Location via proxy:   [ UP ]  
[Report a bug]   [Manage cookies]                

Modelli della mente e processi di pensiero

Studi / 7 MODELLI DELLA MENTE E PROCESSI DI PENSIERO IL DIBATTITO ANTROPOLOGICO CONTEMPORANEO a cura di ALESSANDRO LUTRI Proprietà letteraria riservata Copyright © 2008 ed.it Via Caronda, 171 95128 Catania - Italy http://www.editpress.it info@editpress.it Tutti i diritti riservati Prima edizione: marzo 2008 ISBN 978-88-89726-16-7 Printed in Italy Progetto grafico e impaginazione: ed.it Modelli della mente e processi di pensiero / a cura di Alessandro Lutri. Catania : ed.it, 2008. 348 p. ; 21 cm ( Studi ; 7 ) Accesso alla versione elettronica: http://www.editpress.it/0802.htm ISBN 978-88-89726-16-7 1. Pensiero - Mente 2. Antropologia cognitiva 153.4 Cognizione. Processi mentali Indice 11 Introduzione. Ma che mente hanno in mente gli antropologi! di Alessandro Lutri Parte prima La mente nella cultura 65 Teoria cognitiva della cultura. Un’alternativa evoluzionistica alla sociobiologia e alla selezione di gruppo di Scott Atran 109 Modularità e pertinenza. Come può una mente massivamente modulare essere flessibile e sensibile al contesto? di Dan Sperber 139 Le trasmissioni della cultura di Alberto Acerbi Parte seconda La cultura nella mente 161 Siamo tutti naturalmente dualisti? Un approccio cognitivo di Rita Astuti 187 Memoria a lungo termine di eventi estremi: dall’autobiografia alla storia di Francesca Cappelletto 219 Antropologia cognitiva e società di Marco Mazzone Postfazione 247 Prima lezione di antropologia cognitiva, ovvero i sette giorni dell’antropologia cognitiva di Massimo Squillacciotti 297 Bibliografia generale 343 Autori Modelli della mente e processi di pensiero Il dibattito antropologico contemporaneo a Giorgia e Francesco, miei amori a Massimo, più che un amico a Francesca Cappelletto, in omaggio alle sue non comuni capacità intellettuali e sensibilità umane, venute prematuramente a mancare e a non illuminarci più Introduzione. Ma che mente hanno in mente gli antropologi! di Alessandro Lutri Nella pars destruens dell’ultimo sforzo del filosofo della mente Francesco Ferretti, dal titolo Perché non siamo speciali (2007), l’autore sfida la conoscenza antropologica novecentesca proponendogli di giocare una partita discutendo il problema di come questa abbia giustificato le “condizioni di possibilità” della natura creativa degli esseri umani. Una natura che sino ai nostri giorni è stata più o meno caratterizzata da «un forte grado di adattabilità e di flessibilità cognitiva» (Ferretti, ivi: 6). Queste due caratteristiche per Ferretti contraddistinguono il sistema cognitivo degli esseri umani, rendendo questi degli esseri specie-specifici e non speciali. Come si può intuire già da queste poche affermazioni, quello che per Ferretti costituisce un problema non è tanto la validità della tesi della flessibilità cognitiva della mente degli esseri umani – che per lui è un dato indiscutibile – quanto la sua giustificazione, da parte soprattutto del pensiero antropologico di tipo filosofico del Novecento1. Detto questo, il problema della sua giustificazione rimane del tutto aperto. Ma vediamo un po’ come i sostenitori della concezione relativista della natura umana abbiano provato a giustificarla. Secondo questi, le condizioni che rendono possibili la flessibilità cognitiva degli esseri umani sono dovute alla plasticità della loro natura, dove questa, a sua volta, affonda le sue ragioni nella «mancanza di determinazioni interne del sistema cognitivo» (Ferretti, ivi: 11). 1 L’antropologia filosofica a cui si fa qui riferimento è quella rintracciabile nelle idee e concezio- ni di Herder (1772), Gehlen (1940), Geertz (1973, 2000) e Remotti (2005). 12 Modelli della mente e processi di pensiero Questa concezione della natura umana, sintetizzata nel paradigma dell’incompletezza biologica degli esseri umani, ha le sue fondamenta nelle concezioni autonomiste e dualiste secondo cui «i caratteri socio-culturali determinano la natura degli individui attraverso un processo univocamente direzionato “dall’esterno verso l’interno”» (Ferretti, ivi: 14). Una concezione paradigmatica che porterà uno dei più significativi e influenti antropologi novecenteschi, a cui Ferretti guarda con una certa attenzione critica, Clifford Geertz (1973), a ritenere non valida la concezione illuminista che considera soprattutto gli aspetti costanti, generali e universali dell’umanità (indipendentemente dalle circostanze di tempo e di luogo), e che riconosce meno valore alla diversità di valori, credenze e usanze, considerandoli come dei meri fenomeni accidentali. Dal mancato riconoscimento di validità per questo tipo di indagine antropologica ne discende la contrapposizione tra lo studio delle diversità individuali e lo studio dei caratteri universali: contrapposizione fondata sul «primato e l’indipendenza dei fattori sociali rispetto a quelli biologici» (Ferretti, ibidem). Ferretti è ben consapevole di quanto il dualismo ontologico della concezione autonomista sia oggi in realtà in “disuso”, godendo un maggiore consenso, al contrario, la concezione sintetica secondo cui «l’essere umano deve essere considerato il portato congiunto di fattori interni (biologia-cognizione) e di fattori esterni (cultura-storia-società)» (Ferretti, ibidem). Egli sottolinea però quanto questa ipotesi più recente, sebbene sia più di buon senso rispetto alla tesi della carenza istintuale, non riesca ad andare oltre una dichiarazione di intenti, in quanto uno dei suoi più noti proponenti, Clifford Geertz, «non fornisce alcuna spiegazione di come dar conto del fatto che nell’essere umano biologia e cultura possano di fatto convergere» (Ferretti, ivi: 15). I motivi per cui secondo Ferretti questa ipotesi è rimasta solo allo stadio di dichiarazione di intenti risiede nel fatto che «il paradosso delle concezioni relativiste è che si fondano sui fattori acquisiti senza avere una teoria dell’acquisizione che regga alla prova dei fatti» (Ferretti, ivi: 21). A. Lutri, Introduzione 13 Liquidando in questo modo qualunque tipo di approccio antropologico alla cognizione che non sia di tipo innatista, Ferretti risolve la partita sulla natura umana (il problema di come giustificare le “caratteristiche che rendono specifico l’essere umano”) sostenendo la tesi che «la presenza di istinti innati non è in contrasto con la flessibilità e la creatività umana perché un patrimonio innato di istinti è il presupposto (la condizione necessaria) per il darsi di tale capacità» (Ferretti, ivi: 27). Una tesi da cui egli trae l’ipotesi più generale secondo cui «tali caratteristiche sono spiegabili soltanto a partire da una mente ricca di determinazioni interne» (Ferretti, ivi: 14). Ferretti chiude con la proposta di questa tesi la pars destruens della sua riflessione compiendo una difesa, a nostro parere un po’ troppo militante e poco dialogica, di quello che egli ritiene essere l’unico modello della mente che allo stato attuale regge alla prova dei fatti: la concezione modulare della mente. Un modello del mentale che per lui non fa confusione riguardo al modo di intendere la flessibilità cognitiva, in quanto non viene intesa come una «assenza di vincoli nelle risposte», come fa la concezione classica che parla di carenza istintuale, ma come «la capacità di produrre risposte appropriate ai contesti» (Ferretti, ivi: 30). Senza nulla togliere al merito della riflessione filosofica di Ferretti, che rappresenta un’ulteriore tappa del cammino intrapreso dalla critica epistemologica nei confronti della tesi dell’incompletezza biologica degli esseri umani sulla base di uno stretto e intenso dialogo con le idee e i concetti delle scienze cognitive2 – che condividiamo appieno, sebbene su un fronte diverso queste stesse idee siano già state avanzate da Maurice Bloch (2005d)3 – sentiamo di dovere qui avanzare le nostre critiche nei 2 Si veda Marconi, Marraffa, Mazzone. 3 Come egli ha recentemente fatto rilevare, il dominio della concezione culturalista della natura umana nella conoscenza antropologica, ha generato il suo impoverimento conoscitivo, facendo perdere l’interesse nei suoi confronti sia in quei lettori che in altri tempi gli hanno riconosciuto grande importanza (quelli curiosi di capire in cosa si differenzierebbe e come sarebbe arrivata a differenziarsi la specie umana rispetto alle altre specie animali) sia in quegli ambiti disciplinari in- 14 Modelli della mente e processi di pensiero confronti sia della sua ricostruzione dello stato attuale del dibattito nella conoscenza antropologica, sia la soluzione al problema da egli stesso posto. Riguardo al primo punto, senza volere stare qui a negare quanto la letteratura etnografica prodotta tra gli anni Ottanta e Novanta del XX secolo sia stata molto influenzata dalla cosiddetta svolta interpretativa che ha in Geertz l’innegabile caposcuola, riteniamo che sia un po’ troppo comodo ridurre tout court la conoscenza antropologica contemporanea a queste idee, facendo così supporre che anche il resto della ricerca etnografica sia ferma allo stadio intenzionale mostrato da Ferretti. Questi per dare più forza alle sue argomentazioni, secondo il nostro punto di vista, avrebbe fatto meglio se si fosse confrontato più che con le idee dei moribondi (e quelle del paradigma dell’incompletezza lo sono essendo cascate sempre più in disuso) con quelle dei vivi; ovvero con le idee di chi in questi ultimissimi anni, nel fare dello studio dello sviluppo delle capacità cognitive il fulcro del suo lavoro, ha guardato al vasto panorama delle scienze cognitive non tanto per fare acquisire più oggettività al proprio sapere – rinnegando in tal modo l’intrinseca natura dialogica della conoscenza antropologica, così come fa Dan Sperber che riconosce ai dati etnografici solo il ruolo di supporto per l’elaborazione delle teorie cognitiviste (Bloch, 1998d) – quanto semmai per rimettere in discussione certe sue idee e concezioni. Questa significativa parte dell’etnografia della cognizione, emancipatasi da aprioristiche e ottuse prese di posizione anti-innatiste, si è affidata sia ad approcci psicologici esplicativamente plausibili che a seri protocolli di ricerca, riuscendo ad evidenziare, sulla scorta di approfondite evidenze etnografiche di malinovskiana memoria, quali tipi di vincoli siano in gioco nel condizionare lo sviluppo concettuale di specifici tipi di conoscenze e di capacità cognitive (Astuti, Bloch, Stafford, Toren). teressati a comprendere il rapporto tra determinazioni interne, fattori bio-cognitivi, ed esterne,fattori sociali e culturali. A. Lutri, Introduzione 15 Riguardo invece al secondo punto, la plausibilità della concezione modulare della mente e delle sue giustificazioni evoluzioniste, esprimiamo le nostre riserve sulla difesa partigiana che fa Ferretti non tenendo sufficientemente in conto sia i rilievi critici che gli sono stati espressi sia le evidenze empiriche contrarie ad esse che sono state mostrate in questi ultimi anni. Per quanto attiene ai rilievi critici, questi hanno sottolineato quanto, allo stato attuale delle conoscenze, la teoria modulare della mente e le spiegazioni evoluzionistiche dei fenomeni cognitivi, sebbene godano di un certo fascino tra una schiera sempre più ampia di studiosi, non reggano alla prova dei fatti, contrariamente a quanto si ostina a credere Ferretti. Sia l’una che l’altra non hanno infatti ancora raggiunto una appropriata base di evidenza teorica ed empirica, risultando troppo vacue nella loro facile individuazione di un valore adattativo per qualunque tratto comportamentale o mentale (Bara, 2000; Buller, 2006; Duprè, 2001; Frixione, 2003; Griffith, 1997; Pievani, 2005; Plotkin, 2007; Tattersall, 2002). Non si può pensare che questo tipo di spiegazioni possano facilmente sostituire quelle di tipo funzionalista o computazionale: il sapere che un certo tipo di prestazione cognitiva è stata selezionata per il suo valore adattativo non dice nulla su come quella prestazione venga effettuata da un sistema cognitivo. Per quanto attiene invece a più solide evidenze teoriche ed empiriche contrarie, basterebbe già dire che l’alternativa alla tesi delle determinazioni interne della mente umana – gli aspetti bio-cognitivi – non è rappresentata dalla tesi della tabula rasa, secondo cui le determinazioni esterne – gli aspetti sociali e culturali – sono gli unici fattori vincolanti il funzionamento dei processi cognitivi, e di questo ne danno una non indifferente testimonianza oltre che i su citati etnografi della cognizione anche lo psicologo evoluzionista Henry Plotkin (2007) e lo storico del pensiero antico – greco e cinese – Geoffrey Lloyd (2007). Questi studiosi, alla luce di una certa prudenza epistemologica, più che esprimere a priori una netta preferenza per delle tesi e prospettive di tipo globale, preferiscono valutare caso per caso quali tipi di fattori siano in gioco. 16 Modelli della mente e processi di pensiero Alla luce di quanto sinora è stato detto, in questa raccolta di saggi editi ed inediti si vuole presentare al lettore italiano, da una parte, una selezione di contributi tra i più recenti dei principali antropologi che sostengono la causa di una svolta naturalista della conoscenza antropologica, mostrando attraverso la concezione modulare della mente e le spiegazioni di tipo innatista delle capacità cognitive come si formano e vengono trasmesse le conoscenze negli esseri umani. Dall’altra parte, i contributi di quegli etnografi della cognizione che sostengono, sulla base di dettagliati rilievi empirici, che tali concezioni e spiegazioni naturaliste vadano assunte solo per alcuni specifici ambiti cognitivi, mentre per quanto riguarda altri – vedi il caso della folkbiology e della folksociology – questi siano fortemente vincolati dai singoli contesti sociali e culturali, in quanto la cognizione è legata alla concreta esperienza del mondo che gli individui partecipanti ad esso sperimentano sin dai primi mesi di vita vivendo ed agendo con i loro consimili. Un confronto che viene fatto contestualizzando sinteticamente i termini teorici e metodologici di queste due diverse prospettive sulla cognizione, attraverso cui si vuol mostrare come la più recente conoscenza antropologica risponde a importanti questioni epistemologiche legate allo statuto ontologico dei fatti culturali, la comparazione transculturale, l’interdisciplinarietà nello studio dei prodotti e dei processi della conoscenza umana, nonchè la stessa nozione di natura umana. Obbiettivo di questo libro non è però solo quello di fare conoscere al lettore italiano questi recenti contributi che hanno animato il dibattito antropologico svoltosi nel campo cognitivo in questi ultimi anni, ma anche quello di riuscire a suscitare una non pregiudiziale discussione intorno a tre questioni: l’adozione o meno di un’ontologia fisicalista per lo studio dei fatti sociali e culturali; la validità euristica dell’ipotesi dell’universalità della mente modulare; la possibilità per la conoscenza antropologica di sviluppare delle ipotesi esplicative aventi valore generale. A questi saggi si aggiunge il contributo in postfazione di Massimo Squillacciotti, il quale, diversamente dalle ricostruzioni del- A. Lutri, Introduzione 17 l’evoluzione della ricerca antropologica in campo cognitivo che assumono come momento originario gli anni Sessanta e Settanta, quando all’interno dell’antropologia americana fu elaborato il paradigma della cosiddetta etnoscienza, fa antecedere cronologicamente questo ambito di ricerca e lo ricostruisce scandendolo metaforicamente in sette giorni. Una ricostruzione attraverso cui Squillacciotti mostra quanto questo dibattito si sia andato intrinsecamente a intrecciare con alcune fondative questioni alla base dello sviluppo della storia della cultura e del pensiero scientifico occidentale, le quali sono state risolte spesso in maniera contrapposta (si pensi per esempio al rapporto mente-pensiero-cultura, al rapporto biologia-cultura, a quello corpo-intelletto-sapere o a quello inerente lingua-pensiero, ed altro ancora). L’idea dell’organizzazione di questo volume e la scelta dei contributi da inserire è opera esclusivamente del suo curatore, il quale spera di essere stato in grado di inquadrare – in maniera dialogica oltre che chiara – le idee, le ipotesi, i termini concettuali alla base delle due diverse proposte euristiche, mostrando, secondo un proprio personale punto di vista, i loro limiti e meriti epistemologici. 1. La svolta cognitivista Se gran parte della comunità antropologica ha sostenuto sin dai primi anni Ottanta le ragioni di una svolta di tipo linguistico e letterario, dando vita all’antropologia interpretativa o postmoderna che ha discusso in maniera radicale le ragioni oggettiviste che sino agli anni Sessanta sostenevano la natura transculturale dei tradizionali oggetti di analisi antropologica – la parentela, la società, l’etnia, la cultura, ecc. –una parte minoritaria ma significativa ha sostenuto le ragioni di una svolta di tipo naturalista, orientandola verso le cosiddette scienze cognitive. I sostenitori della svolta linguistica e letteraria (Clifford, Fischer, Marcus, Tyler) hanno affermato che sia i concetti utilizza- 18 Modelli della mente e processi di pensiero ti dagli studiosi per rappresentare le culture e le società, che gli stessi concetti utilizzati dai gruppi e le società per rappresentare se stessi e gli altri, non avrebbero nessun fondamento oggettivo al di fuori delle convenzioni linguistico-culturali adottate dalle singole società. Una precisa posizione euristica ed epistemologica che ha portato questi studiosi a ritenere che le nozioni di parentela, società, etnia e cultura non sono altro che delle invenzioni antropologiche. Questo tipo di antropologia, dal punto di vista epistemologico, si è posta sostanzialmente in netta continuità con la ragione culturalista riconoscendosi in due principali assunzioni: 1) la cultura forma gli esseri umani; 2) gli esseri umani formano la cultura. Una ragione che ha le sue fondamenta in un’ontologia di tipo dualista, sostenendo che i fatti sociali e culturali sono irriducibili ad altri tipi di domini che non siano di tipo sociale e culturale. Diversamente dai sostenitori della svolta linguistica e letteraria, coloro che sostengono le ragioni della svolta cognitivista (Atran, Boyer, Hirschfeld, Sperber) tendono a ricercare i fondamenti bio-cognitivi dei processi di pensiero al di là delle pratiche e rappresentazioni di cui sono portatori gli individui che vivono ed agiscono nei singoli contesti sociali e culturali: fondamenti rintracciati nella struttura e nel funzionamento della mente-cervello degli esseri umani. Le origini di questa svolta possono essere rintracciate nella pubblicazione di due significative lecture – la Malinowski e la Frazer lecture – tenute rispettivamente da Dan Sperber (1985) e Maurice Bloch (1991), sulla storica e prestigiosa rivista «Man». Prima di inoltrarci nei contenuti di queste due lecture, bisogna registrare una netta inversione di tendenza nel dibattito antropologico sui processi di pensiero in questi ultimi decenni. Un cambiamento che ha portato la conoscenza antropologica ad allargare i suoi orizzonti teorici ed etnografici confrontandosi con le conoscenze aventi una dimensione fenomenologica diversa rispetto a quella di tipo linguistico-proposizionale. Sono così state prese in considerazione anche le conoscenze di tipo visivo, acu- A. Lutri, Introduzione 19 stiche, olfattive, pratiche, ecc. Inoltre sono state analizzate le relazioni tra i diversi domini conoscitivi, tra le forme e i mezzi di comunicazione – oralità, scrittura, ecc. – legati alla diffusione e trasmissione delle conoscenze. È stata poi problematizzata la questione della loro rappresentazione etnografica, nonché il ruolo dei contesti – ambientali e sociali – nell’espressione e trasmissione delle conoscenze. Tornando ai due dei principali animatori di questo dibattito, Bloch e Sperber, non può essere sottovalutato quanto sebbene entrambi questi studiosi condividano la necessità di un più stretto dialogo con le idee e le ipotesi che la “scienza cognitiva” è andata ad elaborare nel corso di questi ultimi decenni, le prospettive euristiche che essi elaborano divergano nei rispettivi esiti di ricerca. Cerchiamo allora di capire le ragioni di questa divergenza di intenti. Per quanto riguarda Dan Sperber, che ha acceso la miccia del dibattito, la sua proposta fonda le radici sia nella scuola antropologica razionalista francese – votata allo studio della caratteristiche universali della mente umana – sia in quella empirista anglosassone, volta allo studio empirico dei fatti sociali e culturali. Da queste due influenti tendenze analitiche Sperber ha tratto la forza per elaborare la sua proposta, fondata sull’idea che la conoscenza antropologica può diventare maggiormente oggettiva solo focalizzando la propria attenzione sui fattori causali sottostanti le modalità cognitive di elaborazione dell’informazione, da cui l’adozione di un’ontologia fisicalista applicata alla mente umana. Nel caso invece di Maurice Bloch, ciò che egli chiede alla scienza cognitiva è «come essa può contribuire alla pratica conoscitiva dell’etnografia?» (Bloch, 1998a: 43), piuttosto che «a che cosa può servire alla scienza cognitiva la conoscenza etnografica», così come al contrario chiede Sperber. Una questione che Bloch pone riaffermando il valore essenziale della interpretazione etnografica, che è quello di «produrre rappresentazioni della conoscenza delle popolazioni studiate», riconoscendo allo stesso tempo però quanto l’antropologia «non può non riflettere sulla 20 Modelli della mente e processi di pensiero natura della conoscenza e sulla sua organizzazione cognitiva» (Bloch, ibidem). Per Bloch dunque la strada per incrementare dal punto di vista euristico la conoscenza antropologica non può essere attuata al costo di una riduzione dello studio dei processi e dei prodotti del pensiero ai soli fattori cognitivi, bensì integrando al suo interno in maniera intrinseca la dimensione esperienziale, appartenente in maniera precipua all’ontogenesi della specie umana, che gli individui costituiscono quotidianamente partecipando alle attività e alle conoscenze appartenenti ai concreti contesti storico-sociali. Lungi dall’esprimere una valutazione sulla validità o meno della prospettiva euristica di tipo naturalista e innatista elaborata da Sperber – secondo cui gli esseri umani nascono già con certe predisposizioni cognitive le quali elaborano l’informazione appartenente a specifici domini conoscitivi – riteniamo che sia importante per l’antropologia riflettere intorno alla riducibilità epistemologica dei processi e dei prodotti del pensiero ad altri domini che non siano di tipo sociale e culturale. Una questione a cui ha già risposto in tempi non sospetti Silvana Miceli4, sottolineando quanto il problema della conoscenza delle conoscenze locali sia «intrinsecamente vincolato in maniera doppia alla cultura, la qual cosa la porta a definirla in maniera intrinseca come una conoscenza di tipo dialogico» (Miceli, 1990: 47), dove questo intrinseco carattere per lei deriva dal fatto che «[…] in quanto modo di conoscere le conoscenze altrui -le culture- si esplica sulla base di strumenti e nozioni resi disponibili dalla specifica cultura del tempo, che la portano a selezionare dal proprio oggetto/soggetto quello che la sua specifica idea di cultura la predispone pregiudizialmente a rilevare; sia perché il proprio oggetto/soggetto di indagine è costituito da quelle conoscenze locali attraverso cui gli individui danno for- 4 La Miceli affronta tale questione epistemologica nei primissimi anni Novanta, quando ancora le tesi e le idee di Sperber non avevano conosciuto quella certa notorietà che successivamente influenzerà gli orientamenti di diversi studiosi. A. Lutri, Introduzione 21 ma a universi sociali e culturali già manipolati e organizzati, e che continuano a organizzare i modi di conoscere e di agire futuri in maniera vincolante ma non assoluta» (Miceli, ibidem). Questo carattere per lei non priva assolutamente di scientificità la conoscenza antropologica, in quanto essa può essere perseguita solo a due condizioni: da una parte «senza assolutizzare la propria strumentazione scientifica, e la propria stessa nozione di scientificità»; dall’altra parte «senza assolutizzare i risultati ottenuti con la propria strumentazione, nella consapevolezza di potere pur sempre rileggerli diversamente, reinquadrandoli o integrandoli ulteriormente […] tenendo conto del maggior numero possibile di prospettive, e inseguire i modi di conoscenza [sia] nei loro presupposti [che] nel loro concreto esercizio» (Miceli, ibidem). Nel cercare una risposta a questa stessa questione, anche Bloch (2005) fa rilevare che da quando il sapere antropologico non ha più indagato gli aspetti universali e generali delle società e delle culture5, riconoscendosi nel determinismo gnoseologico insito nel relativismo cognitivo, esso si è limitato a fornire esclusivamente delle descrizioni dei diversi modi di conoscere la realtà. Descrizioni che sono state reificate in maniera essenzialista, considerando gli esseri umani come vivere ed agire chiusi all’interno dei mondi prodotti dalle loro rappresentazioni. Il relativismo cognitivo che ha permeato in maniera pervasiva la conoscenza antropologica, secondo Bloch ha determinato da una parte una perdita di interesse da parte del più ampio pubblico dei lettori interessati a cercare in questo tipo di conoscenza sociale un certo tipo di risposte inerenti la natura umana; dall’altra parte un incremento del numero dei suoi addetti ai lavori interessati, per diversi motivi, a far conoscere sempre nuovi modi localizzati di conoscere la realtà6. 5 Qui Maurice Bloch pensa soprattutto agli approcci evoluzionisti, diffusionisti e struttural-fun- zilisti elaborati a cavallo tra gli ultimi decenni del XIX e i primi decenni del XX secolo. 6 Si fa qui riferimento ai cosiddetti “area studies”, in voga ancora oggi nei dipartimenti di antro- pologia anglosassoni e statunitensi, specializzatisi appunto nella conoscenza di specifiche società e culture. 22 Modelli della mente e processi di pensiero Nell’intento di illustrare come gli antropologi interessati al modo di conoscere degli esseri umani (la formazione, diffusione e trasmissione dei diversi tipi di conoscenze sulla realtà, le immagini del sapere, le nozioni, i valori nonché i rilievi oggettuali selezionati da orientamenti culturali determinati) intendano «ricomporre la frattura tra uomo naturale e uomo culturale» (Marconi, 2001: 134), si è deciso di introdurre il lettore italiano a una selezione dei più recenti contributi diretti alla ricerca di nuove modalità euristiche per cercare di ricomporla, ricostruendo sinteticamente i loro caratteri. 2. Prima della “svolta” Per quanto l’idea della “unità psichica” del genere umano sia stata variamente condivisa sin dal XVIII secolo, prima dai pensatori illuministi e poi dai primi antropologi evoluzionisti, essa farà a pugni sia con una singolare interpretazione della prospettiva filosofica kantiana, che con la prospettiva culturalista di natura empirista. Nel primo caso, l’influenza della prospettiva kantiana andrà a influenzare soprattutto l’ambiente antropologico francese, il quale, per mano di Lucien Lévy-Bruhl, condividerà sino agli anni ’40 l’idea che l’umanità intende la realtà, nell’esperirla e rappresentarla, secondo due diverse tipologie di mentalità, ben distinte ontologicamente: la mentalità degli individui a cui gli antropologi si interessano, gli “uomini primitivi”, che è di tipo “pre-logico”; la mentalità degli individui con cui gli antropologi vivono a stretto contatto, i moderni uomini occidentali, che è di tipo “logico-razionale”. Lèvy-Bruhl concepisce le mentalità come degli strumenti finalizzati alla conoscenza, che funzionano da dispositivo selettivo per la percezione della realtà ripercuotendo i suoi effetti sia a livello delle funzioni mentali propriamente dette (linguaggio, rappresentazione della casualità, della quantità, qualità, dello spazio e del tempo), che a livello del senso che la realtà così percepita assume agli occhi degli interessati. A. Lutri, Introduzione 23 La questione su cui egli costruirà la propria ricerca sull’universo degli uomini primitivi fu del tipo: da quali disposizioni interiori il primitivo intenziona il mondo? Ovvero quali sono le condizioni di coscienza da cui procede la sua lettura del reale? L’altra prospettiva euristica che si contrapporrà all’idea dell’unità psichica è quella che concepisce la cultura come l’elemento chiave che contraddistingue la natura umana, sostenendo che è a partire dal diverso modo di esperire la realtà che si formano le corrispondenti differenti modalità di rappresentarla. Questa prospettiva, alla base del cosiddetto relativismo cognitivo, influenzerà in maniera ben più duratura di quella di Levy-Bruhl buona parte del pensiero antropologico novecentesco, facendo focalizzare gli interessi degli studiosi sulle diverse forme in cui gli esseri umani si differenziano tra loro7 più che su ciò che essi hanno in comune. Contro queste due distinte ma convergenti prospettive, che concepiscono l’esperire e il rappresentare la realtà in modo nettamente differenziato (sia nel caso in cui la rappresentazione preceda l’esperienza sia nel caso in cui sia su quest’ultima che si fondi la rappresentazione della realtà) si porrà negli anni Cinquanta Claude Lévi-Strauss, che individua quale secondo lui debba essere l’obbiettivo della conoscenza antropologica: la scoperta delle leggi di funzionamento della mente umana che consentano di comprendere allo stesso tempo sia l’unità cognitiva del genere umano che la molteplicità delle concrete manifestazioni del suo operato. Lévi-Strauss matura l’interesse per le qualità costitutive della mente umana quando va alla ricerca, sin dai tempi delle sue ricerche sul campo in Brasile, delle connessioni tra il sistema di relazioni sociali e il sistema di rappresentazioni mentali (LéviStrauss, 1936). L’antropologo francese ritiene infatti che le diverse modalità di organizzazione sociale – pratiche matrimoniali e relazioni di parentela – siano presiedute da un insieme finito di 7 Per una ricostruzione della questione dell’unità psichica del genere umano si veda il primo ca- pitolo del testo di Bradd Shore, intitolato significativamente The Psychic Unity Muddle (Shore, 1996: 15-41). 24 Modelli della mente e processi di pensiero leggi strutturali8 da ricercare a un livello profondo, in quanto la loro natura è essenzialmente mentale. Il concepire la natura delle leggi strutturali di tipo mentale rappresenta nella storia del pensiero antropologico il primo tentativo di sfidare quell’ontologia dualista assunta da tanti studiosi, secondo cui i fatti culturali e sociali sono irriducibili ad altri domini che non siano sociali e culturali. Un orientamento ontologico che sarà a fondamento di tanta conoscenza antropologica, nel suo essere intrinsecamente legata a quel relativismo cognitivo che la caratterizzerà come un particolare tipo di conoscenza. Diversamente dal dualismo ontologico intrinseco alla conoscenza antropologica, l’innovativa concezione levistraussiana della natura mentale dei fatti sociali e culturali andrà a costituire una nuova euristica, che consentirà a questo studioso di oltrepassare tutte quelle barriere che sino ad allora aveva portato l’antropologia a distinguere una società da un’altra, una tradizione di pensiero da un’altra, concependole come generate da singolari ed esclusive ontologie mentali9. Attraverso questa nuova concezione, secondo lo studioso francese, l’antropologia potrà garantire la comunicazione tra mondi culturali vicini e lontani. Lévi-Strauss ritiene infatti che solo a livello inconscio sia possibile istituire una mediazione tra “noi” e gli “altri”, in quanto senza uscir fuori da noi stessi, così come invece pensavano altri noti studiosi10, essa ci pone in connessione con forme di attività che sono nostre ed altre allo stesso tempo, ovvero di tutte le vite mentali di tutti gli uomini vissuti in ogni epoca. È dunque il livello inconscio del pensiero, il quale non appartiene in proprio a ciascun soggetto ma che è 8 Lévi-Strauss elabora questa ipotesi quando, alla metà degli anni Quaranta durante la sua permanenza newyorkese, ebbe modo di conoscere Jakobson e Trubeckoj dai quali trasse gli insegnamenti teorici e metodologici della linguistica strutturale che loro avevano proceduto a formalizzare. 9 Si pensi alla classica distinzione introdotta dal filosofo e etnologo francese Lucien Lévi-Bruhl il quale negli anni Trenta distingue le forme del pensiero umano in: pre-logiche – di cui sarebbero portatori i “primitivi” – e di tipo logico-razionale. 10 Si guardi per esempio all’euristica elaborata nei primi decenni del XX secolo da Bronislaw Malinowski con il suo concetto di native’s point of wiev (Malinowski, 1922). A. Lutri, Introduzione 25 condiviso con tutti gli altri soggetti, che consente una comunicazione tra gli esseri umani. Ma per Lévi-Strauss quello che caratterizza l’inconscio non è il suo contenuto, bensì, al contrario, la funzione di vincolare a delle regole cognitive il dispiegarsi delle produzioni mentali degli esseri umani, imponendo delle forme a un contenuto (Lévi-Strauss, 1958: 28; trad. it.: 33). Le forme del pensiero umano per lui sono dunque, in quanto derivanti dall’essere vincolate cognitivamente dalle stesse regole, uguali per tutti gli uomini, per qualsiasi società e in qualunque epoca. Ponendo al centro delle analisi antropologiche l’operato logico del pensiero umano, il quale mette ordine alle forme culturali che esso forgia – al di là dei singoli individui, delle diverse società ed epoche storiche – Lévi-Strauss farà emergere per la prima volta nella storia della conoscenza antropologica l’esigenza di interrogarsi più che sulle differenze, sulle regolarità, sulle ricorrenze, sulle somiglianze viste come parte di una stessa identica modalità di funzionamento della mente umana. Sarà proprio la tanto criticata nozione di “spirito umano”11 a divenire in Lévi-Strauss quello strumento concettuale indispensabile per pensare e interpretare le ricorrenze, riconducendo così a unità la variabilità infinita delle forme culturali. Lo spirito umano verrà infatti da lui concepito come un dispositivo mentale che è allo stesso tempo individuale e collettivo, e che è comune a tutta quanta l’umanità in quanto a suo fondamento vi sono le proprietà funzionali del cervello che si manifestano empiricamente nelle creazioni sociali e culturali – relazioni di parentela, narrazioni mitologiche, ecc. – attraverso l’esplicarsi di meccanismi cognitivi comuni e generali. Il piano inconscio del pensiero in Lévi-Strauss è dunque formato da regole strutturali le quali determinano le stesse e identiche operazioni mentali in ogni luogo e in ogni tempo, e sono indifferenti sia nei confronti delle esi11 La nozione levistraussiana di “spirito umano” sarà criticata sia perché identificata come una tendenza all’intellettualismo sia perché secondo altri studiosi essa trascura le dimensioni materiali dell’esistenza nonché per la sua indifferenza alla dimensione storica. 26 Modelli della mente e processi di pensiero genze delle prassi quotidiane che nei confronti delle contingenze della storia. Con la sua concezione universalista dello “spirito umano” Lévi-Strauss postula la finitezza delle possibilità logiche e l’anteriorità della logica sul funzionale, guardando a ciò che di unitario esso può generare. Un’euristica che porterà questo studioso ad andare al di là delle immagini coscienti e sempre diverse che gli esseri umani si fanno sia della propria condizione che del proprio divenire. 3. I termini della “svolta” Prima ancora che Dan Sperber proponesse in forma più matura la sua “svolta naturalista” (Sperber, 1996), egli aveva già posto Il sapere degli antropologi (Sperber, 1982) a una serrata critica epistemologica e metodologica, sostenendo l’idea di un suo divorzio dalla conoscenza etnografica. Un divorzio motivato dalla considerazione che la conoscenza antropologica porrebbe in maniera poco scientifica gli interrogativi sul suo specifico oggetto – la realtà sociale e culturale – per via di un loro eccessivo carattere interpretativo12. Carattere interpretativo che secondo questo studioso non porterebbe a identificare nessuna distinta e omogenea classe di fenomeni, come vorrebbe un sapere che voglia proporsi come scientifico. Nell’andare «alla ricerca di conoscenze oggettive e di teorie solide» (Sperber, ivi: 58), Sperber ritiene, sulla base del suo ideale di scienza, che il problema di come l’uomo conosce possa essere indagato attraverso gli strumenti teorico-metodologici trai12 Gli interrogativi attraverso cui l’antropologo tipicamente interroga la realtà sociale e culturale hanno una forma linguistica e concettuale di questo tipo: “che cos’è il totemismo ?”, “Che significato ha il sacrificio ?”, “Che significato ha la stregoneria ?”, “Quale ruolo svolgono la filiazione e l’alleanza nelle relazioni di parentela ?”, “Quale differenza c’è tra la religione e la magia ?”, ecc. Gli interrogativi posti in questo modo dal sapere antropologico per Sperber non sono altro che dei pseudo-concetti, dei pseudo-interrogativi, in quanto intorno ad essi non vi è nessun consenso da parte delle comunità antropologiche, non arrivando a definire né i problemi né gli obbiettivi di questo tipo di sapere sugli esseri umani, men che meno a caratterizzare i fenomeni culturali. A. Lutri, Introduzione 27 bili da quella parte della scienza cognitiva fondata su una prospettiva fisicalista13, necessaria all’elaborazione di una euristica di tipo naturalista. Sperber ritiene infatti che l’eccessivo focus etnografico sulle singole realtà sociali e culturali abbia portato la conoscenza antropologica ad allontanarsi da quell’idea di scienza naturale delle società e della cultura perseguita a cavallo tra il XIX e la prima metà del XX secolo: idea che aveva portato a interessarsi alla ricerca dei fondamenti naturali delle società e delle culture. Prima di proseguire nella disamina dei caratteri della svolta proposta da Sperber, diciamo subito che è ben difficile negare quanto l’enfasi sulla conoscenza etnografica abbia contribuito a fare assumere al sapere antropologico un carattere eccessivamente relativista. Un carattere che ha portato questo tipo di sapere a interessarsi esclusivamente alle diverse determinazioni sociali e culturali assunte dagli esseri umani riuniti in società, abbandonando, al contrario, la ricerca di quelle determinazioni naturali vincolanti il loro modo di conoscere la realtà. Sperber sostiene che il carattere relativista della conoscenza antropologica si sia mantenuto in forme diverse, escluso alcune eccezioni14, sino agli ultimi decenni del XX secolo, attraverso l’assunzione e l’ampia condivisione di una ontologia di tipo dualista. Come è noto la prima elaborazione di questa concezione ontologica risale a Durkheim, secondo cui i fatti sociali «consistono in modi di agire, di pensare e di sentire esterni all’individuo, e dotati di un potere di coercizione in virtù del quale si impongono ad esso. Di conseguenza essi non possono essere confusi né con i fenomeni organici, in quanto consistono di rappresentazioni e azioni, né con i fenomeni psichici, i quali esistono soltanto e mediante la coscienza individua13 Per prospettiva fisicalista si intende quella che considera la struttura e i meccanismi bio-cogni- tivi della mente umana. 14 Penso al caso di Claude Lévi-Strauss, il quale ha mostrato il suo personale rifiuto non solo verso quel sapere antropologico che non riuscisse a travalicare la singola realtà etnografica locale, ma anche a ridurre i fatti sociali e culturali ad essere dei fenomeni totalmente estranei ad altri domini degli esseri umani. 28 Modelli della mente e processi di pensiero le. Essi costituiscono una nuova specie, ed a essi soltanto deve essere data e riservata la qualifica di sociali. Essa conviene loro; è infatti chiaro che il loro substrato, non essendo l’individuo, può essere soltanto la società» (Durkheim, 1895, trad. it.: 26-27) Sperber si opporrà con vigore a questa concezione ontologica dualista, perché non condivide assolutamente l’idea che gli oggetti indagati dalle scienze umane (antropologia, linguistica, psicologia, sociologia, storiografia), e dalle scienze naturali (biologia, chimica, fisica, ecc.), abbiano delle ontologie tra loro contrastanti: una di tipo idealista o simbolico, e l’altra di tipo materialista o fisicalista. Nel rifiutare la distinzione tra ontologie di tipo simbolico e di tipo materialista egli sostiene che la conoscenza antropologica può tirarsi via da certe secche gnoseologiche solo se i suoi specifici oggetti di analisi (credenze, idee, rappresentazioni) vengono assunti secondo un’ontologia di tipo materialista, o fisicalista che dir si voglia, così come li concepiscono le riflessioni di quella parte della scienza cognitiva a cui lui guarda15. Lungi dal ritenere banalmente che il luogo della “realizzazione materiale” dei prodotti culturali e sociali possa essere ridotto a quello dei processi cognitivi16, quello che propone Sperber è: spiegare come si formano, si stabilizzano e si diffondono le rappresentazioni culturali sviluppando un’ontologia fisicalista che faccia ricorso a una metodologia analoga a quella delle leggi epidemiologiche17.Un 15 Si vedano più in dettaglio le riflessioni di Sperber (1999) contenute nei capitoli Come essere un vero materialista in antropologia (15-35) e Antropologia e psicologia: verso un’epidemiologia delle credenze (59-79). 16 La psicologia riconosce che la realizzazione materiale dei processo cognitivi avviene all’interno del cervello. Per l’antropologia, al contrario, il luogo in cui fatti sociali e culturali si realizzano materialmente è molto più eterogeneo del cervello, comprendendo sia rappresentazioni mentali (individuali) che rappresentazioni pubbliche (collettive). Una tesi che contraddice nettamente l’assunzione molto criticata di Malinowski che pensava che i fatti culturali dovessero essere parzialmente spiegati in termini psicologici. 17 Per Sperber spiegare la cultura vuol dire rispondere alla domanda: «perché alcune rappresentazioni hanno più successo di altre in una popolazione umana […]?» (Sperber, 1999: 61). Doman- A. Lutri, Introduzione 29 arduo programma analitico che per potersi realizzare richiede oltre che una spiegazione delle rappresentazioni culturali secondo un’ontologia fisicalista, anche che la conoscenza antropologica si apra alle conoscenze e ai progressi di altri nuovi tipi di saperi: i saperi che studiano la struttura e i processi della mente oltre che dal punto di vista dei loro prodotti anche da quello del loro funzionamento fisiologico. Per quanto il programma di ricerca naturalista proposto da Sperber all’inizio degli anni Novanta non abbia raccolto dalla comunità antropologica così ampi consensi, se non alcuni casi significativi come quelli di Atran (1990, 2005) e di Boyer (1994, 2001), non si può assolutamente negare che i risultati a cui è pervenuta quella parte della scienza cognitiva che ha assunto la prospettiva fisicalista «abbiano [non solo] influito in modo determinante sulle coordinate del dibattito filosofico attuale [ma abbiano anche] ridato cittadinanza all’idea di una natura umana universale», anche all’interno del dibattito antropologico, come ha recentemente sottolineato Diego Marconi (Marconi, 2001: 130-139). Idea che una certa antropologia filosofica novecentesca, come si è già visto precedentemente, ha accantonato, in nome del forte grado di adattabilità e di flessibilità cognitiva connotanti la natura degli esseri umani, e che più recentemente alcuni settori della ricerca antropologica hanno rimesso al centro del dibattito disciplinare senza definire né in maniera assolutistica né in maniera unitarista in cosa consisterebbe la natura umana (Bloch, 2005b). da alla quale Sperber propone di rispondere diversamente da chi concepisce in termini esclusivamente replicativi la trasmissione delle rappresentazioni culturali, come fa la memetica. Per lui infatti, la replicazione di una rappresentazione non è la regola ma un evento del tutto inconsueto; al contrario, la regola è che le rappresentazioni si trasmettono trasformandosi. Una significativa constatazione che porta Sperber a proporre di spiegare le cause della relativa stabilità delle rappresentazioni in termini epidemiologici e in termini cognitivisti, in quanto secondo lui questi orizzonti conoscitivi sono in grado di andare oltre i singoli riduzionismi psicologici e gli antiriduzionismi culturalismi (Sperber, ivi: 60-63). 30 Modelli della mente e processi di pensiero 4. Le teorie cognitive della cultura 4.1. Le teorie di ispirazione computazionale Tra la fine degli anni Cinquanta e gli inizi degli anni Ottanta vengono elaborati i fondamenti teorici della scienza cognitiva, nella sua forma “classica”, in cui se è il calcolatore digitale a diventare la principale fonte di ispirazione per lo studio dell’attività cognitiva umana questa viene concepita come una mera attività di elaborazione dell’informazione, alla stessa stregua appunto di un calcolatore artificiale. Dal fitto intreccio di contributi provenienti soprattutto dall’intelligenza artificiale e dalla linguistica di Chomsky saranno gettate le basi teoriche di un nuovo programma di studio sui processi cognitivi. Tra i principali fondamenti vi sono: 1) La teoria computazional-rappresentazionale della mente fondata sulla tesi che concepisce i processi cognitivi come l’elaborazione delle informazioni da parte di un calcolatore naturale o artificiale; 2) L’idea che queste elaborazioni siano caratterizzabili indipendentemente dalle proprietà materiali (fisico-chimiche e biologiche) del supporto cerebrale (il crollo), con la conseguenza che il livello di descrizione individuato per i fatti mentali viene ritenuto quello di tipo funzionale; 3) La tesi secondo cui i flussi di queste elaborazioni sono veicolati dai vincoli architettonici della mente: l’idea della mente modulare. La prima tesi viene sviluppata sul piano filosofico negli anni Settanta da uno stretto collaboratore di Chomsky, Jerry Fodor. Egli a partire da questa tesi elabora la teoria computazional-rappresetazionale della mente, consistente nell’asserire che i processi cognitivi sono delle operazioni condotte su rappresentazioni mentali (i simboli del cosiddetto “linguaggio del pensiero”) le quali condividono alcune delle proprietà sintattiche e semantiche A. Lutri, Introduzione 31 insite nelle espressioni delle lingue naturali. Tali operazioni così come in un calcolatore sono guidate da un programma, le regole sintattiche del linguaggio del pensiero (Fodor, 1983). La seconda tesi, quella della teoria funzionalista della mente, muove dalla premessa di una forte autonomia della psicologia dalle neuroscienze18, proponendosi in tal modo come alternativa all’identificazione della mente con il cervello, in quanto la relazione tra le proprietà psicologiche e quelle neurologiche non è biunivoca. A partire dalla relazione di non identità tra le proprietà psicologiche e le proprietà neurologiche viene sostenuta l’idea che la descrizione dei fenomeni mentali debba situarsi a un maggiore livello di astrazione rispetto a quello fisico-chimico e biologico: il livello funzionale appunto. Ragionando in termini informatici, come si vede, viene prima postulata un’analogia tra la mente e il software di un computer (un sistema computazionale composto da un insieme di simboli e regole per manipolare questi simboli), e poi sostenuto che così come il software del computer può e deve essere studiato indipendentemente dall’hardware su cui è installato il software, anche la mente può e deve essere studiata ignorando la struttura fisica che le fa da supporto, il cervello. La terza tesi si fonda su un aperto contrasto con la concezione piramidale della mente, associata alla concezione gerarchica delle funzioni cerebrali elaborata nel XIX secolo. Questa tesi viene elaborata allo scopo di dimostrare l’idea della supremazia delle strutture neurologiche superiori, insite intrinsecamente nella mente dell’evoluto uomo occidentale, rispetto alle strutture neurologiche inferiori, che invece non sarebbero in grado di limitare i freni inibitori degli uomini primitivi. Nella concezione piramidale l’architettura della mente consiste in una graduale ascesa dai livelli psicologici “più bassi” (le spinte istintuali, le tensioni pulsionali, gli automatismi animali, i meccanismi emozionali, 18 Per neuroscienze si intende quell’insieme di ricerche interdisciplinari come la neuroanatomia, la neurobiologia, la neuropsicologia, la psicobiologia, la neurofarmacologia, ecc. 32 Modelli della mente e processi di pensiero ecc.) a quelli “più alti” sino ad arrivare a un vertice in grado di mettere in un ordine gerarchico le diverse funzioni, dirigendo in maniera coerente le funzioni “più nobili” andanti a individuare l’autocoscienza razionale tipica degli individui più evoluti. Contro l’immagine della mente concepita come un insieme omogeneo e gerarchicamente ordinato, Jerry Fodor recupererà la psicologia della facoltà elaborata nel XIX secolo da Franz Joseph Gall. Sulla base dell’idea dell’architettura mentale di Gall, concepita come composta da diverse facoltà cognitive, Fodor (1983) raffigura la mente come una molteplicità di moduli, consistenti in meccanismi computazionali specializzati nell’elaborazione dell’informazione provenienti da diversi tipi di input, e diversi da modulo a modulo (per esempio il rilevamento dei margini e delle superfici degli oggetti, l’elaborazione di informazioni provenienti dal riconoscimento dei volti, la capacità di calcolo, l’analisi della sintassi, organizzare le coordinate spaziali, ecc.). All’interno di questa teoria Fodor proporrà una concezione mista in cui processi cognitivi di livello basso o sistemi di input – che elaborano la percezione acustica, olfattiva, tattile, la capacità di parlare (il linguaggio), il guardare (la visione), ecc. – sono concepiti per avere una struttura modulare; al contrario, i processi cognitivi di alto livello, o sistemi di output – prodotti mediante il pensiero, i concetti, le categorie, le credenze, le idee, i valori, ecc. – non prevedono la stessa struttura. Una concezione che Fodor giustifica col fatto che i sistemi di input, definiti anche come sistemi cognitivi specializzati, sono per lui caratterizzati dall’elaborare un solo tipo di informazione, dall’essere relativamente stabili, localizzabili neurologicamente, capaci di computazioni rapide e obbligate, completamente indipendenti l’uno dall’altro nel selezionare gli input, e insensibili al contesto informazionale all’interno del quale eseguono la loro computazione. Fodor sintetizza le caratteristiche dei sistemi cognitivi specializzati con la formula nota con il nome di “incapsulamento informazionale”. La tesi secondo la quale solo i sistemi di input – che hanno la funzione di codificare gli stimoli percettivi prossimali dell’ambiente in A. Lutri, Introduzione 33 rappresentazioni distali – avrebbero le caratteristiche necessarie per essere considerati modulari, ovvero essere incapsulati informazionalmente, sarà conosciuta con il nome di “tesi della modularità stretta”. A seguito dell’accumularsi di dati sperimentali ricavati dagli studi psicologici sulle capacità concettuali prelinguistiche, cresce a partire dagli anni Novanta l’interesse degli studiosi sia verso la possibile estensione della tesi della modularità stretta – fondata sull’assunto che anche i processi concettuali di alto livello possano avere una specificità di dominio nello stesso senso in cui l’hanno i sistemi di input concepiti da Fodor (Atran, 1990; Hirschfeld & Gelman, 1994; Sperber, 1994, 1996) – sia verso la spiegazione del modellamento di questa architettura mentale (Barkow, Cosmides e Tooby, 1992). Interessi che porteranno sia all’elaborazione della cosiddetta tesi della modularità massiva di Sperber, sia a spiegare lo strutturarsi dell’architettura modulare della mente umana in termini evoluzionistici, sulla base della selezione naturale di specifici meccanismi psicologici responsabili delle più complesse manifestazioni sociali e culturali, così come propone la psicologia evoluzionistica. In contrapposizione al cosiddetto “modello standard delle scienze sociali” (Cosmides & Tooby, 1992, 1994), secondo il quale gli esseri umani sono provvisti di un insieme generale di capacità di ragionamento che utilizzano per risolvere qualsiasi problema cognitivo al di là del loro specifico contenuto, viene elaborata la tesi della modularità dei sistemi concettuali, o specificità di dominio, che nel rifarsi alla tesi di Fodor la estende. Tesi che Hirschfeld & Gelman definiscono in questo modo: «La specificità di dominio è l’idea che i concetti non sono tutti uguali e che la struttura delle nostre conoscenze varia in modo considerevole attraverso le diverse aree […] un numero crescente di ricerche ha concluso che molte capacità cognitive sono specializzate per gestire tipi specifici di informazioni» (Hirschfeld & Gelman, 1994: 15). 34 Modelli della mente e processi di pensiero Questa tesi – definente l’insieme di informazioni che vengono trattate in modo specifico – non implica in sé né la visione modularista ristretta, così come la concepisce Fodor, né la concezione innatista della mente. Nel supporre infatti che esistano dei sistemi cognitivi atti alla gestione di dati concettuali, Hirschfeld e Gelman non sostengono assolutamente che questi possano essere modulari nel senso stretto in cui li concepisce Fodor, in quanto la stessa nozione di concetto implica in sé che vi sia un’integrazione dell’informazione attraverso diverse modalità percettive. Questo vuol dire che sebbene alcune proprietà dei moduli fodoriani si mantengano, come per esempio l’automaticità, la rapidità, l’obbligatorietà delle inferenze a partire da un input specifico, l’incapsulamento informazionale previsto da Fodor come tratto caratteristico dei moduli non può applicarsi ai sistemi cognitivi di alto livello19. Diversamente dalla tesi di Hirschfeld e Gelman (1994) la visione modularista sostenuta dagli psicologi evoluzionisti Leda Cosmides e John Tooby (1992, 1994), e quella rielaborata in campo antropologico da Scott Atran (Atran, 1990) e da Dan Sperber (Sperber, 1996), implicherà la specificità di dominio. Essa diventerà nota con il nome di “tesi della modularità massiva”, concependo la mente come una coalizione di meccanismi cognitivi distinti, ognuno dei quali è predisposto alla soluzione di un problema specifico. Il dibattito intorno alla tesi modularista non si focalizzerà solo intorno al grado di modularità, ma anche sulla spiegazione dei processi che nel corso della filogenesi hanno portato la mente a modellare la propria architettura in questo modo. La spiegazione che viene offerta dalla psicologia evoluzionista poggia su due assunzioni di fondo: 1) esiste una natura umana universale a livello dei meccanismi 19 Per Fodor i sistemi cognitivi di alto livello sono olistici, nel senso che ogni informazione con- tenuta al loro interno non è assolutamente incapsulata bensì interagisce con l’informazione di altri domini, per cui secondo lui non si vede assolutamente come l’olismo delle credenze possa essere trattato nei termini di computazioni locali. A. Lutri, Introduzione 35 psicologici evoluti, nonostante le diversità a livello comportamentale; 2) i meccanismi psicologici si sono evoluti come adattamenti all’ambiente in risposta agli input posti dalla forma di vita esistente all’epoca del Pleistocene, la caccia e raccolta. A partire dal Pleistocene, quando si è formata la struttura cognitiva modulare, l’architettura della mente umana è rimasta intatta sino ai nostri giorni, nonostante l’evoluzione culturale. Per capire quali sarebbero stati i fondamentali input che nel corso della storia evolutiva i nostri antenati avrebbero affrontato, costituenti i “problemi adattativi”, si pensi alla scelta del partner sessuale, la comunicazione con i membri del proprio gruppo, la comprensione degli stati mentali alla base dei comportamenti altrui. Per la psicologia evoluzionistica le soluzioni trovate a questi problemi adattativi si sarebbero generate da specifici meccanismi che compongono la mente umana, i moduli. Questi,a loro volta, sarebbero il prodotto dei processi evoluzionistici strutturatisi nel corso di milioni di anni. Soluzioni selezionate dal punto di vista cognitivo sulla base del principio della loro funzionalità a risolvere meglio di altre alternative i singoli problemi adattativi. Nel focalizzare la propria attenzione sulle complesse relazioni causali che esistono tra le pressioni selettive e i meccanismi psicologici selezionati sulla base della loro funzione, e tra questi e le forme di comportamento, la psicologia evoluzionistica ritiene in tal modo di superare la questione dell’iriducibilità ontogenetica del patrimonio psicologico innato o appreso. Secondo infatti i suoi sostenitori l’ipotesi di un numero finito di meccanismi psicologici non è in contrasto con le molteplici manifestazioni culturali e comportamentali manifestate dagli esseri umani, in quanto il loro ruolo non è quello di predisporre in maniera preordinata gli individui verso certi schemi cognitivi e comportamentali, bensì quello di assolvere meglio certe funzioni sociali e biologiche rispetto alle alternative disponibili. A questo proposito Donald Symons afferma: 36 Modelli della mente e processi di pensiero «con eccezione di alcuni schemi comportamentali specie-specifici quali il camminare, il correre, il sorridere o il piangere, il comportamento umano in quanto tale non è stato prodotto dalla selezione; per la maggior parte, esso è il prodotto dell’interazione di una miriade di meccanismi psicologici, e questi meccanismi sono stati prodotti dalla selezione» (Symons, trad. it., 2006: 59). Sebbene i sostenitori del programma della psicologia evoluzionistica credano fermamente nel valore euristico della loro tesi, sono state avanzate diverse posizioni riguardo al grado di selezione dei singoli meccanismi psicologici chiamati moduli (Atran, 2005; Carruthers, 2003; Gil-White, 2005; Cosmides & Tooby, 2005; Sperber & Hirschfeld, 1999, 2004; Pinker, 1994). Il ventaglio di posizioni vede da una parte autori come Carruthers, Cosmides & Tooby, Gil-White, Sperber e Hirschfeld, i quali propongono di estendere il principio della selezione naturale a diversi tipi di pratiche sociali – l’etnocentrismo, lo scambio sociale, ecc. – ritenendo che esso sia assolutamente necessario per potere spiegare il perché gli individui e le collettività, adattatisi a specifiche e intrinseche forme di ragionamento da esse selezionate, le reiterebbero nel tempo e le diffonderebbero nello spazio. Dall’altra parte vi è invece Atran, il quale nel non negare la validità della tesi adattazionista, ritiene che essa non possa essere concepita come necessaria per spiegare tutti i tipi di abilità cognitive, vedi per esempio la classificazione biologica (folkbiology) da lui analizzata in maniera approfondita. Tornando un attimo a Sperber non ci si può dimenticare di evidenziare quanto egli elabori la sua particolare proposta euristica non solo estendendo la tesi modularista di Fodor, ma implementandola attraverso una proposta di tipo epidemiologico, la quale ha nella nozione di “rappresentazione mentale” (Sperber, 1996) il suo fulcro. Sperber chiarisce questa proposta sostenendo che «i membri di un gruppo umano sono legati gli uni agli altri da flussi molteplici di informazioni» dove «l’informazione si materializza al tempo stesso nelle rappresentazioni mentali degli A. Lutri, Introduzione 37 individui e nelle loro pratiche» (Sperber, 2005: 1). Per lui in altri termini, gli esseri umani sono per natura idonei sia a costruire rappresentazioni mentali, che a memorizzarle e comunicarle, dove, una volta che queste vengono comunicate dagli individui mediante le loro azioni, esse diventano delle “rappresentazioni pubbliche”, anche se non tutte le rappresentazioni mentali diventano pubbliche. Ma per Sperber, solo quando le rappresentazioni pubbliche vengono a loro volta «trasmesse in modo ripetuto e si propagano per un gruppo intero, è possibile parlare di cultura». Questa per lui è costituita sia da «informazioni largamente distribuite attraverso una popolazione, sia dalle loro realizzazioni materiali nei cervelli degli individui (sotto forma di rappresentazioni mentali), nell’ambiente che essi condividono (sotto forma di comportamenti e di artefatti diversi sotto forma di rappresentazioni pubbliche)» (Sperber, ivi: 2). Si stia però attenti, in quanto Sperber non afferma assolutamente che le rappresentazioni mentali sono prodotte dalla struttura cognitiva innata della mente umana, ma, al contrario che si producono nella loro comunicazione e circolazione sociale, dove all’interno di questo tipo di processo esse vengono adulterate, trasformate e intrecciate con altre rappresentazioni pubbliche. A conclusione di questa sezione vogliamo fare riferimento alle dure e pregiudiziali critiche avanzate nei confronti della psicologia evoluzionistica che secondo l’antropologo adarwinista Jeromy Barkow (2006) trovano fondamento nell’antibiologismo dominante nelle scienze sociali tra gli anni Quaranta e Sessanta del XX secolo. Un carattere che Barkow riassume in cinque assunzioni: 1) la raccapricciante storia passata e presente delle scienze e politiche sociali che hanno fatto uno scorretto uso della biologia; 2) la profonda dominanza di due elementi conflittuali del pensiero cartesiano nelle scienze sociali: l’idea fissa che vi sia una netta differenza tra gi esseri umani e le altre specie animali, e la concezione che vede la mente come intrinsecamente separata dal corpo, da cui l’esclusione dello studio dell’evoluzione degli aspetti fisici e biologici della mente; 3) l’idea di durkeimiana memoria se- 38 Modelli della mente e processi di pensiero condo cui le collettività condividono delle rappresentazioni che sono indipendenti dagli aspetti psicologici individuali; 4) l’ottocentesca marxiana idea utopistica secondo cui la natura umana è perfettibile una volta che saranno rimosse le ineguaglianze sociali tra le classi e i gruppi; 5) l’idealistica idea che le scienze sociali abbiano una loro missione morale contrapposta alle oppressioni e alle ineguaglianze, che si opporrebbe agli approcci evoluzionisti (Barkow, op. cit.: 13-19)20. 4.2. Ambiti di ricerca antropologici Tra i principali ambiti di ricerca in cui tra gli anni Ottanta e Novanta la teoria della modularità massiva di Sperber conoscerà una sua fortuna vi è quello sui sistemi di classificazione biologica (folkbiology) studiati da Atran, e quello sui sistemi religiosi di credenza sviluppato soprattutto da Pascal Boyer. Per quanto riguarda il primo, c’è da dire che questo si rifà a quell’ambito di ricerca fortemente mentalista noto con il no20 Secondo Barkow il carattere biofobico manifestato in questi ultimi anni dalle scienze sociali deriverebbe dalla deviante interpretazione del programma adattazionista. Secondo i critici della psicologia evoluzionista, una delle sue principali contraddizioni consiste nel sostenere che, da una parte, i meccanismi psicologici sono il prodotto dell’interazione con i molteplici fenomeni ambientali, e dall’altra parte che essi non cambiano nel corso tempo dando dei nuovi tipi di risposte adattative.Questa contraddizione per loro è fondata sul fatto che in realtà essa è si fonda sulla tesi che la struttura della mente umana, in quanto prodotto dell’evoluzione adattativa nei confronti di certi importanti problemi, è totalmente indipendente dall’ambiente in cui vivono gli individui, per cui i meccanismi psicologici non sarebbero intaccati dai successivi cambiamenti storici intervenuti negli stili di vita e nelle forme di organizzazione sociale. In realtà come sottolineano bene Kurzban e Haselton (2006), la psicologia evoluzionistica fa molto poco riferimento ai geni sottolineando, al contrario, l’importante ruolo ricoperto dai meccanismi psicologici, prodotti questi ultimi dall’interazione tra l’individuo e l’ambiente che selezionano quelli capaci di risolvere meglio ad altre alternative quei problemi adattativi presentatisi ai nostri antenati all’epoca del Pleistocene, i quali direttamente o indirettamente influenzano la sopravvivenza e riproduzione degli individui. Questi meccanismi psicologi specializzati non sono dunque assolutamente concepiti come determinati geneticamente come se fossero stati selezionati da inevitabili leggi fisiche o biologiche, per cui non è possibile prescindere dalle condizioni ambientali in cui quel certo fenomeno si è evoluto, in quanto è là che è possibile riscontrare la sua funzione adattativa rispetto alle contingenti alternative disponibili, diversi critici, hanno sostenuto che è possibile parlare di funzione adattativa solo riguardo alle condizioni manifestate dall’ambiente adattativo in cui attualmente vivono ed agiscono gli individui e non rispetto a quello passato, in cui gli individui raccolti in piccoli gruppi praticavano la caccia e raccolta. A. Lutri, Introduzione 39 me di “etnoscienza”, sviluppatosi negli anni Sessanta all’interno dell’antropologia statunitense e avente come suo oggetto i diversi sistemi di classificazione della realtà fenomenica locale. L’assunzione di fondo di questo particolare approccio è che la mente sarebbe una griglia categoriale imposta alla realtà fenomenica. Assunzione di cui si sono serviti diversi studiosi per analizzare i diversi tipi di tassonomie biologiche indigene – classificazioni botaniche, zoologiche, cromatiche –(Berlin 1976, 1992; Berlin & Kay, 1969; Brown, 1977, 1979, 1984; Cardona, 1985a, 1985b; Ellen, 1986, 1993, 2005, 2006; Ellen & Reason, 1979; Tyler, 1969). Sulla base delle idee di questo approccio e della teoria della modularità massiva di Sperber, durante gli anni Novanta l’analisi dei sistemi di classificazione biologica conosce per mano di Atran un nuovo sviluppo, andando egli alla ricerca dei principi cognitivi universali sulla base dei quali gli individui appartenenti a diverse culture classificano le specie naturali. Un obbiettivo di ricerca che conduce questo studioso ad elaborare la tesi secondo cui le forme di classificazione di piante e animali appartengono a uno specifico dominio cognitivo. Nello stesso tempo però in cui Atran sottolinea la rilevanza euristica della scoperta dell’universalità cognitiva delle forme di classificazione delle specie naturali, egli stesso evidenzia quanto secondo lui solo le piante e gli animali vengano concettualizzati sulla base delle stesse modalità tassonomiche. Questo vuol dire, secondo lui, che queste stesse modalità non sono assolutamente estendibili ad altre categorie di oggetti (Atran, 1990: 46), definenti specifici domini21. 21 In realtà questa sottolineatura di Atran viene molto sottovalutata dagli studiosi, i quali riten- gono che anche in altri domini oltre quello della biologia ingenua (folkbioloy) è possibile rilevare la stessa specificità di dominio e omogeneità delle forme di strutturazione tassonomica, – vedi per esempio l’ambito della psicologia ingenua (folkpsichology), della fisica ingenua (folkphisics), della matematica ingenua –folkmathematic, e quello più recente della sociologia ingenua (folksociology), avente per oggetto lo «[…] studio dei processi cognitivi soggiacenti le credenze quotidiane sui gruppi umani e sulle affiliazioni di gruppo» (Hirschfeld, 2003). 40 Modelli della mente e processi di pensiero Atran ha recentemente allargato i suoi interessi etnografici oltre che alle forme di classificazione biologica anche alle forme di coltivazione delle piante, proponendo un ripensamento di alcune sue idee relative alla non estendibilità della tesi modularista ad altri tipi di domini (2001), più in generale sostenendo la validità euristica della sua Teoria cognitiva della cultura (2004, 2005). Partendo da quest’ultima egli ridefinisce parzialmente i termini della sua proposta mentalista, affermando che «come la popolazione concettualizza la natura è legato a come la popolazione agisce in relazione a essa» (Atran, 2005: 3, traduzione nostra). Un ripensamento che porta questo studioso, da una parte a criticare l’idea che la cognizione sia «incorporata esclusivamente nella mente degli individui», a cui si va poi a implementare la cultura, in quanto componente della cognizione individuale; dall’altra parte ad avvicinarsi sia al programma della psicologia storico-culturale di Vygotsky e Cole, sostenendo che «le espressioni della psiche umana sono profondamente incorporate e strutturate all’interno dei contesti storici e sociali» (Atran, ivi: 9), sia all’idea di Hutchins (1994), secondo cui l’attività cognitiva è “distribuita” e formata da «strutture emergenti che emergono da livelli irriducibili di complessità coinvolgenti diversi legami tra le menti degli individui di una data popolazione» (Atran, ivi: 10). Sul fronte delle critiche al modello della mente di tipo computazionale e rappresentazionale sia la Miceli (1990) che Maurice Bloch (1991) sottolineano, su fronti diversi, l’eccessiva sua centralità riconosciuta al linguaggio. Per quanto riguarda la Miceli c’è da dire che sebbene lei ritenga sia importante analizzare la conoscenza degli esseri umani in maniera interdisciplinare, allo stesso tempo assume una posizione critica nei confronti della scienza cognitiva, ritenuta essere riduzionista nell’esaltare eccessivamente le componenti cognitive del funzionamento della mente. Secondo questa studiosa il modello computazionale e rappresentazionale non è valido in quanto «la sistematizzazione delle conoscenze nel senso comune, come anche la sistematizzazione dei significati di un linguaggio condiviso, non forma dei A. Lutri, Introduzione 41 sistemi chiusi, non esita in cognizioni rigide e in significati sempre uguali, al contrario, rilascia fuzzy concepts, insiemi sfumati, pacchetti di senso imprecisi» (Miceli, ivi: 77-8) Una tesi che lei motiva affermando che «a differenza della rigidità di connessioni cognitive che consentono i riconoscimenti della realtà operati da altre specie animali, le comprensioni e le conoscenze operate dagli esseri umani sono molto più plastiche ed elastiche [dove] la precisione e precisazione delle estensioni e intenzioni dei termini, la rigida definizione dei concetti, la ferma stabilità dei significati appartengono alle ricostruzioni dei logici e dei linguisti, e non definiscono il normale modo umano di conoscere, di comprendere e di comunicare» (Miceli, ibidem). Su un fronte totalmente diverso si situa invece Maurice Bloch. Secondo Bloch l’idea che «la cultura è intrinsecamente legata al linguaggio», per cui essa «è pensata e trasmessa come un testo attraverso il linguaggio», ovvero di essere «consistente di proposizioni lineari legate» (Bloch, 1998: 4), sarebbe totalmente insufficiente a dar conto del reale modo di conoscere la realtà da parte degli esseri umani. Quest’idea implica infatti che ci sia una stretta connessione tra i concetti e il linguaggio, per cui quando degli individui non hanno una parola per definire un oggetto vuol dire che essi non hanno il concetto. Diversamente dalla concezione linguistica dei concetti, di derivazione aristotelica, secondo cui i concetti sarebbero appresi sulla base di «definizioni necessarie e sufficienti», fatta propria dall’antropologia con lo strutturalismo francese e con l’etnoscienza statunitense, Bloch prende in considerazione la «formazione dei concetti classificatori»secondo la “teoria dei prototipi” elaborata su base sperimentale nella seconda metà degli anni Settanta dalla psicologa cognitiva americana Eleanor Rosch (1977, 1978). Secondo questa teoria il significato non viene rappresentato dagli individui come un elenco di tratti definitori, ma come uno schema cognitivo al quale un dato esemplare viene adattato più o meno bene. La nozione di schema, come ha recentemente fatto notare Leonardo Piasere è 42 Modelli della mente e processi di pensiero stata recentemente rielaborata in ambito antropologico da diversi studiosi (Lakoff, 1987, 1998a, 1998b; Lakoff & Johnson, 1998°, 1998b; D’Andrade, 1987, 1992, 1995; Strass & Quinn, 1997, 2000) identificandola in un «network (o una struttura o una configurazione o uno stato) concettuale flessibile ed olistico che rende possibile l’identificazione di cose ed eventi del presente tramite un’associazione con esperienze del passato in vista di un’aspettativa futura» (Piasere, 2001: 70). Il carattere olistico dello schema deriverebbe dalla sua struttura che non è di tipo monosensoriale bensì di tipo cinestetico. Oltre a fare notare il diverso carattere degli schemi, tendenti alla plurisensorialità, Piasere sottolinea quanto secondo D’Andrade bisogna stare attenti a non confondere questa nozione con quella di prototipo, in quanto quest’ultimo non identifica altro che una «esemplificazione altamente tipica»; diversamente lo schema definisce una struttura «organizzata di oggetti e relazioni che deve essere completata con dettagli concreti» (D’Andrade, 1995: 124). Piasere fa inoltre notare quanto per D’Andrade lo schema, in quanto rappresentazione unitaria, nell’attivare una sua parte implichi l’attivazione di tutto ciò che vi sia intrinsecamente connesso, dove «dal momento che gli schemi servono a interpretare l’ambiente essi si costruiscono nell’interazione con l’ambiente» (Piasere, 2001: 71). La validità euristica del concetto di schema per D’Andrade risiede in due significativi aspetti: 1) «[…] permette di connettere termini appartenenti a domini diversi»; 2) «è molto più che una rappresentazione mentale» (Piasere, ibidem). Per rendere comprensibile come termini appartenenti a domini diversi siano concretamente connessi tra di loro D’Andrade fa l’esempio de «lo schema LAVARE, che collega acqua a sa- A. Lutri, Introduzione 43 pone, detersivo, shampoo, ecc. a rubinetto, fontana, doccia, ecc. a corpo, mani, piedi, capelli, ecc. a vestiti, tovaglie, biancheria ecc. a lavatrice, tinozza, ecc. a lavanderia, ecc.» (D’Andrade, 1995: 124). Per evidenziare invece quanto gli schemi cognitivi siano più che altro delle rappresentazioni mentali, D’Andrade sostiene quanto essi siano «una interpretazione frequente, ben organizzata, memorizzabile, che può essere fatta da suggerimenti minimi, contiene una o più esemplificazioni prototipiche, è resistente al cambiamento» (D’Andrade, 1992: 29). Ma per questo studioso gli schemi possiedono anche «il potenziale di istigare all’azione: cioè possono funzionare come fini», per quanto «non tutti gli schemi funzionano come fini [mentre] tutti i fini sono schemi» (D’Andrade, ivi: 30-31). 4.3. Una vecchia idea che ritorna in auge: la ricerca di nuove ontologie mentali L’altro significativo ambito di ricerca in cui ha attecchito la teoria della modularità massiva è, come si è detto all’inizio del paragrafo, quello che riguarda lo studio cognitivo dei sistemi di credenza religiosi, sviluppato principalmente da Pascal Boyer (1994, 2001) e più recentemente anche da Scott Atran (2002). L’analisi cognitiva delle idee e credenze di tipo religioso – per esempio quella secondo cui una componente non fisica degli individui sopravvive dopo la loro morte e che questa componente sia un essere intenzionale (cioè abbia delle credenze e dei desideri) – ruota intorno alla loro “naturalità” o “innaturalità”. Boyer, dichiarandosi a favore di una proposta di tipo naturalista alla Sperber, ritiene che gli esseri umani nutrano una serie di aspettative riguardanti per esempio il comportamento degli oggetti fisici nello spazio, i processi biologici fondamentali come il ciclo della nascita e morte, le quali sono totalmente indipendenti dai contesti sociali e culturali, essendo prodotte naturalmente – cioè sarebbero innate – dalla specifica struttura modulare della nostra mente. Queste aspettative formatesi nella mente umana naturalmente andrebbero a contrapporsi a tutti quei tipi di idee che le contrad- 44 Modelli della mente e processi di pensiero dicono dal punto di vista logico (si pensi per esempio a quelle idee religiose che sostengono che gli spiriti oltrepassano certe superfici fisiche o che gli dei sono immortali, dove è proprio tale contraddizione a rendere tali idee materia di diffusione e di condivisione nelle diverse culture). In altri termini per Boyer queste idee religiose si diffonderebbero in maniera universale contrapponendosi a certe “ontologie intuitive”, cioè naturali. Diversamente dalla prospettiva relativista che concepiva le credenze religiose come naturali, solo per via di una loro estrema coerenza con altri tipi di credenze incomprensibili a un’osservatore, Boyer ritiene che esse siano tali sia in quanto costruite secondo le stesse modalità cognitive utilizzate per altri tipi di credenze, sia in quanto generate dagli stessi processi cognitivi da lui ritenuti quasi automatici nel generare delle credenze intuitive e nell’essere stimolate da quelle informazioni “controintuitive” che si trasmettono culturalmente, dove tale duplicità di aspetti marcherebbe la loro ottimalità cognitiva che le porterebbe a diffondersi in ogni società. Dal punto di vista epistemologico la proposta a carattere estensivo di Boyer è stata recentemente criticata da Carlo Severi (2004a), il quale fa notare quanto sebbene la sua concezione naturalista abbia inquadrato in termini nuovi il rapporto tra le culture e i processi cognitivi, dal punto di vista euristico sia più valida una prospettiva teorica espressa in termini intensivi. Secondo infatti Severi la proposta cognitiva di Boyer è altamente riduzionista, nel ritenere esauriente la spiegazione della diffusione universale di certi concetti e credenze religiose come conseguenza del principio cognitivo della controintuività. Al contrario, Severi ritiene che per comprendere come certi concetti religiosi – energia vitale, carattere, ecc. – vengano trasmessi, determinando sia la diffusione che la permanenza nel tempo, non sia sufficiente la spiegazione del loro contenuto in termini controintuitivi, in quanto «il contenuto semantico non è né mai pienamente compreso né positivamente rappresentato» (Severi, ivi: 816). Un assunto che porta Severi a ritenere che sia “necessario ricostruire A. Lutri, Introduzione 45 le condizioni pragmatiche che definiscono la specie di gioco linguistico in cui essi sono usati” (Severi, ibidem)22. 5. Le teorie di ispirazione neuronale Il dibattito antropologico sulla ricerca di modelli della mente validi per spiegare in maniera esaustiva la formazione e trasmissione delle conoscenze culturali, pubblicato sulla rivista «Man», non si esaurisce né con la proposta epidemiologica di Sperber – fondata sulla tesi della modularità massiva della mente – né con quella di Bloch. Tale dibattito, infatti, compie un’ulteriore progresso nel corso degli anni Novanta attraverso l’importante proposta pubblicata da Harvey Whitehouse su questa stessa rivista (1996). Nel suo articolo Whitehouse critica sia la proposta epidemiologica avanzata da Sperber sia la spiegazione in termini sociologici della religiosità sostenuta come è noto dalla tradizione durkeimiana. Diversamente da questi due tipi di spiegazione egli sottolinea quanto la trasmissione e la memorizzazione dei contenuti delle rappresentazioni religiose, non siano il prodotto esclusivo né di sistemi socioculturali né di meccanismi universali cognitivi generati naturalmente (i quali determinerebbero i contenuti più rilevanti da trasmettere e memorizzare) bensì di altri importanti aspetti espulsi da queste. Whitehouse fonda la sua argomentazione critica coinvolgendo in maniera intrinseca la dimensione emotiva, giudicata sia dalla tradizione sociologica che dalla proposta cognitivista come inconciliabili con l’idea della razionalità umana. A suo dire esso è molto importante per comprendere come dal punto di vista cognitivo certi concetti e credenze espressi nei diversi tipi di rituali religiosi facciano presa nella mente degli individui23. 22 Per un esame più dettagliato delle condizioni pragmatiche entro cui avviene la comunicazione e trasmissione delle conoscenze di tipo religioso si veda l’analisi che fa Severi dei rituali sciamanici Kuna (Severi, 2004b). 23 Per una recente ed ampia disamina etnografica sull’emotività legata a diversi tipi di fenomeni sociali – vissuti sia a livello individuale che collettivo – si veda l’antologia curata da Milton & Svasek, 2005. 46 Modelli della mente e processi di pensiero Per spiegare quanto la dimensione emotiva giochi un importante ruolo dal punto di vista cognitivo, Whitehouse si riallaccia alla proposta selezionista elaborata in campo neuroscientifico da Gerald Edelmann, nota con il nome di Teoria della selezione dei gruppi neuronali (Theory of neuronal group selection, 1987), ritenendola una valida alternativa all’essenzialismo insito nelle ipotesi istruzioniste assunte dai modelli di tipo computazionale. Questo tipo di approccio spiega il funzionamento bio-chimico del nostro sistema nervoso sulla base della variazione e selezione delle reti neuronali attivatesi sulla base degli input ricevuti dai concreti contesti storico sociali in cui vivono ed agiscono gli individui. Whitehouse trova che l’approccio proposto da Edelman, fondato dal punto di vista euristico sul superamento della distinzione tra processi cognitivi innati e acquisiti, sia più appropriato a dar conto di come si formano e vengono memorizzate e trasmesse le conoscenze culturali, coinvolgendo alla stessa stregua sia le conoscenze di tipo neurologico che quelle psicologiche e sociologiche. La teoria selezionista di Edelman muove i suoi passi da una critica nei confronti dell’idea isolazionista intrinseca alla teoria computazional-rappresentazionale, la quale si fonda sulla tesi dell’autonomia della psicologia dalle neuroscienze. Questa idea dominerà incontrastata nella scienza cognitiva sino agli anni Ottanta, per via soprattutto dello iato che esiste tra i problemi e gli strumenti di analisi della neuroscienza e la psicologia computazionale: iato venutosi a creare anche per il fatto che la neuroscienza sino agli anni Settanta analizzava il sistema nervoso prendendo in considerazione livelli molto bassi di organizzazione, il livello dei singoli neuroni. Con l’estendersi dell’ambito di analisi della neuroscienza – dal livello molecolare e cellulare a quello sistemico – negli anni Settanta e Ottanta emerge, differentemente, l’idea che la mente non ha nulla a che fare con il software di un computer, in quanto non è un sistema computazionale. Da quest’idea ne deriva un’altra la quale sostiene che se si vuole capire la mente bisogna partire dallo studio della struttura e del funzionamento fisico del cervello: un’idea che darà vita al cosiddetto programma neu- A. Lutri, Introduzione 47 ronale volto all’elaborazione di «modelli ispirati neuralmente dei processi cognitivi» (Rumelhart & McClelland, 1986: 180). Secondo questo programma di studio la mente non è una manipolatrice di simboli e di informazioni, ma è composta da un insieme di reti neurali, composte da unità tra loro strettamente connesse, le quali attraverso dei processi fisico-chimici producono degli effetti fisico-chimici24. Tutto ciò viene assunto da Edelman affermando che «stabilire che il cervello è un sistema selettivo non basta», in quanto «è necessario identificare caso per caso le sorgenti della variabilità, le peculiarità dell’interazione con l’ambiente, ed i meccanismi di amplificazione differenziale» (Tononi, 1995: XXIII). Egli sostiene infatti che così come Darwin attaccò le concezioni essenzialiste secondo cui le specie sarebbero delle entità immutabili, sostenendo al contrario che esse si originano attraverso un processo di selezione e variazione, così la variazione nel sistema nervoso non costituisce una deviazione erronea, bensì è «la base per la formazione, tramite la selezione neuronale, delle categorie» (Tononi, ivi: XXIV)25. 24 Le unità sono riconducibili a tre tipi di categorie: le unità di input, che ricevono l’informazio- ne da elaborare; le unità di output, quelle che mettono in atto i processi di elaborazione dell’informazione; le unità nascoste, che si collocano nei livelli intermedi delle reti neurali. Dall’idea di reti neuronali saranno elaborati dei modelli della mente di tipo connessionista, che si basano sull’analogia tra le unità della rete e i neuroni in cui questi ultimi si attivano solo se la quantità totale di segnale che ricevono supera la loro soglia di attivazione. Ogni unità di input viene infatti concepita come possedere un certo valore di attivazione rappresentato dall’informazione presente nell’ambiente di riferimento della rete, il quale si propaga in parallelo a tutte quelle unità nascoste cui è connessa l’unità di input,facendo a sua volta in modo che queste ultime calcolino il loro valore di attivazione in base ai valori ricevuti dalle unità di input. Il segnale si trasmette sino al le unità di output, determinandone il valore di attivazione (la risposta della rete). La funzione della sinapsi viene simulata dal peso associato a ogni connessione neurale determinandone il coefficiente di connessione. Le modalità con le quali è possibile raffigurare l’attivazione delle reti neurali può essere rappresentata o sulla base di istogrammi, vettori di attivazione o di punti collocati in spazi di attivazione. 25 Dal punto di vista analitico la teoria selezionista di Edelman si fonda sull’assunzione che «un gruppo neuronale è composto di decine, centinaia o migliaia di neuroni fortemente interconnessi localmente, che tendono a ricevere ed emettere segnali correlati e a rispondere in maniera cooperativa», dove «le connessioni sinaptiche […] sono però assai variabili da un gruppo neuronale all’altro», per via della loro propensione a rispondere in maniera diversa a segnali diversi. Edelman in altri termini ritiene che la variabilità di risposte sia spiegabile sulla base della selezione neuronale. Nello spiegare il funzionamento del sistema nervoso di cui è composto l’organo ce- 48 Modelli della mente e processi di pensiero Whitehouse assume l’approccio neuronale proposto da Edelman per elaborare la propria teoria cognitivista sui “modi di religiosità”. Una teoria che spiega come agiscano sugli individui, sia dal punto di vista cognitivo che emotivo, alcune caratteristiche formali delle due principali tradizioni religiose da lui identificate – la tradizione imagista e quella dottrinale – le quali condizionano l’acquisizione e trasmissione di certe nozioni e credenze religiose (Whitehouse, 2004). Whitehouse elabora questa teoria ritenendo che tra questi due tipi di tradizioni religiose vi siano significative divergenze formali nei loro caratteri. Secondo lui infatti, l’azione della religiosità di tipo dottrinale si esercita sugli individui e le collettività mediante una «ritualità altamente ripetuta, la quale facilita l’immagazzinamento di elaborati e concettualmente complessi insegnamenti religiosi all’interno della memoria semantica, [i quali a loro volta] attivano la memoria implicita in molte procedure rituali». Egli fa inoltre notare quanto questi aspetti cognitivi siano «legati a particolari morfologie religiose, come quelle che presentano un ordinamento gerarchizzato, delle disposizioni istituzionali centralizzate, e che presentano dei potenziali espansivi e delle situazioni dinamiche per quanto riguarda la formazione dei leader religiosi» (Whitehouse, ivi: 65-66). L’azione invece della religiosità di tipo imagista è per lo più ritualizzata ed è invariabilmente esercitata a una “bassa frequenza”, contemplando quei rituali violenti e traumatici appartenenti ai culti religiosi di tipo estatico, alle esperienze di possedimento collettivo e con stati alterati di coscienza coinvolgenti l’omicidio o l’antropogafia. L’efficacia cognitiva ed emotiva di questo tipo di religiosirebrale degli esseri umani, il cervello, secondo un’ontologia fiscalista, Edelman concepisce questo dinamicamente alla stessa stregua di qualunque altro tipo di sistema complesso che è sottoposto a particolari vincoli intrinseci ed estrinseci, i quali a un dato momento rendono possibili certe possibili configurazioni neuronali. Le particolari configurazioni neuronali a loro volta saranno causate sia da eventi selettivi che da accidenti storici facendo in modo che solo alcune di esse diventeranno attuali. Nel caso del sistema nervoso dell’uomo i vincoli intrinseci ed estrinseci che operano su di esso sono rappresentati dalla sua struttura e dalla storia. Questo fa sì che la mente degli individui non può che essere concepita come unica ed irripetibile, da qui il valore di ogni singolo individuo e della sua storia. A. Lutri, Introduzione 49 tà, per Whitehouse risiede nel fatto che «questi aspetti sono tra loro causalmente interconnessi e mutualmente rinforzanti» (Whitehouse, ivi: 70). Dal punto di vista cognitivo la bassa frequenza di questo tipo di azioni rituali altamente violente e traumatiche inciderebbe fortemente sull’attivazione della memoria episodica, nel senso che la partecipazione ad essi da parte degli individui fa sì che essi ne abbiano una memoria durevole nel tempo. 6. Oltre il naturalismo e il relativismo: la natura storico-culturale delle capacità cognitive 6.1. Fondamenti e ambiti di ricerca La secolare questione dell’unità e diversità della mente umana che in questi ultimi due decenni è stata molto influenzata dal costituirsi del programma di ricerca delle scienze cognitive – filosofia della mente, psicologia cognitiva, linguistica cognitiva, neurobiologia, psicobiologia, ecc. – non ha dato vita soltanto all’elaborazione di teorie globalizzanti di tipo naturalista. Altri studiosi della cognizione come la Astuti, Bloch, Lloyd, Piasere, Squillacciotti, Stafford, Tomasello e la Toren, hanno recentemente proposto di problematizzare la questione della “natura umana” attraverso un “monismo epistemologico” (Bloch, 2005) fondato su una prospettiva euristica sintetica che unisce sia gli aspetti sociali e naturali che quelli mentali e biologici. Un monismo epistemologico che essi praticano esprimendo una certa prudenza nei confronti delle prospettive cognitiviste di tipo naturalista, che non deve essere tradotto però come una indifferenza nei loro confronti. Come mostra il noto storico del pensiero della Grecia e della Cina antica Geoffrey Lloyd, in alcune capacità cognitive(come la percezione cromatica, la cognizione spaziale, la cognizione del Sé, il riconoscimento dell’intenzionalità e della causalità, la razionalità, le classificazioni del mondo naturale, ecc.) il peso che hanno i diversi tipi di fattori in campo – biologici, neurofisiologici, biochimici, sociali e culturali – è variabile a seconda di quale fenomeno cognitivo si consideri (Lloyd, 2007: 5). 50 Modelli della mente e processi di pensiero Diversamente da chi ritiene che la conoscenza antropologica non sia stata capace di elaborare una teoria dell’apprendimento che regga alla prova dei fatti (Ferretti, 2007), la prospettiva multidimensionale (Lloyd, 2007: 6) proposta da questo variegato fronte di studiosi dei fenomeni cognitivi, sostiene che il negare l’innatismo di alcuni di essi vuol dire ignorare un voluminoso corpus di dati (Astuti, Carey & Solomon, 2005: 154). Detto questo è altresì vero che l’estensione della tesi innatista a molteplici domini cognitivi, non può assolutamente pensare di essere esentata dalla “prova del terreno” (Bloch, 2006), non basando le proprie idee solo su una base di evidenze empiriche.Prove di terreno che, al contrario, sono state abbondantemente colte da alcune recenti ricerche etnografiche condotte sulla base di seri protocolli di ricerca da équipe di studiosi composte sia da antropologi che da psicologi cognitivi (Astuti, Carey & Solomon, 2005; Bloch, Carey & Solomon, 2001), che hanno mostrato attraverso quali concreti ricchi meccanismi di apprendimento la mente degli individui vincoli lo sviluppo concettuale di particolari ambiti conoscitivi. Nella approfondita e ben documentata ricerca etnografica condotta dalla Astuti insieme agli psicologi Susan Carey e Gregg Solomon (2005) sulle forme di acquisizione delle conoscenze biologiche e sociologiche presso la popolazione malgascia dei Vezo, viene fatto rilevare quanto i vincoli inerenti lo sviluppo concettuale di questi tipi di conoscenze siano oltre che di natura cognitiva anche di altro tipo. Un’evidenza empirica attraverso cui essi mettono in discussione sia le tesi di Atran e di Hirschfeld, inerenti l’esistenza di specifici ed innati moduli cognitivi dedicati ad acquisire ed organizzare la conoscenza sul mondo naturale (folkbiology) e sociale (folksociology), sia la classica tesi relativista secondo cui “l’apprendimento è svincolato” dalle proprietà filogenetiche della mente umana, proponendo essi una terza tesi. Una tesi che si propone come una versione più debole rispetto a quella del “contenuto concettuale innato” di Atran, e viene da essi chiamata “costruzione concettuale vincolata”, fondata sull’idea che ogni bambino costruisce continuamente dei A. Lutri, Introduzione 51 nuovi concetti. Con questa ipotesi essi vogliono evidenziare quanto l’acquisizione delle conoscenze sia vincolata da potenti meccanismi di apprendimento dominio-generali, come l’analisi causale o teleologica, dove lo sviluppo di questi meccanismi non è assolutamente universale, bensì è il prodotto dell’interazione tra gli input ricevuti dagli adolescenti dall’ambiente culturale in cui essi vivono ed agiscono, che sono costituiti dal linguaggio, dagli artefatti e dalle pratiche sociali e culturali (Astuti, Solomon & Carey, ivi: 15-6). Come si può notare, con questi studiosi viene a galla una prospettiva euristica totalmente diversa da quella che propongono Sperber e Atran. Questi ultimi infatti ritengono che la scienza cognitiva rappresenti una proficua sponda per fare approdare la conoscenza antropologica su terreni conoscitivi maggiormente oggettivi, dandogli la possibilità di elaborare modelli teorici aventi validità universale al di là delle singolari determinazioni esterne alla mente degli individui, i fatti sociali e culturali. Al contrario la Astuti, Bloch, Stafford e la Toren, pensano che questo modo di concepire il rapporto tra la conoscenza antropologica e la scienza cognitiva porterebbe a fare pagare alla prima dei costi molto alti, “spogliando” le capacità cognitive degli individui da quell’intrinseca dimensione storica e culturale che connota il loro immanente orizzonte di azione e di pensiero. Una concezione che in nuce era già contenuta nella psicologia storico-culturale elaborata negli anni Trenta dallo psicologo russo Lev Vygotsky, e rielaborata più recentemente sia da Bruner che dalla Rogoff (Rogoff, 1990, 2003)26. Secondo questi ultimi «l’uomo è soggetto al gioco dialettico tra natura e storia, tra le qualità che possiede come creatura della biologia e quelle che gli appartengono come prodotto della cultura» (Bruner, 1988: 88). 26 Nel 1962 Jerome Bruner curerà la traduzione di una delle principali opere di Vygotsky, Pensiero e linguaggio , e successivamente insieme a Michael Cole (1971, 1974, 1996a, 1996b) curerà altri suoi lavori (Bruner, 1973a, 1973b, 1986, 1990). 52 Modelli della mente e processi di pensiero Questa concezione si lega alla tesi recentemente proposta dallo psicologo evolutivo Michael Tomasello, secondo il quale ciò che distingue biologicamente le abilità cognitive della specie umana rispetto a quelle delle altre specie animali è la sua unica capacità socio-cognitiva, che si fonda su tre precise caratteristiche: 1) dal punto di vista filogenetico, «i moderni esseri umani hanno evoluto la capacità di identificarsi con i con specifici [permettendo loro] di comprenderli come esseri intenzionali e mentali al pari del Sé»; 2) dal punto di vista storico, questo «ha reso possibili nuove forme di apprendimento culturale e di sociogenesi, che hanno condotto ad artefatti culturali e tradizioni comportamentali che si modificano cumulativamente in tempi storici»; 3) dal punto di vista ontogenetico, «i bambini crescono circondati da tradizioni e artefatti socialmente e storicamente costituiti, che permettono loro di: a) trarre profitto dalle conoscenze e dalle abilità accumulate dai gruppi sociali a cui appartengono; b) acquisire e usare rappresentazioni cognitive dipendenti dalla prospettiva nella forma di simboli linguistici; c) interiorizzare certi tipi di interazioni discorsive in abilità di metacognizione, riformulazione delle rappresentazioni e pensiero dialogico» (Tomasello, 2005: 28). Queste fondamentali capacità cognitive si sviluppano nella specie umana, secondo Tomasello, a partire dai nove mesi in poi, quando nei bambini si sviluppa la possibilità dell’apprendimento culturale, fondato sulla «capacità dei singoli organismi di comprendere i con specifici come esseri simili a loro stessi, con vite intenzionali e mentali simili alla propria» (Tomasello, ivi: 23). Apprendimento culturale che per lui non consiste nell’apprendere dall’altro, così come fanno altri animali che apprendono socialmente l’uno dall’altro, bensì attraverso l’altro, ovvero vedendo il mondo nel modo in cui lo vede l’altro assumendone la prospettiva (Tomasello, 1999, ivi: 199). Lo sviluppo ontogenetico di questa specie-specifica abilità cognitiva, l’apprendimento culturale, A. Lutri, Introduzione 53 conosce una sua differenziazione in tre diversi tipi: a) apprendimento imitativo, b) per istruzione e c) collaborativo. Questi tipi sono alla base dell’ontogenesi del concetto di Sé (Tomasello, 2005: 23). La tesi che fa da sfondo a tutto il discorso di Tomasello sull’ontogenesi e la filogenesi della abilità cognitive della specie umana, è che se si vuole comprendere la loro universalità non si può andare a ritroso nel tempo evolutivo andando alla ricerca di quando si sarebbero prodotte le prime forme di adattamento cognitivo a importanti problemi di sopravvivenza sociale e biologica, così come sostengono gli psicologi evoluzionisti. Secondo quanto infatti sostengono questi ultimi, la mente umana avrebbe assunto la sua struttura modulare – dividendosi in singoli moduli che funzionano secondo certe modalità cognitive – all’epoca del Pleistocene, quando la mente degli esseri umani avrebbe affrontato per la prima volta nella sua storia quei fondamentali problemi adattativi rimasti pressoché simili sino ai nostri giorni. Al contrario per Tomasello, la comprensione dell’universalità dell’ontogenesi e della filogenesi delle specie-specifiche abilità cognitive umane non può assolutamente prescindere dall’attribuire la giusta importanza ai concreti processi storico-culturali, i quali agiscono mediante artefatti e pratiche sociali andatesi ad accumulare e rinnovare continuamente. Una precisa assunzione che secondo Tomasello dà la possibilità di comprendere a fondo sia come attraverso i su citati processi storici e ontogenetici gli esseri umani abbiano prodotto le diverse singole culture, sia come queste a loro volta abbiano portato allo sviluppo di «una varietà di abilità e di prodotti cognitivi culturalmente unici» (Tomasello, ivi: 30). Sul terreno più strettamente etnografico, già durante gli anni Novanta uno dei pionieri dell’antropologia cognitiva italiana, Massimo Squillacciotti, mostrava una significativa attenzione alle idee di Vigotsky rielaborate più recentemente da Michael Cole (1971), sia ribadendo certe questioni teoriche, sia ponendo delle questioni attinenti specificatamente alla pratica di ricerca et- 54 Modelli della mente e processi di pensiero nografica (Squillacciotti, 1996a). Per quanto attiene il piano teorico Squillacciotti condivide la critica di Cole nei confronti della validità trans-culturale della teoria pisocologica delle “capacità”, alla quale viene contrapposto il principio della “competenza”. Secondo tale principio «il metro di valutazione delle abilità raggiunte da un singolo individuo vanno commisurate e rapportate allo standard di competenze richiesto da ogni specifica cultura», le quali condizionano in maniera significativa «lo sviluppo delle strategie cognitive necessarie» (Squillacciotti, ivi: 25-26). La condivisione di questo principio porta Squillacciotti a elaborare una personale prospettiva epistemologica consistente nel «[…] riconoscimento in primo luogo della subordinazione delle forme espressive del pensiero al contesto culturale in cui queste vengono elaborate e solo in secondo luogo alla verifica del percorso psico-genetico e psicosociale della produzione del pensiero stesso» (Squillacciotti, ivi: 29). Squillacciotti trasferisce queste considerazioni critiche e il proprio personale punto di vista epistemologico al suo ambito di ricerca etnografica sulle prestazioni cognitive richieste dai sistemi di numerazione usati da due popolazioni della Somalia e di Panama, le quali lo portano a criticare «[…] la tecnica diffusa di isolamento del fenomeno indagato (numero) dal suo più generale contesto culturale e dalle altre forme di espressione del pensiero a cui appartiene» (Squillacciotti, ivi: 26). A partire più o meno da queste stesse riflessioni teoriche e metodologiche, l’indagine etnografica sulle prestazioni cognitive richieste dai sistemi di numerazione conosce in tempi più recenti un ulteriore approfondimento coinvolgendo oltre che la conoscenza antropologica (Stafford 2003, 2004), anche la psicologia cognitiva27 e la conoscenza matematica (Ascher, 2002). Nel pri27 Le ricerche psicologiche svolte sulle competenze numeriche tra gli anni Ottanta e Novanta so- no molteplici, e qui non si può darne conto. Per un loro excursus si rinvia al contributo di Stafford (2003). A. Lutri, Introduzione 55 mo caso l’esperienza etnografica di Charles Stafford sull’acquisizione delle complesse abilità numeriche tra i bambini cinesi e di Taiwan (2003), lo portano a evidenziare quanto queste non dipendano esclusivamente dalle particolari caratteristiche sintattiche della lingua cinese, come alcuni linguisti hanno fatto, ma più in generale dall’apporto socio-culturale fondato in un «insieme complesso di significati riconosciuti ai numeri» (Stafford, ivi: 78). Stafford definisce questo insieme complesso di significati come una precisa “concezione numerologica”. Concezione che interessa diversi aspetti della vita sociale e culturale cinese, «i rituali familiari locali e nazionali, la divinazione e la spiritualità, il riconoscimento delle linee parentali, gli esami scolastici, le attività commerciali, gli affari e la fortuna» (Stafford, ibidem), di cui si dà variamente conto nei contributi etnografici scritti da altri studiosi contenuti in una recente pubblicazione da lui stesso curata (2004). Nel caso invece della matematica statunitense Marcia Ascher, viene mostrato attraverso un’indagine comparativa tra diverse società e culture – africane, asiatiche, oceaniche ed europee – come a partire dai concetti di tempo contenuti in certi calendari, e dal modo con cui in precisi rituali religiosi vengono prese importanti decisioni riguardo al futuro, siano elaborati alcuni concetti matematici molto più sofisticati di quanto si possa credere. Concetti che giocano un ruolo importante nello strutturare diversi ambiti del sapere come la navigazione, le interazioni sociali e religiose. Tra gli approcci psicologici a cui guarda questo variegato fronte di etnografi della cognizione nello studiare lo sviluppo cognitivo non vi è solo quello della psicologia-culturale di Vigotsky, ma anche le idee e le concezioni elaborate dallo “strutturalismo costruzionista” di Jean Piaget. Come è noto questo psicologo fondò il proprio studiò dello sviluppo mentale non nella descrizione della natura delle strutture cognitive bensì sui fattori che lo rendono possibile. L’impostazione che Piaget diede allo studio di questi fattori fu marcatamen- 56 Modelli della mente e processi di pensiero te di tipo biologico. Egli sosteneva che le modalità di funzionamento delle strutture cognitive sono omologhe a quelle delle strutture biologiche, per cui lo sviluppo mentale non consiste altro che in una forma di adattamento all’ambiente (1967). Diversamente dal naturalismo cognitivo che sostiene che le strutture cognitive sono innate, e dall’empirismo relativista in cui gli individui sono concepiti come degli agenti totalmente passivi i cui comportamenti sono il risultato degli effetti prodotti dall’ambiente sociale in cui essi vivono ed agiscono, per Piaget l’individuo costruisce attivamente le proprie strutture cognitive e la propria conoscenza, attraverso un processo di interscambio tra organismo e ambiente. In altri termini, secondo questo studioso è l’individuo stesso a produrre il proprio sviluppo cognitivo adattandosi alle richieste che l’ambiente sociale pone a lui, per cui organismo e ambiente giungono gradualmente ad adattarsi l’uno all’altro28. L’approccio di Piaget allo studio dei fattori responsabili del cambiamento cognitivo ha molto influenzato gli studiosi dello sviluppo mentale tra gli anni Sessanta e Settanta, portando alcuni di questi anche a espandere il suo approccio (Fischer, 1980). Secondo alcuni di essi la descrizione dei meccanismi responsabili del cambiamento è proposta in termini troppo generali ed astratti, non dando sufficiente importanza ai singoli contesti sociali nei quali vivono ed agiscono gli individui, dal cui confronto tra i bambini stessi e gli adulti dipende in maniera significativa lo sviluppo cognitivo. La critica al naturalismo cognitivo e l’estensione dello strutturalismo costruzionista di Piaget, porta l’antropologa britannica Christina Toren a elaborare un proprio programma di inda28 La bidirezionalità dell’adattamento tra organismo e ambiente per Piaget ha a suo fondamento la “dottrina degli stadi”. Dottrina consistente nel concepire lo sviluppo cognitivo come procedere secondo tre diversi stadi temporali – stadio “sensomotorio”, “preoperatorio” e “operatorio” concreto – dotati ognuno di precipue caratteristiche e alla cui base vi sono delle proprietà comuni come: l’organizzazione, secondo cui ogni stadio consisterebbe in un sistema strutturato di azioni o pensieri organizzati insieme; l’ordine universale prestabilito, per cui nessuno stadio dello sviluppo può essere saltato; l’integrazione gerarchica, secondo cui un nuovo stadio di sviluppo si presenta solo quando questo diventa dominante o subordina funzionalmente i sistemi precedenti. A. Lutri, Introduzione 57 gine etnografica, consistente nello studiare come gli individui agiscono sull’ambiente in cui essi vivono e come si formano le loro strutture mentali, le quali nell’interagire con i dati dell’esperienza ne risultano trasformate (Toren, 2002a, 2002b). Alla base del suo studio etnografico focalizzato in particolar modo (1999) su come a livello ontogenetico si formano tra i bambini in età pre-scolare ed età scolare delle isole Fiji certi concetti relativi all’identità religiosa cristiana, all’organizzazione sociale gerarchica, vi è la concezione secondo cui «la mente è il fondamentale fenomeno storico» […] emergente da un continuo processo in divenire mediato dal nostro vivo impegno nel mondo popolato», per cui «le nostre relazioni con quelli che incontriamo nel corso della nostra vita quotidiana, dalla nascita alla morte, informano i processi attraverso cui nel tempo ci costituiamo le nostre idee del mondo vissuto dagli oggetti e da altre persone» (Toren, 1999: 3, traduzione nostra). Due assunzioni attraverso cui si rende del tutto obsoleta la relazione “natura VS cultura” secondo cui se qualcosa è culturale non può essere naturale, elaborando al contrario l’idea di una «natura biologicamente culturale degli esseri umani» (Rogoff, 2004: 59). Come si può intuire da questo breve resoconto delle vicende etno-cognitive, esse intendono arricchire la conoscenza dei processi di pensiero così come essi si attivano negli individui che agendo all’interno dei loro contesti sociali e naturali interagiscono sia con altri individui sia con l’insieme di artefatti, materiali e simbolici. Per fare questo essi recuperano oltre che le idee e i concetti elaborati da Lev Vigotsky, Jean Pialete e Jerome Bruner, anche quelle di alcuni psicologi cognitivi di orientamento ecologico, come Eleanor Gibson e Ulric Neisser, in cui gli individui – siano essi adolescenti o adulti – vengono assunti come degli agenti attivi nell’ambiente in cui essi vivono ed agiscono. Un’assunzione che porta Lev Vigotsky a ritenere che le capacità cognitive, da lui definite “funzioni mentali superiori”, si sviluppano attraverso il condizionamento sia dalle forme di interazione degli individui che dall’uso di particolari artefatti culturali, 58 Modelli della mente e processi di pensiero tra cui occupa un posto di particolare rilievo l’uso del linguaggio. Nel riporre una particolare rilevanza ai rapporti tra le pratiche, gli artefatti culturali e i processi cognitivi individuali che vincolano la loro elaborazione concettuale, Vigotsky elabora l’idea della cultura sia come mediazione che come partecipazione. La prima mette in evidenza quanto l’ontogenesi delle capacità cognitive umane si strutturi nei bambini a partire dai nove mesi all’interno della cosiddetta «zona di sviluppo prossimale» (Rogoff, ivi: 49), attraverso l’acquisizione di quegli artefatti culturali appresi nell’interazione con altri individui più competenti, gli adulti, i quali attraverso essi permettono loro di comprendere l’intenzionalità delle azioni e degli artefatti stessi. Questo vuol dire che lo sviluppo delle funzioni mentali superiori non può assolutamente fare a meno dell’apprendere l’uso di particolari artefatti culturali, che per Michael Cole (1995b) sono di due tipi: a) gli artefatti primari, impiegati direttamente nelle attività dai membri di una specifica comunità di individui, usati sia per interagire tra loro che con l’ambiente, costituenti la cosiddetta cultura materiale; b) artefatti secondari, composti dalle rappresentazioni degli artefatti del primo tipo e dai modi di azioni ad essi associati, e da rappresentazioni più astratte. L’idea della cultura in quanto partecipazione si contrappone invece agli approcci alla cultura di tipo categoriale elaborati dagli antropologi e psicologi sino agli anni Settanta. Nella concezione categoriale l’appartenenza culturale viene concepita come derivante da particolari ed esclusive identità – etnica, familiare, nazionale, politica, sociale, ecc. – che determinerebbero certe particolari proprietà categoriali. Diversamente da questa concezione lo spostamento del focus analitico dall’appartenenza categoriale alla partecipazione culturale, secondo la Rogoff rende possibile indagare in maniera più verosimile sia «la variabilità entro i gruppi [che] la possibilità di partecipazione simultanea a diverse comunità» (Rogoff, ivi: 76). Per la Rogoff infatti, è attraverso la più o meno effettiva condivisione di processi di significazione e di comunicazione, nonché mediante il ricorso a certe pratiche e va- A. Lutri, Introduzione 59 lori, che gli individui appartenenti a una data comunità apprendono a interagire e a saper prevedere i loro pensieri, sentimenti e modalità di agire, dove la partecipazione ad essi non è uniforme ma varia da individuo a individuo, a seconda delle esperienze vissute. Dato che il grado di partecipazione alle pratiche sociali e di condivisione dei valori culturali dei membri di una data comunità varia da individuo a individuo, ciò vuol dire che la cultura non viene interiorizzata dal soggetto come se fosse una struttura generale e integrata, bensì che essa è costituita da una rete di schemi cognitivi, emotivi e sociali che, nell’essere in connessione reciproca e strettamente collegati ai singoli contesti sociali, possono anche essere in conflitto tra di loro. 60 Modelli della mente e processi di pensiero Ringraziamenti Tra coloro a cui sono in vario modo in debito per la pubblicazione di questo volume il mio pensiero va principalmente a Massimo Squillaccioti, il quale oltre che sollecitarmi verso l’apertura di nuovi ambiti conoscitivi all’interno della conoscenza antropologica, è stato il primo ad accettare il mio invito a prendervi parte, dandomi continuamente dei consigli. Ringrazio poi molto Marco Mazzone per aver voluto condividere con me in questi ultimi anni oltre che preziosi momenti di scambio intellettuale anche un fondamentale reciproco sostegno morale, e per essersi inoltre fatto carico della traduzione di uno dei presenti contributi, nonché per avere accettato il mio invito a far parte del volume. Il giovane e promettente antropologo cognitivo Alberto Acerbi, sia per avere tradotto il contributo pubblicato in francese sia per avere anch’egli accettato il mio invito. Ringrazio ulteriormente Francesca Cappelletto, perché la sua profonda serietà e sensibilità umana e intellettuale, da me conosciute solo a distanza, l’hanno portata a condividere l’idea di questo libro, e più recentemente ad iniziare un proficuo confronto con le scienze cognitive. Sono inoltre debitore nei confronti di Chiara Ghidini, giovane e brillante yamatologa con grande interesse verso gli studi antropologici, che in tempi stretti è riuscita abilmente a tradurre il saggio di Francesca Cappelletto. Devo poi ringraziare la brava e solerte Isabella Lepri per la traduzione del saggio di Rita Astuti. L’editore Umberto Coscarelli, sia per aver accettato la mia proposta sia per aver condotto un egregio lavoro editoriale. Ringrazio infine gli studenti del mio corso tenuto negli ultimi due anni a Catania che si sono fatti carico di studiare alcuni di questi contributi in lingua originale. Non posso poi non ringraziare tutti quanti gli autori dei contributi qui tradotti per avermi concesso la loro pubblicazione. A. Lutri, Introduzione 61 Riferimenti originari dei saggi in traduzione Astuti, R., 2001, Are We All Natural Dualist? A Cognitive Developmental Approach, in «Journal of Royal Anthropological Institute», vol. 7, n. 3: 429-447 Atran, S., 2003, Theorie cognitive de la culture. Une alternative èvolutioniste à la sociobiologie et à la selection collective, in «L’Homme», n. 166: 107-144 Cappelletto, F., 2003, Long-term memory of extreme events: from autobiography to history, in «Journal of Royal Anthropological Institute», vol. 9, n. 2: 241-260. Sperber, D., 2005, Modularyty and Relevance: How can a MassivelyModular Mind be Flexible and Context-Sensitive?, in Carruthers, P., Laurence, S. & Stich, S. (eds), The Innate Mind, Oxford, Oxford University Press. Parte prima La mente nella cultura Teoria cognitiva della cultura. Un’alternativa evoluzionistica alla sociobiologia e alla selezione di gruppo. di Scott Atran La cultura? È qualcosa che metterei nella categoria dei liocorni Noam Chomsky a Lawrence Hirschfeld Conferenza di Royaumont, 1975 1. Le norme come unità di evoluzione culturale Sia le spiegazioni sociobiologiche che quelle fondate sulla coevoluzione genetica e culturale fanno uso quasi sempre (anche se non esclusivamente) di modelli normativi. Questi modelli presuppongono che le culture siano sistemi di regole e di idee largamente condivise e che mantengano una variazione ereditabile (Lumsden e Wilson, 1981; Boyd e Richerson, 1985; Durham, 1992; Laland et al., 2000). Anche i modelli che spiegano le culture umane come effetto della selezione di gruppo sono dei modelli normativi (Boehm, 1999; Sober e Wilson, 1998). Esistono importanti differenze tra i modelli di selezione a livello individuale e a livello di gruppo, ma entrambi si fondano su di una caratterizzazione comune delle unità di selezione culturale, che sono considerate come “norme” (o “tratti culturali”). Tutti questi modelli normativi di organizzazione e di evoluzione culturale ignorano la struttura cognitiva e l’architettura computazionale della mente, oltre che il suo ruolo causale nella formazione e nell’evoluzione culturale (si veda anche Lumsden e Wilson, 1981). Le teorie memetiche, anch’esse, costituiscono delle descrizioni essenzialmente normative, che ignorano il ruolo della mente nella spiegazione dell’evoluzione culturale (Dawkins, 1976; Dennett, 1995; Blackmore, 1999). Queste ultime propon- 66 Modelli della mente e processi di pensiero gono comunque un approccio originale che ho analizzato altrove (Atran, 2001a). Uno dei punti che distingue le teorie basate sulla selezione a livello individuale da quelle basate sulla selezione di gruppo concerne la spiegazione del sacrificio del proprio interesse a breve termine. Per le prime, questo sacrifico è realizzato a profitto dell’interesse individuale a lungo termine, mentre per le seconde è realizzato a beneficio dell’intero gruppo, indipendentemente dal profitto dell’individuo in questione. Comunque, entrambe presumono che le norme giochino un ruolo nell’evoluzione culturale, un ruolo che è parallelo a quello dei geni nell’evoluzione biologica (Alexander, 1987). Le norme sono credenze e valori trasmessi culturalmente, che indicano quali comportamenti sono buoni o cattivi, onorabili o disdicevoli, lodabili o punibili. Allo stesso modo in cui i geni sono unità ereditabili di informazione biologica, immagazzinate nelle cellule del corpo, che forniscono un programma relativo al comportamento e allo sviluppo dell’organismo in differenti contesti ambientali, le norme sono unità ereditabili di informazione culturale, immagazzinate nelle reti neuronali, o “menti”, che forniscono un programma relativo al comportamento e allo sviluppo delle persone in differenti contesti sociali (d’ora in poi, utilizzerò i termini “cervello” e “mente” in modo intercambiabile). Le analogie culturali dell’evoluzione genetica non sono solo metafore. Spesso si ritiene che corrispondano a delle istanze particolari di leggi darwiniane generali (Dennett, 1995; Wilson, 2002). Queste leggi si applicano a tutti i processi evolutivi, biologici e non, in qualsiasi mondo possibile, regolato da principi termodinamici e nomologici di causa e di effetto. Un tale scenario darwiniano si produce ogni volta che l’informazione può propagarsi ed essere “formattata” da un processo di selezione che influisce sull’informazione stessa a un tasso più elevato di quello di altri processi concorrenti, come la mutazione (cambiamento casuale e permanente dei tratti ereditabili) o la deriva (accumulazione aleatoria dei tratti e isolamento accidentale delle S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 67 popolazioni che li portano). Per esempio, i virus informatici possono continuare ad essere efficaci, malgrado gli antivirus, replicandosi con una fedeltà relativamente alta, che non è comunque perfetta, permettendo così una variazione aleatoria nel loro codice di sviluppo. Se certe varianti finiscono per riuscire meglio di altre a resistere ai programmi antivirus e a generare più a lungo copie, allora questi ceppi evolveranno in modo darwiniano. Le norme sono ereditate da un individuo a un altro tramite una trasmissione direzionata: “verticale”, ossia da genitori a figli (per esempio le regole di comportamento di una casta, la circoncisione rituale) o “orizzontale”, ossia attraverso coetanei non apparentati (per esempio le mode, l’etichetta) o, a volte, sia verticale che orizzontale (per esempio gli obblighi religiosi, il diritto consuetudinario). Le regole normative si configurano nella mente come un analogo culturale del “genotipo”, mentre i comportamenti normativi, generati attraverso queste regole, sotto l’influenza dell’ambiente, corrispondono al “fenotipo” culturale. I comportamenti normativi sono “adattivi” quando promuovono un “vantaggio riproduttivo” (fitness) culturale. Così, contribuiscono alla sopravvivenza e alla propagazione della popolazione portatrice delle norme di cui questi comportamenti sono espressioni fenotipiche favorite dalla selezione naturale. Nell’antropologia sociale e culturale (da qui in avanti utilizzerò i termini “cultura” e “società” in modo intercambiabile), argomenti simili vengono proposti per spiegare la volontà degli individui di sacrificare il loro proprio benessere a favore di quello della loro società (Service, 1962; Fried, 1967). La selezione di gruppo sembra essere la sola alternativa plausibile all’egoismo e all’edonismo considerati come forza motrice degli affari umani (Kuper, 1996; Rappaport, 1999). Per esempio, secondo Maurice Godelier (1982), le disuguaglianze, tra gli individui baruya (Nuova Guinea), non sarebbero permesse e riconosciute se non nella misura in cui sono di utilità per il bene comune (cfr. Boehm, 1992). Ciò nondimeno, non esistono dei dati sufficientemente dettagliati sulla variazione individuale tali che un osservatore in- 68 Modelli della mente e processi di pensiero dipendente possa decidere che queste tesi siano empiricamente ben fondate. L’opposizione manifestata contro le teorie biologiche centrate sul vantaggio riproduttivo dell’individuo e contro le teorie, apparentemente simili, centrate sull’egoismo economico, le accusa di riproporre i pregiudizi egocentrici ed etnocentrici delle teorie evoluzionistiche dell’inizio del XX secolo. La maggior parte di queste teorie erano, in effetti, razziste ed elitiste, in quanto associate all’eugenetica, al fascismo e al capitalismo coloniale. Tuttavia, esiste attualmente un’alternativa evoluzionistica alla selezione di gruppo – l’epidemiologia culturale – che prende decisamente le distanze da questo passato deplorevole. 2. Funzionalismo e selezione di gruppo Il funzionalismo è la teoria maggiormente utilizzata e citata dai sostenitori della selezione di gruppo. Si tratta di una dottrina elaborata in antropologia e in sociologia nella prima metà del XX secolo, ispirata da correnti di pensiero della fine del XIX secolo. Secondo l’antropologo R. Boyd (in corso di stampa)1: «Le società manifestano un disegno: le società sono strutturate per il bene dell’insieme. Il funzionalismo, vecchia scuola sempre influente in antropologia e sociologia, afferma che le credenze, i comportamenti e le istituzioni esistono perché promuovono l’efficace funzionamento dei gruppi sociali». 1 Si veda anche Boyd e Richerson (2001a). Anche se confermo la mia critica riguardo all’utilizzo da parte di Boyd e dei suoi collaboratori dei concetti di norma e di selezione di gruppo come parte integrante dell’evoluzione culturale, ammetto che le loro recenti ricerche di modellizzazione e di variazione intra- e interculturale nella distribuzione e nella trasmissione delle pratiche culturali sono un prezioso contributo alla nostra comprensione dell’epidemiologia e dell’evoluzione culturale (Henrich e Boyd, 2002). Qui le norme non sono più necessariamente discrete e largamente condivise come regole, ma riflettono distribuzioni statistiche più complesse di idee, comportamenti e contesti ecologici. Non si trovano invece sofisticazioni comparabili nelle visioni relative alla cultura di David Sloan Wilson (o di Elliott Sober). S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 69 Per Boehm (1993), le culture si poggiano su una serie di comportamenti desiderabili o indesiderabili, funzionali o disfunzionali. Una data società possiede un insieme numerabile di valori morali (Kluckholn 1952) – la sua “visione del mondo” o il suo “ethos” (Kroeber 1963). Posizioni simili hanno il filosofo E. Sober e il biologo D.S. Wilson (Sober e Wilson 1998: 150-176): «nella maggior parte dei gruppi sociali umani, la trasmissione culturale è guidata da un insieme di norme che identificano che cosa conta come comportamento accettabile» e che «funzionano in larga misura (ma non completamente) affinché i gruppi umani funzionino come unità adattive». Le norme sono parti funzionali di una «macchina complessa e sofisticata concepita con lo scopo di rendere i gruppi unità cooperative». Sober e Wilson citano numerosi esempi che provengono da un insieme di dati etnografici raccolti su scala mondiale, gli Human Relations Area Files (HRAF). Secondo Murdock (1949: XII), che diede l’avvio alla costruzione degli HRAF, questa base di dati fu creata specificatamente per aiutare la sociologia e l’antropologia a sviluppare una scienza affidabile della società umana sulla base di due principi teorici interdipendenti: il funzionalismo e il comportamentismo. A detta di Murdock, il contributo più importante realizzato ai suoi tempi dalle scienze sociali fu: «La scoperta che una cultura è adattiva o “funzionale”, poiché contribuisce ad assicurare i bisogni essenziali dei suoi portatori e cambia nel tempo attraverso una sorta di continuo processo di prove ed errori empirici (trial and error) genuinamente evoluzionistico, ossia caratterizzato da cambiamenti adattivi ordinati». Murdock (ibidem: XIV-XV) ne conclude, a ragione, che questa visione della società conduce a concepire “la natura della cultura” come un “superorganismo”, nei termini di Alfred L. Kroeber (1963: 61-62). Infine, Murdock (1949: XVI) sostiene che 70 Modelli della mente e processi di pensiero l’antropologia non deve solamente cercare di eliminare dalla propria analisi le variazioni individuali, nella sua ricerca di uno stereotipo ideale – l’equivalente dell’“informatore onnisciente” –, ma che dovrebbe anche rifiutarsi di considerare i processi mentali individuali, oggi chiamati “cognizione”, in quanto finzioni non scientifiche: «Di tutti gli approcci sistematici allo studio del comportamento umano conosciuti dall’autore, [il comportamentismo] sorpassa tutti gli altri in rigore e obiettività scientifica, ed è il solo contro il quale non può indirizzare nessuna seria critica». Murdock ha dunque costituito gli HRAF in questo modo: in primo luogo viene postulato (piuttosto che scoperto) che le società, o le culture, sono dei sistemi funzionali discreti che agiscono come una coordinazione integrata di componenti, a loro volta funzionali, discrete; in secondo luogo, queste componenti discrete, o istituzioni, funzionano sulla base di regole che sono leggi causali ipotetiche (di una natura completamente metaforica, per esempio le “forze” sociali); terzo, queste leggi istituzionalizzate portano gli uomini ad agire secondo delle modalità stereotipate, cioè, in accordo con delle norme comportamentali; quarto, le menti possono immagazzinare delle rappresentazioni dei comportamenti normativi nei cervelli, ma poco di più. Le menti sono dei veicoli passivi, che traducono direttamente (in modo completamente enigmatico) le norme istituzionali in comportamenti abituali. Le differenze e le variazioni individuali si sviluppano semplicemente da una traduzione difettosa dovuta a delle perturbazioni interne (per esempio emozionali) o esterne (per esempio. ecologiche). Robert Boyd e Peter Richerson, come Sober e Wilson, ritengono che una campionatura “casuale” di dati riguardanti 25 società, sulle 700 che compongono gli HRAF, consolidi le affermazioni relative al funzionalismo delle norme e alla selezione di gruppo. Il che non è certo sorprendente, dato che i dati raccolti inizialmente negli HRAF furono selezionati precisamente sulla S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 71 base di tali affermazioni. In breve, le analisi fondate sugli HRAF e che vengono portate a dimostrazione del funzionalismo delle norme e della selezione di gruppo sono, in effetti, essenzialmente circolari e non dimostrano quindi assolutamente niente. Elliott Sober e David S. Wilson (1998: 163) giustificano la loro fiducia negli HRAF con apparente malafede: «Ci dicono che numerosi rapporti etnografici datati (che contribuiscono in modo sproporzionato agli HRAF) sovrastimano l’importanza delle norme sociali nelle società tribali. Ricerche più approfondite sulle medesime società rivelano spesso aspetti del comportamento più flessibili e individualisti […]. Tuttavia, è importante evitare la presunzione secondo cui le conoscenze progrediscono ineluttabilmente e che gli etnografi moderni sono invariabilmente più preparati dei loro predecessori». Si tratta di un argomento che stupisce, poiché non viene fatto alcun tentativo di esaminare le obiezioni teoriche o le alternative empiriche al funzionalismo che hanno segnato la maggior parte degli sviluppi in questo campo nell’ultimo mezzo secolo.È ancora più stupefacente vedere che biologi affermati, che per il resto dubitano che la selezione di gruppo contribuisca a spiegare la biologia delle colonie di organismi non umani, accettino senza indugi le affermazioni di Sober e Wilson sul ruolo funzionale delle norme sociali nella selezione di gruppo per quanto riguarda le culture umane. Queste affermazioni sono salutate come gli aspetti “più gratificanti” (Maynard Smith, 1998) e “più validi” (Reeve, 2000) dell’opera di Sober e Wilson nonché il contributo maggiore e originale della teoria della selezione di gruppo alla teoria dell’evoluzione (cfr. Williams, 1992)2. 2 I modelli di selezione di gruppo forniscono semplicemente un’altra prospettiva sugli stessi processi selettivi descritti dai modelli di selezione a livello individuale, anche se questo cambiamento di prospettiva non è sempre banale. I due tipi di modelli sono formalmente equivalenti, come il risultato dell’espressione matematica G(i+j) è uguale a quello di Gi + Gj, dove G, in questo caso, può rappresentare la “componente collettiva” e i e j le “componenti individuali”. La comprensione di questa equivalenza deriva dalla conoscenza scolastica che la moltiplicazione è distributiva in rapporto all’addizione (si veda Reeve, 2000). 72 Modelli della mente e processi di pensiero È come se degli antropologi consigliassero a dei biologi di ignorare le teorie e le scoperte degli ultimi cinquant’anni in biologia (per esempio il DNA, i neurotrasmettitori, la clonazione) in favore di quelle di un’epoca passata. Naturalmente è possibile che non ci siano stati avanzamenti interessanti nella comprensione antropologica del pensiero e del comportamento umano durante la seconda metà del XX secolo. Comunque, questa critica necessiterebbe un’analisi approfondita e non un rifiuto privo di argomentazioni. In realtà, ci sono stati dei progressi notevoli che hanno reso problematiche le proposte funzionaliste. 2.1. Norme nebulose L’utilizzo delle norme come unità di evoluzione culturale è modellato sull’utilizzo dei geni come unità di selezione biologica. Per i geni, esiste una definizione operazionale abbastanza chiara: sono le unità di informazione codificate dal DNA che sopravvivono alla divisione sessuale, ossia, alla meiosi (benché un incrocio si possa produrre lungo una sezione di DNA). Le “unità definibili” della selezione genetica possono essere dei tratti relativamente discreti, come il sesso, o continui, come l’altezza. I tratti continui possono a loro volta essere associati, o “mescolati”, Ammettiamo che E(x) sia la progenie di Ego e che A(x) sia la progenie di un altro individuo (A). Seguendo William Hamilton (1964), la selezione agisce su x per massimizzare la seguente quantità di vantaggi inclusivi: ReE(x) + RaA(x) dove Re è la prossimità di Ego alla propria progenie e Ra la prossimità di Ego alla progenie dell’individuo A. Così, l’“altruismo parentale” si produce nella misura in cui ReE(x) diminuisce rispetto a RaA(x). Una variante di questa quantità, dal punto di vista della selezione di gruppo, è: che E(x) sia la frazione prodotta da Ego del totale della progenie, F(x), moltiplicata per la progenie totale del gruppo, G(x), e che A(x) sia la frazione prodotta dall’individuo A, quindi 1 – F(x), moltiplicata per G(x), tali che: ReE(x) + RaA(x) = ReF(x)G(x) + Ra[1-F(x)]G(x) = G(x)[Ra + (Re – Ra)F(x)] = G(x) ReF(x) ogni volta che Ra = 0 (ossia, ogni volta che l’individuo A non è un parente di Ego). Allora, l’ “altruismo di gruppo” ha luogo quando il comportamento (di Ego) aumenta la produzione del gruppo, G(x), diminuendo la componente egoista ReF(x), e un vantaggio a livello del gruppo si produce nella misura in cui G(x) viene massimizzata. La sola differenza tra la selezione a livello individuale fondata sul vantaggio inclusivo e la teoria della selezione collettiva è che la prima propone l’ “altruismo parentale” come paradigma dell’altruismo, e la seconda l’ “altruismo di gruppo” come paradigma dell’altruismo. Almeno in biologia, non è questione che di differenti prospettive. S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 73 come l’altezza e il colore della pelle. Ma deve esistere un rapporto statistico positivo tra il valore medio di un carattere in un dato momento e il valore dello stesso carattere in un momento successivo. Per essere dei selezionisti darwiniani, le unità di selezione devono soddisfare tre condizioni: 1) avere dei tassi di mutazione sufficientemente elevati per mantenere una variazione in seguito selezionabile; 2) le varianti devono sopravvivere abbastanza a lungo per essere trasmesse ed essere ereditabili; 3) le varianti ereditabili devono poter essere copiate da una generazione all’altra con una fedeltà relativamente alta, per rassomigliarsi fra loro più che alle altre concorrenti. Si ritiene che anche le norme siano discrete (per esempio la guida a destra o a sinistra), continue (per esempio l’ideologia politica destra-sinistra) o mescolate (per esempio i principi del nazional-socialismo). Si ritiene che acquisiscano le caratteristiche di variabilità, ereditabilità e alta fedeltà di copia, attraverso diversi mezzi quali le credenze, il condizionamento classico, l’apprendimento formale e informale e l’imitazione. Eppure, non esiste un modo evidente per decidere cosa possa essere considerato una norma. Non ci sono gruppi di criteri per determinare se le unità o i “frammenti” di informazione scelti ritagliano le società nelle loro articolazioni naturali. Senza unità operazionali, non possiamo aspettarci né selezione darwiniana né comprensione scientifica. È raro che le menti individuali incarnino completamente delle norme (almeno come quelle descritte dagli antropologi o dai politologi) o pratichino un comportamento assolutamente normativo. Le norme abbracciano rappresentazioni e azioni collettive. Ma, contrariamente a ciò che vale per uno schema ideale, le distribuzioni reali delle rappresentazioni e dei comportamenti che le norme dovrebbero sintetizzare mancano di una definizione netta, di limiti coerenti e di una struttura coesiva (cfr. Lawrence e Murdock, 1949). Prendiamo la seguente descrizione di una delle “regole” per corteggiare le ragazze bontok del nord delle Filippine (Keesing, 1949: 589): 74 Modelli della mente e processi di pensiero «Possiamo descrivere la norma di comportamento dei giovani in questo modo. Un ragazzo non può entrare in una olag [casa delle giovani] nella quale si trovino parenti stretti come sua sorella o sua sorellastra […]. Qualora ci sia una parente femmina meno intima come la cugina, una zia o una nipote, può entrare, ma deve “trattenersi” invece di corteggiare la ragazza. Queste regole sono tanto più efficaci poiché i ragazzi e le ragazze hanno raramente occasione di avere degli incontri intimi al di fuori dell’olag». Qui, la norma congetturata è che il grado di parentela determini il grado in cui un giovane bontok si “trattenga” o meno dal corteggiare una ragazza. Se viola questa norma è punito con una disapprovazione che potrebbe (oppure no) avere effetti su suoi rapporti futuri. È difficile identificare quale segmento discreto o continuo di idee o di comportamenti possa costituire una “unità di selezione” nel senso di un tratto che si possa replicare, ripetersi, o persistere con una relativa alta fedeltà attraverso gli individui e le generazioni. Anche le credenze religiose più normative sembrano mancare di contenuto o di consenso definiti (nel senso di un insieme di proposizioni alle quali una data popolazione accorda il proprio assenso). Per esempio, in occasione di esperimenti condotti in alcune classi universitarie, abbiamo chiesto agli studenti di scrivere su un foglio i significati di tre dei Dieci Comandamenti: 1) Non avrai altro dio all’infuori di me; 2) Ricordati di santificare le feste; 3) Onora il padre e la madre. Contrariamente alle aspettative degli stessi studenti il consenso è stato minimo. Per esempio, nello stessa classe, il Primo Comandamento ha suscitato le seguenti interpretazioni: “Servi solamente il dio cristiano”; “Non credere che a ciò che è buono o andrai all’inferno”; “Guardati dall’interessarti troppo alle ricchezze e alle cose materiali”; “Sii fedele a te stesso e non compromettere gli ideali per soddisfare bisogni immediati”; “Non seguire i cattivi esempi”; “Significa che a un mentitore – uno che non coopera – non bisogna dare fiducia”; e così via. Queste risposte, a loro volta, vennero presentate agli studenti di un altro corso ai quali domandammo di nuo- S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 75 vo il significato degli enunciati. Nessuno di loro riprodusse una versione riconoscibile del primo comandamento. Le interpretazioni degli altri comandamenti, anche tra i membri di una scuola religiosa di una chiesa pentecostale, hanno manifestato una gamma simile di variazioni (Atran, 2001a). Si dovrebbero ritrovare questi risultati in qualsiasi gruppo di cultura giudeo-cristiana. Questo, malgrado le affermazioni frequenti secondo cui i Dieci Comandamenti sono tra le norme più costanti della vita contemporanea (Frank, 1988), con dei significati che sono cambiati poco dai tempi biblici (Schlesinger, 1999). Non solamente si incontrano dei problemi per precisare il contenuto delle norme di cui i gruppi beneficiano ma anche chi ne benefici realmente. Supponiamo che l’adesione al Primo Comandamento abbia originariamente beneficiato al popolo che l’ha utilizzato per primo, ossia, le dodici tribù degli antichi ebrei. Quali “discendenti” ne hanno tratto benefici in seguito? Gli ebrei contemporanei degli Stati Uniti, d’Israele, della Cina o dell’Etiopia, per i quali il Primo Comandamento implica certo qualcosa, ma non certamente quello che era direttamente implicato nell’antichità. Per esempio, «Tu non ti farai degli idoli e non li servirai» (Esodo 20: 5) è servito esplicitamente per giustificare la guerra di conquista che ha portato all’annessione dei gruppi concorrenti degli Ebrei per il controllo di Canaan: «poiché io, il Signore, sono il tuo Dio, un Dio geloso, che punisce la colpa dei padri nei figli fino alla terza e alla quarta generazione» (il che è in accordo con le tradizioni di guerra dei clan patrilineari che ritroviamo ancora oggi presso i popoli pastorali del Medio Oriente; Atran, 1985a). Siamo ben lontani dal semplice avvertimento contemporaneo contro l’attaccamento all’egoismo o ai beni materiali. È possibile che i Crociati che saccheggiarono Gerusalemme uccidendo tutti gli ebrei e i musulmani che incontrarono, o i conquistadores e altri poteri coloniali cristiani, divennero gli “autentici” discendenti dei portatori dei comandamenti divini. Infatti, anch’essi hanno violentemente messo in opera lo “stesso” comandamento ricordando le azioni degli antichi Ebrei. Come ri- 76 Modelli della mente e processi di pensiero porta Bernardino di Sahagun (1989, XX: 76-77): «È ciò che gli Spagnoli hanno fatto subire agli indiani messicani poiché questi ultimi li hanno offesi adorando i propri idoli […]. [Gli Spagnoli] gli tagliarono le mani e la testa così che caddero e morirono». Dal loro punto di vista, talebani e altri fondamentalisti musulmani contemporanei non sono gli autentici discendenti portatori di “vantaggi ereditari”? Anch’essi, infatti, si sforzano di distruggere tutti gli “idoli” (immagini) e coloro che li onorano, ossia gli ebrei e i cristiani infedeli. Anche nel caso in cui fosse possibile fare ancora meglio degli storici dimostrando linearmente chi ha ereditato che cosa, la questione di sapere come i gruppi autenticamente “ereditari” manifestino un vantaggio ereditario rimane disperatamente vaga. Qual è il senso delle “conseguenze del vantaggio ereditario al livello delle culture o delle società prese nella loro interezza”? Come ha ricordato Dan Sperber in una e-mail (31 marzo 1996) alla Human Evolution and Behavior Society a proposito del lavoro di D.S. Wilson: «Solo alcuni sistemi sociali hanno dei “discendenti” per divisione e colonizzazione di nuovi territori. Certo, il fatto di avere discendenti di questo genere, anche se concepibile come segno di vantaggio ereditario (fitness), non ne costituisce per questo una condizione necessaria. Il vantaggio ereditario è allora questione di grandezza della popolazione appartenente al sistema sociale? Di variazione di questa grandezza (per esempio attraverso l’espansione)? Della durata del sistema sociale? Di una qualche combinazione ponderata di grandezza e durata? Se un sistema sociale si estende e si trasforma rapidamente, come la maggior parte dei sistemi imperiali, il successo sembra affermarsi a spese dell’ereditabilità. Allora chi manifesta il vantaggio ereditario?». 3. Un buon esempio di selezione di gruppo? Un esempio ritenuto decisivo per dimostrare la selezione di gruppo tra gli esseri umani appare nel caso, analizzato da D. S. S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 77 Wilson (1998), della pratica del “furto tollerato” nelle società di cacciatori-raccoglitori. Per spiegare il concetto di “furto tollerato”, che Blurton-Jones (1987) ha definito nel modo migliore, si ipotizza che i cacciatori dividano la cacciagione con i membri del loro gruppo perché sarebbe per loro più costoso non dividerla, e questo per due ragioni. Innanzitutto, dei ladri affamati sono più invogliati a battersi per una parte di carne di quanto dei cacciatori sazi lo siano per impedire agli altri di ottenere una parte della caccia. In secondo luogo, ci sono dei vantaggi socio-economici indiretti provenienti dalla divisione del cibo che compensano e sorpassano il costo individuale di questa divisione. Per esempio, chi divide acquisisce la reputazione di “buon ragazzo prospero” e uno status sociale superiore, l’accesso a un ventaglio più ampio di partner sessuali, l’aiuto incondizionato degli altri in caso di necessità e cosi via (cfr. Hill e Kaplan, 1993). Tuttavia, nella reinterpretazione di Wilson, gli individui che dividono il cibo rischiano di non essere mai completamente ricompensati all’interno del proprio gruppo. La selezione all’interno del gruppo ricompensa il ladro – al pari dell’imbroglione, approfitta del lavoro degli altri, spendendo così meno energie per lo stesso guadagno. Di contro, la selezione tra gruppi favorirebbe il cacciatore – all’interno di una metapopolazione, i gruppi che comprendono dei cooperatori prevarrebbero sui gruppi costituiti esclusivamente da non cooperatori egoisti. Il vantaggio riproduttivo (biologico o culturale) dei cacciatori sarebbe più elevato all’interno della metapopolazione, anche se rimarrebbe basso nei gruppi costituiti sia da imbroglioni che da cacciatori. In questa interpretazione, la selezione all’interno del gruppo sembrerebbe insensibile al benessere del gruppo. Tuttavia, la teoria del vantaggio riproduttivo inclusivo sembra indicare che il benessere del gruppo e il vantaggio individuale siano intimamente legati: se il costo individuale della cooperazione in un gruppo è meno elevato che il beneficio assoluto che possiamo ricavare da questo gruppo, i cooperatori individuali che si sacrificano possono (a lungo termine) beneficiare della loro appartenenza più di 78 Modelli della mente e processi di pensiero quanto accadrebbe se fossero dei puri egoisti. Se i cooperatori sono coscienti dei vantaggi sociali che apporta la divisione o delle punizioni che si accompagnano al rifiuto di essa, queste sollecitazioni devono figurare nel calcolo globale degli interessi personali dell’individuo. David S. Wilson (1998: 93) risponde che le sollecitazioni sociali sono esse stesse delle norme di selezione di gruppo che sono più vantaggiose per l’insieme del gruppo che per i singoli individui che le devono seguire o non seguire: «paragonare i gruppi umani a degli alveari o a dei [super] organismi unici […] sembra ragionevole se pensiamo ai meccanismi di controllo sociale». Se la divisione dei beni è effettuata volontariamente, in accordo con le sollecitazioni sociali, ma a spese dell’individuo, la persona che divide è altruista. Una società che comprende almeno qualche vero altruista avrà un vantaggio nella solidarietà organica rispetto alle società rivali, perché si ottiene di più raggruppando delle risorse che consumandole ciascuno per conto proprio. Qui, la nozione di auto-sacrificio “volontario” è centrale. Uno dei problemi è che le ricompense e le punizioni possono essere implicite e lontane, e la loro influenza in tutti gli atti “volontari” di divisione della cacciagione può non essere sempre evidente (Hill e Kaplan, 1993; Hawkes, O’Connell e Rogers, 1997). Secondo l’economista Robert Frank (1988) un’emozione incontrollabile accompagna alcuni impegni, come l’amore romantico o la fede religiosa, che possono finire per corrispondere a delle lontane ricompense della selezione naturale. Prendendo adesso impegni apparentemente irrazionali e sacrificando i propri interessi immediati (abbandonando la ricerca di partner sessuali, donando i propri beni) ci si convince involontariamente, convincendo così anche gli altri, della propria sincerità. Il che, a sua volta, incoraggia la reciprocità a lungo termine e un’assistenza futura in caso di necessità. Un ulteriore problema riguarda le stesse descrizioni normative. Come sanno tutti i ricercatori sul campo, le interviste spingono spesso gli informatori a descrivere un comportamento ottimale (cfr. Freeman, 1983). Questo li conduce a: S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 79 «[…] presentare un resoconto normativo. Questi resoconti sono spesso non ambigui e precisi e possono associarsi a delle visioni romanzate sul loro modo di vivere, autorinforzandole, come nel caso delle regole di divisione della cacciagione e di utilizzo collettivo delle risorse naturali». (Peterson, 1993: 870) Per esempio, sebbene gli antropologi sottolineino che siano i cacciatori-raccoglitori stessi ad insistere sulla generosità, «l’osservazione e i dati etnografici suggeriscono che donare e dividere siano spesso la risposta a domande dirette, verbali o no» (ibidem: 860). Se la generosità è volontaria, allora perché deve essere così spesso sollecitata di fronte a un’evidente avarizia? In breve, i casi evidenti di altruismo volontario possono essere in realtà risposte più sottili, talvolta involontarie e inconsapevoli, a bisogni individuali. Un altro supposto esempio dell’importanza dei tratti favoriti dalla selezione di gruppo proviene da una variazione del commongarden experiment in biologia. Quando i membri di una specie hanno fenotipi differenti in ambienti differenti, vengono presi dei campioni nei due ambienti e vengono trapiantati in uno solo dei due. Se le differenze persistono, esse sono probabilmente genetiche (due genotipi), altrimenti sono verosimilmente ambientali (il medesimo genotipo che produce due fenotipi differenti). Ora, «la miglior prova dell’importanza delle norme culturalmente trasmesse sul comportamento sono i dati che mostrano che gruppi di persone con differenti storie culturali si comportano in modo differente nello stesso ambiente» (Boyd, in corso di stampa). Sia Boyd (ibidem) che Sober e Wilson (1998) citano l’analisi di Ray Kelly (1985) su i Nuer e i Dinka del Sudan. Lo studio di Kelly è una rilettura penetrante della monografia classica di Edward Evans-Pritchard (1940), I Nuer. I Nuer è organizzato secondo i principi funzionalisti dell’epoca, che si basano sulla nozione di struttura sociale. Il governo coloniale del Sudan anglo-egiziano aveva infatti incaricato Evans-Pritchard di intraprendere uno studio dei valori essenziali dei Nuer allo scopo di fornire «un profilo realistico della loro struttura sociale» (ibidem). 80 Modelli della mente e processi di pensiero Ray Kelly (1985) sostiene che sia l’importanza del prezzo della sposa, sia la loro regola di discendenza patrilineare, procuravano un vantaggio ai Nuer rispetto ai loro vicini Dinka. Questi ultimi non avevano un sistema di lignaggi segmentario rinforzato da un prezzo della sposa elevato. Non potevano coalizzarsi in grandi gruppi per due ragioni: da una parte, i Dinka occupavano, con le loro mandrie, luoghi stabili e prefissati durante la stagione delle piogge, limitando la loro mobilità geografica e sociale. Dall’altra, distribuivano beni e responsabilità tra i parenti patri- e matrilaterali. Questa situazione limitava la loro possibilità di alleanza alle reti bilaterali diffuse, mentre i Nuer erano in grado di mobilitarsi con delle linee di separazione e di adesione relativamente ben delimitate. Argomenti abbastanza simili si applicano alla capacità delle tribù arabe di frazionarsi e fondersi secondo linee segmentarie patrilineari in funzione delle condizioni politiche, economiche ed ecologiche e, storicamente, di intraprendere vaste conquiste a spese dei vicini (Murphy e Kasdan, 1959; Cuisenier, 1975; Atran, 1985a). Si tratta, in casi come questi, di resoconti utili e informativi di idee e comportamenti normativi, anche se la meccanica reale di formazione e segmentazione delle alleanze è più sfumata e complessa. Nei suoi lavori sulla segmentazione patrilineare e i tipi di rivalità tra i beduini della Cirenaica (Libia), Peters (1967) dimostra che quello che viene definito sistema segmentario è ben più rigidamente “normativo” nella letteratura etnografica che presso gli stessi autoctoni (si veda anche Atran, 1985b). Questo perché i governi coloniali hanno incoraggiato descrizioni normative delle usanze tribali a fini amministrativi e di controllo politico. Allorché gli autoctoni non si conformavano a queste norme (non segmentando e non delimitando nettamente i territori tribali), le autorità coloniali li obbligavano a conformarsi ad esse. Ne risultò una sorta di profezia autorealizzantesi: gli antropologi e gli amministratori hanno contribuito a imporre il comportamento normativo che essi stessi descrivevano. S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 81 4. La mente mancante In queste teorie della selezione di gruppo, il funzionalismo, che regge bene in biologia, viene confuso con il funzionalismo in antropologia, che declina da mezzo secolo. Il funzionalismo in antropologia è divenuto una metafora moribonda, quando derivava esso stesso dalla biologia del XIX secolo, dove si è in seguito sviluppato in un programma di ricerca produttivo. Uno degli inconvenienti immediati del funzionalismo nello studio delle società umane è che non tiene conto dell’intenzionalità e di altri aspetti critici della cognizione. In biologia, il prendere le distanze dall’intenzionalità ha condotto a un miglioramento della comprensione. In antropologia e in psicologia, il prendere le distanze dall’intenzionalità ha condotto al vicolo cieco del comportamentismo. Dopo le critiche devastanti del linguista N. Chomsky (1959) contro il comportamentismo, questa corrente si è praticamente esaurita nelle scienze cognitive. I teorici attuali della selezione di gruppo non menzionano il comportamentismo (o l’associazionismo) ma nemmeno fanno riferimento alle strutture cognitive o ai processi causali della mente umana anche se sono questi ultimi a determinare, in effetti, il modo in cui l’informazione è strutturata nel cervello per produrre i comportamenti che stanno alla base della società. Non viene fatto riferimento né alle diverse componenti del cervello, né alla sua architettura computazionale (ossia la mente), né tantomeno ai ruoli causali molto differenti che giocano queste componenti nella genesi del comportamento. Certo, si fa talvolta riferimento al “connessionismo” (il volto moderno dell’associazionismo classico). Ma l’accento è posto sulla separazione causale e analitica tra processi sociali e processi psicologici (cfr. Cavalli-Sforza e Feldman, 1981; Boyd e Richerson, 1985; Wilson, 2002). Le strutture mentali sono semplicemente dei “meccanismi prossimali” che si possono ignorare – almeno allo stadio iniziale dello studio – nella ricerca di una descrizione scientifica della cultura. Anche se le culture umane si sono evolute «per funzionare 82 Modelli della mente e processi di pensiero come unità adattive tramite numerosi meccanismi prossimali» (Sober e Wilson, 1998: 182) è possibile studiare le culture come “fenotipi” senza descrivere il meccanismo computazionale prossimale che le genera: «Se i meccanismi prossimali generano una variazione ereditabile, gli adattamenti si evolveranno per selezione naturale. Da un certo punto di vista, il meccanismo prossimale non ha importanza. Se si pratica una selezione a favore di lunghe ali nella drosophila e si ottengono lunghe ali, è importante la via di sviluppo specifica seguita? […] se gli esseri umani si sono evoluti per coalizzarsi in gruppi funzionalmente organizzati, ciò che pensano o provano è importante?» (Sober e Wilson, 1998: 193). Esistono, in effetti, due classi di persone che si preoccupano di ciò che gli altri pensano o provano: il primo è composto dalla maggior parte degli esseri umani nella loro vita quotidiana, il secondo da numerosi psicologi e antropologi. È verosimile che i primi si comportino in una data maniera perché i suoi membri pensano e provano emozioni in una data maniera. Quanto ai secondi, da circa quarant’anni, hanno elaborato una scienza che tenta di comprendere questa regolarità causale, ossia la scienza cognitiva. Per esempio, i bambini imparano, a partire da esperienze abbastanza povere e frammentarie, che le cose animate causano regolarmente certi comportamenti nelle altre persone senza che ci sia contatto fisico. Al contrario, gli oggetti inanimati necessitano solitamente di un contatto fisico per entrare in relazioni causali. Siamo portati a ritenere che gli esseri umani inferiscano “automaticamente” (tranne nel caso in cui, come per gli autistici gravi, il loro cervello sia danneggiato) che gli altri esseri umani abbiano una mente che ragiona in termini di interazioni causali. Lo stesso vale per quanto riguarda la comunicazione tra persone e agenti soprannaturali (nonché tra gli antropologi e i loro informatori). La religione in generale – e divinità, fantasmi, diavoli e demoni, in particolare – è culturalmente diffusa in ogni dove, poiché soddisfa invariabilmente o manipola sistematicamente le S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 83 condizioni di input di moduli cognitivi (o facoltà mentali) frutto dell’evoluzione della mente-cervello umano (Atran e Sperber, 1991; Boyer, 1994; Atran, 2002). In effetti, le persone, quale che sia la loro cultura o il loro linguaggio, hanno bisogno di poche o di nessuna istruzione per comprendere, per esempio, che c’è differenza tra la simulazione e la realtà, ciò che differenzia il “centro” e il “bordo” di non importa quale oggetto, come costruire una frase interrogativa a partire da una frase dichiarativa, quali sono gli indizi abituali e transculturali per distinguere una persona triste da una felice. Senza queste competenze biologicamente predisposte – prodotto di milioni di anni di evoluzione biologica e cognitiva – l’acquisizione da parte di un bambino di un tale ventaglio di sapere culturale in così poco tempo tenderebbe al miracolo. Lo stesso avviene per la capacità di tutti gli adulti di integrare nel corso della propria vita un numero così alto di informazioni, o per la capacità di tutti gli antropologi di comprendere una parte significativa di una cultura straniera durante pochi soggiorni sul campo. I teorici delle norme in generale, e quelli della selezione di gruppo in particolare, comunque, possono riconoscere una buona parte di questo stato di cose, affermando tuttavia che ciò che ci interessa non è a questo livello (Boyd e Richerson, 2001b): «Seguendo questo argomento, gli esseri umani possono agilmente e in modo naturale fare le cose per cui noi siamo realmente adatti, come apprendere una lingua o comprendere i sentimenti degli altri […]. Ma se dovessimo [reinventare un sapere culturale, per esempio, la tecnologia] saremmo capaci di reinventarlo allo stesso modo in cui i bambini fang inventano le proprietà dei loro fantasmi o i bambini in generale possono inventare una grammatica? Buone questioni, ma pensiamo che la risposta sia quasi certamente: “siete matti?”». Per esempio, sopravvivere soli nel deserto australiano in costume adamitico è una prodezza quotidiana per un aborigeno australiano, come lo è per un Maya il fatto di passare mesi da solo nella 84 Modelli della mente e processi di pensiero foresta tropicale. Ma un turista che si trovasse in tali situazioni, farebbe certo meglio a chiedere consiglio a un autoctono piuttosto che tentare di affidarsi unicamente alle competenze innate. In più, da un punto di vista cognitivo, certi aspetti della cultura sono davvero arbitrari, come i differenti sistemi elettorali, le circoscrizioni e le frontiere amministrative, la guida a sinistra piuttosto che a destra, ecc. Una volta messi in piedi, possono avere degli effetti valanga nell’insieme delle rappresentazioni mentali e pubbliche che costituiscono la “cultura” di una popolazione, e la loro violazione può causare uno sconvolgimento sociale. Le persone spendono energia e tempo per apprendere e cavarsela con tali regole e pratiche. In quest’ottica l’economista Robert Frank sottolinea (1988: 253, citando il sociologo J. Coleman) che «le norme della società costituiscono una parte importante del suo capitale, allo stesso titolo delle sue strade e delle sue fabbriche». Nondimeno, tre domande s’impongono: 1) le società umane consistono essenzialmente di insiemi di queste regole e pratiche normative? 2) le norme sono delle unità fondamentali di selezione per lo sviluppo storico e l’evoluzione culturale? 3) le norme si formano a beneficio del gruppo nonché a spese dell’individuo? Penso che la risposta a tutte queste domande sia negativa. 5. La mente multimodulare Un altro approccio evoluzionistico ai fenomeni cognitivi e culturali si incentra su quello che le analisi funzionali della sociobiologia e di quella che si autodefinisce antropologia “materialista” tendono a ignorare, ossia, i meccanismi mentali che causano il comportamento. La ricerca a proposito di questi meccanismi si fonda su una convergenza di diversi sviluppi teorici risalenti alla fine del XX secolo in psicologia dello sviluppo, in psicolinguistica, in biologia evoluzionistica e in antropologia cognitiva: 1) l’approccio computazionale (la mente-cervello è un calcolatore digitale che lavora su rappresentazioni per mezzo di operazioni sin- S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 85 tattiche su simboli [Marr, 1982]); 2) la specificità dei domini cognitivi (la mente-cervello è un calcolatore digitale multimodulare che funziona con diversi sistemi relativamente autonomi [Hirshfeld e Gelman, 1994]); 3) l’“innatismo” (i differenti moduli mentali sarebbero innati [Fodor, 1983]); 4) l’“adattamentismo” (questi moduli sono stati funzionalmente progettati dalla selezione naturale per risolvere problemi vitali nell’ambiente ancestrale [Barkow, Cosmides e Tooby, 1992]) e 5) l’epidemiologia culturale (le credenze e le pratiche si diffondono, si sviluppano e sopravvivono per selezione culturale, nella misura in cui sono suscettibili di trattamento modulare [Sperber, 1996]). Si ritiene che ogni facoltà modulare, o “organo mentale”, sia governata da un insieme specifico di principi geneticamente determinati. Questi principi interpretano e generalizzano il comportamento e le proprietà delle entità del mondo che appartengono al dominio della facoltà in questione (Chomsky, 2000). La mente multimodulare permette di rendere conto della creatività umana. Lo fa tentando di precisare gli strumenti cognitivi disponibili e le regole ricorrenti del loro utilizzo nella formazione delle culture. Per analogia, immaginiamo di voler costruire una città. Avremmo migliori possibilità creative utilizzando strumenti semplici e multifunzionali oppure una cassetta degli attrezzi riccamente dotata di cui possiamo servirci per realizzare strumenti di costruzione ancora più specializzati (per esempio, le gru)? Ancora, immaginiamo un gioco che abbia poche o nessuna regola e l’obbligo di non cambiare niente. In che modo competenze e strategie sempre più raffinate potrebbero attecchire ed evolversi? Potrebbero, se il tempo fosse illimitato e se i motivi emergenti e accidentali potessero stabilizzarsi e farsi passare surrettiziamente per delle nuove regole. Ma, in generale, più le regole sono particolareggiate e diverse (per esempio, gli scacchi)maggiori sono le possibilità di vedere svilupparsi le competenze, le possibilità di scelta e la complessità. Una struttura modulare, evoluta per selezione naturale, è funzionalmente specializzata per trattare, come input, un dominio 86 Modelli della mente e processi di pensiero specifico di stimoli ricorrenti in un mondo particolarmente pertinente per la sopravvivenza degli ominidi. Un siffatto modulo produce spontaneamente, come output, raggruppamenti di stimoli in categorie, oltre che inferenze relative alle relazioni concettuali fra queste categorie. Plasmata dall’evoluzione, questa struttura cognitiva ha una forte componente innata. Questa rappresenta un adattamento che ha permesso ai nostri antenati di sopravvivere negli ambienti ancestrali rispondendo con rapidità ed economia ad importanti esigenze (statisticamente) ricorrenti, come la capacità di distinguere tra predatore e preda o tra amico e nemico. Fra gli esempi di moduli concettuali si possono includere la biologia intuitiva e la psicologia intuitiva (Atran, 1989; 2001b). 6. La biologia intuitiva Gli esseri umani di tutte le culture sembrano possedere un concetto di specie (intuitivo) e una comprensione dei rapporti tra le specie in termini tassonomici (Atran, 1990, 1998, 1999). Questo implica, da un punto di vista concettuale, che, diciamo, i meli e i tacchini appartengano allo stesso livello fondamentale di realtà biologica (intuitiva); che questo livello di realtà differisca da un livello subordinato che comprende i meli del Trentino e i tacchini ocellati; e che questo livello di realtà differisca anche da un livello superiore che include gli alberi e gli uccelli. Questo quadro tassonomico permette un numero indefinito di inferenze sistematiche e graduali che concernono la distribuzione delle proprietà tra le specie. Per esempio, se scopriamo la medesima proprietà in un tacchino e in un passero, ne inferiamo automaticamente che tutti gli animali che appartengono alla categoria tassonomica immediatamente superiore, in cui sono inclusi il tacchino e il passero (in questo caso, la categoria degli uccelli), condividano verosimilmente la stessa proprietà. La biologia intuitiva comprende concetti non evidenti e non osservabili quali la nozione di essenza S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 87 causale soggiacente, che si attribuisce ad ogni specie animale o vegetale (per esempio, ci si aspetta che una tigre albina con tre zampe che non ruggisce mai, generi comunque delle tigri quadrupedi, striate, e che ruggiscono). Alcune nostre ricerche transculturali dimostrano che, dall’età di quattro anni, i bambini attribuiscono a ogni specie animale una sua propria essenza soggiacente (Atran et al., 2001; Sousa, Atran e Medin, 2002). Come le piogge di montagna convergono verso il medesimo bacino, quale che sia il luogo dove è piovuto, le conoscenze di tutte le persone convergeranno verso un medesimo “bacino” cognitivo. Ciò è dovuto al fatto che: 1) gli input si raggruppano naturalmente in modo causalmente ridondante, poiché è così che è fatto il mondo (per esempio, là dove troviamo ali, troviamo anche spesso becchi; là dove troviamo predatori, troviamo prede;là dove troviamo uccelli che si nutrono di frutta, troviamo alberi da frutto, ecc.); e 2) i moduli specializzati vagliano questi input in modo selettivo per favorire un trattamento efficace delle strutture inferenziali del dominio in questione (per esempio, per organizzare la biodiversità del mondo in un ordinamento tassonomico di specie). Così, la mente è capace di estrarre le istanze frammentarie dell’esperienza vissuta da una persona e di generalizzarle “automaticamente” in un vasto insieme di casi legati in modo coerente e complesso. È per questo che differenti persone, che osservano ciascuna numerosi esempi distinti di cani in situazioni diverse, producono sempre più o meno lo stesso concetto generale di cane. 7. La psicologia intuitiva Gli esseri umani, e forse anche altri oggetti inanimati, sono degli “agenti intenzionali” che agiscono, e causano l’azione di altri agenti, sulla base di “motivazioni interne”. Ciò gli permette di comprendere il modo in cui essi stessi e gli altri possano avere influenza a distanza, ossia senza contatto fisico immediato, su 88 Modelli della mente e processi di pensiero oggetti e avvenimenti. Gli stati mentali causali intenzionali, come le credenze e i desideri, non possono essere percepiti direttamente. Essi vengono inferiti a partire da esperienze frammentarie che fanno scattare un modulo cognitivo apposito, anche se queste esperienze percettive non indicano che movimenti fisici o espressioni corporali, come i movimenti verso un obiettivo, l’autopropulsione e i movimenti coordinati tra il soggetto, lo sguardo e le espressioni facciali o i gesti di interazione. Dall’età di quattro anni, pare, i bambini di tutte le culture attribuiscono alle altre persone motivazioni interne che includono false credenze e inganni (Avis e Harris, 1991; Knight et al., 2003). Prendiamo l’esempio di certe credenze religiose. Le specie della biologia intuitiva sono ben strutturate, attirano l’attenzione, sono facilmente ricordabili e facilmente trasmissibili da mente a mente. In questo modo forniscono dei solidi appigli che servono da sostegno alle conoscenze e ai comportamenti relativi a gruppi sociali meno intrinsecamente strutturati. Permettono così ai gruppi totemici di divenire anch’essi facili da memorizzare, in grado di attirare l’attenzione e facilmente trasmissibili da mente a mente. Come ha affermato Lévi-Strauss (1963), i totem sono “buoni da pensare”. Questo perché il concetto di totem migliora la memorizzazione e la capacità di attirare attenzione, violando in modo esplicito il comportamento generale che ci si aspetta dalle specie biologiche. I membri che appartengono allo stesso gruppo totemico, contrariamente ai membri della stessa specie biologica, non si incrociano tra loro, ma solamente con i membri di altri gruppi totemici creando sistemi di scambio sociale. Questa violazione del sapere relativo al concetto di specie della biologia intuitiva è lungi dall’essere arbitraria: si tratta di una violazione così netta della nostra ontologia intuitiva che finisce per mobilitare la maggior parte delle assunzioni che le persone fanno di solito a proposito del mondo biologico, facilitando così la strutturazione delle società. Simili considerazioni, in rapporto con la psicologia intuitiva, permettono di comprendere meglio certe credenze fondamentali S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 89 di tutte le religioni. Gli agenti soprannaturali (divinità, demoni, angeli, fantasmi, ecc.), che sono banditi dalla scienza ma tenuti in considerazione dalla religione, fanno parte del campo culturale della psicologia intuitiva. Ossia, i concetti degli agenti soprannaturali sono un prodotto “della cultura” che agisce tramite i dispositivi cognitivi modulari per il riconoscimento e l’interpretazione degli agenti intenzionali, come gli esseri umani e gli animali. Utilizzando la nozione “prodotto della cultura”, intendo che le persone agiscono di concerto manipolando causalmente processi modulari in modo contingente – proprio come il trucco e le maschere implicano una manipolazione collettiva, causale e contingente dei dispositivi innati relativi alla percezione delle caratteristiche sessuali secondarie e al riconoscimento facciale (Atran, 2003). I concetti di agente soprannaturale implicano almeno che venga attivato un dispositivo innato di rivelazione di agenti, dispositivo che è parte della psicologia intuitiva. La selezione naturale ha progettato il sistema di rilevazione di agenti per trattare con rapidità ed economia alcune situazioni, comprendenti tanto gli esseri umani e gli animali che predatori, alleati e prede. Come ha sottolineato il biologo Richard Alexander (1987), l’uomo è diventato il peggior predatore di se stesso durante il Pleistocene. Questo ha favorito l’emergere di una facoltà di rilevazione di agenti dotata di un interruttore – un riflesso spontaneo – che risponde a non importa quale condizione d’incertezza (per esempio, rumori o movimenti improvvisi o parzialmente percepiti di notte o in penombra) come se il predatore più scaltro ne fosse la sorgente. Il motivo evoluzionistico è che se ci si sbaglia, non accade niente di grave, ma se si ha ragione, è in gioco la vita stessa. Al contrario, se l’attivazione fosse stata fissata ad una soglia meno elevata (un rumore o un movimento improvviso non ha alcuna importanza di per sé) e ci si sbagliasse sulla natura dell’oggetto che ha fatto scattare il dispositivo, allora le conseguenze potrebbero essere fatali. Così, dunque, questo dispositivo estremamente sensibile di rilevazione di agenti dispone di un interruttore “automaticamente” attivato da informazioni frammentarie e 90 Modelli della mente e processi di pensiero in momenti di incertezza. Questo porta alla percezione di volti nelle nuvole, di voci nel vento, di movimenti subdoli nella penombra e persino (per gli adulti come per bambini di meno di un anno) all’attribuire intenzioni a dei punti o a delle macchie di luce interattivi sullo schermo di un computer. Il fatto che questo meccanismo di rilevazione di agenti si attivi con una soglia bassa si presta agevolmente all’interpretazione soprannaturale di situazioni incerte o ansiogene, soprattutto quando sopravvengono elementi emozionalmente forti, sia che siano aleatori o caotici (terremoti, uragani, inondazioni, siccità) o incerti (malattie, guerre, carestie, solitudine) o che si tratti di avvenimenti naturali che le persone non possono impedirsi di voler controllare, come i momenti critici del ciclo della vita (nascita, pubertà, vecchiaia, morte). In circostanze normali, un vento improvviso può attivare i processi modulari di rilevazione di agenti, ma questi si disattiverebbero dopo un trattamento più approfondito (“è solo il vento”). Manipolando coscientemente gli input che fanno scattare i nostri moduli concettuali e violando alcune assunzioni fondamentali riguardo alla natura abituale di questi input (per esempio, dotando gli esseri soprannaturali di movimenti e di sentimenti, ma non di corpo), il trattamento cognitivo non può mai raggiungere una chiusura fattuale, ossia un’interpretazione stabile (Atran 2002).È così che le credenze riguardo al soprannaturale possono comportare un numero indeterminato di interpretazioni e adattarsi ad un numero indefinito di nuove situazioni, anche se sempre all’interno dei vincoli abbastanza rigidi imposti dalle strutture modulari (Atran e Sperber, 1991; Boyer, 1994). In effetti, molti comportamenti e rappresentazioni culturali derivano dalla manipolazione di moduli percettivi e concettuali, come di altri dispositivi innati evoluti per selezione naturale (come la pornografia, i fast-food e le bibite, che manipolano i nostri bisogni innati di procreazione, di grassi e di zucchero; o anche, in maniera spesso più positiva, come la creazione artistica) (Atran, 2001a, 2002). S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 91 Contrariamente alla trasmissione e alla replicazione genetiche, la trasmissione ad alta fedeltà delle informazioni culturali è più l’eccezione che la regola (Sperber, 1996). La “mutazione” costante e rapida delle informazioni nei tempi della trasmissione culturale determina una proliferazione estremamente varia di informazioni che continuano, malgrado tutto, a soddisfare le condizioni di input dei moduli. Così, alla base della sorprendente diversità culturale ci sono forti vincoli imposti dall’evoluzione. I tipi di informazione che hanno più possibilità di divenire “culturali” sono quelli più suscettibili di trattamento modulare. Queste informazioni sono quelle più facilmente acquisite dai bambini, più agevolmente trasmissibili da un individuo a un altro, più adatte a sopravvivere attraverso le generazioni, più suscettibili di riapparire in culture diverse e soggette alla variazione e all’elaborazione culturale. Questi stessi vincoli universali permettono e incoraggiano una ricca e spettacolare fioritura dei diversi sviluppi culturali. E ciò, come vedremo, anche se l’ambiente fisico rimane identico. 8. L’epidemiologia culturale: l’esempio delle Basse Terre Maya Nei resoconti normativi ci sono pochi dettagli che permettono un’analisi della variazione individuale e del grado di accordo o disaccordo all’interno dei gruppi o tra gruppi diversi. Senza questi dettagli, le affermazioni normative sono difficili da verificare o da falsificare. La ragione di ciò è semplice: gli antropologi sono di solito incaricati di recarsi, soli, sul campo per più mesi (o qualche anno, in casi rari) e di ricavarne una descrizione della società studiata. L’immagine popolare dell’antropologo con un cappello coloniale e un blocco per gli appunti non è così lontana dalla realtà; anche se, ai nostri giorni, si tratta semmai di un berretto e di un computer portatile. In questa situazione, non ci sono reali alternative alla descrizione normativa (eccetto le “narrazioni” del post-modernismo antipositivista, che non facilitano certo il dialogo con l’insieme della comunità scientifica). 92 Modelli della mente e processi di pensiero Analisi dettagliate dei rapporti tra l’ecologia, la tecnologia, le reti sociali, i comportamenti e le idee esigono sforzi interdisciplinari reali nel corso di numerosi soggiorni sul campo, comportando un costo che supera quello della tradizionale ricerca sul campo di uno o più ordini di grandezza. Ciò avviene, del resto, in quasi tutta la ricerca scientifica contemporanea, in ogni ambito. Ma, nelle scienze sociali, le istituzioni accademiche e governative non hanno la possibilità di sovvenzionare tali progetti. Di conseguenza i progetti in questo campo si limitano a descrizioni e analisi normative. Ho la fortuna di partecipare a un progetto interdisciplinare che riguarda il tipo di common-garden experiment critico per la selezione di gruppo (come quello descritto nell’esempio dei Nuer-Dinka). In ciò che segue, riassumerò brevemente una serie di studi portati avanti nel corso dell’ultimo decennio. Lo scopo è di individuare i ruoli causali di alcuni fattori socio-culturali (reti sociali e modelli cognitivi) in relazione a fattori economici, demografici ed ecologici per comprendere meglio cosa conduce alcuni gruppi a salvaguardare, ed altri a distruggere, lo stesso ambiente (Atran, 1993; 1999; Atran et al., 1999, 2002; Atran e Ucan Ek’, 1999; Bailenson et al., 2002; Lopez et al., 1997) Una parte dei nostri lavori si svolge in tre villaggi della comunità di San José, situata nella foresta tropicale nella parte centrosettentrionale della regione del Petén in Guatemala: il villaggio abitato dai Maya Itza’ autoctoni di San José, il villaggio degli immigrati ladini de La Nueva San José e il villaggio degli immigrati Maya Q’eqchi’ di Corozal. In questa regione la variazione microclimatica genera un ampio ventaglio di vegetazioni diverse all’interno di una zona relativamente limitata. Una gestione sostenibile di questa diversità ha condotto, nel corso di due millenni, a regimi intercambiabili di silvicoltura. Le nostre ricerche rivelano sorprendenti differenze tra i modelli ecologici popolari delle diverse popolazioni che vivono nello stesso ambiente che costituisce la foresta maya delle Basse Terre. I gruppi studiati non mostrano delle differenze statistica- S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 93 mente rilevanti in ciò che concerne le loro risorse e i loro guadagni, la composizione e la grandezza dei nuclei familiari o la loro capacità di riconoscere le specie locali. Abbiamo analizzato variabili diverse, tra cui: 1) la biodiversità, la biomassa, la composizione chimica e la struttura del suolo nei differenti tipi di lotti (coltivati, a maggese, riserve forestali); 2) i modelli cognitivi relativi ai rapporti ecologici tra piante, animali ed esseri umani; 3) i rapporti statistici tra 1 e 2. Concentriamoci sul punto 23. Agli occhi degli immigrati Maya Q’eqchi’ delle Alte Terre, i vegetali contribuiscono in modo passivo alla vita degli animali, e questi ultimi non hanno alcun effetto significativo sulle piante. I Q’eqchi’ percepiscono l’impatto degli esseri umani sulle piante alimentari, ma accettano come inevitabile la distruzione delle piante che recano un beneficio monetario. Al contrario, i Maya Itza’ possiedono un ricco modello dei rapporti reciproci tra vegetali e animali, all’interno del quale gli animali possono beneficiare o nuocere alle piante e gli uomini tendono a prendersi cura delle piante che hanno un’importanza economica, una prevalenza ecologica e sono più utili per 3 Per cominciare, si domandava ai partecipanti in che modo ciascuna pianta ha effetto su ciascun animale. Per ogni animale selezionato, si domandava agli informatori di spiegare come la pianta ha effetto sull’animale. Poi, si domandava agli informatori se ciascun animale giova (+1), nuoce (-1) o non ha effetto (0) sulla pianta; tutte le spiegazioni venivano registrate. Per ogni coppia di specie, domandammo allo stesso modo se il fatto che una di queste si fosse estinta, avrebbe giovato, nuociuto o non avesse avuto alcun effetto sull’altra. Bisogna ricordare che il sistema di codificazione che abbiamo utilizzato permette ad ogni coppia di specie di essere rappresentata secondo cinque rapporti ecologici popolari che possono essere grossolanamente definiti come: simbiotico (+1, +1), commensale (+1, 0), parassita (+1, -1), reciprocamente distruttivo (-1, -1) o neutro (0, 0). Questa codificazione relativamente semplice riesce a tenere conto di rappresentazioni di interazioni di stupefacente complessità tra tutti i gruppi immaginabili di specie popolari. Ci siamo serviti del Modello del consenso popolare (Romney, Weller e Batchelder, 1986) per determinare se un unico modello dei rapporti ecologici fosse valido per tutti gli informatori di una data popolazione. Si calcola la competenza culturale di ciascun informatore secondo il punteggio sul primo fattore (senza rotazione) dell’analisi fattoriale della matrice di correlazione. Una proporzione molto elevata tra il primo contributo (Eigenvalue) e quelli che seguono, e l’assenza di punteggi negativi sul primo fattore indicano un accordo significativo tra i giudizi di similarità. In conformità con i presupposti statistici del modello, sei informatori sono sufficienti a segnalare una valutazione corretta della competenza culturale con un grado elevato di fiducia. Per esempio, se la competenza culturale media è 0.7, un numero di sei informatori è necessario per classificare il 95% di tutti i giudizi con un livello di fiducia del 95%. 94 Modelli della mente e processi di pensiero gli animali. Gli immigrati ladini, a loro volta, hanno un modello più semplice e privo di reciprocità, in cui gli animali nuocciono alle piante utilizzandole, e gli uomini hanno un impatto limitato sulle piante. Queste notevoli differenze nei modelli ecologici popolari sono correlate con il modo in cui le diverse popolazioni praticano una silvicoltura sostenibile. L’ecologia popolare degli Itza’ mette l’accento sulla reciprocità tra vegetali, animali ed esseri umani; le pratiche agricole degli Itza’ rispettano e preservano la foresta (per esempio, mantenendo una grande biodiversità, una notevole biomassa e preservando gli elementi nutritivi del suolo). L’ecologia popolare q’eqchi riflette delle concezioni secondo cui le piante non sono altro che risorse sfruttabili e gli animali e gli umani hanno poco (leggasi alcuno) impatto su di esse. È per questo motivo che le pratiche agricole q’eqchi’ rovinano la foresta. A metà fra le due stanno l’ecologia popolare e le pratiche agricole dei Ladini. Il tasso di distruzione forestale dei Q’eqchi’ è cinque volte più alto di quello degli Itza’, e quello dei Ladini quasi due volte più alto che quello degli Itza’. In questo contesto globale, gli Itza’ sembrano comportarsi in modo “irrazionale” (secondo la teoria dei giochi) nella misura in cui i loro sforzi tendenti a preservare la foresta “sovvenzionano” di fatto gli sprechi dell’altro gruppo. Più i cooperatori (gli Itza’) investono le loro energie preservando la foresta, più gli approfittatori (i Q’eqchi’) hanno l’opportunità di utilizzarla senza reinvestire nulla. In questo modo, i cooperatori incoraggiano, loro malgrado, la loro stessa scomparsa nella competizione per la sopravvivenza tanto materiale quanto culturale. Ma, nel contesto locale del villaggio, gli Itza’ sembrano essere ecologicamente razionali, nella misura in cui il loro comportamento riesce ad “attirare” un altro gruppo (i Ladini) verso una cooperazione e un utilizzo sostenibile della foresta. Le valutazioni effettuate attraverso un’analisi fattoriale dei modelli cognitivi mostrano che queste disposizioni cognitive riflettono bene, e predicono con sicurezza, sia le regolarità comportamentali che la S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 95 struttura antropogenica della foresta4. Per esempio, l’albero meglio protetto dagli Itza’, il ramon (Brosimum alicastrum), è l’albero che si incontra più frequentemente nella foresta del Petén. Dai tempi dell’insediamento dei Maya, la sua struttura genetica si è trasformata, poiché quest’albero dà frutti tutto l’anno, contrariamente ai ramon delle altre regioni dell’America Centrale. In più, fra tutte le specie selvatiche e coltivate (compreso il mais), i suoi frutti sono quelli che contengono più elementi nutritivi per gli uomini e, siccome anche un grande numero di specie animali dipende da essi per la loro sopravvivenza, gli Itza’ considerano questo albero come la “milpa5 degli animali”. Questi risultati rimettono in discussione il modo di concepire la “tragedia dei beni collettivi” (tragedy of the commons). Questo, e altri dilemmi sociali simili, sono delle varianti di un problema fondamentale della teoria dei giochi conosciuto come “dilemma del prigioniero”. Prendiamo un gruppo di n persone che dividono un territorio comune, di grandezza fissa, all’interno del quale cacciano. Ogni cacciatore può scegliere tra due possibilità: o coopera con gli altri non abusando del proprio diritto di caccia limi4 Quando, come è stato il caso dei gruppi studiati, c’è un consenso formale (vale a dire, una soluzione fattoriale unica di un’analisi delle componenti principali), abbiamo la possibilità di raggruppare le risposte individuali in “modelli culturali” (Romney, Weller e Batchelder, 1986). In certi casi, il modello consensuale può manifestare una coerenza e una sistematizzazione che emergono al di là dell’aggregazione delle componenti individuali (come un turbine emerge spontaneamente a partire da diversi movimenti dell’acqua a contatto con un ostacolo) ed essere utilizzato per predire, in seguito, in modo statistico, le regolarità delle risposte di una popolazione data (Lopez et al., 1997). Questa tecnica statistica non solo giustifica l’aggregazione delle risposte individuali in un “modello culturale”, ma anche permette la combinazione di modelli culturali consensuali di popolazioni differenti in un modello “metaculturale” che favorisce il tipo di analisi che i sostenitori della selezione di gruppo preferiscono (per esempio, mostrare come la tendenza media delle regolarità in un gruppo si distingue dalla tendenza media in tutti i gruppi presi in considerazione). La modellizzazione del consenso culturale permette di esplorare le possibili vie di apprendimento e di scambio delle informazioni nei gruppi culturali. Questo, a sua volta, può fare luce sui processi più generali di formazione, trasformazione ed evoluzione culturale. Ricordiamo che contrariamente agli approcci normativi dei rapporti tra cultura, cognizione e comportamento, i modelli prodotti non sono delle interpretazioni sintetiche delle idee e delle azioni delle persone, ma delle tendenze culturali emergenti, che risultano statisticamente dalle rilevazioni del comportamento e della cognizione individuali. 5 Nome indigeno per designare il campo di mais [n.d.t.]. 96 Modelli della mente e processi di pensiero tata, o caccia in modo da avvantaggiarsi, ma che porta in fin dei conti all’impoverimento delle risorse comuni. La seconda opzione sembra più razionale a breve termine. Questo perché il vantaggio per colui che abusa (diciamo, una unità di beneficio) prevale sullo svantaggio a breve termine, poiché questo è ugualmente distribuito con gli altri cacciatori (1/n). Se tutti cooperano, i beni collettivi sono preservati. Ma se la logica dell’interesse personale prevale nel gruppo, nessuno si sentirà motivato a cooperare e tutti imbroglieranno (Hardin, 1968). Altri studi sperimentali e ricerche sul campo indicano che la logica del calcolo personale conduce collettivamente alla distruzione delle risorse comuni di una società, a meno che non siano create istituzioni o altri meccanismi normativi per restringere l’accesso ai beni ai soli cooperatori (Berkes et al., 1989; Atran, 1985b). Se questo avviene, i “bisogni di base” delle persone sono soddisfatti, quale che sia la grandezza del gruppo e la consapevolezza della tragedia possibile (White, 1994). Tuttavia, i risultati delle nostre ricerche non mettono in evidenza né che le norme siano fondamentali per spiegare le differenze culturali nell’approccio al problema dei beni collettivi, né che i meccanismi istituzionali siano i mezzi esclusivi o principali per preservare le risorse. Le strutture istituzionali che facilitano la cooperazione ed impediscono l’accesso agli estranei e agli impostori (free-riders), non assicurano un comportamento collettivo non distruttivo rispetto ai beni comuni della regione del Petén. In effetti, le istituzioni cerimoniali e comunitarie che regolano le responsabilità reciproche sono manifestamente più ricche tra i Q’eqchi’ che tra gli Itza’. Queste istituzioni comprendono l’obbligo della divisione del lavoro e dei viveri, quanto cerimonie particolari legate all’agricoltura. Ma per i Q’eqchi’, contrariamente a quanto avviene per gli Itza’, gli elementi del paesaggio del Petén non sono meritevoli di protezione e di devozione collettiva o individuale. Ciò indica che una lingua indigena vitale, una vita cerimoniale robusta, istituzioni culturali collettive e gruppi parentali che cooperano non sono né necessari né sufficienti per S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 97 gestire in modo sostenibile un patrimonio ambientale comune in una società tradizionale. Effettuando la medesima ricerca tra i Q’eqchi’ nel loro ambiente nativo delle Alte Terre, abbiamo scoperto che possiedono, anche là, modelli ecologici relativamente poveri. I nostri risultati rimettono in discussione anche un principio fondamentale dei modelli normativi (Axelrod, 1997), ossia che le società che non condividono norme pre-esistenti (per esempio, gli Itza’ e i Ladini) siano meno suscettibili di interazioni e di convergenze rispetto alle società che le condividono (per esempio, gli Itza’ e i Q’eqchi’). L’analisi delle reti sociali corrobora il rapporto intimo tra modelli cognitivi e comportamenti nei casi di Itza’ e Ladini. Per ciascuna comunità, abbiamo cominciato da sei uomini e sei donne, senza legami stretti di consanguineità o di affinità. Ad ogni informatore è stato domandato di spiegare sotto quali aspetti le persone citate in questa rete sociale fossero importanti nella sua vita. Qualche giorno dopo, venne domandato a ciascun informatore di nominare, in ordine di priorità, le sette persone “alle quali si rivolgerebbe se ci dovesse essere qualcosa che non comprende e vuole sapere sulla foresta / la pesca / la caccia”. Furono poste altre questioni agli informatori, riguardo al tipo di informazioni che avrebbero cercato in questa rete di esperti. Dopo avere eseguito queste interviste con il nostro gruppo di informatori iniziale, abbiamo utilizzato un “metodo a valanga” per estendere queste reti centrate su Ego al contesto più ampio della comunicazione sociale strutturata nella quale queste reti hanno effetto. La sovrapposizione più marcata dei due tipi di rete si trova tra gli Itza’, e la meno marcata tra i Q’eqchi’. Per gli Itza’, quattordici dei partner sociali più frequentemente citati figurano tra i ventidue esperti della foresta più citati. Per i Ladini, undici dei partner sociali più citati fanno parte dei venticinque esperti della foresta più citati. I Ladini e gli Itza’ non citano mai istituzioni esterne come esperti della foresta. Per i Q’eqchi’, che hanno le reti sociali più dense e centralizzate, solo sei dei partner sociali nomi- 98 Modelli della mente e processi di pensiero nati figurano tra i diciotto esperti della foresta più citati, ma i primi sono citati meno sovente come esperti di quanto non lo siano delle istituzioni esterne (in particolare, una ONG con sede a Washington e il servizio governativo responsabile della gestione dei parchi nazionali). Così, le popolazioni differiscono nettamente quanto alla loro struttura di reti sociali e di esperti. Queste differenze si ripercuotono sulle visioni del flusso d’informazioni che riguarda la foresta. Le reti di esperti q’eqchi’ indicano che le informazioni riguardo alla sopravvivenza della foresta provengono, sul lungo termine, da organizzazioni esterne che hanno poca esperienza di lunga durata nella regione del Petén. Ciò che più conta, quale che sia l’informazione esterna, questa non sembra in grado di penetrare in profondità la comunità q’eqchi’ poiché non viene trasmessa da attori sociali pertinenti. Per gli Itza’, le informazioni degli esperti della foresta si rivelano pienamente legate a reti intime dalla vita sociale e ad una storia fondata sull’esperienza di numerose generazioni. Anche per i Ladini, le informazioni degli esperti sono passibili di essere assimilate nella comunità. Poiché gli esperti ladini hanno molteplici legami sociali, le informazioni, che provengono dagli esperti itza’, hanno accesso ad un numero più grande di vie d’interazione. Tra gli Itza’, non abbiamo trovato alcun caso di rapporto statistico tra il consenso comune sulle conoscenze ecologiche in un sottogruppo di informatori e la loro vicinanza in una rete sociale o di esperti. In accordo con questo risultato, gli Itza’ riconoscono di consultare i loro esperti su problemi difficili riguardo alla foresta, ma ritengono di acquisire le conoscenze messe in evidenza nelle nostre ricerche “camminando da soli” nella foresta, che chiamano “la casa Maya”. Per gli Itza’, le reti sociali e di esperti sono diffusamente interconnesse, suggerendo che molteplici vie di interazione permettono agli individui di ottenere – e alla comunità di assimilare ed accumulare – le informazioni sulla foresta. I resoconti culturali, i valori spirituali e altre esperienze creative influenzano le conoscenze concrete in modi differenti. S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 99 Per esempio, secondo un racconto itza’, gli spiriti silvestri protettori, i “signori della foresta”, udirono un giorno delle scimmie triturare i frutti del ramon. Decisero allora di provocare zizzania tra le scimmie, in modo da far sì che cominciassero a tirarsi addosso i frutti, facendo così cadere a terra i noccioli. In questo modo, le scimmie contribuirono, a loro insaputa, alla riproduzione del ramon. Così, i Q’eqchi’ e i Ladini considerano una scimmia che si nutre dei frutti solamente come nociva, mentre numerosi Itza’ deducono dal racconto (che conferma le loro osservazioni) che le scimmie possono anche essere utili. Anche se culturalmente canalizzato in questo modo, il sapere itza’ relativo alle interazioni specifiche tra piante e animali sembra comunque acquisirsi grazie all’esperienza e all’esplorazione individuale, e non attraverso regole e norme. Le analisi statistiche delle risposte dei Ladini ai nostri test dimostrano che possiedono una rete distributiva delle conoscenze ecologiche che parassita quella degli Itza’. Gli Itza’ osservano la foresta perché essa è importante; i Ladini osservano gli Itza’ a seconda di quello che ritengono importante. Nel corso del tempo, i Ladini ben connessi all’interno della rete sociale convergono verso il consenso statistico degli esperti Itza’. Prendiamo il Ladino più spesso citato come esperto dagli altri Ladini. Abbiamo scoperto che i suoi giudizi su centinaia di interazioni tra animali e vegetali costituiscono un sottoinsieme dei giudizi portati dall’Itza’ che questo Ladino cita come il più esperto e che è anche citato frequentemente come esperto dagli altri Itza’. È molto improbabile che i Ladini che si avvicinano alle risposte itza’ osservino e copino i modi in cui gli Itza’ trattano i centinaia di rapporti tra specie messi in evidenza nelle nostre ricerche. I Ladini sembrano proiettare per inferenza – e non per imitazione – osservazioni frammentarie del comportamento itza’, all’interno di un modello cognitivo molto denso. In accordo con certi approcci evoluzionistici all’apprendimento sociale, supponiamo che le persone, quando sono in dubbio o ignorano un dominio pratico importante per la vita quoti- 100 Modelli della mente e processi di pensiero diana, cerchino di emulare quelli che possiedono il sapere necessario (Boyd e Richerson, 1985; Lansing e Kremer, 1993; Henrich e Boyd, 1998). Supponiamo anche che queste persone non abbiano accesso diretto al sapere fondamentale che si sforzano di acquisire, ma solamente a dei segni o “marcatori” superficiali di questo sapere (come le persone che desiderano assomigliare a un politico potente o a una vedette adottano le loro apparenze esterne nella speranza che queste li aiuteranno ad essere come i loro miti). Una strategia ragionevole consiste nel cercare in primo luogo il sapere di coloro verso cui gli altri manifestano rispetto e deferenza (Henrich e Gil-White, 2001). In molte società tradizionali, i portatori del sapere sono spesso gli anziani, i dirigenti politici o le autorità religiose e i nobili. Nel caso degli Itza’, gli esperti della foresta sono esperti in numerosi domini pertinenti (uccelli, mammiferi, alberi, tipi di terreno), sono uomini di una certa età e dirigenti politici della comunità. I Ladini ammettono le loro lacune quanto alle conoscenze della foresta, ma sperano di colmarle grazie agli Itza’ (quando abbiamo domandato ai Ladini di sistemare in ordine di priorità ventuno specie da proteggere e di immaginare l’ordine secondo cui lo avessero fatto rispettivamente gli Itza’, i Q’eqchi’, gli spiriti silvestri e Dio, abbiamo constatato che i Ladini considerano le priorità degli Itza’ e di Dio come in correlazione quasi perfetta; r2 = 0.96). Sembra che i Ladini più rispettati e ben integrati socialmente accordino una più grande attenzione agli Itza’ ai quali altri Itza’ manifestano rispetto e deferenza. Questi Ladini, da parte loro, divengono soggetti di emulazione e fonti di conoscenza per gli altri Ladini. Ma in che modo questi Ladini ottengono le conoscenze pertinenti senza sapere in precedenza quali siano? Oltre ai marcatori, come i segni di deferenza, che non hanno contenuto informativo, cosa i Ladini apprendono precisamente e come? Certamente non delle regole e delle norme. I dati indicano che né gli esperti ladini né le popolazioni itza’ o ladine in generale apprendono norme relative alla foresta dagli esperti itza’ né si imitano a vicenda. Gli Itza’ non manifestano al- S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 101 cuna attitudine normativa relativa alla foresta che sia dotata di contenuto specifico oltre a vaghe indicazioni come “prendersi cura della foresta, come la foresta si prende cura di noi”. Anche la nozione di “reciprocità”, che abbiamo invocato per descrivere la cognizione e i comportamenti itza’, non è che una glossa di regolarità statistiche e di idee e di comportamenti che manifestano variazioni significative. È plausibile che i Ladini acquisiscano queste conoscenze in parte grazie a diversi esempi isolati che fanno scattare delle strutture inferenziali pre-esistenti che finiscono per produrre delle tendenze convergenti, e in parte attraverso racconti e altri mezzi evocativi. Così, un Ladino può osservare o ascoltare, da parte di un Itza’ rispettato, un esempio specifico di sapere ecologico (eventualmente contestualizzato in un racconto), come il fatto di osservare degli anziani itza’ alla ricerca dei frutti del ramon caduti per terra dopo il passaggio d’albero in albero delle scimmie ragno. Gli Itza’ raccolgono i frutti che non sono completamente masticati e lasciano a terra gli altri, sapendo che i frutti masticati a metà hanno più probabilità di produrre nuovi alberi rispetto ai frutti non masticati. A partire da questo comportamento itza’, un osservatore ladino può facilmente dedurne che: a) il ramon è cercato e utile alle persone, e b) che le scimmie ragno possono avere un effetto negativo sui semi del ramon. Ma i Ladini non apprendono generalmente che c) le scimmie ragno possono anche avere un effetto positivo sui semi di ramon e così beneficiare sia alla foresta che ai suoi abitanti. Comunque, anche se gli osservatori ladini sembrano mancare della propensione culturale itza’ a concepire i rapporti tra le specie in modo reciproco, inferiscono sempre, a partire da un unico esempio, ben più che semplicemente (a) e (b). Le tendenze a generalizzare possono essere parzialmente predette a partire dalla corrispondenza tra i raggruppamenti tassonomici ed ecologici degli Itza’ e dei Ladini, ossia a partire dalla struttura comune della loro biologia intuitiva/popolare. Per esempio, dovremmo attenderci che i Ladini generalizzino le loro osservazioni secondo le medesime linee o divisioni tassonomi- 102 Modelli della mente e processi di pensiero che degli Itza’ nella misura in cui le loro tassonomie popolari coincidono. Nel caso precedente, i Ladini dovrebbero inferire “automaticamente” che le scimmie urlatrici e i cercoletti abbiano la stessa influenza sul ramon delle scimmie ragno, poiché i Ladini, come gli Itza’, riconoscono queste due specie popolari come appartenenti allo stesso gruppo tassonomico delle scimmie ragno. Altre corrispondenze sono prevedibili a partire dalle somiglianze tra le considerazioni che hanno le due comunità delle associazioni ecologiche. Per entrambe, il ramon e la sapotilla hanno profili ecologici molto vicini. Di conseguenza, le due comunità dovrebbero generalizzare automaticamente i rapporti tra le scimmie ragno e il ramon a quello tra i cercoletti e la sapotilla. (I Q’eqchi’ non prestano attenzione agli Itza’ e dunque non sono portati a generalizzare in questo dominio). Un’analisi delle risposte dimostra che le cose stanno in effetti così. Un altro vincolo sull’inferenza induttiva concerne l’interpretazione dello stesso evento di base. Se un osservatore ladino non ha una propensione culturale a concepire reciprocamente i rapporti tra le specie, non imparerà che le scimmie ragno traggono vantaggio dal ramon e non inferirà certo che i cercoletti traggono vantaggio dalla sapotilla. In breve, gli individui ladini proiettano delle osservazioni frammentarie del comportamento itza’ in un ricco modello cognitivo di ecologia popolare tramite inferenze a partire da conoscenze pre-esistenti, ed in funzione delle strutture dei racconti popolari più che per imitazione o apprendimento di norme. L’apprendimento sociale interculturale sembra implicare processi inferenziali messi in moto da più fattori: 1) i moduli cognitivi (per esempio la tassonomia delle specie viventi)6; 2) una sen6 In tutte le società le persone producono spontaneamente delle tassonomie intuitive (popolari) ben strutturate, a partire da campioni frammentari delle specie animali e vegetali. E ciò deriva da un dispositivo evoluto per selezione naturale (“modulare”) specifico per questo compito (Atran 1998). Per illustrarlo: utilizzando dei test di catalogazione tassonomica standard, abbiamo ottenuto delle tassonomie, relative ai mammiferi, molto consensuali. La tassonomia aggregata dei Ladini è nella medesima correlazione sia con quella degli Itza’ che con quella dei Q’eqchi’ (r = 0.85), il che indica strutture e contenuti molto simili (Atran et al., 2002). S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 103 sibilità culturale pre-esistente rispetto a certi tipi di conoscenza (per esempio, la reciprocità tra specie nei rapporti ecologici); 3) la consapevolezza della mancanza di conoscenze e la motivazione alla loro acquisizione (ossia, il dubbio); 4) l’attenzione selettiva (per esempio, l’interesse particolare che portano anche i Ladini alle manifestazioni di rispetto e di deferenza nei confronti degli anziani della comunità itza’, in opposizione alla deferenza e all’attenzione che gli Itza’ manifestano direttamente nei confronti della foresta); e 5) i valori pre-esistenti (preferenze ponderate) di un dato dominio cognitivo (per esempio, la sopravvalutazione dell’utilità economica in rapporto agli altri fattori determinanti l’interesse individuale, come i valori spirituali). Qui, il paesaggio d’apprendimento culturale (da 3 a 5) limita ancora di più il processo di canalizzazione delle idee e dei comportamenti di quanto facciano i vincoli modulari evoluti per selezione naturale (1). Questo “paesaggio d’apprendimento” plasma il modo in cui le inferenze vengono generalizzate a partire da particolari istanze (esperienze, osservazioni, esempi). Questo paesaggio canalizza le informazioni frammentarie che si ottengono in direzione di una convergenza con un corpus più generale di conoscenze (una tendenza strutturale emergente che influenza un consenso statistico in una data popolazione). Altri fattori di apprendimento naturalmente possono essere implicati nella canalizzazione e nella trasmissione delle conoscenze, compresi i prototipi normativi, ma non in modo esclusivo o analiticamente separabile. 9. La teoria cognitiva della cultura La moralità normativa è, essenzialmente, una finzione comoda. Non perché mascheri completamente ciò che esiste realmente, ma perché rappresenta troppe possibilità sotto-determinate e dunque niente in particolare. I ricercatori nel campo delle scienze sociali, i dirigenti politici, i commentatori televisivi o l’uomo della strada, si servono, nella vita quotidiana, di questa comodi- 104 Modelli della mente e processi di pensiero tà, per identificare i loro interlocutori e influire sul flusso di informazioni (per esempio, quando le persone parlano della necessità di “cambiamento” di fronte alla “crisi”, le nozioni di cambiamento e crisi rivestono un senso differente per ciascun individuo, ma tutti hanno l’impressione di condividere più o meno lo stesso senso e questo è sufficiente per dare inizio ad uno scambio di informazioni). Queste comodità normative non contengono molta informazione. Non fanno che indicare dove e da chi possiamo cercare informazioni pertinenti. Segnalano, semmai, la presenza di sensi e di riferimenti simili o diversi, o contrapposti. Non sono il tipo di unità replicanti d’informazione adatte alla selezione darwiniana. Le norme non sono regole condivise e le società o culture umane non sono costituite da insiemi di regole che determinano funzionalmente una “visione del mondo culturale” o un “sistema sociale” ben delimitato. Al più, le norme sono delle rappresentazioni pubbliche che aiutano a orientare la comprensione dei fenomeni culturali – per l’uomo della strada come per l’antropologo – stereotipizzando le espressioni e le rappresentazioni pubbliche le cui istanze ricorrenti sono abbastanza pertinenti per la comunicazione e la coordinazione sociale. Gli antropologi descrivono normativamente le società che studiano per le stesse ragioni per cui le persone comuni si rappresentano e rappresentano agli altri la loro stessa società in maniera normativa. Allo stesso modo di impugnare la bandiera nazionale, “impugnare” delle norme culturali facilita la comunicazione e il consenso sociale rispetto alle idee e al comportamento. Ma non si deve confondere l’utilizzo delle norme da parte del senso comune con l’analisi scientifica del loro significato causale. Ecco un’analogia: nella nostra società, la maggior parte della gente pensa di comprendere abbastanza bene cosa gli altri intendano per “germe” o per “coscienza”, per poter essere in grado di sapere di cosa si parla quando questi termini vengono utilizzati. Ma ciò non implica che questi termini abbiano un’estensione causale coerente. Al contrario, sembra poco probabile che S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 105 questi termini si riferiscano a un qualunque “genere naturale” scientificamente riconoscibile di oggetti materiali, di stati psicologici o di reti neuronali. Le norme culturali, che si suppone derivino dalla selezione di gruppo e facciano parte di sistemi funzionali, sono delle specie nozionali e non naturali. La “teoria cognitiva della cultura” è l’applicazione di un paradigma evoluzionistico alternativo rispetto agli interessi tradizionali dell’antropologia (Tooby e Cosmides, 1992). In questo paradigma scientifico emergente, l’epidemiologia culturale diviene centrale. Contrariamente agli approcci evoluzionistici basati sulle norme e sulle regole, l’approccio epidemiologico considera la distribuzione e la variazione delle idee e dei comportamenti come un oggetto di studio proprio, e il disaccordo tra le persone come un segnale e non come rumore o deviazione dalla regola. Dal punto di vista dell’epidemiologia culturale, le società sono delle catene causalmente distribuite di rappresentazioni mentali, delle loro espressioni pubbliche (per esempio, racconti orali, libri, disegni, danze, maschere, ecc.) e dei comportamenti che ne risultano. Le idee e i comportamenti diventano “culturali” nella misura in cui si diffondono e sopravvivono in una data popolazione. Così, la “cultura” non è qualcosa di ben definito (un sistema di regole o di costumi, un codice o una grammatica di simboli o di comportamenti) né un “superorganismo”. Si tratta di una distribuzione fluida di rappresentazioni private e pubbliche, di condizioni ecologiche naturali e artificiali che canalizzano e mettono in relazione tra loro le informazioni rappresentate (mari, montagne, edifici, documenti) e i comportamenti che ne risultano. Questa concezione distributiva della cultura si oppone a quelle tradizionali delle scienze sociali e cognitive, che commettono spesso l’errore di concepirla come un sistema ben delimitato o come una variabile indipendente, e tendono ad “essenzializzare” la cultura e a trattarla come una spiegazione e non come un fenomeno da spiegare. Come è stato difficile (e continua ad esserlo) ripudiare in biologia il concetto essenzialista di specie (come qualcosa di ben de- 106 Modelli della mente e processi di pensiero finito, con una struttura sua propria) a favore del concetto di specie come progenie storica di individui (Ghiselin, 1999), è allo stesso modo difficile abbandonare la nozione intuitiva della cultura come un’entità provvista di un’essenza (che sia un sistema di regole, di norme o di pratiche). In biologia, parlare di specie come qualcosa di diverso da regolarità statistiche di variazioni individuali non ha senso. Allo stesso modo, studiare le culture senza tenere conto delle variazioni individuali è poco coerente dal punto di vista scientifico (almeno se si desidera instaurare un dialogo con le scienze naturali). Le rappresentazioni che restano stabili nel tempo, come quelle che sono ricorrenti in contesti diversi, sono facilmente prodotte, ricordate e comunicate. Le idee più attrattive e trasmissibili sono quelle più confacenti alle strutture mentali modulari. Queste strutture, plasmate dalla selezione naturale, si sono sviluppate per catturare le caratteristiche ricorrenti dell’ambiente degli ominidi, quelle più pertinenti per la sopravvivenza. Una volta diffuse pubblicamente in un contesto culturale, queste idee “modularizzate” si diffondono per “contagio” in una popolazione di menti (Sperber, 1985). Vengono apprese senza istruzione formale o informale, e una volta che questo è avvenuto, non possono essere facilmente dimenticate (Atran e Sperber, 1991). Rimangono estremamente stabili all’interno di una cultura e sono, in una certa misura, strutturalmente isomorfe nelle diverse culture. Tra gli esempi di queste idee figurano gli schemi di categorizzazione e di ragionamento associati ai domini di base dell’ontologia quotidiana, come la fisica intuitiva (i confini e le traiettorie degli oggetti nelle loro interazioni), la biologia intuitiva (le configurazioni e le relazioni delle specie viventi) e la psicologia intuitiva (i comportamenti di interazione degli agenti guidati da scopi) (Atran, 1989; Hirschfeld e Gelman, 1994; Sperber, D. e Premack, A., 1995). Anche gli aspetti dei differenti gruppi culturali che sembrano essere più incommensurabili non sono comprensibili che su di una base solida e ampia di cognizioni universalmente commensurabili. Se così non fosse, l’antropologia sarebbe im- S. Atran, Teoria cognitiva della cultura 107 praticabile e la psicologia non potrebbe sviluppare che finzioni etnocentriche. I “dispositivi protesici” come le bibbie e le bombe, e le caratteristiche ecologiche naturali o artificiali, come le scuole e le chiese, limitano ed estendono in modo ancora maggiore le distribuzioni delle idee e dei comportamenti che gli esseri umani producono in relazione alle loro strutture cognitive evolute per selezione naturale. Canalizzando e strutturando ancora di più le idee e le azioni compatibili con i processi modulari, questi aspetti dell’ecologia istituzionale permettono alle rappresentazioni e ai comportamenti più difficilmente acquisiti di svilupparsi e perdurare, come, per esempio, nel caso delle differenti scienze e religioni (Atran, 1990, 2002) o, ancora, dei diversi regimi agro-forestali. Data la natura della comunicazione umana, che è storicamente contingente e dipendente dal contesto, e vista la concorrenza sfrenata tra le produzioni umane per l’attenzione individuale e la sopravvivenza culturale, le distribuzioni causali delle idee e dei comportamenti cambiano invariabilmente nel tempo. Le distribuzioni statisticamente identificabili – ossia, le culture – stanno costantemente proliferando, declinando, derivando da altre, mutando, fondendosi, disperdendosi, mischiandosi, apparendo, sparendo o riapparendo. È così che forme sociali nuove e sorprendenti sorgono costantemente dall’evoluzione, senza essenze e quindi senza deviazioni. Dal punto di vista causale della scienza evoluzionistica, deviazione e anormalità sono inesistenti. Tuttavia, esistono tendenze statistiche derivanti dalla variazione individuale. Ma teniamo a mente che questo stato di cose non implica, e ancora meno giustifica, qualsiasi ricorso sia all’assolutismo sia al relativismo morale. Modularità e pertinenza. Come può una mente massivamente modulare essere flessibile e sensibile al contesto? di Dan Sperber Esordisco con una citazione da Randy Gallistel (1999: 1179, dove si fa eco a Chomsky, 1975): «La specializzazione adattiva dei meccanismi è così pervasiva e così ovvia in biologia, a qualsiasi livello di analisi e per ogni genere di funzione, che nessuno trova necessario richiamare l’attenzione su di essa come principio generale del funzionamento biologico. È quindi strano ma vero che la maggior parte delle teorie contemporanee, passate e presenti, sull’apprendimento non si basino sull’assunzione che i meccanismi di apprendimento siano specializzati adattivamente per la soluzione di particolari tipi di problemi. La maggior parte delle teorie parte dall’ipotesi che nel cervello esista un processo di apprendimento generale, un processo adattato genericamente per risolvere il problema dell’apprendimento […]. Da un punto di vista biologico, questa ipotesi equivale ad assumere che vi sia un organo sensoriale generale che risolve il problema della percezione». L’osservazione di Gallistel può essere estesa a tutta la cognizione. È strano ma vero che la maggior parte delle teorie contemporanee, passate e presenti, sulla cognizione non si basano sull’ipotesi che i meccanismi cognitivi siano specializzati adattivamente per la soluzione di particolari tipi di problemi. Oggi c’è una vera divisione di campo tra una minoranza di scienziati cognitivi per cui il complesso mente-cervello va visto essenzialmente come un’articolazione di moduli specializzati e la maggioranza secondo la quale il complesso mente-cervello umano è fondamentalmente non modulare. Io appartengo alla minoranza e ho esposto altrove i miei argomenti in favore della modularità 110 Modelli della mente e processi di pensiero massiva1. Quello che mi propongo di fare qui è rispondere a due interrogativi: come fa una mente massivamente modulare ad essere flessibile? E come può una mente massivamente modulare essere sensibile al contesto? I due interrogativi sono legati tra loro: il contesto dei processi cognitivi muta ad ogni frazione di secondo, come minimo perché è modificato da questi stessi processi. Nella comprensione verbale, ad esempio, l’interpretazione di ogni enunciato modifica il contesto nel quale l’enunciato successivo è interpretato. La sensibilità al contesto è la capacità di tenere conto del continuo mutamento del contesto. “Flessibilità” (o “plasticità”) è una metafora che va intesa come sensibilità al contesto nel lungo periodo. Un sistema cognitivo individuale è flessibile se può modificarsi sulla base dell’esperienza. Descrivere in generale gli esseri umani come una specie particolarmente flessibile, significa implicitamente attribuire loro una sensibilità al contesto di ancor più lunga durata: nel corso delle epoche storiche, gli esseri umani si sono adattati ai più diversi ambienti sia naturali sia modificati da loro stessi, ed hanno di conseguenza sviluppato nuove competenze cognitive. Chiaramente, un sistema flessibile è in una posizione migliore per esibire sensibilità al contesto nel breve periodo. 1. I moduli cognitivi sono un tipo di moduli biologici Dal momento che le discussioni sulla modularità cognitiva spesso si avvolgono in tediose questioni terminologiche, sarei stato tentato di evitare del tutto il termine “modulo” se non fosse per il fatto che c’è una quantità di recente ed interessante lavoro sul1 Si veda Sperber (1994), rivisto ed ampliato in Sperber (1996, 2001). È sotto l’influenza di Chomsky che ho ricevuto la spinta iniziale a sostenere che la mente umana dovrebbe essere vista come articolazione di dispositivi autonomi specifici per dominio (Sperber, 1974). In seguito il lavoro di Cosmides e Tooby (1992, 1994) mi ha persuaso che la prospettiva evoluzionistica, che avevo accolto come mero sfondo, era cruciale per lo sviluppo di una simile prospettiva.Buona parte delle mie riflessioni sulla questione sono state, ovviamente, influenzate da Fodor (1983), anche laddove sono in disaccordo con lui. D. Sperber, Modularità e pertinenza 111 la modularità biologica (per esempio, Schlosser & Wagner, 2004), della quale – intendo sostenere – la modularità cognitiva dovrebbe essere vista come un caso particolare. Difficilmente si può negare che gli organismi complessi siano sistemi costituiti da molti distinti sottosistemi – tra cui anche, ma non solo, i classici “organi” che spesso oggi chiamiamo “moduli” – che possono differire l’uno dall’altro funzionalmente, strutturalmente, ontogeneticamente e filogeneticamente. Un’organizzazione modulare è un effetto dell’evoluzione biologica, per rispondere – un “pezzo” alla volta – alle sfide poste dall’ambiente. È lecito ritenere che la modularità sia tra l’altro una condizione dell’evolvibilità (Wagner & Altenberg, 1996). Dato che i moduli sono risposte opportunistiche ad una grande quantità di problemi ed opportunità, per loro natura essi saranno molto diversi in termini di forma, misura e funzione. Di conseguenza, non si può al tempo stesso riconoscere il ruolo della modularità nei sistemi biologici e pretendere una definizione ricca e precisa di ciò che un modulo sia, o insistere che un genuino modulo dovrebbe assomigliare ad un qualche prototipo. Ripeto, chi insiste che un modulo dovrebbe essere definito in modo rigido e preciso ignora la dimensione evoluzionistica della modularità. I moduli biologici possono essere articolati in una varietà di modi e possono, in particolare, contenere sottomoduli. Ad esempio, il sistema digestivo dei vertebrati è esso stesso un complesso modulo e contiene come sottomoduli varie porzioni del tratto digestivo come la faringe, lo stomaco o l’intestino crasso, ghiandole come quelle salivali o il fegato, moduli chimici come gli ormoni e gli enzimi prodotti dalle ghiandole, e così via. I moduli ereditati possono svilupparsi trasformandosi in, o generando, nuovi moduli nel corso della vita dell’organismo. Ad esempio, i linfociti B sono moduli ereditati su scala cellulare che si sviluppano con l’organismo e generano anticorpi, ossia nuovi moduli sulla scala delle proteine, la funzione dei quali è legarsi a specifici antigeni per neutralizzarli. Può non essere immediatamente intuitivo pensare a moduli con le dimensioni e le caratteristi- 112 Modelli della mente e processi di pensiero che di cellule e proteine, che si muovono liberamente e sono destinate ad un’esistenza precaria, ma di nuovo il punto cruciale per un’organizzazione modulare è che essa può contenere come moduli ogni tipo di dispositivi capaci di funzionare autonomamente con una propria storia filogenetica oppure ontogenetica. Se i moduli cognitivi sono componenti reali dei sistemi cognitivi, e non semplici scatole in un modello a diagramma di flusso puramente nominalista, allora devono essere un tipo di moduli biologici. Essi sono caratterizzati in particolare da condizioni di input specifiche e da risorse specializzate per processare gli input che soddisfano quelle condizioni. Gli input che di fatto soddisfano le condizioni di input di un dato modulo costituiscono quello che ho denominato il suo “dominio effettivo” (Sperber, 1994). Nella maggior parte dei casi, queste condizioni di input sono una maniera imperfetta ma efficace di selezionare esemplari appartenenti a qualche categoria oggettiva o a qualche dominio di oggetti nell’ambiente. Questo dominio di oggetti è allora il “dominio proprio” del modulo. La funzione del modulo è di informare l’organismo circa la presenza di membri del suo dominio proprio. È in riferimento a un simile dominio proprio che un modulo può essere detto specifico per dominio. Un modulo potrebbe, ad esempio, accettare come input dei suoni che esibiscono specifiche configurazioni strutturali, nel caso in cui, nell’ambiente in cui questo modulo opera, queste configurazioni di suoni corrispondano quasi sempre a brani di discorso in una data lingua naturale. In tal caso il dominio proprio di questo modulo sarebbero discorsi in quella lingua (sebbene esso potrebbe essere attivato da qualche configurazione sonora non genuinamente linguistica, alla maniera dei Jabberwocky). Un modulo cognitivo ha le sue proprie procedure e può anche avere una base di dati specifica. Un modulo per il riconoscimento di facce, ad esempio, possiede sia dati sui tipi di facce che è in grado di riconoscere sia procedure dedicate per correlare gli input percettivi con questi dati. Il fatto che un modulo possa contare solo su un database limitato, se ve n’è uno, per processare i D. Sperber, Modularità e pertinenza 113 suoi input è ciò che Fodor (1983, 2000) chiama “incapsulamento informazionale”, uno dei severi criteri per la modularità nel suo La mente modulare (1983), e il solo che giochi un ruolo significativo nel suo libro La mente non funziona così (2000). Dal momento che un dispositivo incapsulato informazionalmente ha accesso solo ad un’informazione ristretta, con l’esclusione di informazioni che in linea di principio potrebbero essere pertinenti ai fini della produzione di output appropriati e che peraltro potrebbero essere disponibili altrove nell’organismo, esso non esibisce la sensibilità al contesto che è caratteristica della cognizione umana nella sua interezza. Esempi paradigmatici sono forniti dalle illusioni percettive: io (ovvero, una persona intera) ho l’informazione che le due linee nell’illusione di Müller-Lyer sono uguali (supponiamo che le abbia misurate), ma il mio dispositivo per la percezione visiva non ha accesso a questa informazione e continua a “vederle” come disuguali. I riflessi cognitivi sono, in questo senso, casi estremi di incapsulamento: dato l’input appropriato, essi producono immediatamente il loro output caratteristico, indipendentemente dal fatto che sia coerente con il contesto. È importante distinguere il fatto che vi siano domini specifici di attivazione dei moduli dal loro incapsulamento. Un dispositivo è “specifico per un dominio determinato” se la sua funzione è di processare solo input che appartengono a un unico dominio empirico (anche se le sue condizioni di input non individuano perfettamente tutte e solo istanze di quel dominio, così che vi è un certo grado di sfasamento tra il dominio proprio e quello effettivo). Ad esempio, un dispositivo per il riconoscimento di facce ha come sua funzione di elaborare input di facce (sebbene possa essere attivato anche da stimoli che ne hanno solo l’apparenza, per esempio maschere). Un dispositivo d’altra parte è incapsulato se usa un database limitato per trattare i suoi input. Un dispositivo per il riconoscimento di parole, ad esempio, accetta rappresentazioni fonetiche come input caratteristici, e usa come database un dizionario. È plausibile che esistano dispositivi mentali generali, indipendenti da un dominio specifico. Possiamo ve- 114 Modelli della mente e processi di pensiero dere ad esempio la memoria di lavoro come un dispositivo generale che processa input con contenuto qualsiasi, e manipola i loro livelli di attivazione a beneficio di altri dispositivi inferenziali. Viceversa, non riesco a pensare un esempio plausibile di un dispositivo mentale non incapsulato, ossia di un dispositivo che userebbe l’intera enciclopedia mentale come suo database. Il non incapsulamento è, tautologicamente, una proprietà della mente come un tutto, ma non sembra possa essere una proprietà di un qualsiasi suo sottocomponente autonomo2. Quel che un modulo cognitivo fa in un dato istante (posto che faccia qualcosa) è determinato dagli input che sta trattando, dalle sue procedure, e dal suo database se ve n’è uno. Non è invece influenzato direttamente da ciò che stanno facendo gli altri moduli del sistema cognitivo, e non dipende direttamente dalle risorse informazionali a disposizione di questi altri componenti. Sottolineo “direttamente” perché ci sono, ovviamente, modi indiretti in cui i moduli si influenzano l’un l’altro. A parte gli organi di senso, tutti i “pezzi” del sistema cognitivo ricevono i loro input da altri componenti: con qualche approssimazione, il riconoscimento di facce riceve i suoi input dalla percezione visiva, l’interpretazione pragmatica degli enunciati riceve parte dei suoi input dalla decodifica linguistica, e così via. Os2 Fodor, è vero, dà come esempio di non incapsulamento l’inferenza per modus ponens, ossia un’in- ferenza che prende come input coppie qualsiasi di credenze della forma {P, [se P allora Q]} e produce come output la credenza che Q. Il modus ponens, sostiene Fodor (2000: 60-2), si applica a coppie di premesse in virtù della loro forma logica ed è per il resto indifferente al loro contenuto informativo. Un organismo con un dispositivo per il modus ponens può usarlo a tutto campo. Si confronti questo, poniamo, con un dispositivo per il modus ponens “indirizzato”, che si applichi al ragionamento sui numeri ma non a quelli su cibo, persone o piante, in effetti a nient’altro che ai numeri. Per Fodor, un dispositivo di quest’ultimo tipo sarebbe incapsulato. Tuttavia, la differenza tra il dispositivo per il modus ponens interamente generale e quello specifico per i numeri riguarda l’input, e quindi la specificità per dominio, non il database e quindi non l’incapsulamento. Tanto le inferenze per modus ponens generali quanto quelle bridled applicano una procedura a coppie di premesse e lo fanno senza usare alcun tipo di dati. In particolare esse ignorano dati che potrebbero indurre un agente razionale a trattenersi dall’eseguire l’inferenza per modus ponens e a mettere in discussione piuttosto l’una o l’altra delle premesse (Harman 1986). Se nella mente umana vi è una procedura di inferenza per modus ponens, suggerisco che questa andrebbe vista come un riflesso cognitivo (Sperber, 2001). D. Sperber, Modularità e pertinenza 115 sia, le operazioni di un modulo sono tipicamente innescate da un input che è l’output di qualche altro modulo. Inoltre, l’input che funge da innesco tipicamente ha ricevuto la sua forma dalle procedure e dai dati del modulo di provenienza. Tuttavia, nel momento in cui esegue la propria funzione, un modulo lavora in modo isolato ed è incapace di trarre profitto da informazioni che potrebbero essere presenti nel sistema come un tutto ma che non siano accessibili né nell’input né nel database specifico del modulo. Ma non c’è il rischio, quando si ammette una grande varietà di moduli interconnessi tra loro in modi complessi, di banalizzare la nozione di modularità al punto che i moduli si confondono con le scatole usate nei diagrammi con cui rappresentiamo il flusso dell’informazione nei processi cognitivi? Si può evitare il rischio con l’ipotesi modularista che le scatole in questione abbiano realtà biologica. Un diagramma di flusso a scatole può essere interpretato come una rappresentazione meramente algoritmica di un processo cognitivo complesso, che mostri come, in linea di principio, il processo possa essere realizzato materialmente, ma senza comportare alcuna assunzione circa la sua effettiva realizzazione nel complesso mente-cervello. Il modularista autentico è invece interessato a “scatole” che corrispondano a dispositivi neurologicamente distinti. Un dispositivo neurologicamente distinto, o modulo, non deve occupare necessariamente una singola area cerebrale continua – non occorre che i suoi confini siano netti – e tuttavia è necessario che esso sia individuabile non solo funzionalmente ma anche neurologicamente. Ciò presuppone che un modulo abbia una storia distinta nello sviluppo del cervello dell’individuo, e questo presuppone a sua volta qualche storia genetica ed evoluzionistica circa le condizioni che rendono possibile tale sviluppo individuale. La questione è adesso se una simile articolazione di moduli cognitivi biologicamente reali possa esibire la flessibilità e sensibilità al contesto che riconosciamo alla mente umana come un tutto. 116 Modelli della mente e processi di pensiero 2. Modularità e flessibilità I moduli sono “rigidi”. La mente umana, viceversa, è “flessibile”. Dal momento che “rigido” e “flessibile” sono entrambi metafore, ciò non costituisce tanto una seria obiezione ad una visione modularista della mente umana, ma suggerisce piuttosto una domanda interessante: come si può ottenere flessibilità in un simile sistema modulare? La risposta è che la maggior parte dei moduli cognitivi innati3 sono meccanismi di apprendimento specifici per dominio (“istinti di apprendimento”, Marler, 1991; o module templates, Sperber, 1994) che a loro volta generano moduli capaci di operare secondo competenze cognitive acquisite. Sebbene l’esistenza e molte caratteristiche dei moduli mentali siano spiegate dall’evoluzione biologica, questo non implica che i moduli siano semplici espressioni fenotipiche dei geni, o che lo sviluppo di ogni singolo modulo sia fortemente predeterminato. Al contrario, è nella natura dei moduli differire considerevolmente l’uno dall’altro per questo come per altri rispetti. Per alcuni dei problemi che i moduli cognitivi risolvono, potrebbe essere appropriata un’organizzazione totalmente innata. Per altri problemi, una soluzione genuinamente modulare può richiedere che si aggiungano dati al database specifico di un modulo altrimenti predeterminato. In altri casi ancora, lo sviluppo di un modulo può prevedere il ricorso ad informazioni ottenute dall’ambiente, non solo per arricchire il database ma anche per modellare le procedure. C’è in effetti una gamma completa di casi dai moduli specificati in modo innato ai tessuti cerebrali che sono semplicemente predisposti per modularizzare competenze di un tipo specifico. Ecco qui cinque esempi lungo questa gamma: Evitare dislivelli verticali: i piccoli della specie umana (e anche di alcune altre specie) percepiscono ed evitano dislivelli verticali nel 3 Innati nel senso di Samuels (2002). D. Sperber, Modularità e pertinenza 117 terreno, anche se non hanno avuto alcuna precedente esperienza di cadute, come è stato dimostrato per mezzo dei ben noti esperimenti di “precipizio visivo” di Gibson e Walk (1960). Questo è un ovvio adattamento modulare a qualcosa che costituisce un serio rischio per animali che si muovono sul terreno. Perché sia efficiente, è bene che un modulo di questo tipo non dipenda dall’apprendimento. Si tratta di un esempio di modulo cognitivo innato come non se ne potrebbero trovare di migliori. L’effetto García (García & Koelling, 1966): i ratti ed altri animali sono predisposti in modo innato a sviluppare un avversione a qualsiasi tipo di cibo li abbia fatti ammalare. Questo è un modulo altamente specializzato di apprendimento in un solo passo. Il risultato di un simile apprendimento è una nuova capacità, quella di reagire con avversione ad uno specifico tipo di cibo. Se un ratto sviluppa, poniamo, tre avversioni del genere, dispone allora di tre distinte abilità. È possibile che il processo di apprendimento e ciascuna specifica reazione di avversione siano tutti prodotti dallo stesso modulo: l’apprendimento consisterebbe nell’aggiungere al database proprio del modulo, inizialmente vuoto, dati sui cibi specifici da evitare. O potrebbe darsi che il processo di apprendimento determini in ciascun caso la costituzione di un nuovo modulo o sottomodulo dedicato per l’avversione ad un singolo cibo. Quale delle due, dunque – un modulo generale per l’avversione al cibo con un database in crescita, o un modulo dell’apprendimento capace di generare tanti micromoduli quante sono le avversioni? Questo è un interrogativo empirico che potrebbe essere deciso rispondendo a domande come le seguenti: reazioni di avversione a cibi differenti impiegano procedure di riconoscimento differenti (piuttosto che la stessa procedura con dati differenti)? Una nuova avversione recluta tessuti cerebrali distinti? La capacità più generale di generare nuove avversioni e ciascuna delle avversioni più specifiche possono essere danneggiate selettivamente? Risposte positive a questioni del genere suggerirebbero che a ciascuna nuova avversione corrisponda un nuovo mini(sotto)modulo. 118 Modelli della mente e processi di pensiero Riconoscimento di facce: assumo che il riconoscimento di facce sia modulare (ciò che è controverso, ma si veda Kanwisher & Moscovitch, 2000). Se è così, abbiamo a che fare, come nel caso dell’effetto Garcia, con due tipi di abilità modulari: una generale abilità di apprendimento che consente di formare specifiche abilità di riconoscere specifiche facce. C’è un modulo generale del riconoscimento di facce che assolve entrambe le funzioni oppure vengono sviluppati come mini(sub)moduli autonomi dispositivi per il riconoscimento di facce individuali? È una questione empirica per la quale non abbiamo una risposta. Come nel caso dell’effetto García, si tratta nondimeno di possibilità genuinamente distinte che comportano sottili differenze nel modo in cui queste abilità possono essere realizzate, o danneggiate. Facoltà del linguaggio e competenze linguistiche: la facoltà del linguaggio è un complesso modulo per l’apprendimento che reagisce ad appropriati input linguistici e contestuali, costruendo una grammatica mentale, o più d’una nel caso dei plurilingui. Ciascuna di queste grammatiche è essa stessa un modulo complesso che realizza la codifica e la decodifica verbale per una data lingua. Ciascuna grammatica mentale ha una propria storia sotto il profilo dello sviluppo individuale, e può corrompersi o essere danneggiata selettivamente. È plausibile che, poniamo, le due grammatiche mentali di un individuo bilingue siano sottomoduli di una più generale grammatica universale mentale e, come tali, condividano alcune risorse (Dehaene et al., 1997; Kim et al., 1997). Lettura: la lettura è un’abilità culturale troppo recente perché si sia evoluto un modulo specializzato innato. Tuttavia la lettura coinvolge sistematicamente una medesima località cerebrale posta nel solco occipito-temporale sinistro, descritta talvolta come “l’area visiva per le forme di parola”. Stanislas Dehaene sostiene: «il cervello umano può imparare a leggere perché parte del sistema visivo centrale che nei primati è dedicato al riconoscimento di oggetti effettua spontaneamente operazioni in gran parte simili a quelle richieste nel riconoscimento di parole, e possiede plasticità sufficiente per adattarsi a nuove forme, incluse quelle D. Sperber, Modularità e pertinenza 119 di lettere e parole. Durante l’acquisizione della lettura, parti del sistema diventano altamente specializzate per le operazioni visive coinvolte nel riconoscimento di parole indipendentemente dalle variazioni di caso e di posizione […]. Così, l’acquisizione della lettura scaturisce da selezione e adattamento locale di una regione neurale preesistente, piuttosto che dall’imporre ex novo nuove proprietà a quella regione» (Dehaene, in stampa). L’abilità della lettura può essere vista come il risultato di un processo di modularizzazione ad hoc realizzato su tessuti cerebrali già specializzati. Se consideriamo che molti moduli innati sono moduli di apprendimento capaci di generare ulteriori moduli, e che vi sono aree cerebrali capaci di modularizzarsi, possiamo concludere che la mente umana è caratterizzata non solo da modularità massiva ma anche da modularità “proliferante” (teeming modularity). Un gran numero di procedure altamente specializzate – la forma, poniamo, di uno specifico concetto e persino di una particolare regola di inferenza – può essere modulare nel senso specificato. Ovvero, potrebbe esservi una quantità di differenti dispositivi biologici che emergono su qualche base innata nel corso dello sviluppo cognitivo, e che funzionano con un certo grado di autonomia nell’attività cognitiva (una posizione simile, basata su un’analogia tra moduli cognitivi ed enzimi, è sviluppata da Clark Barrett). Spero che queste osservazioni aiutino a chiarificare come una mente massivamente modulare possa essere nondimeno flessibile, anche se i dettagli circa il modo in cui questa flessibilità sia conseguita sono ovviamente materia per future ricerche. 3. Come una mente massivamente modulare può essere sensibile al contesto? A giudizio di Fodor nella cognizione umana solo i sistemi di input periferici sono modulari. Una delle proprietà distintive dei sistemi di input modulari, sostiene, è che le loro operazioni sono 120 Modelli della mente e processi di pensiero obbligate. I difensori dell’idea che la modularità sia massiva, e dunque si collochi non solo al livello degli input percettivi ma ad ogni livello dell’attività cognitiva, non dovrebbero accettare con leggerezza l’idea che l’obbligatorietà caratterizzi le operazioni modulari. Se tutti i moduli di una mente massivamente modulare dovessero trattare in modo obbligato ogni input ad essi accessibile (inclusi gli output di altri moduli che soddisfano le loro condizioni di input) avremmo un’esplosione computazionale. Anche se un sistema del genere potesse esistere, è difficile immaginare come esso potrebbe esibire il genere di sensibilità al contesto che è caratteristico della cognizione umana. Ogni input sarebbe processato nello stesso modo qualunque sia la situazione. Naturalmente, una limitata sensibilità al contesto potrebbe essere ugualmente conseguita da un sistema del genere. L’output di un dato modulo potrebbe inibire l’azione di un altro modulo: una risposta standard violenta ad un movimento apparentemente aggressivo, ad esempio, potrebbe essere inibita dalla percezione di segnali di gioco. Un modulo per il riconoscimento di pericoli, che operi come una funzione booleana di congiunzione, potrebbe accettare solo input complessi quali coppie di input più elementari, ad esempio un suono e un segnale visivo. In questi casi avremmo una dipendenza dal contesto costruita nel sistema, ma essa sarebbe del tutto locale, a differenza della dipendenza dal contesto manifestata ordinariamente dalla cognizione umana, ad esempio, nel campo della comprensione verbale. Se accettassimo l’idea che la modularità implichi l’obbligatorietà, dovremmo di conseguenza rifiutare l’ipotesi della modularità massiva. La mia strategia consisterà nell’esaminare e mettere in discussione l’idea che le operazioni dei moduli debbano essere obbligatorie – anche nel caso dei moduli fodoriani di input. Sosterrò dunque che il sistema come un tutto guadagni la sensibilità al contesto grazie ai meccanismi di allocazione dell’energia attraverso i moduli. Ci sono due sensi nei quali una procedura cognitiva può dirsi obbligatoria. In un primo senso – l’unico nel quale personal- D. Sperber, Modularità e pertinenza 121 mente userò l’espressione – una procedura è obbligatoria se, dato l’input appropriato, seguirà il suo corso e produrrà il suo output qualsiasi cosa il resto della mente stia facendo (eccetto in caso di danni patologici o accidentali). In altre parole, la procedura è obbligatoria nel senso che un input appropriato è sufficiente ad innescarla in modo tale che essa segua il suo corso (piuttosto che limitarsi a darle una certa attivazione iniziale). In un secondo senso una procedura è “obbligatoria” se non può essere intenzionalmente decisa oppure inibita (se non in un modo indiretto, ad esempio agendo sulla disponibilità dell’input piuttosto che sulla procedura in sé) – per questo io userò esclusivamente “involontaria”. Quando Fodor sostiene che le operazioni dei moduli mentali sono “obbligatorie”, sembra avere in mente entrambi i sensi. È auto-evidente che una procedura che sia obbligatoria nel primo senso, ovvero innescata dallo stimolo in modo automatico, sarà “obbligatoria” nel secondo senso, ovvero involontaria. Vi sono procedure che sono in effetti sia obbligatorie (nel primo senso) sia involontarie. Ad esempio, la percezione di un oggetto come colorato è innescata automaticamente dallo stimolo e non può essere decisa o inibita. Analogamente, la presentazione di una coppia di numeri come 50 e 100 innesca automaticamente (in una persona che abbia familiarità con i numeri) una comparazione delle loro dimensioni, prima che sia intervenuta una qualunque decisione circa l’effettuare o meno tale comparazione. Tuttavia le due proprietà, quella dell’obbligatorietà e dunque dell’innesco automatico e quella dell’involontarietà non sono affatto coestensive. Vi sono molte procedure cognitive sulle quali l’individuo non ha alcun controllo volontario e che nondimeno, nel corso dell’ordinaria attività cognitiva, possono essere inibite o promosse sia da fattori interni alla mente quali le aspettative sia da fattori esterni quali stimoli distrattori. Simili procedure non sono né volontarie né obbligatorie. Se vedo proprio davanti a me, nella piena luce del giorno, la faccia del mio dentista di Parigi, il dottor Durand, non posso fare a meno di riconoscerlo. Il mio modulo per il riconoscimento 122 Modelli della mente e processi di pensiero di facce (o il mio sottomodulo per il riconoscimento del dottor Durand) esegue il suo lavoro. Ma supponiamo che io sia a Londra per tenere un seminario. Davanti a me ci sono una trentina di facce ciascuna chiaramente visibile. Le guardo tutte distrattamente e riconosco alcuni colleghi. Nonostante abbia guardato la sua faccia non meno di quella delle persone che ho riconosciuto immediatamente, è solo verso la fine del seminario che improvvisamente riconosco, lì seduto in seconda fila, il dottor Durand, che non mi sarei mai aspettato di vedere in un luogo del genere. Le operazioni dei moduli di input sembrano obbligatorie quando si considerino solo casi in cui lo stimolo è oggetto d’attenzione, e lo rimane abbastanza a lungo, ed inoltre il soggetto che percepisce non sta dirigendo attivamente l’attenzione su qualche altro stimolo. Una sorprendente dimostrazione sperimentale di ciò è fornita dalle ricerche sulla “cecità inattenzionale”. Ad esempio, Simons e Chabris (1999) hanno trovato che circa il cinquanta per cento dei soggetti cui era stato richiesto di seguire su uno schermo una palla da basket nel corso di un’azione di gioco non notavano un gorilla che camminava attraverso lo schermo in piena vista, si fermava in mezzo ai giocatori mentre l’azione continuava intorno a lui, voltava la faccia verso la telecamera, si batteva il petto, e quindi riprendeva a camminare. Esistono casi anche più banali, che riguardano la maggior parte dei moduli di input se non addirittura tutti, nei quali uno stimolo è bene al centro del campo percettivo ma non è in una posizione focale oppure non gli è prestata sufficiente attenzione, ossia nei quali le risorse mentali sono assorbite da altri stimoli concorrenti, o contenuti di pensiero interni, e in cui dunque i moduli non giungono a processare lo stimolo (o almeno non giungono a processarlo in modo sufficiente): la faccia familiare non viene riconosciuta, la struttura dell’enunciato non viene analizzata, il gorilla cammina senza essere notato. Mi si consenta di insistere, parlo di casi in cui le condizioni percettive psicofisiche per l’attività dei moduli sono soddisfatte e in cui lo stimolo sarebbe stato processato, se ci fosse stata minore competizione da parte di D. Sperber, Modularità e pertinenza 123 altri stimoli o pensieri, o se il soggetto avesse avuto aspettative atte a facilitare il processo. Almeno alcune delle procedure implicate nel percepire il gorilla non sono obbligatorie. Può anche darsi che vi sia un’iniziale attivazione delle procedure pertinenti, ma quando l’attenzione dell’individuo è focalizzata su qualcos’altro è possibile che quelle non seguano il loro corso fino in fondo. A mio giudizio l’idea che la percezione visiva sia modulare non è inficiata da questi dati. Ma allora l’obbligatorietà non può essere un tratto definitorio dei moduli. (Per inciso, il punto che voglio sollevare è sostanziale e non terminologico. Se le procedure percettive che mancano di produrre l’output atteso negli esperimenti di cecità inattenzionale sopra citati sono nondimeno “obbligatorie” in base alla vostra definizione, così sia. Qui ciò che conta è che la presenza di un input appropriato non basta a far sì che queste procedure seguano il loro corso fino in fondo. La questione interessante diventa quindi: quali altri fattori determinano quali procedure seguiranno il loro corso?). Il punto che voglio sottolineare qui è il seguente: i moduli mentali negli esseri umani competono per le risorse energetiche. Non possono tutti operare simultaneamente. Questo è vero a tutti i livelli: percettivo, concettuale e psicomotorio. Si mettano a confronto gli esseri umani con sistemi cognitivi più semplici sotto questo aspetto. Prendiamo la rana (o almeno la rana idealizzata dei filosofi – non sto facendo qui affermazioni zoologiche). Sta lì seduta, aspettando una mosca che si muova alla sua portata. Se non si muove una mosca, non c’è attivazione di processi cognitivi, se non un monitoraggio del campo visivo di basso livello, ossia quanto occorre per attivare al momento opportuno il modulo “acchiappa-la-mosca”. È questo un caso di modulo interamente guidato dallo stimolo con operazioni obbligatorie? Quasi, ma non del tutto. Presumibilmente la rana sta monitorando anche possibili predatori e altri pericoli, e se una mosca e un predatore vengono avvistati contemporaneamente le operazioni del modulo “acchiappa-la-mosca” sono inibite da quelle del modulo “sfuggi-al-predatore”. Questa priorità del modulo “sfuggi- 124 Modelli della mente e processi di pensiero al-predatore” su tutti gli altri (sui moduli per la nutrizione, ma anche per l’accoppiamento) è chiaramente adattiva e presumibilmente innata. Pertanto le operazioni del modulo “sfuggi-al-predatore” sono completamente obbligatorie, mentre quelle del modulo “acchiappa-la-mosca” sono obbligatorie a meno che siano inibite. Le rane hanno magari alcuni altri moduli cognitivi. Ma anche se così fosse, è plausibile che le operazioni di ciascuno di essi siano obbligatorie eccetto in caso di inibizione, e che l’ordine nel quale i moduli possono inibirsi l’un l’altro sia fissato nell’architettura del sistema nervoso della rana. Inoltre, casi di effettiva inibizione tra moduli sono probabilmente molto rari (non succede molto spesso che una rana abbia contemporaneamente davanti a sé una possibile preda, un possibile predatore, ed un possibile compagno). La situazione della specie umana è ben differente. Se, come ho suggerito, nella mente umana assistiamo ad una proliferazione di moduli, allora in ogni momento molti moduli hanno input disponibili e devono quindi competere per l’energia cerebrale necessaria a processarli. Piuttosto che un ordine di inibizione interamente fissato, che in questo caso non sarebbe adattivo, deve essere all’opera una procedura per l’allocazione dell’energia sensibile al contesto. Quale potrebbe essere la funzione di una simile procedura per l’allocazione dell’energia, ovvero come essa potrebbe contribuire all’efficienza dell’intero sistema cognitivo umano? Di nuovo, si veda la rana (dei filosofi). Presumibilmente vi sono solo poche categorie di stimoli, tra cui le mosche, che le rane possono discriminare, e solo in determinate condizioni. Esse monitorano il loro ambiente per controllare se qualcuna di queste categorie sia attualmente esemplificata e quindi producono la risposta comportamentale predisposta. Gli esseri umani possono discriminare centinaia di migliaia di categorie nel loro ambiente, ben poche delle quali innescano risposte comportamentali automatiche. In ogni singolo momento, gli esseri umani monitorano il proprio ambiente attraverso tutti i loro sensi e stabiliscono un contatto percettivo con una quantità di input potenziali in vista di una D. Sperber, Modularità e pertinenza 125 eventuale successiva elaborazione. Le rane non hanno ricordi di cui poter parlare. Gli esseri umani hanno ampi depositi di informazioni conservate in memoria. Nel momento in cui elaborano un nuovo input, gli esseri umani recuperano ed usano parte di queste informazioni. Prestare attenzione ad un dato stimolo, attivare informazione memorizzata, mettere insieme questi due elementi e trarne inferenze sono attività mentali che comportano uno sforzo. Uno sforzo è un costo che dovrebbe essere assunto solo se ci si attende un beneficio. Differenti percorsi di pensiero comportano allocazioni degli sforzi molto differenti e possono produrre benefici cognitivi molto differenti. Quali sono i benefici dell’attività cognitiva? La risposta che viene in mente più prontamente è che la cognizione aiuta l’organismo a riconoscere e reagire alle opportunità ed ai problemi presenti nel suo ambiente; una risposta più precisa richiederebbe di descrivere in modo molto più dettagliato i vari tipi di opportunità e di problemi che la cognizione consente all’organismo di gestire. Nel caso della specie umana, l’investimento sulla cognizione è rilevante, e molta conoscenza viene raccolta, aggiornata e corretta senza alcuno specifico scopo pratico. Presumibilmente, ciò che sembra – e spesso è – ricerca della conoscenza fine a se stessa prepara ad affrontare un’ampia gamma di contingenze future. Ovviamente, la conoscenza non è perseguita uniformemente in tutte le direzioni. Gli esseri umani sviluppano interessi che guidano i loro investimenti cognitivi. Di nuovo, sembra che specificare i benefici della cognizione per gli esseri umani equivarrebbe a descrivere nel dettaglio questi diversi interessi e possibilmente spiegare ciò che rende conveniente il loro perseguimento. Perciò, sebbene sia naturale pensare all’energia o allo sforzo mentale in termini quantitativi, si è portati a pensare al beneficio cognitivo in termini qualitativi. Un filosofo potrebbe volere lasciare la discussione a questo punto, ma uno psicologo non può farlo. Possiamo aspettarci che il cervello investa le sue risorse energetiche in modo vantaggioso, e non a caso. Per ottenere ciò, non 126 Modelli della mente e processi di pensiero deve necessariamente essere in grado di attribuire un valore assoluto al beneficio cognitivo atteso dall’elaborazione di ogni input disponibile, ma deve certo essere in grado di selezionare, tra gli input e le procedure attualmente in competizione per l’energia, ciò che abbia i benefici attesi relativamente più elevati. L’efficienza cognitiva consiste nell’investire i propri sforzi nell’elaborazione dei giusti input. Quali sono i giusti input? Hanno magari una proprietà caratteristica che consenta alla mente-cervello di selezionarli? Deirdre Wilson ed io abbiamo sostenuto che ce l’hanno, e che questa proprietà è la pertinenza, in un senso preciso che abbiamo cercato di definire e che qui esporrò sinteticamente (Sperber & Wilson, 1995; Wilson & Sperber, 2004). La pertinenza è una proprietà degli input dei processi cognitivi. Ad un livello piuttosto astratto, la pertinenza può essere definita relativamente ad una procedura inferenziale e un contesto; un frammento di informazione è pertinente in un contesto per una data procedura inferenziale, se processare quel frammento di informazione insieme al contesto abilita conclusioni differenti da quelle che avremmo ottenuto processandoli separatamente. In modo un poco più tecnico, un frammento di informazione è pertinente in un contesto per una data procedura inferenziale, esattamente nel caso in cui l’insieme delle conclusioni che la procedura inferenziale deriva dall’unione di questo frammento d’informazione e del contesto, preso come un singolo insieme di premesse, è differente dall’unione dei due insiemi di conclusioni che la procedura inferenziale deriverebbe separatamente dal frammento d’informazione da un lato e dal contesto dall’altro. Ad esempio, se la procedura è quella che implementa le regole di eliminazione del calcolo proposizionale, allora (a) ma non (b) è pertinente nel contesto (c): per qer {se p allora s, se s allora t} D. Sperber, Modularità e pertinenza 127 Come può essere facilmente verificato, (a) nel contesto (c) autorizza le due conclusioni s e t, che non sono derivabili né da (a) soltanto né da (c) soltanto, mentre (b) nel contesto (c) non autorizza alcuna conclusione eccetto quelle derivabili rispettivamente da (b) e da (c) prese da sole. Questa definizione astratta è utile come passo intermedio verso una definizione della pertinenza psicologicamente più significativa. Un frammento di informazione è pertinente “per un individuo in un dato momento” solo se esistono una procedura ed un contesto disponibili per quell’individuo a quel dato momento, relativamente ai quali il frammento di informazione è pertinente nel senso appena specificato (questa è solo una condizione necessaria, per una definizione più completa si veda Sperber & Wilson, 1986/1995, capitolo 3). La pertinenza è una proprietà che si consegue con facilità: virtualmente, in base alla nostra definizione sarà pertinente ogni nuovo frammento di informazione che si connetta, per quanto debolmente, con ciò che l’individuo già conosce. In definitiva, la pertinenza è una questione di grado. L’efficienza cognitiva non consiste semplicemente nel processare input pertinenti; consiste piuttosto nel processare gli input disponibili maggiormente pertinenti. A parità di altre condizioni, maggiore è il beneficio cognitivo prodotto dall’elaborazione di un input, maggiore è la sua pertinenza. In aggiunta – e questo è un punto qualificante per l’approccio adottato dalla teoria della pertinenza – a parità di altre condizioni, maggiore è il costo di elaborazione di un input, minore è la sua pertinenza. Ecco una breve, e un po’ artificiosa, esemplificazione. Il fatto che il medico vi dica «Avete l’influenza» produce presumibilmente un maggior numero di effetti cognitivi, e quindi è più pertinente, che se vi dicesse «Siete malato». Per un altro verso, il fatto che il medico vi dica «Avete l’influenza» presumibilmente è più pertinente che se vi dicesse «Avete una malattia il cui nome è composto dalla nona, dodicesima, sesta… lettera dell’alfabeto», dato che la prima di queste due affermazioni produrrebbe gli stessi effetti 128 Modelli della mente e processi di pensiero cognitivi della seconda, ma con uno sforzo di elaborazione molto minore. Dunque l’efficienza cognitiva consiste tra l’altro nel massimizzare la pertinenza degli input elaborati. Potrebbe non esserci un unico modo di massimizzare la pertinenza e quindi di ottimizzare l’efficienza cognitiva. Un input può essere preferibile ad un altro in termini di benefici, l’altro in termini di costi, e in assenza di una metrica comune non c’è alcun modo banale per decidere tra i due. In ogni modo, dato che alcuni input sono chiaramente più pertinenti e pertanto preferibili ad altri, deve essere possibile migliorare l’efficienza cognitiva attraverso la selezione degli input. In altre parole, non dovremmo attenderci che il sistema faccia più che tendere ad una ottimizzazione. Ma come può questo stesso risultato essere conseguito? Per cercare una risposta esaminerò dapprima i costi, poi i benefici, quindi metterò le due cose insieme. Come fa il cervello a distribuire l’energia in modo ottimale? In linea di principio, la soluzione potrebbe essere cognitiva. Ossia, il cervello potrebbe rappresentarsi il proprio consumo energetico, calcolare i costi attesi di varie procedure, ed usare questo come un criterio per decidere quanto investire in ciascuna procedura. In altre parole, il cervello potrebbe automaticamente essere impegnato nel prendere, in ogni frazione di secondo, decisioni simili a quelle che ogni tanto prendiamo consciamente, ad esempio quando scegliamo di risparmiare fatica usando una calcolatrice piuttosto che eseguire un calcolo mentale. Si noti, tuttavia, che questa via cognitiva per minimizzare i costi energetici dei processi cognitivi comporterebbe essa stessa un costo rilevante, che potrebbe provocarne l’auto-disattivazione. Ci sono vie non-cognitive per minimizzare lo sforzo nei processi mentali? Si consideri il problema analogo di minimizzare il consumo di energia nel movimento muscolare. I muscoli prendono la loro energia da reazioni chimiche. Questa energia può essere trasformata in lavoro o in calore. L’efficienza del processo (eccetto quando la funzione del movimento sia fornire calo- D. Sperber, Modularità e pertinenza 129 re, come nel tremare) consiste nel lasciare che solo una minima parte di energia sia trasformata in calore. Queste reazioni chimiche locali dipendono dall’approvvigionamento di ossigeno e alimenti attraverso i vasi sanguigni, un approvvigionamento che ha i suoi propri costi energetici e che può essere insufficiente o eccessivo per un’efficienza ottimale. I vasi sanguigni hanno anche la funzione di rimuovere il diossido di carbonio e prodotti di scarto come il lattosio. La rimozione del lattosio dal muscolo è più lenta della sua produzione, così da causare, in caso di uso prolungato del muscolo, una sensazione di fatica. Solo al di sopra di questa soglia lo sforzo muscolare è “rappresentato” nel sistema cognitivo – ed anche così lo è in un senso piuttosto generico – provocando spesso una intenzionale ridistribuzione dello sforzo muscolare. La regolazione dello sforzo – la produzione della giusta quantità di energia nel tessuto muscolare, la regolazione del flusso sanguigno, e così via – viene altrimenti ottenuta non mediante computazioni su rappresentazioni bensì attraverso procedure fisiologiche non cognitive che, possiamo supporre, sono in misura molto ampia specificate geneticamente. Io suggerisco che analogamente la regolazione dello sforzo nei processi cognitivi sia ottenuta, per la maggior parte, attraverso processi cerebrali non cognitivi che sono inoltre ampiamente specificati per via genetica. Che il flusso dell’energia nel cervello sia guidato da meccanismi non cognitivi può apparire abbastanza agevole da accettare. Non è dopotutto un semplice aspetto dell’implementazione neurologica dei processi cognitivi? In che modo ciò potrebbe essere rilevante per una comprensione della cognizione ad un livello computazionale o algoritmico, per usare la celebre distinzione di Marr? Ebbene, io sosterrò che la regolazione di questo flusso di energia ha conseguenze cognitive, e persino epistemiche. Comprendere come il cervello sia sensibile al costo delle varie procedure può essere difficile. Ancora più difficile è comprendere come il cervello possa essere sensibile alla misura dei benefici cognitivi che risultano dall’elaborazione dei diversi input. 130 Modelli della mente e processi di pensiero Per cominciare, in che modo il cervello può distinguere, tra tutti i cambiamenti cognitivi che le operazioni cognitive possono produrre, quelli che sono benefici e quelli che non lo sono, ed anzi potrebbero addirittura risultare dannosi (ad esempio, inferenze sbagliate)? Ebbene, il cervello non ha altra scelta che fidarsi di se stesso ed essere, per così dire, ottimista circa le sue proprie procedure. Ovvero, esso dovrebbe comportarsi in modo coerente con la presunzione che, in generale, le sue percezioni siano veridiche e le sue inferenze razionali. In condizioni normali, l’elaborazione di nuovi input produce effetti cognitivi positivi, ossia risulta in un miglioramento nella conoscenza individuale del mondo, si tratti di aggiungere nuove conoscenze, aggiornarne o modificarne di vecchie, aggiornare i gradi di probabilità soggettiva in modo da tenere conto di nuova evidenza, o semplicemente riorganizzare la conoscenza attuale così da facilitarne l’uso futuro. Naturalmente ci sono molte eccezioni – casi in cui una minore elaborazione avrebbe prodotto una migliore conoscenza – ma le procedure che tendono a produrre più effetti cognitivi negativi che positivi verranno probabilmente eliminate dalla selezione. Come conseguenza, il cervello avrebbe per lo più ragione di trattare ogni e qualsiasi effetto cognitivo come un effetto positivo, in altre parole come un beneficio cognitivo. Ma cosa ne segue? Anche supponendo che tratti tutti gli effetti cognitivi come benefici cognitivi, in che modo il cervello sarebbe in grado di calcolare la misura di questi effetti cognitivi? Dovrebbe contare il numero delle conclusioni a cui è giunto? Dovrebbe trattare il valore di ogni conclusione come una funzione della sua complessità? Dovrebbe moltiplicare il valore di ciascuna conclusione per la sua probabilità soggettiva? Dovrebbe assegnare maggior valore (e quanto maggiore?) a conclusioni che hanno conseguenze pratiche, o correlate ad interessi permanenti? Come dovrebbe valutare la revisione di precedenti credenze? E così via. O non sono forse queste le domande giuste? In effetti, non è affatto ovvio che il cervello debba calcolare la misura degli effetti cognitivi. Potrebbero esservi indicatori fisiologici D. Sperber, Modularità e pertinenza 131 della misura degli effetti cognitivi nella forma di schemi di attivazione chimica o elettrica in specifiche locazioni del cervello. Un modulo riceve un certo grado di attivazione da altri moduli con i quali è connesso. Esso è attivato da moduli operanti in senso ascendente che gli forniscono gli input. Ma può essere attivato anche da moduli “clienti”, operanti questa volta in senso discendente, che siano già stati attivati e che trarrebbero beneficio nel ricevere da esso nuovi ed ulteriori input. Si supponga che questi indicatori fisiologici siano in grado di determinare localmente l’attuale distribuzione dell’energia cerebrale in vista dell’elaborazione degli specifici input. Tali indicatori possono essere approssimativi. Nondimeno, essi possono essere sufficienti per far sì che l’energia fluisca verso quei processi che nel dato momento è probabile producano effetti cognitivi relativamente maggiori. In altre parole, proprio come lo sforzo non deve essere necessariamente computato, allo stesso modo non deve essere computato l’effetto cognitivo; ed entrambi i fattori, sforzo ed effetto, possono guidare la catena dei nostri pensieri senza che essi stessi siano in alcun modo pensati. Qualcuno potrebbe obiettare: supponiamo che ci siano indicatori fisiologici dello sforzo e dell’effetto. Tutto ciò che essi possono indicare sono lo sforzo e l’effetto passato ed attuale, mentre ciò che dovrebbe guidare la distribuzione delle risorse cerebrali sono lo sforzo e l’effetto “atteso”4. Risposta: non è vero che gli indicatori possano indicare solo stati di cose passati e presenti. Nubi nere possono indicare che la pioggia è vicina. Il livello attuale di concentrazione del lattosio in un muscolo può indicare che il muscolo non è in grado di continuare a sostenere a lungo uno sforzo di quella intensità. Le differenze nei pattern di attività di due processi cognitivi in competizione possono indicare quale dei due abbia la più alta utilità cognitiva attesa. Suppo4 In modo analogo all’“utilità attesa” nella teoria dell’utilità attesa, io parlo di “pertinenza attesa” senza presupporre un processo cognitivo che comporti la formazione di aspettative mentalmente rappresentate. In realtà, sostengo che le persone tendano a massimizzare la pertinenza attesa senza, nella maggior parte dei casi, rappresentarla affatto. 132 Modelli della mente e processi di pensiero niamo d’altronde che l’elaborazione degli input A e B stia producendo al momento il medesimo livello di effetti, ma che l’elaborazione di A stia producendo questi effetti con uno sforzo maggiore. O supponiamo che l’elaborazione degli input A e B stia richiedendo lo stesso livello di sforzo, ma che l’elaborazione di B stia sortendo effetti maggiori. Certo è impossibile prevedere con certezza come le cose evolveranno, ma in entrambi i casi dovremmo attenderci una maggiore utilità cognitiva dall’elaborazione di B piuttosto che di A. Un’indicazione ancora più significativa potrebbe essere data dalla direzione in cui si modificano i livelli degli effetti e degli sforzi. Se le elaborazioni degli input A e B stanno producendo la stessa quantità di effetto con la stessa quantità di sforzo, ma la quantità di effetti prodotti dall’elaborazione di A va decrescendo laddove quella di B è costante o in crescita, o se la quantità di sforzo richiesto dall’elaborazione di A è in aumento e quella di B è costante o in diminuzione, allora, di nuovo, dovremmo attenderci una maggiore utilità cognitiva dall’elaborazione di B piuttosto che di A. Se guardiamo alla questione in una prospettiva evoluzionista, che significa tutto ciò? Si immagini una specie che investa in modo crescente nella cognizione, monitorando in modo sempre più accurato un numero sempre crescente di aspetti dell’ambiente, costruendo una memoria sempre più ampia, e ottenendo tutto questo mediante l’uso di una varietà sempre crescente di moduli percettivi e concettuali. Il risultato sarebbe una sorta di collo di bottiglia attenzionale: solo una porzione molto ristretta degli input disponibili potrebbe diventare oggetto di attenzione, e solo una porzione molto ristretta dell’informazione di sfondo potrebbe essere utilizzata nel trattamento di questi input. Questo collo di bottiglia a sua volta determinerebbe una forte e costante pressione selettiva per ottimizzare la scelta degli input da elaborare, ciò che, nel quadro che propongo, è equivalente ad ottimizzare la distribuzione dell’energia ai moduli. Una simile pressione selettiva dovrebbe portare all’evoluzione di una varietà di tratti che contribuiscono ad una distribuzione ottimale. Non sto escluden- D. Sperber, Modularità e pertinenza 133 do la possibilità che, tra questi tratti, possano esservi dispositivi mentali direttamente responsabili della gestione interna delle risorse, ma non mi pare plausibile, sia per ragioni evoluzionistiche sia per ragioni di efficienza, che questa distribuzione delle risorse possa essere interamente o anche prevalentemente controllata da qualche dispositivo centrale specializzato. Per lo stesso genere di ragioni per cui, che ci piaccia o no, le economie di mercato funzionano meglio di quelle centralizzate, sembra probabile che una competizione tra moduli per le risorse dia migliori risultati che una distribuzione controllata centralmente. C’è un’ampia varietà di piccoli cambiamenti nel funzionamento ed articolazione dei moduli ciascuno dei quali potrebbe avere contribuito a migliorare la distribuzione delle risorse nel corso dell’evoluzione, o che potrebbe migliorarla nel corso dello sviluppo cognitivo. Questi includono, come ho già suggerito, l’uso di semplici ed approssimativi indicatori del dispendio energetico sia attuale sia atteso, nonché dell’effetto cognitivo sia attuale sia atteso, di specifiche procedure. Differenti moduli possono essere attivati più o meno facilmente in un modo che riflette il loro generale contributo alla pertinenza. Ai moduli che sono specializzati nell’elaborare input con elevato impatto nella storia della specie (in particolare, con un elevato impatto pratico) dovrebbe essere dato un vantaggio iniziale nell’accesso alle risorse cerebrali, con la possibilità di inibire altre procedure in maniera bottom-up, ossia dal basso verso l’alto (come effettivamente accade, in base alla letteratura sull’attenzione, ad esempio con i segnali di potenziale pericolo). Aggiungo anche che, dal momento che l’ambiente umano cambia molto più rapidamente del genoma umano, ciò può avere talvolta risultati contro-adattivi. Ad esempio, alle persone che vivono in ambienti urbani capita di trasalire per i forti rumori, fin troppo frequenti, che in un ambiente ancestrale avrebbero meritato immediata attenzione. Gli input riconducibili alla sfera di un interesse stabile sviluppato dall’individuo possono contare su più ricchi database intra- 134 Modelli della mente e processi di pensiero modulari, e su più ricche connessioni intermodulari (i due modi in cui una più ricca informazione di sfondo è realizzata in un sistema modulare). Ai moduli che elaborano tali input dovrebbe essere dato un vantaggio nell’accesso alle risorse energetiche, e dovrebbero attivarsi più facilmente. Anche gli input relativi ai processi cognitivi in corso dovrebbero godere, coeteris paribus, di un vantaggio nell’accesso alle risorse, questa volta in ragione di fattori quantitativi dal lato dello sforzo: i dispositivi e i dati necessari per elaborare questi input sono già attivati, e quindi la loro elaborazione è meno costosa che quella degli input per i quali occorre fornire energia a dispositivi ancora inattivi, o comunque meno attivi. Pertanto ciò che è pertinente per l’attività cognitiva in corso ha, coeteris paribus, un grado maggiore di pertinenza. Più in generale, ci sono molti modi differenti, alcuni ovvi, altri ancora da scoprire, in cui un sistema massivamente modulare potrebbe migliorare la distribuzione delle sue risorse energetiche tra i moduli, conseguendo così un risultato migliore che se agisse a caso. Alcuni tratti dell’organizzazione cognitiva umana che tendono ad ottimizzare la pertinenza sono emersi nel corso dell’evoluzione della specie. Altri emergono nel corso dello sviluppo cognitivo e durante la vita cognitiva dell’individuo. Questi progressi lungo l’arco della vita sono essi stessi resi possibili dalla flessibilità del sistema modulare di cui l’evoluzione ha dotato la cognizione umana. Questa flessibilità, pertanto, non dovrebbe essere vista come una mera abilità di adeguare le capacità cognitive alle richieste ed alle opportunità dei differenti ambienti. Essa aiuta anche a massimizzare la pertinenza conseguita dai processi cognitivi in corso. La flessibilità, ossia la sensibilità al contesto nel lungo termine, fornisce un contributo decisivo alla sensibilità al contesto nel breve termine. D. Sperber, Modularità e pertinenza 135 4. Conclusioni L’affermazione che il sistema cognitivo umano tende a distribuire le risorse per l’elaborazione degli input in funzione della loro pertinenza attesa è alla base della teoria della pertinenza (della quale costituisce il primo principio di pertinenza, quello cognitivo)5. La tesi principale di questo capitolo è stata che questa distribuzione può essere conseguita senza calcolare la pertinenza attesa. Quando un input soddisfa le condizioni di input di una data procedura modulare, ciò assicura a questa procedura un certo livello iniziale di attivazione. Le procedure attivate da input sono in competizione tra loro per le risorse energetiche che consentirebbero loro di seguire il loro corso fino in fondo. Ciò che determina quale delle procedure in competizione ottenga risorse sufficienti per completare le proprie operazioni è la dinamica della loro attivazione. Tale dinamica dipende sia dal precedente grado di attivazione della procedura modulare sia dall’attivazione che si propaga dagli altri moduli attivi. È anche piuttosto verosimile che l’attivazione di alcune procedure abbia effetti inibitori su alcune altre procedure. La teoria della pertinenza fa l’ipotesi che, ad ogni istante, queste dinamiche di attivazione forniscano indicatori fisiologici approssimati della pertinenza attesa. Il flusso di energia nel sistema viene regolato localmente da questi indicatori. Come risultato, le combinazioni di procedure di in5 Il principio cognitivo di pertinenza ha conseguenze empiricamente verificabili, alcune delle qua- li sono passate in rassegna in Van der Henst & Sperber (2004). Ad esempio, abbiamo mostrato con esperimenti sul ragionamento relazionale che, attraverso la manipolazione di fattori contestuali, le persone possono essere spinte ora a derivare le implicazioni logiche di un certo insieme di premesse, ora ad affermare che niente segue da esse (Van der Henst, Sperber & Politzer, 2002). Ciò che il contesto fa in questi casi, sosteniamo, è innalzare o abbassare le aspettative di pertinenza relative alle premesse presentate, in tal modo innescando o al contrario inibendo una procedura inferenziale. Con esperimenti sul compito di selezione di Wason, abbiamo mostrato che, attraverso la manipolazione di fattori contestuali, le persone possono essere spinte ad adottare l’una o l’altra di numerose procedure inferenziali possibili, coinvolte nell’interpretazione dei condizionali, e pertanto raggiungere conclusioni differenti dallo stesso insieme di premesse condizionali (Sperber et al., 1995a; Girotto et al., 2001). Ciò che il contesto fa in questo caso, sosteniamo, è innalzare o abbassare le aspettative di pertinenza relative a ciascuna di queste procedure nella loro applicazione alle premesse. Questi esperimenti illustrano la tesi principale di questo capitolo. 136 Modelli della mente e processi di pensiero put che hanno la maggiore pertinenza attesa sono quelle che con maggiore probabilità riceveranno energia sufficiente per seguire il loro corso. Si tratta solo di una tendenza, ma è forte quanto basta per consentire il genere di sensibilità al contesto che gli esseri umani effettivamente esibiscono nei loro processi cognitivi individuali6. Sono ben consapevole della natura vaga e speculativa del quadro delineato in questo capitolo. C’è bisogno sia di un migliore ancoraggio empirico, sia di una modellizzazione formale. Nondimeno mi sento giustificato nel presentare questa proposta dal momento che essa ha a suo sostegno, paradossalmente, un argomento dello stesso Fodor. Egli scrive: «L’idea di Turing che i processi mentali siano computazioni, insieme con l’idea di Chomsky che l’argomento della povertà dello stimolo fissi un limite inferiore all’informazione che una mente deve avere in modo innato, rappresentano una metà della Nuova Sintesi. La parte restante è la tesi della “modularità massiva” e l’affermazione che l’architettura cognitiva sia un adattamento darwiniano. Concepire la cognizione come computazionale comporta alcuni problemi molto profondi, ma questi problemi emergono innanzitutto in relazione a problemi mentali che non sono modulari. La vera attrattiva della tesi della modularità massiva è che, se essa è vera, noi possiamo risolvere questi problemi, o almeno riuscire a tenerli lontani dal centro del palcoscenico per qualche tempo (Fodor, 2000: 23)». Questo dovrebbe costituire un forte argomento in favore della tesi della modularità massiva. Fodor, tuttavia, prosegue così: «La cattiva notizia è che, dal momento che la tesi della modula6 Nelle imprese intellettuali collettive che si sviluppano nel corso delle generazioni, ed in parti- colare nella scienza, possono essere conseguite una maggiore sensibilità al contesto ed una maggiore pertinenza, ma questi risultati non possono essere spiegati dalla sola psicologia cognitiva, e, al contrario di quanto Fodor tende a fare, non dovrebbero essere presi come un parametro per valutare i modelli della cognizione umana (Sperber & Wilson, 1996). Piuttosto, la spiegazione di questi risultati fa appello ad una epidemiologia delle rappresentazioni che guardi agli effetti della catena causale tra processi cognitivi individuali attraverso popolazioni (Sperber, 1996). D. Sperber, Modularità e pertinenza 137 rità massiva è abbastanza chiaramente falsa, presto o tardi dovremo fare i conti con la tremenda inadeguatezza della sola teoria remotamente plausibile della mente cognitiva che possediamo a tutt’oggi». Il suo principale argomento per sostenere che la tesi è falsa è la presunta incapacità di un sistema massivamente modulare di esibire sensibilità al contesto. Proprio per questo mi è sembrato che valesse la pena di spiegare, sia pure in modo ipotetico, come un simile sistema potrebbe essere sensibile al contesto, contrariamente all’affermazione di Fodor. Dal momento che la tesi della modularità massiva “potrebbe” essere vera, possiamo continuare ad esplorare «la sola teoria remotamente plausibile della mente cognitiva che possediamo a tutt’oggi», e questa è di sicuro una buona notizia. Le trasmissioni della cultura di Alberto Acerbi Definire cosa sia la cultura è notoriamente un compito elusivo. Dan Sperber (Sperber 1999), per esempio, preferisce parlare di “cose culturali”, sostenendo che non esiste una separazione netta tra queste e le “cose non-culturali”, ma che si tratta più che altro di una questione di grado: alcune informazioni, che siano implementate in comportamenti, artefatti, rappresentazioni mentali o altro ancora, sono più diffuse di altre all’interno di un dato gruppo e a queste tendiamo ad assegnare l’etichetta di culturali. Allo stesso modo, Boyd e Richerson affermano: «Non siamo del parere che valga molto la pena discutere se la definizione “corretta” di cultura sia la nostra o qualche altra. I fenomeni naturali complessi, quali la cultura, sono troppo difficili da cogliere con definizioni semplici e litigare per stabilire quale fra le molte ragionevoli sia la migliore non ci pare un esercizio fruttuoso. Piuttosto, ci si dovrebbe domandare se una definizione genera una teoria utile» (Richerson, Boyd, 2005: 9). Nelle prime righe di Cultural Transmission and Evolution, Cavalli-Sforza e Feldman riconoscono di attenersi alla definizione riportata dal dizionario Webster, in cui la cultura viene descritta come: «the total pattern of human behavior and its product embodied in thought, speech, action and artifacts, and dependent upon man’s capacity for learning and transmitting knowledge to succeeding generations» (Cavalli-Sforza, Feldman, 1981: 3, corsivo nell’originale). In effetti, è ragionevole pensare che, nell’attività pratica, la maggior parte degli antropologi abbiano in mente qualcosa di si- 140 Modelli della mente e processi di pensiero mile. Gli esseri umani mostrano una variabilità comportamentale che non è in alcun modo paragonabile a quella di altre specie (Pagel, Mace 2004; Richerson, Boyd 2005). Questa variabilità può essere dovuta a diversi fattori: gli antropologi – o, almeno, gli antropologi culturali e cognitivi – studiano in particolare la variabilità dovuta a processi di apprendimento sociale e di trasmissione culturale. Ma cosa si intende precisamente con questi termini? Nella maggior parte dei casi, sembra che, in antropologia, si tenda a pensare i processi di trasmissione culturale e di apprendimento sociale come processi “trasparenti”. Con questo intendo dire che, una volta osservato un pattern comportamentale, diciamo, un particolare rituale, la “spiegazione” di questo viene ricercata nei rapporti che questo pattern intrattiene con altri fenomeni culturali, senza tenere in particolare considerazione i meccanismi a livello delle interazioni individuali. Semmai, viene fatto riferimento ad un concetto di imitazione abbastanza vago, ma entrando raramente nei dettagli relativi a come questo processo venga in pratica istanziato. L’idea ha radici profonde nell’antropologia. La cultura viene considerata, in modo più o meno esplicito, ad un livello di analisi a sé stante: al massimo si ammette che esistano dei vincoli molto generali rispetto a ciò che può essere trasmesso, ma si ritiene che questi siano fondamentalmente irrilevanti per le dinamiche che avvengono al livello gerarchicamente superiore dei fatti culturali (Tooby, Cosmides, 1992). Negli ultimi decenni, tuttavia, si sono sviluppati importanti settori di ricerca, che si situano ai confini tra antropologia, psicologia, etologia e biologia evoluzionistica, e che hanno seriamente messo in questione questo tipo di impostazione. Psicologi evoluzionistici e antropologi cognitivi hanno proposto che la trasmissione culturale sia vincolata in modo importante da strutture cognitive comuni a tutti gli esseri umani (Sperber, 1999) o, in modo più estremo, che molte di quelle forme comportamentali che vengono definite come culturali siano in realtà frutto della variazione ambientale, che “evoca” risposte differenti in que- A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 141 sta struttura cognitiva comune (Tooby, Cosmides, 1992). Oppure, l’imitazione, lungi da essere considerata un processo trasparente, è oggi al centro dell’interesse di ricercatori provenienti da numerose discipline che cercano di definirne le caratteristiche peculiari, la diffusione in specie diverse dagli esseri umani o i meccanismi neurali che la rendono possibile (una rassegna recente di queste problematiche è: Hurley, Chater, 2005). Ancora, gli etologi hanno mostrato come molti fenomeni che possono essere descritti, a livello popolazionale, come esempi di trasmissione culturale nel regno animale, che erano stati interpretati come forme di imitazione, sono determinati da diverse forme di interazione più semplici, che possono essere descritte come apprendimento individuale socialmente guidato (Visalberghi, Fragaszy, 1991; Galef, Laland, 2005): non è irragionevole pensare, se non altro facendo riferimento al principio di parsimonia, che queste possano avere un ruolo importante anche nella nostra specie. Lo scopo di questo capitolo è quello di fornire una breve e parziale panoramica di queste ipotesi, accomunate, tutte, dal tentativo di entrare nel dettaglio dei processi di trasmissione culturale. È possibile, anche se non è la mia opinione, che la migliore strategia si rivelerà un giorno quella di astrarre da questi particolari, continuando a focalizzare le analisi antropologiche al livello macro delle dinamiche culturali. Personalmente lo ritengo improbabile: il dibattito che ha caratterizzato molte scienze sociali (si pensi all’economia) rispetto all’opportunità di studiare i fenomeni a livello macro o micro – forse in antropologia più conosciuto come contrasto tra olismo e individualismo metodologico (Sperber, 1997; si veda anche: Richerson, Boyd, 2005) – pare spesso sterile. I “fenomeni naturali complessi”, come la cultura, oltre ad essere difficili da catturare con definizioni semplici, hanno la caratteristica – spiacevole, forse, per chi cerca di comprenderli dal punto di vista scientifico – di presentare legami complicati tra ciò che avviene ad un livello (nel nostro caso, le interazioni individuali) e ciò che avviene ad un altro (le dinamiche cul- 142 Modelli della mente e processi di pensiero turali): forse dobbiamo mettere in conto di occuparci di entrambi e di sviluppare strumenti metodologici che ci permettano di farlo. Ritorniamo, allora, ai concetti di apprendimento sociale e trasmissione culturale. È forse utile, per cominciare, utilizzare una definizione provvisoria più o meno intutiva, generale e che non faccia riferimento ai meccanismi coinvolti ma solo a ciò che è possibile osservare: il fenomeno che ci interessa catturare avviene quando un individuo acquisisce una nuova abilità interagendo con uno o più conspecifici. Da questo punto di vista possiamo dire che se (1) un individuo A esibisce un comportamento x e un conspecifico B non lo esibisce, (2) A e B interagiscono tra loro e, infine, (3) B esibisce il comportamento x, siamo in presenza di una qualche forma di trasmissione culturale (Acerbi, Nolfi, 2006). Tuttavia, l’osservazione di questo fenomeno non è molto informativa rispetto a come, a livello degli individui che interagiscono tra loro, la trasmissione del comportamento sia avvenuta. 1. Jukebox, Camino del Diablo e attrattori: metafore per la cultura Gli psicologi evoluzionistici John Tooby e Leda Cosmides propongono ai propri lettori un esperimento di pensiero (Tooby, Cosmides, 1992: 115-116): chiedono di immaginare una “popolazione” di jukebox identici tra loro, forniti di un ampio repertorio di pezzi musicali e di un meccanismo che permette di stabilire la latitudine e la longitudine. I pezzi musicali che vengono suonati sono determinati dall’output di questo meccanismo. Distribuendo questi jukebox sulla superficie terrestre osserveremmo delle variazioni geografiche rispetto alle melodie suonate: tutti i jukebox posizionati, per ipotesi, a Rio suonerebbero una melodia uguale tra loro ma differente rispetto ai jukebox posizionati, per esempio, a Pechino. Allo stesso modo, se un jukebox venisse spostato da Rio a Pechino cambierebbe la propria melodia, adeguandosi, per così dire, a quelle prodotte dai jukebox locali, A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 143 poiché il suo meccanismo di rilevazione geografica gli fornirebbe il nuovo output. Nell’ottica di molti psicologi evoluzionistici, gli antropologi hanno, in genere, sovrastimato l’importanza dei processi di trasmissione e apprendimento sociale nella spiegazione della variabilità comportamentale umana. Se, come essi sostengono, ogni essere umano è fornito di una ricca struttura cognitiva innata e sensibile alle variazioni ambientali, evoluta per selezione naturale, molte delle differenze etichettate come “culturali” sarebbero semplicemente dovute alle complesse interazioni tra questa struttura e le condizioni ambientali: Tooby e Cosmides definiscono questi pattern comportamentali come “cultura evocata” (evoked culture). Anche se ammettono che lo scenario dei jukebox è un caso irrealisticamente estremo e che viene proposto più che altro come un’immagine speculare dello scenario proposto dall’antropologia mainstream, in cui la diffusione culturale è sostanzialmente libera da vincoli (che ritengono irrealistico nella stessa misura), l’esperimento di pensiero di Tooby e Cosmides fornisce spunti interessanti. I comportamenti etichettabili come cultura evocata non richiedono, in realtà, nessuna forma di apprendimento o di trasmissione, usando i termini nel loro significato di senso comune da cui eravamo partiti per cercare di definire cosa studiassero gli antropologi; di più, non richiedono nemmeno nessuna forma di interazione tra gli individui. Nella definizione provvisoria proposta precedentemente, anche se non viene fatto riferimento esplicito a trasmissione o apprendimento, rimane il fatto che perché un dato comportamento possa essere considerato come “culturale”, l’emergere di quel comportamento in un individuo deve essere preceduto da un’interazione con l’ambiente in un senso un po’ più ampio rispetto ai jukebox degli psicologi evoluzionistici e, in particolare, da un’interazione con gli altri individui presenti in questo ambiente. Se fornissimo i jukebox di un microfono e di un meccanismo che, al posto che rilevare la posizione geografica, potesse rilevare le frequenze delle prime battute delle canzoni che vengono 144 Modelli della mente e processi di pensiero suonate nelle vicinanze e, in base a queste, cercare nel proprio repertorio le melodie più simili, saremmo più disposti a chiamare culturale il comportamento della nostra popolazione di jukebox? Forse, ma probabilmente mancherebbe ancora qualcosa. Una dinamica di questo genere viene definita come stimulus priming: un esempio, nel caso degli esseri umani, noto a tutti, è quello dello sbadiglio. La presenza di altri individui che sbadigliano provoca in breve la replicazione dello stesso comportamento. Un etologo un po’ ingenuo, o semplicemente estremamente rigoroso, fornito della definizione proposta prima, in cui le condizioni sufficienti e necessarie per la trasmissione culturale sono l’assenza di un dato comportamento, l’interazione e poi la sua replicazione, dovrebbe ammettere di trovarsi di fronte ad un caso paradigmatico di questo fenomeno. Allora, qualcosa sembra essere andato storto. Intuitivamente vorremmo che il comportamento replicato sia “nuovo”: questa condizione, che sembra banale, è in realtà alquanto difficile da definire con precisione, ma racchiude probabilmente un’idea importante. Un nuovo esperimento di pensiero, proposto da Robert Boyd e Peter Richerson, ci aiuterà a chiarirla (Richerson, Boyd, 2005: 64-67). Questa volta dobbiamo immaginare di trovarci in un ambiente arido, ma nemmeno troppo estremo, con delle provviste per alcuni giorni e di dovercela poi cavare da soli. Boyd e Richerson hanno in mente una zona desertica al confine tra il Messico e gli Stati Uniti, attraversata da parte di un percorso detto Camino del Diablo, che veniva regolarmente usato dai pioneiri fino all’arrivo della ferrovia. Allo stesso modo, la zona era regolarmente abitata dagli indiani Tohono O’odam: per restare all’argomento classico della psicologia evoluzionistica, l’ambiente non dovrebbe essere troppo diverso da quelli abitati nel Pleistocene, ai quali, secondo gli psicologi evoluzionistici, le strutture cognitive della nostra specie sono adattate. Insomma, come ce la caveremmo? Estremizzando la logica dei jukebox non dovrebbe essere troppo complicato, ma, come Boyd e Richerson, sono certo che A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 145 quasi nessuno è di questa opinione. Ciò che si vuole sottolineare con questo esempio artificioso è che il repertorio comportamentale degli esseri umani è in larga misura costituito da informazioni che non sono trascritte nel codice genetico, istanziate nelle menti umane e pronte ad essere attivate in relazione a determinati stimoli ambientali o sociali. Al contrario, la cultura è adattiva perché permette di conservare, non nei genotipi, ma nelle menti e nei comportamenti, come negli artefatti e nelle modificazioni ambientali in genere, i risultati dell’apprendimento individuale e dei processi di trasmissione sociale che coinvolgono potenzialmente tutti gli esseri umani che interagiscono tra loro. L’insegnamento che possiamo ricavare dall’esempio dei jukebox è duplice. Da una parte, è necessario essere cauti nel considerare qualsiasi variazione comportamentale che possieda determinate caratteristiche (somiglianza intra-gruppo, differenza tra gruppi, cambiamento nel tempo, adattamento all’ambiente specifico) come dovuta a dinamiche culturali. Dall’altra, è necessario tenere presente che un’architettura cognitiva complessa, come quella comune a tutti gli esseri umani, può influire sui processi di apprendimento sociale e trasmissione culturale, pur senza vincolarli in modo completo. Rispetto a quest’ultimo punto, una versione più “moderata” dell’argomento dei jukebox proviene dall’antropologo Dan Sperber (Sperber, 1999). Come gli psicologi evoluzionistici, Sperber ritiene che la cognizione umana sia frutto di meccanismi evoluti per selezione naturale e comuni in tutta la specie e, in particolare, che l’architettura della mente sia modulare, ossia che la mente sia composta da meccanismi specializzati e distinti, che effettuano compiti specifici (si veda anche: Hirschfeld, Gelman 1994). Sperber è convinto che tale architettura influenzi i processi di trasmissione culturale e che, per spiegare la diffusione, la stabilità o la variabilità delle varianti culturali, sia necessario fare riferimento ad essa. La metafora, qui, è quella dell’attrattore: la trasmissione culturale è un processo attivo, in cui chi apprende non “copia” un comportamento da un altro individuo, ma lo “ri- 146 Modelli della mente e processi di pensiero costruisce” sulla base delle informazioni che ha a disposizione. Poiché queste informazioni sono, di norma, non sufficienti per una ricostruzione completa del comportamento, la stabilità dei tratti culturali, nel tempo e nello spazio, è molto più robusta di quanto dovremmo aspettarci. Secondo Sperber, ciò è dovuto, come si diceva, all’esistenza di strutture cognitive comuni che vincolano le traiettorie nello spazio dei comportamenti possibili funzionando, in questo spazio astratto, da attrattori. Altri antropologi hanno difeso la plausibilità di ipotesi simili rispetto a domini culturali quali la religione (Boyer, 2001), la folkbiology (Atran, 1990, 1998) o la categorizzazione razziale e sociale (Hirschfeld, 1996; Gil-White, 2001; per una valutazione di questi lavori si veda Acerbi, 2005). Per distinguere queste posizioni ritorniamo all’immagine dello spazio astratto dei comportamenti possibili, in cui muoversi equivale ad apprendere socialmente. Se, nell’immagine dell’ipotetico antropologo ingenuo, questo spazio è completamente piano ed ogni direzione è equivalente e, nell’immagine estrema invocata dalla psicologia evoluzionistica, è composto da una serie di cavità, dalle quali è impossibile spostarsi, nell’immagine di Sperber è meglio pensarlo come ad un paesaggio collinoso, con qualche valle da cui è difficile muoversi e con vie preferenziali rispetto ad altre. Una delle possibilità per gli antropologi è cercare di definire una cartografia di questo spazio o, quantomeno, utilizzare le mappe che vengono fornite dagli psicologi per verificare le proprie ipotesi sulle spiegazioni delle dinamiche culturali1. Tuttavia, in qualche modo, come ci suggerisce l’esempio del Camino del Diablo, il valore adattivo della cultura deriva dall’opportunità di muoversi in questo spazio e muoversi in questo spazio significa modificare il proprio comportamento attraverso 1 Naturalmente, questo non significa che altri fattori non siano importanti nel determinare le tra- iettorie in questo spazio astratto. Mi riferisco a fattori ambientali o, in particolare, a fattori più propriamente “culturali” (politici, storici, economici, ecc.). Semplicemente, non sono oggetto di questa analisi e, comunque, ritengo che, almeno rivolgendosi a chi si occupa di antropologia, non sia troppo necessario rimarcarne l’importanza. A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 147 l’interazione con altri individui e in direzioni che non sono state completamente specificate dalla genetica. Come questo possa essere fatto è ciò di cui ci occuperemo ora. 2. Trasmettere e copiare Come anticipato, come esseri umani siamo portati a pensare che l’apprendimento sociale sia un processo trasparente e che un generico meccanismo che permette l’imitazione possa spiegarlo. Ci muoviamo nello spazio dei comportamenti possibili osservando gli altri, “copiando” i loro comportamenti. Ho già fatto riferimento allo scetticismo di antropologi come Dan Sperber rispetto a questa visione, ma ora è possibile entrare nei dettagli. Ricerche di etologia (che mostrano come l’imitazione non sia affatto un processo diffuso negli animali), di robotica (che mostrano come sia estremamente difficile costruire un artefatto con capacità imitative) e di psicopatologia (che mostrano in quali casi per gli esseri umani è difficile, o impossibile, imitare) ci aiutano ad evidenziare alcuni difetti dell’equazione apprendimento sociale come copia del comportamento. Mettiamoci nei panni di chi debba costruire un robot capace di imitare e che cerchi di implementare questa abilità con un algoritmo che copi esplicitamente il comportamento di un modello, o dimostratore. Il robot è fornito delle migliori tecnologie possibili dal punto di vista di sistemi di percezione del mondo esterno (telecamere, microfoni, ecc.), sistemi di controllo delle parti fisiche, memorie, e via dicendo. Per iniziare, cominceremo ad addestrare il nostro robot ad imitare comportamenti molto semplici: per esempio, fare un nodo. Il dimostratore, probabilmente un essere umano, si metterà davanti alla telecamera del robot e incomincerà a fare movimenti con una corda. Il sistema visivo del robot effettuerà una dettagliata scansione della scena, che verrà conservata senza problemi nell’abbondante memoria di cui lo abbiamo premurosamente fornito. 148 Modelli della mente e processi di pensiero E ora? Come è possibile ricavare da questa registrazione dei movimenti altrui, delle informazioni su come “muovere sé stessi”? Questo problema, straordinariamente difficile da trattare per chi si occupa di robotica, è stato definito il “problema della corrispondenza” (Nehaniv, Dautenhahn, 2001). È evidente che l’algoritmo che abbiamo utilizzato non sarebbe sufficiente per risolverlo: dovremmo aggiungere un altro meccanismo che sia in grado di traslare i movimenti osservati in opportuni comandi motori. In questo caso, osservando le proprie mani, il robot dovrebbe procedere per prove ed errori (quindi apprendendo, in parte, individualmente) e cercare di effettuare i movimenti che meglio approssimano quelli del modello, che ha registrato, dovendo così, per poterli confrontare, effettuare anche una sorta di inversione della prospettiva visuale. Il rischio è che i costi computazionali di un algoritmo così complesso superino i vantaggi di potere apprendere un comportamento da un modello. Inoltre, il problema sarebbe ancora meno trattabile per comportamenti ancora più semplici, come per esempio le espressioni facciali. Sappiamo che, tra gli esseri umani, le espressioni facciali sono uno dei primi comportamenti che vengono imitati: Meltzoff e Moore (Meltzoff, Moore 1983) hanno scoperto che i neonati imitano le espressioni facciali degli adulti ad un’età media di 32 ore. All’interno del loro campione, il neonato più precoce nell’imitare le espressioni facciali lo fece a 42 minuti dalla nascita! Se nel caso del nodo, il nostro robot avrebbe potuto confrontare i movimenti delle proprie mani con quelli delle mani del modello, cosa avrebbe potuto fare in questo caso, non avendo informazioni percettive a proposito delle proprie espressioni facciali? Vorrei continuare ancora con la metafora della costruzione del robot. Spero sia chiaro quale sia il significato di questo modo di procedere: da una parte permette di pensare ai meccanismi implicati nel processo di trasmissione culturale nel modo più distaccato possibile, cercando di non essere influenzati da come lo valutiamo in quanto esseri umani, profondamente coinvolti in A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 149 questo processo (tanto da ritenerlo “naturale”). Dall’altra, permette di testare la plausibilità delle nostre ipotesi sui meccanismi e sui loro funzionamenti, fornendo un “grado zero” di plausibilità: se in un robot non funzionerebbe è probabile che non funzioni così nemmeno negli esseri umani. Nulla di più. Comunque, disperando di riuscire a risolvere il problema della corrispondenza, ma testardamente convinti che il nostro algoritmo di copia sia efficace, optiamo per un trucco: non forniamo più alla percezione visiva del robot (la telecamera) i movimenti del modello, ma gli forniamo direttamente le informazioni sulle attivazioni motorie e muscolari del modello. Il problema della corrispondenza è risolto d’ufficio. A questo punto il robot comincerà a trafficare a caso con la corda, terrà traccia delle proprie attivazioni motorie e le confronterà con quelle del modello. Un algoritmo adatto modificherà gradualmente le attivazioni fino a renderle simili così che, dopo un po’ di tentativi, il robot assocerà determinati input a determinati output nella stessa maniera del dimostratore. In altre parole, imparerà a fare il nodo. Ancora, tuttavia, ci troviamo di fronte a dei problemi. Il primo, che è un altro aspetto del problema della corrispondenza, riguarda le differenze nelle strutture e nelle dinamiche corporee (Nehaniv, Dautenhahn, 2002). Tipicamente, tra gli esseri umani, i bambini imparano dagli adulti e, banalmente, le strutture e le dinamiche corporee dei bambini sono differenti da quelle degli adulti. Inoltre, gli esseri umani, almeno in linea di principio, possono imitare anche comportamenti prodotti non da esseri umani, ma da animali o da oggetti meccanici che producono un qualsiasi movimento. Un secondo problema, messo in luce da Rodney Brooks (Adams et al., 2000), un ricercatore nel campo della robotica e dell’intelligenza artificiale, riguarda quali attivazioni motorie imitare. Il nostro ben disposto dimostratore di nodi, oltre a compiere i movimenti necessari per legare la corda, sbatterà sicuramente gli occhi con un certo ritmo, assumerà espressioni facciali, sposterà il proprio peso da un piede all’altro, o, addirittura, po- 150 Modelli della mente e processi di pensiero trebbe starnutire o grattarsi il naso. Pensando da esseri umani, sembra banale isolare i movimenti da replicare da quelli non essenziali, ma come dovrebbe riuscirci il nostro robot2? Da ultimo, anche se il robot avesse una struttura corporea esattamente uguale a quella del dimostratore, fosse riuscito in qualche modo ad isolare le attivazioni da replicare, e incominciasse a cercare di modificare le proprie attivazioni per renderle simili a quelle del modello, è ancora possibile che qualcosa vada storto. In una simulazione (Acerbi, Nolfi, 2006) abbiamo immaginato questa situazione e abbiamo notato come, dopo aver modificato il sistema di controllo di un robot simulato per rendere i propri output simili a quelli del modello, ancora il comportamento dei due fosse abbastanza diverso. L’algoritmo che abbiamo utilizzato, pur non riducendo l’errore esattamente a zero, come del resto è ragionevole che sia, era efficace: fornendo al robot “allievo” e al robot “maestro” gli stessi input, essi producevano quasi gli stessi output. Tuttavia, nel caso di comportameni continui, come fare un nodo (nel nostro caso si trattava di muoversi in uno spazio bidimensionale verso un obiettivo), le piccole differenze delle attivazioni a livello micro si accumulano nel tempo, producendo, a livello del comportamento risultante, differenze rilevanti. Non è difficile capire come questo possa avvenire: al primo micromovimento l’output dell’allievo sarà leggermente diverso da quello del modello, e così l’allievo si ritroverà poi in una posizione un poco differente da quella in cui si troverà il modello. A questo punto anche gli input saranno leggermente diversi ed 2 In realtà, ho in mente anche un corrispettivo “umano” del problema sollevato da Brooks. Si pensi ad attività che richiedono una complessa coordinazione senso-motoria come quelle sportive o alcune di quelle artistiche: per esempio, imparare a suonare uno strumento musicale. Dall’osservazione spesso non è chiaro quali siano le attività motorie da tenere in considerazione per imitare il comportamento del maestro. Da dilettante suonatore di pianoforte, ho sperimentato più volte come una particolare postura delle braccia, o della schiena, che può non venire nemmeno notata, abbia profonda influenza sul suono prodotto o produca una modificazione a cascata di altri comportamenti motori. Tuttavia, non mi è chiaro se questo rappresenti una caratteristica generale dell’apprendimento sociale umano o, appunto, sia limtato a particolari forme di espressione corporea, quantitativamente trascurabili tra i comportamenti appresi. A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 151 è abbastanza plausibile che gli output divergeranno ancora un po di più, così che l’allievo si ritroverà in una posizione ancora più diversa, dove riceverà input ancora più diversi, e via dicendo. Tutto ciò, per fare un nodo. Alla luce di queste considerazioni, trovo giustificato lo scetticismo di antropologi come Dan Sperber rispetto alla riduzione della trasmissione culturale a copia. Per risolvere questo problema, sono state adottate diverse strategie. Come si è detto, Sperber e altri antropologi affermano che problemi come quelli a cui abbiamo accennato vengano risolti dal fatto che le strutture cognitive comuni alla specie umana ci facciano convergere, per default, verso soluzioni comuni. Altri ricercatori (Tomasello, 1996) hanno iniziato a trattare l’imitazione come un fenomeno cognitivo complesso, caratteristico degli esseri umani. Michael Tomasello (vedi anche: Tomasello, Kruger, Ratner, 1993) ritiene che per imitare, nel senso proprio della parola, non sia sufficiente copiare delle sequenze comportamentali, ma sia necessario comprendere che queste sequenze sono finalizzate ad un obiettivo e capire quale obiettivo abbia in mente il modello, imitando, quindi, sia la sequenza comportamentale che l’obiettivo. Prerequisito fondamentale dell’imitazione, presente solo negli esseri umani, sarebbe, quindi, secondo Tomasello, la capacità di interpretare intenzionalmente le azioni degli altri. 3. Meccanismi semplici di trasmissione sociale del comportamento Un’altra possibilità ancora è quella di considerare forme differenti di trasmissione sociale dell’informazione. Gli studi etologici, attualmente, convergono su due risultati: da una parte, gli animali non sembrano in grado di “imitare” nel senso proposto da Tomasello ma, dall’altra, l’apprendimento sociale sembra potersi realizzare in altre forme, diverse da questa, e avere un ruolo decsivo nella formazione di pattern comportamentali complessi in molte specie (Galef, Laland, 2005). 152 Modelli della mente e processi di pensiero Prima, vorrei offrire qualche motivazione per valutare questa possibilità. Non credo sia un pregiudizio antropocentrico affermare che, tra gli esseri umani, la cultura svolge un ruolo che non è paragonabile a quello che ha in altre specie viventi. Tuttavia, in una prospettiva naturalistica, dobbiamo accettare il fatto che questa apparente discontinuità sia dovuta ai consueti meccanismi evoluzionistici e che, quantomeno, studiare forme semplici di trasmissione sociale possa servire a riconoscerne l’eventuale presenza nelle dinamiche culturali umane (presenza di cui faccio fatica a dubitare) e, contemporaneamente, a capirne meglio le origini evoluzionistiche. Questo non significa che strutture cognitive presenti solo tra gli esseri umani (Sperber) o che la capacità di riconoscere l’intenzionalità nelle sequenze comportamentali degli altri individui (Tomasello) non abbiano un ruolo nella trasmissione e nell’evoluzione culturale. Per quanto ne sappiamo ora, tutte queste ipotesi potrebbero essere corrette e, come è probabile, la cultura potrebbe essere l’effetto complesso di più meccanismi. Altre due motivazioni mi derivano da principi che ho imparato dai lavori di vita artificiale. Molto spesso accade che fenomeni che interpretiamo come complicati e dovuti a meccanismi egualmente complicati possano essere riprodotti artificialmente come risultato di interazioni e di meccanismi molto più semplici (Noble, Todd, 2002). Quando questo accade è assai plausibile che la selezione naturale, in genere parsimoniosa, abbia realizzato i fenomeni in questione con i meccanismi più semplici. Allo stesso modo, i pattern comportamentali che interpretiamo di solito come risultato di dispendiose elaborazioni cognitive “solipsistiche” possono spesso venire realizzati efficacemente da dispositivi più semplici, che sfruttano le interazioni tra sistema nervoso, corpo, ambiente e, eventualmente, conspecifici (Nolfi, 2006). Anche in questo caso il processo evoluzionistico tenderebbe preferenzialmente verso le soluzioni del secondo tipo. Immaginiamo, per iniziare, una specie che vive in un ambiente con due tipi di piante che presentano caratteristiche percetti- A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 153 ve differenti. Uno dei due tipi è nutriente e porta energia all’animale, mentre l’altro è velenoso e lo fa ammalare. Sfortunatamente gli animali nascono senza avere nessuna facoltà innata di distinguere una pianta dall’altra: i loro jukebox rimangono tristemente silenziosi. Se questi animali sono “socialmente ciechi” l’unica possibilità che hanno è di provare una pianta, vedere che effetto ne ricavano e poi regolarsi di conseguenza, sperando di imparare velocemente e che le piante velenose non lo siano troppo. Immaginiamo invece che questi animali possano anche seguire una regola comportamentale molto semplice, che suonerebbe più o meno così: “quando vedi un adulto seguilo”. Ora, gli adulti, in questa storiella, hanno una caratteristica molto importante: sono vivi e, se sono vivi, significa che hanno imparato a distinguere le piante commestibili da quelle velenose. Quindi, se sono un giovane, stando tra i piedi di un adulto avrò buone probabilità, quando dovrò iniziare ad assaggiare le piante, di incappare al primo colpo in una pianta commestibile, poiché è probabile che gli adulti si aggireranno di più nei pressi delle piante commestibili che nei pressi di quelle velenose. Così, avrò imparato individualmente quali sono le piante commestibili, ma, in un altro senso, è chiaro che il mio apprendimento è stato socialmente guidato. A esibisce x ma B non lo esibisce, A e B interagiscono tra loro e infine anche B esibisce x, ricordate? Di più, questo comportamento è in un senso pieno un comportamento nuovo e tuttavia non ho dovuto esplicitamente copiare alcunchè. Questa piccola storia mostra un comportamento che è noto in etologia come “rinforzo locale” (local enhancement) o “rinforzo per stimolazione” (stimulus enhancement): un processo del genere potrebbe rendere conto, per esempio, della capacità, trasmessa socialmente negli scimpanzè, di rovesciare ceppi di legno per cibarsi delle larve di insetto sottostanti. Anche in questo caso, ai giovani scimpanzè basterebbe imparare che i ceppi sono “oggetti interessanti”, senza copiare in dettaglio le azioni di altri individui: non è necessario, quindi, imitare il comportamento degli 154 Modelli della mente e processi di pensiero adulti nel senso pieno della parola, ma il seguirli rende saliente una determinata classe di stimoli, rispetto alla quale si interagisce in modo individuale. L’etologo Bennett Galef ha spiegato in questi termini la diffusione, tra le cinciarelle (Cyanistes caeruleus), della capacità di bucare i tappi di alluminio delle bottiglie di latte che, fino alla fine degli anni Settanta, venivano lasciate davanti alle porte delle case inglesi. Anche in questo caso la lettura prevalente era quella di apprendimento per imitazione, ma utilizzando situazioni di controllo sperimentali è stato mostrato come le cinciarelle, pur non imparando mai, o quasi, da sole, questo tipo di comportamento, riuscivano ad impararlo nella stessa misura sia quando il comportamento di un dimostratore (un’altra cinciarella) gli veniva esplicitamente fornito, sia quando gli veniva semplicemente fornito un esempio di bottiglia con il tappo già bucato (Sherry, Galef, 1984). Un fenomeno solo leggermente diverso avviene in una popolazione di ratti (Rattus norvegicus), studiata ancora da Galef (Galef, 1996), che sviluppano preferenze per determinati cibi sulla base delle interazioni con altri conspecifici. In particolare, è stato scoperto che se un ratto interagisce con un conspecifico che ha da poco mangiato del cibo, svilupperà una preferenza per il tipo di cibo mangiato da quell’individuo. Se, tuttavia, in condizioni sperimentali, viene presentato al ratto un batuffolo di cotone impregnato dall’odore di quel cibo, il soggetto non sviluppa alcuna preferenza per quel cibo, a conferma del fatto che, in questo caso, l’interazione sociale è fondamentale perché il comportamento venga messo in atto. Abbiamo già detto, discutendo l’esempio dei jukebox modificati, di come la dinamica definibile come stimulus priming (lo sbadiglio tra gli esseri umani) non possa essere considerata genuinamente culturale, in quanto manca la caratteristica della novità del comportamento. Tuttavia se immaginiamo che, insieme al priming, sia anche presente una forma rudimentale di apprendimento per associazione, l’unione delle due può dare origine a fenomeni che assomigliano da vicino alla nostra definizione di trasmis- A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 155 sione culturale (Noble, Todd, 2002). Se, per esempio, in una specie esiste l’istinto a scappare quando gli altri scappano (il che sembra abbastanza ragionevole) e, per un certo numero di volte questo avviene in presenza di un dato predatore, un individuo giovane potrebbe facilmente associare l’istinto di fuga a quel predatore e, in seguito, scappare alla sua presenza, anche senza il bisogno che questa reazione sia stata causata socialmente. L’ultimo esempio che riporto riguarda uno studio realizzato su dei resi – una specie di scimmie – allevati in cattività (Mineka, Cook, 1988). I resi nati e cresciuti in laboratorio, scoprirono i ricercatori, non reagivano, o reagivano poco, alla presenza dei serpenti, al contrario dei resi nati in libertà che mostravano, nella stessa situazione, reazioni molto pronunciate. Se, tuttavia, ad un reso di laboratorio venivano fatti vedere dei conspecifici che si spaventavano alla presenza di un serpente (o dei video che mettevano in scena questa situazione), anche questi sviluppavano, e mantenevano a lungo, lo stesso tipo di reazione. In modo interessante, inoltre, i resi non sviluppano una paura indiscriminata per ogni stimolo che viene associato, in una situazione sociale, ad una reazione di paura da parte di un conspecifico. Nello stesso studio, vennero manipolati dei video per far sembrare che i resi nati in libertà si spaventassero alla presenza di fiori, al posto che alla presenza dei serpenti, ma nessun reso di laboratorio imparò ad associare la reazione di paura ai fiori. Questo caso mette in luce una dinamica interessante tra evoluzione genetica, apprendimento ed interazione sociale che potrebbe suonare più o meno in questo modo: l’evoluzione genetica fornisce una reazione istintiva (la paura) e circoscrive, senza definirla nei particolari, una classe di stimoli a cui associare questa reazione (di cui fanno parte i serpenti) e una a cui non associarla (di cui fanno parte i fiori). Tuttavia, la delimitazione precisa di queste classi viene lasciata all’apprendimento, il che ha, evoluzionisticamente, un senso, se pensiamo a quanti sono i pericoli a cui una specie animale può essere vulnerabile e a come essi varino nel tempo. Ma, spesso, nel caso dei pericoli, non è possibile apprendere individual- 156 Modelli della mente e processi di pensiero mente, perché quando si incontra un pericolo, anche per la prima volta, è necessario sapere già cosa fare, perché potrebbe non esserci tempo per imparare per prove ed errori, da cui la necessità di sfruttare l’interazione sociale. 4. In conclusione Ricercatori come Tomasello (Tomasello, Kruger, Ratner, 1993) ritengono che meccanismi semplici di apprendimento sociale, come quelli riportati sopra, possano permettere la trasmissione culturale, ma non l’evoluzione culturale3, per la quale è necessaria una forma più complessa di imitazione, che, come abbiamo ricordato, prevede una comprensione dell’intenzionalità del modello e dei nessi causali tra mezzi e fini del comportamento e che sarebbe caratteristica solo degli esseri umani. Un esempio (ripreso da Richerson, Boyd, 2005: 150-151) ci può aiutare a capire cosa si intende. Presumiamo che un individuo abbia imparato, da solo, che scheggiando delle pietre poteva utilizzarle in modo più efficace per, ad esempio, tagliare delle pelli. Processi come il rinforzo locale, o il rinforzo per stimolo, possono essere sufficienti a fare sì che l’attenzione degli individui dello stesso gruppo venga focalizzata sulle pietre e che anch’essi imparino a scheggiarle. In questo modo, il comportamento si diffonderebbe nel gruppo. Ma supponiamo ora che un individuo, particolarmente ingegnoso, trovi un modo più efficace di lavorare le pietre: se, ad agire, fossero solo il rinforzo locale o il rinforzo per stimolo, questa 3 In antropologia, il termine “evoluzione culturale” viene a volte evitato, poiché è stato storica- mente associato a idee di evoluzione intesa come aumento della complessità, oppure ad evoluzione come orientata verso un fine, o, addirittura, con riferimenti ad un “miglioramento” socioculturale. In biologia, il termine è molto più neutro, e così dovrebbe esserlo anche per la cultura, sebbene non ritengo scorretto chiedersi se l’evoluzione culturale possa, più di quella biologica, o in modi differenti, generare complessità o essere teleologica, in quanto guidata, anche, dall’apprendimento individuale direzionato. In questo contesto, comunque, come chiarisce l’esempio degli utensili di pietra, evoluzione culturale significa solo che le innovazioni comportamentali apportate dai singoli individui vengono mantenute nel tempo. A. Acerbi, Le trasmissioni della cultura 157 nuova lavorazione non potrebbe diffondersi nel gruppo, in quanto ogni individuo deve imparare da sé il comportamento. Così, il ragionamento prosegue, non sarebbe possibile evoluzione culturale cumulativa. Tuttavia, se il risultato finale ottenuto col nuovo modo di lavorazione fosse diverso da quello originale, questo non potrebbe comunque innescare, data una struttura cognitiva adeguata, nuove forme di apprendimento individuale, che integrerebbero indirettamente l’innovazione comportamentale, riducendo comunque lo spazio di ricerca? E se si riuscisse a focalizzare l’attenzione non su tutta la struttura mezzi/fini o sull’intenzionalità del produttore dell’innovazione, ma sulla particolare strategia utilizzata per quell’innovazione (incastra la pietra tra altre due)? Quali fenomeni, a livello popolazionale, potrebbero generare questi processi semplici? E in che modo potrebbero innescare una catena di feedback autorinforzanti che contribuirebbero a generare l’apparente discontinuità tra il comportameno degli esseri umani e quello delle altre specie? Parte seconda La cultura nella mente Siamo tutti naturalmente dualisti? Un approccio cognitivo1 di Rita Astuti In un saggio scritto nel 1984 per commemorare il centenario della morte di Malinowski, Firth (1985: 37) osservò che «l’antropologia cognitiva è essenzialmente uno studio inferenziale», dato che gli antropologi inferiscono le modalità di pensiero degli informatori dalle loro espressioni linguistiche. Le inferenze antropologiche sono supportate dal comune, e non del tutto improponibile, presupposto che «il linguaggio fornisce degli indizi riguardo al pensiero». Nel notare la complessità delle relazioni tra il pensiero e il linguaggio, Firth sostenne che «le affermazioni antropologiche sulla cognizione [...] dovrebbero essere intese come sommatorie provvisorie e non comprovate di processi mentali». Dato che gli antropologi lavorano con «strumenti di analisi generici che portano ad ampie inferenze, speculazioni e anche ad analogie di tipo introspettivo», egli concluse che le loro «generalizzazioni devono di conseguenza essere modeste». 1 Questo saggio è basato su una ricerca in Madagascar generosamente finanziato dall’ESRC (R000237191) e dalla Nuffield Foundation. È il risultato di un progetto di collaborazione tra antropologi e psicologi della cognizione: Maurice Bloch, Susan Carey, Gregg Solomon e io stessa. Susan Carey e Gregg Solomon originariamente idearono la procedura sperimentale, che Bloch mise alla prova tra gli Zafimaniry del Madagascar (Bloch, Solomon & Carey, 2001), e che io usai ampiamente tra i Vezo con i bambini e gli adulti. Carey e Solomon offrirono la necessaria formazione nei metodi sperimentali e mi aiutarono ad adattare le procedure alle circostanze malgasce: a questo aggiunsi la mia relazione di lunga e reciproca fiducia con i Vezo, ed essi contribuirono con la loro benevolenza e apertura di mente. Solomon intraprese l’analisi statistica dei dati, e con Carey ha scritto un libro, in corso di stampa, in cui sono presentati in maniera dettagliata i dati su cui ho basato la mia analisi. Quanto all’amministrazione pratica delle varie versioni della procedura sperimentale con oltre 180 partecipanti per oltre cinque mesi, devo riconoscere l’importante aiuto di un paziente e – nel lavoro con i bambini – indispensabile assistente di ricerca: mio figlio Sean. Infine Lorenzo Epstein mi ha dato sostegno e ispirazione in ogni passo. Gli sono grata per questo e per tutto il resto. Dedico questo saggio ai miei genitori, Carlo e Fernanda Astuti. 162 Modelli della mente e processi di pensiero A quanto pare gli antropologi non hanno tenuto conto di questo consiglio, visto che continuano ad inferire modelli di pensiero da modelli di linguaggio e a proporre generalizzazioni tutt’altro che modeste. In questo saggio farò riferimento a una delle affermazioni sulla cognizione preferite dagli antropologi: la costante pretesa che le popolazioni non-occidentali siano libere dalle insidie del pensiero dualista, che il loro modo di ragionare e di rappresentare il mondo non sia ordinato dalla dicotomia cartesiana di mente e corpo. È stato osservato che il teorizzare delle scienze sociali ha una tendenza assai diffusa a denigrare il dualismo cartesiano come una specie di abiezione morale (Csordas, 1994: 7). Vi è anche una certa confusione su cosa sia esattamente l’ambito cui si riferisce tale dualismo, dato che le discussioni passano liberamente dall’opposizione di mente e corpo ad altre opposizioni quali quelle fra conscio ed inconscio, pensiero ed emozione, oggetto e soggetto. In antropologia, naturalmente, la dicotomia mente-corpo è stata trattata nei termini della dicotomia tra cultura e biologia, e di ciò che ne consegue, come la distinzione tra sesso e genere, persona e organismo, individuo e società. Esistono pertanto tante affermazioni antropologiche di “monismo” quante sono le versioni di dualismo2. La questione specifica a cui faccio riferimento in questo saggio è emersa nel campo degli studi sulla parentela e sul genere, ed è probabilmente una delle versioni più forti, e su cui meno si accettano compromessi, della tanto diffusa affermazione antropologica che le popolazioni non-occidentali non sono dualiste. L’affermazione, più specificatamente, è che le popolazioni nonoccidentali non formulerebbero la distinzione tra i fatti biologi2 Per esempio, gli antropologi che lavorano sulle emozioni hanno sostenuto che le etnopsicolo- gie non-occidentali non separano l’emozione dal pensiero (Lutz, 1988); e altri hanno descritto i costrutti “dividuali” della persona (Marriott, 1976; Strathern, 1988) che dissolvono il dualismo dell’individuo e della società; tanti altri hanno documentato una varietà di concezioni del sé sociocentriche o multiple che hanno fornito il sostegno etnografico per teorizzare la nuova epistemologia e metafisica del “corpo consapevole” (Scheper-Hughes & Lock, 1987). R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 163 ci della procreazione e la loro interpretazione culturale, tra genitura biologica e sociale, tra il corpo naturale e il suo significato culturale, tra natura e cultura, sesso e genere. La battaglia a sostegno di questa forma di monismo non-occidentale è stata combattuta su molti fronti, sia teorici che empirici. Sul fronte teorico pare che gli antropologi (vedi Bouquet, 2000; Strathern, 1996) abbiano recentemente trovato conforto nella rivelazione di Latour (1993) che noi, popolazioni occidentali, non siamo effettivamente mai stati moderni, e che abbiamo lavorato duramente per creare degli ibridi di natura e cultura, separando le due. Sul fronte empirico, molti hanno seguito le orme di Schneider (1984) ed hanno sostenuto che le interpretazioni non-occidentali della parentela e dell’identità di genere non implicano la distinzione tra il biologico e il sociale (vedi Carsten, 1995, 1997; Yanagisako & Collier, 1987). Si può dire che questa idea sia diventata una delle più difese risorse della disciplina, che fornisce agli antropologi un punto di forza in numerosi dibattiti filosofici e politici (per le posizioni contrarie vedi Astuti, 1998; Lambek, 1998; Middleton, 2000; Ortner, 1996). Per illustrarla, mi sia consentita una citazione da un importante saggio di Ingold. Nel contesto di una discussione filosofica generale contro la falsità dei molti dualismi che assediano le scienze sociali e, più specificamente, contro la fondamentale separazione tra la sfera biologica e quella sociologica nella teoria della parentela, Ingold (1991: 362) nota che «molte (se non tutte) popolazioni non-occidentali [...] semplicemente non riconoscono nulla di paragonabile alla distinzione sociale/biologico così come è articolata nel discorso occidentale». Con un’ interpretazione debole, questa affermazione sarebbe banalmente vera. Che la distinzione tra sociale e biologico, come quella tra natura e cultura o tra mente e corpo, non sia articolata in altre tradizioni culturali come lo è in quella occidentale è scontato ed è stato ripetutamente provato. Ma l’affermazione è molto più forte, e sicuramente non banale. Vale a dire che: 164 Modelli della mente e processi di pensiero «per loro, l’essere umano non è un’entità composta da due parti – metà organismo, metà persona – ma un centro di azione e di consapevolezza singolo, indiviso e incarnato, un organismo-persona, che semplicemente non cresce di sua spontanea volontà, né viene creato come un artefatto, ma piuttosto cresce attraverso i contributi attivi di molte persone, incluse quelle che possono essere designate come genitori» (1991: 362). L’affermazione è che la maggior parte, se non tutte, le popolazioni non-occidentali non distinguono tra i processi biologici e corporei che fanno crescere un organismo e i processi sociali e mentali che formano la persona, tra i processi biologici riproduttivi e i processi sociali educativi, tra la genitura biologica e quella sociale. In questo saggio sfiderò tale idea. Lo farò nello stesso spirito con cui Gell (1998: 126-7) ha sostenuto che gli esseri umani, sia occidentali che non, sono “dualisti naturali”, ovvero predisposti naturalmente a dividere la persona in due: la mente dentro, il corpo fuori. Come tanti degli antropologi che hanno sostenuto l’opposto, Gell era più che consapevole delle trappole filosofiche del dualismo. Comunque, egli ci rammentò che l’obiettivo dell’antropologia non è prescrivere nozioni che siano filosoficamente difendibili, ma «descrivere forme di pensiero che non reggerebbero allo scrutinio filosofico, ma che nondimeno sono socialmente e cognitivamente praticabili» (1998: 17). Ne consegue che descrivere il “dualismo naturale” come una forma di pensiero socialmente e cognitivamente praticabile non implica sottoscrivere la sua validità filosofica. Allo stesso modo, descrivere come “gli esseri umani comuni” distinguano tra organismo e persona, tra nascita e formazione, tra il biologico e il sociale, non comporta sottoscrivere alla validità filosofica o metafisica di alcune di queste distinzioni. Descrizione e validità filosofica sono questioni separate e devono essere tenute separate. In realtà, la sfida reale per gli antropologi non è raccogliere esempi di un valido pensiero filosofico tra le popolazioni da loro studiate, ma trovare strumenti di analisi meno generici per descrivere i modi in cui gli esseri umani pensano. R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 165 Tenterò pertanto di descrivere come una popolazione nonoccidentale, i Vezo del Madagascar, ragionino relativamente alla distinzione tra nascita ed educazione, organismo e persona, mente e corpo. L’etnografia Vezo fornisce molte prove che potrebbero essere usate per sostenere l’affermazione antropologica che le popolazioni non-occidentali non fanno questa distinzione. I Vezo per esempio considerano moralmente problematica l’idea che i genitori di nascita abbiano pretese esclusive sui loro figli, e lo esprimono in vari modi. Pertanto in apparenza essi non “vedono” somiglianze tra genitori e figli. Piuttosto, essi invocano una serie di meccanismi diversi dalla nascita per spiegare il perché alcuni bambini rassomigliano più ad altre persone che non ai loro genitori biologici. Per esempio, se una donna incinta passa un po’ di tempo parlando con un amico, si dice che l’amico stia “sottraendo” alcuni dei tratti facciali del bambino; se prova una forte antipatia per qualcuno, il suo bambino somiglierà alla persona antipatica. La possibilità che i bambini assomiglino ad altre persone e non ai loro genitori ha l’effetto di rendere la genitura un fenomeno sociale3, e di estendere le relazioni corporee del bambino oltre quelle con i suoi genitori di nascita. Sulla base di questi fatti, sarebbe facile mostrare come i Vezo non distinguano tra organismo e persona, nascita ed educazione, genitura sociale e biologica. Non di meno sosterrò che le prove qui descritte – che sono il tipo di prove normalmente usate dagli antropologi – non avvalorano l’ipotesi che i Vezo rifuggono dalle trappole del ragionameto dualista. Invece di basarmi su affermazioni convenzionali esplicite, dimostrerò, mediante una ricerca empirica sul ragionamento inferenziale degli informatori, che di fatto gli adulti Vezo fanno una distinzione tra i processi biologici che determinano l’organismo e i processi sociali che formano la persona. Sebbene quello che propongo qui sia solo un caso, esaminato in modo estremamente dettagliato, le prove che presento sollevano questioni più ampie sui fondamenti della conoscenza antropologi3 Sull’importanza di questi processi di socializzazione vedi Astuti (2000). 166 Modelli della mente e processi di pensiero ca. Cercherò inoltre di ampliare la discussione coinvolgendo nell’indagine i bambini Vezo in maniera tale da affrontare nuove questioni riguardo alla relazione tra conoscenza implicita ed esplicita. 1. Il test dell’adozione La dimostrazione che presenterò è il risultato dell’ampio uso di una tecnica sperimentale presa in prestito dalla psicologia dello sviluppo. Quello che descriverò come “test dell’adozione” fa parte di una ricerca sulla comprensione intuitiva dei bambini nord-americani della nascita e del ruolo che la nascita ha nel trasmettere le caratteristiche dai genitori ai figli (Solomon, Johnson, Zaitchik & Carey, 1996). Il test fu originariamente ideato per stabilire l’età in cui il bambino sviluppa una comprensione della trasmissione delle caratteristiche dai genitori alla prole, come quella degli adulti. Seguendo studi precedenti (vedi Sprinter, 1992; Sprinter & Keil, 1989, 1991), Solomon, Johnson, Zaitchik e Carey notarono che i bambini nord-americani tra i tre e quattro anni di età si aspettavano sistematicamente che i figli assomigliassero ai loro genitori – per esempio che genitori biondi avrebbero avuto bambini biondi – e cercarono di sondare la comprensione dei bambini relativamente al meccanismo responsabile per la rassomiglianza. In particolare, essi volevano stabilire a quale età i bambini nord-americani formassero l’opinione, simile a quella degli adulti, che la rassomiglianza ai genitori implica due meccanismi di causa separati per la trasmissione di due tratti ontologicamente distinti della persona. In altre parole, a quale età i bambini si convincessero che la nascita era il meccanismo responsabile per trasmettere caratteristiche come i tratti corporei, e che il crescere, l’imparare e l’abitudine fossero responsabili per trasmettere altre caratteristiche come i tratti mentali4? 4 Questa questione fu sollevata in risposta alle conclusioni di altri ricercatori che i bambini occi- dentali di età tra i 3 e i 4 anni hanno una comprensione biologica della trasmissione delle proprie- R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 167 Il test dell’adozione che essi idearono contrapponeva la genitura biologica a quella sociale, e la trasmissione dei tratti corporei alla trasmissione dei tratti mentali quali le credenze (ossia ciò che è ritenuto essere vero). Essi riscontrarono che fino all’età di sette anni, i bambini nord-americani credevano che la nascita trasmettesse entrambi i tipi di tratti: corporei e mentali. Questi bambini, comunque, non facevano differenza tra nascita ed educazione, tra tratti corporei e mentali. In Madagascar, ho usato una versione adattata di questo test per stabilire la presenza o assenza del ragionamento dualistico tra gli adulti e i bambini Vezo. Nella sua forma più semplice, il test dell’adozione tra i Malgasci consistette nel raccontare ai partecipanti la storia di un bambino nato da una coppia di genitori e cresciuto da un’alra: I genitori di nascita – descritti nell’idioma Vezo come “il padre e la madre che generarono il bambino” (baba sy neny niteraky azy) – stanno attraversando la foresta; vengono attaccati dai banditi; hanno il tempo di nascondere il bambino sotto un cespuglio; i genitori vengono uccisi ma il bambino sopravvive ed è trovato e cresciuto da altri genitori; i genitori adottivi – descritti come “il padre e la madre che crescono il figlio” (baba sy neny niteza azy) – lo allevano con affetto ed amore5. tà dai genitori ai figli; in altre parole, quello che essi comprendono è che i figli ereditano dai loro genitori biologici l’innato potenziale di sviluppo di certi tratti piuttosto che altri (vedi Sprinter 1992; Sprinter & Keil, 1989, 1991). Una voce dissenziente (Carey 1995) osservò che queste conclusioni non erano scontate, poiché l’affermazione che i bambini in età prescolare hanno una comprensione biologica dell’eredità è affermare che essi, al minimo, riconoscono che la la nascita è il meccanismo causale implicato nella rassomiglianza. Che la nascita causa la rassomiglianza è certamente parte della comprensione dell’eredità degli adulti occidentali, ma l’evidenza non garantisce l’inferenza che questo si dia anche nei bambini. In verità, questi ultimi potrebbero non avere nessuna spiegazione causale di tutti questi risultati che purtuttavia sono capaci di predire, come il fatto che i genitori biondi hanno figli biondi; oppure essi potrebbero invocare altri meccanismi causali (come l’amore o il semplice desiderio di essere come i loro genitori) che non hanno nulla a che fare con la nascita. Per concludere che i bambini considerano la trasmissione delle caratteristiche dai genitori ai figli come un fenomeno biologico, uno dovrebbe dimostrare che i bambini stessi spiegano la rassomiglianza tra genitori e figli invocando meccanismi causali che sono unicamente biologici. Il test dell’adozione fu concepito con questo scopo in mente. 5 La storia fu pensata in modo tale da non compromettere la distinzione fra nascita ed adozione a 168 Modelli della mente e processi di pensiero La storia fu seguita da domande che richiedevano ai partecipanti di decidere se, crescendo, il bambino sarebbe somigliato al padre biologico o a quello adottivo in alcune caratteristiche, quali: i tratti somatici, le credenze e le abilità. Un meccanismo di controllo fu ideato per stabilire se i partecipanti avrebbero ragionato in maniera diversa qualora i legami di filiazione fossero stati paterni o materni; poiché non ci furono prove che rilevassero un effetto sistematico, questa variabile non verrà presa in considerazione. Le domande furono formulate nel modo seguente: Il padre che ha generato il bambino aveva le orecchie appuntite, mentre il padre che lo ha allevato aveva le orecchie arrotondate. Secondo lei quando il bambino sarà cresciuto, avrà le orecchie appuntite come il padre che lo ha generato, o arrotondate come il padre che lo ha allevato? e Il padre che ha generato il bambino credeva che i camaleonti avessero trenta denti, mentre il padre che ha allevato il bambino credeva che i camaleonti avessero venti denti. Secondo lei quando il bambino sarà cresciuto, crederà che i camaleonti hanno trenta denti come il padre che lo ha generato o crederà che hanno venti denti come il padre che lo ha cresciuto6? cui si riferisce il test. Per esempio la storia enfatizzava che le due coppie di genitori non avevano alcun legame di parantela nè si conoscevano, e che i bambini erano cresciuti senza avere alcun contatto con i genitori di nascita o con altri loro parenti. La morte dei genitori di nascita riduceva la probabilità che i partecipanti assumessero che il figlio avesse qualche supplementare interazione con i genitori di nascita. Un’ ulteriore ragione per introdurre la morte dei genitori di nascita fu di distinguere la storia presentata nel test da altre storie culturalmente salienti sui bambini abbandonati in luoghi pericolosi nella foresta perché essi erano nati in giorni che non sono di buon auspicio secondo i sistemi di divinazione locale. Se tali bambini abbandonati sono trovati vivi, si pensa che la loro mancanza di auspicio non abbia effetti sui loro genitori adottivi. Quando gli informatori Vezo raccontano queste storie, essi osservano che una volta che il figlio è cresciuto ed è in grado di essere d’aiuto, i genitori di nascita lo reclamano (e il figlio tipicamente rifiuta di seguirli). La storia usata nel test fu perciò concepita in modo tale da ridurre la possibilità che i partecipanti supponessero che i genitori di nascita avevano ancora qualche rivendicazione sul figlio. 6 Lo studio fu distribuito in maniera equilibrata tra i partecipanti seguendo lo schema del quadrato latino, cosí da controllare l’eventuale presenza di fattori di confusione come il fatto che i tratti R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 169 Il test poneva un problema inventato, un indovinello, ed ai partecipanti fu chiesto di trovare una soluzione. L’obiettivo era quello di mantenere l’enigma il più possiblile culturalmente neutrale. La storia fu infatti ideata in maniera tale da non evocare l’ambiente sociale e morale in cui normalmente ha luogo l’adozione tra i Vezo, e per le domande sulla rassomiglianza i tratti furono scelti affinché non fossero culturalmente salienti: per esempio nessuno sapeva o si preoccupava di sapere quanti denti hanno i camaleonti. Soprattutto, il test fu pensato in modo da costringere i partecipanti a pensare e a lasciare da parte le loro convinzioni culturali. Il test non richiedeva ai partecipanti di articolare verbalmente il loro modo normale di spiegare le cose, né di fornire un resoconto di come le proprietà siano trasmesse da una generazione all’altra. Nel caso dei bambini, questo fu un chiaro vantaggio, dato che avrebbero potuto non essere in grado di esprimere a parole le loro conoscenze; nel caso degli adulti, il vantaggio fu che gli indovinelli non riguardavano direttamente le loro conoscenze culturali acquisite, bensì richiedevano loro di impegnarsi in ragionamenti inferenziali. Si potrebbe obbiettare che tale test impone ai partecipanti le categorie ontologiche del ricercatore, il dualismo della socialità e della biologia, dell’organismo e della persona, della mente e del corpo. Tuttavia, sebbene il test sia indubbiamente costruito su queste distinzioni, esso non le impone ai partecipanti. Se essi non distinguono tra genitura biologica e sociale, tra nascita ed educazione, tra tratti corporei e tratti mentali, se la caveranno beatamente ignari che le distinzioni vengano indagate. Il test dell’adozione ha quattro possibili esiti, definiti in termini di modelli di giudizio per ognuno dei partecipanti. I partecipanti appartengono a un Modello Differenziato se essi credono che il bambino adottato somiglierà al padre di nacorporei fossero stati presentati prima o dopo le credenze (le abilità furono sempre introdotte per ultime ), e quale valore di un paio di tratti fosse attribuito al genitore di nascita. L’analisi condotta preliminarmente su questi fattori non rivelò nessun significante effetto sui risultati discussi qui. 170 Modelli della mente e processi di pensiero scita nei tratti corporei e al padre adottivo nelle credenze. Le loro riposte implicano una distinzione tra due catene di meccanismi causali, la nascita e l’educazione, che trasmettono due distinti tratti della persona, tratti corporei e credenze. I partecipanti si dicono presentare una “propensione per genitori di nascita” se essi giudicano che il bambino adottato somiglierà al suo genitore di nascita in tutti i suoi tratti, o buona parte di essi; e presentare una “propensione per i genitori adottivi” se giudicano che il bambino adottato somiglierà al suo genitore adottivo in tutti i suoi tratti, o buona parte di essi. I partecipanti che mostrano una “propensione o per il genitore di nascita o per il genitore adottivo” non non fanno nessuna distinzione teorica tra nascita ed educazione come meccanismi separati per la trasmissione dei tratti somatici e mentali. Infine, i partecipanti che giudicano che il bambino adottato somiglierà ai genitori adottivi e di nascita in una combinazione casuale di tratti sono classificati come appartenenti ad un Modello Misto. Non hanno alcuna consapevolezza riguardo le distinzioni analizzate dal test. I loro modelli di giudizio rivelano che essi non considerano esservi relazioni di causa all’interno dei meccanismi di nascita e di allevamento; né, naturalmente, distinguono tra i due7. 7 I risultati presentati qui si basano sull’amministrazione di una versione dell’esercizio in cui l’adozione avviene fra due coppie di genitori Vezo. In questa versione ai partecipanti furono presentate dodici caratteristiche: quattro caratteristiche somatiche, quattro credenze e quattro abilitá. I partecipanti si dissero aver dimostrato un Modello Differenziato qualora avessero giudicato che il bambino avrebbe somigliato al padre di nascita in almeno tre delle quattro caratteristiche somatiche e nessuna delle credenze, o in tutte le caratteristiche somatiche e non più di una delle quattro credenze. Un partecipante ha lo 0,04% di probabilità di mostrare tale modello per puro caso. Dato che, secondo la biologia popolare occidentale, non c’è ragione perché le abilità si debbano considerare a priori come eredità biologica o meno, esse non furono considerate nello stabilire il Modello Differenziato. I partecipanti si dissero avere una “propensione per i genitori di nascita” qualora avessero giudicato che il bambino avrebbe somigliato al padre di nascita in almeno dieci delle dodici caratteristiche, e di avere una “propensione per i genitori adottivi” qualora avessero giudicato che il bambino avrebbe assomigliato al padre adottivo in almeno dieci delle dodici caratteristiche (p=0.02). R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 171 2. Adulti “dualisti” e bambini “monisti” Ecco i risultati del test adottato con maschi e femmine adulti Vezo, di età dai 21 anni in su8. Sebbene inizialmente molti di essi fossero perplessi dalle mie domande, quando, verso la metá dell’esercizio, capirono che solo la metà delle mie domande riguardava il corpo del ragazzo (vatany), mentre l’altra metà riguardava la sua mente (sainy), i loro volti si illuminarono. Questo istante di consapevolezza portò ai seguenti risultati: uno schiacciante 78% dei partecipanti adulti mostrò un Modello Differenziato (Grafico 1). Del rimanente 22%, il 13% mostrò un Modello Misto, il 6% con una “propensione per il genitore di nascita” e il 3% con una “propensione per il genitore adottivo”. 100 80 78 Differenziato 60 Tendente al genitore di nascita 40 Tendente al genitore di adizione 20 6 0 13 Misto 3 Grafico 1 Modelli di giudizio degli adulti La schiacciante maggioranza degli adulti Vezo fece comunque la distinzione tra nascita ed educazione. Essi considerarono che la nascita fosse il meccanismo responsabile per la trasmissione dei tratti corporei, e che l’educazione fosse il meccanismo responsabile per la trasmissione dei tratti mentali. Le loro inferen8 La versione del test su cui sono basati i seguenti risultati fu amministrata a un totale di 31 adulti (età media 42 anni, gamma di assortimento 22-70 anni). 172 Modelli della mente e processi di pensiero ze – per esempio che il bambino adottato avrebbe assomigliato al padre di nascita nella forma delle orecchie, ma avrebbe assomigliato al padre adottivo nella credenza riguardante i denti dei camaleonti – furono guidate da una teoria sulla differente natura della mente e del corpo, e i diversi meccanismi causali che li riguardano. Per contrasto, gli adulti Vezo non si appellarono al “monismo” che emerge dai loro presupposti culturali espliciti, come le spiegazioni usate per render conto della fisionomia dei bambini. Se l’avessero fatto, avrebbero dedotto che le relazioni di educazione modellano ogni tratto della persona, sia mentale che corporeo. La prima conclusione che può essere tratta da questi risultati, coincide con quella dell’indagine di Bloch (Bloch, Solomon & Carey, 2001) tra gli Zafimaniry, ed è che c’è una significativa discrepanza tra ciò che gli adulti Vezo dicono, le affermazioni che sono trasmesse e che sono parte di quello che gli antropologi identificano come “cultura Vezo”, e i presupposti teorici su cui le persone si basano per riflettere inferenzialmente, a prescindere dalle loro conoscenze culturali. In altre parole, c’è una discrepanza tra le affermazioni verbali esplicite e la conoscenza teorica implicita. Questi risultati supportano l’ipotesi che i presupposti ontologici degli informatori non possono essere inferiti dai loro discorsi espliciti: ne consegue che gli antropologi non possono provare l’assenza di ragionamenti dualisti nelle società non-occidentali, basandosi su interpretazioni di affermazioni culturali esplicite, come è fatto comunemente. Il risultato presenta implicazioni metodologiche di vasta portata e avanza dei dubbi su alcune delle affermazioni più stimolanti fatte dagli antropologi circa la persona, il genere, la parentela, il corpo, la soggettività e così via. Il mio obiettivo, comunque, è proporre una tesi che costituisca una sfida per gli antropologi: cioè che noi non possiamo comprendere quello che i nostri informatori esplicitamente ci dicono (che chiamo grossolanamente “cultura”) se non prendiamo in considerazione il sostrato cognitivo teorico delle loro affermazioni. R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 173 C’è un’ovvia ragion logica per questo. Se è vero che ciò che le persone dicono e custodiscono nelle loro esplicite affermazioni di origine culturale può divergere dalle teorie implicite che attivano ragionando in maniera inferenziale, ne consegue che non è possibile comprendere correttamente le loro affermazioni senza sapere in che rapporto stanno con le loro teorie implicite. Per esempio le affermazioni che sembrano confondere la distinzione tra nascita ed educazione, corpo e mente (che chiamo “opinioni monistiche”), rifletterebbero presupposti ontologici se fossero espresse nel contesto di un’ontologia monistica. Tuttavia le stesse opinioni dovrebbero essere interpretate e comprese differentemente se fossero espresse nel contesto di un’ontologia dualistica, nel cui caso esse contraddirebbero tali presupposti. È ovvio che il significato di un’espressione sarà seriamente malgiudicato se le contraddizioni sono interpretate come riflessioni. La ragione logica per cui gli antropologi devono prendere in considerazione l’implicito sostegno cognitivo delle opinioni dei loro informatori è stata già notata (vedi Bloch, 1998; Boyer, 1994; Sperber, 1985, 1997). C’è comunque, un’altra ragione che riguarda lo sviluppo che è rimasta inesplorata, ed oggetto della mia attenzione. L’ipotesi che cercherò di dimostrare in seguito è che la produzione e trasmissione dei sistemi concettuali che gli antropologi deducono dalle esplicite espressioni culturali dei loro informatori e descrivono nelle loro monografie – relativamente a personalità, parentela, identità – presuppongono l’emergenza della differenziazione teorica tra nascita ed educazione, e mente e corpo riscontrate tra gli adulti Vezo. Indagherò questa ipotesi mediante il metodo di ricerca di cui fu pioniera la Toren (1990, 1999a, 1999b), che consiste nel rivolgere l’attenzione ai bambini, chiedendo come essi si spieghino il modo in cui gli adulti concettualizzano il mondo in cui essi vivono. La domanda specifica che farò è questa: i bambini Vezo distinguono, come gli adulti Vezo, tra nascita ed educazione, tra corpo e mente? La risposta, in breve, è che essi non fanno tale distinzione; e questa scoperta rende possibile il paragone, all’in- 174 Modelli della mente e processi di pensiero terno della stessa popolazione, tra un gruppo che non ha un’ontologia dualistica (i bambini) e uno che c’è l’ha (gli adulti). Il paragone mi permette di studiare una questione più generale relativamente alla relazione tra le distinzioni ontologiche implicite degli adulti e le opinioni culturali esplicite che trasmettono ai loro bambini. Come vedremo, in assenza di un’ontologia dualistica, i bambini non solo non riescono a comprendere, e non sono in grado di riprodurre tali affermazioni in maniera coerente, ma essi non sono nemmeno in grado di capire perché e come sono diventati quelli che sono. Comincerò esaminando i risultati del test condotto con i bambini Vezo di entrambi i sessi di età tra i 6 e i 13 anni9. Come illustrato nel Grafico 2, i bambini si comportarono in maniera molto diversa rispetto agli adulti. 100 80 Differenziato 60 Tendente al genitore di nascita 40 40 20 Tendente al genitore di adizione 30 13 18 Misto 0 Grafico 2 Modelli di giudizio dei bambini 9 Il test dell’adozione usato con i bambini fu lo stesso di quello usato con gli adulti, eccetto per il fatto che, per renderlo più facile, usai fotografie di due diversi villaggi: uno era il villaggio dove il bambino della storia era nato, l’altro dove egli fu allevato. Durante tutto il racconto della storia e durante le domande, indicai a turno le immagini di riferimento. A loro volta i bambini potevano rispondere indicando le immagini della caratteristica o del genitore che avevano scelto, senza bisogno di ricordare alcuna delle caratteristiche specifiche; questo rese il test molto meno oneroso per la loro memoria e capacità verbale di quanto non possa apparire. Prima di procedere con le domande sulla somiglianza, ai bambini furono chieste alcune domande per verificare la comprensione della storia. Se non la capirono la storia venne ripetuta una seconda volta; se non R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 175 L’88% non mostrò un Modello Differenziato di giudizi. Di questi, il 40% mostrò un Modello Misto, il 30% una “propensione al genitore di nascita”, e il 18% una “propensione al genitore adottivo”. Il Modello Differenziato, 78% tra gli adulti, era solamente il 12% tra i bambini. Pertanto i bambini erano altrettanto propensi a considerare che la nascita o l’leducazione o tutte e due influenzano i tratti corporei e mentali delle persone. Diversamente dalle inferenze degli adulti, quelle dei bambini non erano guidate dalla differenziazione teorica tra nascita ed educazione. Ne consegue che ogni risposta fu decisa sulla base di una serie di ragioni ad hoc: semplici congetture, preferenze per una coppia di genitori rispetto all’altra, preferenze per i tratti individuali, e così via. In breve, i bambini Vezo non vedono la distinzione proposta dal test. Essi in tal modo rappresentano il sogno antropologico di una popolazione con un’ontologia non-dualistica. L’ipotesi che ho sollevato prima è che la capacità degli adulti Vezo di differenziare tra nascita ed educazione, corpo e mente, è un requisito essenziale per la produzione e trasmissione della loro conoscenza culturale. Per mettere alla prova questa ipotesi, bisogna fare riferimento a un tratto culturale particolarmente saliente: le idee che specificano cosa significhi essere Vezo, e come alcune persone diventino “noi” mentre altre diventano “loro”. Questo è necessario per esplorare se i bambini, che non distinla capirono la seconda volta furono esclusi dallo studio. Durante la sperimentazione dell’esercizio divenne ovvio che i bambini sotto i 6 o 7 anni non avrebbero saputo rispondere alle domande sulla comprensione. Fin dal principio, gli adulti Vezo dissero che avrei sprecato il mio tempo con tali bambini, perché non erano ancora “saggi” (mbo tsy mahihitsy) e non sapevano proprio nulla (tsy misy raha hainy). In realtà questi bambini più piccoli erano solo troppo timidi, o intimiditi dall’esercizio del test. I bambini Vezo non sono affatto abituati a che si facciano loro delle vere domande, domande a cui ci si aspetta che abbiano risposte indipendenti, e la loro reazione alle mie interrogazioni fu la passività totale. Il fatto che il campione include solo bambini di ambo i sessi di età fra i sei e i tredici anni (n=40; età media = 9; anni, gamma 6-13) solleva una questione importante, cioè che il campione Vezo è molto diverso da quello degli studi di Solomon, Johnson, Zaitchik e Carey, che coinvolsero bambini Americani a partire dai quattro anni. Questa differenza è un fattore cruciale nel confronto fra i risultati dei bambini Americani e Vezo. Comunque, l’età dei bambini nel mio campione non intacca il confronto fra i bambini e gli adulti Vezo, che è l’oggetto di questo studio. Quindi lascerò da parte questa questione. 176 Modelli della mente e processi di pensiero guono come fanno gli adulti, siano in grado di comprendere e riprodurre quello che i loro genitori insegnano loro sul loro ambiente sociale. 3. Classificazione sociale Vezo I criteri utilizzati dagli adulti Vezo per classificare le persone sono espliciti e possono essere riassunti come segue: le persone sono ciò che sono perché il luogo dove esse vivono determina le attività che svolgono; l’affiliazione di gruppo, come le differenze tra “noi” e “loro”, sono stabilite dalle azioni che diverse persone svolgono nel loro ambiente sociale e fisico. Questo modo di classificare il mondo sociale è normalmente espresso dagli adulti in diversi contesti informali che mostrano il contrasto tra la popolazione Vezo e i loro vicini, i Masikoro. Gli adulti ripetono costantemente e coerentemente il principio che l’essere Vezo significa vivere sulla costa e fare ciò che fanno i Vezo, come pescare, nuotare, mangiare pesce, mentre l’essere Masikoro significa vivere nell’interno e fare ciò che fanno i Masikoro, come coltivare, allevare il bestiame e – così dicono i Vezo – mangiare “erba” (per un dettagliato resoconto etnografico si veda Astuti, 1995a, 1995b). Questa definizione di ciò che significa essere Vezo o Masikoro, e il fatto che le persone che sono Vezo possono diventare Masikoro e viceversa, implica che il processo di classificazione sociale non è mediato dalla nascita. La nascita non è il meccanismo attraverso cui si trasmette l’affiliazione di gruppo tra le generazioni: non è necessario essere nato Vezo o Masikoro per essere tale; è necessario imparare a comportarsi come un Vezo o un Masikoro. La classificazione sociale Vezo è dunque basata sul criterio dell’azione: i Vezo usano l’esecuzione di certe attività come criterio per classificare le persone. Comunque, prima di estendere questa conclusione ad altri gruppi sociali, devo evitare una potenziale fonte di confusione. Potrebbe darsi che i Vezo usino il criterio delle attività per distinguere i Vezo dai Masikoro solo per- R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 177 ché essi considerano entrambi i gruppi come sub-unità dello stesso gruppo ancestrale. In altre parole, essi potrebbero far riferimento all’azione come criterio per l’identificazione, trascurarando le origini ancestrali delle persone, perché essi presuppongono che i Vezo e i Masikoro condividono le stesse origini10. Dunque, per stabilire che i Vezo usano il criterio dell’azione per classificare altri gruppi sociali, bisogna essere in grado di dimostrare che gli informatori Vezo ragionano in questo modo anche riguardo a persone di origini ancestrali totalmente separate. La controparte che ho scelto per testare l’ipotesi sono i Karany. I Karany sono degli immigrati di discendenza indo-pakistana. Essi vivono in città; sono ricchi e ben istruiti; sono commercianti e usurai. Sono prevalentemente musulmani, e sebbene parlino correntemente il malgascio tra loro parlano la propria lingua. Somaticamente differiscono dai Vezo nel colore della pelle, la loro è più chiara, e nei loro capelli più lisci. Nella sociologia popolare occidentale i Vezo e i Karani sarebbero concepiti come due gruppi razziali separati. Il primo elemento che era necessario fissare era quindi il seguente: gli adulti Vezo considerano i Karany nello stesso modo in cui essi considerano i Masikoro? Essi classificano i Karany nei termini di ciò che fanno piuttosto che nei termini delle loro origini ancestrali? Riassumendo, il criterio dell’attività per la classificazione è estendibile ad altri gruppi sociali? Per rispondere a queste domande usai una nuova versione del test adottato sfruttando la divisione Vezo-Karany: un ragazzo nato da genitori Vezo o Karany, è adottato dai genitori del gruppo opposto. Ai partecipanti furono poste le domande standard relative alla rassomiglianza dei tratti corporei, delle credenze e delle abilità, ma fu anche chiesto loro di rispondere relativamente a una serie di tratti di differenza che sono considerati tipici dei Vezo e dei Karany, come la loro occupazione e le credenze religiose. Per esempio: il bambino adottato saprà pescare (tipico dei Vezo) o commerciare 10 Questa è l’interpretazione che di solito si trova nella letteratura coloniale ed etnografica sui Vezo, discussa in Astuti (1995a, 1995b). 178 Modelli della mente e processi di pensiero (tipico dei Karany)? Egli crederà che i corpi dei morti debbano essere tenuti per una notte nel villaggio (tipico dei Vezo) o crederà che sia d’obbligo seppellirli immediatamente (tipico dei Karany)? Infine posi la domanda più importante relativa all’identificazione dei figli: egli è Vezo o Karany? Per controllo adottai un test identico in cui l’adozione avveniva tra Vezo e Masikoro11. I risultati degli adulti dalle due versioni del test sono presentati nel Grafico 3. 100 87 80 Adottivo 75 Nascita 60 40 25 20 0 13 v/m v/k Grafico 3 Giudizi degli adulti sulla classificazione sociale Il risultato della versione Vezo-Masikoro non fu sorprendente: come ci si aspettava, l’87% dei partecipanti adulti giudicò che il figlio adottato, senza tenere presente le origini, crescendo sarebbe diventato Vezo se allevato da genitori Vezo in un villaggio Vezo, e Masikoro se cresciuto da genitori Masikoro in un villaggio 11 A tutti i partecipanti furono affidati due compiti: il test descritto precedentemente in cui l’ado- zione avveniva tra due coppie di genitori Vezo, e quello in cui l’adozione attraversa la la divisione Vezo-Masikoro o Vezo-Karany (per esempio V-V, V-M o V-V e V-M). I due studi combinati vennero distribuiti in maniera equilibrata tra i partecipanti secondo il modello del quadrato latino cosí da controllare non solo l’eventuale presenza di fattori di confusione già descritti (nota 5), ma anche per vedere se il fatto che la versione Vezo-Vezo fosse stata amministrata prima o dopo la Vezo-Karany (nel caso della versione Vezo-Karany), e se i genitori di nascita fossero Vezo o Masikoro (nel caso della versione Vezo-Masikoro) avesse alcun effetto. Analisi preliminari condotte su questi fattori non rivelarono nessun effetto significante sui risultati discussi sotto. R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 179 Masikoro. Il bambino avrebbe acquisito tutti i tratti tipici del suo gruppo adottivo. Analogamente, cosa assai sorprendente, il 75% dei partecipanti adulti nella versione del test Vezo-Karany, disse che il bambino adottato, a prescindere dalle sue origini, sarebbe diventato Karany se fatto crescere da Karany, e Vezo se fatto crescere da Vezo (Grafico 3). Come prima, si disse che il bambino sarebbe stato simile al suo padre adottivo per tutti i tratti. Questo è un risultato notevole. Il fatto che gli adulti ragionassero sui Karany nello stesso modo in cui essi ragionavano sui Masikoro da supporto alla tesi generale che i Vezo fanno uso del criterio dell’azione per classificare le persone entro i gruppi sociali. Un fatto ancora più importante è che esso dimostra come gli adulti Vezo riflettano sulle categorie sociali basandosi su una coerente teoria integrata della classificazione sociale. Lo scambio attraverso la linea di divisione tra Vezo e Karany non è un evento di cui i miei informatori hanno mai avuto esperienza nella vita reale, né è mai stato oggetto delle loro conversazioni. Pertanto, a differenza dei partecipanti al test Vezo-Masikoro le cui risposte arrivarono spontaneamente e senza sforzi, i partecipanti al test Vezo-Karany risposero a domante completamente nuove. Essi lo fecero chiedendosi: il bambino adottato acquisirà i tratti tipici delle persone che lo hanno cresciuto? La risposta a questa domanda fu immediata perché essi sapevano che tratti come le abilità occupazionali o le credenze religiose vengono acquisite vivendo in un certo ambiente. Ne seguì che il ragazzo sarebbe stato Vezo o Karany come suo padre adottivo, perché ciò che le persone diventano è determinato dai tratti tipici che esse acquisiscono mediante la pratica. In altre parole, i partecipanti adulti astrassero una serie di principi teorici da una serie di circostanze note, ed estesero tali principi riuscendo a fare delle previsioni su territori sociali finora inesplorati. È precisamente questa abilità di attivare la capacità teorica implicita che porta alla costruzione di nuove inferenze di cui i bambini sono sprovvisti. I bambini che crescono nei villaggi Vezo sono bombardati da messaggi che li informano che le persone sono o Vezo o Masikoro in base a 180 Modelli della mente e processi di pensiero quello che fanno. I bambini ascoltano gli adulti che discutono come i modi Vezo si differenziano dai modi Masikoro; vengono chiamati Masikoro quando non riescono a comportarsi alla maniera Vezo, e si dice loro che stanno diventando Vezo quando vi riescono. L’idea che essere Vezo o Masikoro dipenda da ciò che le persone fanno è pertanto “nell’aria”; ci si aspetta, quindi, che i bambini Vezo la assorbano e che siano capaci di esprimerla a loro volta. Per stabilire questo e, soprattutto, per stabilire se siano in grado di applicare i principi teorici astratti su cui si basa questa idea in circostanze inattese, si sono somministrati ai bambini i due test fatti agli adulti. Il risultato più sorprendente è che i bambini, diversamente dagli adulti, eseguirono le due versioni del test in maniera molto diversa. Pertanto, il 65% dei bambini affermò, come gli adulti, che il bambino adottato sarebbe stato Vezo o Masikoro a prescindere dalle sue origini per nascita (Grafico 4). Invece, nel test Vezo-Karany solo il 27% dei bambini predilesse l’adozione; il 73% di loro pensò invece che il bambino sarebbe stato come il padre di nascita, a prescindere dal luogo di crescita. In questo caso, la stragrande maggioranza dei bambini ragionò molto diversamente dagli adulti. 100 80 73 65 Adottivo Nascita 60 40 35 27 20 0 v/m v/k Grafico 4 Giudizi dei bambini sulla classificazione sociale R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 181 Consideriamo prima di tutto il test in cui ai bambini fu chiesto di ragionare sullo scambio Vezo-Masikoro, dove il 65% di loro aveva prediletto l’adozione. Si potrebbe concludere da questo che la maggioranza dei bambini Vezo ha una comprensione simile a quella degli adulti su come classificare le persone. Tuttavia, due aspetti della maniera in cui risposero indicano che non è così. Entrambi sono connessi a forme di inconsistenza logica. In primo luogo, i bambini che dissero che il bambino sarebbe stato Vezo o Masikoro come suo padre adottivo non estesero con coerenza questo giudizio ai tratti tipici, come le abilità occupazionali e le credenze religiose. Avendo per esempio affermato che il bambino sarebbe stato Masikoro come suo padre adottivo, gli stessi bambini affermarono che avrebbe saputo navigare e pescare come il padre di nascita. Pertanto non compresero la catena di meccanismi causali (cioè il luogo di nascita e le attività specializzate) che sottostanno alla teoria della classificazione sociale degli adulti12. Secondariamente, i bambini applicarono le spiegazioni standard degli adulti, che le persone sono Vezo o Masikoro in base a dove essi vivono e ciò che fanno, per giustificare sia il giudizio adottivo che quello di nascita. Pertanto, per esempio i bambini che considerarono che il bambino sarebbe stato Vezo come il padre di nascita, spiegarono che questo significava che il ragazzo sapeva pescare e nuotare, nonostante il fatto che egli fosse cresciuto nell’interno circondato dal bestiame e campi di granoturco13. 12 Dunque, l’80% dei bambini che giudicò che il bambino sarebbe stato Vezo o Masikoro come il padre adottivo giudicò anche che egli avrebbe assomigliato al padre di nascita in almeno alcuni dei tratti che erano tipici del suo gruppo, con una media di attribuzione di 3,6 tratti su un totale di 6. Per contrasto, nessun partecipante adulto giudicò mai che il bambino adottato avrebbe assomigliato al padre di nascita in alcuni dei suoi tratti tipici. 13 Uno può ipotizzare che la ragione per tale risultato sorprendente è che questi bambini prima giudicarono che il ragazzo sarebbe stato Vezo o Masikoro come il padre di nascita, e che, quando fu chiesto loro di giustificare la loro scelta, essi semplicemente ripiegarono sulla spiegazione comune, ascoltata molte volte che le persone sono Vezo o Masikoro a seconda di ciò che esse fanno, la sorta di spiegazione che è “nell’aria”. 182 Modelli della mente e processi di pensiero Riassumendo, queste incoerenze suggeriscono che i bambini, a prescindere dai loro giudizi, stavano semplicemente imitando le opinioni che essi non comprendevano totalmente. Pertanto, anche i bambini che sembravano dare la risposta “giusta” – cioè, la stessa risposta data dagli adulti – non mostrarono alcuna comprensione degli elementi teorici implicati dai loro giudizi. Poiché essi erano cresciuti ascoltando che le persone sono Vezo se pescano, e sono Masikoro se coltivano, essi furono in grado di riprodurre queste affermazioni rispondendo a domande a loro familiari. Ma la padronanza dei bambini della teoria degli adulti si ferma qui, priva della coerenza che caratterizza il modo con cui gli adulti classificano il mondo sociale. In verità, l’incoerenza dei bambini è la chiave per comprendere le loro risposte al test Vezo-Karany. In questo test uno schiacciante 73% dei bambini giudicò che il ragazzo adottato sarebbe stato Vezo o Karany come suo padre di nascita. Quindi, diversamente dagli adulti, i bambini non estendono ai Karany gli stessi criteri di attività per la classificazione sociale normalmente applicata ai Vezo e ai Masikoro. Questo conferma che tale principi sono fuori dalla loro portata. I bambini non attivarono né estesero le loro conoscenze di come le persone diventano Vezo o Masikoro, perché la loro conoscenza è a-teorica e dipendente da specifiche affermazioni che hanno ascoltato in contesti specifici. I bambini non sono in grado di recuperare i principi teorici e di riflettere analogicamente sui Karany perché, ancora, essi non hanno una teoria integrata della causalitá della classificazione sociale per supportare quello che essi dicono14. 14 I risultati dei bambini del test Vezo-Karany suggeriscono che essi possono essere stati guidati da una convinzione di base circa l’identità sociale, che le persone siano ciò che sono perché i loro genitori di nascita sono tali. Queste scoperte danno parziale sostegno a una versione modificata della tesi di Hirschfeld (1996) che esistono delle specifiche competenze innate, che costituiscono il fondamento della maniera in cui gli esseri umani ragionano sui tipi sociali: quello che egli definisce “competenza dei tipi umani”. Intendo discutere la tesi di Hirschfeld in maniera più dettagliata in una prossima pubblicazione. R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 183 Riassumendo la questione discussa fin’ora: per prima cosa, si è utilizzato il test dell’adozione con gli adulti e i bambini Vezo per stabilire la presenza o assenza del ragionamento dualista. I risultati hanno mostrato che gli adulti differenziano tra nascita ed educazione, genitura biologica e sociale, corpo e mente; mentre i bambini no. Secondariamente, si è esaminato un tratto culturale particolarmente saliente, e precisamente la modalità con cui gli adulti e i bambini classificano le persone, e in tal modo stabiliscono i criteri che rendono “noi” diversi da “loro”. Il paragone tra le risposte degli adulti e dei bambini nei due esercizi, l’uno che si riferiva a distinzioni sociali conosciute e l’altro a distinzioni del tutto nuove, mostra come gli adulti Vezo facciano affidamento a una teoria coerente e integrata. Per contrasto, i bambini non lo fanno. Cosa rende coerente la classificazione degli adulti e incoerente quella dei bambini? O, per riproporre la stessa domanda da una prospettiva di sviluppo, piuttosto che statica: come viene costituita e acquisita dai bambini la teoria coerente e integrata della classificazione sociale degli adulti? La risposta antropologica standard a domande del tipo: “come fanno i bambini a diventare degli adulti competenti?” e “come fanno ad acquisire la loro cultura?” è che ciò accade a mano a mano che i bambini imparano a vedere le cose come gli adulti, per il fatto stesso di crescere nel proprio ambiente culturale. Per esempio i bambini Vezo crescendo sono esposti a specifiche modalità culturali per la classificazione delle persone, che essi gradualmente assimilerebbero e imparerebbero a riprodurre. C’è chiaramente qualche verità in questo. Se i bambini Vezo crescessero in un diverso ambiente culturale, essi senza dubbio classificherebbero le persone in maniera diversa, per esempio presupponendo che l’identità sociale sia fissata dalla nascita in quanto le persone ereditano dai loro genitori l’essenza che fa di loro ciò che essi sono. La prospettiva comparativa qui adottata, comunque, permette di porre domande diverse e suggerisce risposte diverse. Le domande sono: cos’è che gli adulti hanno e i bambini non hanno che permette la comparsa del modo di vedere le cose degli adul- 184 Modelli della mente e processi di pensiero ti? O, mettendola in un altro modo: cosa manca ai bambini per mettere insieme i frammenti di conoscenza che sono “nell’aria” in un sistema integrato di proposizioni coerenti? I risultati del test Vezo-Masikoro hanno mostrato che i bambini Vezo imparano molto direttamente dalle affermazioni degli adulti, e lo fanno relativamente presto. Quando vengono sgridati perché sono Masikoro o lodati perché stanno diventando Vezo, essi imparano che essere Vezo o Masikoro è qualcosa che ha che fare con ciò che fanno. Prove anedottiche suggeriscono che i bambini che sono attivamente impegnati nelle attività Vezo, come il pescare o commerciare il pesce, tendono a rispondere alla domanda “perché siete Vezo?” in maniera tipicamente adulta mostrando le cicatrici che il pescare ha lasciato nelle loro mani, o vantandosi dei profitti che essi hanno realizzato al mercato, piuttosto che dire, come farebbero i bambini con meno esperienza, che essi sono Vezo perché lo sono i loro genitori. C’è comunque un limite a quanto i bambini possono imparare in questo modo diretto. Il limite, posto da ciò che essi non sanno, impedisce loro di ricomporre in una teoria i frammenti di conoscenza che essi assorbono dagli adulti Vezo. La coerenza e il potenziale predittivo della teoria degli adulti Vezo si basa su una catena di meccanismi causali che lega il luogo di residenza e le attività alla classificazione sociale. A un livello più astratto e fondamentale, ciò che guida e da coerenza alla classificazione sociale degli adulti è la differenziazione teorica tra due meccanismi causali distinti, la nascita e l’educazione, per la trasmissione dei distinti tratti ontologici delle persone. Gli adulti hanno una regola generale per classificare le persone. La regola è che il luogo in cui vivono e ciò che essi fanno diranno chi sono. Tuttavia, essi ampliano questa semplice regola aggiungendo la capacità di differenziare i tratti personali che sono fissati alla nascita e i tratti che sono trasmessi attraverso l’educazione, l’apprendimento e l’abitudine. È questa differenziazione teorica che permette loro di classificare le persone, trascurando i primi (per esempio il colore della pelle), e focalizzandosi solamente sugli ultimi (per esem- R. Astuti, Siamo tutti naturalmente dualisti? 185 pio le abilità occupazionali). Per contrasto, i bambini hanno, al massimo, imparato alcuni fatti isolati: che certe persone sono Vezo perché vivono sulla costa e pescano, e altre sono Masikoro perché vivono all’interno e coltivano. Poiché nei bambini la conoscenza dei fatti non è ancora integrata con le presupposizioni teoriche che sostengono il modo degli adulti di classificare le persone, questa conoscenza è applicata casualmente e in maniera incoerente; di conseguenza, non ha né potere di spiegare né di predire. I bambini non si rendono conto della differenza tra nascita ed educazione come meccanismi causali per la trasmissione dei distinti tratti ontologici delle persone. Pertanto, non sono in grado di dedurre dal fatto che le persone sono Vezo perché pescano la conclusione generale che le persone devono essere classificate in tipi sociali grazie ai tratti trasmessi attraverso l’educazione. Questa inferenza è al di fuori della comprensione concettuale dei bambini, perché presuppone delle nozioni ontologicamente dualistiche a priori che essi ancora non hanno. Solo quando essi acquisiranno queste consapevolezze la loro conoscenza di certi fatti isolati del mondo sociale diventerà una coerente e predittiva teoria del mondo sociale. 4. Conclusioni I bambini Vezo ci hanno insegnato alcune lezioni generali. Ho mostrato che la loro abilità di produrre e riprodurre la conoscenza culturale coerente (come il sistema di classificazione sociale dei Vezo) dipende dai loro presupposti teorici impliciti (come la differenziazione tra nascita ed educazione). Questa conclusione ha delle importanti implicazioni per la nostra disciplina. Gli antropologi normalmente deducono i sistemi concettuali dei loro informatori (concetti di persona, di sé, di relazione) e i loro presupposti ontologici (l’assenza della distinzione sociale/biologico) dalla conoscenza che i loro informatori gli comunicano, e che apparentemente contiene quanto gli antropologi hanno necessità di sapere. 186 Modelli della mente e processi di pensiero Così facendo, tuttavia, gli antropologi rischiano, come avviene ai bambini, di afferrare solo dei frammenti, di trascurare i presupposti su cui si basa la conoscenza degli adulti e di rimettere insieme quei frammenti in teorie coerenti e predittive. Un sostegno all’ipotesi che la comprensione di gran parte di quanto viene comunicato, tanto ai bambini quanto agli antropologi, dipende da implicite ipotesi teoriche, viene dalla pragmatica, ossia dallo studio di come le espressioni linguistiche orali vengono interpretate dall’ascoltatore. Tanto la comprensione dei più semplici comportamenti linguistici, quanto la comunicazione culturale, che coinvolge espressioni estremamente complesse, dipende criticamente da presupposizioni non linguistiche. I bambini Vezo, comunque, ci hanno insegnato che Malinowski aveva ragione nel cercare instancabilmente un nuovo metodo scientifico che potesse liberare il ricercatore dall’inganno di ciò che egli chiamava il metodo della domanda e della risposta. Malinowski era principalmente preoccupato dal fatto che questo metodo rivelava le convenzioni culturali degli informatori, distorcendo di conseguenza la comprensione della vita sociale pratica. Egli sembrava meno interessato agli effetti relativi alla comprensione dei processi cognitivi, probabilmente perché li considerava universali, e perché non conosceva alcun metodo che potesse rivelarli in maniera soddisfacente. L’osservazione partecipante, la grande competenza linguistica, un metodo sistematico per registrare i dati etnografici, sono alcuni degli strumenti metodologici che abbiamo ereditato da Malinowski. Come ho dimostrato, questi strumenti sono essenziali ma non sufficienti a descrivere le forme di pensiero dei nostri informatori. Se vogliamo fornire tali descrizioni accuratamente, dobbiamo essere preparati a ampliare la nostra metodologia cooperando con altre discipline come la psicologia cognitiva, in maniera da mantenere quello spirito innovativo con cui Malinowski creò la nostra disciplina. Memoria a lungo termine di eventi estremi: dall’autobiografia alla storia di Francesca Cappelletto Questo saggio presenta i primi risultati di uno studio sulla formazione sociale della memoria in paesi toscani che sono stati vittime di violenza durante la II guerra mondiale1. S’intende esplorare il legame tra la dimensione cognitiva e quella affettiva della memoria attraverso un’analisi delle narrazioni orali considerate forme complesse di elaborazione dei ricordi di esperienze passate. Al centro dello studio sono i meccanismi di costruzione della memoria, nella duplice prospettiva del modellamento sociale e della qualità emozionale delle narrazioni. Numerosi studiosi hanno esplorato il modo in cui i fattori sociali possono combinarsi per influenzare il modellamento della memoria. C’è stato anche un intenso dibattito sui modi e la misura in cui la memoria individuale può contribuire alla codificazione dei materiali della memoria di un gruppo sociale. Per Halbwachs (1968) e altri (Namer, 1987; Dakhlia, 1990; Jedlowski & Rampazi, 1991; Tonkin, 1992; Candau, 1996) la memoria è costruita socialmente. Halbwachs caratterizza la memoria come filtro di eventi passati, il quale tende a preservare solo quelle immagini che sostengono il senso di identità presente del gruppo: la memoria collettiva è dunque una forma di coscienza del pas1 Lo studio è iniziato in occasione del convegno internazionale “In Memory. Revisiting Nazi atro- cities in Post-Cold War” tenutosi ad Arezzo nel giugno del 1994. In seguito la ricerca etnografica si è estesa al paese di Sant’Anna di Stazzema. Desidero qui ringraziare la mia amica e collaboratrice Paola Calamandrei, che mi ha assistito e in alcuni casi sostituito nella ricerca sul terreno. Sono grata alla Wenner-Gren Foundation for Anthropological Research per aver finanziato parte dello studio (Grant N. GR6504). I risultati della ricerca etnografica sono stati pubblicati in vari articoli, tra cui quello apparso nel Journal of the Royal Anthropological Institute, che viene qui tradotto in italiano con alcune piccole modifiche. 188 Modelli della mente e processi di pensiero sato che lo re-interpreta alla luce degli interessi presenti. Il tentativo di costruire una teoria della memoria collettiva, di concretizzarla e attribuirle un’esistenza indipendente è strettamente legato alla rappresentazione durkheimiana della società come organismo, in particolare a idee come quella di conscience collective condivisa da una data unità sociale. Il merito di questa formulazione è che esprime con successo ciò che si potrebbe definire il “comportamento memoriale” di una società. Esso è qualcosa che appare talvolta uniforme e talaltra diversificato e inconsistente, dando così l’impressione che generazioni, classi sociali e sessi differenti abbiano tutti atteggiamenti dissimili rispetto alla memoria. La teoria della memoria collettiva esprime la nozione che una società possa davvero avere una “memoria”. Ciò che Halbwachs non ha notato, assorbito com’era dalla retorica della comunità (Candau, 1996), è stato il modo in cui le memorie individuali possano unirsi e formare una memoria di gruppo nel vivo dell’interazione sociale (come per esempio nella narrazione di storie o nello scambio di ricordi tra individui). Dopo Halbwachs, la memoria sociale è stata concepita come la sfera di relazioni tra pratiche cognitive e pratiche sociali (Tonkin, 1992). Il contributo degli storici orali, a cominciare da Paul Thompson (1978), è consistito nel riconoscimento della «natura fortemente mediata della memoria» (Radstone, 2000: 11), considerata in relazione a esperienze vissute, storiche, o «alla produzione attiva di significato e interpretazione […] capace di influenzare il presente» (Passerini, 1988: 195). In questa prospettiva, narrazione e memoria sono eventi, piuttosto che mere descrizioni di eventi (Portelli, 1999). La collaborazione tra antropologia e psicologia fornisce il contesto alle riflessioni di Maurice Bloch (1995) sul rapporto tra memoria autobiografica e memoria storica. Bloch sostiene che la collaborazione tra queste discipline non dovrebbe basarsi esclusivamente sui tentativi degli psicologi di usare materiale antropologico, in quanto gli psicologi spesso non riescono a riconoscere «la specificità culturale del concetto di individuo nella F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 189 storia»; per questo egli opta per l’uso da parte degli antropologi di «lavori di psicologia piuttosto tecnici, dal momento che la complessità della presenza del passato ricordato nel presente è chiaramente uno dei loro temi principali». Bloch invita gli psicologi ad apprendere dagli antropologi come discutere la memoria a lungo termine, tema questo «che li coinvolge nello spostamento dalle rappresentazioni private a quelle pubbliche», e invita gli antropologi a imparare «come la presenza mentale del passato influenza ciò che le persone fanno» (Bloch, 1995: 60). Secondo questo autore sembra non esserci differenza tra le rappresentazioni della memoria autobiografica, che costituiscono in larga parte il dominio della psicologia cognitiva, e quelle dei resoconti storici. Utilizzando come case-study un gruppo di ricordi di ribellioni contro i francesi in Madagascar nel 1947, egli sostiene che un resoconto ricevuto da altri è poi ri-rappresentato, immaginato e nuovamente narrato come se il narratore fosse stato testimone in prima persona degli eventi. Bloch distingue tra “evocazione” e “ricordo”: le narrazioni con un forte carico emozionale mostrano un punto di congiunzione tra la memoria orale di tipo tradizionale e la memoria autobiografica, cosicché lo “schematismo”, che è caratteristico della tradizione orale, è superato dalla vividezza e dal contenuto potenzialmente illimitato di memorie di esperienza personale. Studi psicologici degli ultimi decenni sono giunti alla conclusione che gli esseri umani possiedono sistemi mnemonici separati ma interconnessi (Fentress & Wickham, 1992). Una prima serie di distinzioni identificata in questi lavori è quella che riguarda la memoria episodica e la memoria semantica, che differiscono sia per qualità che per compiti mentali o cognitivi a cui sono preposte. La memoria episodica è descrittiva dell’evento, procedurale e cronologicamente organizzata; connessa al concetto del sé, ha per oggetto episodi recuperati dalla vita passata di un individuo e dall’esperienza organizzata in modo non razionale. La memoria semantica, invece, è la descrizione di ciò che conosciamo di questi eventi, è conoscenza astratta del mondo, deriva dal- 190 Modelli della mente e processi di pensiero la memoria episodica che usa in un processo di generalizzazione: è la memoria organizzata in modo razionale. Parallela a questa dicotomia corre la distinzione tra memoria emozionale implicita ed esplicita. La prima consiste di “sentimenti, piuttosto che di parole”, la seconda di “ricordi consapevoli e intenzionali di episodi precedenti” (Tobias, Kihlstrom & Schacter, 1992). Tra gli antropologi, Harvey Whitehouse ha usato queste categorie per esplorare il ruolo del terrore nei riti di iniziazione e la sua durata nella memoria: impiegando il concetto di memoria flashbulb, cioè memoria-lampo, egli vede questi riti come «parte di un nesso di processi psicologici e sociologici» (1996: 713). Il mio interesse in questo studio riguarda i modi di percepire da parte degli agenti sociali gli eventi di un passato storico. Nelle comunità in cui hanno avuto luogo i massacri, la gente ha continuato a ricordare. Si tratta di vere e proprie comunità mnemoniche costituite dai sopravvissuti, i quali sono ancora impegnati in una lotta contro l’oblio. Un aspetto di queste rappresentazioni è la fusione della memoria autobiografica e storica. Al fine di comprendere questo meccanismo della memoria – e i modi in cui avviene il passaggio dalla memorizzazione dell’evento al racconto – analizzerò una dimensione cruciale delle narrative, e cioè l’elaborazione e rielaborazione delle immagini ricordate dalla gente, e in particolare la “cristallizzazione” visiva degli episodi traumatici. Gli studiosi di scienze sociali non hanno ancora affrontato la questione di come le percezioni visive sono comunicate all’interno di un gruppo sociale e poi trasmesse sul lungo periodo, dal momento che molto poco è noto dei meccanismi attraverso i quali un gruppo memorizza e conserva immagini straordinarie. Questo argomento è stato trascurato negli studi antropologici della memoria narrativa. Il rapporto tra visualizzazione e verbalizzazione è chiaramente complesso. Nel dominio della psicologia cognitiva, ad esempio, non è ancora chiaro come funzioni il processo di codificazione: come ciò che è stato costruito nella dimensione figurativa viene ricostruito come sua descrizione verbale (Brandimonte, 1997). F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 191 Il mio interesse si concentra sul tentativo di comprendere i modi in cui le “immagini come memoria” sono condivise quando i soggetti parlano del passato. Questo è un capitolo che riguarda i meccanismi profondi e le dinamiche a lungo termine della trasmissione della memoria di eventi che hanno un carico emozionale. Lavorando sui rapporti tra verbalizzazione e visualizzazione nelle narrazioni, questo contributo ha lo scopo di mostrare come nella memoria di eventi traumatici la formazione di immagini abbia un’importanza cruciale, facilitando il passaggio da rappresentazioni individuali a rappresentazioni storiche. 1. Il contesto Negli ultimi anni della seconda guerra mondiale, le truppe di occupazione tedesca in Italia si resero responsabili di numerosi massacri che implicarono l’uccisione di civili inermi, soprattutto lungo la cosiddetta “Linea Gotica” che gli occupanti avevano stabilito come barriera difensiva contro l’avanzata delle forze alleate2. La ricerca etnografica si è svolta in due paesi toscani, Civitella (provincia di Arezzo) e Sant’Anna di Stazzema (provincia di Lucca)3. A Civitella, dove 150 abitanti furono trucidati, il 29 giugno del ’44 truppe delle SS assediarono il villaggio e arrivarono fino alla chiesa dove era in corso la messa mattutina, costringendo gli astanti a riunirsi nella piazza principale. Coloro che erano rimasti in casa vennero buttati fuori nelle strade e le loro abita2 Le popolazioni locali venivano considerate colpevoli di connivenza con i ribelli, che commettevano atti di sabotaggio contro i tedeschi. Tuttavia, uno storico autorevole ha recentemente sostenuto che «la brutalità delle tattiche antiguerriglia spesso serviva come pretesto, e non aveva alcuna relazione con l’effettivo pericolo rappresentato dai partigiani nel 1944» (Klinkhammer, 1993: 338). In realtà la logica dei massacri aveva due scopi: sterminare i partigiani e mettere in guardia le popolazioni civili dal collaborare con loro. 3 Sia Civitella che Sant’Anna di Stazzema erano villaggi poveri di circa 1000 abitanti che vivevano soprattutto di mezzadria oppure emigravano. La maggioranza degli abitanti era costituita da contadini, anche se a Sant’Anna vi era una piccola miniera, e a Civitella risiedeva un numero – assai esiguo però – di famiglie di artigiani e professionisti. 192 Modelli della mente e processi di pensiero zioni date alle fiamme. Seguendo una comune pratica che richiama recenti resoconti etnografici di violenza ritualizzata e routinizzata (Kleiman, Das & Lock, 1997; Tambiah 1996), le SS separarono gli uomini dalle donne e dai bambini, facendo marciare i primi verso il muro della vicina scuola dove vennero poi fucilati. I sopravvissuti di Civitella furono quasi esclusivamente donne. A Sant’Anna di Stazzema il 12 agosto 1944, formazioni delle SS circondarono il villaggio. Quando alcuni abitanti diedero l’allarme, molti si nascosero nel bosco, per la paura di essere spediti ai lavori forzati. Solo questi uomini e pochi altri sopravvissero al massacro, in cui ben 110 bambini vennero trucidati barbaramente. Le SS razziarono il villaggio metodicamente: andarono di porta in porta, cacciarono gli abitanti fuori dalle case oppure le incendiarono impedendo loro di uscire. Un superstite raccontò poi che in una casa fu trovato il corpo di una donna incinta: il suo ventre era stato squarciato e il feto giaceva in terra, ancora attaccato al cordone ombelicale. Un testimone che faceva parte degli assassini fu intervistato 56 anni dopo il massacro da un reporter tedesco (RaiUno, 2000). Egli ricordò che: «Fu come nelle battute di caccia: vennero scovati tutti e [quelli che non erano già stati uccisi]vennero spinti avanti, radunati nella piazza davanti la chiesa […] le persone sulla piazza non hanno detto una sola parola, non hanno gridato, o pregato per le loro vite, implorato, non hanno detto una parola […]. Sentendo che stavano per morire, alcuni tirarono fuori le fotografie sperando di venire poi identificati. Poi le SS sparsero sui cadaveri fieno, paglia e benzina e diedero fuoco». I superstiti di questi episodi di violenza estrema sono pochi, perché l’ordine era di sparare e uccidere tutti. Coloro che sopravvissero hanno continuato a parlarne per cinquant’anni, come in un disperato tentativo di venire a patti con – di digerire – la memoria di quelle atrocità: «Chi di noi è ancora qui ne parla sempre… è sempre nella nostra mente…»; quando si parla tra paesani, «gira e rigira si va a cascà lì, o in un F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 193 modo o nell’altro si finisce di parlare dell’eccidio». In queste comunità i massacri sono ancora ricordati con un profondo senso di dolore e sono percepiti come un’apocalisse, come la fine di tutto un mondo. Per loro raccontare la memoria del passato è come toccare una ferita ancora aperta, perché la loro vita interiore ha sempre ruotato intorno a questa sofferenza. Questi massacri furono parte dell’ultima fase della guerra nazista in Italia in cui «tutte le popolazioni civili divennero potenzialmente ostaggi in mano degli occupanti» (Pavone, 1991: 488) e più di novemila civili disarmati furono uccisi dalle truppe tedesche (Schreber, 2000). Il rifiuto di crimini come questi rappresentò una svolta culturale nella democrazia italiana del dopoguerra, dal momento che tale rifiuto costituì uno dei principi basilari della nuova Costituzione promulgata nel 1947. Come nel caso di altre atrocità commesse in Italia durante la guerra, pochissimi responsabili del massacro – anche quando identificati – sono stati puniti, poiché i processi sono stati chiusi in un armadio per oltre cinquant’anni4. Malgrado ciò, ai superstiti è stato chiesto di ricordare e trasmettere la memoria di quegli eventi, non solo per loro stessi, ma anche per altri – per esempio giornalisti e storici. Io ero tra le persone che volevano conoscere la loro storia. Ho condotto un lavoro sul campo basato su interviste etnografiche in profondità a partire dal 1994, anno in cui furono organizzate molte commemorazioni in quanto ricorreva il cinquantesimo anniversario dei massacri. Ho intervistato 68 persone, in vari casi incontrandomi con loro ripetutamente; alcuni erano superstiti che risiedevano ancora nei paesi, dove li ho incontrati, ma sono andata anche alla ricerca delle persone che si erano trasferite altrove. Ho intervistato alcuni figli e altri parenti 4 È il cosiddetto armadio della vergogna, in cui i dossier dei processi vennero chiusi per paura che una “Norimberga italiana” avrebbe avuto ripercussioni negative sull’eventuale inserimento della Germania nella NATO (Franzinelli, 2002). Nel 2004 la riapertura dell’armadio ha portato all’incriminazione – e a una prima sentenza di condanna all’ergastolo – di dieci ex ufficiali appartenenti al II Battaglione Panzergrenadier, Divisione Reichsfürer SS. 194 Modelli della mente e processi di pensiero delle vittime che per cinquanta lunghi anni avevano ascoltato e raccontato a loro volta la storia dei massacri. È stato molto difficile per me chiedere agli intervistati di ricordare e soffrire – letteralmente – di fronte a me,e io soffrire a mia volta di fronte a loro. In alcuni casi i superstiti mi hanno rassicurato prima dell’intervista, e cercato di sollevarmi dalle preoccupazioni che intuivano, spiegandomi che «per tutti quegli anni si erano allenati a ricordare: non era la prima volta che si trovavano ad affrontare il momento in cui la memoria si trasforma in linguaggio» (Young, 1988: 161). Certamente anche loro, come Primo Levi, si erano costruiti una “memoria-protesi” (Woolf, 1999: 45) che consentiva loro di narrare e di essere ascoltati con una pena attenuata, iniziando da un “testo” non scritto ma presente alla loro mente. Tuttavia, la consapevolezza più profonda che ci univa in quello che è stato definito il “patto testimoniale” (Wieviorka, 1998) era che noi – ascoltatori e sopravvissuti – lavoravamo insieme nel tentativo non tanto di conoscere i fatti, quanto di cogliere il significato attribuito ai fatti nella loro memoria: come mi disse una donna del villaggio, «ciò che si è fatto esperienza è la memoria vivente… sia nella piazza sia nelle case… il resto – quanti tedeschi ci fossero, da dove venivano, come uccidevano – [non ha importanza]». 2. Una comunità mnemonica I superstiti e i loro figli formano una comunità mnemonica che non è più definita da confini spaziali (in quanto molti dei suoi componenti sono emigrati), ma piuttosto dalla durata della storia nel tempo. Dopo la guerra i sopravvissuti hanno continuato a raccontare ciò che pensano di quella che è la “loro storia”, una narrazione in cui memorie individuali e memorie di gruppo si intersecano e si fondono insieme. La “storia” dei massacri testimonia la presenza nel tempo presente di un passato distante che non è stato ancora metabo- F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 195 lizzato, da cui la consapevolezza quotidiana non ha ancora preso le distanze. I ricordi appaiono come “memorie assolute” di parole e azioni che dominano su tutte le altre. A Sant’Anna di Stazzema una donna testimone oculare di quei tragici eventi ci mostrò la casa: le pareti erano ricoperte di fotografie dei parenti uccisi. Ci disse che quelle fotografie avevano fatto crescere sua figlia (nata dopo il massacro) come una donna vecchia: come se fosse stata intrappolata nel tempo del massacro, un tempo che non passa mai, una memoria intransitiva. Per coloro che hanno subito o sono stati testimoni di atrocità, la violenza non si caratterizza semplicemente come un’“eruzione” che poi scompare, non viene “contenuta nel tempo”, ma viene invece “sperimentata come violenza continua” (Kanapathipillai, 1992: 343). Le occasioni narrative del massacro includono ripetizioni della storia a persone che vengono da fuori e sessioni di narrazione orale organizzate, in cui i componenti della comunità si riuniscono. Questo tipo di sessione narrativa comune è molto diffuso nell’Italia rurale. Nelle comunità mnemoniche le sessioni narrative che riuniscono vari componenti del gruppo hanno luogo perlopiù in occasione degli anniversari del massacro, nel giorno dei morti, e durante i funerali dei sopravvissuti. Le sessioni narrative sono un processo di socializzazione e una pratica mnemonica, una sorta di mnemotecnica di gruppo che impiega elementi di ripetizione tradizionale. Per esempio, la storia è usata come cornice per la ricostruzione di genealogie, dal momento che i “nostri morti” (le vittime del massacro) occupano un posto centrale nella storia familiare. Il massacro rappresenta un punto fisso di orientamento nelle narrative del gruppo quando è il passato ad essere considerato: “il mondo che abbiamo perduto” (che atmosfera amichevole!”) è un’espressione ricorrente che si riferisce alla vita delle persone ordinarie prima del massacro, dopo il quale “tutto è crollato”. I miei resoconti di quella che viene chiamata “la nostra storia” attingono sia da sessioni narrative da me organizzate, sia da narrazioni che ho ascoltato durante le commemorazioni ufficia- 196 Modelli della mente e processi di pensiero li e altri eventi locali. Tutte queste occasioni condividono alcuni elementi chiave, tra cui il fatto che rivelano una forte tensione fra due desideri opposti: il desiderio di chiudere il capitolo dei ricordi (per scrollarsi di dosso quel peso) e, d’altro lato, la consapevolezza di non poterlo o volerlo fare. Come etnografa, ho avuto spesso la sensazione di fungere da specchio, sospeso tra queste due dimensioni di desiderio e rifiuto. Parlando di sua madre un uomo mi ha detto: «Dice di non volere vedere nessuno, neanche te... e poi non ha bisogno di altro che di qualcuno che le faccia visita e le parli». Oggi le persone dei villaggi vittime di violenza sono unite nella lotta contro l’oblio. Questa lotta consiste nel raccontare la loro storia in un modo caratterizzato da forti accenti ritualistici e persino sacri. La storia, tuttavia, contiene alcune ambivalenze fondamentali. Una di queste aree di ambiguità è rappresentata dal complesso rapporto tra descrizione e interpretazione degli eventi. Nella formazione comune della memoria, gli aspetti puramente descrittivi della storia si sono consolidati e standardizzati nel tempo; ma per quanto riguarda la dimensione interpretativa, esistono ancora oggi discrepanze significative. Molte di queste divergenze sorgono nel tentativo di trovare un colpevole. A Civitella, dove il massacro fu preceduto da un atto di resistenza armata in cui vennero uccisi tre soldati tedeschi delle SS, molti attribuiscono la colpa ai partigiani, rei di aver esposto la popolazione locale alla rappresaglia tedesca senza cercare di proteggerla. A Stazzema questa accusa è più sorda e meno condivisa, anche se emerge decisamente nelle storie locali. Diversamente da Civitella, tuttavia, a Sant’Anna di Stazzema vengono accusati anche i fascisti locali che si dice abbiano fatto da guida ai tedeschi nei loro giri di morte. Questo è ancora all’origine di tensioni nella vita attuale del paese. Le diverse identità sociali, occupazionali e residenziali dei gruppi coinvolti nell’evento hanno dato prova di essere rilevanti nel modellamento della memoria. La testimonianza di come differenti tradizioni, affiliazioni politiche e conflitti interni interfe- F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 197 riscano con il processo di costituzione della memoria ha sollevato la questione delle variazioni di pensiero sulla storia (Cappelletto, 1998)5. Questo approccio più esplicitamente socio-strutturale non è direttamente pertinente all’argomentazione di questo studio, che riguarda il rapporto tra verbalizzazione e visualizzazione della memoria. Basti dire che, mentre la memoria episodica è giunta a una versione comune, la memoria semantica resta frammentaria: è una storia “aperta”, in cui sono fornite varianti di un unico evento. Un’ulteriore area di ambivalenza emerge dalle ambiguità della dinamica interno/esterno. Come ho accennato, nella comunità la “storia” dei massacri è concettualizzata come la “nostra storia”, cioè come un valore che deve essere protetto dalle intrusioni e dai potenziali abusi da parte di coloro che vengono da fuori.Le persone sono preoccupate di essere private, derubate della loro storia. Tale paura nasce dalla percezione che la memoria del massacro sia di loro proprietà, intima e comunicabile solo all’interno del gruppo dei sopravvissuti, in quanto solo loro condividono l’esperienza di eventi unici. Allo stesso tempo, tuttavia, i sopravvissuti hanno un desiderio irrealizzato di giustizia e di riconoscimento pubblico del loro passato. Ma di nuovo questa è un’area di ambiguità. Infatti i componenti della comunità mnemonica sono solitamente soddisfatti quando politici e ufficiali partecipano agli eventi commemorativi: vogliono che la loro memoria del massacro sia memoria pubblica, capace di “entrare nella storia”. Eppure non amano l’intrusione di forze anonime provenienti dal mondo politico o dalla società più ampia in quella che definiscono la “nostra storia”. 5 Per un approfondimento di queste tematiche si veda F. Cappelletto, “Social relations and war remembrance: II World War atrocities in rural Tuscan villages”, apparso nel numero di settembre 2006 della rivista «History and Anthropology». 198 Modelli della mente e processi di pensiero 3. Segmenti di esperienza ricordata Le narrazioni locali possono essere considerate un testo comune, storico, composto da varie memorie episodiche di natura autobiografica, concentrate sul sé che narra. È presente una commistione di memoria individuale e memoria di gruppo. Ciò significa che i ricordi altrui sono elaborati come se fossero esperienze personali. Contemporaneamente, i ricordi di uno sono, in effetti, resi esterni al sé e vengono narrati come se fossero esperienze di altri. Un esempio frequente del primo caso è la presenza sparsa nelle narrazioni del discorso diretto, usato dal narratore anche quando egli non era presente all’evento, come nel caso di un uomo, al tempo del massacro prigioniero in Corsica, che richiama alla memoria una storia sentita raccontare dal cugino “mille volte”.Nella sua versione della storia, quest’uomo usa il discorso diretto, sicché esistono tre agenti narrativi: «Come mi disse Pietro, suo padre – il marito di mia zia – fuggì [e disse]: “Presi un cestino del pane vuoto, il pane che avevano fatto il giorno prima era tutto finito, poi presi la rapa e Bruno, il più piccolo, che allora aveva nove anni. Oh, vieni piccolino!” Era in braccio alla madre e non voleva venire. Non volle venire, altrimenti sarebbe stato salvato». Ci sono episodi che “la gente racconta in continuazione”, come dicono i miei interlocutori. Sembra che tali episodi abbiano perso la loro qualità individuale e siano stati adottati da altri, come se fossero stati vissuti – e ora rivissuti – da ciascun narratore. I dettagli descrittivi sono ri-raccontati, ad esempio la seguente scena del “buon tedesco”, un frammento di racconto molto ricorrente, riferitami da un testimone oculare, ma anche da vari altri narratori non presenti all’evento: «Sentendo due sorelle chiedere della madre, e forse pensando che la madre fosse stata uccisa, egli prese dalla tasca il fazzoletto e asciugò loro le lacrime». La storia raccontata da altri è rielaborata come memoria personale. Quando ho chiesto direttamente di questo aspetto della F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 199 memorizzazione mi è stato detto: «Noi raccontiamo ciò che ricordiamo di quello che ci è stato detto»; «Questa è la mia esperienza personale, ma quando parlo cogli altri è un’esperienza comune»; «Ora confondo le mie esperienze con quelle che mi sono state raccontate». In molti casi il ricordo coincide con ciò che il narratore ha sentito raccontare. Le testimonianze seguenti sono riferite da persone che all’epoca avevano rispettivamente un anno, nove mesi e venti anni. Quest’ultima è una donna che si trovava lontano dal villaggio al tempo del massacro. Sebbene non siano testimoni oculari, il loro racconto è simile: «Poi a un certo punto ne arrivò una trentina [di tedeschi], arrivarono con la mitraglia, la piazzarono e li misero tutti al muro, erano in venticinque, fra donne e bambini, poi aspettavamo l’ordine di qualcuno…[si noti il passaggio dalla forma impersonale a quella personale, visto che il bambino fa parte del gruppo]. A un certo punto un comandante… quando fu giù… da lontano attaccò a urlargli, cosare con le mani come a dire “no!”. Attaccarono a smontà la mitraglia… li fecero girare dalla parte di là…» «A un certo punto presero tutte [le persone] e le portarono qui nella piazzetta, che c’è sempre e le misero tutte al muro. Chi l’aveva uno in braccio e uno per mano, io per esempio avevo nove mesi, chi aveva un anno, chi tre anni… li misero tutti lì… E davanti la mitragliatrice pronta… Quando aspettavano che gli desse il via a questa mitragliatrice, venne un soldato, parlò in tedesco, lo sentirono questo borbottio…» «E là l’avevano concentrati, ora non mi ricordo la cifra, una ventina, trenta, quindici, non lo so. L’avevano messi dov’è la piazzetta, l’avean messi tutti lì questa gente e avevano già piazzato le mitraglie… E in questo tempo, dice, scese dal bosco un ufficiale tedesco, e capirono che gli disse basta. E allora misero a posto queste mitraglie e li incolonnarono». Il particolare cambiamento di prospettiva di un ricordo personale narrato come se appartenesse a qualcun altro ricorre soprattutto nelle interviste in cui il testimone ha reso le sue memo- 200 Modelli della mente e processi di pensiero rie in forma scritta, e così facendo si è sforzato di essere oggettivo e di riunirle in un’ordinata sequenza di punti. 4. Ricordo di gruppo come interazione Le memorie di gruppo non derivano unicamente da contributi individuali o da quelli della comunità nel suo insieme: sono piuttosto il prodotto dell’interazione tra le due componenti. La memoria attuale del massacro di Stazzema ci permette di comprendere alcuni meccanismi del passaggio dalla memoria individuale a quella sociale perché le caratteristiche dell’insediamento, spezzettato in numerose frazioni, porta necessariamente a una visione – e a un ricordo – parziale e monofocale dell’evento. In tutte le interviste traspare che ciascun narratore dà maggior peso a ciò che ha vissuto e può testimoniare (“io ricordo la mia esperienza”), ma include anche sommari delle esperienze altrui basate in genere su racconti di prima mano. L’evento narrato è dunque costituito da frammenti episodici, uno o più dei quali possono essere strettamente autobiografici. Le parti “mancanti” del proprio racconto vengono ricostruite. Per esempio un uomo, che al tempo della strage aveva undici anni, intesse nello schema narrativo di base il racconto più dettagliato dei fatti avvenuti nella propria frazione (che ha solo sentito raccontare dai sopravvissuti), dei fatti avvenuti in un’altra frazione dove sono state uccise le sorelle (uccisione che non ha avuto testimoni oculari, in quanto delle sorelle sono solo stati ritrovati i corpi) e di quanto invece lui stesso ha visto in piazza, la sera, alla fine della strage. La maggior parte delle narrazioni è messa insieme in questo modo, come un puzzle. Il senso del testimoniare e ri-testimoniare è centrale in queste micro-narrative, il cui contenuto come vedremo è altamente visivo. Tipicamente, il narratore introduce il “mattone” narrativo dell’esperienza altrui con una formula del tipo «questa esperienza te la può raccontare A.B.»; ma poi te la racconta lui, in prima F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 201 persona: «Le cose si sanno così… poi per filo e per segno si mettono insieme… chi un episodio chi l’altro… e messo insieme si sa quel che è successo». I riferimenti a nomi di persone che sono portatori della memoria servono come sostegno della storia e formano una densa rete di relazioni. “Quelli che sono rimasti” fanno continuo riferimento l’uno all’altro: «Da quello che mi hanno detto, questo Pietro e suo figlio Amos e questo Salvatore…»; «Enrico può rispondere; lui era rimasto nel mucchio dei cadaveri… e, a Vacareccia, Milena può rispondere perché lei era lì»; «Questo Ettore… e poi vedrà che se Federico se lo ricorda, ma lui se lo deve ricordare anche meglio di me, perché eran su’ parenti, l’alzarono per la cintura e lui fece il morto…». Si forma una rete di connessioni narrative, cosicché i tasselli mancanti della storia di uno possono essere ricostruiti e una memoria storica – l’effettivo atto del ricordare – è costruita attraverso la composizione di questi frammenti o esperienze monofocali. Una persona che ho intervistato aveva sei anni al tempo del massacro; ora lavora al museo, creato per iniziativa locale e diventato sacrario di quella memoria. Mi ha detto: «La mia memoria… spesso non riesco più a distinguere la memoria personale da quella che è acquisita nel tempo, pertanto molte volte i racconti sono racconti di esperienze, anche degli altri, diventate poi patrimonio personale, patrimonio collettivo». In questa testimonianza due categorie sembrano fondersi: la memoria interna,autobiografica e la memoria comune espressa nelle narrazioni condivise da un gruppo. Di solito si crea una visione generale dell’evento, che include riepiloghi di tutti, e tende a fondersi in versioni più dettagliate ed emozionali, le quali spesso sono visioni individuali o autobiografiche di ciò che è accaduto. Oggi gli elementi fattuali della memoria prevalgono su quelli interpretativi e la descrizione degli eventi occupa la parte centrale del racconto. La narrazione si stringe intorno alla “storia”, ai suoi aspetti più oggettivi, per co- 202 Modelli della mente e processi di pensiero sì dire, più microdescrittivi. Si nota una ricerca del dettaglio, delle sfumature, non però di significato, ma di avvenimento. Le persone che appartengono a queste comunità enfatizzano l’importanza di riferire per filo e per segno i fatti perché, si dice, quella è la realtà, la verità che bisogna saper “rendere” nel racconto. Deve riflettersi nel racconto perché non si dà alcuna divaricazione tra narrazione e fatti. E i ricordi narrati che abbiamo ascoltato sono tutti impegnati nella ricostruzione di una “verità”. Come s’è detto, le narrazioni mostrano la tendenza verso una ripetizione dettagliata della storia nella sua interezza. Esiste uno schema basilare o “tipo” narrativo che ricorre in quasi tutti i racconti; include varie descrizioni: come era la vita prima del massacro (il paradiso perduto), cosa è successo poco prima dell’evento (l’antefatto o preludio: per esempio, le operazioni dei partigiani), il massacro stesso («Hanno ucciso tutti!»), e il suo epilogo («La notte seguente fu una notte piena di pianti e disperazione»). Comparando le versioni raccolte negli anni precedenti da diversi intervistatori e quelle raccolte nel contesto della presente ricerca, emerge una forte tendenza alla ripetizione, parola per parola, della storia nella sua interezza. Il tono della narrazione suggerisce l’idea che il racconto sia stato imparato come un testo da memorizzare per essere recitato. Va da sé che l’adesione a un contenuto di testimonianza non tende ad essere variabile: cosa potrebbe cambiare nel dare il resoconto di fatti che sono rimasti immutati? Ma interessa notare il carattere letterale del ricordo, il suo cristallizzarsi in un testo fisso, accurato e preciso. Come vedremo, il carattere di ripetizione “parola-per-parola” delle narrazioni raccolte in entrambi i villaggi può essere dovuto al fatto che abbiamo a che fare con memorie vecchie e a lungo termine. La storia è stata raccontata dai sopravvissuti e richiesta loro molte volte; questo ha portato alla formazione di una memoria in cui la densità autobiografica è attenuata. La seconda ragione che spiega il carattere letterale della memoria è il fatto che essa è una storia narrata e ri-narrata di un evento traumatico che è stato visceralmente interiorizzato dall’intera comu- F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 203 nità. Gli eventi passati sono concepiti in modo altamente visualizzato attraverso contenuti di immagini che scorrono all’interno dei ricordi. 5. Ricordi che non si sradicano di un passato carico di tensione Per comprendere la cristallizzazione dei ricordi, il modello fisso e ricorrente delle storie, è necessario considerare il fatto che esse si riferiscono a esperienze traumatiche. Queste ultime hanno dato luogo a racconti interamente costruiti su quadri visivi che trasmettono tutta la vividezza e la drammaticità delle scene cruente. È il racconto ripetuto di quadri visivi che mette l’ascoltatore nella condizione emotiva di ri-vivere un evento narrato come se fosse stato davvero esperito. Nelle parole di una donna di Sant’Anna,è come se la storia “rimanesse addosso” e facesse soffrire, perché le immagini visive hanno un forte contenuto di visceralità. «Ho visto tutto, è tutto nel sangue», mi ha detto un’altra persona che era bambina all’epoca del massacro. L’insistente ritorno degli eventi, ad esempio nei sogni traumatici, è caratterizzato dal suo essere letterale e dal possedere una qualità non simbolica (Caruth, 1995; Christianson, 1992). Gli eventi sono intrusivi, il che significa che la loro memoria si presenta come insistente e invade la vita quotidiana. Come Cathy Caruth ha dimostrato nel caso delle memorie dell’Olocausto, i sopravvissuti a questi massacri convivono con memorie che gettano un’ombra sulle loro vite di oggi. La ripetizione in parte blocca la consapevolezza, dando vita ad una alienazione del sé nell’atto del ricordo: c’è una sorta di “latenza” e di “incompletezza nella conoscenza” (Caruth, 1995). Questo aiuta a spiegare perché sia così centrale la rappresentazione episodica dell’evento e così attenuata invece la dimensione semantica della memoria del massacro. A volte sembra che il narratore non sia in completo possesso della realtà o del significato a cui l’evento traumatico consente l’accesso. Tale incapacità 204 Modelli della mente e processi di pensiero di raggiungere la comprensione completa rende ragione anche del fatto che vi sono caratteristiche decisamente comuni nei racconti dei sopravvissuti e di quelli che hanno appreso da altri la storia negli anni seguenti il massacro. In qualche caso i sopravvissuti lasciano letteralmente la narrazione a chi secondo loro può meglio ricordare perché non è portatore in prima persona di una memoria così traumatica. Nella testimonianza – prodotta per le generazioni future – scritta da un uomo che arrivò al luogo della strage due giorni dopo e trovò i corpi carbonizzati della moglie e dei suoi otto figli, egli dice che non sa descrivere cosa avvenne perché «il cervello anche in questo momento non può ragionare. Si inebetisce al ricordo». E rimanda alla testimonianza degli stessi fatti resa da un compaesano. Una cristallizzazione dell’esperienza diventa infatti l’oggetto di rievocazioni multiple; può vivificare emozioni in altri e diventare parte della loro esperienza autobiografica. Questi “altri” possono essere d’aiuto a sopportare il peso del ricordo. L’intensa solidarietà tra i partecipanti nelle sessioni narrative è indicativa degli aspetti affettivi della memoria, e del processo attraverso cui, nel tempo, la storia acquisisce una forma che va oltre l’identità dell’individuo narrante, diventando in effetti un mezzo di comunicazione all’interno di un gruppo e tra il gruppo e coloro che non vi appartengono. I partecipanti alle sessioni si sentono portatori e trasmettitori di una memoria indimenticabile. Il cuore di questa memoria è sperimentato sia come lutto familiare e privato, sia come lutto pubblico della comunità mnemonica. Il massacro sembra essere un evento-memoria a cui ci si aggrappa nel piangere la memoria individuale, e intorno a cui viene tracciato il circolo della memoria di gruppo. Questo doppio livello di interiorizzazione del ricordo rende conto dell’impressionante persistenza di immagini che intessono i racconti producendo immediatezza e un senso di partecipazione. In esse, la dimensione individuale e quella di gruppo si rafforzano a vicenda in un doloroso processo di “ruminazione” interiore. F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 205 6. Memoria e immaginario visivo Dopo aver caratterizzato alcuni aspetti del processo di memorizzazione in queste comunità, vorrei ora introdurre la parte che ritengo più saliente del mio lavoro, e cioè l’ipotesi che la fusione di memoria autobiografica e memoria storica sia facilitata dalle immagini associate all’esperienza passata. Quando si ascoltano i resoconti dei sopravvissuti, “vedere con gli occhi di allora” appare subito come la dimensione cruciale della narrazione. Il tono emotivo della memoria sembra cristallizzato nella dimensione visiva delle atrocità, che rappresenta una sorta di letto di Procuste delle narrazioni degli abitanti del villaggio. La storia del massacro è sempre composta di immagini, di sequenze di immagini concrete, ricche di memoria sensoriale e di memoria di scenari: «Io ricordo soltanto con estrema chiarezza, l’ho sempre agli occhi, i soldati tedeschi che venivano giù, urlavano, cantavano, il mio babbo con gli altri due uomini che erano nella stanza nostra nascosti nel campo di granturco. A me mi si sciolse il corpo dalla paura, sentivo le donne che erano sempre rimaste nell’uliveto e che urlavano perché gli portavan via tutti gli uomini. Portaron via tutti, laggiù, quelli che riuscivano a prendere, e poi quella sera, la notizia: a Sant’Anna sono tutti morti». Gli eventi sembrano appiattirsi sull’immagine tanto che sembra appropriato chiamarli eventi-immagine. Qui non utilizzo la categoria di “immagine” e “immaginario” in senso empirico, come copia della realtà. E neppure la uso come processo mentale sinonimo di fantasia o visione, ma piuttosto come esperienza emozionale in forma visiva, come modo di pensare associato alla sensibilità. Elaborando recenti sviluppi nel campo delle scienze cognitive, Brandimonte rivendica la comprensione dell’“immaginazione” come «produzione e uso di immagini mentali» (1997: 21). Quando ho chiesto ai miei interlocutori di ricordare il giorno del massacro, essi hanno descritto una sequenza di immagini. Ciò che visualizzavano era destinato ad essere differente rispetto alle 206 Modelli della mente e processi di pensiero immagini che io e altri ascoltatori avremmo elaborato da quelle narrazioni. Come afferma Brandimonte, «quando “guardiamo” un’immagine mentale, molte delle nostre sensazioni sono simili a quelle che proviamo nell’atto di percepire qualcosa; persino i termini che usiamo per descrivere le nostre immagini sono presi a prestito dal linguaggio percettivo: le immagini mentali si “mettono a fuoco”, si “perlustrano” e così via» (1997: 43). Immaginazione e percezione sono analoghe dal punto di vista esperienziale, poiché “vedere” un’immagine significa avere una sensazione simile a quelle che sperimentiamo quando percepiamo qualcosa: «E io ho visto… ho sentito un silenzio… vuol dire che doveva essere verso… cioè io non ho sentito gli spari… perché io questi spari e gli urli li ho sentiti, perché… insomma, quando io racconto sto male… soffro, via,non posso sentire… racconto volentieri perché me ne libero, però sempre soffrendo, ecco!» In generale nella tradizione occidentale il visivo è la dimensione percettiva più forte. La memoria visiva funge da memoria di rinforzo di altri sensi, ad esempio dell’udito, il che significa che il contenuto uditivo viene meglio ricordato se è associato a immagini visive (Carruthers, 1990). La visualità fissa e permette di storicizzare il ricordo in misura maggiore rispetto al parlato. Il visivo ha un tono realistico, dal momento che si tratta di una memoria percettivosensoriale, e può essere “descritto” e condiviso. Nel loro recente lavoro, Fentress e Wickham hanno proposto un ampliamento della nozione di memoria sociale per includervi la «memoria sensoria di spazio e suono», che essi considerano «non meno concettuale della nostra memoria astratta dei significati» (1992: 30). 7. Flash di memoria, evocazioni emozionali e memorizzazione verbale Come strumento metodologico chiave della mia ricerca, ho chiesto esplicitamente alla gente che incontravo in che modo abbia- F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 207 no governato la memoria del massacro, e quale sia stato il corso dei loro ricordi durante gli oltre cinquant’anni trascorsi dalla strage. Queste riflessioni soggettive mi sono sembrate importanti per cercare di comprendere il processo di formazione di un “testo” comune e il modo in cui la gente comunica attraverso gli occhi di un tempo passato, rivivendo come gruppo eventi carichi dal punto di vista emozionale. Ho confrontato le narrazioni dei superstiti delle stragi naziste con quelle di persone della stessa comunità che non erano presenti in paese al tempo della strage. Per entrambi i gruppi il visivo sembra essere la dimensione narrativa più potente, e anche un elemento cruciale del processo di memorizzazione della violenza. Le tracce lasciate dalla violenza nelle vittime hanno costruito una sorta di memoria corporea in cui le narrative sono costantemente proiettate contro uno schermo visivo. Le immagini preservate del passato sono difficili da oggettivare e comunicare, eppure vengono accumulate e trasmesse attraverso la ripetizione della “storia” anno dopo anno. Il predominio di immagini visive è connaturato alla narrazione la quale procede “come un film”, o come una “successione di flash”, come dicono i narratori stessi. Il flash rappresenta l’elemento organizzativo della storia, e i portatori della memoria coscientemente strutturano le loro memorie intorno a queste immagini illuminanti, come nella seguente testimonianza: «Il primo flash è di quei tedeschi che dicono: “Valdicastello!” [frazione di S. Anna]… naturalmente io non ho nessuna prova, però dentro di me ho la fotografia: erano lì, uno un po’ più alto e uno un po’ più basso… forse uno più giù e uno più su. Giù al mulino sentii parlare tedesco e allora mi voltai… se lei va al mulino vede che il muro a monte è alto un paio di metri, tre-quattro metri e là sopra finisce il viottolo che viene da Coletti [altra frazione di S. Anna]. Venendo giù da Coletti c’era un viottolo che passava dal mulino vecchio, ci sono anche i ruderi del mulino vecchio, io il cinquantesimo anno [anniversario del massacro] me lo son fatto per due ore, finché non ha suonato la campana… questi due tedeschi quindi eran so- 208 Modelli della mente e processi di pensiero pra il portico, sul viottolo che veniva da Coletti. Che loro venissero da Coletti lo suppongo, perché erano su quel viottolo. Perché due? Io ne vidi uno solo, ma questo parlava col tono che io adesso sto usando con lei, e quindi il suo compagno era lì vicino, io non lo vedevo. Questo che io vedevo… un campionario di armi!!! C’ho la fotografia, insomma. Aveva le bandoliere con le cartucce, aveva la machin pistola, aveva le ballerine qui alla vita, insomma era attrezzato bene!! Però non mi guardava… e allora io entrai dentro al mulino, la sala dove c’erano mia madre, mia zia, Angelica, Egisto e le due ragazze Beretti, e gli dissi: “Mamma, c’enno i tedeschi!! C’enno i tedeschi!!”. Allora mia madre: “Scappiamo via subito!”. E scappammo via…» Il racconto continua con dovizia di particolari fino alla descrizione del flash successivo: «Nel pomeriggio cominciarono a scendere dalla mulattiera di S. Anna… tedeschi e parecchi uomini che vennero catturati. Di questi uomini, quattordici vennero fucilati proprio in fondo a Valdicastello [frazione di S.Anna]… Cominciai a vedere che scendevano dalla mulattiera con questi uomini… e l’altro flash… vidi questo soldato, ufficiale, quello che fosse, trasportato in una barella. Barella che… nel flash c’è la barella… oppure una cosa di fortuna. Una cosa di cui sono sicuro perché ce l’ho nel flash è che quell’uomo non era bendato, per cui ho sempre pensato che non fosse ferito da colpi di arma da fuoco, ma forse fosse caduto, una gamba rotta… oppure era bendato e gli avevano messo sopra qualcosa […]. Verso sera… vidi venì giù un ragazzo, si chiamava Mauro F. […] veniva giù questo Mauro, piangeva e c’era qualcuno che gli chiedeva: “Che hai? Che hai??”, “Hanno ammazzato tutti, hanno ammazzato tutti!!” e piangeva… Questo ragazzo che era andato a nascondersi con suo padre, nel bosco… quando era finito tutto eran tornati a casa e erano tutti morti. Lui era rimasto sconvolto e era venuto giù, sconvolto, e poi la vita non ci ha fatto più incontrare…». Whitehouse (1996: 710-711) definisce le memorie “stampate nella mente” come memorie lampo, e le considera connesse alla F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 209 natura traumatica di “esperienze drammatiche, terribili e sorprendenti” quali sono i riti di iniziazione. Gli eventi diventano memorabili in proporzione all’“intensità dell’emozione al momento della codifica”. La teoria di Whitehouse ci permette di approfondire la comprensione della memoria di esperienze traumatiche dei massacri. Le immagini-flashbulb prodotte da esperienze a forte intensità emozionale possono essere sperimentate consapevolmente dagli individui come improvvise eruzioni di memoria. Tali eruzioni sono emerse quando ho chiesto ai sopravvissuti di narrare nel corso della mia ricerca etnografica. La gente sperimenta questo stesso tipo di effetti quando pensa o parla di quel passato traumatico. I dettagli svolgono un’importante funzione in un contesto di memoria in cui le scene sono disegnate come immagini mentali (Carruthers, 1998). Come ho detto in precedenza, nelle storie locali esiste un notevole interesse per il dettaglio, qualcosa di simile al bisogno di rivivere i dettagli: questa ricerca, tuttavia, non è finalizzata alle sfumature di significato, ma piuttosto alla precisione nel raccontare i fatti. Le immagini non sono frammentarie e sfocate. La “vera” conoscenza è una conoscenza del particolare che deve essere rivissuto per essere comunicato. Si tratta degli stessi dettagli che sono ricordati verbalmente, in modo tale da evocare ciò che chiameremo “immagini che suscitano un’emozione”. I testimoni dicono che “vedere con gli occhi” o “guardare un’immagine” significa sentire le sensazioni legate all’esperienza passata. Vengono condivise immagini descritte verbalmente e basate su stimoli visivi che sembrano essere ancora attivi. Per esempio, il seguente ricordo è parte della storia, forgiata dagli “occhi di quel tempo”, di una bambina di cinque anni. In essa, tutto il campo visivo è legato ad una dimensione immobile e quasi atemporale in una serie di immagini che si rincorrono affannosamente: il padre, la madre e le tre bambine che salgono in soffitta, il padre che si arrampica sul tetto con una bambina perché la casa brucia, la morte della madre e delle due altre piccole soffocate dal fumo, infine la fuga attraverso i tetti: 210 Modelli della mente e processi di pensiero «Allora il mio babbo cosa ha fatto? Mi prese in collo, con la testa qui come un fagotto, sotto braccio… così [mostra con un gesto] ha passato tutta la mia casa così, ha passato due case, sul tetto, è arrivato alle scuole, ha tolto… ecco, ha tolto dei tegolini e dice che ha fatto con me… io di questo salto devo essere sincera non me lo ricordo, però m’ha chiuso gli occhi e ha fatto con me questo salto, perché i soffitti allora erano alti, ed è sceso nella piazza. Io… della piazza c’ho tutti i miei ricordi: la piazza, il mi’ babbo che mi teneva sempre in collo così… con le gambe così, e sono arrivata nel punto più vicino alla cisternaccia e il mi’ babbo cosa ha fatto? S’è messo in ginocchio, m’ha preso me davanti, m’ha stretto… e al tedesco… perché c’era un tedesco soltanto, a una certa distanza, gli diceva “Pietà, pietà…” e mi sembrò umiliante che i mi’ babbo si mettesse lì in questo modo… da una bambina… che i mi’ babbo si mettesse in ginocchio e chiedesse pietà per questa bambina… io mi ricordo il tedesco che mirò, a una certa distanza, ma non lontano… però non ebbe il coraggio e io… gli dico la verità… non ebbe il coraggio perché forse era l’unico tedesco che si vide… comunque non ebbe il coraggio di sparare… E io mi ricordo che vidi i morti, che questi morti, insomma… ammucchiati… ah! Vidi i vestiti bruciati, le giacche bruciate… e dissi: “Come mai?” Io mi domandai come aveon bruciato i vestiti degli uomini… Poi noi s’è proseguito per la piazza, dove poi hanno fatto le esecuzioni… e lì ho riconosciuto il mio zio Dante e ho detto: “Babbo, che fa lì lo zio Dante?!” Mio zio dice che era di un aspetto orribile… aveon gli occhi… i capelli… aveva gli occhi fuori dalle orbite… un corpo in quella maniera… tanto che io quest’immagine di questi occhi… una volta mi fu regalata una bambola e aveva un occhio leggermente più chiuso… l’ho buttata via… Poi l’ho rivista a vent’anni: aveva solo… perché gli occhi di questo zio erano orribili… Allora i’ mi’ babbo mi chiuse gli occhi con una mano e noi facemmo quel tratto di strada qui, dalla piazza… passò davanti al plotone di esecuzione e io… mio zio lo vidi lì davanti, vicino al cancellino, dove ora c’è i bidoni della nettezza urbana… però io l’ho visto il mio zio… e poi lì dietro tutti i corpi e il babbo passò sopra e m’ha chiuso gli occhi… Poi siamo arrivati all’orto e all’orto il mi’ babbo ha fatto lo stesso salto qui… era più basso il muro… e poi… io, come tutti i bambini di questo mondo, ho detto: “Babbo, mi scappa di fare la pipì!” e il mio babbo mi ha detto: “Falla nelle mu- F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 211 tande”… I bambini sono qualcosa che… e io ho detto: “La mamma non vuole”, e lui mi ha detto: “La mamma non ti dirà più niente”. E io non gli ho fatto più nessuna domanda». L’energia cognitiva dei testi deriva dal fatto che le immagini possono essere “viste” e “discusse”. La continuità della narrazione è resa possibile precisamente dal fatto che le memorie flashbulb restano presenti nella loro concretezza attraverso il tempo, anche quando si vorrebbe sfuggire ad esse: «vedo tutto, anche se chiudo gli occhi». La descrizione di immagini è un meccanismo centrale nelle operazioni mnemoniche. L’evocazione ripetuta di immagini visive mette il narratore e l’ascoltatore nello stato emotivo di rivivere l’evento raccontato, e questo rivivere è a sua volta parte fondamentale del passaggio dall’evento memorizzato al racconto. Il visivo è esplicitamente connesso a un’esperienza viscerale che continua a tormentare il testimone: è la storia che “rimane addosso”. Le persone hanno indicato esplicitamente il rapporto tra esperienza traumatica e immagine visiva e memoria. In particolare una persona – senza che io la sollecitassi in questa direzione – ha usato il termine di “immagine come memoria”. Le interconnessioni tra dimensioni visive e verbali della memoria sono difficili da esplorare, ma i materiali etnografici permettono di ipotizzare che nelle comunità mnemoniche le rappresentazioni per immagini siano evocazioni emotive che rinforzano la memorizzazione verbale. I superstiti fanno ricorso a un immaginario visivo-uditivo sentendo e raccontando storie anno dopo anno. Tale visualizzazione turba emotivamente, e aiuta la verbalizzazione. Come nel caso della bambina che aveva cinque anni al tempo del massacro, il desiderio di parlare e vedere “con gli occhi di allora” caratterizza i racconti dei testimoni come dei non-testimoni. Entrambi i narratori di solito indicano un luogo mentre raccontano la storia. A volte mi hanno esplicitamente chiesto se potevano raccontare la storia e contemporaneamente mostrarmi i 212 Modelli della mente e processi di pensiero luoghi in cui essa si è svolta. Intendevano ricostruire l’ubicazione appropriata o indicare la giusta direzione, anche solo per piccoli frammenti della storia in cui spiegavano le loro azioni e quelle di altri. Mentre i cadaveri bruciavano nella piazza di Civitella, un ragazzo riuscì a stare nascosto in una casa. Oggi – da anziano – descrive in breve la sua fuga e quella di altri: «Eravamo quassù [indica il piano superiore della casa], poi siamo scappati dal cortile della tua cucina [indica un’altra persona presente alla sessione], dove c’era una scala… siamo andati fin lì… e la scala era macchiata di sangue perché, dicono, Gino, che era ferito, era sceso con quella… dicono che così era riuscito a fuggire… siamo corsi verso la boscaglia…». L’aspetto della memoria dei luoghi, la componente visivospaziale, appare cruciale nella formazione e trasmissione dei racconti. La familiarità continuativa con i luoghi degli eventi (la piazza, la casa, la scala) costituisce un riferimento comune che permette la ricostruzione narrativa. I luoghi sono lo stimolo e il contesto della memoria. Il narratore si colloca nella scena che ricorda: «Quando passavo di lì [negli anni dopo il massacro] vedevo sempre pezzi di legno in fiamme». Quando si chiede di narrare l’evento, molti iniziano dallo scenario che corrisponde al loro punto di osservazione – solitamente il bosco dov’erano nascosti – e poi riconducono il racconto a quella scena. Per coloro i quali non hanno vissuto gli eventi la conoscenza dei luoghi in cui sono avvenuti rappresenta uno schermo bianco su cui proiettare l’azione. Gli spazi familiari del paese appaiono segnati, marcati dalle immagini della strage: «Io vedo tutto. Conosco il punto. Vedo il punto dove la mi’ mamma s’è tirata per terra che mia zia gli ha detto: “Non chiamarle più queste figliole perché sono morte al mulino”». Come ho descritto nella sezione sul ricordo di gruppo come interazione, ogni testimone oculare ha visto solo ciò che accadeva nel luogo in cui si trovava, ma ha anche sentito di ciò che accadeva altrove nel villaggio. Nessun superstite che oggi parteci- F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 213 pa alle sessioni narrative era presente a Stazzema negli ultimi terribili momenti quando le SS appiccarono fuoco ai corpi dei morti nella piazza della chiesa. Eppure, c’è un’immagine che ricorre nelle storie, ed è quella dei tedeschi che ballavano, ubriachi, al suono di un organetto. Alcune persone assicurano di aver visto dai loro nascondigli questa scena, dei tedeschi che dopo aver incendiato i cadaveri lasciavano il villaggio al suono dell’organetto. Ma è anche possibile che si tratti di un processo di mitificazione, che però non andrebbe inteso come discredito della verità, ma come parte di un’elaborazione culturale, in cui entrano in gioco meccanismi di condensazione e trasferimento. Questi meccanismi caratterizzano la memoria come dimensione di un’esperienza emozionale. Le immagini sono sperimentate e sentite; il narratore diventa testimone, creando per sé una conoscenza particolare. Allo stesso tempo è come se la comunità controllasse la ricomposizione di segmenti di esperienza, quasi a garanzia della veridicità di racconti individuali. L’affermazione che «non tutti gli episodi furono visti, ma furono visti» sembra essere una contraddizione. Eppure ha un senso: significa che è possibile che non tutti gli episodi siano stati osservati empiricamente, ma che tutti sono stati sperimentati emozionalmente. Ho sentito dire che «molti parlano ma dovrebbero star zitti perché non hanno visto nulla», ma l’autorità della testimonianza non viene sempre rispettata, come dimostra il fatto che uno dei principali interpreti della memoria, una persona che dà voce alla memoria del gruppo (“l’archivio vivente”), è una donna che aveva solo undici anni al tempo degli eventi e, soprattutto, non era in paese il giorno del massacro. Per coloro che non erano presenti, le immagini sono il prodotto di una percezione passata che non è legata all’esperienza diretta, ma piuttosto all’esperienza indiretta di sentire altri raccontare i fatti. In queste testimonianze il visivo è, per così dire, desunto: questo genere di universo di immagini è più vicino a quello delle tradizioni orali (esterne a sé) che a quello dei reso- 214 Modelli della mente e processi di pensiero conti autobiografici, interno al sé che narra. La visività sembra fungere da ponte tra la realtà vissuta (il ricordo) e la storia (la rievocazione), tra l’esperienza autobiografica individuale e il modo in cui essa è stata elaborata dal gruppo, cioè la rappresentazione storica. Le immagini che la gente si è formata ascoltando la “storia” sono sostitutive dell’esperienza diretta, e sono esse stesse parte di una memoria emozionale. Il processo di organizzazione della conoscenza è, perciò, un’operazione a doppio senso. Per l’individuo che ha vissuto l’esperienza, l’immagine è imbevuta di un tono emozionale e diventa immagine-memoria. Ma è vero anche l’inverso: riascoltare continuamente la storia produce sugli ascoltatori un effetto che è simile a quello di aver visto gli eventi:il detto, il narrato, diventa come visto e può essere esperito da altri nella forma di esperienza emozionale. I non-testimoni sono dunque capaci di vivere quegli eventi nella forma di un’esperienza emozionale che definisco “memoria di immagini mentali”. 8. Il contenuto emozionale della memoria Il contenuto della memoria visiva è in gran parte emozionale.Per coloro che non erano presenti alla strage raccontare la storia del massacro significa immaginare il passato – e trasmetterlo – sulla base di una conoscenza acquisita. È una storia in cui l’immagine di un quadro storico così come si viene a costruire nella mente è dominata da un tono emozionale. Commemorando (cioè raccontando) l’evento, il soggetto tenta di elaborare una realtà che gli pare ancora destituita di senso. Se nella memoria comune il mondo è un continuo fluire da una dimensione episodica a una semantica, nella “memoria emozionale” esperienza di sé ed esperienza del mondo storico, percepibile e pensabile, autobiografia e storia appaiono ancora più strettamente congiunte. Uno studio recente condotto da uno psicologo americano (LeDoux, 1992), conferma come la memoria dell’esperienza di F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 215 sé vada a confluire nella memoria storica, la memoria della terza persona, senza soluzione di continuità. Egli sostiene che l’emozione non è solo un sentimento che influenza la memoria, ma è memoria esso stesso (emotional memory o emotion as memory). Un’esperienza emozionale lascia di sé due tracce: una episodica (il fatto emozionale viene registrato come dato dall’area cerebrale dell’ippocampo), l’altra di significato emotivo dell’esperienza (registrato, invece, dall’amigdala). L’emozione è quindi un dato mnemonico, che può essere staccato dall’informazione sull’evento. Per la nostra analisi antropologica delle narrazioni nella comunità mnemonica questa è una riflessione importante: provare un’emozione associata a un’esperienza vissuta in precedenza non necessariamente implica ricordare quell’esperienza. Nelle persone con cui abbiamo parlato che non sono state dirette testimoni dell’evento il modo in cui ri-vivono la storia passata si concretizza in questo provare un’emozione non necessariamente di qualcosa di vissuto, ma anche solo sentito o pensato per immagini. Testimoni e non-testimoni sembrano quindi accomunati da una memoria emozionale che ha un unico denominatore: il significato emozionale dell’evento. Nei testimoni oculari il ricordo del massacro consiste nell’informazione sull’evento e nel suo significato emotivo; in coloro invece che non erano testimoni, il “ricordo” riguarda solo il significato emotivo in quanto è legato a un’altra esperienza, cioè al sentir rievocare i fatti e a una successiva rielaborazione tramite l’immaginazione. Ambedue queste esperienze hanno al centro una memoria emozionale. Emotion as memory significa infatti che l’emozione è essa stessa una forma di memoria, che può essere oggetto di trasmissione. L’esperienza diretta di alcuni produce conoscenza locale e storica che è condivisa da un intero gruppo: come osserva Young (1988: 127) «il dolore generato biograficamente e quello generato storicamente non possono mai essere completamente separabili». 216 Modelli della mente e processi di pensiero 9. Conclusioni: la socializzazione delle percezioni Nell’analizzare il processo attraverso cui si forma la memoria pubblica – la trasformazione di un evento ricordato in una storia – non è possibile distinguere chiaramente tra la dimensione di testimonianza biografica e quella storica. La consapevolezza dell’intermescolanza dei due elementi è parte integrante della testimonianza dei miei interlocutori. La memoria singolare, fattuale e autobiografica diventano ricordo storico di gruppo attraverso un’azione comunicativa e intersoggettiva, che è ripetuta nel tempo e in cui la produzione di immagini gioca un ruolo cruciale. È un fatto, oggetto di osservazione di vari antropologi, che le rappresentazioni descrittive di un contesto particolare siano molto più numerose di quelle di tipo conoscitivo, astratto, valutativo (la “conoscenza generale del mondo”, così come la definisce Tulving, 1972). In uno studio sui fenomeni di tradizione, che sono strettamente legati ai processi di memorizzazione, Boyer (1990) lamenta che questa realtà è stata sistematicamente ignorata dagli antropologi, e questa è una delle ragioni che rendono il lavoro etnografico così problematico, perché è esso stesso una “situazione singolare”: «c’è una discrepanza sistematica tra ciò che gli antropologi ricercano, cioè dati della memoria semantica, e ciò che la conversazione con gli informatori fornisce in abbondanza: memorie di situazioni singolari» (1990: 43). Boyer sostiene che in antropologia ha un’importanza cruciale capire come vengono costruite rappresentazioni significative da dati descrittivi, nel nostro caso come si genera la conoscenza storica a partire da quella singolare, fattuale, autobiografica. Va notato però che non si deve equiparare in modo assoluto la conoscenza episodica a quella fattuale e la semantica alla storica. Anzi, le due forme di rappresentazioni sono strettamente congiunte, in modo tale che il fattuale e l’interpretativo contengono elementi storici e autobiografici che sono inestricabilmente combinati (Bloch, 1992; Cohen, 1990). F. Cappelletto, Memoria a lungo termine di eventi estremi 217 Considerando la memoria come una forma di conoscenza intersoggettiva dotata di contenuto simbolico – piuttosto che come un’impresa unanime e collettiva – opto per un approccio che integra diverse teorie disciplinari ed enfatizza l’interazione tra episodico e semantico, memoria e tradizione. La narrazione orale ricade nella categoria dei fenomeni tradizionali perché è un evento ripetuto di interazione sociale caratterizzato da rilevanza psicologica (Boyer, 1990: 1). Il ricordare può essere considerato in modo non dicotomico come un’esperienza che non si oppone ai fenomeni tradizionali. Le sessioni narrative si qualificano come atti di memorizzazione che implicano enunciazioni singole e una forma di “lavoro di memoria” in cui la gente elabora conoscenze generali. In altre parole, esse costituiscono ciò che è percepito semanticamente come “la storia” del gruppo. L’analisi dei materiali etnografici mostra come l’esperienza memorizzata di un singolo è condivisa da un intero gruppo i cui membri ripetono quella “singolarità” perché esistono caratteristiche che rendono possibile la costruzione di una conoscenza categorica più astratta, come la comunicazione della “tradizione”. Nelle comunità mnemoniche l’interruzione di continuità creata dalla violenza nazista è superata attraverso la continuità della narrazione. La dimensione principale del vivere questa continuità sembra essere il tentativo di sopravvivere alle atrocità passate. È come se la storia, ripetuta all’interno del gruppo, li rassicurasse del fatto che essi sono effettivamente riusciti a evitare la tragedia. Le immagini della memoria flashbulb sono una caratteristica ricorrente di queste narrazioni: circolano come una sorta di “proprietà” del gruppo e sono indissolubilmente legate alla vita in una comunità che ha sperimentato visceralmente una violenza estrema. La memoria narrativa di un’esperienza profondamente spaventosa crea legami di solidarietà che uniscono – in una singola verbalizzazione – coloro che hanno vissuto quell’esperienza e coloro che partecipano all’evento narrativo. Ho quindi proposto di concepire l’immaginario visivo come centrale alla visione del passato. Il punto fondamentale è che non 218 Modelli della mente e processi di pensiero si tratta di processi mentali individuali, ma del rapporto tra questi e la memoria sociale. La ricerca sul ruolo delle emozioni nei processi sociologici – e in particolare dell’evocazione emozionale sotto forma di un immaginario condiviso da diversi soggetti – è ancora in fase iniziale. Qui è vista come parte fondamentale dei processi di fabbricazione di memoria, in cui immagini percettive scorrono attraverso le narrative e collegano la memoria di gruppo. Questi “affreschi mentali”, questi modi di “pensare attraverso immagini” (Carruthers, 1998: 118) – che sono diversi per ciascuno, inclusa me stessa in qualità di ricevitrice delle narrative – sono parte di un’esperienza emozionale e cognitiva che caratterizza la memoria di gruppo a lungo termine. Antropologia cognitiva e società di Marco Mazzone 1. Introduzione L’antropologia cognitiva si propone di indagare la sfera della cultura umana secondo una prospettiva che potremmo chiamare “individualista” in un’accezione debole: al centro dei suoi interessi vi sono i processi cognitivi individuali che sottendono i fenomeni culturali. Questo approccio solleva un interrogativo tutt’altro che nuovo. La questione è se assumendo una simile prospettiva sia possibile rendere conto della specificità dei fenomeni culturali, o se al contrario questi non pongano questioni specifiche che l’approccio individualista finisce col travisare o ignorare. Un problema analogo sorge quando l’antropologia si confronta con la pragmatica, in alcune sue formulazioni tradizionali. Le teorie fondative della pragmatica, elaborate prevalentemente in ambito filosofico, sembrano infatti mettere al centro dei processi comunicativi un’immagine molto impegnativa di soggetto razionale. Ora, questa immagine è stata più volte impugnata dagli antropologi come non realistica, in quanto modellata nemmeno sulle effettive prassi della sola civiltà occidentale bensì su una loro idealizzazione razionalista. Tale idealizzazione avrebbe oscurato la natura essenzialmente sociale piuttosto che individuale dei fenomeni culturali: in particolare, le ragioni dell’agire umano spesso sarebbero non tanto ragioni del singolo individuo, quanto del gruppo sociale cui questo appartiene. L’obiettivo del presente articolo è argomentare che alcune delle intuizioni sottostanti queste critiche sono corrette, e tutta- 220 Modelli della mente e processi di pensiero via ciò non configura un’obiezione contro l’approccio costitutivo dell’antropologia cognitiva. Si tratta, per un verso, di comprendere come i fenomeni culturali e sociali presuppongano comunque meccanismi cognitivi individuali che li rendano possibili; e per un altro verso, di riuscire ad individuare correttamente i meccanismi specifici che sono in gioco nei fenomeni sociali in oggetto. Da questo punto di vista, il cammino percorso dall’antropologia cognitiva è relativamente breve, e di certo incompiuto. Molto lavoro resta da fare. Ma esistono già numerosi spunti che vale la pena di seguire. È quanto tenterò di fare qui. 2. L’individualismo e i suoi nemici Per cominciare, vediamo che genere di critiche l’antropologia ha mosso nei confronti della pragmatica classica. Valgano come esempio le valutazioni di Duranti (1998) a proposito di Paul Grice e della teoria degli atti linguistici di Searle. Introducendo la nozione di scopo di una pratica comunicativa, Duranti (1998: 41) osserva che Searle sembra avere in mente essenzialmente gli scopi di cui il singolo è cosciente. Ciò è coerente con il modello di Grice, secondo il quale centrale è l’intenzione del mittente di produrre un certo effetto sul destinatario, nonché il fatto che il destinatario riconosca tale intenzione1. Ricorrendo ad una metafora, Duranti (1998: 103) afferma che in questi approcci «il parlante “possiede” il significato»: ossia, il significato è collocato a monte dell’atto comunicativo in un’intenzione cosciente del parlante, e l’ascoltatore può riconoscere tale intenzione preesistente attraverso l’interpretazione degli enunciati linguistici proferiti. A questo modello Duranti ne contrappone un altro che si troverebbe illustrato nelle Ricerche filosofiche di Wittgenstein, nel 1 Ma si veda Saul (2002) per un’ipotesi di lettura differente, in base alla quale Grice intende offrire non un’analisi psicologica o cognitiva, bensì una ricostruzione razionale che – appunto come tale – non impegna sui reali meccanismi in gioco nei processi comunicativi. M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 221 quale il baricentro si sposta dalle private intenzioni individuali alla natura pubblica ed intersoggettiva del linguaggio: «Si noti come in questa visione del linguaggio, e del comportamento comunicativo in genere, la realtà mentale sia stata rimpiazzata da un’attenzione per quello che noi potremmo chiamare il contesto storico-sociale del processo comunicativo» (Duranti, 1998: 145). Una formulazione molto chiara del genere di fenomeni che Duranti ha in mente mi sembra la seguente: «Quello che ciascun parlante fa tramite il linguaggio in una conversazione non è, quindi, solo quello che egli pensa di fare consciamente. Una volta entrati all’interno di una routine, sono le convenzioni di quella routine che ci portano avanti e ci permettono di agire appropriatamente, indipendentemente dai nostri scopi coscienti» (Duranti, 1998: 43). È importante rilevare che queste citazioni ammettono alcune interpretazioni piuttosto differenti. Si può intenderle in primo luogo così. Nell’agire comunicativo vi sono motivazioni che possiamo definire personali, ed altre che diremo sociali in una precisa accezione: motivazioni incorporate nelle routine convenzionali diffuse presso una comunità. Certamente nella comunicazione vi sono cose che un soggetto “pensa di fare” deliberatamente. Ma gli aspetti dei fenomeni comunicativi a cui l’antropologo è interessato non sono questi, bensì quelli a cui accade di avere un valore socialmente riconosciuto e condiviso, e che sono di fatto cristallizzati in pratiche sociali. Ciò configura una sorta di divisione del lavoro tra antropologia e psicologia: da un lato le ragioni socialmente convenzionalizzate, dall’altro quelle che guidano l’individuo. Si noti che è possibile tracciare una divisione del lavoro diversa, e tuttavia non incompatibile con questa. Si potrebbe osservare che anche seguire una routine convenzionale presuppone qualche meccanismo cognitivo sottostante. Allora, dichiarare un interesse per “il contesto storico-sociale” piuttosto che per “la realtà mentale” può significare non solo escludere dal proprio campo d’indagine le motivazioni personali (versus socia- 222 Modelli della mente e processi di pensiero li) dell’agire comunicativo, ma anche lasciare ad altri l’indagine dei meccanismi cognitivi che sottendono la partecipazione alle routine sociali. Comune alle due interpretazioni è il fatto di mirare a tracciare un confine tra discipline, o quanto meno tra interessi scientifici, differenti. Non è in questione la legittimità di un approccio di indagine rispetto ad un altro. Sono possibili tuttavia altri modi di inquadrare la questione, nei quali viceversa l’approccio individualista è esplicitamente visto sotto una luce critica. Il riferimento di Duranti a Wittgenstein ne suggerisce uno. Sebbene il pensiero di Wittgenstein sia estremamente difficile da tradurre in tesi univoche, è un fatto che alcuni interpretano le sue riflessioni sulla natura pubblica del linguaggio in un senso radicalmente anti-individualista (anche nell’accezione debole di individualismo qui impiegata). In questa lettura, siamo invitati a considerare fuorviante un’indagine del mentale concepito come indipendente da, e preesistente a, i processi pubblici ed intersoggettivi della comunicazione umana. Il mentale dovrebbe piuttosto essere identificato con quello spazio pubblico del pensiero che è un prodotto della comunicazione linguistica. Spesso questa posizione è accompagnata da espliciti avvertimenti circa il rischio di riduzionismo insito nell’indagine scientifica della mente umana. Non che si voglia negare alla psicologia (o per questo, all’antropologia cognitiva, alle neuro-scienze, e così via) il diritto di indagare scientificamente il soggetto. Purché sia chiaro che in tal modo, sostengono alcuni, dovrà sfuggire proprio ciò che è essenziale per comprendere l’essere umano: la sua dimensione sociale e linguistica. C’è tuttavia un genere di critiche all’individualismo che pone un problema molto più preciso e per mio conto, di conseguenza, anche più interessante. L’intuizione di fondo è che vi sia ancora un profondo gap esplicativo tra le teorie sulla cognizione individuale ed i fenomeni sociali che si vorrebbero spiegare con quelle. Talvolta, quest’intuizione è accompagnata da un certo fastidio per l’eccessivo ottimismo con cui semplici abbozzi di teorie sulla M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 223 mente vengono presentati come risposte ad ogni interrogativo sulla cognizione umana, inclusa la sua dimensione sociale e culturale.Questo genere di critica – a differenza del precedente, che ha carattere più decisamente filosofico, e che difficilmente ammette una conciliazione tra le parti – potrebbe essere superato dall’avanzamento della ricerca: in particolare, da un’indagine sui meccanismi cognitivi capace di afferrare più da vicino ciò che sta a cuore agli studiosi della dimensione sociale della cultura. In tal caso, la divisione del lavoro cui abbiamo accennato sopra potrebbe perdere i connotati della reciproca diffidenza, ed acquistare il carattere di una fruttuosa collaborazione. 3. Socialità e “teoria della mente” Si tratta dunque di provare ad indicare linee di ricerca che vadano nella direzione appena tracciata. Un importante spunto in tal senso proviene da un ambito di studi che ha già una tradizione piuttosto consolidata, e che possiamo raccogliere sotto l’etichetta di “teoria della mente”. Con quest’espressione si intende la capacità che gli esseri umani hanno di rappresentare se stessi e i propri simili come soggetti intenzionali, ossia come individui dotati di credenze e desideri che svolgono un ruolo determinante nelle decisioni sull’agire. Perché questa capacità ci interessa? Perché, come ha osservato Ferretti (2004: 76), non è pensabile «nessuna società (o gruppo) senza un sistema psico-fisico capace di gestire i rapporti tra gli individui del gruppo». In particolare, una società complessa e variabile come lo è tipicamente quella umana esige dei dispositivi cognitivi atti a regolare le relazioni interpersonali che ne sono alla base. In altre parole, gli esseri umani hanno una straordinaria attitudine ad accordarsi gli uni ai comportamenti degli altri, in modi altamente variabili in funzione delle circostanze: ciò sembra presupporre la capacità di afferrare le intenzioni altrui in modo altrettanto sofisticato e flessibile. E questo vale sia per certi 224 Modelli della mente e processi di pensiero fenomeni di coordinazione cooperativa, sia per molti fenomeni di competizione. Il dibattito sull’“intelligenza machiavellica” (Byrne e Whiten 1988, 1997) ad esempio ruota tutto intorno all’idea che la cognitività specifica della specie umana, con la creatività che la contraddistingue, si sia sviluppata essenzialmente in funzione sociale. All’interno dei gruppi dei nostri progenitori si sarebbe innescata una sorta di “corsa agli armamenti cognitiva”, per preservare un equilibrio accettabile tra cooperazione e competizione. Una maggiore capacità di comprendere le intenzioni altrui avrebbe accresciuto le possibilità di collaborazione ma, al tempo stesso, anche quelle di ingannare il prossimo, e ciò avrebbe reso necessaria una ancora maggiore capacità di penetrazione psicologica al fine di prevenire i comportamenti ingannevoli. Per un altro verso, la comprensione delle intenzioni altrui viene oggi invocata come presupposto indispensabile di un genere di cooperazione caratteristico della specie umana: la comunicazione linguistica. Se il linguaggio umano è specifico, ed anzi unico per ricchezza e flessibilità, allora dobbiamo assumere che vi sia una corrispondente specificità cognitiva. Negli ultimi decenni, quest’ultima è stata identificata non più soltanto (o soprattutto) con la capacità di organizzare i segni in strutture sintattiche, bensì anche con la capacità di “leggere le menti” dei propri conspecifici. Il ricorso ai segni linguistici sarebbe comprensibile, si sostiene, solo sullo sfondo di una simile attitudine: infatti la comunicazione linguistica umana non è mai un semplice fenomeno di codifica/decodifica, bensì un più complesso processo di interpretazione dell’intenzione comunicativa – rispetto alla quale i segni linguistici costituiscono un semplice indizio, più o meno trasparente secondo i casi. Anzi, senza lettura della mente non sarebbe possibile nemmeno acquisire un linguaggio così ricco e variabile come quello umano (Bloom, 2000; Tomasello, 2003). Quanto la capacità indicata sia essenziale per il costituirsi delle comunità umane diventa chiaro nei casi in cui – secondo un’ipotesi oggi fortemente accreditata – tale capacità è compro- M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 225 messa da un danno neurologico. È quanto accadrebbe con la sindrome dell’autismo, generalmente interpretata come un malfunzionamento più o meno serio del modulo della teoria della mente (Baron-Cohen, 1995; Frith, 1989; Leslie, 1987). I soggetti autistici sono incapaci di stabilire relazioni sociali normali: l’idea di una società di soggetti autistici è una sorta di contraddizione in termini. Si tenga presente che, a rendere più complesso il dibattito, è cresciuta negli anni la consapevolezza che questa capacità non è verosimilmente un fenomeno unitario. Componenti e fattori più elementari potrebbero essere presenti anche in fasi molto precoci dello sviluppo dei bambini, e forse anche in primati non umani se non addirittura in molti mammiferi superiori; altri sembrano specifici della specie umana, e si manifestano solo nel corso della crescita cognitiva. Tra le componenti di più basso livello vanno ragionevolmente posti quei neuroni specchio che costituiscono una delle scoperte più eccitanti della ricerca neurofisiologica in questi ultimi anni (Rizzolatti e Sinigaglia, 2006). Si tratta di neuroni che hanno due caratteristiche salienti. In primo luogo, alcuni di essi si attivano sia nella percezione di un movimento, sia nella sua esecuzione. In secondo luogo, essi sembrano (in alcuni casi) sensibili più alle finalità dell’agire che alla somiglianza fisica dei movimenti: alcuni neuroni specchio ad esempio sono attivati da movimenti di afferramento, indipendentemente dal fatto che questi siano eseguiti con la mano o con la bocca. L’interesse di questi fatti è che i neuroni specchio potrebbero costituire una prima spiegazione di come un agente cognitivo coglie gli altri come agenti simili a sé: essi indicherebbero infatti al soggetto quando un dato movimento percepito deve essere interpretato come un’azione finalizzata ad uno scopo, da mettere in correlazione con un proprio movimento finalizzato ad uno scopo analogo. Secondo Tomasello et al. (2005: 689), a partire da questa prima percezione dell’agire altrui come finalizzato ed analogo al proprio, intorno ai 14 mesi i bambini svilupperebbero delle vere 226 Modelli della mente e processi di pensiero e proprie “rappresentazioni cognitive dialogiche”, nelle quali cioè rappresentano insieme se stessi e gli altri nell’atto di interagire in vista di uno scopo comune esplicito (comunicativo o di altro genere). Tomasello fa riferimento a Vygotsky, suggerendo che queste rappresentazioni potrebbero essere il risultato di processi di interiorizzazione: i bambini imparerebbero a progettare forme di cooperazione a partire dall’esperienza di azioni degli adulti rivolte verso di loro. Comunque stiano le cose al riguardo, è interessante osservare che qui il cerchio si richiude. Se per Vygotksy le capacità cognitive individuali (superiori) erano il frutto dell’interiorizzazione di processi sociali – la mente come frutto della società – il dibattito sulla teoria della mente individua alcune capacità cognitive individuali, più elementari, che sarebbero alla base delle interazioni sociali (la società come frutto delle menti). Insomma, sembra che i comportamenti sociali umani abbiano a fondamento certe capacità cognitive degli individui fissate biologicamente. Per così dire, le nostre menti sono già da sempre “dialogiche” (Mazzone, in stampa (a)). Anche se, qualora Tomasello avesse ragione, una piena cognitività dialogica richiede il supporto di una comunità per svilupparsi. 4. Creature di convenzione Le considerazioni che precedono, per quanto interessanti possano essere in vista di una spiegazione cognitiva della socialità, non rispondono però del tutto agli interrogativi dai quali siamo partiti. La facoltà di lettura della mente, lo abbiamo visto, concerne essenzialmente la capacità di agire in base alla consapevolezza dei propri ed altrui scopi individuali, e della convergenza o divergenza tra i primi ed i secondi (cooperazione versus competizione). Ma, come le parole di Duranti chiarivano bene, un banco di prova per i modelli esplicativi individualisti è costituito dall’esistenza di convenzioni sociali che ci si impongono con proprie finali- M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 227 tà super-individuali. Non solo queste potrebbero non coincidere con gli scopi degli individui; soprattutto, in molti casi gli esseri umani sembrano seguire le convenzioni sociali in virtù di semplici automatismi, senza che intervenga una considerazione esplicita di scopi di alcun tipo (collettivi o individuali, propri o altrui che siano). Ciò sembra significare che i meccanismi cognitivi coinvolti sono di un genere differente rispetto a quelli fin qui considerati. Millikan (2005: 178) evidentemente ha di mira questo genere di fenomeni quando descrive gli esseri umani come “creature di convenzione”: ossia, tali da esibire «molti schemi di comportamento sia interattivo sia individuale che si trasmettono in maniera del tutto cieca, in apparenza senza che servano alcuno scopo». In parole povere, qui sarebbe in gioco un’originaria attitudine all’imitazione, che opera prima di, e indipendentemente da, qualsiasi valutazione esplicita degli scopi (l’enfasi su “esplicita” sarà chiarita tra poco). In effetti, alla base di questi comportamenti Millikan pone un tipo di rappresentazioni molto differenti dalle “rappresentazioni cognitive dialogiche” di Tomasello (di seguito abbreviate in RCD), cui dà il nome di “rappresentazioni pushmipullyu” (abbreviate in RPP). Per farcene un’idea, possiamo ricorrere ad un esempio linguistico. Ai bambini diciamo talvolta “non si mangia con le dita”, dove questo enunciato ha insieme un valore descrittivo ed uno direttivo: dice al tempo stesso cosa (non) si fa di solito, ma anche cosa (non) dobbiamo fare. Ora, secondo Millikan è pensabile che vi siano delle rappresentazioni mentali di questa natura, che potrebbero costituire la base delle norme e dei ruoli sociali. Si tratterebbe non di semplici congiunzioni di una rappresentazione descrittiva ed una direttiva, piuttosto di qualcosa di più primitivo che ha i caratteri di entrambe (Millikan, 2005: 175). Insomma, alla base delle convenzioni sociali (o di alcune di esse) potrebbe esservi un meccanismo cognitivo più elementare che le rappresentazioni dialogiche di Tomasello: non si richiederebbe cioè la contemporanea rappresentazione di sé e dell’altro, ciascuno con i propri scopi; sarebbe bensì sufficiente rappresen- 228 Modelli della mente e processi di pensiero tarsi il comportamento altrui come una sorta di norma atta a dirigere il proprio comportamento. La contrapposizione appena tracciata tra RCD e RPP rischia però di essere fuorviante, se non introduciamo una precisazione. La facoltà di lettura della mente non è davvero del tutto estranea alle RPP di Millikan. Più esattamente, dovremmo dire così: le RPP sono basate sul medesimo genere di fenomeni che sono all’origine delle RCD. Si ricordi che la facoltà di lettura della mente ha stadi di sviluppo differenti: le RCD ne costituiscono uno sviluppo (relativamente) avanzato, mentre uno stadio più primitivo è costituito presumibilmente da meccanismi del genere dei neuroni specchio. Questi, come si è detto, sono considerati responsabili di due abilità cognitive: la capacità di cogliere la correlazione tra movimento altrui e movimento proprio; e la capacità di cogliere il movimento come orientato verso scopi, anche in assenza di una rappresentazione esplicita degli scopi. Per un verso, dunque, i neuroni specchio sarebbero un precursore cognitivo di forme più sofisticate ed esplicite di rappresentazione dei comportamenti finalizzati, incluse le RCD. Per un altro verso, Millikan li considera come (parte di) una possibile esplicazione della sua nozione di RPP, e, di conseguenza, della vocazione all’imitazione costitutiva delle comunità umane. E ciò è sensato. Non è possibile alcun significativo fenomeno di imitazione se non sono soddisfatte due condizioni, che in definitiva coincidono con le due abilità cognitive appena indicate. In primo luogo, l’imitazione esige che si colga la correlazione tra movimenti percepiti e movimenti eseguiti. Gli esseri umani sembrano esibire tale capacità in modo sorprendentemente precoce: come Millikan ricorda, Meltzoff e Moore (1983) avrebbero osservato neonati di nemmeno un’ora di vita imitare espressioni del volto di adulti. In secondo luogo, l’imitazione presuppone la capacità di cogliere il movimento come finalizzato. Su questo punto è decisivo il contributo di Tomasello (1999), la cui tesi centrale è che la M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 229 caratteristica cognitiva distintiva dell’essere umano rispetto agli altri primati risieda in una capacità pressoché unica di imitare non semplici comportamenti, bensì strutture complesse di mezzi-fini. Una parziale correzione, o almeno integrazione, a quest’idea è proposta da Tomasello et al. (2005). In effetti, anche i primati non umani sembrano avere una certa comprensione delle azioni finalizzate; anche nei loro cervelli, peraltro, si è registrata la presenza di neuroni specchio. Di conseguenza, suggerisce Tomasello, è possibile che vi sia un ingrediente ulteriore che contraddistingue la cognitività umana, in particolare la nostra attitudine all’imitazione. Questo ingrediente viene individuato in una peculiare “motivazione a condividere” (Tomasello et al., 2005: 676). Questo significa, di nuovo, porre a fondamento della cognitività umana un elemento intrinsecamente sociale, sebbene questa volta sul versante motivazionale. Se Tomasello ha ragione, non solo gli esseri umani hanno (forse) risorse cognitive speciali per interagire tra loro, ma inoltre hanno anche una spinta speciale a farlo – in particolare, a condividere i comportamenti. Sembrano pertanto profilarsi due diverse tipologie di processi cognitivi alla base delle relazioni umane, ma a partire da un medesimo nucleo di risorse cognitive. Una prima tipologia riguarda i fenomeni di imitazione, e di adeguamento a norme e convenzioni sociali; questi dipenderebbero direttamente da una capacità primitiva di cogliere i comportamenti altrui come finalizzati, e di metterli in correlazione con propri comportamenti analoghi – e forse anche da una specifica motivazione a condividere (comportamenti, informazioni, ecc.). Una seconda tipologia riguarda i fenomeni di valutazione strategica dei comportamenti, dove gli scopi propri e quelli altrui sono considerati esplicitamente, a fini di cooperazione o di competizione. A questo stadio entrano presumibilmente in gioco rappresentazioni più sofisticate dei comportamenti finalizzati, forse del tipo delle RCD di Tomasello (ma eventualmente anche altre di vario grado di complessità). 230 Modelli della mente e processi di pensiero 5. I due meccanismi: conclusioni provvisorie Con le considerazioni che precedono, ci siamo avvicinati al genere di fenomeni sui quali Duranti richiamava l’attenzione: le routine convenzionali che guidano il nostro agire “indipendentemente dai nostri scopi coscienti”. Esplicitiamo alcune conclusioni raggiunte, e discutiamo alcune conseguenze ulteriori. In primo luogo, abbiamo confermato che questi fenomeni non comportano di per sé una difficoltà per l’individualismo cognitivo, nell’accezione debole qui adottata. Spesso gli esseri umani aderiscono effettivamente a routine sociali senza alcuna considerazione esplicita degli scopi, ma anche questa adesione ha una base cognitiva individuale. In secondo luogo, se è vero – come sembra – che nei casi in oggetto non sono di norma coinvolte rappresentazioni esplicite degli scopi individuali, nondimeno l’adesione a routine sociali presuppone una più primitiva capacità di rappresentare gli scopi, senza la quale è impossibile l’imitazione. E dunque presuppone qualche forma elementare di lettura della mente. È importante sottolineare che la distinzione tra meccanismi cognitivi qui tracciata è probabilmente il frutto di una semplificazione (in realtà, abbiamo a che fare con una gamma più graduale e diversificata di fenomeni). Inoltre, quella distinzione è trasversale a certe classi di comportamento molto generali. Partiamo da questo secondo punto. E prendiamo in esame i comportamenti linguistici. Come notavamo, Duranti prende a bersaglio l’approccio individualistico che sottende la pragmatica classica, accusandola di concepire l’intenzione comunicativa come qualcosa che è “in possesso del parlante”. In effetti, sarebbe difficile rivolgere tale accusa a molte delle posizioni che caratterizzano la pragmatica contemporanea. In quest’area di ricerca, comincia ad emergere con una certa chiarezza che il genere di intenzionalità presupposto dalle interazioni linguistiche non può essere tale da implicare, in generale, la rappresentazione esplicita degli scopi. L’intenzione comunicativa del parlante, e la com- M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 231 prensione di essa da parte dell’ascoltatore, devono di conseguenza essere ripensate in una forma che non implichi alcun riconoscimento esplicito dei propri ed altrui scopi: esse devono piuttosto basarsi, di norma, su un’abilità di lettura della mente decisamente più elementare. Questa è, ad esempio, la direzione in cui si muove la teoria della pertinenza di Sperber e Wilson. Ora, per un verso ciò apparenta l’interazione linguistica alle forme di adesione automatica (non deliberata) alle routine sociali. Per certi aspetti, anzi, l’interazione linguistica è una forma di comportamento di questo genere, e in più di un senso. Apprendere una lingua significa adeguarsi a delle convenzioni sociali: questo è il punto esplorato con grande finezza da Millikan (2005; cfr. anche Millikan, in stampa). Inoltre, alcune interazioni linguistiche sono nella loro totalità altamente convenzionalizzate, persino ritualizzate. Ma ovviamente, in moltissimi altri casi, le interazioni linguistiche variano liberamente in funzione di circostanze e di propositi individuali, sia pure non espliciti. In ogni modo, anche per questo aspetto dobbiamo presupporre un nucleo di capacità cognitive condiviso con i fenomeni di mera adesione a routine: anche in questi casi è richiesta, se Sperber e Wilson hanno ragione, una capacità di lettura della mente di basso livello2. Per un altro verso, tutto ciò non vuol dire che alle interazioni linguistiche siano necessariamente estranei i processi di considerazione deliberata degli scopi. Questi processi, per quanto forse più eccezionali di quanto non si sia immaginato spesso, e certamente troppo sofisticati per essere posti in generale alla base dei fenomeni linguistici, possono tuttavia verificarsi nel contesto di comunicazioni verbali: i soggetti possono comunicare sulla base di una considerazione esplicita delle strutture di scopi individuali implicate, in una sorta di gioco di strategia cosciente. In tal senso, la distinzione tra – per così dire – comprensione implicita e 2 Ciò non toglie, chiaramente, che altri ingredienti possano verosimilmente differire: ad esempio, le RPP ipotizzate da Millikan svolgerebbero un ruolo nell’adesione automatica a routine, ma presumibilmente non nella considerazione delle circostanze e dei propositi individuali. 232 Modelli della mente e processi di pensiero comprensione esplicita delle intenzioni taglia trasversalmente un dominio di comportamenti così ampio come quello dei comportamenti linguistici. L’altra considerazione preannunciata è che la distinzione qui suggerita tra comprensione implicita ed esplicita dei comportamenti finalizzati è solo una prima approssimazione, utile per certi scopi ma probabilmente troppo grossolana se si ha di mira la descrizione dei precisi meccanismi cognitivi coinvolti. È interessante che Millikan (2005: 206), nel discutere una nozione di comprensione implicita degli scopi da porre a fondamento delle interazioni linguistiche, attribuisca una capacità di questo genere a molti mammiferi: «cani e gatti, ad esempio, non potrebbero giocare insieme né combattere tra loro se non potessero afferrare in qualche misura i propositi coinvolti nei rispettivi comportamenti così da anticipare gli uni le mosse degli altri». Questo è sensato, ma viene spontaneo domandarsi se la complessa vita sociale dei primati non imponga (non presupponga, in effetti) standard più elevati di comprensione dei comportamenti finalizzati; l’argomento vale a maggior ragione, se consideriamo la complessità e sofisticazione di molte interazioni linguistiche umane. Un punto analogo emerge dal dibattito sulla diversità tra esseri umani ed altri primati: sebbene Tomasello, come dicevamo, abbia sfumato le proprie tesi sulla superiorità degli esseri umani nella comprensione dei comportamenti finalizzati, non è affatto chiaro che queste tesi debbano essere abbandonate del tutto (si veda ad esempio Povinelli e Vonk 2004; Tomasello e Call, 1997). In generale, la comprensione del comportamento come rivolto verso fini potrebbe conoscere gradi, e persino variare per ogni specie in funzione dei diversi ambiti di azione interessati (Hurley, 2003). Un ulteriore aspetto della questione è il seguente: non si dovrebbe dimenticare l’importante distinzione tra processi controllati ed automatici, ed in particolare la possibilità di sostituire processi controllati e deliberati con altri automatici, meno dispendiosi e più rapidi anche se meno ricchi di informazione immediatamente accessibile. Se per un verso processi di comprensio- M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 233 ne degli scopi (più) impliciti possono costituire la base per l’emergere di processi (più) espliciti, per un altro verso procedure di analisi strategica, deliberata, degli scopi in un dato dominio possono subire una (più o meno profonda) automatizzazione. Alla luce di tutte queste considerazioni, dovrebbe essere chiaro un punto: l’adesione a routine convenzionali può poggiare presumibilmente su una pluralità di meccanismi cognitivi, il cui grado di esplicitezza e sofisticazione può variare molto. Se alla base dobbiamo poter contare su qualche comprensione degli scopi di basso livello, più o meno implicita, nulla vieta che in casi particolari si aderisca ad una convenzione in modo (più o meno) deliberato ed esplicito; e d’altra parte, un’adesione deliberata può trasformarsi in automatica, per effetto della semplice ripetizione, a meno di tornare (più o meno) consapevole in circostanze particolari. Come si vede, vi è una correlazione interessante ma tutt’altro che semplice tra i fenomeni su scala sociale su cui richiama l’attenzione Duranti ed i meccanismi cognitivi individuali. 6. La questione della flessibilità cognitiva Se fino a qui ci siamo soffermati soprattutto sui processi cognitivi che rendono possibili i fenomeni sociali, non è mancato qualche cenno all’eventualità che alcuni processi cognitivi siano, a loro volta, il risultato di fenomeni sociali. Individuare l’esatto punto di demarcazione tra i processi cognitivi (e linguistici) direttamente determinati su base innata e quelli che invece si riproducono culturalmente è oggi una delle grandi sfide dell’antropologia, e di tutta la scienza cognitiva. Un esempio di questa situazione è dato dal caso del linguaggio: pochi oggi dubitano che la facoltà del linguaggio sia in qualche misura innata, anche se molti pensano che la componente innata potrebbe essere molto meno ricca di quanto si pensava qualche anno fa (per le ultime prudenti posizioni di Chomsky, si veda Hauser, Chomsky e Fitch, 2002). Ha dunque ripreso consi- 234 Modelli della mente e processi di pensiero stenza l’idea che le lingue siano convenzioni storiche, depositate presso, e trasmesse da, comunità di parlanti: non è così chiaro che bambini allevati da comunità completamente prive di linguaggio ne “inventerebbero” uno in pochi anni (come è stato sostenuto invece a proposito delle lingue creole, o delle lingue segnate, ma in contesti nei quali i soggetti erano comunque immersi in un ambiente linguistico). Ciò è del tutto evidente in ambito lessicale: non si crea in pochi anni una lingua dotata di decine (o centinaia) di migliaia di segni, occorre una ricca stratificazione storica. Quanto invece ciò si applichi alla sfera sintattica è oggetto di discussione3. Questo punto va tenuto presente, in misura maggiore di quanto si tenda a fare oggi, quando si pongono certi interrogativi sulla specificità della cognizione umana. Vorrei in breve chiarire il punto con una esemplificazione. In due recenti articoli, Sperber (2005) e Carruthers (2005) discutono una questione, quella della flessibilità cognitiva4, che è stata resa urgente dalle critiche di Fodor (2000) alla modularità massiva. Secondo Fodor i processi cognitivi centrali (ragionamento, fissazione delle credenze, ecc.: insomma quelli che si collocano a valle dei processi periferici di natura percettiva) sono destinati a restare un mistero, poiché sono per loro natura non modulari, e non abbiamo la più pallida idea di come modellare dei processi cognitivi non modulari. Una premessa di questo ragionamento è che i processi cognitivi centrali siano – a differenza di quelli periferici – altamente flessibili, sensibili al contesto, creativi. Ora, poiché questa loro natura creativa e flessibile appare come un dato difficilmen3 Un punto che complica la questione è se tra lessico e sintassi si dia una distinzione netta, o se viceversa i due ambiti siano tra loro intrecciati in modo significativo. In alcune recenti teorie, la sintassi è vista come guidata dal lessico, o addirittura come un caso particolare nel dominio dei fenomeni lessicali; questo fa sì che la visione della lingua come deposito storico degli usi venga ad applicarsi, in qualche misura, anche alla sintassi. Per un resoconto sulle teorie della sintassi orientate lessicalmente, si può vedere Mazzone (2006). 4 In realtà, Sperber (2005) traccia una distinzione terminologica tra sensibilità al contesto e flessibilità cognitiva, della quale però non terrò conto perché non mi sembra rilevante nel presente contesto. M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 235 te controvertibile, lo sforzo dei modularisti massivi è spiegare come si possa renderne conto restando dentro una cornice modulare. I contributi di Sperber e Carruthers sono orientati in questa direzione, e forniscono analisi molto stimolanti di alcuni dei fattori cognitivi verosimilmente in gioco. Un punto generale che vorrei sollevare, tuttavia, è se la questione della flessibilità possa essere risolta esclusivamente mediante un’indagine sull’architettura cognitiva individuale fissata dalla nostra biologia, senza chiamare in causa capacità cognitive che emergono solo a partire da pratiche sociali. 6.1. Sperber Cominciamo col vedere, ad esempio, che tipo di soluzione al problema ha proposto Sperber (2005). Il suo interrogativo di partenza è come sia possibile la peculiare sensibilità al contesto caratteristica del comportamento umano: come sia possibile, in altri termini, andare oltre la rigidità propria degli organismi stimolo-risposta. In effetti, questa formulazione è un po’ semplicistica. Come Sperber osserva correttamente, anche organismi il cui comportamento fosse interamente governato da riflessi innati possono manifestare una certa sensibilità al contesto: è sufficiente che i riflessi operino secondo regole condizionali del tipo “reagisci così e così allo stimolo A, purché sia presente anche lo stimolo B”5. Questo vale, ovviamente, a maggior ragione se abbiamo a che fare con organismi capaci di apprendimento, fosse pure per semplice condizionamento. Ma il problema è che il comportamento umano sembra troppo complesso per potere essere ridotto a regole condizionali prefissate di questo genere, anche assumendo qualche capacità elementare di apprendimento per condizionamento. In che modo dunque la sensibilità al contesto può svilupparsi ulteriormente? 5 Più esattamente, Sperber parla di regole basate su congiunzioni di condizioni. Ma ai nostri fini la formulazione che propongo è più chiara, e mi pare possa essere assunta come equivalente nel presente contesto. 236 Modelli della mente e processi di pensiero Innanzitutto, è bene chiarire il ruolo di alcune formulazioni su cui Sperber insiste molto. La sua idea è che la soluzione possa risiedere in una competizione tra moduli per l’accaparramento delle risorse del sistema. Alla base vi sarebbe una spontanea tendenza dei sistemi cognitivi (dei sistemi biologici, ancor prima) verso un’economia energetica, basata sull’equilibrio tra costi dei processi e benefici che ne derivano. Data questa premessa, appare ragionevole pensare che nel corso dell’evoluzione si sviluppi una certa capacità di “riconoscere” ciò che nell’ambiente è maggiormente meritevole di attenzione, così da (tendere a) ottimizzare il rapporto costi-benefici nelle più diverse circostanze. Ciò si presume accada in virtù di un meccanismo cieco – appunto, la selezione naturale – che nel tempo modifica le relazioni tra gli elementi di un modulo, e dei moduli tra loro, così da avvantaggiare l’attivazione di quei processi che danno le maggiori speranze di successo. Ora, a me sembra importante chiarire che fin qui Sperber sta solo “pubblicizzando” alcune caratteristiche che a suo giudizio dovrebbe avere la soluzione del problema. L’idea di una competizione tra moduli per l’accaparramento delle risorse, o il ruolo cruciale che attribuisce al livello di attivazione elettrica dei circuiti cerebrali (in quanto indizio dei costi e/o benefici dei processi), non andrebbero considerati in sé la risposta al problema. E la ragione è semplice: una competizione tra moduli è ciò che si verifica nei sistemi cognitivi di ogni tipo, anche quelli più elementari, e il meccanismo fisico tramite cui si realizza tale competizione è sempre basato sull’attivazione elettrica. Pertanto, il riferimento a questi fatti è in sé troppo generico per costituire la risposta alla domanda: cosa rende specifica la cognitività umana? Una tale risposta richiederebbe, semmai, di determinare che tipo di competizione tra moduli, in particolare, rende possibile la nostra specifica sensibilità al contesto. Quello che Sperber fin qui sta facendo, in realtà, è soltanto dirci a quale livello dobbiamo cercare quella risposta; e l’idea di fondo è che essa sia distribuita nel cervello. Ossia, il suo punto è la tesi che non dovremmo cercare un modulo o un ristretto insieme di moduli che accedono a M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 237 tutta l’informazione disponibile e la esaminano per stabilire quale sia (più) pertinente nelle diverse circostanze. Una volta che sia compresa nei termini indicati, questa parte del ragionamento di Sperber è del tutto condivisibile. E va nella stessa direzione delle critiche di Duranti ad un’immagine eccessivamente idealizzata di soggetto razionale. Sperber e Wilson (1996) in effetti criticano esplicitamente il modello di soggetto razionale che sta alla base della visione fodoriana dei processi centrali. A giudizio di Fodor ogni tentativo di spiegare i processi centrali è messo in scacco dal problema del frame, ossia dall’impossibilità di immaginare una procedura computazionale capace di accedere a tutta l’enorme quantità di informazione a disposizione del sistema, e di valutare quale sia pertinente (e in che modo) nella determinata circostanza. Secondo Sperber e Wilson, in tal modo Fodor pone troppo in alto gli standard della razionalità umana. Non bisogna pensare a meccanismi che consentono al soggetto di accedere a tutta l’informazione disponibile, ed esaminarla per valutarne la pertinenza relativa; bensì ad automatismi magari complessi ma impliciti nel funzionamento complessivo del sistema, inaccessibili alla consapevolezza del soggetto, e che si limitano a tendere verso una pertinenza ottimale. Tali automatismi infatti sarebbero selezionati dall’evoluzione, con tutti i limiti alla flessibilità che ciò comporta. Semmai, precisano Sperber e Wilson, «un’ombra del genere di razionalità che Fodor attribuisce alla cognizione umana individuale» emergerebbe attraverso la comunicazione, come risultato di «duraturi sforzi cognitivi collettivi» (su questo richiamo alla dimensione collettiva della cognizione torneremo più avanti). Se questa parte più “programmatica” del ragionamento di Sperber appare corretta nel ridimensionare il ruolo cognitivo della componente razionale (sebbene tra poco faremo qualche puntualizzazione in proposito), non appaiono invece del tutto soddisfacenti i suoi suggerimenti finali circa il genere di meccanismi che in pratica potrebbero svolgere il lavoro richiesto. La questione, ripetiamolo, è specificare come il sistema cognitivo potrebbe stabilire le proprie priorità in modo appropriato, senza 238 Modelli della mente e processi di pensiero disporre di uno “spazio mentale” centrale in cui siano esaminate tutte le informazioni a disposizione del sistema. Sperber (2005) indica i tre meccanismi seguenti come capaci di (contribuire ad) assolvere il compito. In primo luogo, avrebbero accesso privilegiato alle risorse del sistema (anche a costo di bloccare processi cognitivi eventualmente in corso) quegli input che hanno avuto un grande impatto pratico nella storia evolutiva della specie. In secondo luogo, a parità di altre condizioni, i processi attualmente in corso avrebbero un certo vantaggio nell’accaparramento delle risorse. In terzo luogo, certi tipi di input sarebbero capaci di produrre una significativa attivazione cerebrale (e dunque di aggiudicarsi, a parità di altre condizioni, le risorse del sistema cognitivo) per il fatto che l’individuo sviluppa un interesse stabile verso di essi. Consideriamo intanto i primi due meccanismi proposti. Sarebbe eccessivo sostenere che essi non abbiano rapporto con la questione della flessibilità. Tuttavia, il problema è che in sé tali meccanismi non sono affatto specifici della specie umana o, in genere, di specie dal comportamento altamente sensibile al contesto. Presso le specie più diverse, i sistemi cerebrali sono sensibili agli input che hanno avuto rilievo nella storia evolutiva della specie, e da cui di fatto è dipesa la loro sopravvivenza (predatori tipici, fonti di cibo, ecc.); e un certo vantaggio per i processi attualmente in corso fa parte del normale funzionamento di questi sistemi. Insomma, non è qui che può risiedere il segreto di una reattività agli input capace di variare enormemente in funzione del contesto6. 6 Ho un po’ semplificato. In realtà si potrebbe sostenere che, certo, tutte le specie animali svilup- pano una reattività particolare a classi di input importanti nella loro storia evolutiva, ma nella specie umana tale capacità sarebbe molto più flessibile. Tuttavia, non solo questo sembra un modo di rinviare il problema – come si ottiene la maggiore flessibilità? – inoltre la questione della flessibilità tipicamente appare così difficile proprio perché non si capisce come potrebbe essere risolta invocando un semplice processo di selezione, applicato alla reattività verso classi di input. La selezione naturale opera su tempi molto lunghi, in risposta a condizioni circostanti altamente regolari: è chiaro dunque come essa possa effettuare una specie di media degli stimoli rilevanti nel lungo periodo, ma non come potrebbe consentire ad un organismo cognitivo di operare in modo sensibile ai più diversi contesti. M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 239 Il discorso è più complesso con riferimento al terzo meccanismo indicato. È un fatto che tra gli individui umani vi sia una significativa variabilità quanto al genere di input che suscitano interesse. La radice di questo, tuttavia, risiede (tra l’altro) nel fatto che il cervello è una macchina sensibile alle regolarità ambientali: un individuo esposto abitualmente a certi input (per la percezione dei quali è predisposto) diventerà particolarmente sensibile ad input di quel medesimo genere. Questa proprietà non è tipica del cervello umano; al contrario, è condivisa da specie molto lontane da noi. Solo che presso altre specie essa non è correlata con un’analoga variabilità tra individui. E questo ci dice che quel meccanismo in sé non spiega la variabilità individuale e la flessibilità dei comportamenti. Dobbiamo piuttosto presupporre, nel caso della specie umana, una tendenza indipendente verso una maggiore flessibilità e differenziazione nei comportamenti (e dunque la possibilità che individui diversi coltivino interessi diversi). Questo fatto a sua volta, in virtù del meccanismo generale che aumenta la reattività ad input abituali, aumenterà la sensibilità di ciascuno verso certe classi di input piuttosto che altre. Ma allora, il fenomeno della sensibilità differenziale verso gli input sembra presupporre la flessibilità e la variabilità dei comportamenti, piuttosto che costituirne una spiegazione. Naturalmente, anche se le precedenti osservazioni fossero corrette potrebbe darsi che l’idea di fondo di Sperber sia valida. Forse ci sono altri meccanismi dello stesso genere che possono riuscire dove questi sembrano fallire. Vi è però un’altra possibilità che merita di essere esplorata. Prendiamo l’idea di partenza di Sperber: non vi sarebbe alcuno spazio mentale unificato in cui, in ogni circostanza, la totalità delle informazioni disponibili viene valutata in funzione della sua pertinenza. Può darsi che dobbiamo analizzare questa tesi negativa in due parti, delle quali solo una va accettata. Un conto è dire che non vi sia uno spazio mentale dove tutta l’informazione è considerata. Un altro conto è negare che possa contribuire alla nostra flessibilità l’esistenza di uno spazio mentale nel quale una parte ristretta delle 240 Modelli della mente e processi di pensiero informazioni a disposizione viene esplicitamente considerata, e valutata in ordine alla sua pertinenza. Un’ipotesi del genere è stata avanzata da Carruthers (2005)7. 6.2. Carruthers Nell’approccio di Carruthers (2005), il fattore che appare decisivo per sottrarre il comportamento umano alla rigidità ed automaticità dei moduli è, in termini generali, la facoltà del linguaggio. Questa consentirebbe infatti al nostro sistema cognitivo di accogliere in un medesimo formato informazioni di provenienza disparata, elaborate da moduli distinti. Più in particolare Carruthers parla di un dispositivo, il “supposer”, il cui compito è di ospitare “supposizioni” differenti in risposta alle circostanze attuali (linee di azione possibili, ipotesi per la soluzione di problemi sia pratici sia teorici, e simili). Tali supposizioni avrebbero formato linguistico, appunto in conformità con la sua tesi che il linguaggio sia il mediatore universale delle informazioni, ed il supposer costituirebbe lo spazio mentale nel quale esse vengono considerate e valutate. In che modo il sistema determina quali supposizioni debbano essere inviate al supposer? Carruthers (2005: 85) suggerisce che potrebbe generarle a caso, oppure essere guidato da processi per somiglianza/analogia a partire dagli input attuali. Più in generale, afferma Carruthers (2005: 87), il problema della selezione dell’informazione pertinente potrebbe essere risolto nella direzione di Sperber (2005). Come si vede, c’è una linea di continuità tra le due proposte. Ma anche una differenza. Carruthers immagina uno stadio co7 Ovviamente questo significa muoversi in una direzione differente da quella di Sperber (2005), che è chiaramente orientato verso i possibili fattori automatici, semplici sottoprodotti dell’architettura cerebrale, che favoriscono la flessibilità cognitiva. Tuttavia Sperber non esclude la possibilità che meccanismi di più alto livello svolgano un ruolo nel determinare la flessibilità dei comportamenti umani. Ritiene solo improbabile che un dispositivo centrale di alto livello abbia un ruolo esclusivo o anche soltanto prevalente nella selezione degli input pertinenti (Sperber, 2005: 66). Ciò non è incompatibile con l’ipotesi che stiamo per esplorare, secondo cui un simile dispositivo potrebbe esistere ed avere un ruolo, purché si conceda che esistono meccanismi di più basso livello preposti, in condizioni normali, a svolgere gran parte del lavoro di selezione. M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 241 gnitivo ulteriore, successivo alla semplice selezione automatica degli input o, in generale, dell’informazione rilevante. Questo passaggio è la proiezione delle informazioni selezionate in uno spazio mentale, in cui vengono esplicitamente valutate in funzione degli attuali compiti cognitivi del sistema. Non è questo il luogo per un’analisi complessiva di questa proposta (me ne sono occupato in Mazzone in stampa (b)). Mi limito alla seguente considerazione: è plausibile che anche animali meno flessibili di noi facciano uso di procedure di immaginazione per esplorare linee di azione possibili, e soluzioni a semplici problemi. Questa capacità di esplorare mentalmente le azioni possibili e le loro conseguenze sembra svolgere un ruolo non irrilevante nella flessibilità cognitiva delle specie interessate. E ciò sembra indicare che la soluzione al problema della flessibilità non possa risiedere interamente al livello analizzato da Sperber (2005). Sebbene non vi sia verosimilmente nessun meccanismo che accede a tutta l’informazione disponibile e ne valuta la pertinenza, dobbiamo forse ammettere una certa limitata capacità di esplorare attivamente ed esplicitamente l’informazione, e considerarne la rilevanza relativa rispetto ai nostri obiettivi espliciti. 7. Trasmissione sociale della flessibilità? Questo solleva la domanda se per caso la superiore flessibilità cognitiva umana non abbia a che fare con un potenziamento dell’abilità appena tratteggiata. Proverò adesso, in conclusione, ad indicare sinteticamente alcuni modi in cui ciò potrebbe avvenire. Tali modi hanno in comune una caratteristica: la maggiore flessibilità è realizzata mediante processi cognitivi che sono il prodotto di pratiche sociali e linguistiche. Un primo suggerimento in questa direzione lo hanno dato Sperber e Wilson (1996) in un passo già citato: un’ombra della razionalità che Fodor attribuisce agli individui può essere conseguita, ci dicono, attraverso duraturi sforzi cognitivi collettivi. In 242 Modelli della mente e processi di pensiero effetti, giorno dopo giorno le comunità umane possono esplorare complesse questioni teoriche e pratiche, e quindi fissare i risultati delle loro esplorazioni così da trasmettere questo sapere collettivo da una generazione all’altra. Questa fissazione collettiva di conoscenze rende gli individui molto più esperti della complessità del mondo di quanto avrebbero potuto esserlo tramite la propria sola esperienza. Si potrebbe definirla una flessibilità “congelata”: una capacità di adattamento alle situazioni che non è frutto di valutazioni fatte “al volo”, bensì dipende da una conoscenza codificata. Qualcosa del genere, abbiamo visto, è presente anche negli organismi il cui comportamento è interamente determinato in modo innato, e a maggior ragione in quelli che manifestano forme sia pure elementari di apprendimento: tali meccanismi, per quanto differenti, consentono entrambi di fissare informazione proveniente dall’ambiente in modo tale che questa possa orientare i comportamenti. In quanto creature di convenzione (vedi paragrafo 3) dotate di linguaggio, gli esseri umani possono giungere ad un livello ancora più elevato di flessibilità e complessità nell’adattamento dei comportamenti all’ambiente. Sotto questa prospettiva, la flessibilità appare un frutto della nostra peculiare capacità di trasmissione culturale. Se per questo primo aspetto contano le conoscenze cristallizzate in saperi convenzionali, la comunicazione con gli altri può incidere in un secondo modo sulla flessibilità cognitiva. Le persone discutono tra loro circa le conseguenze possibili di differenti linee di comportamento; e ciò talvolta produce un cambiamento locale nei sistemi di credenze e nei comportamenti dei soggetti coinvolti. In tal modo anche conoscenze particolari che non fanno parte dei saperi convenzionali possono essere messe a disposizione del soggetto nell’atto in cui delibera un comportamento. Ma soprattutto, simili esperienze di dialogo intersoggettivo possono essere interiorizzate, ossia stimolare nel singolo soggetto l’abilità di cercare attivamente e valutare corsi di azione possibili e loro conseguenze. Se questa considerazione è corretta, avremmo qui a che fare con una capacità cognitiva individua- M. Mazzone, Antropologia cognitiva e società 243 le che è stimolata da processi sociali. Non che sia del tutto nuova. Come osservavamo, è ragionevole assumere che una certa capacità di esplorare nell’immaginazione i comportamenti possibili sia parte della strumentazione cognitiva resa disponibile dalla nostra dotazione biologica, e probabilmente da quella di altre specie. Tuttavia, sembra evidente che la specie umana ha sviluppato questa abilità in una misura straordinaria, e che la capacità individuale di ciascuno varia (tra l’altro) in funzione dell’esposizione a modelli di comportamento. La morale sembra essere che la questione della flessibilità dovrebbe essere affrontata ad una pluralità di livelli, incluso quello dei processi cognitivi che ricevono impulso da fenomeni sociali e convenzionali. Più in generale, è emerso un quadro di questo genere. Per un verso, l’approccio individualista dell’antropologia cognitiva è giustificato dalla considerazione che non si danno fenomeni sociali che non abbiano una base nella cognizione individuale. Per un altro verso è stata evidenziata la necessità di cogliere i fenomeni sociali e convenzionali nella loro specificità, senza ricondurli ad un modello idealizzato di soggetto razionale. In particolare, le convenzioni sociali dipendono innanzitutto da meccanismi automatici, di basso livello; anche se in alcuni casi possono essere seguite in modo deliberato. Ma la stessa capacità cognitiva di deliberazione razionale, con la flessibilità che la caratterizza, sembra essere (almeno in parte) una conseguenza piuttosto che un presupposto delle interazioni sociali umane. Se dunque vogliamo parlare di razionalità, dovremo però tenere presente che c’è tutta una complessa vicenda della razionalità che attende di essere raccontata ed analizzata: dalla razionalità “distribuita” dei meccanismi innati, a quella delle routine sociali convenzionali, alla proto-razionalità cognitiva dell’immaginazione, alla razionalità discorsiva vera e propria. Postfazione Prima lezione di antropologia cognitiva, ovvero i sette giorni all’antropologia cognitiva di Massimo Squillacciotti Per voi che foste, da noi che divenimmo e siamo. 1. In principio erano l’etnologia e l’antropologia Arrivati alla fine di questo volume, il lettore attento, addetto ai lavori o ancora inesperto che sia, potrebbe avere la sensazione che l’antropologia cognitiva nasconda qualche ambiguità o che rischi di contenere velleità conoscitive. Le domande che rimangono in qualche modo sospese o controverse o, ancora, le cui risposte sembrano attualmente richiedere ulteriori indagini, possono andare da un minimo ad un massimo, per cominciare con: la cultura esiste nella specie umana grazie al linguaggio (verbale) con la preminenza del secondo sulla stessa “costituzione” della prima e con la conclusione che la conoscenza della lingua altrui potrebbe esaurire la conoscenza dell’antropologia o contenere ontologie culturali; e per finire con: oggi è l’antropologia stessa ad essere antropologia cognitiva in quanto ricerca situata tra la cognizione dell’indigeno e la conoscenza dell’antropologo sull’indigeno (spesso definita anche in questo caso come “cognizione”), con il rischio che allora tutto è cognizione… In mezzo stanno tutta una serie di questioni che nella storia della cultura e del pensiero scientifico occidentale si pongono da lunga data e con soluzioni spesso contrapposte, come il rapporto mente-pensierocultura, il rapporto biologia-cultura, quello corpo-intelletto-sapere, quello lingua-pensiero, ed altro ancora. Senza la pretesa di risolvere qui quello che il futuro riserva agli studi cognitivi, penso sia utile in una postfazione rico- 248 Modelli della mente e processi di pensiero struire le radici storiche dell’antropologia cognitiva anche se con un taglio del tutto personale e derivato sia dall’esperienza di ricerca storiografica riguardo gli studi etno-antropologici italiani (Clemente, Meoni, Squillacciotti 1976; Puccini, Squillacciotti 1980); sia dagli ostacoli teorici incontrati nella ricerca etno-cognitiva sul campo riguardo i sistemi di numerazione tra i Kuna di Panamá e gli Intire della Somalia (Squillacciotti, 1996a); sia, infine, dalla lettura di recenti lavori di antropologia che rischiano di reinventare il concetto di “mentalità” o reperire “ontologie mentali” (Viveiros de Castro, 2000) di vecchia impostazione là dove, invece, l’esperienza etnografica – quando dichiara i “paradigmi” con cui procede – individua e definisce non pensieri ma processi di pensiero e le relazioni di questi con le forme sociali. La disciplina oggi denominata antropologia cognitiva – e di cui il lavoro di Sandro Lutri presenta contributi notevoli anche se, per forza di cose, non esaustivi di tutte le questioni che tale scienza affronta – da una parte trova la sua matrice storica nell’ambito delle varie altre scienze antropologiche e dall’altra trova oggi un proprio titolo nell’ambito del complesso denominato “scienze cognitive”: qui si trova a suo agio pienamente e con un proprio contributo specifico, anche se forse ancora oggetto di scarsa considerazione da parte degli scienziati degli altri settori disciplinari. Chiarisco subito che punto comune tra questi due rami “storici” del sapere che configurano l’antropologia cognitiva – e quindi suo apporto specifico agli studi – è l’esperienza di ricerca sul campo: l’etnografia nella e della alterità riguardo le forme del pensiero, i suoi codici di espressione in contesti culturali storicamente definiti e diversi dai nostri per un qualche carattere, ma non “essenza”. Una storia interdisciplinare della “rivoluzione cognitiva” trova già un contributo analitico di presentazione nel lavoro di Howard Gardner (1987), La nuova scienza della mente, anche nella prospettiva delle scienze antropologiche, mentre contributi monografici sugli antecedenti delle scienze cognitive sono presenti in M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 249 numerose pubblicazioni di questi ultimi anni nel presentare le acquisizioni attuali delle teorie cognitive o l’assetto stesso dell’antropologia culturale, come nel volume curato da Robert Borofsky (1994), L’antropologia culturale oggi. Senza nulla togliere, magari in aggiunta a tutto ciò, è mia intenzione provare qui a ricostruire il percorso compiuto nelle scienze antropologiche ed etnologiche da un filone di studi che oggi trova la sua denominazione e collocazione in antropologia cognitiva o studi etno-cognitivi e che alla sua origine è partito con l’interesse e la configurazione di studi sulla mentalità primitiva fin dal primo nascere dell’antropologia stessa alla fine dell’Ottocento. E, come vedremo, nel corso del tempo questo filone ha avuto apporti non solo dalla etnografia ma anche da scienze esterne e più o meno vicine all’antropologia e che però si venivano misurando e sperimentando in relazione a tematiche precipue dell’antropologia ma non esclusive di questa. Mi riferisco a definizioni concettuali come mentalità primitiva, pensiero selvaggio, forme e categorie di pensiero, sistemi di classificazione, sviluppo cognitivo, tecnologie dell’apprendimento e della comunicazione… oppure a campi disciplinari e di ricerca come psicologia sociale, psicologia transculturale, linguistica, etnoscienza, antropologia simbolica, intelligenza artificiale, filosofia del linguaggio, filosofia della mente ed altro ancora. Nel mio percorso di ricostruzione storiografica, di alcuni autori di questa storia renderò conto analiticamente, mentre di altri farò solo riferimento come campo d’azione o quadro epistemologico; non di tutti riuscirò a rendere conto, per forza di cose e limiti soggettivi, ma «La storia siamo noi, nessuno si senta escluso…», come recita Francesco De Gregori. Inoltre questa mia ricostruzione forse risulterà rigida e di parte, ma questo è un taglio da me voluto anche perché intendo seguire un aspetto non secondario della logica dello sviluppo e diffusione di questa scienza: la politica editoriale delle pubblicazioni, in questo caso in lingua italiana anche se, ovviamente, allo stesso tempo abbiamo avuto accesso alla editoria in lingua origi- 250 Modelli della mente e processi di pensiero nale1. L’apparente parzialità di questa impostazione trova una sua ragione non tanto in quello che venivamo leggendo all’università a partire dagli anni Sessanta, ma nel voler rendere conto implicitamente della politica e del mercato editoriale nello specifico, quando l’antropologia culturale trovava una sua collocazione accademica2 e la politica culturale delle traduzioni era alla ricerca di titoli da importare come innovativi o compatibili con l’assetto della nostra cultura. Ancora una volta sottolineo che questa impostazione potrà sembrare segnata dai caratteri generazionali della formazione ma tanto vale, allora, come promemoria per gli allievi, i giovani studiosi e gli estensori di voci per dizionari (Boyer, 1991; Pignato, 1977; Seymour-Smith, 1986), per una maggiore considerazione del portato storico e delle matrici culturali delle teorie e dei concetti che oggi si sono venute affermando nelle scienze cognitive, superando il forte paradigma linguistico utilizzato nella presentazione degli studi. 1 Alcune indicazioni in tal senso possono essere: Hallowell, 1955; Romney, D’Andrade, 1964; Goodenough, 1964; Fortes, Dieterlen, 1965; Tyler, 1970; Horton, Finnegan, 1973; Wilson, 1974; Berry, Dasen, 1974; Cole, Scribner, 1974; Casson, 1981; Dolgin, Kemnitzer, Schneider, 1977; Halford, 1982; Irvine, Berry, 1983; Dougherty, 1985; Karp, Bird, 1986; D’Andrade, 1995. 2 Come documenti d’epoca segnalo il memorandum del 1958 ed i successivi convegni nazionali di antropologia culturale del 1962 e del 1963: Bonacini Seppilli, L., Calisi, R., Cantalamessa Carboni, G., Seppilli, T., Signorelli, A., Tentori, T., 1958, L’antropologia culturale nel quadro delle scienze dell’uomo. Appunti per un memorandum, in Atti del I Congresso Nazionale di Scienze Sociali, Bologna, il Mulino, vol. I: 235-253; I Convegno Nazionale di Antropologia Culturale, Milano 1962, «Il pensiero critico», n. 3-4, 1962. II Convegno Nazionale di Antropologia Culturale, Roma 1963, «De Nomine», n. 17-18, 1966. Dal punto di vista storiografico, invece, segnalo: Bernardi, B., a cura di, 1972, Etnologia e antropologia culturale, Milano, Franco Angeli; in particolare i saggi di Bernardi, B., Prospettive di sviluppo degli studi antropologici in Italia: 93-117 e di Lanternari, V., Le scienze umane oggi in Italia nel contesto europeo-americano: 43-70. Clemente, P., Meoni, M.L., Squillacciotti, M., 1976, Il dibattito sul folklore in Italia, Milano, Edizioni di Cultura Popolare, nuova ed. a stampa; Grottanelli, V., 1977, Ethnology and/or Cultural Anthropology in Italy: Traditions and Developments, «Annual Review of Athropology», n. 13: 447-466; AA.VV, 1980, Studi antropologici italiani e rapporti di classe. Dal positivismo al dibattito attuale, Quaderni di «Problemi del Socialismo», Milano, Franco Angeli, in particolare il saggio di Puccini, S., Squillacciotti, M., Per una prima ricostruzione critico-bibliografica degli studi demo-etno-antropologici italiani nel periodo tra le due guerre: 67-93 e 201-239; AA.VV, 1985, L’antropologia italiana. Un secolo di storia, Bari-Roma, Laterza, pref. di A.M. Cirese. M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 251 2. Ma subito fu la mentalità primitiva: ontologie e naturalismo L’antropologia, nata per lo studio delle differenze o distanza di cultura – allora definito come studio delle culture o società o popoli primitivi – e con l’affermazione tyloriana di un unico concetto di cultura per le società umane, ha trovato già ai suoi inizi e proprio sul terreno della definizione e concettualizzazione della diversità culturale e delle sue manifestazioni, il primo scoglio; come dice Joseph Conrad in Cuore di tenebra: «Brava gente, i cannibali, nel loro ambiente...». Per quanto attiene al nostro percorso, ciò equivale a riconoscere alla base dei nostri studi una valutazione delle abilità concettuali “dimostrate” nelle culture altre come primitive e concrete, cioè incapaci di ragionamento e di logica indipendente dagli oggetti in sé o dalle situazioni magiche e religiose. A tale riguardo viene utilizzato il termine “mentalità” (Corrao, 2004), come dire che se gli uomini si avvalgono della propria mente – che equivale a ragione-ragionamento, logica astrattiva – per realizzare il processo di vita, gli uomini delle società “altre” hanno una diversa mentalità: primitiva appunto, con un sotteso valore di giudizio etico-morale equivalente a “retrograda, attardata” in quanto caratterizzata dall’espressione di un pensiero concreto, manipolatorio e partecipativo. Ma a ben vedere, l’affermazione in sé dell’esistenza di tipi di mentalità è frutto di una teoria paradigmatica che afferma la unilinearità dello sviluppo sociale ed umano, con la conseguente “dottrina” della distanza culturale tra società superiori e società inferiori, del loro diverso livello di cultura. Mi riferisco qui al quadro epistemologico generale all’atto di nascita dell’antropologia come scienza moderna ed in particolare alle teorizzazioni nello specifico di Lucien Lévy-Bruhl negli anni Venti, non ancora totalmente superate dalla nostra cultura. Ma procediamo con ordine, a partire proprio da alcuni padri fondatori dell’antropologia rilevanti ai nostri fini storiografici (Remotti, 1974), e non solo. 252 Modelli della mente e processi di pensiero Già alla fine dell’Ottocento, Émile Durkheim (1898) e Marcel Mauss (1901-1902), nell’interrogarsi sui caratteri impliciti nei processi di classificazione del reale da parte di società “etnologiche”, ritenevano che il processo della classificazione avvenga a partire dalle strutture sociali ed in riferimento a queste, per cui i principi della classificazione fanno sì parte di una cultura, vengono espressi linguisticamente e sono linguisticamente connotati, ma la lingua si limita a registrarli ed a conservarne il ricordo del loro passato che si presenta oggi senza più valore funzionale nell’organizzazione sociale e delle idee. Ancor più, le operazioni logiche, non essendo individuabili se non nelle loro espressioni esterne, mediate dai sistemi di classificazione, fanno parte del rapporto esistente tra rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive, determinando vere e proprie istituzioni sociali, come lo sono gli stessi sistemi di classificazione. Da qui, per Durkheim e Mauss, l’esigenza di ricostruire la tipologia dei sistemi di classificazione che si formano a partire dalla funzione minima e universale delle regole che organizzano le relazioni di parentela all’interno della società e che costituiscono una forma delle relazioni sociali. Anche Franz Boas (1911), agli inizi del Novecento, è interessato alla ricerca del diverso grado di differenziazione e di complessità che caratterizza i molteplici aspetti di una cultura. Il suo presupposto teorico è nello studio del “progresso culturale” concepito non in una prospettiva evoluzionistica, ma come grado di sviluppo di una cultura, come grado di omogeneità interna, come forma storica: ogni cultura si spiega all’interno del suo processo storico che la caratterizza come specifica e la costruisce come totalità non omogenea. La persistenza nelle strutture linguistiche di tali processi ci fa comprendere le forme antiche di pensiero, anche se tra i due livelli delle strutture linguistiche – quello dei suoni e quello delle idee – c’è sempre necessariamente una riduzione attuata tramite il processo della classificazione. I principi di classificazione del reale costituiscono la mediazione tra lingua e pensiero, là dove i processi mentali sono automatici e non razionali, e la classificazione avviene a partire dalle strut- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 253 ture linguistiche ed in termini linguistici: per questo i principi delle diverse classificazioni variano da cultura a cultura, le loro differenze sono irriducibili e, inoltre, non è possibile tentare di coordinarli entro un quadro universale che trascenda le singole culture. Negli anni a partire dal 1910 il contributo agli studi etnologici di Lucien Lévy-Bruhl (1910-35) verte tutto sul rapporto tra le diverse mentalità che sono presenti nell’umanità, alla ricerca dei caratteri specifici della mentalità primitiva. Nelle società primitive il processo di rappresentazione – caratterizzato da indifferenziazione, indifferenza alle cause seconde e impermeabilità all’esperienza – costituisce per Lévy-Bruhl un fenomeno di natura complessa: in esso intervengono, insieme a elementi di carattere intellettuale, altri di carattere emozionale e motorio, senza alcuna distinzione tra loro e configurando un aspetto “mistico” al prodotto del pensiero. Con una formula di sintesi la questione può essere presentata in questi termini: le rappresentazioni stanno alla mentalità primitiva come i concetti alla mentalità occidentale3. La causa di tale differenza non è di origine fisiologica o naturale, ma di ordine mentale e sociale; la differenza è provocata dalle stesse rappresentazioni collettive. Come dire che i primitivi non dispongono di concetti astratti per il carattere in sé della cultura che governa gli individui. Così, ad esempio, per quanto riguarda la numerazione ed il calcolo Lévy-Bruhl (1910: 222-223) afferma che: 3 Al di là dell’attenzione dedicata a Lévy-Bruhl, va anche detto che il pensiero di questo autore a proposito della “mentalità primitiva” non era l’unica teorizzazione a riguardo o, comunque, non era accettata in modo univoco in quegli stessi anni. In proposito vedi tra gli altri, in ordine cronologico: Thurnwald, 1922; Lenoir, 1922; Blondel, 1926; Allier, 1927; Leroy, 1927; Radin, 1927; Van der Leeuw, 1928; Aldrich, 1931. In particolare il pensiero di Gerardus Van der Leeuw è ripreso da James Hillman in Re-visione della psicologia: «Confutare la teoria dell’animismo è fiato sprecato. Non di meno possiamo riconoscerla per quello che è in realtà: un’asserzione psicologica rivelatrice, più che dell’anima dei primitivi, dell’anima primitiva di coloro che scrivono di essi. L’animismo è una descrizione antropologica dell’anima dell’antropologia: “Nella sua struttura e tendenza complessive – dice Van der Leeuw – questa teoria si attaglia molto meglio alla seconda metà del diciannovesimo secolo che non al mondo primitivo”» (Milano, Adelphi, 1983: 48; ed. or. 1975). 254 Modelli della mente e processi di pensiero «La loro mentalità si presta difficoltosamente alle operazioni che non sono loro familiari; ma, con procedimenti che le son propri, riesce ad ottenere, fino ad un certo punto, gli stessi risultati. Dal momento che non scompone le rappresentazioni sintetiche, essa chiede alla memoria uno sforzo ulteriore. Invece dell’astrazione generalizzatrice che ci fornisce i concetti propriamente detti, essa fa uso di un’astrazione che rispetta la specificità degli insiemi costituiti. In breve, conta e calcola in modo che, a paragone del nostro, possiamo chiamare concreto». 3. Al secondo giorno aleggiò lo “spirito”: forme sociali e storicismo L’interesse per il tema della mentalità, e della mentalità primitiva in particolare, ha indirizzato notevolmente il dibattito successivo ed in parte bloccato l’approfondimento del tema secondo altre prospettive; in Italia la lettura critica del pensiero di Lévy-Bruhl e la fondazione di una nuova etnologia è ricercata da Remo Cantoni, Ernesto de Martino e Giuseppe Cocchiara, sia pure con obiettivi e motivi tematici diversi. Siamo negli anni compresi tra il 1941 ed il 1948, tra la seconda guerra mondiale ed i primi anni del dopoguerra, caratterizzati da idealismo crociano ma anche neorealismo, concezione di uno “spirito” unico ma anche scoperta di un mondo sconosciuto e “primitivo” all’interno della nostra stessa società4. Il punto di partenza di de Martino è più generale rispetto al discorso sulla mentalità ed è innovativo rispetto ai quadri concettuali e metodologici della cultura italiana del periodo: è quello di «rivendicare il carattere storico dell’etnologia» contro i limiti imposti dal naturalismo nella ricerca etnologica stessa, «e limitare il procedimento naturalistico all’eurisi filologica» (de Martino, 1941: 7-13, passim). Questa volontà «di liberarsi dalla passività 4 Ricordo qui in proposito che sempre del 1941 è il romanzo di Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli (Torino, Einaudi) e che nel 1953 nasce il confronto sulla rivista «La Lapa», fondata da Eugenio Cirese, intorno alla portata di questa scoperta meridionalista della nostra cultura. M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 255 della metodologia naturalistica» non solo serve a «promuovere, mercé l’etnologia, un allargamento della nostra autocoscienza storica, una migliore determinazione dell’essere e del dover essere della nostra civiltà» ma anche a fondare una scienza che impari a «distinguere la nostra civiltà dalle altre, anche quelle più lontane», riesca a “comprendere” (nel duplice senso di conoscere e contenere) la storia nostra e dell’altro, la differenza tra noi e il cosiddetto mondo primitivo, anche perché parlare di “primitivi” in blocco come di un tutto indiscriminato, e quindi di una “mentalità primitiva”: «è procedimento antistorico per eccellenza […] abbandonando radicalmente il procedimento naturalistico, per effetto del quale non solo si oscura il passaggio e lo svolgimento (tra mentalità primitiva e mentalità culta), ma si cancella altresì il discrimen fra i termini del passaggio stesso e si dissolve ogni storica prospettiva». Ed in questa prospettiva di una nuova etnologia – che è anche prospettiva di «liberazione dalla condanna crociana della sociologia e del folklore […] [e] intento di ampliare, dall’interno, l’orizzonte conoscitivo dello storicismo idealistico», come nota Pietro Clemente (1976: 27) – de Martino5 appronta la critica a tre questioni ereditate complessivamente dall’etnologia francese: l’illusione sociologica della distinzione tra collettività ed individuo, e l’affermazione del potere costrittivo del fatto sociale sull’individuo; l’errore speculativo dello storicizzare categorie ideali, nel cercare una genesi nel tempo di ciò che è una regola interna; l’errore naturalistico del cercare definizioni minime del fatto religioso, una prima forma della religione che sia al tempo stesso una 5 Come ricorda Alberto M. Cirese (1973: 219, 323), E. de Martino diviene negli anni Cinquanta consulente per l’etnologia della “Collezione di studi religiosi, etnologici e psicologici” (detta Collana Viola) dell’editore Einaudi, con la traduzione di autori come L. Lévy-Bruhl, C.G. Jung, K. Kerényi, T. Reik, M. Malinowski, L. Frobenius, J.G. Frazer, M. Eliade, A.E. Jensen, C.R. Aldrich, A.P. Elkin ecc., accanto alla pubblicazione di autori italiani, come lo stesso E. de Martino, e poi G. Cocchiara, R. Pettazzoni, P. Toschi. 256 Modelli della mente e processi di pensiero definizione minima della religione stessa. Di contro de Martino (1941: 57-60 passim) afferma che: «Altro è la ragione altro è l’intelletto, altro la funzione identificante nel suo uso pratico. Nel suo uso logico, la funzione identificante è, insieme, unificante e distinguente, nel senso che l’unità non è fuori della distinzione, ma nesso interno e organico alla distinzione, e che la distinzione non è fuori dell’unità. Nel suo uso pratico, invece, la funzione identificante riesce a una distinzione che è fuori dell’unità e ad un’unità che è fuori della distinzione: il flusso del reale si spezza in una serie di astratte identità, di immobilità giustapposte, simulanti il concreto divenire. La distinzione-unità della funzione identificante concreta non si applica estrinsecamente alla realtà essendo il ritmo immanente del suo sviluppo; le separazioni astratte sono invece schemi dentro i quali il reale viene solidificato, e si applicano ad esso estrinsecamente. La ragione riesce alle forme dello spirito […] l’intelletto riesce a schemi che si decreta comprendere questa o quella porzione finita della realtà e che in quella porzione si esauriscono». Nello stesso 1941 era stato pubblicato anche un altro importante contributo critico per lo sviluppo degli studi antropologici in Italia: è il primo lavoro di Remo Cantoni, scritto nel 1938 come tesi di laurea di filosofia morale con Antonio Banfi: Il pensiero dei primitivi. Preludio a un’antropologia. Anche se l’interesse di Cantoni è all’interno delle scienze umane in generale, per lo studioso affrontare e risolvere la teoria dei fondamenti naturali del “pensiero dei primitivi” è una questione preliminare per uno studio di antropologia e per la riforma del sapere etnologico, ma soprattutto per aprire uno «spiraglio di luce anche nelle regioni, in larga parte ancora misteriose e inesplorate, della vita psichica inconscia» (Cantoni, 1941: 18). Da qui «la discussione filosofica sul significato e sul valore umano e culturale delle civiltà primitive». Infatti (Cantoni, ivi: 15-17 passim), «Ammettendo che il pensiero abbia una origine e lo spirito una storia, quali fonti ci sveleranno il segreto dell’origine? […] L’uomo veramente M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 257 primitivo non vive oggi in alcuna parte del mondo e la ricostruzione della sua personalità sui dati esigui e monchi che ci si offrono di una umanità preistorica, sembra impossibile o si risolve in uno schema generico e fantastico6 […] È lecito, entro certi limiti, prescindere da tali diversità di livello [culturale7] per sottolineare, macroscopicamente, le grandi linee di reale continuità e convergenza che emergono storicamente. […] L’ipotesi di una struttura psichica simile che si ritrova nell’inconscio collettivo dell’uomo moderno e, mutato nomine, nelle culture arcaiche o primitive, serve come feconda ipotesi di lavoro, come stimolante invito a cercare corrispondenza e sopravvivenze. Ma quella ipotesi non è una legge». D’altronde, nota ancora Cantoni (ivi: 21-28 passim), nelle indagini sul pensiero primitivo: «Si è adottato un metodo di riduzione fenomenologia per così dire, che consiste nel fare volutamente astrazione da tutto ciò che spontaneamente e irresistibilmente la nostra cultura di occidentali impregnata di cognizioni scientifiche, di presupposti religiosi e morali, inconsciamente proietta nell’interpretazione dello spirito primitivo. […] Sarebbe semplicistico opporre pensiero primitivo e pensiero civilizzato quasi fossero le due sfere del misticismo e della razionalità […], dell’intuizione e del logos; in primo luogo perché pensiero primitivo e pensiero civilizzato sono due astrazioni, in secondo luogo perché misticismo, vita, intuizione sono denominazioni vaghe che mal racchiudono sia il dato storico che la forma culturale che noi vogliamo porre in luce. […] Il mondo dell’universo, ciò che chiamiamo genericamente la “realtà”, è una costruzione culturale dell’uomo e ha invalicabili dimensioni antropologiche. Il merito della fenomenologia husserliana è appunto quello di avere sottolineato energicamente l’opera e 6 Nota in Cantoni, 29: «cfr. R. Thurnwald, Psychologie des primitiven Menschen, 1922: 149 sg.; F. Gräbner, Das Weltbild der Primitiven, 1924: 14; A. Goldenweiser, Anthropology. An introduction to primitive culture, 1937: 407». 7 Diversità di livello culturale molto forti nel tempo anche di uno stesso spazio, e che «è logico pensare che corrispondano, in quel piano che un marxista definirebbe superstrutturale o ideologico, e che noi possiamo genericamente indicare come dimensione della coscienza» (Cantoni, 1941: 16). 258 Modelli della mente e processi di pensiero la funzione della soggettività nel “costituire” l’esperienza, e nel costituirla secondo una molteplicità di piani e prospettive». Tra i suoi riferimenti filosofici Cantoni evidenzia la fenomenologia husserliana, ma a proposito dell’apporto della filosofia tedesca anche agli studi antropologici, ricordo l’importanza avuta in quegli stessi anni dall’opera di Ernst Cassirer (1923-45), con il duplice valore da una parte di una nuova interpretazione teoretica del problema gnoseologico e dall’altra di elaborazione di una lettura filosofico-storica dello sviluppo della civiltà, imperniata sulla genesi e sulle articolazioni della simbolizzazione come medium – soprattutto nella sua connotazione di segno linguistico – fra la soggettività e l’oggettività. Così lo spostamento di piano dalla rilevazione di verità all’indagine sull’attribuzione di significato, dalla mente “sostanziale” al suo essere “struttura funzionale”, porta Cassirer all’individuazione del simbolo come operatore dell’immaginazione produttiva: non esiste solo la formazione del concetto sulla base del rapporto tra esperienza e categorie dell’intelletto, la preminenza è data al simbolo che attribuisce significato alla realtà in quanto unione tra soggetto ed oggetto, produzione espressiva della mente umana che rende intenzionale l’interpretazione del mondo, la conoscenza stessa. In particolare, nel Saggio sull’uomo, Cassirer (1944: 79-80, 126-127) afferma: «Per così dire l’uomo ha scoperto un modo nuovo di adattarsi all’ambiente. Inserito fra il sistema ricettivo e quello reattivo (ritrovabili in tutte le specie animali), nell’uomo vi è un terzo sistema che si può chiamare sistema simbolico, l’apparizione del quale trasforma tutta la sua situazione esistenziale. […] L’uomo non può più sottrarsi alle condizioni di esistenza che lui stesso si è creato; egli deve conformarsi ad esse. Non vive più in un universo soltanto fisico ma in un universo simbolico. Il linguaggio, il mito, l’arte e la religione fanno parte di questo universo, sono i fili che costituiscono il tessuto simbolico, l’aggrovigliata trama della umana esperienza. Ogni progresso nel campo del pensiero e dell’esperienza rafforza e affina questa rete. L’uomo non si trova più direttamente di fronte alla re- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 259 altà; per così dire egli non può più vederla faccia a faccia. […] Per il pensiero simbolico è indispensabile distinguere nettamente il reale dal possibile, il fattuale dall’ideale. Il simbolo non ha una esistenza fattuale come una parte del mondo materiale; esso ha soltanto un “significato”8. Al pensiero primitivo riesce ancora assai difficile differenziare la sfera dell’essere da quella del significato; queste due sfere vengono continuamente confuse dal primitivo; egli ritiene, ad esempio, che un simbolo sia dotato di poteri magici o fisici. Ma col progredire della cultura, la differenza fra cose e simboli è stata chiaramente avvertita, il che significa che anche la distinzione fra attualità e possibilità si è fatta sempre più netta». Per concludere in Simbolo, mito e cultura (1935-45: 81) che «Lo scopo principale di tutte le forme della cultura consiste precisamente nel compito di edificare un mondo comune del pensiero e del sentimento, un mondo umano che vuol essere koinon kosmon e non un sogno individuale, o una bizzarria o fantasia non meno individuale. Nella costruzione di questo universo della cultura le singole forme della cultura non obbediscono ad uno schema preconcepito o predeterminato, ad uno schema che possa essere descritto una volta per tutte sulla base di un procedimento a priori. Tutto quel che possiamo fare è seguire il lento sviluppo che si manifesta nella storia delle varie forme e indicare, per così dire, le pietre miliari di questo cammino». Alla bibliografia fin qui analizzata vorrei aggiungere un richiamo ad altri autori presenti in questo periodo del secondo dopoguerra in traduzione italiana, come Charles Aldrich (1931) e Adolf Jensen (1948); mentre nel 1948 viene pubblicato il primo volume sull’Africa e l’Australia dell’opera curata da Raffaele Pettazzoni, Miti e leggende, e nel 1950 la traduzione di James G. Frazer, Il ramo d’oro. In particolare Jensen sostiene, come recita de 8 La questione del simbolo nello spostamento di piano dalla rilevazione di verità all’indagine sull’attribuzione di significato richiama anche le ultime proposizioni di Ludwig Wittgenstein nel Tractatus logico-philosophicus, del 1921. 260 Modelli della mente e processi di pensiero Martino nella presentazione dell’opera (Jensen, 1948: 10-16 passim): «un’interna completezza organica della cultura-tipo presa in esame: di qui la critica del carattere prevalentemente statistico della scuola storico-culturale e la critica dell’interpretazione psicologica in fatto di formazioni culturali e le loro interrelazioni, in particolare di Jung e della sua scuola. […] Mito e culto costituiscono momenti inseparabili di un tutto, destinati a servire alla “comprensione” umana di una conoscenza elementare e misteriosa». Al di là delle conclusioni metodologiche, della tendenza a una spiegazione morfologica della civiltà e del fondamentale antistoricismo di Jensen, la «ricostruzione di questa intima logicità e consequenzialità di una cultura primitiva […] sono da ricercarsi nei domini spirituale ed economico» (ibidem: 23) ed è in questo quadro che compito dell’etnologia è la storia dell’umanità. Questa prospettiva è dichiarata fin dall’apertura nell’opera di Jensen con la constatazione che «era palese il fatto che una gran parte dei miti indigeni […], nonostante il loro differente contenuto narrativo, giravano tuttavia intorno alla medesima idea fondamentale» (ibidem). Infine, per le questioni che ci interessano più da vicino, Jensen afferma (ibidem: 25-26): «Senza dubbio il pensiero analitico e quantitativo – e in particolar modo quello causale – è posseduto come attitudine dall’uomo primitivo; tuttavia esso serba nella vita primitiva soltanto una importanza marginale, poiché quegli uomini si volgevano piuttosto con la loro attenzione alla forma del fenomeno – mentre il pensiero scientifico è rivolto costantemente all’analisi di queste forme nelle loro parti componenti, la cui sostanza e modalità è di altra natura e soltanto indirettamente e in modo diverso dall’intuitivo può ricollegarsi con la forma, che ha sempre carattere unitario. Solo un’epoca tarda come la nostra, nella quale il senso del divino del mondo costituisce nel migliore dei casi un’esperienza strettamente privata, poteva avvertire un così profondo abisso di incomprensione di fronte alle forme M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 261 culturali arcaiche. Pertanto, se vogliamo comprenderle, è necessario rivolgerci a quelle sfere della nostra vita in cui proviamo per la realtà un interesse congenere a quello che di fronte a essa provano gli uomini primitivi». Ma la questione della definizione dei caratteri della mentalità primitiva, dei suoi rapporti con la storia, la cultura e la conoscenza non finisce qui; tornerà ancora una volta sotto altre denominazioni e per altre strade da quelle fin qui praticate e predicate. Eliminata l’ambiguità ai termini come “primitivo”, ridimensionata la ricerca di ontologie della mente o del pensiero, il problema si ripone in antropologia con la ricerca sul “pensiero selvaggio” e l’uso di questo termine per indicare forme e modalità di pensiero in sé, nuove ontologie della diversità, mentre la ricerca in altri campi disciplinari, come la psicologia dello sviluppo e gli studi transculturali, vanno proponendo questioni sul rapporto tra ambiente culturale e forme del pensiero, confronti nelle prestazioni cognitive tra società diverse per la ricerca dei caratteri delle abilità individuali; mentre una parte degli studi di linguistica e di filosofia del linguaggio si concentrano sulla definibilità del rapporto tra lingua, pensiero, mente, cultura anche a partire dalla famosa “ipotesi di Sapir-Whorf ”. Ma anche qui andiamo con ordine. 4. Al terzo giorno emerse l’ambiente culturale: apporti diversi agli studi sul pensiero Sotto questo titolo il nostro percorso d’analisi fa riferimento in primo luogo agli studi di psicologia dello sviluppo (J. Piaget, L. Vygotskij, A. Lurija) e di come questi siano stati recepiti in antropologia (D.R. Price-Williams, C.R. Hallpike); in secondo luogo agli studi sullo sviluppo cognitivo a partire dall’analisi pedagogica e dei contesti di apprendimento, con un approfondimento in campo etnografico (J.S. Bruner, M. Cole, D.R. Olson); in terzo luogo agli studi del campo linguistico (B. Whorf, E. Sapir, N. Chomsky). 262 Modelli della mente e processi di pensiero Le coordinate temporali di questa parte di storiografia degli studi vanno dagli anni Cinquanta agli anni Ottanta (anche se i contributi non terminano con questa data), tenendo presente che la prima opera di Jean Piaget pubblicata in italiano nel 1952 è uno studio di carattere introduttivo su Psicologia dell’intelligenza (1947), mentre di Lev S. Vygotskij viene tradotto Pensiero e linguaggio (1956) nel 1966 e per Aleksander R. Lurija bisogna aspettare il 1971 per avere Linguaggio e comportamento (1958). Tutti questi studiosi, al di là delle differenze specifiche nei presupposti e nei metodi, riconoscono alla conoscenza il carattere della sistematicità intrinseca ed alle relazioni tra concetti un’importanza basilare nel processo di costruzione del reale. Secondo l’impostazione di Piaget, lo sviluppo cognitivo risulta un aspetto particolare dell’adattamento generale dell’organismo all’ambiente circostante, un processo in cui né i caratteri ereditari dell’organismo né la struttura dell’ambiente circostante sono di per sé sufficienti a spiegare modelli di crescita dell’organismo. Il pensiero è come un sistema autoregolatore teso al raggiungimento di un equilibrio con l’ambiente mediante la costruzione di rappresentazioni stabili, che trascendono la variabilità e i mutamenti dell’ambiente stesso. L’intelletto è soggetto ad un’organizzazione globale che si sviluppa attraverso il duplice processo di adattamento alla realtà e di assimilazione dell’esperienza alle strutture cognitive già esistenti. Lo sviluppo viene definito come processo dialettico, come equilibrio fra processi di assimilazione dei dati della realtà a strutture mentali già esistenti e processi di adattamento di tali strutture agli aspetti nuovi che la realtà offre. In questo processo la tendenza all’equilibrio e la plasticità delle strutture mentali, che consentono il mantenimento dell’equilibrio, sono ereditarie, innate e comuni a tutti gli individui che vivono in società, mentre le strutture mentali stesse vengono sottoposte ad una trasformazione continua e successiva. Emerge così una visione dinamica dell’intelligenza (senso-motoria, rappresentativa, prelogicapreoperatoria, logica-operatoria, astratta) che si trasforma attra- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 263 verso una serie di stadi di sviluppo corrispondenti ad altrettante forme del conoscere (azione, parola, realismo, operazioni concrete, operazioni formali). Emerge anche una interrelazione tra i due processi di nascita dell’intelligenza e di costruzione del reale, tra sviluppo delle condotte intelligenti in quanto tali e modo in cui queste condotte organizzano la realtà alla quale vengono applicate. Da qui emerge anche vincente la polarità pensiero-realtà, rispetto alla triade pensiero-lingua-realtà, ma senza la riduzione del pensiero a copia della realtà, ed in modo da costituire un approccio soddisfacente rispetto alla complessità del fenomeno studiato. Di contro, per Vygotskij il linguaggio ha una funzione determinante nello sviluppo del pensiero: le funzioni psichiche superiori9 sono per natura mediate da strumenti (strumenti-stimolo), primo fra tutti il linguaggio. Il punto distintivo della storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori è che nell’uomo tale sviluppo si compie contemporaneamente a mutamenti di tipo organico, cioè legati ai processi di crescita e maturazione del suo organismo, concorrendo così alla formazione della sua personalità biologico-sociale: lo sviluppo del linguaggio costituisce un esempio della funzione dei due piani, naturale e culturale. L’uso degli strumenti, inoltre, è indice dell’esistenza di quel “sistema di attività” che caratterizza propriamente l’uomo: mentre l’animale dispone di un insieme di comportamenti o attività condizionati dagli organi propri di ogni specie, l’uomo è in grado di rendere praticamente illimitato il suo “sistema di attività” mediante l’utilizzazione, e in seguito l’invenzione, di sempre 9 Tra le “funzioni psichiche superiori” Vygotskij comprende il pensiero verbale, la memoria lo- gica, la formazione dei concetti, l’attenzione volontaria, la volontà. Da ricordare in proposito che sono proprio queste funzioni psichiche superiori a caratterizzare la specie umana differenziandola sia all’esterno, da altre specie nel loro complesso, sia all’interno come grado di sviluppo tra bambino ed adulto e tra adulti di diversa cultura. «Nel processo di sviluppo storico non sono cambiate le funzioni psicofisiologiche elementari, quanto profondamente e totalmente sono invece mutate le funzioni superiori» (Vygotskij, 1960: 66). 264 Modelli della mente e processi di pensiero nuovi strumenti10. In particolare questi strumenti non sono solo materiali, ma legati anche alla significazione, alla necessità cioè di comunicare anche in assenza degli oggetti e in tempi differiti o anticipatori dell’attualità del presente. Questa forma superiore è mediata dal segno e si distingue sostanzialmente dalle forme naturali di comunicazione da cui scaturisce. Ma questo processo di continua crescita dell’uomo deve essere considerato come risultato di un profondo scambio e apporto con l’ambiente: lo sviluppo delle funzioni psichiche superiori dell’uomo è il frutto di una relazione con gli altri uomini. Noi diventiamo noi stessi attraverso gli altri e ciò non solo riguardo alla personalità nel suo complesso, ma in riferimento ad ogni singola funzione (Vygotskij, 1964: 200): «Tutto ciò che è interno nelle funzioni psichiche superiori è stato in precedenza esterno. Se è vero che il segno è inizialmente uno strumento di comunicazione e che soltanto in seguito diventa un mezzo per regolare il comportamento della persona, è affatto chiaro che lo sviluppo culturale è fondato sull’uso dei segni e che la loro introduzione nel generale sistema del comportamento si è verificato inizialmente in forma sociale, esterna. In via generale potremo dire che le relazioni tra le funzioni psichiche superiori sono state un tempo relazioni fra persone»11. In conclusione, la mediazione tra individuo e cultura è data dallo sviluppo linguistico per il nesso che questo ha con le condizioni socio-culturali e con lo sviluppo mentale. Inoltre, la considerazione del linguaggio come elemento costitutivo dello svi10 Già all’età di sei mesi si può constatare nel bambino la presenza del primo embrionale uso degli strumenti, indice dell’esistenza del “sistema di attività” che caratterizza propriamente l’uomo. «Il sistema di attività del bambino si definisce, in ogni determinata fase, dal grado di sviluppo organico e dal grado della sua capacità di utilizzare gli strumenti» (Vygotskij, 1960: 72). 11 «Il bambino giunge per ultimo alla consapevolezza del proprio gesto. Il suo significato, la sua funzione gli vengono dati inizialmente dalla situazione oggettiva, poi dalle persone che lo circondano... Ogni funzione psichica superiore è stata esterna, perché è stata sociale, prima ancora che interiore, psichica; è stata inizialmente un rapporto sociale tra due persone» (Vygotskij, 1964: 200). M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 265 luppo mentale rende in linea di principio comprensibile come la costruzione di mondi cognitivi a livello individuale sia un processo in cui agiscono fattori socio-storici. Da qui l’importanza attribuita da Vygotskij ai sistemi educativi formali che inducono un tipo di percezione generalizzante (Davydov, 1972) e svolgono, in tal modo, un ruolo decisivo nel far sì che il soggetto diventi cosciente dei propri processi mentali. I concetti scientifici, con il loro sistema gerarchico di interrelazioni, sembrano essere il mezzo attraverso cui si sviluppano per primi la consapevolezza e la padronanza del sé, per trasferirsi più tardi in altri concetti ed in altre aree di pensiero. La coscienza riflessa, la consapevolezza del sé arriva al bambino attraverso i concetti scientifici12. Queste due concezioni dello sviluppo cognitivo nel campo della psicologia, sia genetica che storico-culturale, sono sembrate utili non solo per le indicazioni complessive sulle fasi di costruzione del processo di conoscenza, ma soprattutto per il metodo di costruzione del discorso psicologico, per la traducibilità interscientifica, intersettoriale delle scienze a partire dal modello elaborato: mi riferisco qui agli studi transculturali coordinati da Douglass R. Price-Williams (1969)13 ed alla sintesi prodotta dieci anni dopo da Christopher R. Hallpike in tema di fondamenti del pensiero primitivo (1979). Punto comune tra loro è che le differenze di abilità tra individui, come le differenze di competenza tra culture, sono attribuite a differenze di ordine del pensiero: dato che le competenze e le abilità dipenderebbero essen12 «Un concetto vero e proprio emerge solo quando le caratteristiche astratte sono sintetizzate di nuovo e la sintesi astratta che ne risulta diventa lo strumento principale del pensiero [...] Il ruolo decisivo in questo processo è svolto dalla parola usata deliberatamente per dirigere tutti i processi parziali che portano agli stadi più avanzati della formazione dei concetti [...] Un concetto si forma non già attraverso il gioco delle associazioni, ma attraverso una operazione mentale, cui tutte le funzioni mentali elementari partecipano in una specifica combinazione. Questa operazione è guidata dall’uso delle parole, che servono per concentrare attivamente l’attenzione, astrarre certi tratti, sintetizzarli e simbolizzarli per mezzo di un segno» (Vygotskij, 1964: 66). 13 In campo psicologico questi studi proseguono, su altre basi e con altri risultati, anche in epoca più recente con la traduzione del lavoro di Berry, J.W., Poortinga, Y., Segall, M.H., Dasen, P.R., 1992. 266 Modelli della mente e processi di pensiero zialmente dalle capacità, le società primitive sarebbero legate a “forme concrete” del pensiero. Mi soffermo in particolare sul volume di Christopher R. Hallpike (1979), I fondamenti del pensiero primitivo, anche se ho la netta impressione che questo libro abbia avuto scarsa se non nessuna udienza tra gli etno-antropologi di cultura italiana, mentre registro il dibattito a cui le posizioni teoriche di questo autore hanno dato luogo nelle riviste del nostro settore14, in parte anche precedentemente all’edizione oxfordiana del 1979, a seguito di un primo intervento sull’argomento nella rivista «Man» da parte dello stesso autore nel 197615. Hallpike accetta i presupposti teorici e la metodologia della psicologia genetica di Piaget e li trasferisce in ambito etno-antropologico (Squillacciotti, 1986), cioè trasferisce nello studio del pensiero primitivo metodi e contenuti nati dallo studio dello sviluppo mentale del bambino occidentale16. Da qui può emergere già un primo aspetto della necessità critica riguardo al lavoro di Hallpike: la traducibilità di metodi e principi teorici propri della psicologia nella elaborazione di una teoria antropologica. Da questa impostazione, inoltre, derivano una serie di conseguenze che si ripercuotono sull’intera struttura teorica del lavoro di Hallpike, sia nello stabilire la pertinenza dei dati da analizzare (miti, credenze, comportamenti, codici, ecc.), sia nei presupposti teorici, cioè nella definizione del rapporto tra rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive, conoscenza esplicita e conoscenza implicita, lingua e pensiero, concreto ed astratto, parola e concetto. 14 Per le recensioni all’edizione originale del volume di C.R. Hallpike, vedi: Hicks, D., 1981, «L’Homme», n. 1: 121-122. Southwold, M., 1981, «Man», n. 3: 491-493. Shweder, R.A., 1982, «American Anthropologist», n. 2: 354-366. Non risultano, invece, recensioni all’edizione italiana. 15 Vedi: Hallpike, C.R., Is there a primitive mentality?, «Man», n. 2, 1976: 253-270; e gli interventi a seguire di R. Williams e C.R. Hallpike sul n. 3-4, 1977: 530; N. Warren sul n. 3, 1978: 477-478; R. Williams sul n. 2., 1979: 355; con la replica conclusiva di C.R. Hallpike sul n. 4, 1979: 753-754. 16 Questa impostazione non si limita alle sue implicazioni teoriche, ma ha avuto anche risvolti applicativi nell’intervento scolastico, ad esempio a Panamá, riguardo la teoria dell’apprendimento scolastico nei popoli nativi di quel paese. In proposito vedi Antinori, 1983. M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 267 Pur nell’ambito dei presupposti teorici, ma a parte, per il carattere innovativo del lavoro di Hallpike, è bene anche ricordare qui il rapporto tra posizioni ideologiche e pratica scientifica su un terreno che in ultima analisi risulta pericoloso, quale quello dello studio delle mentalità “altre” o, come preferisce definirle lo stesso Hallpike, “primitive”. Infatti Hallpike per un verso formula delle dichiarazioni teoriche del tutto generali del tipo: l’universalità della mente umana, mentre nella sua pratica scientifica perviene a conclusioni contrastanti con tali affermazioni di principio: la mentalità primitiva si ferma ad un livello inferiore – quello preoperatorio – rispetto alla mentalità logica occidentale. Questo contrasto, a mio avviso, si origina proprio per non aver chiarito sufficientemente i seguenti punti: il rapporto psicologia-antropologia, il rapporto scienza-ideologia, quello schema teorico-dati analizzati e quello bambino occidentale-adulto primitivo17. Ma, al di là della critica specifica, merito del lavoro di Hallpike è di aver attuato il passaggio di oggetto degli studi dalla mentalità primitiva o pensiero primitivo o selvaggio alle forme di ra17 Vediamo in particolare i punti non chiariti da parte di Hallpike: Psicologia/antropologia: il problema della traducibilità delle categorie scientifiche, vale a dire in che maniera il bagaglio teorico-metodologico di una disciplina debba fare i conti con il deposito storico della stessa nella determinazione dei concetti, prima di qualsiasi ipotesi di trasferimento di questi concetti ad altra disciplina (ad esempio il concetto di prelogismo, presente sia in psicologia con Piaget sia in etnologia con Lévy-Bruhl). Tanto più tale interrogativo è importante quanto più ogni disciplina ha oggetti e metodi di studio nati storicamente nel proprio terreno scientifico. Scienza/ideologia: rapporto che può essere inteso come problema della praticabilità scientifica e dell’affermazione dell’universalità della mente umana che, a mio avviso, si esprime qui quasi interamente in termini ideologici, cioè non assunti in forma paradigmatica come ipotesi euristica e dimostrazione da acquisire. Schema teorico/dati analizzati: Hallpike utilizza per la dimostrazione della sua tesi dati empirici funzionali alla conferma di uno schema teorico. Il carattere fondamentale dello schema teorico della psicologia evolutiva piagetiana, ripreso da Hallpike, è di costituirsi come universale e metastorico, mentre il livello della conoscenza antropologica si colloca tutto in una dimensione storicamente determinata e si deve appoggiare ad una teoria che tenga conto e sia in grado di spiegare la storicità delle forme culturali di cui fanno parte le stesse categorie del pensiero. Il contrasto tra i risultati dell’analisi dei dati reperiti e le affermazioni teoriche iniziali sta nel non aver mai definito quale sia la natura e la pertinenza dei dati per una analisi cognitiva in antropologia e quale il processo di validazione dei dati stessi. Bambino occidentale/adulto primitivo: oltre alle implicazioni ideologiche, il fatto di utilizzare nello studio del pensiero primitivo schemi interpretativi nati nello studio sulle forme mentali del 268 Modelli della mente e processi di pensiero gionamento come prodotto cognitivo all’interno delle condizioni storico-ambientali delle culture etnografiche, avanzando una proposta di sistematizzazione di questi studi in termini interdisciplinari in riferimento alle categorie del pensiero individuate come condizione della nostra “specie”: tempo, spazio, numero, colore, relazionalità. Afferma Hallpike che «le rappresentazioni collettive delle società primitive sono conformi ai criteri del pensiero pre-operatorio e che una percentuale notevole degli individui di queste società non sembrano raggiungere il livello delle operazioni concrete». Da qui, in sostanza, “la buona intenzione” di riconoscere che il pensiero primitivo «non è una strana variante di un pensiero diverso dal nostro, piuttosto il pensiero primitivo, nei suoi aspetti collettivi, rappresenta una sistematizzazione elaborata della conoscenza con il sostegno dei processi cognitivi più semplici di quelli utilizzati dagli individui colti della nostra società». Ripetutamente Hallpike sottolinea la continuità tra il nostro pensiero e quello primitivo al di là delle differenze qualitative, pure riconosciute, tra il pensiero pre-operatorio e le operazioni concrete e soprattutto quelle formali: «il pensiero primitivo non è del tutto estraneo al nostro nelle sue caratteristiche di base, ma nella sua forma tipica è più elementare, almeno in termini di sviluppo». Infine Hallpike riporta, in una lista riepilogativa, una serie di proposizioni sui caratteri della mentalità primitiva, caratteri che a questa derivano dal suo rapporto stabilito con il proprio contesto ambientale, in cui l’individuo “aderisce” diventando adulto e che pesano «nell’inibizione dei processi di sviluppo delle operazioni concrete e formali» (Hallpike, 1979: 126-127): bambino comporta il rischio, dal punto di vista dell’analisi scientifica, di ipotizzare società primitive composte da soggetti allo stadio preparatorio. Questo stadio per Piaget corrisponde, nei soggetti della nostra società, all’età inferiore ai sei anni ed è uno stadio riferito esclusivamente allo sviluppo genetico individuale, là dove per genetico intende una forma mentale in relazione al suo sviluppo finale. Le “abilità cognitive” e le “forme mentali” caratteristiche di questo stadio non sembra possano dar luogo a forme sociali e rappresentazioni collettive, anche se di ciò Hallpike non sembra rendersene conto. M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 269 «1. Vi è una rigida associazione delle caratteristiche dell’ambiente naturale in associazioni “globali”. – 2. Vi è un’associazione tra cicli umani e naturali e processi di vita in generale. – 3. I processi naturali e sociali sono resistenti all’analisi causale di tipo meccanicistico, specialmente perché non esistono ancora macchine o strumenti meccanici attraverso i quali si possa apprendere questo tipo di analisi. – 4. Si ha esperienza del mondo naturale solo nella misura in cui tocca l’uomo, e nessun altro oggetto, e di conseguenza le sue proprietà rimangono soggettivizzate e legate agli attributi sensoriali. – 5. È necessario un minimo di progettazione esplicita, di sperimentazione o di misurazione per la maggior parte dei compiti. – 6. Dal punto di vista tecnologico, la serie di problemi è limitata ed essi possono essere risolti con metodi tradizionali. – 7. La tecnologia è integrata con le altre reazioni sociali, quindi è difficile considerare un problema tecnologico semplicemente un problema. – 8. L’educazione avviene attraverso la partecipazione, nel contesto di compiti reali, piuttosto che tramite un’istruzione verbale fuori dal contesto. – 9. Il fare domande e l’anticonformismo sono repressi. – 10. L’individualizzazione dell’esperienza è scarsamente sviluppata e vi è una generale omogeneità di opinioni. – 11. I problemi della vita quotidiana sono principalmente quelli dell’interazione personale dove il pensiero pre-operatorio risulta adeguato. – 12. L’esperienza condivisa e la conoscenza reciproca permettono un largo uso di simbolismi concreti e specifici, proverbi, allusioni, ecc., e impediscono la generalizzazione. – 13. La saggezza proverbiale, in particolare, è refrattaria alla generalizzazione. – 14. Il discutere è informale e incoerente; non vi è alcuna idea di inferenza puramente formale, logica; vi è un rifiuto di ragionare sulla base di supposizioni che non rientrano nell’esperienza individuale. – 15. Molte istituzioni non hanno uno scopo chiaro, essendo basate sullo status piuttosto che sull’accordo, e sono permeate di valori simbolici e morali, contrari all’efficienza e alla progettazione. – 16. Non vi è alcuna esperienza peculiare di sistemi di credenza o di modi di organizzazione sociale alternativi. – 17. L’assenza di litterazione rende impossibile un’analisi delle forme della lingua al di fuori del contesto dell’enunciato, come fenomeno distinto con sue proprie leggi. – 18. La scolarizzazione favorisce il pensiero classificatorio del tipo generalizzante, tassonomico; la 270 Modelli della mente e processi di pensiero ricerca di regole che producono risposte ad una vasta serie di problemi; la consapevolezza della possibilità di regole differenti; la capacità di rendere verbali le ragioni di un giudizio e di ragionare ipoteticamente, indipendentemente dal modo in cui le cose sono in realtà; infine una consapevolezza dei propri processi mentali. – 19. Non vi sono conflitti nei modi di rappresentazione, come li percepisce l’etnografo; ad esempio, fra il significato simbolico e l’esposizione verbale di quel significato. – 20. Vi sono poche occasioni, per gli uomini di elevata intelligenza e di interessi intellettuali, di incontrarsi e discutere insieme». Un secondo filone di studi in questo stesso periodo – ricordo però che i “periodi” sono qui definiti a partire da una funzione euristica che segmenta il processo del tempo – riguarda l’analisi pedagogica e dei contesti di apprendimento, con un evidente riguardo di approfondimento dello sviluppo cognitivo in campo etnografico (J.S. Bruner, M. Cole, D. Olson). Punto di partenza è la cultura, definita in termini di ambiente culturale, al cui interno vengono individuati i processi di sviluppo degli individui: il soggetto viene concepito né in sé, né in una dimensione metastorica ma, al contrario, le abilità cognitive degli individui ed i loro risultati nelle prove d’apprendimento sono commisurate alle competenze culturalmente richieste e storicamente determinate dagli standard raggiunti dalle differenti società. Questo presupposto teorico della scuola di Jerome S. Bruner, diventa con Michael Cole paradigma metodologico (Cole et al., 1971): non si può praticare un’analisi valida per tutte le culture, la ricerca sul campo o in laboratorio non tratta più dell’esistenza di differenze tra individui e tra culture ma, piuttosto, della natura di tali differenze, del metodo e degli assunti per il loro studio18. Come dire che l’evoluzione non ha creato due mentalità, una per i popoli occidentali ed un’altra per tutti gli altri popoli, semmai un diverso sviluppo storico ha determinato e privilegiato diversità di 18 Ricordo che si deve a Michael Cole l’edizione critica in volume di alcuni saggi di Vygotskij in- torno al tema della cognizione come processo storico-culturale (Vygotskij, 1978). M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 271 espressioni cognitive nelle diverse culture nel loro complesso ed è a partire dalle specificità culturali, e non dalle differenze transculturali, che qui si sono affermate certe potenzialità delle forme di espressione del pensiero ed altrove altre. La teoria psicologica delle “capacità”, ancorché valida, non può essere trasferita a livello transculturale in cui invece – e non è mai troppo tardi – è riconosciuto valido il principio della “competenza”. È di certo la competenza culturale a richiedere precise prestazioni ed abilità cognitive, è l’esperienza culturale a determinare le strategie cognitive necessarie e non il contrario, cioè lo sviluppo cognitivo in sé a decidere dove fermarsi o a quale livello far attestare gli individui o una cultura nel suo complesso. In sostanza il punto di partenza è che deve sempre esserci una cultura “in grado di contenere” le relative espressioni cognitive, che vanno quindi comprese e studiate in prima istanza solo e proprio in riferimento alle specificità culturali di cui fanno parte. In questo ambito rientra anche il lavoro di David Olson (1971) sui linguaggi che intervengono nei processi educativi e per gli aspetti che riguardano lo sviluppo cognitivo e la mediazione culturale, cioè sulla fondamentale influenza modellatrice della cultura sui processi cognitivi attraverso l’educazione. I temi centrali dell’indagine di Olson riguardano: il superamento della distinzione tra processi percettivi e processi intellettivi e l’effetto dell’attività esecutiva sulla percezione; l’individuazione del ruolo del medium, come campo esecutivo più o meno determinato culturalmente, e delle specifiche abilità cognitive (quasi tipi diversi di “intelligenza”) che si sviluppano attraverso l’attività del medium; la peculiarità del rapporto tra linguaggio e pensiero, per cui l’istruzione è vista come il mezzo attraverso cui il linguaggio influenza il pensiero; la necessità di identificare le differenze tra linguaggio orale e linguaggio scritto, per interpretare le questioni relative al significato, alla comprensione delle frasi, al ragionamento logico, all’acquisizione del linguaggio; la stretta correlazione che esiste tra le caratteristiche formalizzate del linguaggio 272 Modelli della mente e processi di pensiero scritto e l’istruzione scolastica, nel determinare un particolare tipo di conoscenza della realtà. In particolare, come mette in luce Clotilde Pontecorvo (Cole et al., 1971: 10), una prima questione riguarda la nozione di “schema”: «quale modello schematico di cui si verifica la validità dell’acquisizione di nuove conoscenze, ma che può essere respinto e sostituito con un altro una volta che le anomalie, in un primo momento non rilevabili, risultano con tutta evidenza, via via che lo schema si articola meglio. […] Il bambino o inizia con un modello o si costruisce un modello per affrontare gli eventi ai quali è esposto. All’inizio anomalie lievi non vengono notate cosicché il modello o schema si va articolando attraverso successivi contatti. Quando lo schema è consolidato, si rilevano con evidenza le anomalie. Si rompe allora il paradigma e un altro più adeguato lo sostituisce. Questo processo costruttivo si applica ad ogni tipo di conoscere o di “cognizione”, sia essa percettiva o concettuale [tenendo presente che] è in primo luogo la cultura, nei suoi aspetti più pervasivi, che favorisce un certo tipo di modalità cognitive […] amplificando e potenziando, attraverso i suoi specifici strumenti tecnologici, le capacità cognitive dell’uomo. Ed è questa una seconda questione posta da Olson, come evidenzia ancora Pontecorvo (Cole et al., ivi: 12-15 passim), quando sostiene che: «Le differenze nei processi (percepire, riconoscere, riprodurre) sono introdotte dal medium o campo esecutivo, che implica e richiede alternative e informazioni percettive diverse. Olson così ritiene […] che la percezione e la rappresentazione costituiscano un sistema continuo in cui i processi percettivi vengono via via profondamente modificati dagli atti esecutivi nei diversi media. Il passaggio dai processi percettivi a quelli intellettivi non dipende dallo sviluppo di un nuovo tipo di processo mentale, ma dal modo di guardare al mondo percettivo in rapporto ai nuovi compiti o requisiti richiesti dai nuovi media culturali: l’esperienza che si compie attraverso di essi dà alla mente le sue proprietà peculiari. […] ciò che chiamiamo in- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 273 telligenza è “l’abilità in un medium culturale”. […] La nozione per cui afferrare, camminare, parlare, disegnare, contare erano tutte “attività in un medium” diverso (si specifica ora in) i media sono tutti quegli strumenti che hanno una funzione comunicativa, sono “tecnologie per informare, registrare, partecipare e distribuire simboli, di solito consistenti in una utilizzazione sensoriale ristretta, combinata con una certa strutturazione dell’informazione». Infine, una terza questione riguarda il rapporto tra linguaggio e pensiero, là dove Olson afferma – in evidente sintonia con gli studi di Vygotskij (1956) – che (Cole et al., ivi: 14-15): «La struttura del linguaggio non è la stessa di quella del pensiero […] il linguaggio non influenza l’abilità a compiere discriminazioni o a formare schemi percettivi, né è condizione necessaria per l’origine delle “operazioni” nel bambino. Esso ha però un ruolo centrale nel dirigere l’attenzione a quelle caratteristiche ritenute importanti dalla cultura e nel determinare contenuto e forma dei sistemi concettuali categoriali (oltreché nel facilitare la memorizzazione e la ricodificazione delle informazioni): è attraverso il linguaggio che la cultura in generale, e in modo specifico l’educazione intenzionale, ha in effetto così potente sui nostri sistemi concettuali». Il terzo filone di studi che si intreccia con il nostro obiettivo in questa ricostruzione per aree disciplinari è costituito dal campo della linguistica, con le sue svariate aree tematiche ed applicative. Punto unificante di questi studi, oltre all’interesse di indagine sulla relazione tra linguaggio (verbale) e pensiero, è «la condivisione della fiducia degli antropologi nella “unità psichica del genere umano”, anche se questa conclusione è stata raggiunta attraverso strade assai diverse dalle diverse scuole di linguisti» (Cole et al., ivi: 31). La prima di queste scuole sostiene la relatività linguistica e l’idea, strettamente relazionata a questa, che il linguaggio modelli il pensiero non solo nella sua forma espressiva verbale, ma fi- 274 Modelli della mente e processi di pensiero no a determinarne le sue modalità strutturali. Suoi rappresentanti in questo periodo sono Edward Sapir (1921; 1949) e Benjamin Whorf (1956). In particolare quest’ultimo (Whorf, 1956: 212) sostiene che: «Il sistema linguistico di base (in altri termini, la grammatica) di tutte le lingue non è solo uno strumento di riproduzione che serve a dar voce alle idee, bensì è esso stesso il modellatore delle idee, il programma e la guida dell’attività mentale di una persona, della sua analisi delle impressioni, della sua sintesi del proprio armamentario mentale. La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma è parte di una data grammatica, e differisce, da una grammatica all’altra, di poco o di molto. […] Le categorie e i tipi che isoliamo nel mondo dei fenomeni, non li troviamo lì perché risultano evidenti per qualsiasi osservatore; al contrario, il mondo è rappresentato in un flusso caleidoscopico dalle nostre menti. Ritagliamo la natura, la organizziamo in concetti, e descriviamo i significati in un dato modo e non in un altro in gran parte perché siamo complici di un accordo ad organizzarla in tal modo, accordo che ha un valore nel modello del nostro linguaggio». In tal modo si arriva alla conclusione che la struttura del linguaggio determina la struttura del pensiero e, dato che i processi di pensiero di tutti i popoli sono funzionalmente equivalenti, il comportamento linguistico contiene tali processi che l’analista può disvelare. Mi rendo conto di aver liquidato qui troppo sinteticamente l’argomento, anche perché pagine più precise e profonde sono state già scritte in proposito da Luciano Giannelli, al cui saggio rinvio (Giannelli, Sacco 1999, pp. 69-105). Una seconda scuola si origina dagli studi di Noam Chomsky (1965; 1988; 1990; 2001) e suo punto di partenza è la considerazione che il possesso di un linguaggio è prova sufficiente di un tipo di funzionamento mentale altamente strutturato e che non si può spiegare esclusivamente in base ai principi che sono invece sufficienti a spiegare l’attività animale. Il linguaggio non è un mezzo generale di comunicazione né un meccanismo che ab- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 275 braccia tutti i sistemi di simboli, perché al cuore del linguaggio c’è la proprietà della sintassi, la capacità esclusiva della specie umana di combinare e ricombinare simboli verbali in certi ordini specificabili, per creare un numero potenzialmente infinito di frasi grammaticalmente accettabili. Allora la direzione d’indagine prospettata non è più quella delle differenze cognitive tra gruppi linguistici, ma un’adeguata teoria della cognizione deve tener conto della competenza linguistica del soggetto che, in qualche modo, ingloba la cultura. A conclusione di questo paragrafo, dai molti risvolti disciplinari, almeno un rinvio ad altri studi presenti in questo periodo: studi di socio-linguistica sul confronto di codici e registri della comunicazione linguistica tra diverse classi sociali di Basil Bernstein (1972; 1982), studi di scienze della comunicazione di Marshall McLuhan (1964), di neurobiologia del cervello e filosofia della mente di Julian Jaynes (1976). Mentre una menzione spetta agli studi di ecologia della cultura e della mente di Gregory Bateson (1972; 1979), per gli aspetti che siamo venuti fin qui ricostruendo, come si evince dalle seguenti proposizioni riprese da Giorgio de Michelis (1990: 115-129): «L’informazione, il dar forma, si genera nell’ascolto non nella emissione di un messaggio. L’acquisizione di una informazione è resa possibile dalla disponibilità dell’ascoltatore ad essere perturbato da un evento: questo deve essere perciò contemporaneamente nuovo [per poter informare] ed atteso [per poter essere percepito]. [Il punto è che] l’ascolto è linguistico, che l’ascolto uniforma nel linguaggio le informazioni che percepiamo da eventi linguistici e non linguistici. Esso quindi non avviene all’estremità di un canale, ma piuttosto in un contesto. […] perché l’informazione percepita non è solo quella canalizzata dalla sorgente ma è arricchita nel contesto dell’ascolto». Da qui la definizione di informazione adottata da Bateson: «qualunque differenza che generi una differenza», come dire che per avere un passaggio di informazione, inteso come acqui- 276 Modelli della mente e processi di pensiero sizione di informazione, è necessario che si manifesti una differenza (che appaia cioè un fenomeno atteso e nuovo), e che tale differenza provochi, generi, nell’ascoltatore una differenza, un perturbamento che lo cambia in modo irreversibile. L’acquisizione di una informazione è il manifestarsi di una differenza che provoca nell’ascoltatore una differenza. Con questa premessa poi Bateson caratterizza il concetto di “una mente” attraverso una serie di criteri di identificazione che esplicitano la irriducibilità dell’individuo (della mente individuale) agli eventi da cui è perturbato, e l’irriducibilità di tali eventi all’esperienza che ne ha la mente: 1) Una mente è un aggregato di parti o componenti interagenti; 2) L’interazione fra le parti della mente è attivata dalla differenza; 3) Il processo mentale richiede una energia collaterale; 4) Il processo mentale richiede catene di determinazione circolari (o più complesse); 5) Nel processo mentale gli effetti della differenza devono essere considerati come trasformate (cioè versioni codificate) di eventi che li hanno preceduti; 6) La descrizione e la classificazione di questi processi di trasformazione rivelano una gerarchia di tipi logici immanenti ai fenomeni. 5. Al quarto giorno apparvero nuove ontologie della diversità: pensiero selvaggio e morte del primitivo Per ripercorrere questo campo, dobbiamo apparentemente fare un passo indietro nel tempo rispetto al punto di arrivo delle questioni precedenti. Ma è come se percorressimo per ognuno di questi temi i raggi “temporali” di un cerchio al cui centro è collocato l’uomo oggetto di studio di molte discipline, scienze e teorie. E qui punto di riferimento è l’edizione italiana del 1964 de Il pensiero selvaggio di Claude Lévi-Strauss ed in particolare il suo saggio La scienza del concreto, in cui a partire dalla questione dei caratteri costituitivi del pensiero riguardo la differenza tra scienza M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 277 e magia, arriva a confronti più complessi quali il rapporto tra mito e scienza lungo l’asse percetti-concetti, concetto-segno, evento-struttura, necessità-contingenza, arte-mito, gioco-rito. Lévi-Strauss afferma che qualunque pensiero ha dietro di sé e presuppone un criterio ordinativo, tanto più alla luce della considerazione elementare che «un criterio ordinativo, qualunque esso sia, ha sempre un valore rispetto all’assenza di ogni ordinamento» (Lévi-Strauss, 1962: 22). Allora non esisterebbe una differenza di pensiero come qualità, grado o pertinenza logica, perché la differenza di pensiero, da questo punto di vista, sarebbe una differenza tra i principi dei criteri ordinativi, oltre che una differenza tra i criteri stessi. Ma qui sorgono già i primi interrogativi: in primo luogo questa differenza, se non è una differenza di pensiero in sé, a che ordine appartiene? Appartiene forse all’ordine delle forme di espressione del pensiero comunque attivate da una stessa logica interna, implicita e che non si palesa in maniera isomorfa alle manifestazioni o prodotti del pensiero stesso? E in secondo luogo e dallo stesso punto di vista, la differenza di pensiero è forse una differenza di campi cui si concatenano questi principi o criteri (rito, lingua, inconscio ecc.) a seconda che siano prevalenti le forme del conoscere che chiamiamo scienza e/o magia? Le risposte di Lévi-Strauss sono sostanzialmente in questa sequenza tratta da Il pensiero selvaggio (ivi: 24-29 passim): «Sotto questo aspetto, la differenza principale tra scienza e magia andrebbe dunque ricercata nel fatto che l’una postula un determinismo globale e integrale, mentre l’altra opera su piani distinti, di cui alcuni soltanto ammettono forme di determinismo considerate invece applicabili ad altri livelli. […] domandarci se il rigore e la precisione cui danno prova il pensiero magico e le pratiche rituali, non siano da ritenersi manifestazioni di un’apprensione inconscia della verità del determinismo, inteso come condizione d’esistenza dei fenomeni scientifici, così che il determinismo verrebbe ad essere globalmente presente e vissuto, prima di essere conosciuto e rispettato. I riti e le credenze magiche apparirebbero allora quali espressio- 278 Modelli della mente e processi di pensiero ni di un atto di fede di una scienza che deve ancora nascere. [È l’idea di anticipazione] in rapporto alla scienza stessa e a metodi o risultati che la scienza assimilerà solo in una fase progredita del suo sviluppo. Il pensiero magico non è un principio, uno spunto o un abbozzo, la parte di un tutto ancora in via di realizzazione, ma un sistema ben articolato, indipendente, per questo rispetto, da quell’altro sistema che la scienza sta costruendo, salvo un rapporto di analogia formale che fa del primo una sorta di espressione metaforica del secondo. Invece di contrapporre magia e scienza, meglio sarebbe metterle a confronto come due metodi di conoscenza, diseguali nei risultati teorici e pratici […] ma non rispetto al genere d’operazioni mentali che entrambe presuppongono e che differiscono meno in natura che non in funzione dei tipi di fenomeni a cui esse si applicano. L’esistenza di due diverse forme di pensiero scientifico, funzioni certamente non di due fasi diseguali dello sviluppo umano dello spirito umano, ma dei due livelli strategici in cui la natura si lascia aggredire dalla conoscenza scientifica: l’uno approssimativamente legato a quello della percezione e dell’intuizione, l’altro spostato di piano; come se i rapporti necessari che costituiscono l’oggetto di ogni scienza, neolitica o moderna che sia, fossero raggiungibili attraverso due diverse strade, l’una prossima alla intuizione sensibile, l’altra più discosta. Qualsiasi ordinamento è sempre superiore al caso; anche una classificazione elaborata a livello delle proprietà sensibili è una tappa verso un ordine razionale. […] possibilità di organizzare e di sfruttare speculativamente il mondo sensibile in termini di sensibile. Proprio per sua essenza, questa scienza del concreto doveva limitarsi a risultati diversi da quelli destinati alle scienze esatte e naturali, ma non per questo essa fu meno scientifica e i suoi risultati meno reali». A chiarimento dello specifico ambito levistraussiano di tali risoluzioni è bene ricordare che questa costruzione, pur partendo dalla considerazione di una differenza di pensiero in certa misura relativa ad ambiti funzionali e non di astrattezza logica della formulazione del pensiero, vuole individuare le applicazioni dello “spirito” nelle diverse forme di scienza e rito, più che di una iniziale questione dei caratteri in sé del pensiero, vuole indi- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 279 viduare la portata di un’analisi semio-strutturale per l’individuazione di un metodo d’analisi, più che evidenziare la differenza tra funzioni ed ontologie. Ci troviamo qui di fronte a quella che Lévi-Strauss ha chiamato «una logica originale, espressione diretta della struttura dello spirito e dietro lo spirito, indubbiamente, del cervello» (Lévi-Strauss, 1964: 127; anche 1962: 291). Ma, in ultima analisi, le ontologie del pensiero vengono riproposte dal gioco del metodo, valido in sé e non relativamente agli oggetti che intende raggruppare in universi euristici, anche se – come ha notato Howard Gardner (1973: 207-208) – l’analisi di Lévi-Strauss non è del tutto indifferente ai contenuti della cultura e della cognizione. In proposito Luisa Moruzzi (1991: 1517) evidenzia: «La logica con cui l’inconscio struttura la realtà si serve di qualità sensibili che non sono realmente arbitrarie, dato che sono quelle “buone da pensare”, e cioè atte a esprimere opposizioni, prima fra tutte quella tra Natura e Cultura. Le informazioni percettuali estratte dall’ambiente seguono alcune linee predeterminate. Ciò è possibile in quanto l’esperienza sensoriale, la percezione delle cose, obbediscono esse stesse a leggi strutturali definite: tra attività sensoriale e attività mentale esiste una profonda affinità. I sensi iniziano già un’attività strutturale che lo “spirito” – e il cervello con la cui attività lo spirito coincide – prosegue». Nel rapporto tra noi e l’altro, nella stessa definibilità del pensiero dell’altro, una posizione più radicale è quella rappresentata da Rodney Needham (1972) che, come nota ancora Moruzzi (ivi: 155-156): «sostiene la propria posizione rifacendosi all’assunto di Wittgenstein per il quale pensiero, linguaggio e realtà costituiscono una totalità solidale, che si modula nelle specifiche circostanze via via che ciascun atto linguistico o concettuale viene a prodursi. Da qui, per Needham, nasce manifestamente la contraddizione in cui cade l’etnologo quando pretende di far uso delle proprie categorie linguistiche e concettuali per interpretare 280 Modelli della mente e processi di pensiero sistemi culturali diversi dal proprio. Quando l’antropologo fa ricorso a nozioni che appartengono al suo corredo culturale (ricorrendo ad esempio a concetti lessicali come quelli di “credenza” o di “esperienza”) mostra supporre che l’esperienza, definita dal modo in cui in un preciso contesto il soggetto e la realtà interagiscono fra loro, assume per tutti gli uomini una stessa forma e che quindi sia mutuamente traducibile da una lingua all’altra. Ma dietro la loro diversità i linguaggi non tradiscono le medesime “cose” cui rifarsi universalmente poiché è il linguaggio stesso a definire sia i modi della loro percezione che la loro area semantico-concettuale, quindi a deciderne il loro vario statuto. […] compito dell’analisi antropologica sarebbe quindi per Needham quello di restituire l’unità sistemica che sta dietro i vari modi di articolare la realtà considerando contemporaneamente i tre livelli del linguaggio, dell’esperienza e della concettualizzazione». Gli studi sull’ambiente culturale e le forme del pensiero sembrano essere passati invano soprattutto riguardo le implicazioni dei diversi sistemi di credenze e classificazione. Se consideriamo poi quanto sono venuto finora presentando, al di là della sua suddivisione in paragrafi, è spontanea l’impressione di assistere qui ad un apparente paradosso al momento dell’antropologia levistraussiana: la faticosa messa a fuoco dell’importanza dell’ambiente culturale nella definibilità del contesto socio-storico al cui interno poter leggere comportamenti mentali, processi di pensiero e forme sociali, portata avanti con il contributo di altre scienze umane e sociali e che è comparsa da ultimo anche in antropologia, sembra venir arrestata da uno spostamento di piano con una ripetuta e rinnovata affermazione della preminenza dello “spirito” già messo fuori causa nello storicismo dalla etnografia transculturale e storico-culturale (Cole, 1971: 23). Eppure già nelle discipline antropologiche si erano diffuse prospettive storiografiche sul concetto di cultura (Rossi, 1970; Kluckhohn e Kroeber, 1952, trad. it. 1972) che avevano costretto gli studiosi alla ricerca di una pratica etnografica conforme al principio delle forme storiche dell’agire umano e che si trovava- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 281 no a disagio di fronte ad un “pensiero selvaggio”, comunque dichiarato; o che avevano portato altri studiosi alla teorizzazione dell’incomunicabilità transculturale di contro la prospettiva esistenzialista ed alternativa (se non rivoluzionaria) davanti a I dannati della Terra, sia nella versione testuale di Franz Fanon che cinematografica di Valentino Orsini, che dichiara la “morte del primitivo” e l’entrata dei popoli oppressi nella scena storica mondiale con la loro rivolta anti-coloniale… come dire: nella storia non ci sono ontologie e non possono rinascere per effetti metodologici, piuttosto la verifica epistemologica lavori al confine tra le scienze, come tra antropologia e marxismo19. Per strade e campi diversi ricordo, a partire da questo periodo ed in questo ambito, almeno le seguenti figure di studiosi: Alberto Cirese, Vittorio Lanternari, Francesco Remotti, Michel Foucault, Maurice Godelier, Marshall Sahlins, Edmund Leach, Jack Goody, Maurice Bloch, per arrivare poi alla generazione successiva di ricercatori ai cui lavori, comunque riferiti qui in bibliografia, rimando direttamente e attraverso il paragrafo successivo anche in termini di periodo cronologico. 19 Sul rapporto antropologia-marxismo vedi: Cirese, A.M., 1972, Folklore e antropologia tra storicismo e marxismo, Palermo, Palumbo; AA.VV, 1980, Orientamenti marxisti e studi antropologici italiani. Problemi e dibattiti, a cura di Puccini, S., Padiglione,V., Sobrero, A.M., Squillacciotti, M., Quaderni di «Problemi del Socialismo», Milano, Franco Angeli. Inoltre, negli anni a cavallo tra la fine del 1970 e la metà del 1980, si assiste in Italia ad un vivace dibattito iniziato da Francesco Remotti a seguito del seminario sul tema svoltosi presso la Fondazione Gian Giacomo Feltrinelli di Milano nel 1977, e le recensioni di Alberto M. Sobrero e di Luigi Lobardi Satriani sull’iniziativa milanese. I riferimenti bibliografici sono: Sobrero, A., 1977, “Cultura”: quali sono i contenuti del concetto?, «Rinascita», n. 41, 21 ottobre: 42-43; Lombardi Satriani, L.M., 1977, Marx e l’antropologo, «Corriere della Sera», 4 ottobre: 3; Remotti, F., 1978, Tendenze autarchiche nell’antropologia culturale italiana, «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 2: 183-226; Signorelli, A., 1980, Antropologia, culturologia, marxismo, ibidem, n. 1: 97-116; Parisi, D., 1980, Ancora su antropologia culturale e marxismo, ibidem, n. 3: 471-476; Tentori, T., 1984, Sull’antropologia culturale e le scienze antropologiche, ibidem, n. 4: 607-611; Remotti, F., 1985, Quale senso per l’antropologia culturale, ibidem, n. 2: 261-306. Il saggio iniziale di F. Remotti è ora pubblicato con lo stesso titolo in id., 1986, Antenati e antagonisti. Consensi e dissensi in antropologia culturale, Bologna, il Mulino: 277-333. L’intervento di Sombrero vede anche una lettera al direttore di Rossetti, C., 1977, Come scrivere un resoconto, «Rinascita», n. 48, 9 dicembre: 38-39 ed una risposta di Sobrero, A., 1977, Ancora sul Seminario della Feltrinelli, «Rinascita», n. 50-51, 23 dicembre: 47. 282 Modelli della mente e processi di pensiero Per una qualche risposta specifica sui fondamenti del “pensiero selvaggio” un merito va in questo periodo attribuito agli studi di Maurice Godelier (1973) riguardo al rapporto tra pensiero mitico, società primitiva e storia; come agli studi di Edmund Leach (1976) sulla logica della connessione simbolica20 e di Jack Goody (1977) sull’addomesticamento del pensiero selvaggio e l’intellettualità nelle società etnografiche21. Almeno un’introduzione può essere fatta alla questione evidenziando qui il contributo di Maurice Godelier (1973). Premesso che, secondo un’analisi strutturalista: «Ridotto solo a questi caratteri astratti, che appartengono alla forma del discorso mitico e alle proprietà formali delle realtà ideali che lo popolano 20 «Il centro della mia argomentazione è che la comunicazione non verbale è recepita comunemente nella stessa maniera con cui il direttore di un’orchestra trasmette l’informazione musicale ai suoi ascoltatori, e non nella maniera con cui lo scrittore di un libro trasmette informazione verbale ai suoi lettori. Ne deriva come conseguenza principale che segni e simboli trasmettono significato in combinazione e non appunto come insiemi di segni binari in sequenza lineare o come insiemi di simboli metaforici in associazione paradigmatica. Oppure, considerando la stessa questione in maniera differente, dobbiamo conoscere molto circa il contesto culturale, la composizione dell’azione, prima ancora di poter incominciare a decodificare il messaggio» (Leach, 1976: 128). Ancora: «La cultura è direttamente segmentabile (e quindi immediatamente codificabile) fin tanto che esiste nella mente sotto forma di concetti verbali; gran parte di essa non è direttamente segmentabile (e quindi non direttamente codificabile), quando si manifesta sotto forma di cose ed azioni nel mondo. I concetti di cultura “nella mente” sono in rapporto dialettico con le manifestazioni di cultura “nel mondo”» (Leach, 1978: 255). 21 «Parlare di sviluppo del pensiero astratto dalla scienza del concreto, di passaggio dai segni ai concetti, di abbandono dell’intuizione, immaginazione e percezione, significa ricorrere a mezzi poco più che rozzi per valutare in termini generali i processi implicati nella crescita cumulativa della conoscenza sistematica, una crescita che comporta complesse operazioni di apprendimento (oltre a balzi immaginativi) e che dipende in maniera decisiva dalla presenza del libro. […] Il passaggio dalla scienza del concreto a quella dell’astratto, in altre parole lo sviluppo di concetti e formulazioni di tipo sempre più astratto (fianco a fianco con quelli di tipo concreto), non può comprendersi che in base ai cambiamenti fondamentali avvenuti nella natura della comunicazione umana. Così possiamo evitare, non solo la “grande dicotomia”, ma anche il relativismo diffuso che rifiuta di ammettere le differenze nel lungo periodo e considera ogni “cultura” come una cosa a sé stante, come una legge in sé. Questo, a un livello. Ma ciò non è tutto quanto c’è da dire su qualunque insieme di relazioni, per quanto se ne possano chiaramente definire i confini. L’insieme esiste nel contesto di una costellazione specifica di rapporti di produzione e di un particolare livello di acquisizione tecnologica. La tecnologia, che crea possibilità e impone limiti a un vasto campo di interazione sociale, si trasforma, nel corso della storia umana, nella stessa direzione generale» (Godelier, 1977: 173-174). M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 283 (rappresentazione della cause prime sotto forma di personaggi-principî analoghi all’uomo ma a lui superiori, ecc.), il mito baruya potrebbe essere confrontato con quelli di molti altri popoli, a condizione che se ne prenda in considerazione soltanto la forma astratta». Godelier (1973: 345-361) si domanda quale sia l’origine ed il fondamento «della comune presenza di questi caratteri formali, astratti, del discorso e delle idealità mitiche che appartengono all’ideologia di società che differiscono profondamente per la loro ecologia, la loro economia, la loro organizzazione sociale», che differiscono per la loro realtà storica. Questo interrogativo rimanda ad un’altra domanda che apparentemente sembra rovesciare i termini della questione levistraussiana: non è più la struttura, individuata in sé a partire dal metodo, a contenere e definire la realtà, ma sono le condizioni storiche entro cui operano gli uomini il punto di partenza della individualibilità stessa dei caratteri formali e di pertinenza dell’oggetto in analisi, per dirla con una citazione: «Come potrebbero realtà storiche diverse spiegare queste comuni proprietà formali?». Ed in questa prospettiva, Godelier chiarisce che in primo luogo si tratta qui di “forme”, cioè di modalità espressive ed organizzative e non di caratteri; in secondo luogo che il legame interno fra forme del pensiero mitico e forme della società primitiva, «non può essere dedotta dalle categorie “pure” del pensiero selvaggio o avere la sua origine nella natura, ma il fondamento si trova nella struttura stessa delle società primitive» che elaborano e si avvalgono di un pensiero che «pensa la realtà per analogia», là dove «L’analogia è al tempo stesso un modo di parlare e un modo di pensare, una logica che s’esprime nelle forme della metafora e della metonimia. Ragionare per analogia significa affermare una relazione di equivalenza tra oggetti (materiali o ideali), comportamenti, relazioni tra oggetti, relazioni tra relazioni, ecc. Un ragionamento analogico è orientato. […] manifesta la capacità teorica del pensiero che ragiona per analogia di scoprire equivalenze tra tutti gli aspetti e i livelli della realtà naturale o sociale». 284 Modelli della mente e processi di pensiero E da qui il riconoscimento del carattere storico-sociale del pensiero e della sua strategia “logica” perché il pensiero fonda al contempo una teoria ed una pratica, una forma di conoscenza (rappresentazione e spiegazione) e di trasformazione del mondo (organizzazione sociale e produzione), al di là degli specifici effetti del pensiero analogico sul contenuto delle sue rappresentazioni. Ma perché nascano “le rappresentazioni mitiche del reale” occorre «una condizione supplementare, l’intervento di un altro meccanismo […] e questo meccanismo ha il suo fondamento nell’uomo stesso» e si manifesta con «l’applicazione di principi formali e regole operative» come condizioni «di ogni ragionamento dimostrativo che si spieghi in un discorso concatenato e coerente, qualunque sia il suo contenuto, mitico, religioso, filosofico o scientifico». Come dire, in conclusione, che: «Il pensiero allo stato selvaggio e quello scientifico non sono dunque “due stadi diversi dello sviluppo della mente umana”, poiché il pensiero allo stato selvaggio, la mente nella sua struttura formale, non ha sviluppo e opera in tutte le epoche e su tutti i materiali che gli fornisce la storia. Non v’è progresso dello Spirito, ma delle conoscenze. Detto ciò, sarebbe sbagliato identificare completamente o ridurre interamente il pensiero dei selvaggi al pensiero selvaggio». 6. Al quinto giorno si affermarono le categorie del pensiero: etnoscienza ed antropologia simbolica Con l’avvicinarsi del nostro percorso al periodo contemporaneo diventa difficile isolare rigidamente la produzione antropologica in lingua italiana dall’editoria in lingua originale perché per un verso si registra la proliferazione di temi specifici d’analisi all’interno dell’ormai vasto campo dell’antropologia cognitiva e, per un altro verso, si assiste alla costituzione di un circuito di produzione di idee e di ricerche al cui interno la saggistica si rimanda reciprocamente (Putman, 1975; Gardner, 1983; Johnson-Laird, M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 285 1983, 1988). I due argomenti sono comunque interconnessi e si riferiscono all’affermazione di campi come l’etnoscienza (Cardona, 1985a, 1985b) e l’antropologia simbolica (Douglas, 1970a, 1970b; Hugh-Jones, 1979); ad analisi su temi legati alle singole categorie del pensiero di tempo, spazio, numero, colore, logica delle relazioni (Pignato, 1987b; La Cecla, 1987; Gnerre, 1987; Cardona, 1980, 1987; Giannattasio, 1987; Squillacciotti, 1986, 1994, 1995, 1996a, 1996b, 2004, 2006); a riflessioni sulla storiografia della scienza antropologica (Mancini, 1989; Moruzzi 1991) come sui limiti e sulle questioni di epistemologia della cognizione e del simbolismo (Sperber, 1974, 1982, 1996); a generosi e originali tentativi di trasferimenti interdisciplinari di acquisizioni circa la dimensione cognitiva della specie umana (Dobzhansky, 1962; Leroi-Gourhan, 1964; Lorenz, 1965; Geertz, 1973, 2000; Sahlins, 1977; Cirese, 1984; Turner, 1986; Angioni, 1986; Tattersall, 2002; Ingold, 2004; Cavalli Sforza, 2004). Per ognuno di queste affermazioni esistono consistenti riferimenti bibliografici in lingua italiana, come di questa koiné antropologica, fatta anche di amicizie personali, di dibattiti a distanza, di seminari interdisciplinari. Non di tutto posso qui rendere conto, ma intanto mi preme sottolineare questa nuova dimensione del fare scienza in antropologia e nelle scienze cognitive, anche se la dimensione cronologica di tutto ciò ha in parte origini precedenti questa periodizzazione della contemporaneità (Sperber, 1974; Cardona, 1985a) e, da ultimo, si lega in maniera consistente al consolidato assetto universitario delle discipline demo-etno-antropologiche ed allo sbocco nei nuovi dottorati di ricerca anche del campo misto e vasto denominato Scienze Cognitive o Studi sulla Rappresentazione, di questi ultimi anni. Nodo cruciale e trasversale a tutto questo, nel raffronto tra prospettive d’analisi, risulta essere un aggiornamento della “ipotesi di Sapir-Whorf ”: il rapporto tra categorie di lingua e categorie del pensiero. Da una parte l’affermazione dell’autonomia e della specificità del pensiero rispetto alle forme della sua espressione, per la necessità di salvaguardarne il suo “grado zero” ed 286 Modelli della mente e processi di pensiero individuarne la determinante culturale delle forme di espressione (Cardona, 1980; Squillacciotti, 1986, 1994, 1995, 1996b, 1998a, 2000a, 2004). In sostanza, la cognizione viene definita come attività logica di presa di possesso del mondo e delle relazioni, strutturazione di significati simbolici anche prelinguistici. Dall’altra la tendenza di quanti ancora vedono il pensiero come epifenomeno della lingua e di quanti determinano il pensiero nei termini del linguaggio da questo utilizzato in un tipo della sua espressione (ridotto poi in genere alla lingua verbale). Da qui anche alcune pretese universalistiche alla luce della funzione comunicativa e pervasiva della lingua come codice di strutturazione del pensiero. Tutto ciò ricorda le fatiche di Durkheim contro i sostenitori della coscienza come epifenomeno della vita fisica e contro i riduzionisti delle rappresentazioni e dei fatti sociali a rappresentazioni individuali e della vita psichica (Durkheim, 1898). Campi applicativi e di confronto tra queste due prospettive divengono le analisi etno-cognitive sugli specifici codici, categorie e temi dell’espressione del pensiero, primo tra tutte il rapporto oralità-scrittura, poi il colore, i sistemi di numerazione, il tempo, la visione, ecc.; e pur sempre con quella interdisciplinarietà e scambio intellettuale di cui dicevo prima. Al di là degli studi classici sulla “questione omerica” e i caratteri della narrativa orale, l’analisi del rapporto tra i due codici dell’oralità e della scrittura ha avuto un interessante impulso in direzione etno-comparativa grazie agli studi di Walter Ong e Jack Goody, ma non solo (Cardona, 1981; Goody, Watt, 1962-63; Ong, 1967, 1982; Goody, 1977, 1987; Olson, 1979; Olson, Torrance, 1991; Squillacciotti, 1986, 1998a, 2000a,). Pur riconoscendo entrambi l’importanza della scrittura nella formalizzazione del ragionamento, i due studiosi insistono su aspetti e implicazioni diverse rispetto ai presupposti sociali ed agli effetti cognitivi dell’uso dei due codici. Infatti da una parte Ong vede il sistema di scrittura non come semplice strumento di transcodifica di un linguaggio in un altro, ma come forma di comunicazione che modifica conseguentemente i processi di pensiero al M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 287 punto che una cultura scritta si divarica dalla sua precedente fase orale, costituendo processi e acquisendo forme cognitive totalmente altre e dominanti sulla cultura a oralità primaria. Riguardo alla scrittura, Ong afferma che «non si tratta di una semplice appendice del discorso orale, poiché trasportando il discorso dal mondo orale-aurale a una nuova dimensione del sensorio, quella della vista, la scrittura trasforma al tempo stesso discorso e pensiero» (Ong, 1982: 126). Dall’altra Goody concepisce la scrittura come tecnologia dell’intelletto, cioè come espressione di competenza cognitiva e sociale connessa all’operazione di traduzione tra codici senza determinanti rispetto al pensiero in sé: «la natura intrinseca del ragionamento formale non è un’abilità generale ma una competenza altamente specifica, che dipende in modo critico dall’esistenza della scrittura e di una tradizione scritta che aiuta la formalizzazione dei procedimenti intellettuali» (Goody, 1987: 265). Ma vediamo più da vicino queste due tesi. Walter Ong parte dal riconoscimento che una cultura a oralità primaria trasmette la conoscenza attraverso la “parola parlata”, cioè attraverso il suono, mentre le culture letterate lo fanno principalmente attraverso la parola scritta, che è racchiusa in uno spazio e percepita dalla vista. E osserva che la cultura orale non ha documenti, ma una memoria ed espedienti per ricordare e far ricordare: una certa organizzazione del discorso (temi fissi, formule, proverbi, andamento ritmico, ecc.), un tipo particolare di discorsi (narrativo), una determinata schematizzazione caratteriale (personaggi “forti”, tipi). E questa non è solo una prassi discorsiva, ma è al tempo stesso una caratteristica cognitiva (1982: 6579). D’altronde, per converso, «chi ha interiorizzato la scrittura, non solo scrive, ma parla anche in modo diverso, organizza cioè persino la propria espressione orale in ragionamenti e forme verbali che non conoscerebbe se non sapesse scrivere» (ivi: 88) e questo perché «la scrittura dà il senso delle singole parole come entità separate, essa è dieretica, separatrice» (ivi: 93). Per Ong, quindi, è proprio la caratteristica tecnica dei due diversi codici a strutturare diverse forme di pensiero (ivi: 195-196): 288 Modelli della mente e processi di pensiero «La vista isola gli elementi, l’udito li unifica. Mentre la vista pone l’osservatore al di fuori di ciò che vede, a distanza, il suono fluisce verso l’ascoltatore. A differenza della vista, che seziona, l’udito è dunque un senso che unifica. L’ideale visivo è la chiarezza, la nettezza dei contorni, la possibilità di scindere in componenti... quello uditivo è, al contrario, armonia, unificazione». Sono proprio queste differenze tecniche tra i due codici ad aver fatto sì che, nella storia dell’evoluzione umana (ivi: 119): «La scrittura ha trasformato la mente umana più di qualsiasi altra invenzione. Essa crea ciò che è stato definito un linguaggio “decontestualizzato” (E.D. Hirsch), o una forma di comunicazione verbale “autonoma” (D.R. Olson), vale a dire un tipo di discorso che, a differenza di quello orale, non può essere immediatamente discusso con il suo autore, poiché ha perso contatto con esso». Ma questo non significa, comunque, per Ong (ivi: 88) che: «le popolazioni a cultura orale non siano intelligenti, che i loro processi mentali siano “rozzi” […]. E neppure si deve immaginare che il pensiero a base orale sia “prelogico” o “illogico” in senso semplicistico, ad esempio, nel senso che gli analfabeti non capiscono le relazioni di causalità. […] non sono in grado di organizzare elaborate concatenazioni causali nel modo analitico delle sequenze lineari, le quali possono essere stabilite soltanto con l’aiuto dei testi scritti». Alla definizione di scrittura come tecnologia dell’intelletto Jack Goody affida il compito di confutare l’ipotesi che gli individui delle società primitive non giungano a uno stadio di sviluppo superiore a quello delle operazioni concrete. In questa prospettiva, lo studioso (1987: 265) afferma che: «le abilità di base, in senso psico-genetico, permangono inalterate, per quanto non possa escludere che, come avviene con il linguaggio, esse pos- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 289 sano essere influenzate nel corso del tempo da ulteriori cambiamenti nei mezzi di comunicazione. Ma la scrittura ci mette dinanzi a uno strumento in grado di trasformare le nostre operazioni intellettuali dall’interno; non si tratta semplicemente di competenza, in senso stretto, ma di un cambiamento nelle capacità. Ora la capacità dipende dall’interazione tra gli individui e gli oggetti, mediata dalla scrittura, per cui in molti casi non è possibile “simularla” in base a test che riguardano abilità di carattere generale (per esempio, il ragionamento astratto e la memoria) laddove si tratta invece di competenze altamente specifiche». Con ciò Goody individua i meccanismi in base ai quali la scrittura può stimolare mutamenti a livello della categorizzazione attraverso due suoi aspetti tecnici mediati (ivi: 230-231): «nelle procedure di decontestualizzazione che sono implicite, per esempio, nella stesura di una lista scritta di alberi, e nella riorganizzazione in forma più “logica” del materiale scritto. Non è altro che la “tradizione” scritta, e cioè la conoscenza accumulata e riversata nei documenti, così come nella mente, a fornire la variabile che interviene tra la padronanza di una competenza specifica e le operazioni cognitive». In conclusione, dal punto di vista tecnico per Goody «la scrittura non solo favorisce, nei confronti di un testo letto, un tipo di attenzione critica che sarebbe impossibile applicare a un’enunciazione udita, ma consente altresì di accumulare conoscenza “scettica”, come fa con le procedure logiche» (ivi: 272-273). Ma se ci riferiamo a un’operazione come «il ragionamento sillogistico, allora aspettarsi che la “padronanza della scrittura” basti a condurre direttamente ad adottarlo è una pretesa palesemente assurda. Il sillogismo, quale noi lo conosciamo, è la specifica invenzione di un’epoca e di un luogo specifici» (ivi: 228-229). Altro è, invece, il punto di partenza di David R. Olson (Olson 1979; Olson, Torrance, 1991): il linguaggio, visto nella sua duplice forma, parlata e scritta con la considerazione delle condizioni e dei contesti di insegnamento e apprendimento di que- 290 Modelli della mente e processi di pensiero sti due diversi codici e non varianti espressive di uno stesso codice. Infatti, afferma (Olson, 1979: 21) che: «Il linguaggio è un sistema di simboli che si differenzia in due codici diversi, che è profondamente influenzato dai media attraverso cui è trasmesso (ad es., il tipo di scrittura, l’esistenza di un alfabeto fonetico, la stampa), e che, in relazione a tali media, ha reso possibile alcune “forme simboliche” essenziali nella nostra cultura (la storia, la scienza, la filosofia). […] Mezzi diversi di istruzione, determinando tipi diversi di attività mentale, producono, insieme, conoscenze e abilità diverse, cioè “rappresentazioni del mondo” adeguate all’attività sollecitata». Olson individua le caratteristiche differenziali della conoscenza di senso comune contrapposta alla conoscenza scientifica, perché appunto queste due diverse “concezioni della realtà” sono rispettivamente i “prodotti” del linguaggio orale e del linguaggio scritto. (ivi: 21). In generale, il senso comune è concepito e strutturato per usi e scopi sociali (più che logici), in corrispondenza di quella funzione propria del linguaggio parlato che è quella di stabilire e mantenere i rapporti sociali tra gli interlocutori (in relazione ai rapporti di autorità). Il sapere scientifico in senso lato si contrappone a molti elementi del senso comune: è codificato per la riflessione, ricerca leggi universali, cerca di eliminare le contraddizioni, si impegna nella ricerca “disinteressata” della verità, adotta modelli di spiegazione deduttivi, costituiti da premesse e implicazioni di tipo logico. La tesi fondamentale di Olson è che questi due tipi di conoscenza – corrispondenti a due diverse rappresentazioni della realtà – sono il prodotto delle differenze di struttura e di funzione del linguaggio orale rispetto a quello scritto: mentre il primo è lo strumento proprio della conoscenza quotidiana, atta a regolare le azioni pratiche e i comportamenti sociali, il linguaggio scritto (che non è affatto la pura e semplice trascrizione di quello orale), affinando le funzioni logiche e rendendo possibili dimostrazioni rigorose e spiegazioni deduttive, è il mezzo che conduce al- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 291 la riflessione teorica, al sapere filosofico e scientifico, all’istruzione sistematica (ivi: 22). Inoltre, per la “comprensione” (ivi: 24): «esistono due processi del tutto diversi tra loro i quali possono essere designati con questo stesso termine: l’uno, adeguato al linguaggio scritto, verifica la comprensione nei significati e nelle implicazioni logiche basati sulle proprietà formali della frase; l’altro la verifica nell’assimilazione, operata dal lettore/uditore delle asserzioni ascoltate o lette alla sue conoscenze precedenti e alle sue aspettative». Ed è in questa prospettiva che «il contesto d’esperienza del soggetto, inteso in senso fisico, sociale, personale» viene individuato come «un fattore importante per spiegare i fenomeni della comprensione, dell’acquisizione del linguaggio, dello sviluppo concettuale, del ragionamento» (ibidem). Ne emerge che se ai soggetti viene insegnato lo stesso contenuto in modi diversi, essi in effetti non stanno imparando lo stesso contenuto, bensì un contenuto diverso, che può rivelarsi parzialmente correlato per compiti poco complessi, ad esempio di memorizzazione, ma si differenzia notevolmente in compiti di transfert (ivi: 25). L’esposizione potrebbe qui continuare per ciascuna delle questioni poste all’inizio di questo paragrafo, ma ho voluto qui evidenziare almeno uno dei nodi, a mo’ di esempio, pur ricordando che gli altri possibili sono quelli costituiti dall’etnoscienza, dall’antropologia simbolica, dalle analisi delle altre categorie del pensiero, dall’epistemologia della cognizione e del simbolismo, dal trasferimento interdisciplinare di acquisizioni riguardo la dimensione cognitiva della specie umana e da altri ancora, sulla base dei riferimenti posti in bibliografia, là dove sono segnalate anche le pubblicazioni rimaste ancora in lingua originale. 292 Modelli della mente e processi di pensiero 7. Al sesto giorno fu la luce: processi di pensiero e scienze cognitive Da ultimo, e siamo negli anni 2000, da una parte si segnala una consistente produzione di saggi di presentazione e riflessione sugli studi cognitivi22 e dall’altra in antropologia nodo cruciale risulta essere la dimensione epistemologica nel raffronto tra prospettiva naturalistica o culturologica nell’analisi della cognizione (Geertz, 2000; Ingold, 2004; Acerbi, 2003, 2005). Su una questione gli antropologi sembrano essere d’accordo, al di là delle parole usate, come in questo caso: a partire dalla definizione delle categorie del pensiero e delle sue forme di espressione, si ipotizza un’identità strutturale delle prime per cui ogni pensiero prodotto e, ogni prodotto di pensiero, a qualsiasi società il soggetto appartenga, è sì un pensiero storico ma questo si attiva e agisce in base alle sue specifiche categorie. Ma una questione rimane comunque qui aperta e sembra essere per ora “l’ultima questione”: l’uguaglianza strutturale di queste “categorie” da cosa è stata prodotta e configurata nella storia dello sviluppo cognitivo della specie? In altre parole la questione diviene l’ordine della catena “logica” e “storica”23 del rapporto tra corpo, 22 Alcune indicazioni in tal senso possono essere: Ryle, 1979; Coulter, 1989; Searle, 1992; Liverta, Sempio, Marchetti, 1995; Groppo, Locatelli, 1996; Stella, 2000; Marraffa, 2002; Borghi, Iachini, 2002; Grasseni, Ronzon, 2004; Bechtel, Abrahamsen, Graham, 1998; Macchi Cassia, Valenza, Simion, 2005; Marraffa, Meini, 2005; Tomasello, 1999; Ferretti, Gambarara, 2005; Ronzon, 2006. 23 «Il pensiero è concepibile in sé, indipendentemente dalle forme della sua espressione in senso logico, come grado zero: in questo caso il pensiero è, il pensiero può pensare se stesso. Ma se prendiamo in considerazione un segmento reale del pensiero, un atto di pensiero, cambiano sia il grado di pensiero che il suo senso analitico: il pensiero non è più il pensiero ma un pensiero, forma di pensiero; in senso storico il pensiero diviene, il pensiero è relazione. Ancora, da una parte il senso logico postula il pensiero come fatto (semplice, teorico), come categoria; dall’altra il secondo termine – il senso storico – lo reperisce come complesso, relazione di fatti (complessi, empirici). Questo perché diverse sono, da un punto di vista teorico, le implicazioni connesse e le specificità delle due facce del pensiero enunciate, per i caratteri stessi dei termini del nesso costitutivo senso logico-senso storico. Da una parte il primo termine del nesso non è introdotto a livello dell’oggetto ma è fissato a livello di teoria dell’oggetto, come definizione di campo che, differenziando appunto le due facce di un oggetto, fissa con il grado zero un prius logico-teorico a prescindere dai caratteri dell’oggetto e delle sue relazioni. M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 293 mente, cervello, ambiente, cultura, anche se una cosa è del tutto evidente: le domande ora poste alla e dalla antropologia cognitiva divergono profondamente da quelle degli studi classici sulla mentalità primitiva. Seguiamo la questione come viene posta prima da Clifford Geertz (1973, 2000) e poi da Tim Ingold (2004), che risponde esplicitamente al primo, anche se in alcuni passaggi sembra cercare un “antagonista intellettuale” più come mera funzione narrativa che sulla base di una reale differenza di prospettiva. Nell’esigenza di rinnovamento dell’idea di evoluzione e di sviluppo umano, Geertz (2000) ricorda come la tradizione occidentale abbia elaborato una “visione” di trasformazione per strati: prima la biologica, poi la psichica ed infine quella culturale. A questa lo studioso contrappone la concezione dello sviluppo come processo di interazione delle diverse componenti implicate: mente, cultura, corpo non sono individualità, enti, ma parti costituenti che si definiscono nel procedimento stesso di integrazione, senza preminenza dell’una sulle altre. Questo senza nulla togliere alla specificità che è propria a ciascuna delle componenti: ciascuna costituisce un dispositivo il cui senso, direzione e reDall’altra il secondo termine – senso storico – assume invece la realtà e l’atto di pensiero come punto di partenza dell’analisi: il posterius si definisce allora come un complesso le cui relazioni vanno enunciate e definite sulla base di un’analisi storico-culturale specifica. Ma cosa determina la complessità della seconda faccia o dimensione del pensiero? Il pensiero sembra assumere, in sostanza, a livello analitico, fondamenti specifici e caratteri distintivi a seconda della forma espressiva realizzata, del codice prescelto (gestuale, visivo, verbale, grafico, cinesico, prossemico, ecc.). Ma non per questo il pensiero, l’atto di pensiero, è tutto determinato dalle sue forme di espressione: da una parte il pensiero ha caratteri costitutivi irrinunciabili, ha un suo statuto, delle regole da seguire in sé stesso; dall’altra le forme di espressione del pensiero risultano non indifferenti rispetto al pensiero stesso, perché anch’esse seguono regole proprie, pur di ordine diverso da quelle del pensiero. In realtà questa non-indifferenza delle forme espressive è pertinente non solo rispetto ai caratteri costitutivi del pensiero, ma anche rispetto agli strumenti d’espressione usati. È quanto accade, per esempio, nel rapporto tra suoni naturali e segni linguistici verbali: noi possiamo pronunciare tutti i suoni possibili che in natura sono posti lungo un continuum, ma nella realtà c’è bisogno di una cesura tra suoni perché un suono diventi un segno verbale, perché un atto linguistico si produca. Tutto ciò presuppone una lingua, un sistema linguistico ma anche uno strumento: l’apparato fono-vocatorio-uditivo, non indifferente nella produzione dell’atto linguistico come nell’articolazione della cesura suoni/segni». (Squillacciotti, 1986: 835-836). 294 Modelli della mente e processi di pensiero altà ultima è definibile alla fine del processo stesso di nuovo organismo ed organizzazione. In questo quadro, credo, vada ripresa l’affermazione di Geertz (1973, 2000) che «La cultura è un ingrediente dello sviluppo», cioè come sistema di integrazione di specifiche componenti il cui risultato non è nell’aggregazione delle parti stesse ma nel particolare processo che ridefinisce di volta in volta, di tempo in tempo non solo l’apporto di ciascuna ma soprattutto il tipo di integrazione “unica” raggiunta. Ora questa sintesi sembra essere per Ingold (2000: 55) ancora culturologica o troppo culturologica da una parte, ma dall’altra ritiene anche che a questa non risponda sufficientemente la prospettiva biologistica: «Ora, se la biologia neodarwinista presume che esista un disegno specifico indipendente dal contesto per il modello di corpo, così nel campo della psicologia, la scienza cognitiva postula un modello analogamente indipendente dall’architettura della mente. Questa architettura include i vari meccanismi cognitivi o meccanismi di elaborazione che […] dovrebbero essere in atto prima di qualsiasi trasmissione di rappresentazioni culturali. Quanto al problema delle origini di tali meccanismi, gli scienziati cognitivi generalmente presumono che questo sia già stato risolto dalla biologia evolutiva. Poiché l’informazione che specifica i meccanismi non può essere trasmessa culturalmente , vi è una sola possibilità. Deve essere trasmessa geneticamente – cioè come una componente del genotipo umano. Infatti solitamente nella letteratura cognitiva, il postulato di strutture mentali innate viene preso per buono senza ulteriore giustificazione se non un vago riferimento alla genetica e alla selezione naturale». In sostanza Ingold ritiene che le tre scienze implicate nel definire i caratteri dell’uomo, e il loro livello di competenza, «cospirino a produrre una teoria sistematica dell’essere vivente e agente come una creatura composta di tre elementi: genotipo, mente e cultura.» (ivi: 58) alla luce di un postulato da queste condiviso: «che le forme organiche, le capacità intellettuali e le disposizioni comportamentali degli esseri umani sono specificate e determi- M. Squillacciotti, Prima lezione di antropologia cognitiva 295 nate indipendentemente e prima del loro coinvolgimento nei contesti pratici dell’attività» (ivi: 59). A tutto questo lo studioso contrappone la sua sintesi: «un punto di vista unitario sull’organismo-persona, che passa attraverso processi di crescita e sviluppo in un ambiente, contribuendo con la sua presenza e attività allo sviluppo di altri» (ibidem), come dire che genotipo-mente-cultura «sono il risultato dello sviluppo dell’intero organismo-persona […] situato in un ambiente» (ivi: 78). Ma qui sorge in me un interrogativo: dove siamo arrivati? E mi viene spontaneo rispondere per ora con una proposizione frutto di parafrasi del pensiero di vari e diversi studiosi: l’uomo, come animale che produce e riproduce nel tempo le condizioni materiali e spirituali della propria esistenza, nel costruire il mondo, costruisce sé stesso, in un modo tale che in questo processo di conoscenza e significazione entra in relazione particolare con gli altri, uomini, ideologia o natura che sia. Noi siamo qui e qui è la sfida dell’antropologia cognitiva nell’individuare componenti e caratteri della cognizione, come la prospettiva di un punto di vista… 8. Al settimo giorno non fu il riposo: per finire, si ricomincia da capo Al termine di questo percorso, giocato sull’ordine cronologico degli eventi di studio ed editoriali, un desinit che serva da avvertimento: «Alle fine di un viaggio, c’è sempre un viaggio da ricominciare…», come recita Francesco De Gregori in Viaggi e miraggi. Cioè, alla luce di quanto sono venuto fin qui costruendo, è possibile ora ricominciare da capo seguendo un altro tipo di ordine per l’analisi. Ad esempio quello delle pubblicazioni per collane editoriali, oppure quello tematico in cui le parole chiave possono essere costituite non da parole in opposizione, tipo mentalità primitiva-mentalità colta e così via, ma da polarità di termini com- 296 Modelli della mente e processi di pensiero plessi: lingua-pensiero-espressioni, corpo-mente-cultura, ragionecognizione-logica, essenza-processo-storia, categorie-immaginicodici, pensare-dire-fare, individuo-gruppo sociale-ambiente, psicologia-cultura-sviluppo, discorso-credenza-comprensione, laboratorio-campo etnografico-paradigmi, simbolo-forma-astrazione ecc.; insomma compiere una ricostruzione analitica del bagaglio storico dell’antropologia cognitiva facendosi guidare da relazioni complesse di termini, anche difformi tra loro, per verificare l’assetto attuale delle possibilità teoriche nei nostri studi. Ma questa è un’altra storia e un altro viaggio… Bibliografia generale Acerbi, A., 2003, La mente nella cultura: cognizione ed analisi dei fatti culturali, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università di Siena», vol. XXXIV, Firenze, Cadmo: 207-230. Acerbi, A., 2005, Antropologia cognitiva: uno stato dell’arte, «Sistemi Intelligenti», n. 3: 469-488. Acerbi, A., Nolfi, S., 2006, Trasmissibilità culturale di tratti discreti e continui, “Atti del Terzo Convegno dell’Associazione Italiana di Scienze Cognitive”. Adams, B., Breazeal, C., Brooks, R.A., Scassellati, B., 2000, Humanoid robots. A new kind of tool, «IEEE Intelligent Systems», 15 (4): 25-31. Adenzato, M. e Meini, C., a cura di, 2006, Psicologia evoluzionistica, Torino, Bollati Boringhieri. Aldrich, C.R., 1931, The Primitive Mind and Modern Civilization, London, 1949 2a ed., intr. di B. Malinowski, C.G. Jung; trad. it. 1949, La mente primitiva e la civiltà moderna, Torino, Einaudi, trad. di T. Tentori; Torino, Bollati Boringhieri, 1992. Alexander, R., 1987, The Biology of Moral Systems, New York, Aldine de Gruyter. Allier, R., 1927, Le non-civilisé et nous, Paris, Payot. Angioni, G., 1986, Il sapere della mano. Saggi di antropologia del lavoro, Palermo, Sellerio. Antinori, C., 1983, Algunas consideraciones sobre el aprendizaje de la lectura y la escritura, «Acción y Reflexión Educativa», Panamá, n. 11: 85-100. Ascher, M., 2002, Mathematics elsewhere: an exploration of ideas across cultures, Princeton, Princeton University Press; trad. it. 2007, 298 Modelli della mente e processi di pensiero «Etnomatematica», Torino, Bollati Boringhieri. Astuti, R., Solomon, G. & Carey, S., 2005, Introduction, in id., Constraints on Conceptual Development. A case Study of the Acquisition of Folkbiological and Folksociological Knowledge in Madagascar, «Monographs of the Society for Reserach in Child Development»: 1-24. Atran, S., 1985a, Managing Arab Kinship and Marriage, «Informations sur les ciences sociales», 24: 659-696. Atran, S., 1985b, Démembrement social et remembrement agraire dans un village palestinien, «L’Homme», 25: 111-135. Atran, S., 1989, Basic Conceptual Domains, «Mind and Language», 4: 7-16. Atran, S., 1990, Cognitive foundations of natural history. Towards an anthropology of science, Cambridge, Cambridge University Press. Atran, S., 1993, Itza Maya Tropical Agro-Forestry, «Current Anthropology», 34: 633-700. Atran, S., 1998, Folkbiology and the anthropology of science: Cognitive universals and cultural particulars, «Behavioral and Brain Science», vol. 21: 547-609. Atran, S., 1999, Itza Maya Folkbiological Taxonomy, in Medin, D. & Atran, S., a cura di, Folk Biology, Cambridge, MIT Press: 119204. Atran, S., 2001a, Comment, in Gil-White, F., Are Ethnic Groups Biological Species to the Human Brain. Essentialism in Our Cognition of Some Social Categories, «Current Anthropology», vol. 42, n. 4: 537-8. Atran, S., 2001b, The Trouble with Memes, «Human Nature», 12: 351-381. Atran, S., 2001c, The Case for Modularity: Sin or Salvation?, «Evolution and Cognition», 7: 46-55. Atran, S., 2002, In God we trust. The evolutionary landscape of religion, Cambridge, Cambridge University Press. Atran, S., 2003, Genesis of Suicide Terrorism, «Science». Atran, S., 2005, Strong versus Weak Adaptationism in Cognition and Language, in Carruthers, P., Laurence, S. & Stich, S., a cura di, Bibliografia generale 299 2005, The Innate Mind: Structure and Contents, Oxford, Oxford University Press. Atran, S., &., 1999, Folkecology and Commons Management in the Maya Lowlands, «Proceedings of the National Academy of Sciences USA 96»: 7598-7603. Atran, S. &., 2001, Folkbiology doesn’t come from Folkpsychology: Evidence from Yukatek Maya in Cross-Cultural Perspective, «Journal of Cognition and Culture», n. 1: 3-42. Atran, S., &., 2002, Folkecology, Cultural Epidemiology and the Spirit of Commons: A Garden Experiment in the Maya Lowlands, 19912001, «Current Anthropology», vol. 43: 421-450. Atran, S. & Medin, D.L., 2004, The Native Mind: Biological Categorization and Reasoning in Development and Across Cultures, «Psychological Review». Atran, S. Medin, D.L. & Ross, N.O., 2005, The Cultural Mind: Environmental Decision Making and Cultural Modeling Within and Across Populations, «Psychological Review». Atran, S. & Sperber, D., 1991, Learning without Teaching, in Tolchinsky Landman, L., a cura di, Culture, Schooling and Psychological Development, Norwood, N.J., Ablex: 39-55. Atran, S., Ucan Ek’, E., 1999, Classification of Useful Plants among Northern Pethen Maya, in White, Ch., a cura di, Reconstructing Ancient Maya Diet, Salt Lake City, University of Utah: 19-59. Avis, J. & Harris, P., 1991, Belief-Desire Reasoning among Baka Children, «Child Development», vol. 62: 460-467. Axelrod, R., 1997, The complexity of cooperation, Princeton, Princeton University Press. Bailenson, J. &., 2002, A Bird’s Eye View: Biological Categorization and Reasoning within and Across Cultures, «Cognition», n. 84: 153. Bara, B., 2000, Il metodo della scienza cognitiva. Un approccio evolutivo allo studio della mente, Torino, Bollati Boringhieri. Barkow, J., Cosmides, L. & Tooby, J., a cura di, 1992, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford-New York, Oxford University Press. 300 Modelli della mente e processi di pensiero Barkow, J.H., 2006, a cura di, Missing the Revolution. Darwinism for Social Scientists, New York, Oxford University Press. Baron-Cohen, S., 1995, Mindblindness: an essay on autism and theory of mind, Cambridge, MIT Press. Barrett, C. (in corso di stampa), Enzymatic computation and cognitive modularity, «Mind and Language». Bateson, G., 1972, Steps to An Ecology of Mind, New York, Ballantine Books; trad. it. 1976, Verso un’ecologia della mente, Milano, Adelphi, 1995 2a ed. Bateson, G., 1979, Mind and Nature: a Necessary Unity, New York, Dutton; trad. it. 1984, Mente e natura. Un’unità necessaria, Milano, Adelphi. Bechtel, W., Abrahamsen, A., Graham, G., a cura di, 1998, A Companion to Cognitive Science, Oxford (Mass.), Blackwell; trad. it. 2004, Menti, cervelli e calcolatori. Storia della scienza cognitiva, Roma-Bari, Laterza, ed. it. a cura di Marraffa, M. Berkes, F. &., 1989, The Benefit of the Commons, «Nature», n. 340: 91-93. Berlin, B., 1976, The concept of rank in ethnobiological classification: some evidence from Agaruna folk botany, «American Ethnologist», n. 3: 381-399. Berlin, B., 1992, Ethnobiological classification: principles of categorization of plants and animals in traditional societies, Princeton, Princeton University Press. Berlin, B., 2006, The First Congress of Ethnozoological Nomenclature, «Journal of Royal Anthropological Institute» (Special issue, Ethnobiology and the Science of Humankind): 23-45. Berlin, B., Kay, P., 1969, Basic Color Terms: their universality and growth, Berkley, University of California Press. Bernstein, B., 1971, Social Class, Language and Socialization, in id., Theoretical Studies towards a Sociology of Language, London, Routledge & Kegan Paul: 170-189; trad. it. 1973, Classe sociale, linguaggio e socializzazione, in Giglioli, P.P., a cura di, Linguaggio e società, Bologna, il Mulino: 215-235; ed. riv. 2000, Giglioli, P.P., Fede, G., a cura di, Linguaggio e contesto sociale, Bologna, il Mulino: 233-253. Bibliografia generale 301 Bernstein, B., 1982a, Codici, modalità e il processo di riproduzione culturale: un modello, in Cappello, F.S., Dei, M., Rossi, M., a cura di, L’immobilità sociale: stratificazione sociale e sistemi scolastici, Bologna, il Mulino: 329-368. Bernstein, J., 1982b, Science Observed. Experiencing Science, New York, Basic Books; trad. it, 1990, Uomini e macchine intelligenti, Milano, Adelphi. Berry, J.W., Dasen, P.R., a cura di, 1974, Culture and cognition: readings in cross-cultural psychology, London, Methuen. Berry, J.W., Poortinga, Y., Segall, M.H., Dasen, P.R., 1992, Crosscultural Psychology: Research and Applications, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1994, Psicologia transculturale. Teoria, ricerca, applicazioni, Milano, Guerrini e Associati, intr. all’ed. it. di Inghilleri, P. Blackmore, S., 1999, The Meme Machine, Oxford, Oxford University Press; trad. it. 2002, La macchina dei memi: perché i geni non bastano, Torino, Instar Libri. Bloch, M., 1991, Language, Anthropology and Cognitive Science, «Man», vol. 26, n. 2: 183-198 (Frazer Memorial Lecture 1990), ora in id. 1998a; trad. it. 2000, Linguaggio, antropologia e scienze cognitive, in Borofsky, R., a cura di, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi: 339-346). Bloch, M., 1995, Mémoire autobiographique et mémoire historique du passé éloignè, «Enquéte», 2: 59-76. Bloch. M., 1998a, How We Think They Think. Anthropological Approaches to Cognition, Memory and Literacy, Oxford, Westview Press. Bloch, M., 1998b, Language, anthropology and cognitive science, in id. How We Think They Think. Anthropological Approaches to Cognition, Memory and Literacy, Oxford, Westview Press (ediz. orig. «Man», 1991, vol. 26. n. 2: 183-198). Bloch, M., 1998c, Domain Specificity, Living Kinds and Symbolism, in id. How We Think They Think. Anthropological Approaches to Cognition, Memory and Literacy, Oxford, Westview Press (ediz. orig. 1993, in Boyer, P., a cura di, Cognitive Aspects of Religious Symbolism, Cambridge, Cambridge University Press). 302 Modelli della mente e processi di pensiero Bloch, M., 1998d, Le Cognitif et L’ethnographique, in id. How We Think They Think. Anthropological Approaches to Cognition, Memory and Literacy, Oxford, Westview Press (ediz. orig. 1995, «Grahdiva», n. 17). Bloch, M., 2005a, Are religious beliefs counter-intuitive?, in id. Essays on cultural transmission, London, Berg: 103-123 (ediz. orig. 2002, in Frankeberry, N.K., a cura di, Radical Interpretation in Religion, Cambridge, Cambridge University Press). Bloch, M., 2005b, Where did anthropology go? Or the need for human nature, in id., Essays on cultural transmission, London, Berg: 1-21. Bloch, M., 2006, L’anthropologie cognitive a l’épreuve du terrain. L’exemple de la théorie de l’esprit, (Lecons inaugurales du College de France), Paris, Fayard. Blok, A., 2000, Premessa alla II edizione italiana, in La mafia di un villaggio siciliano 1860-1960, Milano, Edizioni di Comunità [ediz. orig. 1974] . Blondel, C., 1926, La mentalité primitive, Paris, Stock. Bloom, P., 2000, How Children Learn the Meanings of Words, Cambridge (Mass.) e London, MIT Press. Blurton, J.N., 1987, Tolerated Theft, «Information sur les Sciences Sociales», n. 26: 31-54. Boas, F., 1911, The Mind of Primitive Man, New York, Macmillan, 1938 2a ed. riv., pref. di M.J. Herskovits; trad. it. 1972, L’uomo primitivo, Roma-Bari, Laterza, 1979 2a ed., 1995 3a ed.; cap. XI: Psiche e processo culturale: 163-185; cap. XII: Le associazioni emotive dei primitivi: 187-206. Bohem, C., 1993, Egalitarian Society and Reverse Dominance Hierarchy, «Current Anthropology», vol. 34: 227-254. Borghi, A., Iachini, T., a cura di, 2002, Scienze della mente, Bologna, il Mulino. Borofsky, R., a cura di, 1994, Assessing Cultural Anthropology, New York, Mac Graw-Hill; ed. it. 2000, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi; parte IV: Ripensare il culturale: 298-379, saggi di Goody, J., Goodenough, W.H., Bloch, M., Strauss, C., Quinn, N., Keesing, R.M. Bibliografia generale 303 Boyd, R., 2003, Population Structure, Equilibrium Selection and the Evolution of Norms, in Pagano, U., a cura di, Economics and Evolution, New York, Chicago University Press. Boyd, R. & Richerson, P., 1985, Culture and Evolutionary Process, Chicago, Chicago University Press. Boyd, R. & Richerson, P., 2001a, Norms and Bounded Rationality, in Gigerenzer, G. & Slten, R., a cura di, The Adaptive Toolbox, Cambridge, MIT Prss: 281-296. Boyd, R. & Richerson, P., 2001b, Memes: Universal Acid or a Better Mouse Trap, in Aunger, R., a cura di, Darwinizing Culture, New York, Oxford University Press Press: 143-162. Boyd, R. & Richerson, P.J., 2005, Not by Genes Alone: How Culture Transformed Human Evolution, Chicago, Chicago University Press; trad. it. 2006, Non di soli geni: Come la cultura ha trasformato l’evoluzione umana, Torino, Codice. Boyer, P., 1990, Tradition as truth and communication: a cognitive description of traditional discourse, Cambridge, Cambridge University Press. Boyer, P., 1994, The Naturalness of Religious Ideas, Berkeley, Berkeley University Press. Boyer, P., 2001, Religion explained: the evolutionary origins of religious thought, New York, Basic Books. Brandimonte, M.A., 1997, Memoria, immagini, rappresentazioni, Roma, NIS. Bronfenbrenner, U., 1979, The Ecology of Human Development. Experiments by Nature and Design, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1986, Ecologia dello sviluppo umano, Bologna, il Mulino, intr. all’ed. it. di Camaioni, L. Brown, C., 1977, Folk botanical life-forms: their universality and growth, «American Anthropologist», vol. 79: 317-342. Brown, C., 1979, Folk zoological life-forms: their universality and growth, «American Anthropologist», vol. 81: 791-817. Brown, C., 1984, Language and living things: uniformities in folk classification and naming, New Brunswick, Rutgers University Press. Bruner, J.S., 1962, On Knowing. Essays for the Left Hand, Cambrid- 304 Modelli della mente e processi di pensiero ge (Mass.), Harvard University Press; trad. it. 1968, Il conoscere. Saggi per la mano sinistra, Roma, Armando. Bruner, J.S., 1968, Processes of Cognitive Growth: Infancy, Worcester (Mass.), Clark University Press; trad. it. 1971, Prime fasi della sviluppo cognitivo, Roma, Armando. Bruner, J.S., 1973a, Beyond the Information Given: Studies in the Psychology of Knowing, New York, Norton; trad. it. 1976, Psicologia della conoscenza, vol. I: Percezione e pensiero; vol. II: Momenti evolutivi, Roma, Armando. Bruner, J.S., 1973b, The Growth of Representation Processes in Childhood, in J. Anlin, a cura di, Beyond the Information Given: Studies in the Psychology of Knowing, New York, Norton: 313-324. Bruner, J.S., 1983, Savoir faire, savoir dire, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1992, Saper fare, saper pensare, saper dire. Le prime abilità del bambino, Roma, Armando. Bruner, J.S., 1986, Actual Minds, Possible Worlds, Cambridge (Mass.), Harvard University Press; trad. it. 1988, La mente a più dimensioni, Roma-Bari, Laterza. Bruner, J.S., 1990, Acts of Meaning, Cambridge (Mass.), Harvard University Press; trad. it. 1992, La ricerca del significato. Per una psicologia culturale, Torino, Bollati Boringhieri. Bruner, J.S., 1996, The Culture of Education, Cambridge (Mass.), Harvard University Press; trad. it. 1997, La cultura dell’educazione: nuovi orizzonti per la scuola, Milano, Feltrinelli. Bruner, J.S., Goodnow, J.J., Austin, G.A., 1956, A Study of Thinking, New York, John Wiley & Sons; trad. it. 1962, Il pensiero: strategie e categorie, Roma, Armando. Bruner, J.S., Olver, R.R., Greenfield, P.M., a cura di, 1966, Studies in Cognitive Growth. A Collaboration at the Center for Cognitive Studies, New York, John Wiley & Sons; trad. it. 1968, Lo sviluppo cognitivo, Roma, Armando, note di Riverso, E. Buller, D.J., 2006, Adapting Minds. Evolutionary Psychology and the Persistent Quest for Human Nature, Cambridge, MIT Press. Byrne, R.W. e Whiten, A., 1988, Machiavellian Intelligence: Social Expertise and the Evolution of Intellect in Monkeys, Apes, and Hu- Bibliografia generale 305 mans, Oxford, Clarendon Press. Byrne, R.W. e Whiten, A., 1997, Machiavellian Intelligence 2: Evaluations and Extensions, Cambridge, Cambridge University Press. Candau, J., 1996, Antropologie de la mémoire, Paris, Presses Universitaires de France. Cantoni, R., 1941, Il pensiero dei primitivi. Preludio a un’antropologia, Milano, Garzanti; Milano, il Saggiatore, 1963 2a ed. riv., 1974 4a ed. Cappelletto, F., 1998, Memories of Nazi-Fascist massacres in two central Italian villages, «Sociologia Ruralis», 38: 69-85. Cardona, G.R., 1980, Categorie di pensiero e categorie di lingua, «Materiali filosofici», n. 3: 97-119; anche in Cardona, G.R., 1990, I linguaggi del sapere, Roma-Bari, Laterza: 69-87, ed. postuma a cura di A. Asor Rosa. Cardona, G.R., 1981, Antropologia della scrittura, Torino, Loescher. Cardona, G.R., 1985a, I sei lati del mondo. Linguaggio ed esperienza, Bari, Laterza. Cardona, G.R., 1985b, La foresta di piume. Manuale di etnoscienza, Bari, Laterza. Cardona, G.R., 1987, La visione del mondo naturale, in Pignato, C., a cura di, 1987a, Pensare altrimenti. Esperienze del mondo e antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza: 116-146. Carruthers, M., 1990, The book of memory: a study of memory in medieval culture, Cambridge, Cambridge University Press. Carruthers, M., 1998, The craft of thought: mediation, rhetoric, and the making of images, 400-1200, Cambridge, Cambridge University Press. Carruthers, P., 2003, The mind is a system of modules shaped by natural selection, in Hitchcock, C., a cura di, Contemporary Debates in philosophy of Science, London, Blackwell. Carruthers, P., 2005a, The case for massively modular models of mind, in Stainton, R., a cura di, Contemporary Debates in Cognitive Science, London, Blackwell. Carruthers, P., 2005b, Distinctively human thinking: modular precursors and components, in Carruthers, P., Laurence, S. & Stich, S., a cu- 306 Modelli della mente e processi di pensiero ra di, 2005, The Innate Mind: Structure and Contents, Oxford, Oxford University Press. Carruthers, P., Laurence, S. & Stich, S., 2005, a cura di, The Innate Mind: Structure and Contents, Oxford, Oxford University Press. Caruth, C., 1995, Introduction, in id. a cura di, Trauma: explorations in memory, Baltimore, John Hopkins University Press: 3-12. Casey, E., 1989, Remembering: a phenomenological study, Bloomington, Indiana University Press Cassirer, E., 1923-29, Philosophie der Symbolische Formen, Leipzig; trad. it. 1964, Filosofia delle forme simboliche, Firenze, La Nuova Italia, voll. I: Il linguaggio, ed. or. 1923; vol. II: Il pensiero mitico, ed. or. 1924; vol. III: Fenomenologia della conoscenza, ed. or. 1929. Cassirer, E., 1925, Sprache und Mythos, s.d.; trad. it. 1961, Sprache und Mythos, Milano, il Saggiatore. Cassirer, E., 1935-45, Symbol, Myth and Culture, s.d., pref. e cura di Verene, D.P.; trad. it. 1981, Simbolo, mito e cultura, Bari, Laterza. Cassirer, E., 1944, An Essay on Man. An Introduction to a Philosophy of Human Culture, New Haven, Yale University Press; trad. it. 1968, Saggio sull’uomo: introduzione ad una filosofia della cultura, Roma, Armando, intr. all’ed. it. di L. Lugarini. Casson, R.W., a cura di, 1981, Language, Culture and Cognition, New York, Macmillan. Cavalli Sforza, L.L., 2004, L’evoluzione della cultura. Proposte concrete per studi futuri, Torino, Codice edizioni. Cavalli-Sforza, L.L., Feldman, M.W., 1981, Cultural Transmission and Evolution: A Quantitative Approach, Princeton, Princeton University Press. Chomsky, N., 1959, Review of B.F., Skineer’s Verbal Behaviour, «Language», vol. 35: 26-58. Chomsky, N., 1968, Language and Mind, New York, Harcourt Brace Jovanovich. Chomsky, N., 1969, Saggi linguistici, Torino, Bollati Boringhieri, 3 voll., ed. it. a cura di De Palma, A.; vol. I: L’analisi formale del linguaggio, pref. di Lepschy, G., 1969, ed. or. 1957-63; vol. II: La grammatica generativa trasformazionale, 1970, ed. or. 1960-67; vol. Bibliografia generale 307 III: Filosofia del linguaggio: ricerche teoriche e storiche, 1969, ed. or. 1960-67. Chomsky, N., 1975, Reflections on language, New York, Pantheon Books; trad. it. 1981, Riflessioni sul linguaggio, Torino, Einaudi. Chomsky, N., 1988, Language and Problems of Knowledge. The Managua Lectures, Cambridge, MIT Press; trad. it. 1998, Linguaggio e problemi della conoscenza, Bologna, il Mulino, ed. it. a cura di Moro, A. Chomsky, N., 1990, Ways of Communication, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1992, Il linguaggio e la mente, in Mellor, D.H., a cura di, La comunicazione, Bari, Edizioni Dedalo: 63-86. Chomsky, N., 2000, Minimalist Inquiries: The framework, in Martin, R., Michaels, D. & Uriagereka, J., a cura di, Step by Step, Cambridge, MIT Press: 89-155. Chomsky, N., 2001, Linguaggio e cervello, in id., Su natura e linguaggio, Siena, Edizioni dell’Università degli Studi di Siena, a cura di Belletti, A., Rizzi, L.: 15-37. Christianson, S.A., 1992, a cura di, The handbook of emotion and memory: research and theory, Hove, Lawrence Erlbaum Associates. Cirese, A.M., 1973, Cultura egemonica e culture subalterne. Rassegna degli studi sul mondo popolare tradizionale, Palermo, Palumbo, ed. accresciuta. Cirese, A.M., 1984, Segnicità, fabrilità, procreazione. Appunti etnoantropologici, Roma, CISU. Cirese, A.M., 1988, Il dire e il fare nelle opere dell’uomo, Gaeta, Bibliotheca, collana del Dipartimento di Filosofia e Scienze Sociali dell’Università degli Studi di Siena. Clemente, P., Meoni, M.L., Squillacciotti, M., 1976, Il dibattito sul folklore in Italia, Milano, Edizioni di Cultura Popolare, nuova ed. a stampa. Cocchiara, G., 1948, Il mito del buon selvaggio. Introduzione alla storia delle teorie etnologiche, Messina-Firenze, D’Anna; Milano, il Saggiatore, 1961 2a ed. con il titolo L’eterno selvaggio; Palermo, Flaccovio, 1972 ed. riv. a cura di A. Buttitta. 308 Modelli della mente e processi di pensiero Cole, M., 1995a, La cultura in una teoria della comunicazione della mente, in Liverta Sempio, O., Marchetti, A., a cura di, Il pensiero dell’altro: contesto, conoscenza e teorie della mente, Milano, Raffaello Cortina Editore: 97-124. Cole, M., 1995b, Socio-cultural historical psychology. Some general remarks and a proposal for a new kind of cultural-genetic methodology, in Wertsch, J.V., Del Rio, P., Alvarez, A., a cura di, Sociocultural studies of mind, Cambridge, Cambridge University Press. Cole, M., 1996a, Culture in Mind, Cambridge, Harvard University Press. Cole, M., 1996b, Cultural Psychology: a once and future discipline, Cambridge, Harvard University Press; trad. it. 2002, La psicologia culturale, Roma, Armando. Cole, M., et al., 1971, The Cultural Context of Learning and Thinking. An Exploration in Experimental Anthropology, New York, Basic Books; trad. it. 1976, Intelligenza, pensiero e creatività. Un confronto tra terzo mondo e società occidentali, Milano, Franco Angeli. Cole, M., Scribner, S., 1974, Culture and Thought: a Psychological Introduction, New York, John Wiley & Sons. Corrao, P., 2004, Storia delle mentalità, in Coglitore, R., Mazzara, F., a cura di, Dizionario degli studi culturali, Roma, Meltemi: 404410, intr. di Cometa, M. Coulter, J., 1989, Mind in Action, Cambridge, Polity Press; trad. it. 1991, Mente, conoscenza, società, Bologna, il Mulino. Cuisenier, J., 1975, Économie et parenté, Paris, Mouton. Dakhlia, J., 1990, L’oubli de la cité: la mémoire collective à l’eupreve du lignage dans le Jérid tunisien, Paris, Editions de la Découverte. D’Andrade, R.G., 1981, The Cultural Part of Cognition, «Cognitive Science», n. 5, 179-195. D’Andrade, R., 1987, A folk model of the mind, in Holland, D & Quinn, N., a cura di, Cultural models in language and thought, Cambridge, Cambridge University Press: 112-148. D’Andrade, R., 1992, Schemas and motivations, in D’Andrade, R. & Strauss, C., a cura di, Human motives and cultural models, Cambridge, Cambridge University Press: 23-44. Bibliografia generale 309 D’Andrade, R., 1995, The development of cognitive anthropology, Cambridge, Cambridge University Press. D’Andrade, R. & Strauss, C., a cura di, 1992, Human motives and cultural models, Cambridge, Cambridge University Press. Davydov, V., 1972, Vidy obobscenija v obucenii, Moskva, Pedagogica; trad. it. 1979, Gli aspetti della generalizzazione nell’insegnamento, Firenze, Giunti Barbera, ed. it. a cura di Veggetti, M.S., pref. di Visalberghi, A. Dawkins, R., 1976, The Selfish Gene, New York, Oxford University Press; trad. it. 1992, Il gene goista, Milano, Mondadori. Dupoux, E., Mehler, J., Cohen, L., Paulesu, E., Perani, D., van de Moortele, P.F., Lehéricy, S., LeBihan, D., 1997, Anatomical variability in the cortical representation of first and second languages, «NeuroReport», 8: 3809-3815. Dehaene, S., (in corso di stampa), Evolution of human cortical circuits for reading and arithmetic: The “neuronal recycling” hypothesis, in Dehaene, S., Duhamel, J.R., Hauser, M. & Rizzolatti, G., a cura di, From monkeybrain to human brain, Cambridge, MIT Press. Dennett, D., 1995, Darwin’s Dangerous Idea, New York, Simonn & Schuster; trad. it. 1998, L’idea pericolosa di Darwin, Torino, Bollati Boringhieri. de Martino, E., 1941, Saggio critico sul prelogismo di Lévy-Bruhl, in Naturalismo e storicismo in etnologia, Bari, Laterza: 17-75. de Michelis, G., 1990, L’informazione si genera nell’ascolto, «Oikos», n. 1: 115-129. Di Francesco, M., 1996, Introduzione alla filosofia della mente, Roma, La Nuova Italia Scientifica. Dobzhansky, T., 1962, Mankind Evolving. The Evolution of the Human Species, New Haven, Yale University; trad. it. 1965, L’evoluzione della specie umana, Torino, Einaudi, 1971 3a ed. Dolgin, J.L., Kemnitzer, D., Schneider, D.M., 1977, Anthropology. A Reader in the Study of Symbols and Meanings, New York, Columbia. Dougherty, J.W.D., a cura di, 1985, Directions in Cognitive Anthropology, Urbana, University of Illinois Press. 310 Modelli della mente e processi di pensiero Douglas, M., 1966, Purity and Danger. An Analysis of Concepts of Pollution and Taboo, London, Routledge & Kegan Paul; Harmondsworth, Penguin Books, 1970; trad. it. 1975, Purezza e pericolo. Un’analisi dei concetti di contaminazione e tabù, Bologna, il Mulino, 1993 2a ed., intr. all’ed. it. di Ferraro, G. Douglas, M., 1970, Natural Symbols: Explorations in Cosmology, New York, Pantheon; Harmondsworth, Penguin Books; trad. it. 1979, I simboli naturali. Esplorazioni in cosmologia, Torino, Einaudi. Dupré, J., 2001, Human Nature and the Limits of Science, Oxford, Oxford University Press; trad. it. 2007, Natura umana. Perché la scienza non basta, Roma-Bari, Laterza. Duranti, A., 1998, Etnografia del parlare quotidiano, Roma, Carocci. Durham, W., 1991, Coevolution, Stanford, Stanford University Press. Durkheim, É., 1895, Les règles de la méthode sociologique, Paris, Alcan; trad. it. 2001, Le regole del metodo sociologico, Torino, Edizioni di Comunità. Durkheim, É. 1898, Répresentations individuelles et répresentations collectives, «Revue de Métaphisique et de Morale»; trad. it. 1976, Rappresentazioni individuali e rappresentazioni collettive, in Durkheim, É. & Mauss, M. Sociologia e antropologia, Roma, Newton Compton Editori: 43-71. Durkheim, É., 1924, Sociologie et philosophie, Paris, Alcan. Durkheim, É., & Mauss, M., 1902, De quelques formes primitives de classification, «Année Sociologique»; trad. it. 1976, Alcune forme primitive di classificazione, in Durkheim, É. & Mauss, M. Sociologia e antropologia, Roma, Newton Compton Editori: 72-140, anche in Durkheim, É., Hubert, H., Mauss, M., 1951, Le origini dei poteri magici, Torino, Bollati Boringhieri, 1965 ristampa, 1972 2a ed.: 17-92, pref. all’ed. it. di de Martino, E. Edelman, G.M., 1987, Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, New York, Basic Books; trad. it. 1995, Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Torino, Einaudi. Bibliografia generale 311 Eldredge, N., 1995, Reinventing Darwin. The debate at the high table of evolution, New York, Wiley & sons; trad. it. 1999, Reinventare Darwin. Il dibattito alla tavola alta dell’evoluzione, Torino, Einaudi. Ellen, R., 1986, Ethnobiology, cognition and the structure of prehension: some general theoretical notes, «Journal of Ethnobiology», vol. 6: 83-98. Ellen, R., 1993 The cultural relations of classification: an analysis of Nuaulu animal categories from central Seram, Cambridge, Cambridge University Press. Ellen, R., 2003, Arbitrariness and necessity in ethnobiological classification: notes on some persisting issues, in Sanga, G. & Ortalli, G., a cura di, Natural knowledge: ethnoscience, cognition and utility, Oxford, Berghan Publishers: 47-56. Ellen, R., 2005, The categorical impulse: essays in the anthropology of classifying behaviour, Oxford, Berghan Publishers. Ellen, R., 2006, Introduction, «Journal of Royal Anthropological Institute» (Special Issue, Ethnobiology and the Science of Humankind): 1-23. Ellen, R. & Reason, D., 1979, a cura di, Classifications in their contexts, New York, Academic Press. Evans-Pritchard, E., 1940, The Nuer, Oxford, Oxford University Press. Evans, D. & Zarate, O., 1999, Introducing evolutionary psychology, Cambridge, Icon Books. Fentress., J. & Wickam, C., 1992, Social memory, Oxford, Blackwell. Ferretti, F., 2004, La società incarnata. I fondamenti bio-cognitivi delle relazioni inter-personali, in «Paradigmi», n. XII (64-65): 73-87. Ferretti, F., Gambarara, D., a cura di, 2005, Comunicazione e scienza cognitiva, Roma-Bari, Laterza. Ferretti, F., 2007, Perché non siamo speciali. Mente, linguaggio, natura umana, Roma-Bari, Laterza. Fischer, K., 1980, A theory of cognitive development: the control and construction of hierarchies of skills, in «Psychological Revie», vol. 87: 477-531. 312 Modelli della mente e processi di pensiero Fodor, J., 1983, The Modularity of Mind. An Essay on Faculty Psychology, Cambridge, MIT Press; trad. it. 1988, La mente modulare. Saggio di psicologia delle facoltà, Bologna, Il Mulino. Fodor, J., 2000, The Mind Doesn’t Work That Way: The Scope and Limits of Computational Psychology, Cambridge, MIT Press; trad. it. 2001, La mente non funziona così. La portata e i limiti della psicologia computazionale, Roma-Bari, Laterza. Forbes, R.J., s.d., Man the Maker, New York, Henry Schuman Publ.; trad. it. 1960, L’uomo fa il mondo, Torino, Einaudi, 1970 2a ed. Fortes, M., Dieterlen, G., a cura di, 1965, African Systems of Thought, London, Oxford University Press, 1972 2a ed. Foucault, M., 1970, L’ordre du discours; trad. it. 1972, L’ordine del discorso. I meccanismi sociali di controllo e di esclusione della parola, Torino, Einaudi, lezione inaugurale al Collège de France, letta il 2 dicembre 1970. Foucault, M., 1966, Les mots et les choses. Une archéologie des sciences humaines, Paris, Gallimard; trad. it. 1967, Le parole e le cose. Un’archeologia delle scienze umane. Milano, Rizzoli, 1970 3a ed., con un saggio critico di Canguilhem, G. Foucault, M., 1969, L’archéologie du savoir, Paris, Gallimard; trad. it. 1971, L’archeologia del sapere, Milano, Rizzoli. Fox, R.G. & King, B.J., 2002, a cura di, Anthropology Beyond Culture, Oxford-New York, Berg. Frank, R., 1988, Passions within Reason, New York, W.W. Norton. Franzinelli, M., 2002, Le stragi naziste. L’armadio della vergogna: impunità e rimozione dei crimini di guerra nazifascisti 1943-2001, Milano, Mondadori. Frazer, J.G., 1925, The Golden Bough. A Study in Magic and Religion, London, Macmillan; trad. it. 1950, Il ramo d’oro. Studio della magia e della religione, 2 voll., Torino, Einaudi; Torino, Bollati Boringhieri 1965; Torino, Bollati Boringhieri, 1990, intr. di Douglas, M., Giudizi su James Frazer. Freeman, D., 1983, Margaret Mead and Samoa, Cambridge, Harvard University Press. Bibliografia generale 313 Fried, M., 1967, The Evolution of Political Society, New York, Random House. Frith, U., 1989, Autism: Explaining the Enigma, Oxford, Blackwell. Frixione, M., 2003, Filosofia delle scienze cognitive, in Vassallo, N., a cura di, Filosofie delle scienze, Torino, Einaudi: 319-350. Galatolo, R. & Greco, L., 2002, Interazione sociale e cognizione, in Borghi, A.M. & Iachini, T., a cura di, Scienze della mente, Bologna, Il Mulino: 265-283. Galef, B.G., 1996, Social enhancement of food preferences in norway rats. A brief review, in Heyes, C.M, Galef, B.G., a cura di, Social learning in animals: the roots of culture, San Diego, Academic Press: 49-64. Galef, B.G., Laland, K., 2005, Social learning in animals. Empirical studies and theoretical models, «Biosciences», 5 (6): 489-499. Gallistel, C.R., 1999, The replacement of general-purpose learning models with adaptively specialized learning modules, in Gazzaniga, M.S., Ed. The Cognitive Neurosciences. 2d ed. (1179-1191), Cambridge, MIT Press, 2000. García, J. & Koelling, R.,1966, Relation of cue to consequence in avoidance learning, «Psychonomic Science», 4:123-4. Gardner, H., 1973, The Quest for Mind. Piaget, Lévi-Strauss, and the Structuralist Movement, New York, A. Knopf; trad. it. 1974, Riscoperta del pensiero e del movimento strutturalista. Piaget e LéviStrauss, Roma, Armando. Gardner, H., 1983, Frames of Mind. The Theory of Multiple Intelligences, New York, Basic Books; trad. it. 1987, Formae mentis. Saggio sulla pluralità dell’intelligenza, Milano, Feltrinelli. Gardner, H., 1987, The Minds New Science: a History of the Cognitive Revolution, New York, Basic Books; trad. it. 1988, La nuova scienza della mente. Storia della rivoluzione cognitiva, Milano, Feltrinelli. Gazzaniga, M.S., a cura di, The Cognitive Neurosciences, 2d ed., Cambridge, MIT Press: 1179-1191. Geertz, C., 1973, The Interpretation of Cultures, New York, Basic Books; trad. it. 1987, Interpretazione di culture, Bologna, il Mulino, intr. all’ed. it. di Remotti, F.; cap. II: L’impatto del concetto 314 Modelli della mente e processi di pensiero di cultura sul concetto di uomo: 73-97, ed. or. 1966; cap. III, Crescita della cultura ed evoluzione della mente: 99-133, ed. or. 1962. Geertz, C., 2000, Culture, Brain, Mind/Brain, Mind, Culture, in id., Available Light: Anthropological Reflections on Philosophical Topics, Princenton (N.J.), Princenton University Press; trad. it. 2001, Cultura, mente, cervello / cervello, mente, cultura, in id., Antropologia e filosofia, Bologna, il Mulino: 209-223. Gehlen, A., 1940, Der Mensch: seine Natur und seine Stellung in der Welt, Berlin, Junker und Dunnhaupt; trad. it. 1983, L’uomo. La sua natura e il suo posto nel mondo, Milano, Feltrinelli. Ghiselin, M., 1999, Natural Kinds and Superorganism Individuals, in Medin, D. & Atran, S., a cura di, FolkBiology, Cambridge, MIT Press: 447-460. Giannattasio, F., 1987, Homo musicus, in Pignato, C., a cura di, 1987a, Pensare altrimenti. Esperienze del mondo e antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza: 147-194. Giannelli, G., 1997, Versilia: la strage degli innocenti, Seravezza, Ed. Versilia Oggi. Giannelli, L., Sacco, M.R., 1999, “Edward Sapir e Benjamin Lee Whorf ”, in Giannelli, L., Abia Yala Inmargan Americana. Studi intorno alle lingue native di un antico/nuovo mondo, Siena, Protagon Editori Toscani, pp. 69-105. Gibson, J.J., 1979, The Ecological Approach to Visual Perception, Boston, Massachusetts, Houghton Mifflin; trad. it. 1999, Un approccio ecologico alla visione, Bologna, Il Mulino. Gibson, E.J., & Walk, R.D., 1960, The “visual cliff ”, «Scientific American», 202: 64-71. Gil-White, F., 2001, Are Ethnic Groups Biological Species to the Human Brain? Essentialism in Our Cognition of Some Social Categories, «Current Anthropology», vol. 42, n. 4: 515-536. Gil-White, F., 2005, Is the ethnocentrism adaptative? An ethnographic analisis, «Current Anthropology», vol. 46, n. 4. Girotto, V., Kemmelmeir, M., Sperber, D., & van der Henst, J.B., 2001, Inept reasoners or pragmatic virtuosos? Relevance and the deontic selection task, «Cognition», 81: 69-76. Bibliografia generale 315 Gnerre, M., 1987, La matematica come esperienza culturale, in Pignato, C., a cura di, 1987a, Pensare altrimenti. Esperienze del mondo e antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza: 80-115. Godelier, M., 1973, Horizon, trajets marxistes en antropologie, Paris, Maspero, 1977 2a ed.; trad. it. 1977, Antropologia e marxismo, Roma, Editori Riuniti; parte IV, cap. 5: Mito e storia: riflessione sui fondamenti del pensiero selvaggio: 343-366, ed. or. 1971. Godelier, M., 1975, Rapports de production, mythes, société, s.d.; trad. it. 1976, Rapporti di produzione, miti, società, Milano, Feltrinelli. Godelier, M., 1982, La Production de Grandes Hommes, Paris, Fayard. Godelier, M., 1984, L’idéal et le matérial. Pensée, économies, sociétés, Paris, Librairie Arthème Fayard; trad. it. 1985, L’ideale e il materiale. Pensiero, economie, società, Roma, Editori Riuniti, pref. all’ed. it. e cura di Curti, F.; cap. IV: Il ruolo del pensiero nella produzione dei rapporti sociali: 167-172. Goodenough, W.H., a cura di, 1964, Explorations in Cultural Anthropology, New York, Mac Graw-Hill. Goodenough, W.H., 1994, Per una teoria operativa della cultura, in Borofsky, R., a cura di, Assessing Cultural Anthropology, New York, Mac Graw-Hill; ed. it. 2000, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi: 324-336. Goodwin, C., 2003, Il senso del vedere, Roma, Meltemi, intr. di Duranti, A., ed. or. 1994-97. Goody, J., 1977, The Domestication of the Savage Mind, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1981, L’addomesticamento del pensiero selvaggio, Milano, Franco Angeli. Goody, J., 1987, The Interface between the Written and the Oral, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1990, Il suono e i segni. L’interfaccia tra scrittura e oralità, Milano, il Saggiatore. Goody, J., 1994, La cultura e i suoi confini: un punto di vista europeo, in Borofsky, R., a cura di, Assessing Cultural Anthropology, New York, Mac Graw-Hill; ed. it. 2000, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi: 310-322. Goody, J., Watt, I., 1962-63, The Consequences of Literacy, «Compa- 316 Modelli della mente e processi di pensiero rative Studies in Society and History», v; trad. it. 1973, Le consequenze dell’alfabetizzazione, in Giglioli, P.P., a cura di, Linguaggio e società, Bologna, il Mulino: 361-406; ed. riv. 2000, Giglioli, P.P., Fele, G., a cura di, Linguaggio e contesto sociale: 285-331. Grasseni, C. & Ronzon, F., 2004, Pratiche e cognizione. Note di ecologia della cultura, Roma, Meltemi. Groppo, M., Locatelli, M.C., 1996, Mente e cultura. Tecnologie della comunicazione e processi educativi, Milano, Raffaello Cortina Editore. Halford, G.S., 1982, The Development of Thought, New Jersey-Hillsdale, Lawrence Erlbaum Associates. Halbwachs, M., 1968, La mémoire collective, Paris, Presses Universitaires de France. Hallowell, A., 1955, Culture and Experience, Philadelphia, Shocken Books, 1967 2a ed. Hallpike, C.R., 1976, Is there a primitive mentality?, «Man», v. 11, n. 2: 253-270; e gli interventi a seguire sulla rivista di Williams, R. e Hallpike, C.R. sul n. 3-4, 1977: 530; Warren, N. sul n. 3, 1978: 477-478; Williams, R. sul n. 2., 1979: 355; con la replica conclusiva di Hallpike, C.R. sul n. 4, 1979: 753-754. Hallpike, C.R., 1979, The Foundations of Primitive Thought, Oxford, Clarendon Press; New York, Oxford University Press, 2000; trad. it. 1984, I fondamenti del pensiero primitivo, Roma, Editori Riuniti, intr. all’ed. it. e cura di Squillacciotti, M.; trad. ted. 1984, Die Grundlagen primitiven Denkens, Stuttgart, Klett Cotta; München, Deutscher Taschenbuch, 1990; trad. sp. 1986, Fundamentos del pensamiento primitivo, México, Fondo de Cultura Económica. Hamilton, W., 1964, The Genetical Evolution of Social Behaviour, «Journal of Theoretical Biology», vol. 7: 1-52. Hardin, G., 1968, The Tragedy of Commons, «Science», n. 162: 1243-48. Hardin, C.L., Maffi, L., a cura di, 1997, Color Categories in Thought and Language, Cambridge, Cambridge University Press. Harman, G.,1986, Change in View: Principles of Reasoning, Cambridge, MIT Press/Bradford Books. Bibliografia generale 317 Hauser, M.D., Chomsky, N. e Fitch, W.T., 2002, The Faculty of Language: What Is It, Who Has It and How Did It Evolve?, «Science», n. 298: 1569-1579. Havelock, E.A., 1963, Preface to Plato, Cambridge (Mass.), Harvard University Press. Havelock, E.A., 1976, Origins of Western Literacy, Toronto. Hawkes, K., O’Connel, J., & Rogers, L., 1997, The Behavioural Ecology of Modern Hunter-Gatherers, and Human Evolution, «Trends in Ecology and Evolution», vol. 12: 29-31. Henrich, J. & Boyd, R., 1998, The Evolution of Conformist Transmission and the Emergence of Between-Group Differences, «Evolution and Human Behaviour», vol. 19, 215-241. Henrich, J. & Boyd, R., 2002, Culture and Cognition:Why Cultural Evolution Does Not Require Replication Representations, «Journal of Culture and Cognition», vol. 2: 87-112. Henrich, J. & Gil-White, F., 2001, The Evolution of Prestige, «Evolution and Human Behaviour», vol. 22: 165-196. Herder, J.G., 1772, Abhandlung uber den Ursprung der Sprache, Berlin, Voss; rad. it. 1995, Saggio sull’origine del linguaggio, Parma, Partiche editrice. Hill, K. & Kaplan, H., 1993, On Why Male Foragers Hunt and Share Food, «Current Anthropology», vol. 34: 701-706. Hirschfeld, L.A., 1988, On Acquiring Social Categories: Cognitive Development and Anthropological Wisdom, «Man», vol. 23: 611-638. Hirschfeld, L.A., 1994a, Is the acquisition of social categories based on domain-specific competence or on knowledge transfer?, in Hirschfeld, L.A. & Gelman, S.A., a cura di, 1994b, Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge, Cambridge University Press. Hirschfeld, L.A., 1995, Do Children Have a Theory of Race?, «Cognition», n. 54: 209-252. Hirschfeld, L.A., 1996, Race in the Making: Cognition, Culture and the Child’s Construction of Human Kinds, Cambridge, MIT Press. Hirschfeld, L.A., 1998, Natural assumptions: Race, essence and taxonomies of human kinds, «Social Research», vol. 65: 331-349. 318 Modelli della mente e processi di pensiero Hirschfeld, L.A., 2001, On a Folk Theory of Society: Children, Evolution and Mental Representations of Social Groups, «Personality and Social Psychology Review», vol. 5, n. 2. Hirschfeld, L.A., 2003, Naive Sociology, in www.psych.upenn.edu/courses/psych172-spring2003. Hirschfeld, L.A. & Gelman, S.A., 1994, a cura di, Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge, Cambridge University Press. Hull, D., 1988, Science as a Process, Chicago, Chicago University Press. Hurley, S., 2003, Animal Action in the Space of Reasons, in «Mind & Language», n. 18 (3): 231-256. Hurley, S., Chater, N., a cura di, 2005, Perspectives on Imitation: From Neuroscience to Social Science, Cambridge, MIT Press. Hutchins, E., 1994, Cognition in the wild, Cambridge, MIT Press. Horton, R., Finnegan, R., a cura di, 1973, Modes of thought. Essay on Thinking in Western and non-Western societies, London, Faber & Faber. Hugh-Jones, C., 1979, From the Milk River: Spatial and Temporal Processes in Northwest Amazonia, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1983, Dal fiume di latte. Processi spaziali e temporali in Amazzonia nord-occidentale, Milano, Franco Angeli. Ingold, T., 2000a, Evolving Skills, in Rose, H. & Rose, S., a cura di, Alas Poor Darwin: Arguments against Evolutionary Psychology, London, Jonathan Cape: 225-246; trad. it. 2001, Tre in uno: come eliminare le distinzione tra mente, corpo e natura, in Ingold, T., Ecologia della cultura, Roma, Meltemi: 49-80.. Ingold, T., 2000b, Culture, nature, environment: steps to an ecology of life, in The perception of the environment. Essays in livelihood, dwelling and skill, London, Routledge: 13-26. Ingold, T., 2000c, Culture, perception and cognition, in id., The perception of the environment. Essays in livelihood, dwelling and skill, London, Routledge: 157-171. Ingold, T., 2001, Ecologia della cultura, intr. all’ed. it. e cura di Grasseni, C., Ronzon, F., Roma, Meltemi. Bibliografia generale 319 Ingold, T., 2004, Beyond biology and culture. The meaning of evolution in a relational world, «Social Anthropology», vol. 12, n. 2: 209222. Ingold, T., manoscritto inedito, Culture and Human nature: an obituary notice, in www.abdn.ac.uk/chags9/1Ingold. Irvine, S.H., Berry, J., 1983, Human Assessment and Cultural Factors, London, Plenum Press. Jaynes, J., 1976, The Origin of Consciousness in the Breakdown of the Bicameral Mind; trad. it. 1984, Il crollo della mente bicamerale e l’origine della coscienza, Milano, Adelphi. Jedlowski, P. & Rampazi, M.R., a cura di, 1991, Il senso del passato, Milano, Franco Angeli. Jensen, A.E., 1948, Das religiöse Weltbild einer frühen Kultur, Stoccarda, Schröder Verlag; trad. it. 1952, Come una cultura primitiva ha concepito il mondo, Torino, Einaudi; Bollati Boringhieri, 1965 2a ed., pref. all’ed. it. di de Martino, E. Johnson-Laird, P.N., 1983, Mental Models. Toward a Cognitive Science of Language, Inference and Consciousness, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1988, Modelli mentali. Verso una scienza cognitiva del linguaggio, dell’inferenza e della coscienza, Bologna, il Mulino, intr. all’ed. it. di Legrenzi, P. Johnson-Laird, P.N., 1988, The Computer and the Mind. An Introduction to Cognitive Science, London, Collins Sons & Co.; trad. it. 1990, La mente e il computer. Introduzione alla scienza cognitiva, Bologna, il Mulino, 1997 2a ed. Kanaphitippilai, V., 1992, July 1983: The survivor’s experience, in Das, V., a cura di, Mirrors of violence: communities, riots and survivors in South Asia, Oxford-Delhi, Oxford University Press: 321-44. Kanwisher, N. & Moscovitch, M., 2000, The Cognitive Neuroscience of Face Processing: An Introduction, «Cognitive Neuropsychology», 1/2/3: 1-13. Karmiloff-Smith, A., 1992, Beyond Modularity, Cambridge, MIT Press; trad. it. 1995, Oltre la mente modulare, Bologna, il Mulino. Karp, I., Bird, C., a cura di, 1986, Explorations in African Systems 320 Modelli della mente e processi di pensiero of Thought, London, Smithsonian Institute Press. Kaufmann, S., 1993, The Origins of Order, New York, Oxford University Press. Keesing, F., 1949, Some notes on Bontok Social Organization, Northernn Philipphines, «American Anthropologist», vol. 51: 578-601. Keesing, R.M., 1994, Le teorie della cultura rivisitate, in Borofsky, R., a cura di, Assessing Cultural Anthropology, New York, Mac Graw-Hill; ed. it. 2000, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi: 367-377. Kelly, R., 1985, The Nuer Conquest, Ann Arbor, University of Michigan Press. Kim, K.H.S., Relkin, N.R., Lee, K.M., & Hirsch, J., 1997, Distinct cortical areas associated with native and second languages, «Nature», 388: 171-174. Kleinman, A.V., Das, V. & Lock, M., a cura di, 1997, Social suffering, Berkeley, University of California Press. Klinkhammer, L., 1993, L’occupazione tedesca in Italia 1943-1945, Torino, Bollati Boringhieri. Kluckhohn, C., 1952, Values and Value-Orientations in the Theory of Action, in Parsons, T., & Shils, E., a cura di, Toward a General Theory of Action, Cambridge, Harvard University Press, 388-433. Kluckhohn, C., Kroeber, A.L., 1952, Culture. A Critical Review of Concepts and Definitions, New York, Vintage Books, 1963 2a ed.; trad. it. 1972, Il concetto di cultura, Bologna, il Mulino; ed. it a cura di Callari Galli, M., intr. di Tentori, T., Il concetto di cultura in antropologia. Knight, N.N. et. al., 2003, Children’s Attributions of Beliefs to Humans and Gods: Cross-Cultural evidence, «Cognitive Science». Köhler, W., The Mentality of Apes, London, Routledge & Kegan Paul; trad. it. 1961, L’intelligenza delle scimmie antropoidi, Firenze, Giunti Barbera, presentaz. di Setter, G. Kroeber, A., 1963, Anthropology, «Blace & World», ed. orig. 1923. Kuper, A., 1996, The Chosen Primate, Cambridge, Harvard University Press. Kurzban, R. & Haselton, M.H., 2006, Making Hay Out of Straw? Bibliografia generale 321 Real and Imagined Controversies in Evolutionary Psychology, in Barkow, J.H., 2006, a cura di, Missing the Revolution. Darwinism for Social Scientists, New York, Oxford University Press: 149-163. La Cecla, F., 1987, Spazio e mente locale, in Pignato, C., a cura di, 1987a, Pensare altrimenti. Esperienza del mondo e antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza: 55-79. Lakoff, G., 1987, Women, fire and dangerous things. What categories reveal about the mind, Chicago, Chicago University Press. Laland, K. et. al., 2000, Niche Construction, Biological Evolution and Cultural Change, «Behavioral and Brain Sciences», vol. 23: 131146. Lansing, S. & Kremer, J., 1993, Emergent Properties of Balinese Water Temple Networks, «American Anthropologist», vol. 95: 97114. Lawrence, W. & Murdock, G., 1949, Murgin Social Organization, «American Anthropologist», vol. 51: 58-67. Leach, E., 1961, Rethinking Anthropology, London, Athole Press, 1966 2a ed.; trad. it. 1973, Nuove vie dell’antropologia, Milano, il Saggiatore, ed. or. 1944-59. Leach, E., 1976, Culture and Communication. The Logic by which Simbols are Connected. An Introduction to the Use of Structuralist Analysis in Social Anthropology, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1981, Cultura e comunicazione. La logica della connessione simbolica, Milano, Franco Angeli, pref. all’ed. it. di Imperatore Picone, A. Leach, E., 1978, Cultura/Culture, in Enciclopedia Einaudi, Torino, Einaudi, vol. IV: 238-270. LeDou, J., 1992, Emotion as memory: anatomical systems underlying indelible neural traces, in Christianson, S.A., a cura di, The handbook of emotion and memory: research and theory, Hove, Lawrence Erlbaum Associates: 269-288. Lenoir, R., 1922, La mentalité primitive, «Revue de Métaphisique et de Morale»: 214-216. Leroi-Gourhan, A., 1964-65, Le geste et la parole. Technique et langage, Paris, Éd. Albin Michel; trad. it. 1977, Il gesto e la parola, vol. 322 Modelli della mente e processi di pensiero I: Tecnica e linguaggio; vol. II: La memoria e i ritmi, Torino, Einaudi, trad. it. di Zannino, F. Leroy, O., 1927, La raison primitive. Essai de réfutation du prélogisme, Paris, Geuthner. Leslie, A.M., 1987, Pretense and representation: The origins of “theory of mind”, «Psychological Review», n. 94: 412–426. Lévi-Strauss, C., 1936, Contribution à l’ètude de l’organisation sociale des Indiens Bororo, «Journal de la Société des Americanistes», vol. 18, n. 2. Lévi-Strauss, C., 1958, Anthropologie structurale, Paris, Librairie Plon; trad. it. 1966, Antropologia strutturale, Milano, il Saggiatore; cap. X: L’efficacia simbolica: 210-230, ed. or. 1949. Lévi-Strauss, C., 1962, La pensée sauvage, Paris, Librairie Plon; trad. it. 1964, Il pensiero selvaggio, Milano, il Saggiatore. Lévi-Strauss, C., 1963, The Bear and the Barber, «Journal of the Royal Anthropological Institute», vol. 93: 4-44. Lévi-Strauss, C., 1964, Le totémisme aujourd’hui, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1972, Il totemismo oggi, Milano, Feltrinelli. Lévy-Bruhl, L., 1910, Les functions mentales dans les sociétés inférieures, Paris, Alcan; trad. it. 1970, Psiche e società primitive, Roma, Newton Compton, 1975 2a ed., intr. all’ed. it. di Lener, S. Lévy-Bruhl, L., 1922, La mentalité primitive, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1966, La mentalità primitiva, Torino, Einaudi, 1971 2a ed., con un saggio di Cocchiara, G., La mentalità primitiva. Lévy-Bruhl, L., 1927, L’âme primitive, Paris, Alcan; trad. it. 1948, L’anima primitiva, Torino, Einaudi, 1962 2a ed., trad. di de Martino, E. Lévy-Bruhl, L., 1931, Le surnaturel et la nature dans la mentalité primitive, Paris, Alcan; trad. it. 1973, Soprannaturale e natura nella mentalità primitiva, Roma, Newton Compton, intr. all’ed. it. di Lugarini, L. Lévy-Bruhl, L., 1935, La mythologie primitive, Paris, Alcan; trad. it. 1973, La mitologia primitiva, Roma, Newton Compton. Bibliografia generale 323 Lévy-Bruhl, L., 1949, Les Carnets de Lucien Lévy-Bruhl, Paris, Presse Universitaire de France, postumo a cura di Leenhardt, M.; trad. it. 1952, I quaderni, Torino, Einaudi. Liverta Sempio, O., Marchetti, A., a cura di, 1995, Il pensiero dell’altro: contesto e teorie della mente, Milano, Raffaello Cortina Editore, 1995, pref. di Groppo, M. Lloyd, G.E.R., 2007, Cognitive Variations. Reflections on the Unity & Diversity of the Human Mind, Oxford, Oxford University Press. Lopez, A. et. al., 1997, The Tree of Life: Universals of Folk-Biological Taxonomies and Inductions, «Cognitive Psychology», vol. 32: 251-295. Lorenz, K., 1965, Evolution and Modification of Behavior, Chicago, Chicago University Press; trad. it. 1971, Evoluzione e modificazione del comportamento, Torino, Bollati Boringhieri, pref. di Zanforlin, M. Lumsden, C. & Wilson, E.O., 1981, Genes, Mind and Culture, Cambridge, Harvard University Press. Lurija, A.R., 1958, Rol reci v regulirovanii normalnogo i nenormalnogo povedenija; trad. it. 1971, Linguaggio e comportamento, Roma, Editori Riuniti, pref. all’ed. it. di Cecchini, M., trad. di tre conferenze tenute all’University College di Londra nel 1958. Lusini, V., 1999, La rappresentazione figurativa tra arte e antropologia cognitiva, «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Siena», vol. XX: 299-321. Lusini, V., 2001a, Per uno studio cognitivo della figurazione, Siena, Protagon Editori Toscani. Lusini, V., 2001d, Forme di valori pubblici. Logiche strutturali e proiezioni simboliche della comunicazione visiva, Siena, Università degli Studi, «Quaderno del Laboratorio di Didattica e Antropologia», n. 3. Lutri, A., 2002, A cognitive contribute about the ethnographic study of knowledges, paper presentato al workshop “Anthropologies of knowledge”, Copenaghen, VII EASA Biannual Conference (European Association of Social Anthropologists), pubblicato on-line: www.easaonline.org/conference2002. 324 Modelli della mente e processi di pensiero Lutri, A., 2005, Immaginarsi arbereshe. Poetiche, pratiche e cognizione dell’identità in una comunità dell’Arberia siciliana, Cosenza, Centro Editoriale Librario. Macchi Cassia, V., Valenza, E., Simion, F., 2005, Lo sviluppo cognitivo. Dalle teorie classiche ai nuovi orientamenti, Bologna, il Mulino. Malinowski, B., 1922, Argonauts of the western Pacific, London, Routledge; trad. it 1978, Argonauti del Pacifico occidentale, Roma, Newton Compton. Mancini, S., 1989, Da Lévy-Bruhl all’antropologia cognitiva. Lineamenti di una teoria della mentalità primitiva, Bari, Edizioni Dedalo, intr. di Lanternari, V. Marconi, D., 2001, Filosofia e scienza cognitiva, Roma-Bari, Laterza. Marler, P., 1991, The instinct to learn, in S. Carey & R. Gelman, a cura di, The epigenesis of mind: Essays on biology and cognition, Hillsdale, NJ, Erlbaum. Marr, D., 1982, Vision, New York, W. H. Freeman. Marraffa, M., 2002, Scienza cognitiva: un’introduzione filosofica, Padova, Cleup. Marraffa, M. & Meini, C., 2005, La mente sociale. Le basi cognitive della comunicazione, Roma-Bari, Laterza. Mazzone, M., 2005, Menti simboliche, Roma, Carocci. Mazzone, M., 2006, Linguistica cognitiva, in Pennisi, A. e Perconti, P., a cura di, Scienze cognitive del linguaggio. Fondamenti e analisi critica, Bologna, il Mulino. Mazzone, M., in stampa (a), Dialogicità, linguaggio, socialità dell’io. Considerazioni cognitive su un tema di Bachtin, in id. Mazzone, M., in stampa (b), Imagery, language, and the flexibility of thought, in «Anthropolgy and Philosophy», vol. 7, Special Issue. Maynard Smith, J., 1998, The Origin of Altruism, «Nature», n. 393: 639-640. McLuhan, M., 1964, Understanding Media; trad. it. 1967, Gli strumenti del comunicare, Milano, il Saggiatore. Meltzoff, A.N. e Moore, M.K., 1983, Newborn infants imitate adult facial gestures, in «Child Development», n. 54: 702-709. Miceli, S., 1990, Orizzonti incrociati. Il problema epistemologico in an- Bibliografia generale 325 tropologia, Sellerio, Palermo. Millikan, R., 2005, Language: A Biological Model, Oxford, Clarendon Press. Millikan, R. (in stampa), Précis and Replies, «SWIF Philosophy of Mind Review», 5, 2. Mineka, S., Cook, M., 1988, Social learning and the acquisition of snake fear in monkeys, in Zentall, T.R., Galef, B.G., Social Learning: Psychological and Biological Perspectives, Hillsdale, Lawrence Erlbaum Associates: 51-73. Mithen, S., 2006, Ethnobiology and the evolution of the human mind, «Journal of Royal Anthropological Institute» (Special issue, Ethnobiology and the Science of Humankind): 45-63. Moruzzi, L., s.d., 1991, Rappresentazioni del mondo. Cultura e cognizione fra antropologia e psicologia, Milano, Franco Angeli. Murdock, G., 1949, Social Structure, New York, Macmillan. Murphy, R. & Kasdan, L., 1959, The Structure of Parallel Marriage, «American Anthropologist», vol. 61: 17-29. Namer, G., 1987, Mémoire et société, Paris, Méridiens Klincksieck. Needham, R., 1972, Belief, Language and Experience, Oxford, Basil Blackwell; trad. it. 1976, Credere. Credenza, linguaggio, esperienza, Torino, Rosenberg & Sellier, intr. all’ed. it. di Marconi, D. Nehaniv, C., Dautenhahn, K., 2002, The correspondence problem, in Imitation in animals and artifacts, Boston, MIT Press: 42-61. Nehaniv, C., Dautenhahn, K., 2001, Like me? Measures of correspondence and imitation, «Cybernetics and Systems», 32 (1/2): 11-51. Neisser, U., 1976, Cognition and Reality, San Francisco, Freeman Press; trad. it. 1993, Cognizione e realtà, Bologna, il Mulino. Noble, J., Todd, P.M., 2002, Imitation or something simpler? Modelling simple mechanism for social information processing, in Imitation in animals and artifacts, Boston, MIT Press: 423-440. Nolfi, S., 2006, Behaviour as a complex adaptive system: on the role of self-organization in the development of individual and collective behaviour, «ComPlexUs», 2 (3/4): 195-203. Olson, D.R., 1979, Linguaggi, media e processi educativi, Torino, Loescher, raccolta di saggi a cura di Pontecorvo, C., ed. or. 1970-1977. 326 Modelli della mente e processi di pensiero Olson, D.R., Astington, J.W., 1993, Thinking about Thinking: learning how to take Statements and Hold Beliefs, «Educational Psychologist», 28, n. 1: 7-23; trad. it. 1995, Pensare il pensiero, in Liverta Sempio, O., Marchetti, A., a cura di, Il pensiero dell’altro: contesto, conoscenza e teorie della mente, Milano, Raffaello Cortina Editore: 429-446. Olson, D.R., Torrance, N., a cura di, 1991, Literacy and Orality, Cambridge, Cambridge University Press; trad. it. 1995, Alfabetizzazione e oralità, Milano, Raffaello Cortina Editore. Ong, W., 1967, The Presence of the Word, New Haven, Yale University; trad. it. 1970, La presenza della parola, Bologna, il Mulino, intr. all’ed. it. di Barilli, R. Ong, W., 1982, Orality and Literacy. The Technologizing of the Word, London, Methuen; trad. it. 1986, Oralità e scrittura. Le tecnologie della parola, Bologna, il Mulino, intr. all’ed. it. di Loretelli, R. Origgi, G., 2002, Evoluzione e modularità concettuale, in Borghi, A.M. & Inchini, T., a cura di, Scienze della mente, Bologna, il Mulino: 31-46. Pagel, M., Mace, R., 2004, The cultural wealth of nations, «Nature», 428: 275-278. Parisi, D., 2002, Sulla scienza cognitiva, «Sistemi Intelligenti», vol. XIV, n. 1: 109-29. Parry, M., 1928, L’epithète traditionelle dans Homère, Paris, Société Editrice Les Belles Lettres. Parry, M., 1971, The making of homeric verse: the collected papers of Milman Parry, a cura di Parry, A., Oxford, Clarendon Press. Passerini, L., 1988, Storia e soggettività: le fonti orali, la memoria, Firenze, La Nuova Italia. Pavone, C., 1991, Una guerra civile, Torino, Bollati Boringhieri. Perlés, C., 1977-83, Préhistoire du feu, s.d.; trad. it. 1983, Preistoria del fuoco. Alle origini della storia dell’uomo, Torino, Einaudi. Peters, E., 1967, Some Structural Aspects of the Feud Among the Camel Herding Bedouin of Cyrenaica, «Africa», vol. 37: 261-282. Peterson, N., 1993, Demand Sharing, «American Anthropologist», vol. 95: 860-874. Bibliografia generale 327 Pettazzoni, R., 1948-59, Miti e leggende, Torino, Utet, vol. I: Africa e Australia, 1948; vol. II: Oceania, a cura di Lanternari, V., 1963; vol. III: America settentrionale, 1953; vol. IV: America centrale e meridionale, con la collaborazione di Tentori, T., 1959. Piaget, J., 1923, Le language et la pensée chez l’enfant, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1962 5a ed.; trad. it. 1962, Il linguaggio e il pensiero del fanciullo, Firenze, Giunti Barbera, 1983 2a ed. Piaget, J., 1924, Judgement and Reasoning in the Child, rist. London, Routledge & Kegan Paul; trad. it. 1958, Giudizio e ragionamento nel bambino, Firenze, Giunti Barbera. Piaget, J., 1926, La representation du monde chez l’enfant, Paris, Alcan; trad. it. 1966, La rappresentazione del mondo nel fanciullo, Torino, Einaudi; Torino, Bollati Boringhieri, 1981 2a ed. Piaget, J., 1936, La naissance de l’intelligence chez l’enfant, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé; trad. it. 1968, La nascita dell’intelligenza nel bambino, Firenze, Giunti Barbera; Firenze, La Nuova Italia, 1977 2a ed. Piaget, J., 1937, La construction du réel chez l’enfant, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1963 3a ed.; trad. it. 1973, La costruzione del reale nel bambino, Firenze, La Nuova Italia. Piaget, J., 1945, La formation du symbole chez l’enfant: imitation, jeu et rêve, image et representation, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé; trad. it. 1972, La formazione del simbolo nel bambino, Firenze, La Nuova Italia. Piaget, J., 1947, La psychologie de l’intelligence, Paris, Colin, 1952 2a ed.; trad. it. 1952, Psicologia dell’intelligenza, Firenze, Giunti Barbera. Piaget, J., 1964, Six études de psychologie, Genève, Editions Gonthier; trad. it. 1967, Lo sviluppo mentale del bambino e altri studi di psicologia, Torino, Einaudi. Piaget, J., 1967, Biologie et connaissance, Paris, Gallimard; trad. it. 1983, Biologia e conoscenza, Torino, Einaudi. Piaget, J., 1968, Le structuralisme, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1968, Lo strutturalismo, Milano, il Saggiatore, intr. all’ed. it. di Bonomi, A. 328 Modelli della mente e processi di pensiero Piaget, J., 1970, L’epistémologie génétique, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1971, L’epistemologia genetica, Bari, Laterza. Piaget, J., Inhelder, B., 1947, La representation de l’espace chez l’enfant, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1976, La rappresentazione dello spazio nel bambino, Firenze, Giunti Barbera. Piaget, J., Inhelder, B., 1948, La représentation du monde chez l’enfant, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1955, La rappresentazione del mondo nel bambino, Torino, Bollati Boringhieri. Piaget, J., Inhelder, B., 1966, La psychologie de l’enfant, Paris, Presse Universitaire de France; trad. it. 1970, La psicologia del bambino, Torino, Einaudi. Piaget, J., Szeminska, A., 1941, La genèse du nombre chez l’enfant, Neuchâtel, Delachaux et Niestlé, 1964 3a ed.; trad. it. 1968, La genesi del numero nel bambino, Firenze, La Nuova Italia. Piasere, L., 2002, L’etnografo imperfetto. Esperienza e cognizione in antropologia, Roma-Bari, Laterza. Pignato, C., a cura di, 1987a, Pensare altrimenti. Esperienze del mondo e antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza, saggi di: Pignato, C., La Cecla, F., Gnerre, M., Cardona, G.R., Giannattasio, F. Pignato, C., 1987b, L’esperienza del tempo, in id., a cura di, 1987a, Pensare altrimenti. Esperienza del mondo e antropologia della conoscenza, Roma-Bari, Laterza: 3-54. Pignato, C., 1997, Antropologia cognitiva, in Fabietti, U., Remotti, F., a cura di, Dizionario di Antropologia, Bologna, Zanichelli: 56-57. Pinker, S., 1994, The language instinct: the new science of language and mind, U.K., Penguin; trad. it. 1997, L’istinto del linguaggio. Come la mente crea il linguaggio, Milano, Arnoldo Mondatori. Plotkin, H., 2007, Necessary Knowledge, Oxford, Oxford University Press Portelli, A., 1999, L’ordine è già stato eseguito: Roma, le Fosse Ardeatine, la memoria, Roma, Donzelli. Povinelli, D.J. e Vonk, J., 2004, We don’t need a microscope to explore the chimpanzee mind, «Mind and Language», n. 19: 1-28. Price-Williams, D.R., a cura di, 1969, Cross-Cultural Studies, Har- Bibliografia generale 329 mondsworth, Penguin Books; trad. it. 1975, Culture a confronto, Torino, Bollati Boringhieri. Puccini, S., Squillacciotti, M., 1980, Per una prima ricostruzione critico-bibliografica degli studi demo-etno-antropologici italiani nel periodo tra le due guerre, in Padiglione, V., Puccini, S., Sobrero, A., Squillacciotti, M., a cura di, Studi antropologici italiani e rapporti di classe. Dal positivismo al dibattito attuale, Milano, Franco Angeli: 67-93 e 201-239. Putman, H., 1975, Mind, Language and Reality, Cambridge, Cambridge University Press; trad it. 1987, Mente, linguaggio e realtà, Milano, Adelphi. Radin, P., 1927, Primitive Man as Philosopher, New York, Appleton & Co.; trad. it. 2001, L’uomo primitivo come filosofo, Roma, Ei Editori, intr. all’ed. it. di Clemente, P. Radstone, S., a cura di, 2000, Working with memory, in id., Md methodology, Oxford, Berg: 1-22. RaiUno 2000, Bentornati ragazzi di Sant’Anna, di Piero Borella, Serata TG1, 12 agosto. Rappaport, R., 1999, Ritual and Religion in the Making of Humanity, Cambridge, Cambridge University Press. Reeve, H., 2000, Review of Unto Others, «Evolution and Human Behavior», vol. 21: 65-72. Remotti, F., 1971, Lévi-Strauss. Struttura e storia, Torino, Einaudi. Remotti, F., 1974, La mente dei primitivi. L’immagine dei selvaggi tra ’800 e ’900, Milano, Principato, 1974, con una antologia di Boas, F., Durkheim, É., Mauss, M., Lévy-Bruhl, L.; ristampa La mente dei primitivi tra Ottocento e Novecento, in id., 1986, Antenati e antagonisti. Consensi e dissensi in antropologia culturale, Bologna, il Mulino: 93-146, senza l’antologia dei testi di riferimento. Remotti, F., 2002, a cura di, Forme di umanità, Milano, Bruno Mondadori. Remotti, F., 2005, Sull’incompletezza, in Affergan, F., et al., Figure dell’umano. Le rappresentazioni dell’antropologia, Roma, Meltemi: 21-89. Rizzolatti, G. e Sinigaglia, C., 2006, So quel che fai. Il cervello che agisce e i neuroni specchio, Milano, Raffaello Cortina Editore. 330 Modelli della mente e processi di pensiero Rogoff, B., 2003, The Cultural Nature of Human Development, Oxford-New York, Oxford University Press; trad. it. 2004, La natura culturale dello sviluppo, Milano, Raffaello Cortina Editore. Romano, G., 2004, La mente mimetica. Riflessioni e prospettive sulla teoria della Simulazione Mentale, Siena, Edizioni dell’Università. Romney, A.K., D’Andrade, R.G., a cura di, 1964, Transcultural Studies in Cognition, «American Anthropologist», n. 3. Romney, A.K., Kimball, S.W. & Batchelder, W., 1986, Culture as Consensus: A Theory of Culture and Informant Accuracy, «American Anthropologist», vol. 88: 313-338. Ronzon, F., 2006, Taxa, spiriti e biotecnologia. Saggi di etnografia cognitiva, Verona, QuiEdit. Rosch, E., 1977, Classification of real world objects: origins and representations in cognition, in Johnson-Laird, P. & Wason, P., a cura di, Thinking: readings in cognitive sciences, Cambridge, Cambridge University Press. Rosch, E., 1978, Cognitive representation of semantic categories, «Journal of experimental Psychology», n. 104: 192-223. Rossi, P., a cura di, 1970, Il concetto di cultura. I fondamenti teorici della scienza antropologica, Torino, Einaudi. Rumelhart, D.E., McClelland, J.L., 1986, Parallel Distributed Processing. Explorations in the Microstructure of Cognition, vol. I Foundations, vol. II Psychological and Biological Models, Cambridge, MIT Press; trad. it. parziale, 1991, PDP - Microstuttura dei processi cognitivi, Bologna, il Mulino. Ryle, G., 1979, On Thinking, London, Basil Blackwell; trad. it. 1990, Pensare pensieri, Roma, Armando, intr. all’ed. it. e cura di Melilli Ramoino, G. Sahagun, Fray Bernardino de, 1989, Conquest of New Spain: 1585 revision, Salt Lake City, University of Utah Press. Sahlins, M., 1975, Colori e cultura, «Rassegna Italiana di Sociologia», n. 4: 593-602. Sahlins, M., 1977, Culture and Practical Reason, Chicago, Chicago University Press; trad. it. 1982, Cultura e utilità. Il fondamento simbolico dell’attività pratica, Milano, Bompiani; 1994, Milano, Anabasi. Bibliografia generale 331 Salomon, G., a cura di, 1993, Distributed Cognitions: Psychological and Educational Considerations, New York, Cambridge University Press. Samuels R., 2000, Massively modular minds: the evolutionary psychological account of cognitive architecture, in Carruthers, P. & Chamberlain, A., a cura di, Evolution and the Human Mind: Modularity, Language and Meta-Cognition. Cambridge: Cambridge University Press. Samuels, R., 2002, Nativism in Cognitive Science, «Mind & Language», vol. 17, n.3, pp. 233-265. Samuels R., 2005, Intractability Arguments for Massive Modularity, in Carruthers, P., Laurence, S. & Stich, S., a cura di, 2005, The Innate Mind: Structure and Contents, Oxford, Oxford University Press. Sapir, E., 1949, Culture, Language and Personality, University of California, a cura di Mandelbaum, D.G.; trad. it. 1978, Cultura, linguaggio e personalità. Linguistica e antropologia, Torino, Einaudi, 1978, intr. di Lepschy, G.C. Sapir, E., 1921, Language. An Introduction to the Study of Speech, New York, Harcourt, Brace & World; trad. it. 1969, Il linguaggio. Introduzione alla linguistica, Torino, Einaudi, intr. all’ed. it. di Valesio, P. Saul, J.M., 2002, What is said and psychological reality: Grice’s project and relevance theorist’s criticisms, in «Linguistics and Philosophy», n. 25: 347-372. Schlesinger, L., 1999, The Ten Commandaments, New York, Harper Collins. Schwarz, N., 1990, Forest Society, Philadelphia, University of Pensylvania Press. Scribner, S., 1977, Modes of Thinking and Ways of Speaking: Culture and Logic Reconsidered, in Johnson-Laird, P., Wason, P., a cura di, Thinking, New York, Cambridge University Press: 483-500. Searle, J.R., 1992, The Rediscovery of the Mind, Cambridge, MIT Press; trad. it. 1994, La riscoperta della mente, Torino, Bollati Boringhieri, 2003 rist. 332 Modelli della mente e processi di pensiero Service, E., 1962, Primitive Social Organization, New York, Random House. Seymour-Smith, C., 1986, Cognitive Anthropology, in id., a cura di, Dictionary of Anthropology, New York, Macmillan; trad. it. 1991, Antropologia Cognitiva, in Dizionario di Antropologia, Milano, Sansoni, ed. it. a cura di Leone, A.R., Visca, D.: 23-25. Sherry, D.F., Galef, B.G., 1984, Cultural Transmission Without Imitation: Milk Bottle Opening by Birds, «Animal Behaviour», 32(3): 937-938. Schlosser, G. & Wagner, G.P., 2004, a cura di, Modularity in Development and Evolution, Chicago, Chicago University Press. Schreiber, G., 2000, La vendetta tedesca 1943-1945: le rappresaglie naziste in Italia, Milano, Mondadori. Shore, B., 1996, Culture in mind: Cognition, Culture and the Problem of Meaning, Oxford-New York, Oxford University Press. Simons D.J., & Chabris C.F., 1999, Gorillas in our midst: sustained inattentional blindness for dynamic events, «Perception», 28: 159174. Sober, E. & Sloan Wilson, D., 1998, Unto Others, Cambridge, Harvard University Press. Sousa, P., Atran, S. & Medin, D., 2002, Essentialism and Folkbiology: Further Evidence from Brazil, «Journal of Cognition and Culture», vol. 2: 195-223. Sperber, D., 1974a, Contre certains a priori anthropologiques, in Morin, E. & Piatelli-Palmarini, M., a cura di, L’unité de l’homme. Paris, Le Seuil. Sperber, D., 1974b, Le symbolisme en général, Paris, Hermann; trad. it. 1981, Per una teoria del simbolismo. Una ricerca antropologica, Torino, Einaudi. Sperber, D., 1982, Les Savoir des Anthropologues, Hermann, Paris; trad. it. 1984, Il sapere degli antropologi, Feltrinelli, Milano. Sperber, D., 1985, Anthropology and Psychology: Towards an Epidemiology of Representations (Malinowski Memorial Lecture 1984), «Man», vol. 20: 73-89; trad. it. 1999, in id. Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, Feltrinelli, Milano: 59-80. Bibliografia generale 333 Sperber, D., 1994, The modularity of thought and the epidemiology of representations, in Hirschfeld, L.A. & Gelman, S.A., a cura di, Mapping the Mind: Domain specificity in cognition and culture, Cambridge-New York, Cambridge University Press. Sperber, D., 1996, Explaining Culture. A Naturalistic Approach, Oxford, Blackwell; trad. it. 1999, Il contagio delle idee. Teoria naturalistica della cultura, Feltrinelli, Milano. Sperber, D., 1997, Individualisme methodologique et cognitivisme, in Boudon, R., Chazel, F., Bouvier, A., a cura di, Cognition et sciences sociales, Paris, Presse Universitaire de France: 123-136. Sperber, D., 1999, Conceptual Tools For A Natural Science Of Society And Culture, «Proceedings of the British Academy». Sperber, D., 2001, In Defense of massive modularity, in Dupoux, E., a cura di, Language, Brain and Cognitive Development: Essays in Honor of Jacques Mehler. Cambridge, MIT Press. Sperber, D., 2005, Modularity and relevance: How can a massively modular mind be flexible and context-sensitive?, in The Innate Mind: Structure and Content, a cura di Carruthers, P., Laurence, S. e Stich, S., Oxford, Oxford University Press. Sperber, D. & Wilson, D., 1986, Relevance: Communication and Cognition, Oxford, Blackwell, 1995, 2 ed., Cambridge, MIT Press; trad. it. 1993, La pertinenza, Milano, Anabasi. Sperber, D., Cara, F., & Girotto, V., 1995a, Relevance theory explains the selection task, «Cognition», 52: 3-39. Sperber, D., Premack, D. & Premack, A., 1995b, Causal Cognition, Oxford, Oxford University Press. Sperber, D. & Wilson, D., 1996, Fodor’s frame problem and relevance theory, «Behavioral and Brain Sciences», vol. 19, n. 3: 530-532. Sperber, D. & Hirschfeld, L.A., 1999, Culture, Cognition, Evolution, in Wilson, R. & Keil, F., a cura di, MIT Encyclopedia of the Cognitive Sciences, Cambridge, MIT Press: CXI-CXXXII. Sperber, D. & Hirschfeld, L.A., 2004, The cognitive foundations of cultural stability and diversity, «Trends in Cognitive Sciences», vol. 8, n. 1: 40-46. Sperber, D., 2005, Cultura e modularità, Firenze, Le Monnier. 334 Modelli della mente e processi di pensiero Squillacciotti, M., 1983, Sistema di numerazione e processi cognitivi tra i Cuna del Panamá, relazione presentata al Convegno Nazionale del Centro Studi di Americanistica, Perugia, maggio 1983. Squillacciotti, M., 1984, Introduzione all’ed. it. di Hallpike, C.R., I fondamenti del pensiero primitivo, Roma, Editori Riuniti: VII-XIII. Squillacciotti, M., 1986, Pensiero, scrittura, comunicazione, conoscenza. Riflessioni in antropologia cognitiva, «Orientamenti Pedagogici», n. 5: 829-844; editio minor: «Annali della Facoltà di Lettere e Filosofia dell’Università degli Studi di Siena», VI: 255-271. Squillacciotti, M., 1987, Il numero negli studi etno-antropologici. Per una ricerca sul sistema di numerazione presso i Cuna del Panamá, in Pizzi, C., Veggetti, M.S., Squillacciotti, M., Wagua, A., a cura di, Numerare, contare, calcolare. Per un approccio interdisciplinare allo studio della quantificazione, Roma, Cadmo. Squillacciotti, M., 1994, Ambiente culturale e forme del pensiero, «Atti dei Convegni Lincei», n. 107: 85-93, Roma, Accademia Nazionale dei Lincei; comunicazione nella giornata di studio dell’Accademia sul tema “Lingua, pensiero scientifico e interculturalità: l’esperienza dell’interazione universitaria in Somalia”, Roma, 19 ottobre 1992. Squillacciotti, M., 1995, Ti disegno una storia?, in id., a cura di, La piroga di R’Agnambié. Racconti del Gabon, Torino, L’Harmattan Italia: 133-178. Squillacciotti, M., 1996a, Antropologia del numero. Categorie cognitive e forme sociali, Brescia, Grafo. Squillacciotti, M., 1996b, Le tecnologie del pensiero e le culture altre, «Rivista dell’istruzione», n. 6: 939-957. Squillacciotti, M., 1998a, La parola, l’immagine e la scrittura: una prospettiva etno-cognitiva, «Thule - Rivista di Studi Americanistici», n. 4-5: 11-24. Squillacciotti, M., 1998b, Il linguaggio dei segni nel canto del Muu Igala, in id., I Cuna di Panamá. Identità di popolo tra storia ed antropologia, Torino, L’Harmattan Italia: 123-147. Squillacciotti, M., 2000a, La parola e l’immagine. Saggi di antropologia cognitiva, Siena, Università degli Studi, «Quaderno del Laboratorio di Didattica e Antropologia», n. 1. Bibliografia generale 335 Squillacciotti, M., 2000b, Nota alla parte quarta: Ripensare il culturale, in Borofsky, R., a cura di, 2000, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi: 306-309. Squillacciotti, M., 2004, Il bambino “rotondo”: vedere, fare, sapere, in id., a cura di, LaborArte. Esperienze di didattica per bambini, Roma, Meltemi: 23-47. Squillacciotti, M., 2006, Colori riflessi. Tassonomie e pratiche sociali nelle “mola” dei Cuna (Panamá), in AA.VV., Sguardi sui colori. Arti, Comunicazione, Linguaggi, Siena, Università degli Studi, atti del Seminario Interdisciplinare, 27-29 marzo 2006. Stafford, C., 1995, The Roads of Chinese Childhood: Learning and Identification in Angang, Cambridge, Cambridge University Press. Stafford, C., 2003, Langage et apprentissage des nombres en Chine et à Taiwan, «Terrain», vol. 40: 65-80. Stafford, C., 2004a, Introduction: Learning and Economic Agency in China and Taiwan, «Taiwan Journal of Anthropology», vol. 2, n. 1: 1-10. Stafford, C., 2004b, Two Stories of Learning and Economic Agency in Yunnan, «Taiwan Journal of Anthropology», vol. 2, n. 1: 171192. Stella, G., 2000, Sviluppo cognitivo. Argomenti di psicologia cognitiva, Milano, Bruno Mondadori. Sterelny, K., 2003, Thought in a hostile world: The evolution of human cognition, Oxford, Blackwell. Strauss, C., Quinn, N., 1994, Un’antropologia cognitivo-culturale, in Borofsky, R., a cura di, L’antropologia culturale oggi, Roma, Meltemi: 348-364 (ed. orig., 2000, Assessing Cultural Anthropology, New York, Mac Graw-Hill). Strauss, C. & Quinn, N., 1997, a cura di, A cognitive theory of cultural meaning, Cambridge, Cambridge University Press. Simons, D., 1992, On the use and misuse of Darwinism in the study of human behaviour, in Barkow, J., Cosmides, L. & Tooby, J., a cura di, 1992, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford-New York, Oxford University 336 Modelli della mente e processi di pensiero Press: 137-59; trad. it. 2006, in Adenzato, M. e Meini, C., a cura di, 2006, Psicologia evoluzionistica, Torino, Bollati Boringhieri: 41-69. Tambiah, S.J., 1996, Leveling crowds: ethnonationalistic conflicts and collective violence in South Asia, Berkeley, Cambridge University Press. Tanney, J., 2002, Investigating cultures. A Critique of cognitive anthropology, «Journal of Royal Anthropological Institute». Tattersall, I., 1998, Becoming Human, New York, Harcourt Brace & Company; trad. it. 1998, Il cammino dell’uomo, Milano, Garzanti 2004, 2a ed. Tattersall, I., 2002, The Monkey in the Mirror, New York-London, Harcourt; trad. it. 2003, La scimmia allo specchio. Saggio sulla scienza di ciò che ci rende umani, Roma, Meltemi,. Thompson, P., 1978, The voice of past: oral history, Oxford, Oxford University Press. Thurnwald, R., 1922, Psychologie des primitiven Menschen, München, Reinhardt. Tobias, B., Kihlstrom, J.F., & Schacter, D., 1992, Emotion and implicit memory, in Christianson, S.A., a cura di, The handbook of emotion and memory: research and theory, Hove, Lawrence Erlbaum Associates: 67-92. Tomasello, M., Kruger, A.C., Ratner, H.H., 1993, Cultural learning, «Behavioral and Brain Sciences», 16: 495-552. Tomasello, M., 1996, Do apes ape?, in Heyes, C.M, Galef, B.G., a cura di, Social learning in animals: the roots of culture, San Diego, Academic Press: 319-346. Tomasello, M., 1999, The Cultural Origins of Human Cognition, Cambridge, Harvard University Press; tra. it. 2005, Le origini culturali della cognizione umana, Bologna, Il Mulino. Tomasello, M., 2003, Constructing a Language: A Usage-Based Theory of Language Acquisition, Cambridge (Mass.) e London, Harvard University Press. Tomasello, M. e Call, J., 1997, Primate Cognition, Oxford, Oxford University Press. Bibliografia generale 337 Tomasello, M., Carpenter, M., Call, J., Behne, T. e Moll, H., 2005, Understanding and sharing intentions: The origins of cultural cognition, «Behavioral and Brain Sciences», n. 28: 675-691. Tonkin, E., 1992, in Christianson, S.A., a cura di, The handbook of emotion and memory: reserach and theory, Hove, Lawrence Erlbaum Associates, Cambridge, Cambridge University Press. Tononi, G., 1995, Prefazione all’edizione italiana, in Edelman, G.M., Neural Darwinism. The Theory of Neuronal Group Selection, New York, Basic Books; trad. it. 1995, Darwinismo neurale. La teoria della selezione dei gruppi neuronali, Torino, Einaudi: XXI-XXXIII). Tooby, J. & Cosmides, L., 1992a, The psychological foundations of culture, in Barkow, J., Cosmides, L. & Tooby, J., a cura di, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford-New York, Oxford University Press. Tooby, J., Cosmides, L., & Barkow, J., 1992b, Introduction, evolutionary psychology and conceptual integration, in Barkow, J., Cosmides, L. & Tooby, J., a cura di, The Adapted Mind: Evolutionary Psychology and the Generation of Culture, Oxford-New York, Oxford University Press. Tooby, J., & Cosmides, L. 1994, The evolution of domain specificity, the evolution of functional organization, in Hirschfeld, L.A. & Gelman, S.A., a cura di, Mapping the Mind: Domain Specificity in Cognition and Culture, Cambridge, MIT Press. Tooby, J., Cosmides, L. & Barrett, C.H., 2005, Resolving the Debate on Innate Ideas. Learnability Constraints and the Evolved Interpretation of Motivational and Conceptual Functions, in Carruthers, P. Laurence, S. & Stich, S., 2005, a cura di, The Innate Mind: Structure and Contents, Oxford, Oxford University Press: 305-337. Toren, C., 1999, Mind, Materiality and History, Explorations in Fijian Ethnography, London-New York, Routledge. Toren, C., 2002a, Anthropology as the Whole Science of What It Is to Be Human, in Fox, R.G. & King, B.J., a cura di, Anthropology Beyond Culture, Oxford-New York, Berg: 105-124. Toren, C., 2002b, Comparison and Ontogeny, in Gingrich, A. & Fox, R.G., a cura di, Anthropology by Comparison, London, Routledge: 186-203. 338 Modelli della mente e processi di pensiero Toren, C., 2003, Becoming a Christian in Fiji: An Ethnographic Study of Ontogeny, «Journal of Royal Anthropological Institute»: 709-727. Tulving, E., 1972, Episodic semantic memory, in Tulving, E. & Donaldson, W., a cura di, The organization of memory, New York, Academic Press: 382-403. Turner, V., 1986, The Anthropology of Performance, New York, Paj Publications, pref. di Schechner, R.; trad it. 1993, Antropologia della performance, Bologna, il Mulino, intr. all’ed. it. di De Matteis, S.; cap. VII: Corpo, cervello e cultura: 265-295, ed. or. 1982. Tyler, S.A., a cura di, 1969, Cognitive Anthropology, New York, Holt, Rinehart & Winston. Van der Henst, J.B., & Sperber, D., 2004, Testing the cognitive and communicative principles of relevance, in Noveck, I. & Sperber, D., a cura di, Experimental pragmatics, London, Palgrave. Van der Henst, J.B., Sperber, D. & Politzer, G., 2002, When is a conclusion worth deriving? A relevance-based analysis of indeterminate relational problems, «Thinking and Reasoning», 8: 1-20. Van der Leeuw G., 1928, La structure de la mentalité primitive, Strasbourg, Imprimerie Alsacienne. Visalberghi, E., Fragaszy, D., Do monkeys ape?, in Parker, S., Gibson, K., a cura di, “Language” and intelligence in monkeys and apes, Cambridge, Cambridge University Press: 247-273. Viveiros de Castro, E., 2000, La trasformazione degli oggetti in soggetti nelle ontologie amerindiane, «Etnosistemi», n. 7: 47-57, numero su Antropologia e psicologia. Interazioni complesse e rappresentazioni mentali, a cura di Severi, C. Vygotskij, L.S., 1929-35, Problemy psichiceskogo razvitija rebënka, Moskva, Accademia delle Scienze Pedagogiche, pref. di Leontjev, A.N. e Lurija, A.R.; trad. it. 1973, Lo sviluppo psichico del bambino, Roma, Editori Riuniti, cenni bio-biliografici di Mecacci, L. Vygotskij, L.S., 1932, Voobrazenie i tvorcestvo v detskom vozraste, Moskva, Accademia delle Scienze Pedagogiche; trad. it. 1972, Immaginazione e creatività nell’età infantile, Roma, Editori Riuniti. Bibliografia generale 339 Vygotskij, L.S., 1934, Myslenie i rec; trad. it. 1966, Pensiero e linguaggio, Firenze, Giunti Barbera, 1984 2a ed.; Roma-Bari, Laterza, 1990. Vygotskij, L.S., 1978, Mind in Society. The Development of Higher Psychological Processes, Cambridge, MIT Press; trad. it. 1980, Il processo cognitivo, Torino, Bollati Boringhieri. Vygotskij, L.S. & Lurija, A.R., 1930, Etjudi po itorii Obezjana. Primitiv. Rubënok; trad. it. 1987, La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento, Firenze, Giunti Barbera. Vygotskij, L.S., 1960, Istorija razvitija vyssith psihiceskih funktcij, Moskva, Accademia delle Scienze Pedagogiche; trad. it. 1974, Storia dello sviluppo delle funzioni psichiche superiori, Firenze, Giunti Barbera. Vygotskij, L.S., 1978, Mind in Society. The Development of Higher Psychological Processes, Cambridge, Harvard University Press, raccolta di scritti 1933-35, a cura di Cole, M., Scribner, S., Steiner, V.J., Souberman, E., intr. di Cole, M., Scribner, S.; trad. it. 1987, Il processo cognitivo, Torino, Bollati Boringhieri. Vygotskij, L.S., Lurija, A.R., 1930, Etjudy po istorii povedenija. Obezjana. Primitiv. Rebënok, Moskva, Gosizdat, Vaap; trad. it. 1987, La scimmia, l’uomo primitivo, il bambino. Studi sulla storia del comportamento; ed. it. a cura di Veggetti, M.S., Firenze, Giunti. Wagner, G.P. & Altenberg, L. 1996, Complex Adaptations and the Evolution of Evolvability, «Evolution» 50 (3): 967-976. Werner, H., 1948, Comparative Psychology of Mental Development, New York, International University Press; trad. it. 1970, Psicologia comparata dello sviluppo mentale, Firenze, Giunti Barbera. White, S., 1994, Testing an Economic Approach to Resource Dilemmas, «Organizational Behavior and Human Decision Process», vol. 58: 428-456. Whitehouse, H., 1996a, Jungle and computers: neuronal group selection and the epidemiology of representation, «Journal of Royal Anthropological Institute», vol. 2: 99-116. Whitehouse, H., 1996b, Rites of terror: emotion, metaphor and memory in Melanesian initiation cults, «Journal of Royal Anthropological Institute», 2: 703-715. 340 Modelli della mente e processi di pensiero Whitehouse, H., 2001, a cura di, The Debated Mind. Evolutionary Psichology versus Ethnography, London, Berg. Whitehouse, H., 2004, Modes of Religiosity. A Cognitive Theory of Religious Transmission, AltaMira Press. Whitehouse, H. & McCauley, M., 2005, a cura di, Mind and Religion. Psychological and Cognitive Foundations of Religiosity, AltaMira Press. Whorf, B.L., 1941, Relation of Habitual Thought and Behavior to Language, in id., Language, Culture and Personality, Menasha, Sapir Memorial Fund: 75-93. Whorf, B.L., 1956, Language, Thought and Reality, Boston, MIT Press, New York, John Wiley & Sons; trad. it. 1970, Linguaggio, pensiero e realtà, Torino, Bollati Boringhieri. Williams, G., 1992, Natural Selection, New York, Oxford University Press. Wieviorka, A., 1998, L’ère du témoin, Paris, Plon. Wilson, B., a cura di, 1974, Rationality, Oxford, Blackwell, 1981 2a ed. Wilson, D.S., 1975, A General Theory of Group Selection, «Proceedings of the National Academy of Sciences USA 72»: 143-6. Wilson, D.S., 1998, Hunting, Sharing and Multilevel Selection, «Current Anthropology», vol. 39: 73-97. Wilson, D.S., 2002, Darwin’s Cathedral, Chicago, Chicago University Press. Wilson D.S. & Sperber, D., 2004, Relevance theory, in Horn, L. & Ward, G., a cura di, Handbook of Pragmatics, Oxford, Blackwell. Wilson, E.O., 1975, Sociobiology: The New Synthesis, Cambridge, Harvard University Press. Wittgenstein, L., 1922, Tractatus logico-philosophicus, London, Kegan Paul, Trench & Trubner; trad. it. 1989, Tractatus logicophilosophicus, Torino, Einaudi. Wittgenstein, L., 1953, Philosophische Untersuchungen, Oxford, Basil Blackwell; trad. it. 1967, Ricerche filosofiche, Torino, Einaudi, 1995, 2a ed., nota introduttiva di M. Trinchero. Bibliografia generale 341 Woolf, S., 1999, Il senso della storia per Primo Levi, in Momigliano, P. & Garris, R., a cura di, Primo Levi testimone e scrittore di storia, Firenze, Giuntina: 25-49. Young, J. 1988, Writing and rewriting the Holocaust: narrative and the consequences of interpretation, Bloomington, Indiana, Indiana University Press. Zeki, S., 1999, Inner Vision. An Exploration of Art and the Brain, Oxford-New York, Oxford University Press; trad. it. 2003, La visione dall’interno. Arte e cervello, Torino, Bollati Boringhieri. Autori Alberto Acerbi è dottore di ricerca in Metodologia della Ricerca Etnoantropologica (Università di Siena) e lavora presso l’Istituto di Scienze e Tecniche Cognitive del CNR. Si occupa sia dello studio delle spiegazioni naturalistiche dei fatti culturali che di modelli formali inerenti la trasmissione delle conoscenze. Su questi argomenti ha pubblicato diversi articoli apparsi su riviste specializzate. Rita Astuti svolge attività didattica e di ricerca presso il Dipartimento di Antropologia della London School of Economics and Political Sciences di Londra. Da tempo svolge ricerche etnografiche presso i Vezo del Madagascar occupandosi dello studio delle loro forme di identificazione sociale, dell’identità di genere, dei rapporti di parentela, delle forme di acquisizione e delle conoscenze inerenti il mondo naturale e quello sociale. Scott Atran è direttore di ricerca presso il CNRS di Parigi ed è professore associato presso il Dipartimento di Antropologia ed il Dipartimento di Psicologia dell’Università del Michigan. I suoi interessi di ricerca sono inerenti l’antropologia cognitiva e del linguaggio, l’antropologia cognitiva della scienza, e più recentemente lo studio cognitivo della religiosità e del terrorismo suicida. Ha svolto ricerche etnografiche sia in medio oriente (Israele) che sugli altopiani del Guatemala (tra i Maya). Francesca Cappelletto è stata ricercatrice in antropologia presso l’Università di Verona. Ha svolto ricerche etnografiche nelle prealpi lombarde, in zone rurali della Toscana e in varie aree italia- 344 Campo, Spazio, Territorio. Approcci antropologici ne da cui provengono gruppi di minatori emigrati in Australia. Ha lavorato su temi attinenti alla ricerca etnografica. Alessandro Lutri insegna Antropologia Culturale presso la Facoltà di Lingue e Letterature Straniere dell’Università di Catania. Ha svolto indagini etnografiche tra le comunità arbereshe siciliane e gli immigrati albanesi della Sicilia sud-orientale, pubblicando vari articoli e la monografia Immaginarsi arbereshe. Pratiche, poetiche e cognizione dell’identità in una comunità dell’Arberia siciliana (2005). Oltre a interessarsi di epistemologia della conoscenza etnografica si interessa in campo etno-cognitivo delle teorie della categorizzazione del sé individuale e di gruppo (folksociology). Marco Mazzone insegna Filosofia del Linguaggio all’Università di Catania. Le sue attuali ricerche hanno come orizzonte le scienze cognitive del linguaggio, e vertono sulle rappresentazioni concettuali, sui frames come formato di rappresentazione delle competenze pragmatiche, lessicali e sintattiche, sulla flessibilità cognitiva. È membro del Dottorato in Scienze Cognitive dell’Università di Messina. Partecipa inoltre ad un network europeo di ricerca sulla nozione di funzione tra biologia, scienze umane e sociali, tecnologia. Dan Sperber è direttore di ricerca presso il CNR. ed è uno dei più influenti scienziati cognitivi contemporanei. Nei suoi primi lavori si è interessato sia allo studio cognitivo del simbolismo che alla conoscenza antropologica. Ha poi proseguito elaborando un approccio naturalistico allo studio dei fatti culturali da lui chiamato “epidemiologia delle rappresentazioni”. Si è inoltre occupato, insieme a Deirdre Wilson, dello studio cognitivo della comunicazione. Ha compiuto ricerche etnografiche presso i Dorze dell’Etiopia meridionale. Massimo Squillacciotti insegna Antropologia Cognitiva all’Università di Siena dal 2000, dopo aver insegnato Antropologia Culturale presso lo stesso ateneo dal 1975. I suoi interessi di studio Autori 345 e ricerca nel campo etno-cognitivo riguardano i processi cognitivi nel loro rapporto tra codici di espressione del pensiero e forme di comunicazione in differenti contesti d’apprendimento ed insegnamento, sia nella prospettiva della comunicazione interculturale che dell’educazione all’immagine ed alla didattica multimediale. Attualmente lavora alla sistematizzazione e pubblicazione delle ricerche condotte dal gruppo di lavoro del Laboratorio di Didattica e Antropologia dell’Università di Siena. Finito di stampare nel mese di Marzo 2008 per conto di ED.IT - Catania presso Global Print - Gorgonzola (Milano)