità; il pastore Colin, il quale, da bravo tenore, decide di divenire il cicisbeo della Dama del Castello, spezzando il cuore dell’amante Colette. Quest’ultima, in preda alla disperazione, viene aiutata dall’indovino a recuperare le attenzioni dell’amato, il quale, forte del proprio sentimento nei riguardi della pastorella, rinuncia allo sfarzo della vita di corte e decide di unirsi a Colette in un «dolce matrimonio» (Devin, sc. VI, duetto). All’interno di quest’impalcatura, si muovono diversi sentimenti e desideri, ai quali l’autore associa differenti reazioni emotive. In un certo senso, proprio l’accostamento delle reazioni ai desideri dei personaggi è il vero protagonista dell’opera, in cui emergono, attraverso una serie di opposizioni, alcuni accenti filosofico-politici tipicamente rousseauiani. Ciò si vede benissimo fin dal primo verso del libretto, che apre l’aria di Colette: «J’ai perdu tout mon bonheur», che sembra più plausibile tradurre come ‘perdita della felicità’, piuttosto che del mero ‘buonumore’. La giovane pastorella si trovava, dunque, in una condizione felice, finché il suo amante – come suggerisce l’indovino – non ha sviluppato la ‘vanità’ (vanité) che l’ha condotto al tradimento. Questa vanità è dovuta, a sua volta, al fatto che la Dama – personaggio di cui si parla, ma che rimane fuori scena – lo costringe a vestirsi con sfarzo ed eleganza (il verbo è «se parer», che evidentemente si lega alla parure: Devin, sc. II). Al sentimento della vanità, l’indovino oppone l’«amore» che unisce i due protagonisti in modo spontaneo e, pertanto, sincero, preservando in essi la felicità. Dal lamento di Colette, traspare l’idea per cui un’altra possibile sorgente della ‘vanità’ risiederebbe nei «discorsi delle donne di città». Così, Rousseau riprende un’altra celebre opposizione – quella tra campagna e città – che però egli articola in modo parzialmente autonomo rispetto alla generalità delle opere di ambientazione cortese. Per il filosofo ginevrino, infatti, questi contesti generano non tanto «vizi» o «virtù», quanto sentimenti più o meno buoni a seconda della loro maggiore o minore conformità a natura. Sappiamo, d’altra parte, che la 114 PIER GIUSEPPE PUGGIONI «felicità» ha un ruolo centrale nei due celebri Discorsi, nei quali il filosofo dice, per un verso, che il progresso delle scienze e delle arti nulla apporta «alla nostra vera felicità», andando semmai a detrimento dei costumi e del gusto (Discorso sulle scienze e le arti, 1750, II), e sottolinea, per altro verso, come l’uscita dallo stato primitivo, che nasce dall’istituzione arbitraria della proprietà privata, abbia prodotto «composti funesti alla felicità e all’innocenza» (Discorso sull’origine della disuguaglianza, 1754, II). Lo stesso Colin si rende conto di aver perduto «dolci momenti» (Devin, sc. V, air), non ascoltando i propri sentimenti per Colette e perseguendo piaceri vani ed artificiali, come «castelli, grandezza e ricchezza», tutti ‘valori’ che presuppongono la società civile ed un sistema di appartenenza ‘privata’ della ricchezza materiale e della stima altrui. Egli saluta questi amori fittizi con un commosso «adieu», intonando in minore la prima parte della sua aria, con un tema cantabile che viene poi ripreso dall’orchestra durante la ‘pantomima’ dell’ultima scena, all’ingresso del signore del castello: forse, qui, l’autore vuole ricordare allo spettatore che le asimmetriche relazioni di potere, tipiche della civiltà, non sono cosa di cui ci si liberi facilmente. Ciò nondimeno, Rousseau insiste sul gioco di opposizioni, sottolineando come neanche il ‘potere dei signori’ («de seigneurs d’importance / … [la] puissance», ibid.) procuri all’uomo la felicità. Nell’ottava scena, infine, l’indovino rende ancor più esplicito il divario fra il contesto della città (ville), in cui prevale la ‘cortesia’ (amabilité), e quello del villaggio, che ospita l’«amore», termine con cui si richiama ogni sentimento innocente conforme alla «semplice natura» (sc. VIII, stanze I-II). Nella seconda stanza del brano finale, ritorna il termine «parure» (gli ‘ornamenti’) – impiegato in diverse parti del testo –, stavolta in evidente contrapposizione alla ‘natura’ («ici de la simple nature / … en d’autres lieux, de la parure»). Tale sostantivo serve, in generale, a richiamare i costumi corrotti dell’uomo ‘incivilito’ che, attraverso le «raffinatezze della mollezza e del lusso» (Lettera ai signori della Repubblica di Ginevra, premessa al Secondo discorso), diventano specchio della disuguaglianza fra gli uomini. 3. Linguaggio musicale ed intimità naturale – Nel quadro tratteggiato da Rousseau, il rapporto fra villaggio e città, fra la natura e la civiltà ‘iniqua’, l’elemento musicale ricopre un importante ruolo comunicativo e, in un certo senso, normativo. Da una parte, la concezione rousseauiana della musica deve leggersi alla luce di quella querelle des bouffons nella quale, al tempo del filosofo, si dibatteva se fosse meglio la musica italiana o quella francese. Ora, secondo Rousseau, schierato a favore della tradizione italiana, esiste un legame profondo tra la musica che si sviluppa in un dato Paese e l’evoluzione della sua lingua. In particolare, nella Lettera sulla musica francese (1753) e nel postumo Saggio sull’origine delle lingue, egli afferma che la tradizione francese non potrebbe 115 Relazioni repulsive: legge, natura e musica in un’opera buffa di Rousseau partorire buona musica, essendo il francese una lingua che poco si presta alla musicalità. La parentela fra linguaggio musicale e linguaggio verbale si articola, oltre che nella ‘teoria’, anche nella ‘pratica’ compositiva del filosofo, per il quale la musica dovrebbe esprimere la spontaneità dell’istinto naturale e non, invece, una serie di convenzioni arbitrarie. In queste convinzioni, che deriverebbero dalla lezione di Jean Baptiste Dubos, si nascondono implicazioni politiche non secondarie, che in parte giustificano l’accostamento fra L’indovino del villaggio e La serva padrona di Pergolesi, con cui l’intermezzo di Rousseau viene solitamente confrontato. Senza dubbio, l’intento polemico dell’opera napoletana è ben più esplicito rispetto alla critica dei rapporti di potere ravvisabile nel Devin, ma non deve dimenticarsi che le due opere sottendono prospettive ‘politiche’, almeno in parte, differenti: se, da una parte, l’intraprendente serva Serpina desidera esser rispettata e riverita come «padrona, / arcipadrona, padronissima», dall’altra parte gli abitanti del village non vogliono abbandonare lo stato felice in cui si trovano, poiché sono l’incivilimento e l’assunzione delle convenzioni cortesi a causare l’infelicità. Le due opere condividono, peraltro, alcune soluzioni tecniche – in cui l’abilità di Pergolesi non è certamente eguagliata da Rousseau –, fra le quali una pare estremamente significativa per il nostro discorso. Si tratta dell’impiego del recitativo secondo uno stile ‘naturale’, che nell’Indovino è «accentato in maniera del tutto nuova, e proced[e] in uno con la parola parlata» (Conf., VIII, 2). Fornendo numerose indicazioni all’esecutore (cantante e strumentista), Rousseau cerca di costruire una strettissima corrispondenza fra le dinamiche del suono ed il significato del testo recitato, per trasmettere fedelmente la spontaneità del linguaggio e l’atmosfera d’intimità che caratterizza la vita nel villaggio. Questo stile musicale, che tutto sommato sembra abbastanza originale, funziona come una ‘cassa di risonanza’ per le posizioni filosofico-giuridiche dell’autore. L’intimità naturale, celebrata nel testo e rimarcata dalla musica, non è soltanto il tema di una narrazione, ma è anche oggetto di una norma. Rousseau, infatti, partendo dalla ‘descrizione’ d’uno stato primitivo e naturale, ricava la ‘prescrizione’ in relazione al giusto ed all’ingiusto, violando così – in buona compagnia degli altri giusnaturalisti – la famosa ‘legge di Hume’ per cui non si può ‘saltare’ arbitrariamente dall’essere al dover essere. 4. Relazioni nello stato di natura? – La vita del villaggio assume, come s’è detto, un significato normativo, che riferisce gli attributi di ‘giustizia’ e ‘bontà’ alle relazioni spontanee, nella misura in cui queste seguono l’istinto naturale – si badi, è sempre Rousseau a stabilire il confine tra ‘naturale’ e ‘artificiale’ – e qualifica, al contrario, come ingiusto e cattivo ciò che viene dalla civiltà e produce gelosia, vanità ed invidia. Tale significato normativo è, in parte, accennato nel duetto dei due amanti, che dichiarano di voler accettare l’amore come propria «legge» («que l’amour soit notre loi», Devin, sc. VI, ensemble). Anche la figura dell’indovino – 116 PIER GIUSEPPE PUGGIONI che non esercita veramente poteri divinatori, ma è creduto ‘magico’ dagli abitanti del villaggio – sembra una sorta di custode di queste ‘prescrizioni’, quasi per darci un’avvisaglia di quella «religione civile» (Contratto sociale, 1762, IV, 8) i cui articoli di fede sono funzionali al rispetto delle norme vigenti in un dato ordine sociale, che nel Contrat è ‘civile’, mentre qui sarebbe ‘naturale’. L’intimità descritta nel Devin, che si fonda sull’esigenza di conformarsi alla legge di natura, potrebbe, tuttavia, essere intesa come un’aporia nella concezione rousseauiana dello stato di natura, che da un lato sembra descrivere un uomo primitivo isolato e autosufficiente, ma dall’altro assume che certe relazioni siano comunque indotte dalla natura stessa. Ora, alcuni studi di storia della filosofia (come quello di Annamaria Loche, Immagini dello stato di natura, Milano, 2003) hanno rilevato come lo stato di natura in Rousseau assuma fattezze in parte diverse nelle varie opere, ma questo non ci impedisce di ritenere che, per il filosofo ginevrino, il bisogno fisico che guida l’istinto dell’uomo primitivo sia solo una delle determinazioni che lo caratterizzano. Senza dubbio, l’unione degli amanti è spontanea, informale, ed è sempre possibile – come nota l’indovino – che i due un giorno si separino seguendo il capriccio dei sentimenti («l’amore cresce … / s’assopisce …», Devin, sc. II, air), ma ciò non esclude che, in generale, per realizzare la propria felicità (bonheur) l’uomo debba passare da alcune relazioni che comportano la felicità altrui. D’altronde, è un sentimento naturale a guidare la giovane coppia della Nuova Eloisa (1761), che vuole unirsi in un modo libero dalle convenzioni civili. La stessa pietà, descritta come «sentimento naturale», è una caratteristica umana che «ci porta senza riflessione al soccorso di quelli che noi vediam soffrire» (Discorso sull’origine della disuguaglianza, I) e, dunque, alla relazione con l’altro. Si può sostenere, allora, che in questa composizione rousseauiana, dietro la quale si cela uno sforzo pedagogico che prelude all’Emilio (1762), oltre ai rapporti nocivi e corrotti della società civile iniqua, vi sia spazio anche per un altro insieme di rapporti, che sono ‘naturali’ nella misura in cui assumono che l’individuo non basti veramente a se stesso. 117 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 117-126 TANTO PEGGIO PER I FATTI: L'IDIOSINCRASIA DEL POSITIVISMO GIURIDICO ANDREA RACITI 1. Il diritto e il resto Ai nostri giorni, a volte, si usa sentire ancora nei piccoli e grandi consessi della scienza del diritto una frase latina – un brocardum – che suona così: “Ius causa hominum est”. Il diritto esiste per gli uomini, è utile solo per loro. Ed 118 ANDREA RACITI effettivamente, presa nel suo palmare, quasi triviale, significato, non si può che ammettere la correttezza di questa affermazione. Proprio una volta che si sia preso per buono questo detto, non bisogna nasconderselo, iniziano i problemi. Diciamolo subito: i problemi che sorgono dall'interpretazione di questa (apparentemente) piana e ingenua formula non vengono quasi mai considerati dalla scienza del diritto odierna, e le ragioni di questa mancata interrogazione sono certamente molteplici. Diciamo fin d'ora un'altra cosa: queste ragioni mi appaiono del tutto legittime, se considero il punto di vista del giuspositivista. Anzi, qui avanzo l'ipotesi che queste ragioni rispondano ad un fondo di “verità necessario” per il giuspositivista, nel senso che questo fondo riguarda la stessa sopravvivenza della scienza giuridica. La scienza giuridica, appunto, deve garantirsi la sopravvivenza, deve mantenersi in vita, preservarsi. Ogni ente per preservarsi deve ritagliarsi uno spazio. Come? Negando ciò che lo circonda. Ora, la scienza giuridica, che non è solo un ente “spirituale”, ovvero un complesso di conoscenze, dottrine disparate, indirizzi giurisprudenziali, è fatta di uomini, di gente che ha come sua passione un oggetto particolare, particolarissimo, quasi indefinibile, che chiamiamo “diritto”. La scienza di cui parliamo, pertanto, deve isolare quel fenomeno di cui si occupa da tutto il resto. Questo resto, appunto, non conta ai fini della scienza. Bisogna astrarre il diritto dal magma in cui si trova originariamente e farne perdere il più possibile le tracce, perché il resto è pericoloso per la sopravvivenza della scienza, rischia di macchiarla con un mìasma, una lordura, una contaminazione. Serve garantire una certa purezza alla scienza del diritto. Adesso, certamente, delle orecchie mediamente informate sulle vicissitudini storiche e dottrinali che hanno riguardato la teoria del diritto, penseranno subito che il mio riferimento alla purezza della scienza giuridica riguardi la teoria elaborata dal grande giurista austriaco Hans Kelsen. Queste orecchie, per così dire, penserebbero correttamente. Tuttavia, non penserebbero ancora a sufficienza. La dottrina formal-imperativista di Kelsen, che troviamo esposta nei suoi aspetti essenziali in testi quali La Dottrina pura del diritto (1934) e nella Teoria generale del diritto e dello Stato (1945), non è che una e, forse, neanche la più estrema delle formulazioni contemporanee di un indirizzo filosofico incredibilmente pervasivo e fondamentale per la storia del diritto: il positivismo giuridico. Non si tenterà qui una ricostruzione storica della pur avvincente trama del giuspositivismo, impresa realizzata da tanti studiosi più che degnamente. In questo breve spazio, mi piacerebbe tracciare i caratteri essenziali di questo indirizzo, che, come tutti gli “ismi” consiste in qualcosa di più che un mero “ismo”. A mio modo di vedere, se – come ci insegna l’“archeologia del sapere” di Foucault - provassimo a compiere un'interrogazione del presente che getti un'ombra sul passato, ebbene, lo stato attuale della scienza del diritto ci si staglierebbe dinanzi come un “destino” in un certo senso. 119 Tanto peggio per i fatti: l’idiosincrasia del positivismo giuridico La “positività” del diritto, che isola se stessa dal resto costantemente inascoltato, si disvela come l'idiosincrasia della formula latina che si è citata più sopra. L'idiosincrasia di una specifica, e cionondimeno storicamente vincente, interpretazione del ius causa hominum est. La vittoria dell'interpretazione giuspositivista della formula presenta una variegata sintomatologia, che ci permette di individuare, con un grado di sufficiente certezza, i fautori del positivismo giuridico anche in coloro che apertamente lo rinnegano – di fatto così misconoscendolo - e si presentano quali alfieri dell'anti-formalismo, o di una visione ispirata al Freirecht, oppure all' “istituzionalismo” che si vuol rifare ad ogni costo al Santi Romano de L'ordinamento giuridico (1918) o a Maurice Hauriou, e, a volte, addirittura a Il Nomos della Terra (1950) di Carl Schmitt. In particolare, financo lo storico, il filosofo del diritto o il giurista teorico che intendessero liberarsi del positivismo giuridico con un colpo di spugna, alla fine, alla prova “dei fatti”, non potrebbero che cadere in una stridente contraddizione, costretti ad argomentare sempre a favore di una pur minima “positività” del diritto. Il carattere minimale della positività, stranamente, diventa quasi subito magicamente capace di assorbire il resto che rimane sempre impensato dalla scienza del diritto. Il presupposto dell'idiosincrasia che io denomino “positivismo giuridico” nasce dall'interpretazione (quasi) letterale della formula latina: è diritto solo ciò che è posto da un’autorità umana, quali siano poi i suoi criteri di legittimazione si vedrà nei singoli ordinamenti e, in ogni caso, sarà tutt'al più un problema dell'etica o della filosofia politica, giammai della scienza del diritto. Alla domanda di Kant, che egli si pone nel contesto dei Principi metafisici della dottrina del diritto (1797), che suona così: “Quid sit iuris?”, che cos'è del diritto, cosa appartiene al diritto, la risposta non può essere che tautologica: è del diritto ciò che appartiene al diritto, ovvero, è diritto tutto ciò che è prodotto conformemente ad un'autorità umana preposta alla produzione del diritto. Se ci chiediamo da chi o da che cosa quell'autorità venga preposta, nasce la filosofia del diritto, che, secondo Kant, sarebbe un'interrogazione sulla giustizia del diritto stesso: “Quid sit ius?”, che cos'è il diritto? Tuttavia ci si potrebbe ulteriormente chiedere: siamo davvero approdati alla filosofia del diritto se partiamo dal presupposto che il diritto sia un quid? In qualche modo, anche la domanda della cosiddetta “filosofia del diritto” sembra mal posta, perché ci stiamo già dando una risposta abbastanza chiara: qualunque cosa sia, sappiamo già che il diritto è comunque una “cosa” o un “qualcosa” e che questa cosa o qualcosa certamente “è”. Quindi, qualunque cosa sia, il diritto è già subito identificato come un “che cosa”, un quid. E sì, questa cosa ha a che fare con l'uomo, è posta dagli uomini, causa hominum est, esiste per loro. Il resto invece, come sempre, deve rimanere silente, è ingombrante per una scienza del diritto la quale, se è davvero “scienza”, deve avere ben chiaro il suo oggetto, circoscriverlo, renderlo intelligibile dandogli un determinato “tono”, una voce 120 ANDREA RACITI (Stimme) che rimane fuori dal coro per possedere una sua propria determinazione (Be-stimmung). Attenzione, ciò non toglie che non esistano branche quali l'analisi economica del diritto o la sociologia del diritto o fini analisi politiche del diritto da parte dei politologi, ma anche, di recente, inedite collaborazioni tra filosofia del diritto e ingegneria gestionale, diritto e informatica... Insomma, chi più ne ha più ne metta. Come si potrebbe parlare di un'idiosincrasia, allora, vista tutta questa messe di interdisciplinarità? In realtà, a mio avviso, l'idiosincrasia del positivismo giuridico semplicemente si fa più estesa e pervasiva: tutte le analisi economiche, sociologiche, informatiche o ingegneristiche devono dare per presupposto e intelligibile il loro oggetto, il diritto: questa cosa posta da un'umana autorità preposta (da chi?) alla sua produzione, emanazione o creazione... Il linguaggio pseudo-teologico del positivismo giuridico ci offre un variegato bestiario dogmatico di cui servirci ai fini della scienza. 2. Un fantasma tangibile Allora, ci si pone un problema: ma non si stanno forse mettendo i puntini sulle “i”, spaccando il capello in quattro per un ingiustificato e personale livore contro una scienza del diritto che deve essere “positiva” per essere scienza? In fondo, il messaggio della scienza “positiva”, anche quella giuridica, sembra essere del tutto ragionevole: il diritto è qualcosa di tangibile, deve esserlo se si vuole farne scienza. Questo è, nel suo nocciolo essenziale, il fulcro del positivismo giuridico, così duro e infrangibile da mettere d'accordo anche coloro che si dicono anti-positivisti, antiformalisti, anti-legalisti, neo-contrattualisti, neo-giusnaturalisti. Insomma, gli “anti” e i “neo” non possono che concordare con la buona novella del positivismo giuridico. Il diritto è qualcosa, un “quid” tangibile, e anche quando è posto nella fantasmatica “natura” o “ragione” umana, anche quando fosse posto in primis da Dio stesso – si veda il De legibus ac Deo legislatore (1612) di Suarez per farsene un'idea – che il diritto sia un qualcosa, un quid posto, in un'ultima istanza, da un'autorità umana, rimane un presupposto irrinunciabile. Il resto, appunto, non rileva. Difatti, cosa significa parlare di “natura” o di “ragione”, se non di un'autoautorità, di un comando interiorizzato che detta una determinata regola che guidi l'uomo, che lo conduca per mano? Spinoza parla di un uomo che pensa e agisce ex ductu rationis, che segue appunto il dictamen rationis. Ciò che può sembrare giustificato sul piano ontologico, trasposto sul piano giuridico (ciò che Spinoza fa soprattutto nel Tractatus politicus) si trasforma nell'asserzione incondizionata della positività (qui presentata come statalità) del diritto, pur se teoreticamente agganciato sempre a un diritto naturale che, come centro vuoto a cui sempre far riferimento, possa ricordare allo Stato di garantire la tanto agognata libertas philosophandi. 121 Tanto peggio per i fatti: l’idiosincrasia del positivismo giuridico Il fulcro dell'idiosincrasia giuspositivista lo riscontriamo proprio nell’affermazione dell’esistenza di un centro vuoto a cui il pensiero si obbliga far riferimento: “natura”, “ragione”, “volontà di Dio”, “volontà del legislatore”, “Carta costituzionale”, “Grundnorm”, “Sovranità”. Ciaramelli, nel suo Consenso sociale e legittimazione giuridica (2013), parla di una eterogenesi dei fini del giusnaturalismo: la originaria affermazione di un diritto meta-positivo e meta-fisico (a volte, come nella sua versione confessionale, meta-umano) realizza un fine diverso da quello che si era originariamente prefissato: la positivizzazione del diritto naturale da parte dell'autorità dello Stato, il quale sancisce il suo monopolio della produzione giuridica a partire dalla Rivoluzione francese, facendosi garante ed effettivo performer del diritto naturale stesso. Nonostante il risultato, da un punto di vista storico, sia consistito certamente nella conversione per via autoritativa del diritto naturale in diritto positivo, non credo che questo risultato possa definirsi altro rispetto al fine originariamente prefissato. Non solo Spinoza, ma tutta la filosofia propugnatrice di una forma di giusnaturalismo, da Grozio e Hobbes fino a Leibniz, Locke, Rousseau e Kant, mai sganciò il diritto naturale dalla tensione verso una realizzazione storica in forma statale: se il centro vuoto del diritto naturale nasceva come mera idea filosofica, in statum potentiae, per passare in actu era necessario che questo centro vuoto si realizzasse storicamente in forma autoritativa. Ma, sempre, attenzione, di un centro vuoto trattavasi, e si tratta ancor oggi, quando si parla di positività del diritto. Con questo, naturalmente, non si vuole affatto dire che la filosofia politica e giuridica moderna abbia in qualche modo preparato l'avvento del positivismo giuridico nella sua forma avanzata o altre simili esagerazioni: la filosofia non detiene un simile potere fondativo. Si vuol dire, piuttosto, che la filosofia dei secoli XVII-XVIII è riuscita, come ogni vera filosofia, a esporre il destino storico della sua epoca, essa davvero compì l'impresa di “cogliere in pensieri il suo tempo”, come direbbe l'Hegel dei Lineamenti di filosofia del diritto (1821). La filosofia moderna ha esposto il destino storico dell'Occidente, facendo emergere la positività del diritto come la sua realtà effettiva. La ricchezza della filosofia sta nel presentare gli innumerevoli aspetti dello Stesso in guise diversissime, quasi sempre opposte l'una all'altra, in base alla visione particolare e spiccatamente penetrante del singolo filosofo. Non credo che la filosofia possa ridursi soltanto ad una battaglia dei caratteri umani come vorrebbe Hans Jonas, o alla mera “invenzione di concetti” propugnata da Deleuze e Guattari. Questi aspetti sono certamente importanti e contribuiscono a delineare le infinite sfaccettature dell'avventura storica che la filosofia è. Ma, senza quel potere espositivo, capace di mettere in luce lo Stesso, il destino storico di un'epoca, attraverso opinioni, linguaggi e, a volte, “sistemi” diversissimi tra loro, non si andrebbe oltre una, pur grande, letteratura. 122 ANDREA RACITI Ecco che, invece, qui si coglie quell'aspetto dello Stesso che ho denominato, in senso lato, “positivismo giuridico”. Esso consiste nella credenza in un centro vuoto di per sé sussistente, una vera e propria ipostasi, che, nelle sue varie formulazioni, ci si presenta come una sorta di fantasma capace di produrre legittimazione. Legittimazione di che cosa? Di determinate azioni umane dirette ad influenzarne altre. Ed è adesso che, se cerchiamo di guardare appena sotto il nostro naso, ovvero attraverso la nostra esperienza, potremo provare a renderci conto del fatto dell'intangibilità che fonda il positivismo giuridico, l'assoluta discrasia rispetto all'umana esperienza che lo caratterizza. Anche in questi giorni, per fare un esempio, si fa pedissequamente riferimento ai nostri diritti fondamentali sanciti dalla “Costituzione”, o, a volte, in funzione sterilmente polemica, alla “riserva di legge”, e, naturalmente, agli atti normativi del Governo, dai decreti legge agli ormai celeberrimi decreti del Presidente del Consiglio, fino ad arrivare alle sentenze dei tribunali o della stessa Corte costituzionale, ma anche gli atti normativi di Regioni ed enti locali. Quanto qui è stato sbrigativamente elencato costituisce l'armamentario basilare del giurista, alcune delle cosiddette “fonti del diritto”, anche se, ma solo formalmente, le sentenze sarebbero da escludere in un ordinamento di civil law, ma di fatto, come i giuristi sanno bene, vanno incluse eccome (nella teoria kelseniana, su questo, a modo suo, più “realista”, le sentenze sarebbero “norme individuali”). Ma il punto è il seguente: tutto ciò è davvero qualcosa di tangibile e di vivo? Come una volta scrisse Norberto Bobbio in uno dei suoi saggi kelseniani contenuti adesso in Diritto e potere (2014), riferendosi però alla Grundnorm della dottrina pura, anche nella situazione di cui parliamo qui il giurista positivo si trova davanti al “capo delle tempeste” della sua scienza. Ciò che lo scienziato del diritto afferma è: bisogna fare costante riferimento, ad esempio, ai “diritti fondamentali” sanciti dalla Costituzione, bisogna tener presente gli indirizzi giurisprudenziali della Corte Costituzionale in merito, e il resto... beh, considerare questo resto, ciò che sta sotto il nostro naso, ma che sfugge sempre ai fantasmi che il positivismo porta a spasso come vessilli strappati, questo resto è reputato inutile. Potremmo tentare di dare un nome al resto; per esempio, adottando il punto di vista delle ipostasi giuridiche, potremmo chiamarlo ingiustizia. Dal punto di vista della giustizia immancabilmente “posta”, propria del positivismo giuridico, la non conformità di un fatto rispetto all'ipostasi della giustizia posta, che può chiamarsi con il nome di “diritti fondamentali costituzionali” o di “sentenza additiva di principio della Corte Costituzionale”, è certamente da considerarsi illegittimo, incostituzionale, illegale, o che dir si voglia. Il resto, ossia ciò che è effettivamente il vissuto reale del singolo, una volta considerato illegittimo rispetto ad una delle ipostasi di turno, non ha una sua ragion d'essere oltre il giudizio – altrimenti detto “qualificazione normativa” - che discende dalla bocca (?) del fantasma giuridico. 123 Tanto peggio per i fatti: l’idiosincrasia del positivismo giuridico Nel caso in cui, per fare un esempio non troppo di scuola, si venga selvaggiamente manganellati da qualche poliziotto in un autobus o in un treno perché ci si trova sul mezzo senza biglietto durante l'attuale quarantena, sarà più o meno di questo genere la risposta del giurista positivo: che si inizi un procedimento penale e si accertino le responsabilità. Tutto ciò è formalmente ineccepibile. Chiunque farebbe lo stesso e si rivolgerebbe alla Procura, con ogni probabilità. Cosa succede allora? Il rimedio all'ingiustizia si otterrebbe con l'inclusione del resto, così com'è, in una dinamica in cui un'azione incondizionata, ma che si presume debba essere vincolata all'osservanza della legge e al rispetto dei diritti fondamentali costituzionali, viene giudicata in base alle medesime ipostasi alle quali quell'azione si credeva dovesse essere vincolata. Il fantasma, in un certo senso, si rivolge su se stesso e a se stesso ed emana un giudizio su qualcosa che crede di vincolare, ma da cui si trova totalmente scisso, sganciato irrimediabilmente. Se noi guardiamo al solo fantasma per cercare giustizia e legittimazione otterremo solo un flatus vocis, formule normative o giudiziarie. Nel caso dell’attuale situazione italiana, questa dinamica fantasmatica si traduce nel disconoscimento dell'essenza storica della Costituzione stessa: questa non è nata da un'operazione di “bilanciamento” di diritti, né da astratte formulazioni, bensì da una lotta storica contro un nemico concreto, da una guerra di Resistenza. L'intera struttura formale del testo approvato il 22 Dicembre del 1947 acquista un senso, un orientamento determinato solo e soltanto a partire dalla Costituzione storica, nata dalla pura eccezionalità dell'evento fondatore che la costituzione formale ci ricorda nella XII disposizione transitoria e finale, la quale vieta la ricostituzione del disciolto Partito fascista. Secondo l'interpretazione giuspositivista, con questa disposizione il legislatore costituente avrebbe previsto una deroga rispetto alla libertà di associazione sancita dall'articolo 18 della stessa costituzione formale. Ma, se guardiamo oltre la dogmatica ipostatica del giuspositivismo, ci accorgiamo che proprio nella XII disposizione transitoria e finale la costituzione formale riporta alla memoria dei cittadini il conflitto estremo da cui è scaturito un novus ordo saeclorum, il quale più che causato, si dovrebbe dire che si è occasionato da un evento eccezionale, strutturandosi in un ordinamento che nega alla radice il suo nemico storico sul quale ha prevalso. La Costituzione storica è l'unica davvero esistente, perché è l'unico evento davvero accaduto, tale da dare un senso determinato ad espressioni contenute nella costituzione formale che, altrimenti, ne sarebbero del tutto prive. Se si disconosce l'evento eccezionale che la Costituzione è, riducendola a una mera “Carta”, come il giuspositivismo deve fare per preservarsi, si giunge ben presto alla miopia etica che fa tutt'uno con il positivismo giuridico stesso: pretendendo e credendo fermamente di guardare ai “fatti”, il giuspositivismo si concentra su statuizioni astratte, ovvero costruzioni evanescenti alla quali si presta fede, che si tengonoper- vere. Wahr-nehmung, la percezione, letteralmente vuol dire proprio questo: è un tenere, un prendere-per-vero, ossia rappresentarsi una costruzione astratta 124 ANDREA RACITI a partire da una somma di tratti comuni riscontrabili nell'esperienza. Il positivismo giuridico, in quanto scienza as-tratta, allontana e separa dall'esperienza alcuni tratti per farne degli universali mentali (ad es. i “principi fondamentali della Costituzione”). E fino a qui non ci sarebbe nulla di strano, trattandosi di un procedimento del tutto naturale per l'essere umano il rappresentarsi gli oggetti dell'esperienza in schemi astratti: la descrizione che, tra gli altri, Hegel fa della Wahrnehmung, nella sua Fenomenologia dello Spirito (1807), ci descrive proprio una simile dinamica. Tuttavia, se questo universale astratto viene scambiato per oggetto di “scienza”, poiché si crede che l'azione degli uomini dipenda e sia condizionata da questi universali (es. dalle norme giuridiche o dalle sentenze giudiziarie) e, di conseguenza, si crede così di stare parlando della “concretezza”, proprio qui si presenta l'idiosincrasia che il positivismo giuridico non può non essere quando pensa “scientificamente”. Credere che le ipostasi giuridiche siano effettivamente reali di per sé, significa non considerare l'ineliminabile scarto che vi è tra un universale astratto (normativo) e la sua esecuzione. Se si giudicherà quest'ultima sussumendola in schemi qualificativi a priori, si trasporrà un fatto sotto la lente di una proposizione sciolta dal fatto medesimo, credendo che il fatto possa esser stato o possa venire in futuro condizionato dalla proposizione. Il fantasma, ancora una volta, si rivolge su se stesso e a se stesso. 3. L’idiosincrasia “scientifica” Da questa credenza derivano tutte le formulazioni “scientifiche” del giuspositivismo. Una molto in voga da sempre, ma ripetuta spessissimo in questi giorni di quarantena, è quella del bilanciamento dei diritti fondamentali in Costituzione: si crede, in poche parole, che “la Costituzione”, intesa solo come “Carta” naturalmente, sia dotata di un suo buon senso, potremmo dire, e, tra le altre sue qualità naturali, che essa “parli” e, stando a ciò che dice, utilizzi una bilancia per stabilire se e quando dev'essere compresso un determinato diritto fondamentale a favore di un altro. Tutto ciò, stando a sentire gli “interpreti”, veri e propri aruspices della ornitologica, ma, attenzione, “immanente” volontà del “costituente”, indicherebbe che i diritti vengono reciprocamente limitati in base alle esigenze dettate dalle circostanze. Nulla prevale e tutto si equilibra nel magico sistema ipostatico, verbale, che la Costituzione presenterebbe da sé, in forza di valori tanto “pregnanti” quanto “tangibili”, sempre a parere della “Carta”… Preso atto della ricostruzione divinatoria, uscendo soddisfatti dal pensatoio del giuspositivismo, come Strepsiade dopo l'incontro con Socrate ne Le Nuvole di Aristofane, torniamo a casa e ci guardiamo intorno, o, almeno, guardiamo sotto il nostro naso. Cosa vediamo? Il Parlamento non esercita più alcuna reale attività legislativa autonoma durante lo stato d'eccezione che stiamo vivendo in questi mesi. Certo, 125 Tanto peggio per i fatti: l’idiosincrasia del positivismo giuridico neanche prima dello stato d'eccezione degli ultimi due mesi, anzi da più di due decenni a questa parte, si può dire che l'organo centrale di una Repubblica che si dichiara “parlamentare” abbia esercitato pienamente le sue alte funzioni. L'attività di conversione dei decreti-legge governativi appare predominante da anni, pochissimi sono ormai i progetti di legge di iniziativa parlamentare che vengono approvati. La necessità e l'urgenza scandiscono l'attività legislativa della Repubblica. Ma, per tornare agli ultimi due mesi, adesso si vede qualcosa di più: l'annichilimento persino dell'attività di indirizzo del Parlamento sull'attività del Governo. Questa situazione, tra l'altro, non può neppure essere imputata davvero a questo o a qualunque altro Governo: è il Parlamento che sembra aver esaurito la sua funzione storica, da decenni, e, negli ultimi anni, dall'emergenza economica per giungere all'attuale emergenza sanitaria, l'organo in cui, più che in ogni altra istituzione, si dovrebbe concentrare la cosiddetta “sovranità popolare”, contempla la propria agonia politica. Anche qui, da buoni giuspositivisti, dovremmo richiamare noi stessi alla calma, alla pacatezza, ad accogliere l'invito a porgere lo sguardo alla limpidezza del dettato costituzionale al riguardo: poche e scarne disposizioni (artt. 92-96 Cost.) sono dedicate dalla costituzione formale alla disciplina dei poteri del Governo, i quali vengono descritti mediante formulazioni generalissime e vaghe (“direzione della politica nazionale” attribuita al Presidente del Consiglio, etc.), proprio perché si sono voluti limitare i poteri del Governo, dirà il giurista positivo, dopo l'accentramento inverosimile nelle mani di esso durante il fascismo. Certo, un positivista più accorto potrebbe avanzare l'ipotesi che più indeterminati sono i poteri più si autorizza la prassi ad estenderli de facto, traendo profitto dall'indeterminazione stessa. Ma questo, forse, è il massimo che potrà essere affermato dal giuspositivista, azzardando magari dei riferimenti a concetti solitamente presi in prestito dalla filosofia giuridica e dalla scienza politica come la “crisi della democrazia parlamentare” o, addirittura, la “crisi dello Stato di diritto”, formule che, se restano tali, ossia del tutto impensate, condividono con le ipostasi giuridiche la medesima natura fantasmatica. Ed ecco che, a questo punto, di fronte all'attuale situazione eccezionale, ciò che il giurista positivo vede chiaramente come “un fatto concreto” è un problema di bilanciamento. Davanti a noi, sotto il nostro naso, il resto rimasto impensato dal positivismo giuridico ci mostra una situazione in cui, con alterni risultati, un Governo, in nome della tutela prioritaria della salute, ha deciso che l'esercizio delle altre libertà fondamentali previste dalla Costituzione doveva essere praticamente annullato. Sarebbe del tutto inopportuno dare dei giudizi estemporanei su queste misure, le quali dipendono dallo stato d'eccezione attuale (rimando al mio articolo pubblicato su Endoxa nel mese di marzo: “Finzioni eccezionali”). A tal proposito si è voluto parlare e si parla ancora, usando un evergreen dei mitologemi giuridici, appunto, di bilanciamento. Bisognerebbe immaginare questa scena: se chiunque di noi, fino alla data del 4 Maggio, fosse uscito in macchina soltanto per “prendere un po' d'aria” come si suol dire, per poi tornare a casa, se fermato dalla 126 ANDREA RACITI polizia, sarebbe stato legittimamente multato. La libertà di circolazione è stata trasmutata dall'interno dallo stato d'eccezione, in cui regola e vita giungono a coincidere, in una sorta di soglia d'indeterminazione, come scrive Agamben in Stato di eccezione (2003). Ma non è necessario scomodare le raffinate analisi agambeniane. Poter circolare solo al verificarsi di determinate condizioni previste da un atto normativo del Governo (riassumibili nell'adempimento delle funzioni necessarie alla sopravvivenza: salute, lavoro, approvvigionamento alimentare) non significa poter circolare: una vera libertà di circolare non può essere necessariamente vincolata all'assolvimento di attività volte al mantenimento del mio sostrato biologico. Parlare di bilanciamento può risultare un buon modo di parlare per metafora, ma è lontano anni luce da una qualsiasi possibile concretezza. Di fronte a una prassi incondizionata, il centro vuoto costituito dai dogmi (perlopiù) normativi del giuspositivismo ci mostra la sua funzione storica: la produzione di legittimazione di una prassi incondizionata, che non ha effettivamente bisogno del centro vuoto, ovvero, non ha bisogno, ad esempio, dei principi costituzionali per essere portato ad esecuzione. Le ipostasi giuridiche serviranno, allora, solo a legittimare, per il tempo necessario, la prassi incondizionata dell'autorità governativa, la quale si attua concretamente nell'azione delle forze di pubblica sicurezza, come lo stato di eccezione che stiamo vivendo paradigmaticamente ci insegna. Walter Benjamin, non a caso, in Per la critica della violenza (1921), individua nella polizia, e nella sua “presenza spettrale”, la vera forza motrice del diritto statale. Ciò non toglie che, una volta tramontato lo stato di eccezione, le leggi di conversione dei decreti legge del Governo potranno essere dichiarate incostituzionali, determinati agenti o ufficiali delle forze dell'ordine potranno essere processati per gli abusi, si faranno ricorsi amministrativi al Tar o al Consiglio di Stato per invalidare atti amministrativi vari, etc. Il fantasma, di nuovo, si rivolgerà a se stesso. Ma, per la durata dell'esecuzione, dell'attuazione della prassi incondizionata, nulla potrà essere invalidato a partire dalla considerazione di proposizioni normative scritte e solenni ragionamenti basati su mitologici principi e bilance. L'unico limite reale, forse, sembrerebbe davvero costituito da un misto di timore e di buon senso dei singoli “rappresentanti della legge”, ma, come garanzia reale contro una prassi svincolata da universalità astratte, è davvero troppo poco. Non si può pensare seriamente che dei meri fantasmi linguistici costituiscano un reale limite ad una prassi di polizia che, nella sua concreta esecuzione, per definizione, non conosce limiti a priori. Ma, a questo punto, il buon senso del giurista (o del filosofo del diritto), che magari si professa anti-formalista e anti-positivista tout court, potrebbe invitarci alla moderazione, dicendo: “Sarà pur vero che ci sono stati degli abusi in questa situazione, ma, se guardiamo alle statistiche, ai grandi numeri, si tratta pur sempre 127 Tanto peggio per i fatti: l’idiosincrasia del positivismo giuridico di casi sparuti, marginali, qualche migliaio, forse centinaia... Non è importante, il punto è che le misure stanno funzionando, i cittadini sono perlopiù responsabili, i principi costituzionali guidano costantemente la prassi, e, diciamocelo pure, lo stato di eccezione non esiste!”. Una volta giunti alla negazione radicale del fatto che, in questo momento, la popolazione stia vivendo una vera sospensione dell’ordinamento costituzionale ossia, lo stato di eccezione - forse si realizza il vero compimento, il pleroma del positivismo giuridico. Tanta è la repulsione idiosincratica per il nudo e schietto fatto di verghiana memoria, da credere che l'esercizio delle libertà costituzionali sia tutto sommato sempre posto sotto la guida saggia della “Carta costituzionale”, tale che non si possa davvero parlare di uno stato di eccezione. Ma, sia detto solo di passaggio, sarebbe giusto far presente al nostro ipotetico interlocutore che lo stato di eccezione non è una situazione totalmente altra rispetto all’ordine costituzionale concreto, bensì consiste in una una dinamica nomotetica inscritta nella medesima struttura storica della Costituzione, ma certamente non interna alla mera costituzione formale. Tuttavia, il giuspositivista tenderà, perlopiù, a credere fermamente che le ipostasi giuridiche che tanto gli stanno a cuore, ma che vengono travolte assai facilmente da un tratto di penna alla Kirchmann o da una manganellata, sussistano comunque, anche quando non se ne vede più l'ombra, e, se magari si verificano abusi e “violazioni dei diritti”, beh, ci si rivolgerà, a tempo debito, magari “quando l'emergenza sarà finita”, ai patri Tribunali... Le violazioni, certo, saranno qualche migliaia, forse centinaia, ma, d'altronde, lo “scienziato” del diritto deve guardare ai grandi numeri, a ciò che è rilevante in termini statistici, mentre il resto, appunto, ormai lo sappiamo, è inutile ai fini di una “vera scienza”, i singoli casi sono davvero fuori legge, hors de la loi. Insomma, la formula del giuspositivismo potrebbe così riassumersi: se i fatti contraddicono la regola, tanto peggio per i fatti! Quest'ultima formula (“Tanto peggio per i fatti!”) sembra attagliarsi davvero bene al positivismo giuridico. Non si sa se realmente i personaggi a cui la frase è stata attribuita l'abbiano mai pronunciata, probabilmente no. La si attribuì a Fichte, a Hegel, e, più recentemente, a Emanuele Severino: pettegolezzi filosofici. Ma questa impossibilità di attribuzione a una persona, a un chi determinato, ci mostra la recondita sottigliezza di questa sorta di aforisma senza autore, la performatività di questa frase: la sua stessa formulazione linguistica è immediatamente efficace, non c'è davvero alcun fatto (chi l'ha detta?), ma l'assenza di un fatto diventa l'unico fatto rilevante (positivismo giuridico). La scissione, l'isolamento da qualsiasi tipo di fatto per rifugiarsi nella pura ipostasi linguistica che la frase rappresenta, non ci permetterà mai di stabilire se, da qualcuno di coloro a cui fu attribuita, fu davvero pronunciata. Che ne è, alla fine, del resto? 127 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 127-130 ORTEGA Y GASSET E LE MASSE: UN’INTOLLERANZA LUNGIMIRANTE MATTIA ZANCANARO Sono trascorsi ormai novant’anni da quando José Ortega y Gasset, saggista, filosofo e giornalista spagnolo di rara finezza, pubblicava La ribellione delle masse, la sua opera più celebre e apprezzata. Con gli occhi rivolti a un’Europa tormentata da conflitti identitari e crisi economiche, Ortega scrive un testo crudo e disincantato, destinato a rimanere nei classici della storia della filosofia, e questo perché, come ogni vero classico, oltre a non invecchiare mai veramente, sa guardare così lontano da garantirsi l’immortalità. Non è certo compito mio fornire qui un riassunto o un elogio di quest’opera (di cui del resto non avrebbe alcun bisogno). Mi pare, però, che ripercorrerne alcuni passi possa renderci consapevoli di come, al contrario di quanto spesso pensiamo, da uno screzio personale possa nascere anche qualcosa buono. Sì, l’idiosincrasia può essere motore di idee e riflessioni profondamente vere proprio perché mosse da un fastidio che non intende concedere sconti o appiattirsi su analisi di convenienza. Vediamo allora, 128 MATTIA ZANCANARO brevemente, quale sorprendente risultato produce l’idiosincrasia di Ortega y Gasset, che, da buon giornalista, è uno che non ama mandarle a dire. Può scegliere tra una marea di problemi di cui occuparsi, dato che il periodo storico non è per nulla avaro di stimoli per la penna di uno come lui, grande critico della contemporaneità. La crescita repentina dei partiti nazi-fascisti, la crisi delle democrazie occidentali, la fine dei grandi imperi tradizionali: tutti temi di straordinario interesse, ma, a detta di Ortega, subordinati per importanza a qualcosa di più rilevante. Ciò che più di tutto lo disturba – e non solo perché ha a cuore il destino dell’Europa e del mondo, ma anche e soprattutto per una vera e propria repulsione personale – è «l’avvento delle masse al pieno potere sociale». Converrà, per meglio capire come Ortega la vede sull’argomento, continuare a citare le sue stesse parole: «E poiché le masse, per definizione, non devono né possono dirigere la propria esistenza, né tantomeno governare la società, questo significa che l’Europa soffre attualmente la più grave crisi che popoli, nazioni, culture possano patire». La massa è lo strato della popolazione – generalmente opposto alla minoranza – i cui membri, proprio in quanto uomini-massa, non distinguono se stessi dagli altri del loro gruppo, costituendo un tipo umano incapace di definirsi: «massa è tutto ciò che non valuta se stesso». Quel che è peggio, e con questo forse ci avviciniamo più evidentemente all’attualità, è che la massa non può essere informata, nel duplice senso della parola: non può ricevere informazioni rielaborandole criticamente e, in quanto massa informe, non può ricevere una forma. Ortega, studioso della Madrid colta e pensatore d’élite, mette in guardia i suoi contemporanei dagli uomini-massa, che, fa presente, sono sempre esistiti, ma che solo dalla fine del XIX secolo hanno potuto alzare la voce, ribellandosi a quelle minoranze colte – di cui lui stesso fa parte – che li hanno sempre governati e guardati dall’alto. Sfruttando la magnanimità delle democrazie liberali e il repentino sviluppo della tecnica, le masse reclamano ora – nel 1920 come nel 2020 – pieni poteri. Non c’è bisogno di essere docenti, professionisti della politica o capitalisti; per ambire al potere basta, per usare un termine non proprio privo di implicazioni, esserci: «Il fatto caratteristico del momento è che l’anima volgare, riconoscendosi volgare, ha l’audacia di affermare il diritto della volgarità e lo impone ovunque». Al lettore parrà di trovarsi davanti agli stralci dell’articolo di punta di un qualche giornale uscito negli ultimi mesi, e invece legge le acri parole di un pensatore del secolo scorso. Sembra un cliché fra gli altri, quello dell’intellettuale di città che osserva con spocchia e fastidio il crescere del potenziale di vita delle classi meno agiate. Il presunto cliché, però, è presto sfatato: in prima istanza, sono molti i pensatori che nello scorso secolo guardano con soddisfazione all’aumento della vita (celebre espressione orteghiana) delle masse (basti pensare all’eterogeneo quanto vasto filone degli autori di impostazione marxista); in secondo luogo, quello di massa è un concetto più psicologico che collettivo, e ne fanno parte non soltanto gli umiliati e offesi, ma anche molti scienziati della nuova tecnica. Quella patita da Ortega y Gasset è insomma 129 Ortega y Gasset e le masse: un’intolleranza lungimirante un’idiosincrasia tutt’altro che scontata, e ancor meno scontata è la sua sorprendente lungimiranza. Se è vero che l’avvento dei movimenti di massa al governo e la vera e propria presa da parte delle masse dei social network e dei mezzi di comunicazione è accolta da alcune parti – di cui non è qui lecito fare il nome – con una certa simpatia, è altrettanto vero che questo avvento e questa presa rappresentano oggi un fatto incontestabile e decisivo per le dinamiche del nostro corpo sociale. La libera e sconsiderata espressione dei propri impulsi e l’ingratitudine verso chi ha reso possibile la sua condizione di totale agiatezza – dopo lunghi secoli di lotte per portare il pane a tavola – sono i tratti distintivi dell’uomo-massa degli anni ’20. Degli anni ’20 del secolo scorso, sì, ma anche di questo. La psicologia del bimbo viziato che vive di illimitatezze di cui non conosce i connotati, anziché suonarci come una lontana rimembranza del passato, bussa alla nostra porta come la più inquietante delle questioni. La caustica analisi di Ortega si fa ancora più interessante là dove, ricordando una volta di più che tutti rischiamo di farci risucchiare dalla massa, passa a parlare degli uomini-massa scienziati. Gli scienziati che lo circondano, figli dell’avanzatissima tecnica occidentale, vengono spietatamente definiti nuovi barbari. Specializzati fino all’esasperazione, sono come api chiuse nel proprio favo: conoscono alla perfezione un ristrettissimo campo, ma perdono di vista la scienza come movimento, e, come se non bastasse, in virtù del loro ben limitato sapere, pensano di potersi esprimere con competenza su qualsiasi argomento. È interessante ricordare, en passant, che simile a quella di Ortega è la critica mossa, nell’Apologia, dal Socrate platonico agli artigiani, colpevoli proprio di una errata presunzione di conoscenza dell’universale indotta dal loro padroneggiamento di un ristretto campo del sapere. Anche – e forse soprattutto – quest’ultima sferzata coglie nel segno anche ai nostri giorni, tratteggiando perfettamente la figura dell’ingegnere medio, che come tale è uomo-massa, tecnico ultra-specializzato del tutto incapace di riflettere sullo statuto e la natura delle scienze. Lo scienziatomedio, vero e proprio primitivo ben vestito, non tanto si accontenta del suo limitatissimo àmbito di competenza dimenticandosi tutto il resto, ma ritiene quest’ultimo, invece che una piccola parte, tutto ciò che in realtà serve sapere. La palese antipatia di Ortega per lo scienziato del suo tempo, a sua detta vittima senza speranza della barbarie dello specialismo, ci spinge inevitabilmente a guardarci attorno e a interrogarci sulla formazione e sulle capacità dei tecnici dei nostri giorni, fin troppo spesso avvolti da un’aura di santità che non aiuta a coglierne i limiti radicali. L’inquietudine di Ortega, che sfocia in vera e propria avversione categorica, è l’inquietudine di un pensatore che, nel difendere il suo diritto di appartenere a una minoranza lesa, indica consapevolmente un problema destinato ad angustiare per decenni l’intera società occidentale. Le accuse alle ingerenze della scienza trovano terreno particolarmente fertile nella situazione di emergenza da virus dell’ultimo periodo, un periodo in cui la tecnica – nella nobile veste della medicina – sta visibilmente rosicchiando spazio alle decisioni della politica, 130 MATTIA ZANCANARO minacciando di non arretrare nemmeno a emergenza finita. Masse e scienza, in apparenza agli antipodi, stringono un sodalizio potenzialmente deleterio, in grado di abbinare a competenze tecniche sorprendenti una sempre rinnovata volontà di potenza. Quello della filosofia di Ortega, in grado di sviluppare temi e problemi oggi sempre più inquietanti con diversi decenni di anticipo, è un esempio mirabile di come da un risentimento certamente almeno in parte personale, da un’idiosincrasia, da uno sfogo incontenibile, possa nascere la più lucida delle analisi, in barba a ogni facile cerchiobottismo di convenienza. L’irritazione del pensatore spagnolo, grazie al cielo, è vasta abbastanza da rivolgersi a buona parte dei temi che angustiano il nostro presente di occidentali, e il minimo che possiamo fare, a novant’anni dalla pubblicazione de La ribellione delle masse, è riproporre questi temi nella loro urgente richiesta di essere affrontati con occhio lungimirante almeno la metà di quello di Ortega. 131 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 131-135 EMERGENZA E FILOSOFIA DELL’ESTRANEO: COSA PUÒ INSEGNARCI BERNHARD WALDENFELS GIULIANA VENDOLA Per tentare di penetrare con sguardo critico le trame della sofferente e idiosincratica situazione odierna qualche fecondo spunto lo possiamo trarre dal pensiero di Bernhard Waldenfels, filosofo contemporaneo non molto noto al pubblico dei lettori italiani, eppure autore di una produzione teorica a tratti profetica, soprattutto se misurata sulla base di quanto l’attualità ci sta restituendo negli ultimi tempi. 132 GIULIANA VENDOLA 1. Lineamenti di una fenomenologia dell’estraneo Avvicinarsi all’universo filosofico, antropologico, politico e sociologico waldenfelsiano significa immergersi completamente sia in teoria che in pratica nell’intreccio di proprio ed estraneo. Il proprio è appartenenza a qualcosa, a qualcuno: è quella dimensione in cui il parlante, innanzitutto e per lo più, si sente di stare e di esperire. Rappresenta quella sfera spaziale e temporale, circoscritta da determinati confini, che ogni soggetto intende come soltanto – o, comunque, preponderantemente – sua. Così configurata, si tratta, a ben vedere, di un dominio percorso da una soglia in cui si è inclusi e da cui, immancabilmente, si producono processi d’esclusione. Proprio per questo, però, Waldenfels ritiene che sia possibile accorgersi e prendere consapevolezza di ciò che è proprio nel preciso istante in cui quest’ultimo si distingue da qualcosa che gli si sottrae e si fa mancanza. Quel qualcosa, quel qualcuno, quell’esperienza da cui la distinzione viene fatta e che si sottrae all’ipseità (dal latino ipse = “proprio”) è appunto xénos (dal greco “estraneo”), radicale inaccessibilità – in quanto irriducibile ad altro, inderivabile da altro, originaria – che diviene accessibile, esperibile e per la prima volta visibile nel perturbante ed eccedente sottrar-si, differenziar-si, allontanar-si. Proprio ed estraneo si presuppongono e si scoprono guancia a guancia – in quell’orizzontalità relazionale che non ha nulla a che fare con la tirannica verticalità di vetuste istanze terze –, e al contempo conservano identità in quell’allontanarsi tra inclusioni ed esclusioni. Ciò sta a significare che l’estraneità nella sua apparente assenza è già, radicalmente in anticipo, presente in casa del proprio (per dirla con Freud), lo abita ed è separata da esso per mezzo di una soglia – così come la veglia è separata dal sonno, la salute dalla malattia, la vecchiaia dalla gioventù. Rispetto a tale soglia nessuno si trova mai completamente su entrambi i lati... L’incontro/scontro tra estraneità e proprietà sembra si manifesti pienamente “entre chien et loup” – per riprendere un’espressione dello stesso Waldenfels – ovvero in quella zona di penombra creata dal crepuscolo in cui la sagoma del cane si confonde con quella del lupo. Il fenomeno dell’estraneo si radica ed inizia ad incubare qui, in questa dimensione interstiziale in cui tutto è apparentemente sfumato, ma è in verità compenetrazione tra domini irriducibili. La soglia in cui germoglia l’estraneità è inevitabilmente topos ombreggiato del proprio. Il che implica, in fondo, che ogni esperienza del proprio debba essere intesa come ordine non assoluto od ontologicamente saturo, ma inevitabilmente contingente, giacché la contaminazione dell’estraneo impone che ogni ordine potrebbe essere in qualsiasi momento altrimenti rispetto a come si presenta. Ogni ordine, infatti, dispone di una molteplicità di elementi eterogenei sempre innestati al suo interno, per quanto latenti e non sempre percepibili in modo esplicito. Waldenfels in proposito preferisce declinare al plurale il concetto di ordine, sottolineando quanto sia naturale pensare in realtà ad una varietà di ordini possibili che possiedono dei 133 Emergenza e filosofia dell’estraneo: cosa può insegnarci Bernhard Waldenfels loro limiti ed hanno anche la peculiarità di darne e porne. D’altronde l’umanità ha sempre avuto a che fare con solchi di transito, si è continuamente confrontata con barriere spaziali, temporali, concettuali, morali, sociali, sanitarie, politiche, giuridiche. Questa stessa umanità ha avvertito ed avverte di volta in volta la necessità di modellare la propria identità in base ai margini da cui viene circondata. Ciascuna civiltà ha vissuto e vive entro determinate frontiere e ne costruisce di ulteriori per sopravvivere. A tal proposito lo stesso Waldenfels asserisce – nel suo saggio sui Limiti dell’ordine – che «il modo di rapportarsi ai confini rivela di quale spirito è figlia un’epoca» (p. 349) … ed i confini a cui il filosofo si riferisce non sono di certo solo geografici … L’uomo abita negli ordini, è incluso in sistemi vestiti di quotidianità, esclude ciò che non ritiene suo ed è a sua volta escluso da ulteriori forme del vivere. I margini sono essenzialmente ineliminabili, in quanto senza di essi non potrebbe esistere un qualcosa che si divide da altro, un proprio che si distingue da un estraneo, ma allo stesso tempo sono soggetti a cambiamenti e spostamenti. Ogni qualvolta vi sono irruzioni d’estraneità che tendono a stravolgere il sistema vigente, a deviare la cosiddetta “normalità” culturale, politica, economica, sanitaria e sociale a cui l’umano sente di appartenere in una data spazio-temporalità, si mette in moto un processo di conflittualità da parte dell’ordine che patisce. Un attimo dopo, spesso frettolosamente, sorge l’esigenza di un effettivo ri-modellamento dei confini garantito dalla capacità di mobilità di quei confini. Difatti è naturale e legittimo che l’elemento estraneo che travalica l’ordinarietà, spesso devastandola, venga visto come quella minaccia, come il segno idiosincratico del caos che sembra non dia alla realtà vigente nemmeno il tempo per reagire. Waldenfels ci tiene a sottolineare quanto il pàthos di cui è imbevuta l’estraneità ci sorprenda sempre in un tale insensato anticipo da non permetterci di rispondere in tempo e di trovare in qualche modo una pseudo-soluzione che attutisca i duri colpi inferti da quell’estraneo. Ma nulla toglie che tale straordinarietà – ovvero incontenibile eccedenza che cresce intestina all’ordine e si fa fenomeno nel travalicamento di quest’ultimo – sia destinata a restare elemento emergente, irrompente. È facile che lo straordinario in un battito di ciglia si trasformi nel nuovo ordine vigente, nel nuovo sistema regolamentato a cui il mondo un domani potrebbe “abituarsi”, “dis-affezionarsi” e di cui potrebbe dimenticare la radicale singolarità. Basti pensare alle grandi rivoluzioni, alle trasgressioni, alle violenze che si sono avvicendate nella storia, alle malattie, alle grandi scoperte, alle grandi partenze e ai grandi arrivi, a tutti gli eventi eccedenti che in ogni campo hanno stravolto nel bene e nel male quella che era l’ordinarietà. Si tratta di estraneità divenute proprietà e di cui – una volta nominate, riconosciute e fondate convenzionalmente come nuovi ordini – si è perso probabilmente il carattere di impensabilità. Aver la memoria corta in merito alla paticità originaria dell’estraneo vuol dire spesso rischiare di “banalizzare”, “archiviare”, voler a tutti costi confinare in un 134 GIULIANA VENDOLA “complesso di senso” quell’irruzione radicalmente insensata che incarna l’estraneità. Oltretutto, far cadere nell’oblio la perturbante straordinarietà di ieri dell’ordine vigente di oggi svuota di passione le risposte ritardate, singolari, ineludibili, asimmetriche e creative che l’umanità si era naturalmente preoccupata di mettere in atto. Waldenfels propone una visione della straordinarietà che per questioni di fisiologica sopravvivenza si trasforma in ordinarietà, ma allo stesso tempo lascia intendere quanto in verità quest’ultima non abbia alcunché di scontato, programmato, immediatamente dato nella presenza. L’ordinarietà attuale è l’estraneità del passato che corre sui margini intra-storici ed inter-storici. 2. Pandemia, emergenza, vigenza: oscillazioni dell’estraneità Il tema della soglia, protagonista indiscusso del pensiero waldenfelsiano, si offre come illuminante metafora per poter comprendere i tempi (e)stran(e)i/straordinari e di assoluta mancanza che ci stanno travolgendo. I sonni dell’umanità sono qui, ora e altrove, sempre più leggeri, poiché turbati dal peso di sottraenti eccedenze, di impetuose emergenze. Oggi si sta tentando di scavalcare il muro virulento eretto da un inafferrabile estraneo che ferisce rendendoci tutti filosoficamente e clinicamente pazienti, ma che nella sua irruente forza di sfondamento diviene accessibile, afferrabile a tal punto da spingerci a dover fare responsivamente i conti con ciò che fino a ieri aveva il sapore dell’ordinarietà. Siamo dinanzi all’estraneità di una vicenda che appare vestita di Rna e proteine, ma viaggia letteralmente sulle nostra gambe, tanto da rivelarsi sia in presenza che in latitanza pienamente a suo agio nelle nostre case. Riflettendoci, sembra rispecchi, in modo inquietante, l’idea waldenfelsiana di un’estraneità che abita e serpeggia in ciò che è proprio. Ci scontriamo con un evento distopico, irripetibile nella sua ripetibilità, che lascia attoniti, senza fiato e spesso senza neppure pensieri. Abbiamo a che fare con un estraneo che ha minato morbosamente l’ordinarietà molto prima che fossimo capaci di dargli un nome, un luogo di nascita, una data, un dato, un’immagine, una rappresentazione. Quando i solitamente accecanti neon degli uffici, delle fabbriche, dei negozi, delle città hanno cominciato straordinariamente ad affievolirsi, con la stessa impietosa straordinarietà, i corpi si sono allontanati e le relazioni sono mutate in scissioni. Perché, se su una sponda della soglia – in cui la quotidianità si sta trascinando – i solchi frontalieri della nostra normalità indietreggiano, tanto da consumare famelicamente gli spazi di libertà, sull’altra sponda si gioca invece un continuo aumento di inscatolanti e svilenti spazi omogenei tra persone. La bestialità di questo dis-ordine solca esattamente in zona di penombra, traccia sulla soglia un rovesciamento di inaccessibili relazioni/corporeità e accessibili privazioni/scissioni. La realtà ci sta costringendo a sacrificare lo spazio 135 Emergenza e filosofia dell’estraneo: cosa può insegnarci Bernhard Waldenfels corporalmente vissuto, ad occultare il mondo-della-vita (Lebenswelt) di matrice husserliana, ma è importante che domani non ci si dimentichi la contingente singolarità e paticità di tali sacrifici. Probabilmente è proprio in questo darsi ampie distanze fisiche, nel bardamento dei corpi mediante dispositivi di sicurezza, nella serrata stretta che emacia le autonomie che si palesa paradossalmente l’incomprensibile potenza patica dell’estraneo. D’altronde, non è forse nell’incomparabilità, nella differenza, nelle inimmaginabili privazioni che l’estraneità si svela, si fa esperibile?! Alla luce della galassia waldenfelsiana, ritengo che il Covid-19 possa essere inteso come quel beffardo estraneo, visibile nella sua invisibilità, che ci costringe ad un ri-baltamento economico, politico, sociale, sanitario, culturale e per cui è qui, ora e altrove necessario mettere in moto un rispondere creativo e responsabile. Un rispondere che sappia plasmare i margini per permetterci una nuova Resilienza. Stiamo scampando a tentoni ad una straordinaria vicenda di brutali sottrazioni che domani apparirà, o meglio lo è già, sistema, ordine, normalità. Quando l’estraneo, vento sinistro o primaverile che sia, si trasforma in ciò che è familiare porta sempre con sé un ineludibile reinventarsi. C’è solo da augurarsi che questa infetta, infettante ed incontenibile emergenza – nonché buia vigenza che rientra in fin dei conti in una ciclicità storica – venga in un futuro più che prossimo fratturata da un’ulteriore estraneità che ci stupisca e tempesti di un indicibile, inimmaginabile, irrappresentabile, impensabile, nuovo Rinascimento. 137 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 25, Maggio 2020, pp. 137-142 UNA PARTICOLARE MESCOLANZA MASSIMO FILIPPI “Imbecilli, almeno mettetevi d’accordo prima di continuare a dire scemenze in un linguaggio che neanche voi stessi capite. Perché dovete appiccicare etichette su tutto?” José Emilio Pacheco, Le battaglie nel deserto Idiosincrasia, letteralmente, è una “particolare mescolanza” che, in medicina, sta a indicare una ipersensibilità individuale extra-immunologica a determinate sostanze e, per estensione, nel senso comune, un’incompatibilità altrettanto personale verso qualcuno o qualcosa. In quest’ultima accezione, tutt* noi, che ci piaccia o meno, siamo preda di una qualche forma di idiosincrasia. Pertanto la questione non è affermare, per sostenere un tanto ridicolo quanto depoliticizzante “volemossebene”, che si è immuni alle idiosincrasie quanto piuttosto, in un lavoro di cura del sé e di soggettivazione resistente, esplicitare le proprie idiosincrasie per creare anticorpi collettivi verso una serie di situazioni che vanno dall’irritante 138 MASSIMO FILIPPI all’abominevole. Ecco, allora, un assaggio, parziale, incompleto, idiosincratico, della mia particolare mescolanza. Apocalittici. Coloro che non riescono a vedere altro che la fine del mondo se non come la nostra fine nel mondo o la fine del nostro mondo. Per gli apocalittici, mondo-senza-noi è sinonimo di fine del mondo-per-tutt*. In tal modo, si dimenticano (o rimuovono?, o forcludono?) quell* che vivono tra-le-due-morti (tra la morte simbolica e quella materiale, la condizione de* oppress* di tutte le specie) e quell* che hanno già esperito la fine del mondo ma che, malgrado tutto, sono riuscit* a sviluppare strategie di sopravvivenza/resistenza. Guardando solo a Occidente, gli apocalittici, con la loro totale incapacità di pensare la fine del mondo sociale in cui siamo immers*, parlano di fine del mondo per perpetuare quello esistente, per spegnere sul nascere ogni politica trasformativa. Loro parenti stretti sono, pertanto, gli integrati, altrimenti noti come benpensanti. Benpensanti. Coloro che pensano male per imporre la propria idea di bene, un’idea che esclude sempre e comunque la bontà illogica (secondo Grossman, per bontà illogica si deve intendere: «la bontà di tutti i giorni [...] senza testimoni, senza grandi teorie [...] che si estende a tutto quanto è vivo, al topo o al ramo»). Le forze dell’ordine, insomma, i tutori della norma, i guardiani dello status quo e della restaurazione, , infatuati dal sogno di una sorveglianza continua, capillare, totale e – perfino oltre Bentham – reciproca. Capitale. Insieme di strutture e sovrastrutture volte alla massimizzazione dello sfruttamento (di tutt*) e del profitto (per pochi), al cui mantenimento lavorano sia apocalittici che benpensanti. Un tempo si pensava che la sovrastruttura fosse il mero risultato delle strutture economiche. Oggi, dopo tante sconfitte, dovremmo cominciare a pensare a come trasformare l’economia e l’ideologia del capitale, visto che si alimentano a vicenda in un ininterrotto circolo ri/produttivo. Andrebbe poi ricordata la lezione di Marx: sì, il capitale funziona grazie all’estrazione di plusvalore dal lavoro salariato, ma anche e soprattutto grazie all’accumulazione originaria – talmente originaria da essere sempre in funzione –, all’appropriazione del lavoro non pagato di quant* ha marchiato come “donne”, “animali”, “natura”. In breve, apocalittici e integrati sono ovunque, anche laddove meno te lo aspetti. Dialettica. Una particolare forma di discorso molto amata da chi intende mantenere lo stato di cose esistente. La dialettica produce il negativo per partenogenesi per poi digerirlo nella sintesi. La dialettica annienta la potenza del negativo, il suo potere di resistenza: I would prefer not to. Esperti. Gli esperti sono reclutati tra gli apocalittici e gli integrati dotati di capacità dialettiche ottimali. Costoro, infatti, devono innanzitutto mascherare il fatto che si siano autoproclamati esperti – lo vediamo bene in questo momento in cui pletore di esperti, siano essi scienziati o filosofi, non smettono un secondo di parlare di un evento assolutamente inedito e di fronte al quale faremmo bene a denunciare tutta la nostra ignoranza. Gli esperti, poi, con la loro tumescenza («la situazione è apocalittica, quindi ci pensiamo noi») o la loro detumescenza («è tutto 139 Una particolare mescolanza come sempre, quindi ci pensiamo noi»), hanno la funzione di chiudere tra quattro mura la politica trasformativa e l’impegno collettivo. Fallo. Significante-padrone, punto di capitone, gran regolatore dell’ordine simbolico, è ciò che, come barra disgiuntiva delle dicotomie che governano la nostra società, viene fatto penetrare nella carne-del-mondo per classificarla secondo la scala naturae, per produrre l’ideologia che, con le nozioni di razza, sesso/genere e specie, naturalizza e normalizza privilegi e oppressioni, in tal modo alimentando il capitale, la sua dialettica e i suoi funzionari. Giardino dell’Eden. Sorta di esclusivo resort all inclusive che, dall’inizio dei tempi, non cessa di produrre e distribuire Natura a buon mercato per rendere docili i corpi, per fissarli in posture fisse e in comportamenti stereotipati. Il giardino dell’Eden è una vera e propria eterotopia, se l’eterotopia, come insegna Foucault, «ha il potere di giustapporre, in un unico luogo [...], numerosi spazi tra loro incompatibili» e se eterotopia é, letteralmente, il luogo dell’altro, il posto a cui le/gli altr* sono assegnat* e che, pertanto, devono occupare nella grande catena dell’essere. Ovviamente, poiché esiste da ben prima che il capitale nascesse, il villaggio vacanze Il giardino dell’Eden è la dimostrazione più lampante della capacità degli ideologi dei circoli ri/creativi M-D-M e D-M-D di appropriarsi di qualunque cosa possa (as)servire al profitto. Habermassiani. Quelli che pensano che possano esistere relazioni comunicative (sempre buone) in assenza di relazioni di potere (sempre cattive). Ancora Foucault: «Mi sembra che l’idea che possa esistere uno stato di comunicazione tale che i giochi di verità possano circolare senza ostacoli [...] appartenga all’ordine dell’utopia». E le utopie, si sa, sono spesso letali. Imbecilli. Vedi epigrafe. Luce. È la figura retorica più abusata dai discorsi a favore dello status quo, dal sol dell’avvenir alla luce in fondo al tunnel. Figura usata per indicare progresso, redenzione, magnifiche sorti e progressive, per rinviare a un futuro non meglio precisato quanto dovrebbe essere fatto qui e ora. È necessario un oscuro lavoro politico per riappropriarsi della luce: la luce, a volte onda e a volte particella, destabilizza materialmente ogni pretesa di identità; la luce fa vedere ma è invisibile; la luce, se guardata negli “occhi”, acceca. La luce, quindi, è piena di tenebre, è Lichtung. Ciò che va portato alla luce è il lavoro produttivo del negativo. Massacri. La retorica dominante della luce serve a invisibilizzare l’ininterrotto susseguirsi di massacri dell’Uomo a danno de* viventi mortali, indipendentemente dalla specie di appartenenza: «Dove ci appare una catena di eventi, [c’è] una sola catastrofe, che accumula senza tregua rovine su rovine [...]. Ciò che chiamiamo progresso è questa tempesta», disse Benjamin. Sotto il sottile strato patinato della democrazia, dei diritti, di una comunicazione senza vincoli, si estende, sconfinato, un inimmaginabile inferno sulla terra. Le animali ne sanno qualcosa: ascoltate le grida di sudore e sangue che si alzano dalle cantine dei grattacieli eretti contro il cielo. 140 MASSIMO FILIPPI Natura. La più brillante invenzione del capitale. Qualcosa di assolutamente là fuori utile, a seconda delle circostanze materiali, come riserva di risorse da prelevare e/o come immensa discarica da riempire. E, a seconda delle circostanze simboliche, paradigma indiscutibile da cui estrarre la retta forma-di-vita o esemplare marchio di arretratezza da superare/eliminare. Ricordatevi: quando gli amici del capitale vi parlano di Natura, vuol dire che la merce siete voi. Opera. Ciò che chiude la comunità, in una stretta fusionale mortifera, dentro i confini dell’archè e del telos. Contro quest’opera necro/bio/politica, bisogna pensare a come rendere le nostre comunità inconfessabili e inoperose, oltre l’origine e il compimento. Bisogna comprendere come abitare i confini, come renderli soglie, passaggi, vie di fuga. Come sottrarre la vulnerabilità e la finitudine de* viventi, la loro esposizione carnale, alla morsa dei segni e delle macchine dell’imposizione e del dominio. Palingenesi. È il rivolgimento totale e immediato di un individuo, di una società o dell’intero cosmo. Generalmente effettuato, come per magia, da un qualche dio o da una qualche avanguardia intellettuale. Come è il caso della retorica della luce, anche quella della palingenesi rimanda sempre a un futuro indefinito, se non addirittura all’altro mondo. La palingenesi, poi, prevede l’esistenza di una Natura immodificabile e assolutamente buona schiacciata da una Cultura altrettanto immodificabile ma assolutamente cattiva, una Natura che va riportata alla luce dall’opera di liberazione. Al grande evento che cade dal Cielo o che si svilupperà automaticamente dalle viscere della Storia – e che, in un caso come nell’altro, annienta le micro-pratiche quotidiane di piacere e disobbedienza – si oppongono le tecniche di riparazione del sé, della società e del cosmo. «Ricrescita di una struttura e [...] recupero di una funzione», dentro il trouble di un mondo in disfacimento, scrive Haraway. E prosegue ricordandoci che cosa fanno le salamandre quando rispondono (rispondono, non reagiscono!) alla mutilazione di un arto con la produzione di eterotopografie corporee: «L’arto ricresciuto può essere mostruoso, doppio, potente». Meglio salamandre che Messia. Quasi. «Il “normale”», sostiene Butler, è «un ideale che nessuno/a può incarnare». Si è sempre quasi normali, quasi umani. Manca sempre un non so che, un quasi nulla che produce carne addomesticabile o smembrabile. Il quasi costituisce l’infinita riserva del plusvalore e dell’accumulazione originaria. Robinson. Colui che gira in tondo sull’isola di cui si crede sovrano, cancellando le sue tracce, per paura di essere sepolto vivo o mangiato dall’altro, cannibale o bestia che sia – cannibali e bestie che, invece, è lui che non cessa mai di introiettare e di sfruttare impunemente. Secondo Derrida, colui che opera come una ruota («la ruota gira da sola»), come una macchina («la macchina è ciò che funziona da sola girando su se stessa»). Come una macchina antropologica, che gira in circolo arrestando la circolazione e ri/producendo il mondo attorno all’indetumescibile significante-padrone. Da Marx a Derrida, le robinsonate sono passate da un’economia ristretta a un’economia generale. 141 Una particolare mescolanza Sé. Il Sé è questo movimento continuo e circolare che esce da sé per tornare a Sé. C’è un momento di follia perfino nel cogito cartesiano, c’è un momento di esistenza perfino nel Sé hegeliano. Ma follia ed esistenza sono presto riassorbite nel Sé che include/esclude le/gli altr* da Sé. Il Sé – Hegel lo ha detto chiaramente – è gemello monozigote dello Stato. Sì, oggi più che mai, è necessario passare dalle robinsonate del Sé all’impersonale e transpersonale si. Si arrossisce, si verdeggia, si ama, si muore. Totalitarismi. Non esiste il totalitarismo, esistono i totalitarismi, infiniti modi di fossilizzare il dinamismo dei rapporti di potere in dominio istituzionalizzato, in cancellazione della resistenza: ciò che è stato, è e sarà per sempre – i totalitarismi più cupi sono quelli che investono direttamente i corpi (delle/degli) animali. Vista l’estrema versatilità fenomenica dei totalitarismi, non bisogna mai abbassare la guardia, anche quando sono percorsi da innegabili tratti comici, anche quando le figure del comico e del politico entrano in uno stato di incandescente sovrapposizione. Uomo. Il prodotto tagliente di infinite sezioni e cesure, introiezioni ed esclusioni, proprietà e privazioni, erezioni e smembramenti. Ciò che è legittimato dalla macchina antropologica e che si legittima con la Natura. Colui che è cantato da apocalittici e integrati, acclamato dai benpensanti, il capo di Stato, il Non-PiùAnimale. Colui che è Fallo, Luce, Volto. Volto. Insieme a quella della luce e della palingenesi, la retorica del volto contribuisce all’opera di occultamento mascherato eretto a sistema. Il volto apre – chi ha volto (la vedova, l’orfano, lo straniero) mi chiama alla responsabilità – nel momento stesso in cui chiude con inusitata violenza – chi non ha volto (l’informe, l’invertebrato, il non/vivente,) non è respons/abile? Il volto include poch* con lo stesso gesto con cui esclude moltitudini sterminate. Al volto vanno sostituiti gli orifizi, le infinite beanze che attraversano – bucano, perforano – il reale, la materia, i corpi. Che producono esistenza, che delirano i continenti, che mostrano le/gli altr* dentro e fuori, davanti e dietro il Sé. Che lo circondano, che lo fanno circolare nel comune, che lo restituiscono alla grammatologia della traccia. In fondo, non riconosciamo Gregor Samsa dal volto, ma dalla cicatrice che porta sulla schiena. Zecca. Quella di Stato, ovviamente, quella che stampa denaro. Nessuna idiosincrasia per le zecche – anzi! – quelle animali filosofiche di superficie che attendono anche per 18 anni e, poi – la parola a Deleuze – «tre affetti [...], un mondo tripolare, e questo è tutto!». «Che potenza!». «Una vita sconosciuta, forte, oscura, ostinata». Senza volto, senza altezza, senza profondità. Senza passioni tristi. Come detto, questa lista di idiosincrasie è incompleta, piena di vuoti, di linee di faglia, di lacune. Ma questo vale per tutti i dizionari e tutte le enciclopedie: dietro la loro pretesa “pienezza” universale si nascondono, infatti, idiosincrasie non esplicitate. Con le parole di Wittig e Zeig, «l’assemblaggio delle parole, ciò che ha 142 MASSIMO FILIPPI dettato la loro scelta [...], tutto è costitutivo di queste lacune ed è pertanto operativo per quanto riguarda il reale». L’organizzazione di questa lista secondo lemmi disposti alfabeticamente è pensata per facilitare un’elaborazione collettiva di un dizionario che, pur nella sua necessaria interminabilità, «squadri da ogni lato» «ciò che non siamo, ciò che non vogliamo». L’idiosincratico, insomma, proprio perché personale, è politico. 143 Endoxa – Prospettive sul presente, 5, 24, Marzo, 2020 INFORMAZIONI SULLA RIVISTA Endoxa – Prospettive sul presente è una rivista bimestrale di riflessione culturale a carattere monografico. Lo scopo della rivista è sia disseminare conoscenze riconducibili, direttamente o indirettamente, all’ambito umanistico sia di intervenire, in una prospettiva di “terza missione”, nel dibattito contemporaneo, senza alcuna preclusione culturale. Tutti gli articoli sono tutelati da una licenza Creative Commons (CC BY-NC-SA 2.5 IT) http://creativecommons.org/licenses/by-nc-sa/2.5/it/ DIREZIONE/EDITOR: PIERPAOLO MARRONE (Trieste) marrone@units.it FERDINANDO MENGA (Caserta) ferdinandomenga@gmail.com RICCARDO DAL FERRO (Schio) dalferro.ric@gmail.com COMITATO SCIENTIFICO: Elvio Baccarini, Cristina Benussi, Lucio Cristante, Renato Cristin, Roberto Festa, Giovanni Giorgini, Edoardo Greblo, Macello Monaldi, Fabio Polidori