Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Bari e le relazioni interadriatiche nell'età liberale

2013, Bari, la Puglia e l'Oriente. "L'invenzione" di un ruolo internazionale

bari e le relazioni interadriatiche nell’età liberale di Federico Imperato 1. bari e l’adriatico prima dell’unità d’italia Il legame tra Bari,1 il mar Adriatico e, attraverso di esso, la regione balcanica è stato storicamente forte e vivo. Ciò innanzitutto per motivi geografici. La Puglia è stata, fin dal Medio Evo, un itinerario abituale e una via di transito agevole per chi tornava dall’Oriente. 1 Sulla storia di Bari e, più in generale, della Puglia fino ai giorni nostri: E. Di Ciommo, Bari 1806-1940. Evoluzione del territorio e sviluppo urbanistico, FrancoAngeli, Milano 1984; A. Massafra, Campagne e territorio nel Mezzogiorno fra Settecento e Ottocento, Dedalo, Bari 1984; B. Salvemini, I circuiti dello scambio: Terra di Bari nell’Ottocento, “Meridiana”, n. 1, 1987, pp. 47-79; G. Delille, Famiglia e proprietà nel Regno di Napoli: XV-XIX secolo, Einaudi, Torino 1988; L. Masella e B. Salvemini (a cura di), Storia d’Italia. Le regioni dall’Unità a oggi. La Puglia, Einaudi, Torino 1989; S. Russo, La Puglia piana dei salariati, il Mulino, Bologna 1989; F. Tateo (a cura di), Storia di Bari, 5 voll., Laterza, Roma-Bari 1989-1997; R. Caforio e S. Russo (a cura di), Fonti a stampa per la storia delle campagne pugliesi fra XVIII e XX secolo, Edipuglia, Bari 1990; B. Salvemini, L’innovazione precaria: spazi, mercati e società nel Mezzogiorno tra Sette e Ottocento, Meridiana Libri, Catanzaro 1995; S. Russo, Pellegrini e casalini a Bari in età moderna, Edipuglia, Bari 1996; A. Carrino, Territorio e identità regionali: la storia della Puglia, Edipuglia, Bari 2002; N. Antonacci, Storia della Puglia, Adda, Bari 2002; A. Spagnoletti, Storia del Regno delle Due Sicilie, il Mulino, Bologna 2004; A. Massafra e B. Salvemini (a cura di), Storia della Puglia, 2 voll., Laterza, Roma-Bari 2005; S. Russo, Alla volta del Tavoliere: mobilità di uomini e fortune nella Puglia piana di età moderna, Grenzi, Foggia 2007; G. Delille, Famiglia e potere locale: una prospettiva mediterranea, Edipuglia, Bari 2011. 11 La costa adriatica della parte centrale della regione, una delle pochissime, nell’Italia meridionale, a non essere infestata da un habitat paludoso e, quindi, da epidemie di malaria, fu sede di una civiltà urbana e mercantile fiorente. Parallelamente, il mare costituiva l’orizzonte naturale delle città dell’entroterra pugliese e questo aveva finito per favorire, da un punto di vista economico e demografico, le città portuali rispetto a quelle dell’interno, invertendo ruoli e gerarchie nella maglia degli insediamenti dell’area.2 Per tutta l’età moderna furono le relazioni economiche e commerciali a svolgere un ruolo di primo piano nei rapporti tra Bari e la sponda orientale dell’Adriatico. Nel Cinquecento, il prodotto base delle esportazioni dal porto cittadino era l’olio. Si calcola, infatti, che, alla metà del secolo, poco meno della metà delle esportazioni di olio provinciale passasse per Bari.3 A questo si aggiungevano altri prodotti, quali la seta, lo zafferano, il sapone bianco, il seme di lino, la manna, il vino e l’aceto.4 Le destinazioni di queste merci erano, quasi esclusivamente, i porti dell’Adriatico centro-settentrionale. A parte, infatti, tutto il lino e una parte dell’aceto, destinati a Corfù e Lepanto, il resto finiva, per la gran parte, a Ferrara e a Venezia, che costituivano di gran lunga gli sbocchi più importanti delle merci imbarcate nel porto di Bari, seguiti a distanza da Trieste, Ragusa e, infine, dai porti dalmati di Lesina, Spalato, Veglia, Zara e Lagosta.5 2 Cfr. B. Salvemini, Prima della Puglia. Terra di Bari e il sistema regionale in età moderna, in Masella e Salvemini, op. cit., p. 5. 3 Nel biennio 1554-56, ad esempio, secondo quanto scrive Biagio Salvemini, dal porto di Bari venivano imbarcate 30.287 salme di olio su un totale di 68.590 salme esportate da tutti i porti della provincia, che comprendevano anche Molfetta, Giovinazzo, Monopoli, San Vito di Polignano, Mola e Santo Spirito di Bitonto (ivi, p. 127). 4 Sempre secondo Salvemini, fra il settembre 1571 e l’agosto 1572 dal porto di Bari uscirono, oltre a 9.071 salme di olio, 2.017 libbre di seta, 911 libbre di zafferano, 133 cantaia di sapone bianco, 4.934 tomola di seme di lino, 175 libbre di manna, 366 botti di vino e 233 botti d’aceto (ibid.) Cfr. anche G. Fenicia, Le esportazioni di olio in un porto meridionale in età spagnola: il porto di Bari nel 1571-72, “Archivio Storico Pugliese”, n. 40, 1987, pp. 83-101. 5 A Ferrara e a Venezia erano destinate rispettivamente 4.114 e 3.306 salme d’o- 12 Poiché l’Adriatico rimase per tutto il secolo una via fondamentale dei traffici che, da Venezia, penetravano capillarmente nell’entroterra europeo, si deduce da ciò la centralità della dimensione adriatica rispetto ai grandi orizzonti commerciali e, di conseguenza, l’importanza che avevano i porti pugliesi all’interno di questo circuito di scambi. Il Seicento fu un secolo di declino per il commercio adriatico di Bari e degli altri porti della provincia. Ciò per diverse cause. La contrazione della domanda internazionale di olio pugliese da un lato, e la marginalizzazione dell’Adriatico e di Venezia dai circuiti commerciali dall’altro, produssero una progressiva esclusione di Bari e dell’intera Puglia dal centro dell’economia mondiale.6 A ciò si aggiunse, in particolare tra il 1656 e il 1657, la diffusione di un’epidemia di peste, che portò alla manifestazione di segni evidenti di crisi nelle campagne pugliesi.7 Bari e gli altri porti oleari della provincia tornarono ad avere preziosi occasioni da un punto di vista economico e commerciale a partire dagli anni Venti e Trenta del Settecento, grazie alle importanti trasformazioni che cominciarono a investire il ristretto spazio economico in cui questi erano inseriti. Anche in questo caso le ragioni furono diverse. Innanzitutto, la raggiunta autonomia statale del Mezzogiorno, in seguito alla conquista borbonica del Regno di Napoli, cominciò a incrementare le occasioni d’affari lio più l’intero ventaglio delle merci minori. Seguivano Trieste e Ragusa, con rispettivamente 1.029 e 448 salme di olio, e, infine, i porti dalmati nei quali venivano inviate complessivamente 149 salme. Cfr. Salvemini, Prima della Puglia, cit., p. 127. 6 Ivi, p. 131. Sul declino di Venezia a partire dal XVII secolo: O. Logan, Venezia. Cultura e società, Il Veltro, Roma 1980; W.H. McNeill, Venezia, il cardine d’Europa (1081-1797), Il Veltro, Roma 1984; AA.VV., Storia di Venezia, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1990-2002; A. Zorzi, La Repubblica del Leone. Storia di Venezia, Bompiani, Milano 2001; C. Diehl, La Repubblica di Venezia, Newton & Compton, Roma 2004. 7 Cfr. S. Russo, Lo sconvolgimento del paesaggio agrario, in A. Massafra e B. Salvemini (a cura di), Storia della Puglia, vol. II, Dal Seicento a oggi, Laterza, Roma-Bari 2005, p. 51. 13 per una politica mercantile basata su interessi e circuiti commerciali più ristretti e, di conseguenza, meglio controllabili.8 In secondo luogo, anche lo spazio adriatico, nel Settecento, fu reso più vivace da un’accelerazione complessiva della vita economica europea, che gli permise di uscire dalla condizione di marginalità in cui era stato collocato in seguito alla crisi economica e mercantile di Venezia, iniziata nel secolo precedente.9 Questa nuova fioritura del commercio marittimo a Bari ebbe importanti ricadute anche sul piano sociale. I marinai baresi, sempre più attivi e numerosi all’interno dello spazio commerciale adriatico, riuscirono a elaborare diverse e più efficaci modalità di adattamento alle situazioni di marginalità, di incertezza e di limitatezza delle risorse disponibili che si trovavano a fronteggiare. Le caratteristiche di queste nuove forme di risposta sociale a situazioni di difficoltà economica furono la costituzione di un fitto tessuto di rapporti cooperativi e la strutturazione di un’ampia rete relazionale all’interno del gruppo di mestiere, che, nonostante i caratteri di informalità e disorganicità, riuscivano a sopperire alla carenza di comunicazioni scritte e sistematiche, e l’intreccio di alleanze affaristiche e matrimoniali grazie alle quali si costruivano legami parentali che arrivavano a coincidere, in sostanza, con l’intera corporazione. In questo modo i marinai riuscirono a emanciparsi dalle trame affaristico-clientelari dell’aristocrazia urbana, fondando una propria autonomia imprenditoriale e ritagliandosi una propria identità sociale.10 L’erudito Emmanuele Mola descriveva, intorno al 1770, la struttura professionale della città in questo modo: “Vi sono arteggiani 8 Sulla conquista del Regno di Napoli da parte dei Borboni di Spagna: B. Croce, Storia del Regno di Napoli, Laterza, Bari 1972; H. Acton, I Borboni di Napoli (1734-1825), Giunti, Firenze 1997; G. Galasso, Il Regno di Napoli. Il Mezzogiorno spagnolo e austriaco, Utet, Torino 2006. 9 Cfr. Salvemini, Prima della Puglia, cit., p. 140. Si veda anche: E. Di Ciommo, Il ceto mercantile barese durante la crisi dell’antico regime, in AA.VV., Economia e classi sociali in Puglia nell’età moderna, Guida, Napoli 1976, pp. 231-252. 10 Cfr. B. Salvemini, La “città del negozio”. Mercato, identità, poteri, in M. Dell’Aquila e B. Salvemini (a cura di), Storia di Bari. L’Ottocento, Laterza, Roma-Bari 1994, pp. 297-298. 14 espertissimi in ogni mestiere, ma soprattutti distinguonsi gli indefessi e pratici coltivatori di campagna, ed i bravi e azzerdosi marinari”, non dimenticando di ricordare anche i “molti e valenti professori legali”.11 Non si può non essere d’accordo, quindi, con la definizione data da Saverio Russo, secondo cui in questo periodo Bari dava quasi l’impressione di essere diventata, con un efficace ossimoro, “un’agrotown sul mare”.12 Nella seconda metà del Settecento, le opportunità per il ceto commerciale barese, in un Adriatico che ridiventava uno spazio economico vitale, si accrebbero ulteriormente. Anche uno scrittore come Giulio Petroni avrebbe segnalato in seguito come, in quel periodo, andassero “rialzandosi le sorti del commercio, e parecchie case di stranieri negozianti, spezialmente di Greci, veniano a stanziare” a Bari, dove erano gli stessi mercanti, a loro spese, a “nettare e migliorare il porto da loro stessi amministrato”.13 A sua volta alla fine del secolo un altro erudito, Lorenzo Giustiniani, registrava queste trasformazioni in atto, quando scriveva che i baresi “negoziano per il mare Adriatico ed i più frequenti viaggi sono per Venezia e per Trieste, e similmente per le coste della Dalmazia e da Corfù trasportano poi buone manifatture, e tutt’altro che loro è necessario dagli altri suddivisati luoghi”.14 Tale situazione si protrasse, in maniera più o meno stabile, anche nei primi decenni dell’Ottocento. I flussi economici e commerciali dell’epoca non si discostavano molto da quanto registrato nei secoli precedenti: nell’entroterra agricolo venivano acquistati prodotti come olio, mandorle e altra frutta secca, che erano rivenduti nei porti dell’alto Adriatico in cambio di titoli di credito o di altre merci (tessuti, ferramenta, coloniali, cristalleria, legname), 11 Il passo di Emmanuele Mola si trova in S. Russo, Forme e idiomi della stratificazione, in Dell’Aquila e Salvemini, op. cit., p. 256. 12 Ibid. 13 G. Petroni, Della storia di Bari dagli antichi tempi sino al 1856, vol. II, Stamperie e Cartiere del Fibreno, Napoli 1858, p. 201. 14 Lorenzo Giustiniani (Napoli 1761-Napoli 1824) fu un erudito, viaggiatore, giureconsulto e biografo del Regno di Napoli. Il passo citato è tratto dal suo Dizionario geografico-ragionato del Regno di Napoli, tomo 2, Forni, Bologna 19691971, p. 195. 15 imbarcate nelle stesse navi sulle rotte di ritorno e immesse nei circuiti delle fiere, dei mercati e dei punti vendita della provincia. Alle difficoltà secolari che il commercio marittimo doveva affrontare, però, se ne aggiunsero altre proprie dell’età della Restaurazione. La fine delle guerre napoleoniche ebbe effetti contrastanti, ripristinando l’agibilità dei mari, ma non portando a soluzione la crisi olivicola, causata da una progressiva contrazione dei mercati, frutto, a sua volta, dell’estensione della concorrenza nel quadro della “rivoluzione commerciale” e della progressiva riduzione della domanda di olio d’oliva in seguito ai progressi tecnici intervenuti in quel periodo (l’illuminazione delle città, che sostituì l’olio con il gas, e la fabbricazione del sapone, che cominciò a utilizzare l’olio di semi). Tutto ciò contribuì a esasperare l’incertezza tradizionale del mercato oleario, imprimendo un trend discendente ai prezzi e comprimendo ulteriormente i ricavi delle aziende contadine.15 Ciò fece sì che, nel corso dell’Ottocento, il commercio provinciale iniziasse a esaltare un nuovo protagonista: il vino. Il commercio vinicolo nello spazio adriatico aveva avuto, per tutta l’età moderna, un’importanza relativa, innanzitutto perché i metodi tradizionali di lavorazione delle uve non permettevano a tale prodotto di resistere alla navigazione. A partire dall’Ottocento, invece, anche il vino cominciò a diventare merce di scambio nei traffici marittimi e a rispondere efficacemente alle improvvise variazioni della domanda: una prima volta negli anni ’50, quando l’importanza del commercio del vino salì a livelli consistenti, a causa dell’impennata dei prezzi provocata dal diffondersi dell’epidemia di oidio, la seconda fra la fine degli anni ’70 e la crisi doganale con la Francia del 1880,16 un periodo caratterizzato dalla diffusione della fillossera tra 15 Cfr. Salvemini, La “città del negozio”, cit., p. 292. Sulle relazioni tra Italia e Francia in questo periodo si vedano innanzitutto i volumi della raccolta dei documenti diplomatici italiani del periodo: I documenti diplomatici italiani. Serie II (1870-1896), vol. XII, 14 luglio 1879-2 maggio 1880, vol. XIII, 3 maggio 1880-28 maggio 1881, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 1987-1991. Tra la bibliografia esistente si segnala: E. Rota, La Francia contro l’Italia. Dal Risorgimento ai giorni nostri, Istituto per gli Studi di Politica 16 16 i vigneti francesi.17 Lo sviluppo di Bari si mantenne, quindi, anche nell’Ottocento, in larga parte legato al suo ruolo di polo mercantile, incentrato su un ceto imprenditoriale che dominava l’orizzonte sociale e politico della città. I mercanti baresi presentavano una loro specificità che, come scritto in precedenza, aveva iniziato a prendere forma nella seconda parte dell’età moderna. Grazie anche all’aiuto di capitali stranieri e all’iniziativa dei forestieri immigrati a partire da quel periodo, essi riuscirono, a differenza di ciò che avvenne in altri porti pugliesi, a continuare a praticare con successo il mercato internazionale in maniera autonoma rispetto alle grandi case commerciali organizzate intorno alla borsa di Napoli. Il dialogo con queste ultime, l’organizzazione di una rete di agenti e corrispondenti collocati nei principali sbocchi strategici e la resistenza a una completa finanziarizzazione del commercio portarono al mantenimento, alla difesa e anche all’allargamento di un proprio spazio di mercato, che, nonostante la geografia, non rimase confinato all’Adriatico. Il commercio cittadino riuscì a passare indenne anche fasi economiche complesse, come quella successiva alla Restaurazione e quella postunitaria, segnata dalla crisi della vela e dall’aggressività delle società armatoriali inglesi.18 Alla vigilia dell’Unità la situazione appariva quindi caratterizzata da profondi mutamenti. L’inizio della costruzione del nuovo porto aprì interessanti prospettive ai traffici marittimi con i principali scali dell’Adriatico e del Medio Oriente. Ciò, insieme alla realizzazione di nuove strade, faceva di Bari, alla metà dell’Ottocento, il centro urbano più dinamico del Mezzogiorno continentale, come sottolineò, in maniera forse troppo ottimistica, il Petroni: Internazionale, Milano 1939; P. Pecorari, Il protezionismo imperfetto. Luigi Luzzatti e la tariffa doganale del 1878, Istituto Veneto di Scienze, Lettere, Arti, Venezia 1989; A. De Guttry e N. Ronzitti (a cura di), I rapporti di vicinato tra Italia e Francia, Cedam, Padova 1994; G. Martinet, S. Romano, con M. Canonica, Un’amicizia difficile. Conversazioni su due secoli di relazioni italofrancesi, Ponte alle Grazie, Milano 2001. 17 Cfr. Salvemini, Prima della Puglia, cit., pp. 154-155. 18 Ivi, pp. 200-201. 17 Le prosperevoli condizioni dell’agricoltura e dell’industria, l’opportunità del sito, una rete di strade che stringendo tra loro città e terre della Provincia e rannodandosi quelle delle Province limitrofe, mette capo a Bari; la qualità finalmente de’ porti, che sono in tutta la spiaggia dell’Adriatico per meglio di 260 miglia da Manfredonia al Capo di Leuca, tutti o per interramento poveri d’acque, o per esposizione malsicuri, sono precipue cagioni ch’ella diventerà il centro del commercio delle Puglie sull’Adriatico, si francherà dalla scala di Trieste, e sarà forse per divenire luogo di deposito e di scambio delle nostrali merci e delle coloniali, che non si andrebbero più a cercare in fondo all’Adriatico, solcando parecchie centinaia di leghe marine.19 Una importante novità riscontrabile nell’opera del Petroni consisteva nell’inquadramento di tutta la storia della città all’interno della categoria del capoluogo. Tra gli anni Quaranta e gli anni Cinquanta dell’Ottocento sembrava, infatti, che la trasformazione della città di Bari in capoluogo si fosse definitivamente realizzata, grazie a un intenso sviluppo demografico e a una notevole vivacità economica, più importante rispetto a quelli degli altri centri della provincia, oltre che alla presenza di uffici e funzionari. Bari non era più soltanto la “città commerciante”: la presenza delle istituzioni amministrative provinciali, come aveva scritto Carlo d’Addosio nel 1842, aveva portato a grandi progressi nell’agricoltura, nell’attività manifatturiera e nei traffici e aveva fortemente giovato alla città pugliese, sede di un fiorente commercio, orientato perlopiù verso il Levante.20 Le prospettive auspicate dal Petroni sarebbero 19 G. Petroni, Bari, in F. Cirelli (a cura di), Il Regno delle Due Sicilie descritto e illustrato ovvero Descrizione topografica, storica, monumentale, industriale, artistica, economica e commerciale delle provincie poste al di qua e al di là del faro e di ogni singolo paese di esse. Opera dedicata alla maestà di Ferdinando II, vol. IX, Terra di Bari, Stabilimento tipografico di G. Nobile, Napoli 1852-1859, p. 29. 20 Cfr. A Spagnoletti, Apparati pubblici e vita politica: dalle riforme francesi 18 state confermate, alcuni anni dopo, dalla costruzione della ferrovia adriatica, che avrebbe rapidamente orientato gli scambi delle province pugliesi verso l’Italia centro-settentrionale e l’Europa centrale, piuttosto che verso Napoli e l’area tirrenica.21 2. bari, la puglia e lo sviluppo di un sistema portuale e marittimo All’indomani dell’Unità d’Italia, Bari presentava un trend di sviluppo all’insegna della continuità con ciò che era avvenuto nel secolo precedente. L’interazione tra capitale immobiliare e capitale mercantile e finanziario proiettò, in maniera definitiva, la città al rango di capitale regionale, restituendole dopo molti secoli un ruolo di spicco nell’Adriatico meridionale. Lo conferma il fatto che la maggior parte della comunità straniera, dopo le prime avanguardie (greci e, a partire dal 1840, tedeschi), si costituì negli anni Settanta, sull’onda della forte crescita del porto di Bari. L’immigrazione straniera vide un incremento assoluto di presenze provenienti dalla penisola balcanica e dalle regioni orientali (armeni, montenegrini, greci, albanesi, questi ultimi prevalentemente negozianti di bestiame e di legname). La costruzione del nuovo porto, insieme all’espansione commerciale del vecchio, l’intensa attività edilizia, la presenza di servizi al credito, al commercio e alla produzione, la costruzione di alcuni stabilimenti manifatturieri e la crescita notevole dei settori amministrativo e militare fecero del ventennio 1850-70 una delle fasi più dinamiche nella storia di Bari nell’Ottocento e spiegano, in buona misura, il boom delle immigrazioni. L’emigrazione all’estero appariva, invece, ancora modesta. Anche in questo caso, lo spazio adriatico aveva una notevole importanza, dato che le destinazioni preferite dai baresi erano proprio le alla crisi dello Stato amministrativo, in Dell’Aquila e Salvemini, op. cit., p. 186. 21 Cfr. A. Massafra, Produzione, commercio e infrastrutture nel decollo di Bari, in Dell’Aquila e Salvemini, op. cit., pp. 95-98. 19 opposte coste adriatiche o ioniche, seguite da alcuni paesi europei, dall’Argentina, dagli Stati Uniti d’America e dall’Australia.22 L’affluenza di traffici e risorse nello spazio portuale e cittadino creò occasioni di guadagno per le attività imprenditoriali che si indirizzarono, in parte, in direzioni diverse da quelle del periodo precedente. Prese avvio un processo di specializzazione e di differenziazione interno alla vecchia élite olearia, che permise, sulle ceneri dei fallimenti avvenuti negli anni della “rivoluzione commerciale” e della liberalizzazione postunitaria, la nascita di un’imprenditoria manifatturiera nuova. Ci si confrontò anche con imprese coraggiose, come la costituzione della società di navigazione a vapore Puglia, che favorì il reinserimento della città nel mercato dei noli, facendo di Bari un polo non solo del circuito delle merci, ma anche di quello del denaro. Iniziarono a nascere società bancarie, dirette spesso da discendenti di capitani e mercanti d’olio, che, raccogliendo capitali cittadini, investirono in settori differenziati, sempre meno legati alla produzione e alla commercializzazione dell’olio d’oliva, in questo risultando specchio delle trasformazioni produttive che stavano mutando il volto della Puglia.23 La costruzione del nuovo porto ebbe anche un ruolo fondamentale nell’accrescere l’importanza di Bari all’interno del bacino adriatico.24 Alla fine dell’Ottocento, esso presentava un’ampiezza complessiva di circa 15 ettari, disponeva di fondali sufficientemente profondi (fra i quattro e i nove metri) per l’attracco di navi anche di medie e grandi dimensioni e i suoi due moli si estendevano per oltre un chilometro. La costruzione dei palazzi della Dogana e della Capitaneria di porto e la realizzazione del molo Pizzoli permisero al nuovo porto di dotarsi di una serie di servizi e di infrastrutture 22 Cfr. S. Russo, La crescita demografica: tendenze generali, in Dell’Aquila e Salvemini, op. cit., pp. 11-38. 23 Cfr. Salvemini, Prima della Puglia, cit., pp. 200-203. 24 Sul porto di Bari si vedano: F. Volpe, Il porto di Bari: saggio di politica economica, Macrì, Bari 1939; P.B. Trizio, Il porto di Bari: genesi di un progetto, Centro Studi Nicolaiani, Bari 1994; G. Carlone (a cura di), Il porto di Bari. Progetto città (1855-2005), Adda, Bari 2005. 20 del tutto superiori alle omologhe strutture dell’Adriatico meridionale e di contare su uno sviluppo complessivo dei suoi moli di circa due chilometri.25 I primi benefici effetti del nuovo porto non tardarono a manifestarsi: Bari balzò saldamente in testa ai traffici provinciali, ormai fuori dalla portata di vecchi rivali come Monopoli o Molfetta. La crescita della struttura portuale favorì la ricezione non soltanto delle navi a vela tipiche della pesca e del commercio di epoca preindustriale in Adriatico, ma anche dei moderni piroscafi a vapore di linee mercantili e passeggeri. Tra queste, come già ricordato, la società di navigazione Puglia, creata nel 1876 con capitali locali, che acquistava le proprie navi direttamente dall’Inghilterra, spingendo le sue rotte per tutto il Mediterraneo.26 Il collegamento con l’Adriatico era riconosciuto o immaginato come il nuovo asse di un possibile sviluppo del Mezzogiorno, che superava gli stessi confini cittadini o regionali. Anche il meridionalista lucano Giustino Fortunato vedeva nella connessione con la Puglia, “ossia con l’antica gran via dell’Oriente”, la strada privilegiata per arrivare alla rigenerazione del Melfese e di tutta la Basilicata.27 Negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia, tuttavia, la costruzione di una vocazione mediterranea e mediorientale 25 Cfr. Massafra, Produzione, commercio e infrastrutture, cit., pp. 141-142. Cfr. D. Borri, Città e “piano” tra Illuminismo e riforma sociale, in Dell’Aquila e Salvemini, op. cit., pp. 244-245. Sulla Società di navigazione Puglia si veda anche: Puglia società di navigazione a vapore, Pansini, Bari 1904; T. Pedìo, La fine della Società di Navigazione Puglia, “La Rassegna Pugliese”, nn. 1-4, 1973; M. Ottolino, Commercio e iniziativa marittima in Puglia: la società di navigazione a vapore ‘Puglia’, Pironti, Napoli 1981. 27 L. Masella, La difficile costruzione di una identità (1880-1980), in Masella e Salvemini, op. cit., p. 284. Giustino Fortunato (Rionero di Vulture 1848 - Napoli 1932) fu un uomo politico e saggista, che si dedicò con grande competenza all’analisi delle cause dell’arretratezza del Meridione, da lui individuate nella povertà naturale della terra. Al riguardo si vedano: G. Cingari, Il Mezzogiorno e Giustino Fortunato, Parenti, Firenze 1954; Id., Giustino Fortunato, Laterza, Roma-Bari 1984; G. Minozzi, Giustino Fortunato, M. Armento & C., Potenza 1998; M. Griffo, Profilo di Giustino Fortunato: la vita e il pensiero politico, Centro Editoriale Toscano, Firenze 2000. 26 21 dell’Italia operò più concretamente, in Puglia, attraverso l’individuazione di aree e porti di importanza strategico-militare, da cui, più che Bari, trasse vantaggio Taranto. Con l’avvio dei lavori di costruzione dell’Arsenale militare – che Napoli fino all’ultimo cercò di contrastare, preoccupata di iniziative che avrebbero inferto altri colpi al suo prestigio di capitale del Mezzogiorno – e del Ponte girevole, l’ambiente urbano della città ionica mutò radicalmente volto. Nello stesso periodo, inoltre, iniziò un fenomeno di sovvertimento degli equilibri di potere all’interno dell’antica provincia di Terra d’Otranto, dove Lecce fu impegnata a contrastare la crescita di una rivale che sembrava favorita proprio dall’indirizzo imperialista, se pur ancora allo stato embrionale, portato avanti in politica estera dal governo italiano.28 Sul piano internazionale, la decisione italiana di valorizzare Taranto da un punto di vista militare provocò l’immediata reazione da parte dell’impero austro-ungarico, che si concretizzò, nella primavera del 1873, con il viaggio lungo la costa dalmata del generale Franz Kuhn von Kuhnenfeld, ministro della Guerra asburgico, con l’obiettivo di intercettare il luogo dove fondare un nuovo porto militare, che potesse sostituire quello di Sebenico.29 Ciò portò, da parte italiana, a una risposta che lasciava trasparire più attenzione che non preoccupazione nei confronti del vicino asburgico. Gli studi condotti in quello stesso anno da parte della Commissione di difesa delle coste, presieduta dal generale Luigi Federico Menabrea, insistevano sulla scelta di puntare su 28 Cfr. Masella, La difficile costruzione di una identità, cit., pp. 309-310. Cfr. M. Gabriele, Sulla possibilità di una espansione strategica italiana nel Basso Adriatico e nello Ionio durante la Crisi d’Oriente del 1875-1878, “Storia e politica”, fasc. 1, 1965, p. 402. Sulla politica navale dopo l’Unità d’Italia e sul ruolo della Marina militare nella definizione delle scelte di politica estera del Regno sabaudo si vedano, del medesimo autore: La politica navale dall’Unità alla vigilia di Lissa, Giuffrè, Milano 1958; Id. e G. Friz, La flotta come strumento di politica nei primi decenni dello Stato unitario italiano, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1973; Id., La politica navale italiana dal 1885 al 1915, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1982; M. Gabriele, La prima marina d’Italia (1860-1866). La prima fase di un potere marittimo, Ufficio Storico della Marina Militare, Roma 1999. 29 22 Taranto, che avrebbe dovuto assumere un ruolo e un’importanza analoghi a quelli che Malta aveva per la Gran Bretagna, sulla decisione di posticipare l’armamento di Brindisi a un periodo futuro, in attesa di un’eventuale disponibilità di fondi, e sulla previsione che un’ulteriore espansione delle posizioni austro-ungariche sulla costa sud-orientale dell’Adriatico, successiva all’installazione di nuove basi militari marittime, avrebbe provocato una reazione italiana, che si sarebbe concretizzata in un compenso nella zona del canale d’Otranto.30 L’importanza strategica dell’Adriatico meridionale e dello Ionio risultò incrementata durante la crisi d’Oriente del 1875-1878.31 Il timore che l’espansione asburgica potesse arrivare anche sul canale d’Otranto amplificò il dibattito sulla questione, in base al presupposto, fatto proprio dal noto navalista Augusto Vittorio Vecchi, che “l’Italia si difende dal mare”.32 Ciò presupponeva il proseguimento dei lavori per la costruzione dell’Arsenale a Taranto e la creazione di un’efficiente piazza navale a Brindisi.33 L’apice di queste ambizioni di espansione nell’Adriatico meridionale si ebbe con la missione militare marittima sulle coste epiroti e albanesi, che si svolse nell’estate del 1876 e vide impegnati contingenti 30 Già negli anni immediatamente successivi all’Unità d’Italia era sorto un dibattito, all’interno dei vertici della Marina Militare, sulla questione della “porta adriatica” e sulla utilità del possesso dell’isola di Corfù. Cfr. Gabriele, Sulla possibilità di una espansione strategica italiana, cit., pp. 402-403. 31 Sulla Crisi d’Oriente del 1875-1878: C. Giglio, Il secondo gabinetto De Pretis e la crisi balcanica, “Rivista storica italiana”, fasc. 1, 1955, pp. 182-212; G. Salvemini, La politica estera italiana dal 1871 al 1915, Feltrinelli, Milano 1970; E. Decleva, Destra e Sinistra di fronte alla Crisi d’Oriente (1876-1878), in Id., L’incerto alleato. Ricerche sugli orientamenti internazionali dell’Italia unita, FrancoAngeli, Milano 1987, pp. 57-81; P.G. Celozzi Baldelli, L’Italia e la crisi balcanica 1876-1879, Congedo, Galatina 2000; L. Monzali, Italiani di Dalmazia. Dal Risorgimento alla Grande Guerra, Le Lettere, Firenze 2004, pp. 116-124. 32 A.V. Vecchi, Sulla strategia navale dell’Italia, “Nuova Antologia”, n. 81, 1876, pp. 801-820. 33 Cfr. Gabriele, Sulla possibilità di una espansione strategica italiana, cit., p. 412. 23 della marina e dell’esercito, sotto la guida del capitano di vascello Vittorio Arminjon e del maggiore Osio. Il resoconto della missione individuava in Prevesa, Valona, Durazzo e Corfù “le posizioni che corrisponderebbero meglio alle esigenze della politica italiana ed a quelle della nostra futura grandezza militare e commerciale”; in particolare, Corfù era considerata “senza dubbio la chiave dell’Adriatico” e per ottenere il suo possesso era necessario organizzare un corpo di spedizione, la cui preparazione avrebbe implicato la militarizzazione di diverse basi nell’Adriatico meridionale, nello Ionio e persino nel Tirreno: Il porto che dalla sua stessa posizione sarebbe indicato come punto di partenza della spedizione è senza dubbio Brindisi; ma, sia per affrettare il concentramento ferroviario delle truppe, sia per facilitare le operazioni di imbarco, sia infine per rendere possibile il segreto, sarà forse conveniente stabilire parecchi punti di partenza, scegliendoli negli arsenali e nei principali porti del commercio, sia nell’Adriatico che nel Tirreno, e combinare le cose in modo che le diverse navi di trasporto e la flotta di battaglia potessero trovarsi a giorno ed ora stabilita in un dato punto di convegno.34 Il disegno strategico che sottintendeva alla relazione di Arminjon e Osio prevedeva il dominio italiano sull’Adriatico grazie al controllo che la Marina avrebbe detenuto sulla costa albanese, da Prevesa a Durazzo, alla conquista dell’altro cardine della porta adriatica, Valona, che avrebbe permesso l’estensione di una piena influenza sul canale d’Otranto e al possesso dell’isola di Corfù, vista come la grande base navale da integrare a Taranto. Da parte del Governo di Roma, tuttavia, l’idea alla base del concetto geograficopolitico-militare contenuto nel rapporto di Arminjon e Osio suscitò un interesse trascurabile e si continuò a sperare in un’annessione 34 Il testo integrale del rapporto sulla missione guidata da Arminjon e Osio, datato da Brindisi 8 settembre 1876 e firmato da entrambi gli estensori, si trova in ivi, pp. 413-416. 24 pacifica delle terre italiane ancora sotto il dominio asburgico.35 In quel periodo iniziò anche la costruzione di un collante ideologico per l’elaborazione di quella che Luigi Masella ha definito una vera e propria “mitologia pugliese di una sua storica proiezione in Oriente”,36 di cui il “Corriere delle Puglie”, nato nel 1887, fu assoluto protagonista. Secondo il suo programma ispiratore, Bari avrebbe dovuto assumere un ruolo di guida politica ed economica per il resto della regione. Il capoluogo doveva diventare la sede prescelta della mediazione politica con lo Stato nazionale, del raccordo tra il mercato regionale e quello internazionale, della rappresentanza corporativa degli interessi economici e di governo del processo di sviluppo, della produzione e dell’elaborazione intellettuale. La nuova Puglia, nata dal processo di unificazione nazionale, trovò quindi nella testata lo strumento più congeniale per veicolare, a una vasta platea, le idee che costituivano la ragion d’essere del progetto regionale, aggiornandole ai mutamenti dello scenario nazionale e internazionale. Tra queste c’era sicuramente l’aspirazione a fare di Bari la sede designata di vasti commerci con l’estero, alle cui esigenze e modalità avrebbe dovuto adeguarsi l’intera struttura produttiva della regione.37 35 Ivi, pp. 417-418. Masella, La difficile costruzione di una identità, cit., p. 343. 37 Cfr. L. Cioffi, Stampa e formazione di un’opinione pubblica, in Masella e Salvemini, op. cit., pp. 659-660. Il “Corriere delle Puglie” fece la sua prima apparizione nelle edicole il 1° novembre 1887, grazie all’iniziativa di Martino Cassano, giovane giornalista, nato a Bari nel 1861, che, dopo un’esperienza a Roma, dove lavorò come redattore alla “Gazzetta d’Italia”, tornò nella città pugliese per fondarvi, nel 1885, il periodico “La Settimana”, trasformatosi poi in quotidiano. Del “Corriere delle Puglie” Cassano fu direttore e proprietario fino al 1920. Sulla nascita della testata si veda anche: La Gazzetta del Mezzogiorno. La Gazzetta di Puglia-Corriere delle Puglie. 1887-1987, EdiSud, Bari 1987; N. Mascellaro, Una finestra sulla storia. Dal Corriere delle Puglie a La Gazzetta del Mezzogiorno. 1887-1928, EdiSud, Bari 1988; M. Pizzigallo e M. Spagnoletti, Un giornale del Sud. Dal ‘Corriere delle Puglie’ alla ‘Gazzetta del Mezzogiorno’ 18871943, FrancoAngeli, Milano 1996. Per uno sguardo più generale sulla situazione 36 25 Questa idea forte di sviluppo cittadino e regionale dovette fronteggiare un’evoluzione economica per nulla lineare e progressiva. Negli ultimi decenni dell’Ottocento, infatti, la qualità della vita urbana peggiorò in maniera sensibile. In particolare, la rottura nel 1889 del trattato commerciale con la Francia ebbe conseguenze importanti sull’economia di Bari.38 A partire da quell’evento imprese commerciali, grandi proprietari e persino istituti bancari (il caso più famoso è quello della Banca Diana) si sfaldarono in poco tempo, travolgendo fortune private di eccezionale rilievo accumulate in brevissimo tempo e, in generale, favorendo uno smantellamento dell’industria sorta nella città attorno al binomio della grande impresa urbanistica e della modernizzazione agricola del suo territorio.39 Ciò rese ancora più centrale l’importanza del porto e la dimensione adriatica, arrivando a definire in maniera nitida rapporti gerarchici nuovi con le altre città marinare della provincia. Se, infatti, ancora alla fine dell’Ottocento, con l’eccezione della sola Giovinazzo, i porti delle altre città costiere continuavano a esercitare un’attività piuttosto intensa, il trend di medio-lungo periodo era decisamente favorevole a Bari, con gli altri porti provinciali che davano prova di un dinamismo sempre più affannoso. A partire dalla metà degli anni Ottanta il movimento delle merci si concentrò sempre più su Bari, accentuando il divario con gli altri porti dell’Adriatico meridionale. Le questioni del porto, del suo ampliamento della stampa in Italia durante il periodo liberale si rimanda a: V. Castronovo, La stampa italiana dall’Unità al fascismo, Laterza, Roma-Bari 1976; Id. e N. Tranfaglia (a cura di), La stampa italiana nell’età liberale, Laterza, RomaBari 1979. 38 Sulla rottura delle relazioni commerciali tra Italia e Francia e, più in generale, sui rapporti tra Roma e Parigi durante i primi due gabinetti guidati da Francesco Crispi: G. Salvemini, La politica estera di Francesco Crispi, La Voce, Roma 1919; C. Duggen, Francesco Crispi. From Nation to Nationalism, Oxford University Press, Oxford 2002; Id., La politica coloniale di Crispi, in P.L. Ballini e P. Pecorari (a cura di), Alla ricerca delle colonie (1876-1896), Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 2007. 39 Cfr. Borri, Città e “piano”, op. cit., pp. 247-248. 26 in relazione alla crescita economica della città e del suo ruolo di centro, oltre che commerciale, di coordinamento di un’area economica notevolmente più ampia della dimensione urbana, divennero centrali all’interno del dibattito politico e culturale cittadino. Una volta definite le gerarchie regionali, l’obiettivo successivo diventava uscire dai confini pugliesi e stabilire un rapporto di competitività tra il porto di Bari e i principali porti dell’Adriatico.40 Secondo Vincenzo Roppo: Il porto di Bari trovasi tra gli altri porti della provincia e regione, che gli contendono l’avvenire. Dannevoli queste gare nefaste, giacché ciascuna città ha un destino proprio, che rallegra ogni pugliese. Barletta e Monopoli sono prossime ad allacciare il porto alla ferrovia: indubbiamente ciò porterà uno storno di approdi da Bari; ma ciò non incide vitalmente il corso meraviglioso dei progressi di Bari. Barletta abbia tutte le fortune, perché ciò induce benessere a tutta la regione; ma essa è destinata naturalmente a essere lo scalo della Capitanata. Monopoli raggiunga nuovo vigore; ma non per questo il porto di Bari – la cui importanza si impone da sé – verrà meno. E’ così esuberante la vita commerciale e industriale di Bari, che questa potente forza attrae nell’orbita sua il maggior commercio dell’Adriatico e lo trattiene, e non isfuggirà di mano, perché una potente tradizione marinara è in Bari, come a Venezia e Genova.41 La questione del porto era, a opinione dello storico, “la più importante di Bari”, in quanto a essa erano strettamente connesse non soltanto le prospettive di un potenziamento della locale “marina mercantile e peschereccia”, ma anche, più in generale, di una costante espansione degli scambi, specialmente con i paesi balcanici e mediterranei. “L’avvenire del traffico barese deve avvenire verso i 40 Cfr. Masella, La difficile costruzione di una identità, cit., pp. 314-315. V. Roppo, Bari e provincia nell’ultimo ventennio (1892-1912): capitoli aggiunti alla Storia di Giulio Petroni, Bari 1913, p. 58. 41 27 Balcani”,42 sentenziava Roppo, seguito, nello stesso periodo, da Saverio La Sorsa, quest’ultimo convinto che le più belle speranze di Bari sono riposte nei nuovi paesi Balcanici, ora che la Turchia è stata debellata, e le genti slave hanno acquistata la loro completa libertà, un grande campo si apre all’attività e alle iniziative del nostro popolo. Se l’Italia saprà approfittare del momento, nuove correnti di commerci e di traffici si determineranno tra la nostra penisola e quella balcanica, si raddoppieranno i rapporti già esistenti, e si creeranno nuove relazioni tra i due paesi. […] Bari allora diventerà forse il primo scalo dell’Italia per l’Oriente; ad essa che ha la fortuna di avere un ricco hinterland, una importante società di navigazione propria, di essere una piazza attiva d’industrie e di commerci, di stare al centro di numerose linee ferroviarie che l’allacciano con varie provincie, convergeranno le linee dei traffici e della vita economica, che si svolgeranno in Oriente, e Bari tornerà come nel Medio Evo a far sentire la sua possanza nei mari del Levante, riprenderà con maggior vigore la via battuta dai suoi figli, che gareggiarono con i pisani, con i genovesi e con i veneziani, ed affermerà sempre di più la sua grandezza, la sua prosperità, la sua gloria.43 Motori della crescita della Puglia per tutto il XIX secolo erano stati, secondo Antonio De Tullio, tre porti: Bari, Brindisi, Taranto, oltre i minori, nei cui destini sono racchiusi la nostra forza e l’avvenire. La posizione topografica e geografica, che natura ci diede, son tali che nessuna forza umana verrà a chiuderci i varchi naturalmente aperti innanzi a noi. Due mari bagnano le nostre coste. Sull’Adriatico 42 Ivi, p. 46. S. La Sorsa, La vita di Bari durante il secolo XIX. Parte seconda (Dal 1860 al 1900), Vecchi, Bari-Trani 1915, pp. 548-550. 43 28 Venezia declina di giorno in giorno, ed Ancona va lentamente divenendo un immenso deposito di carboni. Alle spalle, all’interno, tre regioni che furono e rimarranno puramente agricole, pendenti per fornirsi di ciò che non possiedono, fra Napoli e la Puglia.44 In quel periodo i tre maggiori porti della Puglia furono oggetto di una certa differenziazione funzionale anche dal punto di vista economico. Bari si apprestava a diventare sede delle succursali dei principali istituti nazionali di credito45 e tentava, all’inizio con poca fortuna, di autocandidarsi ambiziosamente a sede centrale di una banca regionale e di una università degli studi; Taranto, invece, era stata scelta dall’azienda metalmeccanica Franco Tosi Meccanica come sede meridionale per lo sviluppo di un’industria cantieristica strettamente legata alle prospettive imperialistiche italiane nel Mediterraneo.46 All’espansione in Medio Oriente erano legate anche le speranze di sviluppo di Brindisi, attraverso l’incremento di rapporti commerciali con i Balcani e grazie al transito attraverso la città pugliese della “Valigia delle Indie”, che fu inaugurata il 25 ottobre 1870 e sarebbe durata fino al 1914.47 44 A. De Tullio, Bari e la Puglia nel secolo nuovo, “Corriere delle Puglie”, 31 dicembre 1900. 45 Sul sistema creditizio in Puglia si veda M. Comei, Credito e sistema locale nella Puglia degli anni Venti, Puglia Grafica Sud, Bari 2004. 46 Sulla storia della Franco Tosi Meccanica e il suo stabilimento di Taranto: I cantieri navali Franco Tosi di Taranto: 1914-1934, Pappacena, Taranto 1934; P. Macchione, L’oro e il ferro: storia della Franco Tosi, FrancoAngeli, Milano 1987. 47 La “Valigia delle Indie” era il nome della via di transito e comunicazione che congiungeva Londra a Bombay. Il tragitto partiva in treno dalla capitale inglese per arrivare a Calais; da lì, attraversato il canale della Manica, ripartiva, sempre su rotaia, da Modane, in Francia, per giungere, attraversando la penisola italiana – segnatamente Torino, Piacenza, Bologna e Ancona – a Brindisi. Nella città pugliese passeggeri e corrispondenza postale si imbarcavano su un piroscafo della compagnia navale britannica Peninsular and Oriental Steam Navigation 29 3. bari e l’adriatico nella percezione delle élite politiche, economiche e intellettuali cittadine del primo novecento Questa volontà di basare la crescita dell’economia di Bari e, più in generale, di tutta la regione, sulla dimensione internazionale aveva delle cause ben precise. Prendendo in considerazione il contesto nazionale, non si può non fare riferimento al declino e poi alla fine del ciclo espansivo giolittiano, connesso anche alla temporanea eclissi delle politiche di intervento statale in campo economico, considerate come motore dello sviluppo e strumento di aggregazione di ceti politici e intellettuali nuovi, che si erano candidati alla guida politica della città e, più estensivamente, dell’intera regione.48 Poiché il neonato Regno d’Italia non era riuscito, attraverso Company (P&O), per giungere a Bombay passando attraverso il canale di Suez e su altre navi di proprietà di altre società di navigazione, sia nazionali (Compagnia Florio-Rubattino), sia estere (Lloyd Austro-Ungarico e Società Ellenica), in partenza per altre destinazioni (Valona e Antivari, Corfù e Prevesa, Porto Said, Aden e Bombay). Il convoglio ferroviario impiegava 44 ore per percorrere il tratto Londra-Brindisi, mentre il piroscafo copriva il percorso dal porto pugliese a Bombay in 22 giorni. Sulla “Valigia delle Indie”: R. Mascia, La Valigia delle Indie: Londra, Brindisi, Bombay, Tiemme, Manduria 1985; F.A. Mastrolia, Lo sviluppo delle infrastrutture e la Valigia delle Indie a Brindisi, in L. Borgia, F. De Luca, P. Viti, R.M. Zaccaria (a cura di), Studi in onore di Arnaldo D’Addario, vol. IV, Toscana e Puglia, t. 2, Capone, Lecce 1995, pp. 1603-1621; A. Quaranta, La Valigia delle Indie. Cronistoria di un viaggio dal triste epilogo, Capone, Lecce 2003. 48 Sull’età giolittiana: B. Vigezzi, Da Giolitti a Salandra, Vallecchi, Firenze 1969; E. Ragionieri, La storia politica e sociale, in Storia d’Italia, vol. IV, Dall’Unità a oggi, t. 3, Einaudi, Torino 1976; G. Candeloro, Storia dell’Italia moderna, vol. VII, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana 1896-1914, Feltrinelli, Milano 1981; F. Gaeta, La crisi di fine secolo e l’età giolittiana, Utet, Torino 1982; B. Croce, Storia d’Italia dal 1871 al 1915, Laterza, Roma-Bari 1985; A. Aquarone, L’Italia giolittiana, il Mulino, Bologna 1988; G. Volpe, Storia d’Italia moderna, vol. II, 1898-1910, Le Lettere, Firenze 2002; E. Gentile, Le 30 questi strumenti, a dare un’identità alla città, spettava alle locali classi dirigenti farlo. La contingenza storica fece sì che questo contributo si incanalasse all’interno della direttrice balcanica e mediterranea, sino ad allora considerata secondaria dalla politica estera italiana, ma che in quegli anni la guerra di Libia, la crisi profonda dell’Impero ottomano e le difficoltà, da parte del governo italiano, di misurarsi con la dimensione europea della propria politica estera avevano fatto tornare in auge. Si costituì proprio in questi anni quel mito dell’Oriente che presto si sarebbe diffuso nell’immaginario collettivo del popolo barese e nella simbologia istituzionale della città. Tutto ciò si sarebbe in seguito trasformato in una più concreta aspirazione nazionalista: una dimensione implicita, in qualche modo, già nelle parole di Antonio Salandra,49 che, nel gennaio 1913, dalle pagine della “Rassegna Pugliese”, ricordava che la Puglia origini dell’Italia contemporanea. L’età giolittiana, Laterza, Roma-Bari 2003. 49 Antonio Salandra (Troia 1853 - Roma 1931) divenne capo del Governo il 21 marzo 1914, dopo le dimissioni di Giolitti. Allo scoppio della Prima guerra mondiale, in base all’art. 7 della Triplice Alleanza, proclamò la neutralità italiana, iniziando, contemporaneamente, un intenso lavorio diplomatico sia con gli Imperi centrali sia con la Francia e l’Inghilterra, allo scopo di ottenere quelle terre irredente senza le quali l’unificazione nazionale non poteva dirsi completata. Il patto segreto di Londra del 26 aprile 1915 comportò il capovolgimento delle alleanze italiane e la dichiarazione di guerra contro l’Austria del 23 maggio 1915. Rimase in carica alla guida dell’esecutivo fino al 10 giugno 1916, quando fu costretto alle dimissioni dalla difficile condotta in guerra da parte dell’esercito italiano. Sulla concezione della politica estera di Salandra sono fondamentali i suoi volumi di memorie: A. Salandra, La neutralità italiana, 1914. Ricordi e pensieri, Mondadori, Milano 1928; Id., L’intervento, 1915. Ricordi e pensieri, Mondadori, Milano 1930; Id., Memorie politiche 1916-1925, Garzanti, Milano 1951; Id., Il diario di Salandra, Pan, Milano 1969; Id., I retroscena di Versailles, Pan, Milano 1971. Sulla figura e l’azione politica del politico pugliese: G.F. Guerrazzi, Salandra e la guerra, Tip. Lodolini, Roma 1932; V. Galizzi, Giolitti e Salandra, Laterza, Bari 1949; C. De Biase, Antonio Salandra, Cressati, Bari 1957; M.M. Rizzo, Politica e amministrazione in Antonio Salandra: 18751914, Congedo, Galatina 1989. 31 ha avuto un nome e un posto nella storia del mondo solo quando l’hanno attraversata i flussi della civiltà intercorrenti fra l’Oriente e l’Occidente, ha una fatalità storica che la trae a inorientarsi: ne fanno fede la sua configurazione, il suo cielo, i suoi idiomi, i monumenti della sua civiltà: per la Puglia dovrà l’Italia inorientarsi.50 L’ideologia, o lo stereotipo, della proiezione esterna della Puglia raggiunse, in questo periodo, la sua fase apicale, alimentandosi di argomenti molto persuasivi. Nacque proprio in questa fase l’accostamento tra Bari e Venezia, due città accomunate da un destino di espansione verso Est, e, quindi, da tutto un patrimonio comune di tradizioni da scoprire e valorizzare, che offriva un retroterra storico alla ripresa del “mito” cittadino e regionale della missione verso il Levante diffusosi alla fine dell’Ottocento. Anche l’ambito religioso fu di sostegno a questa ideologia. Il culto di San Nicola e le celebrazioni annuali della festività del santo protettore barese sembravano poter favorire un consenso popolare alla prospettiva di “inorientamento” di Bari e dell’intera Puglia.51 Armando Perotti fu uno degli artefici di questa rivisitazione del passato, che, intrecciando narrazione storica e leggenda, si poneva al servizio degli interessi della borghesia cittadina e dei suoi ambiziosi progetti. Non deve apparire strano, quindi, se, come ha sostenuto Ferdinando Pappalardo, l’esaltazione dell’antica amicizia fra Bari e Venezia, che rischiava di diventare quasi una “affinità elettiva”, poteva, date le finalità contingenti e tutte proiettate al presente della ricostruzione storica dell’intellettuale barese, anche essere sacrificata al momento opportuno.52 50 A. Salandra, Una nuova era nella storia della Puglia, “La Rassegna Pugliese”, n. 1, 1913, p. 2. 51 Cfr. Masella, La difficile costruzione di una identità, cit., p. 346. 52 F. Pappalardo, Bari letteraria tra Otto e Novecento, in L. Masella e F. Tateo (a cura di), Storia di Bari. Il Novecento, Laterza, Roma-Bari 1997, p. 144. 32 Se geografia e storia non sono vane espressioni, il diritto pugliese all’egemonia adriatica è un prodotto degli eventi, non un giuoco della sorte. Se è giunta l’ora che il Levante si riapra alla civiltà, le vie di penetrazione sboccheranno di fronte a noi, dopo aver ritrovato le tracce delle antichissime, per le quali a noi vennero, e noi li trasmettemmo all’occidente barbaro, i luminosi messaggi, le forme e le idee che hanno riempito il mondo di salute e di gioia. […] Non dica Venezia che la nostra è prepotenza: soprattutto non ricordi il suo passato. Pieghi la cara fronte al destino, ed aspetti: tornerà anche per lei il sole. E quando vedrà la Puglia affidarle le nuove vie della ricchezza e della fortuna, ritroverà, immutato e immutabile, il sentimento dell’affetto antico.53 Nel luglio del 1908 proprio una conferenza di Perotti sul ruolo del paese nell’Adriatico fu accolta in maniera molto negativa dai circoli democratici e dall’opinione pubblica locali. Perotti sosteneva la tesi che nell’Adriatico, “lago latino”, non “c’era posto per due” e, di conseguenza, “il piccolo vantaggio che i porti pugliesi [avrebbero tratto] da uno sbocco ferroviario sulla costa che ci è più prossima si [sarebbe ridotto] ad un lieve incremento d’importazione, ma come sognare il grande movimento esportativo, se [si fosse trovata] dietro le montagne albanesi la più dura cerchia della concorrenza austro-tedesca, padrona già dei mercati, del suolo e dei porti?”.54 Negli anni successivi il dibattito politico e intellettuale sul ruolo della città pugliese all’interno della regione adriatica divenne sempre più acceso. Si moltiplicarono gli articoli sugli organi di stampa locali e furono pubblicati numerosi opuscoli riguardanti l’Albania, la Bosnia, la Serbia e le possibilità di commercio col mondo balcanico. Si ridussero, invece, le note sui trattati di commercio con i paesi del Centro-Europa, i dibattiti sul protezionismo, sulle crisi 53 A. Perotti, Bari dei nostri nonni, Adriatica, Bari 1975, p. 399. Il passo di Perotti è citato in E. Corvaglia, Una capitale senza regno, in Masella e Tateo, Storia di Bari. Il Novecento, cit., p. 5. 54 33 vinicole, sulla necessità di costituire un partito agrario. I principali protagonisti di questo dibattito furono, tra gli altri, intellettuali e giornalisti come Leonardo Azzarita,55 Emanuele Fizzarotti e Vincenzo Roppo. Vi era, poi, tutta una pletora di politici e intellettuali emergenti, che sostenevano con convinzione una prospettiva di sviluppo nuova, che, a tratti, assumeva quasi i contorni messianici di una missione, pur contemplando alcune sfumature nelle posizioni. Se Azzarita riconosceva esplicitamente che i territori dell’altra sponda adriatica, anzi la stessa Albania “commercialmente […] non esisteva per noi, e nella storia della cultura nostra quella nazione non occupa che un posto da Cenerentola”,56 altri cercavano di contemperare la necessità dell’apertura a Oriente con la ripresa di una polemica antiaustriaca di stampo risorgimentale, nel tentativo di conciliare l’irredentismo con gli slogan inneggianti al diritto dei popoli balcanici e a una possibile penetrazione economica. Gli ambienti politici democratici furono i primi, già alla fine del 1908, a esprimere una posizione in tal senso. Luigi Loizzi57 e Gennaro Venisti fondarono quell’anno la “Rivista del Sud”, che obbediva a questa ispirazione “adriatica e antiaustriaca”, come dimostrava, già nel primo numero, la proposta di una sorta di referendum sulla politica estera del governo Giolitti. Mentre l’anno successivo, da quelle stesse pagine, Americo Antonucci affermava con convinzione che “nella penisola balcanica i nostri interessi commerciali possono diventare grandissimi e per ciò occorre che il patrio governo cementi sempre più le relazioni con quei diversi popoli e si renda mallevadore dei loro diritti, non permettendo che altra nazione subdolamente si appropri di una prerogativa a lei negata dalla Storia”.58 55 Si vedano: L. Azzarita, Le vie della pace e le necessità della guerra, Spadavecchia, Molfetta 1912; Id., Il commercio italiano e l’opposta sponda adriatica, La Stampa Commerciale, Milano 1914; Id., L’Italia e l’Oriente, Istituto Editoriale Italiano, Milano s.d. (ma 1919). 56 Azzarita, Il commercio italiano, cit., p. 7. 57 Si veda L. Loizzi, La emigrazione e la politica coloniale dell’Italia, Cooperativa Tipografica, Bari 1910. 58 A. Antonucci, La Triplice alleanza nel suo triste tramonto e nella sua alba 34 Alcuni anni dopo, nel 1913, il “Risveglio commerciale” sosteneva, nel solco di una ispirazione liberaldemocratica mutuata da Gaetano Salvemini,59 la creazione di un hinterland per l’economia barese, coniugato con la speranza che i Balcani potessero “evolversi con forza propria, senza infiltramenti e soggezioni straniere”.60 Carlo Maranelli, invece, mostrava un certo scetticismo per la costituzione di un’area balcanica integrata attraverso un sistema di ferrovie che dalla costa penetrassero nell’entroterra, in via di costruzione in quel periodo (la cosiddetta ferrovia Transbalcanica),61 preferendo futura, “Rivista del Sud”, n. 12, 1909, p. 5. 59 Gaetano Salvemini, storico e uomo politico, era nato a Molfetta nel 1873, ma svolse la sua formazione intellettuale e politica interamente fuori dalla Puglia e segnatamente a Firenze, dove frequentò l’Istituto di studi superiori e fu allievo di Pasquale Villari. Dopo un’iniziale adesione al Partito Socialista Italiano se ne distaccò nel 1911, per entrare nella sinistra interventista e partire volontario nel 1915, all’entrata dell’Italia nella Prima guerra mondiale. Nel 1919 fu eletto deputato nelle liste dei combattenti, da cui si staccò quando sembrarono prevalere le tendenze nazionaliste e fasciste. Salvemini condusse, insieme a Leonida Bissolati, una battaglia contro l’annessione dell’Alto Adige e della Dalmazia, sostenendo, invece, la politica di Carlo Sforza di avvicinamento al neonato Regno dei Serbi, Croati e Sloveni (Shs). Tra le sue opere dedicate alla politica estera italiana si ricordano: G. Salvemini, Come siamo andati in Libia e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1963; Id., La politica estera dell’Italia dal 1871 al 1915, cit.; Id., Dalla guerra mondiale alla dittatura (1916-1925), Feltrinelli, Milano 1964. Si vedano anche i volumi del Carteggio, 8 voll., Laterza, Roma-Bari 1984, poi Lacaita, Manduria 2004. Sull’uomo politico pugliese si ricordano: M.L. Salvadori, Gaetano Salvemini, Einaudi, Torino 1964; G. De Caro, Gaetano Salvemini, Utet, Torino 1970; E. Apih, Gaetano Salvemini e il problema adriatico, in M. Pacetti (a cura di), L’imperialismo italiano e la Jugoslavia. Atti del convegno italo-jugoslavo (Ancona, 14-16 ottobre 1977), Argalia, Urbino 1981, pp. 85-127; G. Quagliariello, Gaetano Salvemini, il Mulino, Bologna 2007. 60 Il Pugliese, La ripresa delle ostilità nei Balcani e i nostri interessi commerciali, “Risveglio commerciale”, 8 febbraio 1913. 61 Sul progetto di ferrovia Transbalcanica si rimanda a E. Ritrovato, Alle origini dei corridoi pan-europei. La ferrovia transbalcanica italiana (1890-1940), Cacucci, Bari 2006. 35 concentrare la sua attenzione sulle potenzialità commerciali che potevano esprimere Bari e il suo porto, in grado, potenzialmente, di porsi al centro di una macroregione dell’Adriatico meridionale ben integrata come sistema produttivo e rete di comunicazioni.62 In generale, ciò che accomunava questi differenti punti di vista era la ricerca di una via d’uscita a una preoccupazione avvertita con forza dalle classi dirigenti locali e che, già all’inizio del secolo, Antonio De Tullio aveva sintetizzato nella necessità di irrobustire il tessuto industriale locale in modo da non dipendere più dai precari circuiti del commercio agricolo. Il presidente della Camera di Commercio di Bari, l’istituzione economica più importante della città, aveva tracciato, in un articolo apparso sul “Corriere delle Puglie” il 31 dicembre 1900, un’analisi molto nitida delle tendenze dello sviluppo regionale e dei compiti dei suoi protagonisti economici e politici: L’avvenire della Puglia sarà essenzialmente agricolo o industriale? La domanda può sembrare assurda in un paese che dall’agricoltura ha tratto fino ad oggi la massima parte della sua ricchezza pubblica e privata. Ma sarebbe ugualmente assurdo perseverare nella vecchia opinione che all’infuori dell’agricoltura non vi è via di salvezza. Se la Puglia diverrà industriale nel senso lato del termine le Calabrie, gli Abruzzi, la Basilicata ne diverranno tributarie; di fronte a noi l’Oriente, il campo aperto alle attività di tutto il mondo dove vi è posto per tutti.63 Questa prospettiva sembrò invece esaurirsi a partire dalla crisi del giolittismo, che aprì il fianco a un lento processo di deindustrializzazione, momentaneamente arrestato dallo sviluppo della produzione bellica negli anni del primo conflitto mondiale. Da quel momento, questa “missione” di Bari verso il Levante, riflesso della stessa propensione nazionale a rivolgere la propria attenzione 62 63 Cfr. Bari MDCCCXIII-MCMXIII, Laterza, Bari 1913, p. 45 sgg. A. De Tullio, Bari e la Puglia nel secolo nuovo, cit. 36 espansionistica verso i Balcani, divenne quasi completamente appannaggio delle forze politiche di ispirazione nazionalista.64 Il “Corriere delle Puglie” partecipò da protagonista alla riformulazione di un’idea di sviluppo di Bari e dell’intera regione. Il punto di partenza fu una concezione espansionista che avrebbe trovato largo seguito nell’opinione pubblica, e che fu spinta fino al parossismo di una pericolosa involuzione bellicista, in cui si coniugavano penetrazione commerciale e conquista militare. Secondo il quotidiano, le forze economiche regionali avrebbero dovuto operare in un contesto geografico più ampio di quello tradizionale: da un lato si guardava alle altre regioni del Mezzogiorno, destinate a essere inglobate nell’entroterra pugliese, e dall’altro al bacino adriatico e alla regione balcanica. L’espansionismo rappresentò sicuramente un alibi per le difficoltà a risolvere i nodi cruciali del ritardo regionale, ma, al tempo stesso, era lo specchio dell’esigenza, sempre più pressante, di allargare gli sbocchi di mercato per l’industria e il commercio pugliesi. Tutto questo pose al centro del dibattito il problema della collocazione internazionale dell’Italia e delle sue scelte in politica estera. Il “Corriere delle Puglie” sostenne, nei primi anni del Novecento, la scelta di rinnovare l’adesione alla Triplice Alleanza, pur iniziando a covare una malcelata ostilità nei confronti dell’Impero asburgico, presupposto di quella scelta interventista che avrebbe accomunato larga parte dell’opinione pubblica pugliese.65 Nelle sue pagine si potevano leggere, diversi anni prima dello scoppio della Grande guerra, articoli che individuavano nell’Austria il nemico e l’ostacolo, oltre che il principale concorrente, alla penetrazione pugliese nei Balcani. Già nel 1900 il “Corriere” scriveva che se l’Austria si inoltrasse in Albania, l’Adriatico sarebbe senza metafore un lago austriaco. L’equilibrio quindi dell’Adriatico si va perdendo e si va sostituendo il monopolio. È contro questo monopolio che non il Governo soltanto, ma il nostro 64 65 Cfr. Masella, La difficile costruzione di una identità, cit., p. 347. Cfr. Cioffi, op. cit., pp. 664-665. 37 commercio terrestre e marittimo dovrebbe insorgere. L’Adriatico non è soltanto minacciato è invaso, ed ogni riguardo dovrebbe essere eliminato con la massima energia, perché non si compia quest’altra spoliazione internazionale a danno nostro.66 Anche l’attività della compagnia di navigazione Puglia divenne emblematica della vocazione espansionista della regione. A commento di alcuni incidenti avvenuti con piroscafi del Lloyd Austriaco, ad esempio, il “Corriere” arrivò a scrivere che “le compagnie navigatrici austriache prendono di mira la Società ‘Puglia’ perché questa è uno degli elementi della nostra affermazione nell’Adriatico”.67 La sua costante attenzione alle questioni adriatiche andava di pari passo con una riflessione sullo sviluppo industriale che caratterizzò l’economia italiana nei primi anni del XX secolo e da cui la Puglia non poteva restare esclusa, pena il ridimensionamento delle sue aspirazioni. I problemi dello sviluppo regionale e del suo futuro iniziarono a essere inseriti in una cornice ideologica espansionista e nazionalista, rappresentata al meglio da una presunta “battaglia modernissima per l’espansione commerciale e per la conquista economica dell’Albania”. Secondo il quotidiano diretto da Martino Cassano, infatti, Lo scopo internazionale a cui deve mirare il giovane commercio e la recente nostrale industria è appunto l’espansione commerciale nell’Albania perché sarà sempre il territorio balcanico quello in cui le nazioni europee affermeranno le loro forze morali ed economiche per poi conquistarlo militarmente.68 66 L’equilibrio adriatico, “Corriere delle Puglie”, 2 luglio 1900 (articolo non firmato). 67 Il passo è citato in Cioffi, op. cit., p. 665. 68 L’epopea della giovane Puglia, “Corriere delle Puglie”, 11 maggio 1909 (articolo non firmato). 38 Il tenore di queste affermazioni rendeva manifesto l’emergere di un clima ideologico in cui le questioni economiche, ma anche quelle relative alla politica nazionale e regionale, venivano tradotte in temi di politica internazionale, con un taglio nazionalista e imperialista. Non è un caso che ci troviamo proprio alla vigilia di quella radicale svolta della politica estera nazionale rappresentata dalla guerra di Libia. L’esperienza della conquista libica avrebbe segnato un vero e proprio spartiacque nella storia dell’Italia postunitaria, ponendo le premesse di una crisi politica che avrebbe coinvolto lo stesso sistema di governo inaugurato da Giolitti.69 La “febbre per Tripoli”, che infettava una larghissima parte dell’opinione pubblica, non avrebbe risparmiato neppure il Mezzogiorno, come dimostrava la posizione assunta dal “Corriere delle Puglie”, che si allineò immediatamente alle scelte del Governo, facendo da cassa di risonanza alle argomentazioni di politica estera e di politica interna che giustificavano la conquista coloniale. Per tutto il mese di ottobre 69 Sulla guerra di Libia e sul colonialismo italiano in Africa: F. Grassi, L’industria tessile e l’imperialismo italiano in Somalia. 1896-1911, “Storia Contemporanea”, n. 4, 1973, pp. 713-738; M. Degl’Innocenti, Il socialismo italiano e la guerra di Libia, Editori Riuniti, Roma 1976; F. Grassi, Nazionalismo, guerriglia ed imperialismo italiano nella Somalia del Nord (1899-1905), “Storia Contemporanea”, n. 4, 1977, pp. 611-681; Id., Le origini dell’imperialismo italiano: il caso somalo. 1896-1915, Milella, Lecce 1980; A. Del Boca, Gli italiani in Africa Orientale. Dall’Unità alla marcia su Roma, Mondadori, Milano 1992; Id., Gli italiani in Libia. Tripoli bel suol d’amore 1860-1922, Mondadori, Milano 1993; L. Monzali, L’Etiopia nella politica estera italiana (1896-1915), Facoltà di Giurisprudenza dell’Università di Parma, Parma 1996; S. Romano, La quarta sponda. La guerra di Libia:1911-1912, Longanesi, Milano 2005; L. Goglia e F. Grassi, Il colonialismo italiano da Adua all’Impero, Laterza, Roma-Bari 2006; G.P. Ferraioli, Politica e diplomazia in Italia tra XIX e XX secolo. Vita di Antonino di San Giuliano (1852-1914), Rubbettino, Soveria Mannelli 2007; L. Monzali, Il “Partito coloniale” e la politica estera italiana (1915-1919), “Clio. Rivista trimestrale di studi storici”, n. 3, 2008, pp. 369-416; N, Labanca, La guerra italiana per la Libia. 1911-1931, il Mulino, Bologna 2012. 39 del 1911 il foglio diretto da Martino Cassano cercò di venire incontro alla sete di informazione dell’opinione pubblica pugliese, uscendo in ben due edizioni giornaliere, aumentando la foliazione a otto pagine e raggiungendo, alla data dell’occupazione di Tripoli, la tiratura di 100.000 copie distribuite in sette diverse edizioni.70 Nonostante le violentissime polemiche di un intellettuale della levatura di Gaetano Salvemini,71 il quotidiano barese enfatizzava, in chiave tutta propagandistica, i presunti vantaggi economici che le colonie libiche, in quanto potenziali mercati di sbocco di prodotti e manodopera eccedenti, avrebbero apportato al Mezzogiorno, dilaniato dalla miseria e dalla disoccupazione. Illusioni che però, anche in questo caso, erano destinate a scontrarsi di lì a pochi mesi con i miseri risultati della colonizzazione e con la difficile situazione economica, che avrebbero finito per travolgere lo stesso sistema giolittiano. Questo momento di crisi investì anche Bari e l’intera Puglia. Le prospettive di una espansione dell’economia locale, favorita dagli investimenti di industrie e banche dell’Italia settentrionale, si stavano ormai ridimensionando e, contemporaneamente, l’esportazione di prodotti agricoli, come olio, vino e mandorle si contraeva ulteriormente. Anche i rapporti di scambio tra la Puglia e l’Impero turco, che negli anni precedenti si erano intensificati per effetto del boicottaggio delle merci austriache nei porti della “Sublime Porta”, si erano completamente interrotti dopo il conflitto libico, riducendo, tra le altre cose, le fortune della società di navigazione Puglia, legate alle speranze di espansione commerciale nei Balcani 70 Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., pp. 66-67. Salvemini condusse prima sulla “Voce” di Giuseppe Prezzolini e poi sull’“Unità”, da egli stesso fondata, una campagna di stampa molto attiva, volta a smascherare le tesi dei libicisti. Riuscì a dimostrare che il carteggio tra Crispi, Camperio e Rohlfs, in cui veniva esaltata la fertilità della Tripolitania, era un falso, denunciandone incongruenze, contraddizioni ed errori grossolani, e sottolineò i guasti che “l’intossicazione nazionalistica universale” stava arrecando al paese, preannunciando, in maniera quasi profetica, “anni poco lieti alla nostra patria”. Cfr. Del Boca, Gli italiani in Libia, cit., pp. 63-64. 71 40 e in Grecia, che stavano conoscendo un declino difficilmente arrestabile. Spazi e prospettive nuove sembravano aprirsi, invece, in Albania e nei nuovi Stati balcanici, spinti alla ricerca di relazioni con altri paesi europei dalla disgregazione ottomana e dal timore di un’egemonia tedesca o austriaca.72 In questo quadro la società di navigazione avrebbe dovuto rivedere con urgenza i servizi offerti, in modo da renderli più corrispondenti alla nuova situazione politica e commerciale dei nuovi Stati dell’Adriatico orientale, e da dare nuovo impulso a investimenti nelle infrastrutture portuali e ferroviarie nella città di Bari.73 La ricerca di nuovi capitali non era, però, un fatto semplice. Dopo la crisi del 1907-1908, le classi imprenditoriali settentrionali avevano ridotto gli investimenti nel Mezzogiorno, a favore di un impegno diretto nel recupero di spazi e mercati nei Balcani. Se la vocazione commerciale verso l’Oriente rimaneva, quindi, un argomento centrale di reazione alle difficoltà economiche pugliesi, rispetto al passato cambiarono le modalità di risposta, che si inserirono nelle nuove linee di tendenza nazionali. Vanno viste in quest’ottica le pronte adesioni della Camera di Commercio di Bari, della società Puglia e della Società commerciale d’Oriente al comitato Italo-serbo e al comitato Puglia e Balcania.74 Uno degli esponenti più autorevoli della vocazione adriatica e orientale delle classi dirigenti e imprenditoriali baresi in questo periodo fu sicuramente il geografo Carlo Maranelli, secondo cui il futuro capoluogo pugliese, che rappresentava già “il centro marinaro più importante del Mezzogiorno adriatico”, occupava anche una posizione invidiabile “rispetto alla Bosnia, al Montenegro e all’Albania”. Da ciò derivava, secondo lo studioso, che “buona parte del commercio di coloniali, di petrolio, di legname ecc. ecc., che oggi Trieste, Venezia e Ancona mantengono direttamente con l’Italia meridionale adriatica e con la Balcania meridionale adriatica, e anche con le terre dello Jonio, potrebbe accentrarsi a Bari”.75 72 Cfr. L. Masella, Una debole primazia. Fragilità e illusioni di una classe dirigente, in Masella e Tateo, Storia di Bari. Il Novecento, cit., p. 227. 73 Cfr. Ottolino, op. cit., p. 208. 74 Cfr. Masella, Una debole primazia, cit., p. 228. 75 Il passo di Maranelli è citato in Pappalardo, Bari letteraria, cit., p. 126. 41 Il “Corriere” opponeva, allo stato generalizzato di crisi della regione, la ferma volontà di individuare, a Bari e nell’intera Puglia, le forze in grado di trainare lo sviluppo, facendo rivivere l’“epopea della giovane Puglia”, o della “nuova Puglia” enunciata negli anni precedenti da Carlo De Cesare.76 In questo senso i compiti di guidare il processo regionale di sviluppo andavano affidati all’industria e al commercio, in un’ottica in cui diventavano sempre più evidenti le connotazioni espansionistiche: una grande missione è ancora riservata all’ardimento dei nostri commercianti, all’audacia dei nostri industriali: l’opposta riva adriatica dove più nazioni combattono la battaglia modernissima per l’espansione commerciale e per la conquista economica dell’Albania. Lo scopo internazionale a cui deve mirare il giovane commercio e la recente nostrale industria è appunto l’espansione commerciale nell’Albania perché sarà sempre il territorio balcanico quello in cui le nazioni europee affermeranno le loro forze morali ed economiche per poi conquistarlo militarmente.77 Nell’opinione pubblica venivano veicolati i temi di fondo del futuro interventismo e del nazionalismo: noi non dobbiamo fermarci all’oggi e non dobbiamo mai contentarci di qualsiasi affermazione e di qualsiasi vittoria. Noi dobbiamo guardare sempre all’avvenire e se ci addormentiamo 76 Carlo De Cesare (Spinazzola 1824 - Roma 1882), fu un uomo politico ed economista. Attivista durante i moti napoletani del 1848 e del 1853, ebbe la segreteria generale delle Finanze da Francesco II nel 1860, conservando tale ufficio anche dopo l’unificazione del Regno d’Italia. Deputato dal 1861 al 1867 e senatore dal 1876, fu relatore dell’inchiesta sulla Marina dopo Lissa. Su De Cesare si veda E. Corvaglia, Prima del meridionalismo. Tra cultura napoletana e istituzioni unitarie: Carlo De Cesare, Guida, Napoli 2001. 77 Cfr. L’epopea della giovane Puglia, cit. 42 di fronte all’opera vigile dei nostri concorrenti in questo “amarissimo” Adriatico, non faremmo certo opera patriottica.78 Gli anni che precedettero la Grande guerra furono attraversati in Puglia da grandi tensioni. L’opinione pubblica si raccolse attorno ai temi dell’opposizione a Giolitti nelle sue diverse coniugazioni politiche – dal salandrismo, egemone nel fronte democratico-liberale, al meridionalismo democratico gravitante attorno alla rivista “Humanitas” di Piero Delfino Pesce,79 pubblicata a partire dal 1911 – e alla costante ricerca di soluzioni ai problemi regionali in ambito adriatico e mediterraneo. 4. la dimensione adriatica della puglia tra la grande guerra e la nascita del fascismo Lo scoppio della Prima guerra mondiale orientò progressivamente le classi dirigenti baresi verso una prospettiva nazionalistica, legata in buona parte a valori e obiettivi risorgimentali. Antonio De Tullio, nel settembre 1916, riaffermava i diritti italiani sulla Dalmazia e sull’Adriatico, “pure consentendo col diritto delle genti slave del Sud, e più specialmente dei Serbi, ad avere uno sfogo commerciale nel mare Adriatico […] in quella zona meridionale dove finiscono le rivendicazioni italiane, e da dove non può né militarmente, né politicamente essere minacciato il pieno completo svolgimento della vita italiana”.80 La vita politica locale era caratterizzata da una limitatezza nella visione e negli obiettivi. Ciò era confermato da un indirizzo generale che, come ha scritto Ennio Corvaglia, “tendeva 78 L’avvenire della Puglia, “Corriere delle Puglie”, 11 maggio 1911 (articolo non firmato). 79 Su Piero Delfino Pesce e la rivista “Humanitas” si veda N. Fanizza, Piero Delfino Pesce: la rinascenza mediterranea nel centenario della rivista Humanitas (1911-1924), G. Laterza, Bari 2011. 80 Le parole di De Tullio sono citate in Corvaglia, Una capitale senza regno, cit., p. 29. 43 a riaffermare una permanente inconciliabilità tra le Alpi e il Mediterraneo, ossia tra la formazione di un bacino integrato del basso Adriatico e il peso e l’importanza dell’intensificazione dei rapporti della Puglia con il mercato europeo”.81 Obiettivo delle classi dirigenti baresi era la conciliazione di due elementi della politica estera liberale fino a quel momento incompatibili: utilizzare, cioè, la direttrice delle Alpi per sviluppare una politica mediterranea e adriatica, sintetizzando le due dimensioni della politica imperialista e del completamento territoriale del Risorgimento nazionale. Il vero limite di questa illusoria e ambiziosa aspirazione stava nella posizione periferica di Bari all’interno di un sistema portuale adriatico che si era frammentato in un mosaico di sottosistemi. Venuto meno il ruolo di snodo del mercato mitteleuropeo detenuto da Trieste, la classe dirigente barese cullò per un certo periodo l’idea di sostituire la città giuliana quale protagonista nella creazione di una vasta area d’influenza economica e politica nazionale. Il problema stava forse in una errata concezione dello spazio adriatico, che non era un “lago”, ossia il centro di un territorio integrato, ma un corridoio, una via di transito. Da questo traeva origine un’aspirazione verso l’Oriente sempre in bilico – come si sarebbe visto nel caso dell’Albania – tra vocazione commerciale e conquista territoriale, una sorta di “subimperialismo”, come ha scritto ancora Corvaglia, che non avrebbe potuto mai fare un salto di qualità, se non altro a causa di una somiglianza di fondo tra le strutture produttive della Puglia e dei paesi dei Balcani, le cui produzioni agricolo-industriali ricalcavano, in forme ancora più povere, quelle esistenti nella regione.82 Interventismo ed espansionismo nei Balcani erano temi che contribuirono a uniformare l’opinione pubblica, trovando un solido sostegno negli organi d’informazione. Dalla conquista della Libia fino all’entrata dell’Italia in guerra, il “Corriere delle Puglie” avrebbe mantenuto vivo l’interesse nei confronti dei temi coloniali ed espansionistici, nel tentativo, non ultimo, di contrastare, attraverso l’utilizzo di tali categorie, la pericolosa crescita del movimento 81 82 Ibid. Ivi, pp. 29-30. 44 socialista, che entrava allora per la prima volta nel vivo della competizione elettorale regionale, partecipando alle amministrative del 1913 e ottenendo un buon risultato, specialmente nelle aree rurali.83 La paura e la reazione nei confronti della crescita dei socialisti fu alla base anche della nascita di un conservatorismo di stampo agrario che si nutriva di concetti politici ispirati a un nazionalismo, o meglio a un vero e proprio regionalismo, che aveva l’illusione di risolvere gli squilibri sociali attraverso una politica coloniale o espansionistica nei Balcani e nell’Adriatico.84 Come già avvenuto durante la guerra di Libia, anche lo scoppio del primo conflitto mondiale vide un’accresciuta richiesta di informazione da parte dell’opinione pubblica pugliese, che non trovò impreparato il “Corriere”. A partire dall’inizio delle ostilità, sarebbe stato in grado di pubblicare, grazie al potenziamento delle maestranze tipografiche con l’assunzione di circa 20 nuove unità, al rafforzamento delle redazioni barese e romana e alla dislocazione di un inviato speciale in Albania, ben tre edizioni diverse al giorno, delle quali una con la prima pagina in lingua albanese ed un’altra pomeridiana, con le ultime notizie, stampata in formato ridotto (tabloid).85 I trenta giorni intercorrenti tra l’assassinio dell’arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo e la dichiarazione di guerra austriaca alla Serbia sarebbero serviti al quotidiano barese a definire meglio la propria linea.86 A partire dall’agosto, infatti, iniziò ad 83 Cfr. Cioffi, op. cit., pp. 673-674. Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., p. 70. Sull’evoluzione politica in Puglia negli anni precedenti allo scoppio della prima guerra mondiale si veda anche L. Masella, Tra corporativismi e modernizzazione: le classi dirigenti pugliesi nella crisi dello Stato liberale, Milella, Lecce 1983. 85 Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., p. 71. 86 Sulla Prima guerra mondiale: F. Fischer, Assalto al potere mondiale. La Germania nella guerra 1914-1918, Einaudi, Torino 1965; B. Vigezzi, L’Italia di fronte alla prima guerra mondiale, vol. I, L’Italia neutrale, Ricciardi, Napoli 1966, e vol. II, Da Giolitti a Salandra, Vallecchi, Firenze 1968; P. Renouvin, La crise européenne et la Première Guerre Mondiale, Puf, Paris 1969; J.B. Duroselle, La Grande Guerre des Français, Perrin, Paris 1994; M. Gilbert, 84 45 assumere un cauto atteggiamento antitriplicista, che si accoppiava, più a causa dei problemi di politica interna che per via delle questioni internazionali, con un conservatorismo che guardava con distacco e freddezza all’interventismo democratico di stampo risorgimentale.87 Il suo sostegno all’intervento armato rispondeva a ispirazioni ideologiche diverse: esso andava riletto in un’ottica di affermazione degli interessi pugliesi nell’Adriatico e nei Balcani e legato alla prospettiva di rilancio della regione, che necessitava di uscire dalle secche di una perdurante stagnazione economica. Protagonista di questa impostazione sul “Corriere” fu Leonardo Azzarita, che, già il 22 settembre 1914, intitolava un suo editoriale Il problema dell’Adriatico, incentrato sulla parola d’ordine dell’interesse italiano e, nella fattispecie, pugliese, che avrebbe necessitato di essere affermato nei confronti di Vienna e degli stessi popoli slavi.88 Venti giorni dopo ribadiva, con maggiore convinzione e con decisi accenti imperialistici, il carattere della guerra in corso, rivendicando all’Italia la Dalmazia a sud di Spalato: “là dove comincia l’artificio creato dall’Austria finisce il diritto della Slavia, incomincia quello dell’Italia”.89 A partire da questo momento, la sua prosa si sarebbe fatta sempre più retorica e accesa, e avrebbe assunto toni patriottici e bellicisti. Gli anni di guerra imposero anche importanti trasformazioni strutturali al “Corriere”, rese necessarie in primo luogo da fattori La grande storia della prima guerra mondiale, Mondadori, Milano 2000; B.H. Liddell Hart, La prima guerra mondiale, Rizzoli, Milano 2006; L. Albertini, Le origini della guerra del 1914, vol. I, Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all’attentato di Sarajevo; vol. II, La crisi del luglio 1914. Dall’attentato di Sarajevo alla mobilitazione generale dell’Austria-Ungheria; vol. III, L’epilogo della crisi del luglio 1914. Le dichiarazioni di guerra e di neutralità, Libreria Editrice Goriziana, Gorizia 2010-2011. 87 Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., p. 71. 88 Cfr. L. Azzarita, Il problema dell’Adriatico, “Corriere delle Puglie”, 22 settembre 1914. 89 L. Azzarita, Per la Dalmazia italiana, “Corriere delle Puglie”, 7 dicembre 1914. 46 oggettivi, come l’approvvigionamento sempre meno libero della carta, quasi tutta importata dall’estero. L’edizione con la prima pagina in lingua albanese fu ridotta a una o due emissioni settimanali e il numero delle pagine scese da 6-8 a 4-6, sacrificando persino l’intera ultima pagina di pubblicità. Contemporaneamente aumentò il numero di edizioni giornaliere, per venire incontro alla crescente esigenza di informazioni dal fronte dell’opinione pubblica, e furono tagliati i notiziari provinciali per dare spazio a tre nuove rubriche, ritenute più consone al tempo di guerra, intitolate “Saluti dal fronte”, “Come scrivono i soldati di Puglia” e “Lettere dal campo”. Questi cambiamenti riuscirono, secondo alcune fonti, a portare le vendite a circa sessanta-settantamila copie giornaliere.90 Il periodo postbellico fu caratterizzato dai problemi della sistemazione territoriale e dalle trattative per la pace91 e vide il quotidiano barese persistere con un’impostazione ideologica improntata a un deciso nazionalismo, caratterizzato dalla riaffermazione degli interessi della “superiore civiltà” italiana e dalla pretesa di precise garanzie da “quella civiltà balcanica alla quale per avventura dovessero essere assegnati nuclei nazionali italiani”. Una volta entrate nel vivo le trattative di pace a Parigi, il giornale di Martino Cassano cercò di giustificare con complicate e pretestuose discussioni di carattere etnico, religioso, culturale e storico le rivendicazioni territoriali italiane sulla sponda orientale dell’Adriatico, mentre la creazione della 90 Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., pp. 74-75. Sul primo dopoguerra in Italia: R. De Felice, Mussolini il rivoluzionario 1883-1920, Einaudi, Torino 1965; P. Pastorelli, Italia e Albania 1924-1927. Origini diplomatiche del trattato di Tirana del 22 novembre 1927, Poligrafico toscano, Firenze 1967; A. Cassels, Mussolini’s Early Diplomacy, Princeton University Press, Princeton 1970; P. Pastorelli, L’Albania nella politica estera italiana. 1914-1920, Jovene, Napoli 1970; M.G. Melchionni, La vittoria mutilata. Problemi ed incertezze della politica estera italiana sul finire della Grande Guerra (ottobre 1918-gennaio 1919), Edizioni di Storia e Letteratura, Roma 1981; G. Petracchi, La Russia rivoluzionaria nella politica estera italiana. Le relazioni italo-sovietiche. 1917-1925, Laterza, Roma-Bari 1982; L. Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-1924, Le Lettere, Firenze 2007. 91 47 Società delle Nazioni venne salutata con la speranza che il nuovo organismo potesse realizzare uno stabile equilibrio internazionale e una pace duratura tra gli Stati e i popoli del mondo.92 Caratteristica degli editoriali e degli articoli di fondo del “Corriere” era la stretta connessione tra i temi di politica internazionale e le gravissime questioni sociali e politiche interne. Nell’immediato dopoguerra, l’esame dei problemi economici nazionali e regionali fu al centro del dibattito sulle colonne del quotidiano di Bari, sempre legato a un’attenta riflessione meridionalistica. Si riproponevano, in quel frangente, i nodi strutturali della crescita cittadina e regionale: gli aiuti all’olivicoltura, il credito agricolo a lungo termine per la viticoltura, lo sviluppo delle comunicazioni stradali, ferroviarie e marittime, la ripresa delle correnti migratorie, gli interventi per la disoccupazione crescente mediante l’intensificazione dei lavori pubblici, una regolamentazione della dimensione contributiva legata alla riduzione dei salari e del costo della vita, una riforma statale in materia di orario di lavoro e regolamentazione delle locazioni agricole e lo sviluppo delle scuole professionali e commerciali, oltre all’attesissima riforma della scuola media.93 Il tutto rimaneva legato alla dimensione internazionale, poiché “le Puglie vivono molto sul mare, respirando fortemente sull’Adriatico nostro, che è e deve essere nostro, nonostante la megalomania dei piccoli e la gelosia dei grandi”:94 la questione adriatica rappresentava così un elemento centrale di dibattito. Ci si trovava di fronte ad una situazione in cui la Jugoslavia “cerca la pace con tentativi delittuosi di sovrapposizioni nazionalistiche e culturali”, in ciò aiutata da chi “in sciocca buona fede è sceso a discutere le nostre rivendicazioni”.95 Il riferimento al presidente americano Thomas Woodrow Wilson era chiaro. La sua richiesta di moderazione nelle richieste al tavolo della pace era reputata dal “Corriere” un gesto irresponsabile e offensivo non solo verso la delegazione italiana alla 92 Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., pp. 81-82. Ivi, p. 83. 94 D. De Facendis, Interessi e problemi post-bellici delle Puglie, “Corriere delle Puglie”, 29 marzo 1919. 95 Il testo citato è tratto da Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., p. 83. 93 48 conferenza di Parigi, ma nei confronti dell’intero consesso europeo. Le proteste viscerali e l’ottimismo patriottico cedettero così il posto abbastanza presto alla disillusione per il repentino voltafaccia imposto a Orlando dall’isolamento internazionale dell’Italia e dalla minaccia di dichiarare decaduto il Patto di Londra, nonché per la stessa formulazione dei trattati di pace, che avrebbero alimentato il mito della “vittoria mutilata”.96 A partire dalla crisi del Governo Orlando e dalla successiva formazione del gabinetto Nitti,97 inizialmente sostenuto dalla testata barese, questa iniziò ad accostarsi alle 96 Per un approfondimento sulla questione di Fiume, sulla Conferenza di pace di Parigi e sulla situazione interna italiana nell’immediato dopoguerra si rimanda a: R. Albrecht-Carrié, Italy at the Paris Peace Conference, Columbia University Press, New York 1938; A. Solmi, Gabriele D’Annunzio e la genesi dell’impresa adriatica, Rizzoli, Milano-Roma 1945; P. Alatri, Nitti, D’Annunzio e la questione adriatica (1919-1920), Feltrinelli, Milano 1959; R. De Felice, D’Annunzio politico 1918-1938, Laterza, Roma-Bari 1978; I. Garzia, L’Italia e le origini della Società delle Nazioni, Bonacci, Roma 1995; P. Alatri, D’Annunzio, Utet, Torino 1983; F. Caccamo, L’Italia e la “nuova Europa”. Il confronto sull’Europa orientale alla conferenza di pace di Parigi (1919-1920), Luni, Milano 2000; M. Bucarelli, “Delenda Jugoslavia”. D’Annunzio, Sforza e gli “intrighi balcanici” del ’19-’20, “Nuova Storia Contemporanea”, n. 6, 2002, pp. 19-34; Monzali, Italiani di Dalmazia. 1914-1924, cit. 97 Francesco Saverio Nitti (Melfi 1868 - Roma 1953) fu presidente del Consiglio e ministro degli Esteri dal 1919 al 1920. Fece approvare l’introduzione del sistema elettorale proporzionale e affrontò con moderazione la questione fiumana mostrandosi incline ad accordi diretti con la Jugoslavia. Di fronte agli scioperi organizzati dalla sinistra e alle agitazioni, di carattere sempre più eversivo, della destra emergente, mancò, però, di validi alleati e, forse, anche di un certo coraggio. Fu costretto alle dimissioni in seguito alla concessione di una larga amnistia ai disertori di guerra, che lo rese particolarmente inviso agli occhi dei fascisti e dei nazionalisti. Dopo l’affermazione del fascismo, si rifugiò prima in Svizzera (1924) e poi in Francia (1925), svolgendo un’attiva e pungente propaganda contro il regime mussoliniano. Su Nitti: AA.VV., Francesco Saverio Nitti: meridionalismo e europeismo, Laterza, Roma-Bari 1985; Francesco Barbagallo, Francesco Saverio Nitti, Utet, Torino 1994; Alberto Monticone, Nitti e la grande guerra. 1914-1918, Giuffrè, Milano 1961. 49 frange più estremiste e decise dei Fasci italiani di combattimento,98 accettando le gesta dei nazionalisti, ospitando sulle sue pagine gli appelli e i manifesti dei legionari fiumani e dando ampio risalto alle cronache dei “plebisciti” in Dalmazia.99 La caduta del governo Nitti fece scivolare il “Corriere” ancora di più verso le posizioni della destra nazionalistica. Non furono risparmiate, infatti, critiche all’esecutivo guidato dall’esponente liberale per la cattiva gestione della “questione adriatica”, esprimendo, nello stesso tempo, un’aspra polemica nei confronti dei disegni confusi e contraddittori dei partiti e mostrando di prediligere la creazione di una destra capace di garantire nel paese ordine e disciplina.100 Nell’immediato dopoguerra il dibattito sulla crescita adriatica di Bari fu centrale all’interno delle classi dirigenti locali. Il piano regolatore Veccia (1918) aveva prefigurato una grande città, di oltre 250.000 abitanti, metropoli dell’Adriatico e ponte commerciale e industriale per l’Oriente.101 Nello stesso tempo, si erano fatte sempre più pressanti le richieste dei gruppi dirigenti locali per ottenere 98 Sui Fasci italiani di combattimento: De Felice, Mussolini il rivoluzionario, cit.; Id., Mussolini il fascista. La conquista del potere (1921-1925), Einaudi, Torino 1966; A. Lyttelton, La conquista del potere. Il fascismo dal 1919 al 1929, Laterza, Roma-Bari 1982; E. Gentile, Storia del partito fascista. 1919-1922. Movimento e milizia, Laterza, Roma-Bari 1989; S. Lupo, Il fascismo. La politica in un regime totalitario, Donzelli, Roma 2000. 99 Sugli eventi politici in Dalmazia e, più in generale, nei territori jugoslavi alla fine del primo conflitto mondiale: I.J. Lederer, La Jugoslavia dalla conferenza della pace al trattato di Rapallo 1919-1920, Il Saggiatore, Milano 1966; J. Pirjevec, Il giorno di San Vito. Jugoslavia 1918-1992. Storia di una tragedia, Nuova Eri, Torino 1993; J.R. Lampe, Yugoslavia as History. Twice there was a Country, Cambridge University Press, Cambridge 2000; Monzali, Italiani di Dalmazia 1914-1924, cit.. 100 Cfr. Pizzigallo e Spagnoletti, op. cit., pp. 87-88. 101 Cfr. M. Scionti, L’immagine della città. Architettura e urbanistica nella Bari del Novecento, in Masella e Tateo, Storia di Bari. Il Novecento, cit., p. 40. Sullo sviluppo urbanistico di Bari nel primo dopoguerra si veda anche: E. Corvaglia e M. Scionti, Il piano introvabile: architettura e urbanistica nella Puglia fascista, Dedalo, Bari 1985. 50 l’ubicazione nel capoluogo pugliese di una sede universitaria, la seconda del Mezzogiorno continentale dopo Napoli, sollecitando, in tal senso, anche iniziative politiche e parlamentari. Uno dei passaggi decisivi della vicenda fu la discussione di una interpellanza sull’argomento presentata dal senatore Chimienti e da numerosi altri parlamentari (non soltanto pugliesi), svoltasi in Senato nella tornata del 29 novembre 1921. Chimienti espose le ragioni che legittimavano l’aspirazione della Puglia e del suo capoluogo a divenire sede universitaria: La Puglia dice al Parlamento e allo Stato italiano: io ero prima del 1860 una povera regione, contristata dalla miseria e dalla febbre malarica, senza traffici di terra e di mare. Ho bonificato tutta la mia terra piantando quella ricchezza italiana che risponde alla vite, ed ho per anni difeso la economia italiana nella bilancia commerciale con la esportazione delle mie uve, del mio vino e dei miei prodotti agricoli. Aveva i miei porti abbandonati e deserti ed ho dato vita ai traffici adriatici e (lo ricordi il Senato) per molto tempo, durante gli anni della Triplice, ho fatto da sola quel po’ di politica estera nazionale che l’Italia ha svolto in Adriatico, sopportando dolori ed umiliazioni che solo la nostra ultima vittoria ha vendicato, col coraggio dei miei naviganti e dei miei poveri battelli. Ho nel mio seno due porti militari che sono il maggior presidio della sicurezza d’Italia, Taranto e Brindisi. […] Io, dice la Puglia, desidero compiere la mia missione in Adriatico e nei rapporti con la penisola Balcanica, perché sull’Adriatico e specie sul basso Adriatico vi sia un faro di civiltà e di cultura che richiami sulla nostra costa quelle popolazioni dell’altra riva per compiere la loro educazione e la loro cultura sotto la luce della nostra civiltà che si rinnova sul vecchio tronco della nostra gloriosa e millenaria civiltà.102 102 Il passo di Chimienti è citato in F. Pappalardo, La coscienza e il lavoro: l’istruzione pubblica, in Masella e Salvemini, op. cit., pp. 597-598. Sull’Università di Bari si veda, in questo volume, il contributo di F. Altamura, ‘Una 51 Con l’istituzione dell’Università a Bari, secondo l’analisi di Ferdinando Pappalardo lo Stato non soltanto avrebbe saldato i debiti contratti verso la Puglia, ma le avrebbe anche permesso di cooperare più efficacemente alla tutela e all’affermazione degli interessi nazionali, secondo il collaudato teorema per cui la valorizzazione dell’autonomia della regione, e delle sue più autentiche e distintive vocazioni economiche e culturali, era da considerarsi direttamente proporzionale e complementare al suo pieno inserimento nella compagine statale e alla sua convinta, attiva partecipazione al conseguimento degli obiettivi di progresso e di sviluppo comuni alla società nazionale nel suo complesso.103 Sta qui il senso della perorazione di Chimienti, secondo cui la creazione a Bari di una sede universitaria non era soltanto condizione indispensabile alla unificazione e alla crescita di “tutte le energie morali e materiali della regione”, ma anche importante supporto della politica estera italiana nei confronti dei paesi balcanici. A conferma di questa doppia valenza della istituzione dell’ateneo barese, sentinella avanzatissima della cultura italica verso l’Oriente’. Il mito fascista di un Ateneo barese ‘faro di civiltà’. Pietro Chimienti (Brindisi 1863 - Roma 1938) fu un giurista e uomo politico. Appartenente alla destra liberale, fu deputato dal 1900 al 1921, divenendo, in quello stesso anno, senatore del Regno. Tra gli incarichi ministeriali ricoperti, fu sottosegretario al Ministero di Grazia e Giustizia e poi, dal 1919 al 1920, ministro delle Poste e Telegrafi. Al riguardo si ricordano: G. Cimbali, Scienza della libertà e politica liberale in Pietro Chimienti, “Nuova Antologia di lettere, scienze ed arti”, v. 182, 1916, pp. 79-85; R. Colapietra, L’incidenza di Pietro Chimienti nella politica italiana, Edizioni Amici della A. De Leo, Brindisi 1993; T. Ricca, Fascismo e modello americano. La singolare comparazione di Pietro Chimienti, in F. Mazzanti Pepe (a cura di), Culture costituzionali a confronto: Europa e Stati Uniti dall’età delle rivoluzioni all’età contemporanea. Atti del convegno internazionale (Genova 29-30 aprile 2004), Name, Genova 2005. 103 Pappalardo, La coscienza e il lavoro, cit., p. 598. 52 intervenendo nella discussione, il ministro Orso Maria Corbino rivelava che fra le prime facoltà di cui era stata richiesta l’attivazione vi era quella di lettere, che avrebbe dovuto “favorire la produzione di insegnanti di scuole medie della regione, i quali, essendo del luogo, darebbero maggiore stabilità al personale di quelle scuole, oggi considerate come sedi di passaggio e non desiderabili”, e al contempo si sarebbe dovuta porre come “centro di irradiazione della cultura italiana sull’altra sponda dell’Adriatico”.104 Tale aspirazione, contrastata aspramente da Napoli che temeva di perdere, dopo il ruolo di capitale politica del Mezzogiorno, anche quello di capitale culturale, si sarebbe concretizzata solo alla metà degli anni Venti. 5. conclusioni Le aspirazioni orientali della Puglia, viste come missione e destino della regione e del suo capoluogo, trovarono nuova linfa durante i primi anni del fascismo. Dopo il cambio di direzione avvenuto nel “Corriere delle Puglie” il 1° maggio 1921, con le dimissioni da direttore di Cassano e la sua sostituzione con Azzarita, si costituì nel novembre di quell’anno una nuova struttura giornalistica, sotto l’egida della Società elettrica Barese e del Banco di Puglia, che avviò il 26 febbraio 1922 la pubblicazione di un altro quotidiano cittadino, la “Gazzetta di Puglia”. La testata seppe rispondere alle nuove esigenze dell’opinione pubblica in una società di massa, a partire da un’impostazione grafica e da un’organizzazione delle notizie più moderne. In prima pagina, accanto alla politica, fecero la loro comparsa notizie di cronaca nera regionale; fotografie e immagini mostravano i candidati locali in occasione delle competizioni elettorali; le vignette satiriche di Frate Menotti davano un commento ironico dei temi più urgenti della politica cittadina; esperti e tecnici curavano rubriche specialistiche, come quella giudiziaria o quella agricolo-commerciale. Costante era l’attenzione per la vita sociale e culturale, per lo sport e per gli avvenimenti militari; la rubrica 104 Ivi, pp. 598-599. 53 “L’occhio sui Balcani”, infine, ritornava sulle vecchie aspirazioni di espansione commerciale e finanziaria verso i paesi della sponda orientale dell’Adriatico.105 Ma l’apice di questa sorta di “mito” adriatico e orientale di Bari e della Puglia intera sarebbe stato raggiunto con la nascita e l’annuale svolgimento, a partire dal 1930, della Fiera del Levante, istituzione barese e pugliese per antonomasia, un prodotto tipico del fascismo barese di Araldo di Crollalanza, che, in una lettera a Mussolini, descrisse la necessità, percepita come vitale, di instaurare un legame stabile tra Bari, la Puglia e i paesi della sponda orientale dell’Adriatico, usando un linguaggio colmo di retorica: l’annuncio della visita dell’E.V. a Bari, in occasione della cerimonia inaugurale della IV Fiera, mentre ha costituito il più ambito premio a quanti – in un momento assai difficile della vita dei popoli – hanno creduto nella vitalità della fiera e nell’avvenire dell’espansione italiana in Oriente, attraverso l’attrezzatura che il regime sta creando a Bari, in tutti i campi, ha suscitato ondate di entusiasmo e di commozione nell’intera Puglia e nelle regioni finitime, che gravitano verso la mia città.106 Questo entusiasmo lasciava progressivamente spazio alle delusioni per le occasioni mancate da Bari e dalla Puglia, in rapporto alle sue relazioni con l’Oriente adriatico. Portavoce efficace della profonda insoddisfazione degli ambienti mercantili baresi fu Sergio Panunzio, che, nel 1928, faceva il punto di un’epoca, nel momento in cui scriveva che la Puglia “non ha dalla guerra avuto, in Adriatico, in Oriente, nei mercati balcanici, mediterranei, africani, quello che doveva avere di colonie, di sbocchi, di zone d’influenza e di espansione”.107 105 Cfr. Cioffi, op. cit., p. 678. Il passo di Araldo di Crollalanza è citato in Masella, La difficile costruzione di una identità, cit., p. 350. 107 Il passo di Panunzio è citato in Corvaglia, Una capitale senza regno, cit., p. 27. 106 54 L’insoddisfazione e il desiderio di rivalsa da parte delle classi dirigenti baresi nei confronti del mancato espansionismo in Adriatico avrebbe fatto da sostegno alla progressiva evoluzione imperialista della politica estera fascista, fino allo scoppio della Seconda guerra mondiale. Ma, alla fine del conflitto, le delusioni per i ceti politici e imprenditoriali baresi sarebbero state ancora maggiori. Bari doveva ricostruire le relazioni con l’Oriente e con i Balcani partendo da un contesto internazionale e da una percezione del ruolo dell’Italia molto diversi rispetto al recente passato. 55