ÁTOPOn
Rivista di Psicoantropologia Simbolica
e tradizioni religiose
Giuseppe Lampis
la propria parte
il viaggio di dante
mythos edizioni
ÁTOPOn
Rivista di Psicoantropologia Simbolica
e tradizioni religiose
ISSN 1126–8530
Direzione:
Maria Pia Rosati, past dir. Annamaria Iacuele
Redazione:
Giuseppe Lampis, Marina Plasmati,
Maria Pia Rosati, Claudio Rugafiori,
Lorenzo Scaramella
Ad memoriam: Gilbert Durand, Julien Ries
I edizione 2009
Edizione elettronica riveduta e corretta 2021
© «átopon»
(Rivista di Psicoantropologia Simbolica)
‘MYTHOS’ Associazione scientifico culturale
Via Guareschi 153 – Roma 00143
www.atopon.it – atoponrivista@atopon.it
Indice
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Rosone
Cattedrale di Chartres
1
Dante affronta la traversata dell’aldilà con il
corpo, procedendo dalla situazione effettiva avuta
in sorte. Respinto non appena tenta la scorciatoia
del monte, deve muovere dalla condizione attuale.
Per risalire, non gli viene permessa strada
diversa.
Soltanto eseguendo per intero la parte che
ci tocca otteniamo la salvezza. Bisogna entrare
nel proprio destino senza esitare.
L’accettazione e il rispetto del ruolo assegnato sono sacri nelle società tradizionali. Il
prestigio dell’onore personale, ad esempio presso
romani e germani, dipende dal convincimento che
nella rigorosa fedeltà al dovere si mantiene la
pace con gli dèi.
Per illustrare ciò di cui parliamo si ponga
mente al simbolo della rosa (Paradiso XXXI, 1 ss)
rappresentato sulle facciate delle chiese romaniche e gotiche. Esso mostra che ciò che per
l’universo si squaderna (Paradiso XXXIII, 87) esce
dal Principio e tuttavia vi si trattiene, stante che
nulla potrebbe sciogliersene senza perdersi e
svanire.
La potenza manifestata si apre nel mondo e
insieme si riavvolge nella sua fonte, cosicché
quanto fiorisce nella molteplicità contemporaneamente
s’interna legato con amore in UN volume
(Paradiso XXXIII, 85–86).
Nella rosa è rappresentato che la proiezione
del ventaglio delle realtà plurali resta comunque
connessa con la radice che la esprime.
Ne consegue che per ogni ente particolare
l’inderogabile maniera di svolgere la spinta
dell’origine – e di comporsi nel tutto – è di seguire
integralmente la specifica prospettiva costituita da
sé stessi.
Se l’Uno, fra le miriadi delle sue possibilità,
si è esplicato nella parabola di un ente determinato, a questo spetterà di riconoscere via via, fino al
compimento ultimo, lo specifico che l’Uno gli avrà
consegnato.
Si potrebbe dire che, per trasvalutare
l’individualità e arrivare al divino, bisogna divenire
paradossalmente nient’altro che ciò che dall’inizio
siamo, conformi a un impegno che sarebbe
illusorio rifiutare.
2
Dante convoca nel suo mandala i dèmoni.
La chiave è qui, tuttavia: quei dèmoni sono
precisamente i suoi; essi gli escono da dentro e
vedendoseli in fila davanti capisce dove sta
andando:
dall’infima lacuna
dell’universo infin qui ha vedute
le vite spiritali ad una ad una
(Paradiso XXXIII, 22–24).
Naturalmente, il problema basilare consiste
nel mantenere la loro giusta sequenza, affinché il
filo che li unisce segua la vera strada.
L’inferno è simmetricamente rovesciato
rispetto alla montagna della purificazione, a
significare che il mondo fenomenico segue a
ritroso il mondo noumenico, ma che entrambi in
ogni caso si implicano senza discontinuità, da
coessenziali componenti di un rapporto che li
contiene e stringe.
Siamo al simbolo dell’analogia, secondo cui,
nel cosmo armonico, il sotto ripete a rovescio il
sopra.
Ciò viene raffigurato nella losanga composta da due triangoli coincidenti nel lato di base,
dei quali il primo con il vertice in su è riflesso
specularmente dal secondo con il vertice in giù.
I triangoli con i vertici al contrario, sovrapposti, danno la stella (o scudo) a sei punte di
David, il sigillo di Salomone.
Va da sé che i concetti di alto e di basso, o
di superiore e di inferiore, sono meramente relativi
e acquistano senso giusto nel reciproco
riferimento interno a un rapporto unitario.
Il tema si affaccia nel pensiero di Parmenide
sul mondo dell’apparenza (doxa)
– e di tutto c’è un cammino a ritroso
πάντων δὲ παλίντροπος κέλευθος (6, 9).
Successivamente è richiamato nella dottrina
del mondo terreno copia dell’iperuranio di Platone
e prosegue nelle elaborazioni delle sue scuole
fino all’islamismo esoterico e gnostico.
Parallelamente all’idea di Platone che il
tempo – introdotto dal giro degli astri – imiti
l’eterno, l’ismailismo fatimida attribuisce la nascita
del tempo a un indugio dell’Adamo celeste, archetipo dell’umanità, il quale fissandosi nell’autoammirazione ha provocato un ritardo della congiunzione del mondo terreno con l’eterno e ha reso
necessaria l’affannosa rincorsa del tempo per
colmare lo scarto colpevolmente frapposto
(Henry Corbin Histoire de la philosophie
islamique, 1986; tr. it. 1989, 94–95).
ll ritardo equivale in definitiva a un arretramento su noi stessi, di modo che la storia dell’umanità, avviata da una catastrofe, può guadagnare la risalita e la resurrezione a patto di
correggere a ritroso la caduta.
Da notare, di sfuggita, che i due andamenti
avversi non potrebbero giacere su piani separati e
distinti; se fosse, lungi dal contrastarsi e
determinarsi, si sfuggirebbero a vicenda.
3
Il Libro della scala islamico può essere stato
la fonte della Commedia di Dante
(Gherardo Gnoli L’Iran antico e lo zoroastrismo, in J. Ries (ed.) Trattato di antropologia
del sacro II, 1991, 113).
Nel mondo islamico il salto estatico è
ricorrente e tipico, da quello di Ibn Sina (Avicenna)
al «viaggio ad oriente» del sufi Sohrawardi,
persiano. Peraltro sono ampiamente ipotizzabili
rapporti di Dante con i Templari, i quali intrattengono relazioni con gli Ismailiti. E’ noto che nella
Commedia campeggia la figura centrale dell’Aquila congiunta con la Croce, uguale al sigillo
del Gran maestro dei Templari.
Luigi Valli sostiene addirittura che il poema
è la segreta esposizione della dottrina della croce
e dell’aquila, in cui sono rappresentati i rimedi
indispensabili alla sintesi della vita contemplativa
con l’attiva.
Un ulteriore importante ciclo di avventura
iniziatica è quello della ricerca del Graal con la
quale sono connesse le speculazioni dei Fratelli
d’Amore, la setta del Nostro.
Dante si volge alla salvezza quando trova
la chiave per decifrare in ogni passo nel mondo
fenomenico la filigrana di un itinerario fissato
nell’eterno: egli si inoltra nell’eterno a mano a
mano che lo riconosce in ogni avanzamento, nel
crescendo dall’eterno dolore alla gioia paradisiaca. Egli è già salvo allorquando comprende che
l’effimero della sua esistenza era sorretto da
un’adamantina struttura eterna.
Il rito mandalico, la cui esecuzione riesce
perché procede secondo l’ordine corretto, gli
mostra che il cammino era indirizzato alla vita
dall’inizio. E tale rara qualità è scoperta allorché si
convince di dover fare esattamente ciò che fa – o
che fa ciò che deve essere fatto.
La massima che comanda di compiere
appieno la sorte avuta converge con l’antica
sapienza indiana della «rinuncia ai frutti delle
proprie azioni» (phalatṛṣṇavairâgya, Bhagavad–
gītā). Chi agisce con questa attitudine si riconosce
in posizione di dominio nei riguardi della ruota
cosmica.
All’uomo così trasformato sarà permesso
tutto, in quanto di fronte a lui non si porrà alcuna
oggettività autonoma: essendosi assicurato nel
centro da cui si irradia la realtà, avrà acquistato la
funzione creativa tipica dell’Artefice. E, a quel
punto, sarà facitore di valori piuttosto che ricettore
di consuetudini imposte.
Ai gradi supremi sia degli Ismailiti sia dei
Templari, ed esclusivamente a loro, tutto è
permesso: e ciò per la ragione che per loro ormai
niente sussiste di per sé; o – per ripeterla con
Nietzsche – perché il dio trascendente, dalla loro
prospettiva, è morto. In effetti, essi si innalzano a
tanto mediante una severa educazione alla cieca
ubbidienza, quasi che il massimo di ubbidienza,
portando a coincidere perfettamente con la fonte
del cosmo, faccia acquisire e godere la libertà
assoluta da essa emanante.
4
Il percorso si completa nel sostegno
risolutivo della Madre di Dio, esperienza culminante di illuminazione e trasfigurazione.
Lì sembra venire a maturazione il momento
critico di un’opera alchemica al rosso, dopo la
nigredo infernale e la albedo del purgatorio. Altre
donne si erano mosse incontro al viandante lungo
la strada del ritorno al centro, dimostrandosi gradi
del riavvicinamento. Con ognuna si sono presentate congiunzioni dalle molte risonanze: visi, ore
del giorno, e inoltre progressi di più ricca autointerpretazione.
Infine, con la Vergine Madre, saliamo a un
vertiginoso incrocio dove le due storie, la raccontata e la vissuta, si inverano convergendo in una.
Nella Donna abita un’esoterica Sapienza,
componente integrante del divino, che le conferisce una natura atta a suscitare l’impulso ad
ascendere alla sua altezza. Ciò si vela nel
linguaggio segreto dei Fratelli d’Amore, società
misterica cui Dante era affiliato con Cavalcanti – il
quale, fra i due, era il più vicino alla filosofia
arabo–persiana dei Sufi
(Luigi Valli Il linguaggio segreto di Dante e
dei Fratelli d’Amore, 1928).
Non si tratta però di figura allegorica e
intellettualistica della maniera in cui può darsi
presso i poeti dolcestilnovisti e la scuola siciliana,
bensì di un reale termine d’amore trasvalutato in
cui confluisce il desiderio e il movimento umano
(Paradiso XXXIII, 37).
Per quella setta, il decisivo non consisterebbe nel disincarnare la Donna della sua
umanità, quanto piuttosto nell’assimilare la mistica
potenza della sua carnalità:
nel ventre tuo si raccese l’amore
(Paradiso XXXIII, 7).
La Sapienza, ancorché celatamente gnostica, che si tiene dietro la Donna Salute del Dante
esoterico non si presenta né vuota né astratta, è
un’esperienza integrale e vivacissima, mediazione fondamentale per saldare la convergenza di
Dio ed uomo.
Il contatto con una simile entità provoca una
crisi nell’intimo e un risveglio traumatico di energie
latenti, l’inquietudine e l’amore che ella attualizza
accelerano e anticipano l’angosciosa prova della
morte, suscitano a vita nova, sprigionano la
salvezza.
A suo tempo per avvicinarsi a Beatrice
Dante aveva dovuto superare un cerchio di fuoco
(Purgatorio XXVII, 46 ss), ugualmente alla prova
nell’Edda di Sigurd per Brunnhild. All’avvicinamento, non seguiranno nozze terrene.
Sulla funzione liberatrice dell’angoscia,
sarebbe da richiamare una vasta letteratura. Per
non travalicare i limiti del presente studio,
basteranno tre cenni:
a) alla dottrina aristotelica della catarsi
tragica;
b) a Boehme che nel De signatura rerum, III,
19, 20 dice: «L’essere si libera dalla morte con
un’agonia che si compie nella grande angoscia
dell’impressione, la quale è vita mercuriale.
Questo spavento viene da mercurio o angoscia
della morte» (cit. da Julius Evola La tradizione
ermetica, 1971, 48);
c) a Heidegger per il quale «nella chiara
notte dell’angoscia spunta l’originaria rivelazione
dell’essente come tale: che è essente cioè – e non
niente» (Was ist Metaphysik?, 1929; tr. it. Carlini,
1959, 22).
5
Dante giunge al termine del suo itinerario,
finalmente salvo e guarito, ritrovando il vero sé
stesso, quando diviene figlio di così alta madre:
l’intercessione della Madre di Dio, che lo assume
in un’intensa esperienza di luce, riappropria
l’uomo Dante della condizione primordiale di figlio.
Con l’intercessione e la mediazione della madre
originale, l’uomo ridiventa il nascente e insieme il
salvato.
Lo heil – il salvato, il guarito – del linguaggio
cifrato dei trovatori germanici, i minnesaenger, è il
«figlio».
Il poeta ha voluto affermare che possiamo
salvarci alla condizione di ri–nascere: arriva alla
conquista colui che si rigenera nella vera nascita.
Unicamente il ritorno alla vera nascita permetterà
di morire dal versante giusto, orientati a Dio.
Il novizio, nel quadro delle società segrete
maschili di maschere africane – i Männerbünde,
rinasce dal parto di una divinità maschile previa
integrazione e reinterpretazione della sua compo-
nente femminile. Lasciando definitivamente e
dolorosamente il mondo materno dell’infanzia,
sveglia in sé l’autentica dimensione femminile
della quale si rinvigorisce per affrontare la prova
della nuova nascita, attraverso un’archetipica
porta stretta.
Un tale figlio sarà rinato perfetto e
pienamente resuscitato dal contatto con la Donna.
La donna che resuscita l’uomo, o l’uomo che
si risolleva ritrovando la donna vivente in lui, torna
in vari scenari religiosi, da Iside distesa sull’inerte
sole nero Osiride allo hatha–yoga.
Parimenti, l’uomo in piedi a braccia alzate e
itifallico figura da albero cosmico o da croce con
le direzioni assiali.
La complementarietà essenziale delle due
vie – in su e in giù – nell’uomo, che ne è il luogo
cruciale, spiega altresì l’inafferrabilità dei suoi
confini.
Scriveva Eraclito che
– i confini dell’anima, andando, non li
troverai, neanche se percorrerai ogni strada: così
profondo è il suo logos
ψυχῆς πείρατα ἰὼν οὐκ ἂν ἐξεύροιο πᾶσαν
ἐπιπορευόμενος ὁδόν• οὕτω βαθὺν λόγον ἔχει
(B 45, Diogene Laerzio IX, 7).
Si noti peraltro la straordinaria affinità tra le
tesi dell’Efesio e del taoismo e dell’alchimia
arcaica cinese.
Un tale figlio, dunque, sarà rinvigorito da
avere il potere di generare sua madre, – la vergine
madre che, insieme e per l’identica ragione, è
figlia del suo figlio.
All’approdo del pellegrinaggio di rimpatrio
mistico, dal corpo risorto, croce in cui si
interconnettono orizzontale e verticale, possono
finalmente aprirsi i poteri della fisicità trasvalutata
e luminosa, richiamati e dominati nel mandala.
6
Il rito del mandala si conclude con l’insediamento sul trono della persona che lo realizza,
la quale collocata al centro riceve insegne regali;
Virgilio congedandosi aveva salutato il protetto:
te sovra te corono e mitrio
(Purgatorio XXVII, 142).
In quel momento si apre la rosa dei raggi
principali del cosmo.
La stazione finale a cui ha condotto il cantore dell’esilio indenne di Enea si trova nel
paradiso terrestre; da qui si tende la proiezione
estatica alla rosa mistica che sviluppa l’implicito
invisibile e celeste di un vertice già conquistato e
non indica, in verità, un ulteriore spostamento nel
mondo dell’esteso fisico.
Il cuore dell’intero cammino, sebbene cifrato
e occulto, sta sulla montagna della purificazione.
Una volta saldamente insediato lassù, Dante può
richiamare la visione della rosa. A mano a mano
che si accresce il dominio dei centri di forza insiti
nella personale individualità concreta, la dispersa
varietà degli elementi mondani si ritrova gradualmente raccolta nell’eterno presente atemporale.
Il disio e ‘l velle di Dante sono ormai presi
nel giro degli astri, senza che ciò comporti il suo
dissolvimento. Anzi, egli diviene capace di esprimere forze e nessi riposti da tempo nella sua
persona.
È quanto la regina, che può ciò che vuole,
deve aver concesso esaudendo la preghiera del
santo Bernardo:
conservi sani, dopo tanto veder, gli affetti
suoi
(Paradiso XXXIII, 35–36).
Che avrà voluto significare con tali parole il
poeta? Sarebbe banale prendere la preghiera
rivolta a evitare una retrocessione di Dante ad
affetti insani o a preservarlo dallo smarrimento
della mente. Bisogna intendere, invece, che il
santo, il cavaliere della Vergine, padre spirituale
dei Templari, impetra da alleato del novizio le
sante garanzie a che la visione di Dio si realizzi
restando nel pieno dell’umanità. Il salto dovrà
compiere la perfetta intensificazione dell’uomo e
non provocarne l’esplosione.
In altre parole, gli urti pericolosi del passaggio d’esistenza dovranno essere sostenuti
senza uscirne distrutti, la vita attuale dovrà
approdare all’invulnerabilità, la vita nova dovrà
essere guadagnata da vivi.
Quel «tanto veder» non deve distoglierlo da
dove e da chi egli è, deve riconfermarlo sul piano
che ha ormai raggiunto illustrandogliene i supremi
contenuti.
Il signore della morte, collocato nel centro
della ruota, supera ogni dèmone.
La montagna del Purgatorio