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Anno XLIX, nn. 1-2, gennaio-dicembre 2020 ISSN 1591-3988 - ISSN 2532-0203 (on line) La “baricentralità” della formazione in Romano Alquati di Pietro Maltese come citare: Pietro Maltese, La “baricentralità” della formazione in Romano Alquati, in «Teorie pedagogiche e pratiche educative, Bollettino della Fondazione “Vito Fazio-Allmayer”», anno XLIX, nn. 1-2, gennaio-dicembre 2020, pp. 15-46. Edizioni della Fondazione “Vito Fazio-Allmayer”, Palermo PIETRO MALTESE* LA “BARICENTRALITÀ” DELLA FORMAZIONE IN ROMANO ALQUATI Questo articolo si occupa della tarda produzione intellettuale di Alquati, in particolare dell’idea della centralità della formazione nell’ordine sociale contemporaneo, che Alquati definisce in termini di iperindustrialità. Per far ciò, dopo avere fornito un quadro generale, verrà analizzata una conferenza tenuta dallo stesso Alquati nel febbrio del 1990 sui temi della formazione universitaria. This essay deals of Alquati’s late intellectual production, in particular of his idea of the centrality of education in the contemporary social order, which Alquati defines in terms of hyperindustriality. To do this, after providing a general framework, it will be analyzed a conference given by Alquati in February 1990 on the topics of university. Parole chiave: Università, formazione, educazione, industria. Key words: University, training, education, industry. INTRODUZIONE Questo saggio intende approfondire alcuni passaggi della produzione intellettuale dell’ultimo Alquati (degli anni ’80, ’90 e oltre), che, nel contesto d’una lettura complessiva del sistema sociale, tematizzano i modi della formazione della capacità attiva vivente viepiù affermatisi a seguito della fine dei 30 gloriosi e connessi, nel nostro Paese, a quelle profonde ristrutturazioni economico-produttive, nel segno della sempre più pervasiva egemonia neoliberale, poste in essere dal capitale per contro-rispondere al ciclo di lotte dell’operaio-massa. Ora, nell’analizzare la succitata metamorfosi dell’economia, della società e della formazione, Alquati si distanzia sia da alcune interpretazioni di area operaista e/o neo-operaista, sia da quelle elaborate da una parte del discorso sociologico (che, ad esempio, formula la categoria del postindustriale), e invita a vedere nel nuovo corso del capitalismo una radicalizzazione delle sue precedenti tendenze strutturali (senza con ciò ridimensionare le discontinuità), chiamando, nello specifico, in causa una peculiare condizione con* Ricercatore di Pedagogia Generale presso l’Università degli Studi di Palermo, Dipartimento di Scienze Umanistiche. 15 temporanea detta iperindustriale. In tale prospettiva, viene costruendo un modello – da lui stesso chiamato modellone – atto a rappresentare il farsi sistema del capitalismo, nel quale uno spazio importante è dato, lo si accennava, a questioni inerenti alla formazione. A fronte dell’esondazione nel sociale dei processi di valorizzazione un tempo essenzialmente collocati nella sfera della produzione (nel lessico alquatiano: dell’artefattura), nonché, nonostante le retoriche sulla fine della gestione statale top down delle agenzie riproduttive della società civile, dell’esacerbazione del governo e del controllo delle condizioni di riproduzione dei rapporti sociali di produzione, la formazione diviene, infatti, per Alquati, baricentrica e, in alcuni testi, questi scende nel dettaglio delle metodologie e delle strategie che informano il sistema di istruzione, per un verso criticando le prassi didattiche predominanti, per l’altro immaginando per sommi capi un programma operativo tale da arricchire (in prospettiva) l’agente umano in quanto soggetto autonomo e non (o non solo) di potenziarlo in quanto attore addestrato a svolgere prestazioni predeterminate. Detta parte del percorso di ricerca di Alquati è rimasta, però, per molto tempo in ombra, anche a causa della scarsa circolazione degli scritti di questa fase (dati alle stampe da piccole case editrici, se si eccettua Lavoro e attività, pubblicato per Manifestolibri), per non dire che alcuni di essi restano a tutt’oggi inediti1. Così, l’Alquati conosciuto – almeno negli ambienti militanti e nel campo sociologico – è ed è stato quello degli anni ’60 e, in parte, dei ’70: l’Alquati dei testi ospitati sui «Quaderni Rossi» o su «Classe operaia», poi raccolti in Sulla Fiat e altri scritti2, l’Alquati che inventa la conricerca e il metodo della composizione (quantunque non ne abbia mai rivendicato la paternità), che (con buone probabilità) conia l’espressione operaio sociale, che si interroga sull’università di ceto medio e sui rapporti di quest’ultima con il territorio3. Dal 2020, comunque, anche le pagine più recenti stanno diventando oggetto di dibattito in virtù di due volumi collettanei4 che hanno sollecitato una certa comunità scientifico-militante a riconsiderarle, riscoprirle o, in alcuni casi, scoprirle ex novo. Quanto all’area pedagogica, l’ultimo Alquati è, a conoscenza di chi scrive, del tutto ignorato e tale È sufficiente citare Nella società industriale d’oggi del 2000 e Sulla riproduzione della capacità umana vivente oggi del 2002; quest’ultimo verrà, in particolare, pubblicato nel luglio del 2021. 2 Cfr. R. Alquati, Sulla Fiat e altri scritti, Feltrinelli, Milano 1974. 3 Cfr. R. Alquati - N. Negri - A. Sormano, Università di ceto medio e proletariato intellettuale, Stampatori, Torino 1978. 4 Cfr. E. Armano (a cura di), Pratiche di inchiesta e conricerca oggi, Ombre Corte, Verona 2020 e, soprattutto, F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), Un cane in chiesa. Militanza, categorie e conricerca di Romano Alquati, DeriveApprodi, Roma 2020. 1 16 mancanza andrebbe colmata. Con questo breve intervento non si ha, certo, la presuntuosa pretesa di farlo, piuttosto, e più sommessamente, di aprire, in questo settore di studi, il fascicolo-Alquati al fine di comprendere più approfonditamente i processi di produzione del capitale umano e l’aziendalizzazione della formazione superiore. A tal fine, dopo una sintetica e gioco-forza incompleta descrizione del modellone, vista anche la complessità che lo caratterizza o il fatto che esso programmaticamente resti “aperto” e “in fieri”5, e dopo un approfondimento dei concetti-chiave alquatiani di ambivalenza e di residuo irrisolto, verrà presa in considerazione una conferenza del febbraio del 1990 tenuta a Torino per gli studenti della Pantera. In quell’occasione, non solo Alquati elabora una critica delle pratiche pedagogiche allora in uso (dal suo punto di vista, cifra della lavorizzazione e della mezzificazione impresizzante degli ambiti della riproduzione, trasformati in «immediati bacini di accumulazione e valorizzazione diretta del capitale»6), ma schizza, altresì, i contorni di un riformismo educativo possibile, propedeutico a una (non-garantita) rivoluzione didattico-metodologica funzionale ad attivare processi di contro-soggettivazione – quelli ai quali questo intellettuale lontano dai circuiti accademici, benché per molti anni docente di Sociologia industriale presso l’ateneo del capoluogo piemontese, era davvero interessato. 1. IL MODELLONE Il modellone è il tentativo di descrivere il farsi sistema del capitalismo attraverso la raffigurazione di differenti livelli di realtà attraversati da costanti e macro-variabili. Esso potrebbe apparire figlio della fascinazione per quelle prospettive sistemiche e struttural-funzionaliste, alla Luhmann, che, a partire dalla fine degli anni ’70 e per tutti gli anni ’80, in Italia hanno avuto grande fortuna. Sarebbe, tuttavia, un errore rubricare il modellone entro questo filone e ciò non solo per il diverso posizionamento politico di Alquati rispetto, per intenderci, all’autore di Illuminismo sociologico, ma anche perché, pur ragionando da sociologo, Alquati attinge al metodo marxiano dell’astrazione determinata, strumento per produrre una scienza sociale non-neutrale, anzi al servizio d’una parte sociale soggiogata, e per trasformare l’esistente. E non è, al proposito, casuale che, in Italia, l’attenzione sul suddetto metodo si debba al puntiglioso ritorno a Marx di Della Volpe e della sua scuola, una delle fonti della teorizzazione operaista. Basti, in tal senso, dire che la declinazione pazieriana del marxismo quale «sociologia concepita come scienza R. Alquati, Introduzione a un modello sulla formazione, Volume IV, Tomo 1 delle Dispense di Sociologia Industriale, Il Segnalibro, Torino 1992, p. 9. 6 S. Cominu, Lavoro cognitivo e industrializzazione, in «sudcomune», n. 0, 2015. 5 17 politica»7 accoglie la lezione dellavolpiana del materialismo storico quale «sociologia storico-critica»8. Come è noto, il metodo dell’astrazione determinata viene enunciato nell’Einleitung del ’57 e lì Marx mostra come, quando ci si trovi a svolgere un’analisi economico-politica, si sia soliti avviarla da quel che appare «reale e concreto». Sennonché, «considerando le cose da più presso», la procedura si rivela errata. L’esempio cui Marx ricorre è quello della popolazione, la quale non sarebbe che una pura astrazione ove non si tenesse conto «delle classi di cui si compone», che risulterebbero altrettanto un’astrazione in mancanza della conoscenza degli «elementi sui quali […] si fondano». Quindi, non potrebbe inizialmente che ottenersi «un’immagine caotica dell’insieme» e solo «attraverso una determinazione più precisa» si perverrebbe progressivamente «dal concreto immaginato ad astrazioni […] più sottili». A questo punto, il tragitto «dovrebbe essere ripreso in senso opposto», ritornando al dato di partenza, che, però, ora si mostrerebbe come «una ricca totalità di molte determinazioni e relazioni» storicamente determinate. In tal modo, «il concreto» verrebbe accolto quale «concreto di» numerose «determinazioni, dunque unità di ciò che è molteplice», «risultato» e non «punto di avvio». Tale metodologia riuscirebbe a evitare la volatilizzazione della «rappresentazione piena […] in determinazione astratta» e a fare delle «determinazioni astratte» dei mezzi immateriali che conducono «alla riproduzione del concreto nel cammino del pensiero». È, questo, il «modello di salire dall’astratto al concreto», che serve al pensiero per appropriarsi del concreto, riprodotto come «qualcosa di spiritualmente concreto», dunque da non scambiare (alla Hegel) per il «processo di formazione del concreto stesso»9, come può, parimenti, leggersi nel Poscritto alla II edizione del I Libro del Capitale10. Per dirla con Della Volpe, il metodo R. Panzieri, Uso socialista dell’inchiesta operaia, in «Quaderni Rossi», n. 5, 1965, p. 69. 8 G. Della Volpe, Critica dell’ideologia contemporanea, in Id., Opere, Editori Riuniti, Roma 1973, vol. VI, p. 329. 9 K. Marx, Lineamenti fondamentali di critica dell’economia politica («Grundrisse»), tr. it. Einaudi, Torino 1976 (ed. or. 1953), pp. 24-26. 10 Cfr. K. Marx, Poscritto alla seconda edizione (1873) de Il capitale, tr. it., Utet, Torino 1974, p. 87: «Per Hegel, il processo del pensiero, che egli trasforma […] in un soggetto indipendente sotto il nome di Idea, è il demiurgo del Reale, che costituisce soltanto la sua apparenza fenomenica […]. Per me, viceversa, l’Idea non è che il Materiale, convertito e tradotto nella testa dell’uomo. […] Nella sua forma mistificata, la dialettica divenne una moda tedesca perché sembrava trasfigurare la realtà esistente. Nella sua forma razionale, per la borghesia e i suoi corifei dottrinari essa è scandalo […] perché, nella comprensione positiva della realtà così com’è, in7 18 dell’astrazione determinata – per l’intellettuale imolese valido in assoluto e non esclusivamente per penetrare il fenomeno economico11 – potrebbe raffigurarsi «come un movimento circolare» adatto a formulare astrazioni storiche, non aprioristiche. «Una sintesi che è anche analisi»12, questa è l’astrazione determinata, frutto di un’impostazione epistemologica alternativa a quella che concepisce le astrazioni delle scienze borghesi, perse in ipostasi tautologiche aduse ad assumere «come realtà», «per apriorismo sostantificato, […] una idea astrattissima quale», ad esempio, «il più generico concetto di produzione come appropriazione della natura, di modo che questo esaurisca in sé anche la produzione moderna, […] trascendendo[ne] così le specifiche caratteristiche», ovverosia interpolando e sostituendo «il senso specifico dei rapporti borghesi di produzione con quello più generico possibile di produzione […] preconcepito come legge naturale eterna di una società economica in astratto»13. Nell’interpretazione dell’autore di Rousseau e Marx, l’astrazione determinata è, però, principalmente lo «strumento di una teoria materialistica della conoscenza»14 con ridotte ricadute pratiche in ordine alla sovversione del presente o a un mutamento dell’orizzonte del conflitto politico proprio delle organizzazioni del Movimento operaio dell’Italia degli anni ’50 e ’60. Non è, cioè, peregrino affermare che la svolta metodologica dellavolpiana non presentasse «istanze teoriche» tali da sollecitare o richiedere «una strategia» diversa da «quella adottata dai partiti della sinistra storica»15. Non è, viceversa, corretto ritenere che, per il fatto di considerare il materialismo storico una scienza sociale dotata d’una metodologia universale, «co- clude […] la comprensione della sua negazione, del suo necessario tramonto; perché vede ogni forma divenuta nel divenire del moto, quindi anche nel suo aspetto transitorio; perché non si lascia impressionare da nulla, ed è per essenza critica e rivoluzionaria». Sul tema cfr. pure R. Fineschi - T. Redolfi Riva, La costruzione della teoria del modo di produzione capitalistico (1847-65), in S. Petrucciani (a cura di), Il pensiero di Karl Marx. Filosofia, politica, economia, Carocci, Roma 2018, p. 123. 11 Cfr. N. Merker, Dialettica e storia, La Libra, Messina 1971, p. 247 e segg. Cfr. pure M. Manno, Ricordando Alcibiade. Memorie e pretesti per una filosofia della formazione (Platone, Kant, Gentile, Della Volpe), Anicia, Roma 2005. 12 G. Della Volpe, Rousseau e Marx e altri saggi di critica materialistica, in Id., Opere, vol. V, cit., pp. 341-344. 13 Id., Sulla dialettica (una risposta ai compagni e agli altri), in Id., Opere, vol. VI, cit., p. 268. Cfr. pure Id., Miscellanea di logica materialistica, Peloritana, Messina 1964. 14 P. Vinci, Astrazione determinata, in AA.VV., Lessico marxiano, Manifestolibri, Roma 2008, p. 53. 15 M. Alcaro, Dellavolpismo e nuova sinistra, Dedalo, Bari 1977, p. 34. 19 mune, nel suo carattere sperimentale, alle scienze della natura come a quelle umane e ad ogni conoscenza che» si voglia «scientifica», il marxismo dellavolpiano non possedesse le carte in regola per «presentarsi come l’espressione teorica e il punto di vista della classe operaia»16. È, nel merito, da accogliere la lettura di Alcaro, secondo il quale la connotazione di classe del dellavolpismo emergeva dal confronto con le prospettive metodologiche delle scienze borghesi, le quali, per ragioni connesse a interessi di classe tesi al mantenimento dello status quo, non erano nelle condizioni di generare conoscenze valide. Ciò non toglie, per Alcaro, i difetti «nell’articolazione di momento teorico della ricerca e momento pratico della lotta»17. Sta qui il punto di rottura tra dellavolpismo e operaismo. Meglio, il salto di qualità di quest’ultimo, che intende fare delle scoperte teoriche consustanziali all’oculato e meticoloso ritorno dellavolpiano a Marx degli arnesi per intervenire nel reale, connettendo ricerca e conflittualità. Questo atteggiamento, già individuabile nei «Quaderni Rossi», è formalizzato in Marx oltre Marx, dove Negri, dopo aver visto nell’astrazione determinata un «processo conoscitivo» che rompe «la sterile vicenda di un comportamento scientifico feticistico nei confronti dell’oggetto», aggiunge: «il processo dell’astrazione determinata, dell’approssimazione e della conquista astratta del concreto è un processo collettivo, di conoscenza collettiva […], è quindi un elemento di critica e una forma di lotta». Inoltre, l’astrazione determinata è, dalla prospettiva negriana, «un fatto dinamico» da ricollegare al «metodo della “tendenza”»18. Non si può entrare nello specifico della proposta dell’intellettuale padovano, certo è che essa, facendo interagire metodo dell’astrazione determinata e metodo della tendenza, rappresenta un buon prisma di osservazione a partire dal quale afferrare le procedure di costruzione del modellone. Difatti, nell’elaborare astrazioni che rappresentano differenti livelli di realtà organizzati gerarchicamente, Alquati declina «l’astratto» come quella polarità verso cui si approssima il modello nel suo astrarre/estrarre che, pur separando, inerisce al concreto, non assunto come dato osservativo, quindi virtuale punto di avvio, bensì meta a cui mira l’astrazione stessa, nel suo farsi sintesi. In questo senso, si parte dal concreto, per farvi ritorno, arricchendolo di nuove determinazioni, perché l’astrazione, che inizialmente è un’operazione concettuale, deve trovare la propria determinazione reale e socio-sto- Ivi, p. 41. Ivi, p. 46. 18 A. Negri, Marx oltre Marx. Quaderno di lavoro sui Grundrisse, Feltrinelli, Milano 1979, pp. 57-58. Sul tema, cfr. F. Chicchi, Karl Marx, Feltrinelli, Milano 2019, pp. 35-36. 16 17 20 rica. Quindi a una pseudo-concretezza degli inizi, subentra una concretezza determinata e molteplice19. Alquati, più precisamente, muove da un’«analisi» e da una «descrizione» statiche (potrebbe dirsi che assume inizialmente il punto di vista capitalistico, che eterna le categorie economiche e, pur non potendo fare a meno del dinamismo e del rivoluzionamento costante delle forme di vita, attraverso i suoi ideologi spaccia l’idea d’una cristallizzazione della storia, d’una sua fine intesa quale superamento degli antagonismi), seleziona, poi, alcune «variabili fondamentali» e alcune «sotto-variabili», dopodiché processualizza e dinamizza i risultati statici precedentemente ottenuti, al fine di lumeggiare, nel medio raggio, la dialettica e il rapporto tra «realtà» e «possibilità»20, «struttura» e «mutamento», «permanenza» e «transizione»21. È un procedere «a spirale», quello di Alquati, un ritornare di continuo, «ma in maniera sempre diversa e […] più approfondita sulle stesse parole e variabili chiave»22. Prima di entrare nel dettaglio del modellone, va, infine, spesa qualche parola sulla scelta di qualificare il capitalismo contemporaneo ricorrendo al concetto di iperindustrialità. Per Alquati, l’industria è un criterio di strutturazione dell’agire umano, sì, storicamente finalizzato capitalisticamente, cionondimeno potenzialmente finalizzabile in altre direzioni: «una maniera di agire/lavorare collettiva e organizzata (e divisa e integrata) scientificamente, che si basa sul macchinario come base materiale e sull’innovazione e il risparmio progressivo e continuo di lavoro/attività e di tempo»23. Alquati rifiuta, in sintesi, la «definizione statistico-merceologica» dell’industria quale «settore secondario, manufatturiero dell’economia», sviluppa l’idea che essa sia una «modalità trasversale di organizzare in modo seriale o procedimentalizzato la produzione»24 (sicché, al limite, potrebbe dirsi che la fabbrica, M. Pentenero, Per una teoria di medio-raggio, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., pp. 36-37. 20 G. Borio, La figura di Romano Alquati, lezione tenuta all’interno del Corso introduttivo sull’operaismo politico italiano, curato da G. Roggero, 13-02-2019, https://www.youtube.com/watch?v=kIx_u7Hp0Lg. 21 M. Pentenero, Intervento alla video-discussione su Un cane in chiesa..., 1504-2020, https://www.youtube.com/watch?v=TT3Cel6jM4w. 22 R. Alquati, Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, Il Segnalibro, Torino 1989, nt. 5, p. 3. 23 Id., Lavoro e attività per una analisi della schiavitù neomoderna, Manifestolibri, Roma 1994, pp. 101-102. Sul tema cfr. pure Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 2, Il Segnalibro, Torino 1989, p. 13. 24 E. Armano, Inchiesta e conricerca. Discussione su di un approccio di ricerca e di trasformazione sociale, in Id. (a cura di), cit., p. 16. 19 21 dove in passato si produceva tutto il sovrappiù, «contiene, include, l’industria»25), sottolinea la non-necessarietà del nesso industria-capitalismo e scorge nella contemporaneità l’estremizzazione dell’industrialità finalizzata capitalisticamente, la quale finirebbe per abbracciare l’intera attività umana – intesa quale azione di «trasformazione finalizzata di un oggetto» anche immateriale (dello «stato della forma dell’oggetto-di-attività»)26 – e per porre al centro il «consumo» e l’«uso di Capacità intellettuale»27. Andando al modellone, esso, lo si diceva, suddivide il sociale in differenti livelli di realtà – o «modi di essere del sistema» –, ha una forma conico-piramidale e il suo funzionamento è sottoposto a una significativa «causazione verticale», nel senso che i livelli più bassi traggono «consistenza e forza istituente» da quelli alti. Nei secondi si ritrovano «sintesi» e «concentrazione», nei primi un’esplosione delle parti, perciò molteplicità28, e le mutazioni dei piani bassi (quelle più facili da percepire) non necessariamente implicano trasformazioni in quelli alti. Ogni livello, inoltre, ha propri fini, subalterni a finifunzioni superiori. Tale schema serve, tra le altre cose, a scongiurare fughe in avanti propense a cogliere nel dato immediato la conferma della praticabilità di un assalto al cielo qui e adesso realizzabile in virtù, appunto, di deduzioni ricavate da fenomeni che non certificano, in sé, radicali rivoluzionamenti sistemici – e non possono non scorgersi echi dell’impianto metodologico marxiano. Nel livello più alto – o Mega-livello –, Alquati colloca l’accumulazione di dominio, la riproduzione allargata di potere – ed è significativo che, in ciò distanziandosi da un certo economicismo oggettivista, non abbia scelto di porre al vertice la sfera economico-produttiva. Sotto, posiziona il Meta-livello, che qualifica capitalisticamente il processo di riproduzione allargata del potere ed è gerarchicamente suddiviso in due strati: quello dell’accumulazione e quello della valorizzazione di capitale, sebbene Alquati sia convinto che lo sviluppo dell’iperindustrialità provocherebbe un loro schiacciamento strutturale verso l’alto, che, peraltro, coinvolgerebbe la totalità del sistema sociale, di fatto diminuendone la «complessità» e la «varietà»29 e rendendo meno oscuri, anche nei livelli più bassi, i meta-fini di quelli più alti. Nel terzo livello (o Mesa-livello), Alquati individua e posiziona quelle attività utili e differenti sussunte nello strato valorizzante del Meta-livello e rese astratte e indifferen- R. Alquati, Lavoro e attività, cit., p. 53. Ivi, p. 18. 27 Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 2, cit., p. 14. 28 M. Pentenero, Per una teoria di medio-raggio, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., p. 39. 29 Cfr. R. Alquati, Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., p. 46. 25 26 22 ziate mediante un processo fabbrichizzante – interpretata la fabbrichizzazione come una «Grande Meta-trasversalità universale», la quale «si impadronisce e cambia la Funzione delle Attività, non già solo la Forma, subordinandole tutte a una Meta-funzione: la Produzione di Capitale»30. A scanso di equivoci, è bene precisare come i livelli di realtà (e sotto il terzo ve ne sono altri di cui qui non si discuterà) non siano «sequenze». La qual cosa vuol dire che Alquati non suggerisce di pensare ad «attività concrete» che in un secondo tempo verrebbero astrattizzate capitalisticamente. In quanto astrazioni, i livelli rappresentano «le diverse determinazioni di un processo unitario»31 raffigurato sulla falsariga marxiana – nella critica dell’economia politica, infatti, il processo di produzione di oggetti dotati di valore d’uso è coevo alla loro produzione poiché pregni di valore di scambio. Quanto alle attività, nell’iperindustrialità esse si esplicano in quattro «grandi insiemi di relazioni» dotati d’una specifica «funzione sistemica», detti ambiti funzionali32: 1) quello dell’artefattura (della produzione di merci, di beni, di servizi); 2) quello del consumo distruttivo o realizzativo (dove tradizionalmente, nella fase industriale, si monetizza il sovrappiù); 3) quello del consumo riproduttivo, nel quale si colloca il sistema di istruzione e viene prodotta (o dovrebbe) la (nuova) capacità attiva umana in modo allargato; 4) quello istituzionale della politica e dell’amministrazione. Tutti questi ambiti verrebbero, oggi, industrializzati e lavorizzati (in tutti e quattro si genererebbe, perciò, valore), mentre in precedenza era l’ambito artefattivo a essere strutturato mediante modalità industriali. I livelli gerarchici sono, a loro volta, tenuti insieme da una serie di interrelazioni verticali (o «Grandi Dimensioni macro-sistemiche»33), tra cui lo Sfruttamento, la Sussunzione, le Grandi componenti dinamiche. Lo Sfruttamento si dà come «sistema verticale articolato» contenente «tre variabili-processo macro-sistemiche»: 1) la Separazione originaria, grosso modo corrispondente alla Trennung marxiana e consistente in quella separazione delle «condizioni oggettive dell’attività dai presupposti soggettivi» che intacca l’«autosufficienza riproduttiva dell’agente sociale», il quale non potrà fare a meno di ricorrere alla mediazione capitalistica; tale separazione implica anche quella del prodotto dai produttori, per cui il primo appare ai secondi Ivi, p. 9. S. Cominu, Industria e iperindustria, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., p. 52. 32 R. Alquati, Lavoro e attività, cit., p. 42. 33 Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., p. 8. 30 31 23 estraneo34 – marxianamente, quest’ultimo è il meccanismo di oggettivazione reificante, tenuto presente che per Marx, almeno secondo non poche ermeneutiche, «ogni reificazione esprime una forma di oggettivazione, ma non ogni oggettivazione si risolve in una reificazione»35. Nel complesso, la Separazione originaria sembrerebbe coincidere con la marxiana accumulazione originaria, che si riproporrebbe e ripresenterebbe quotidianamente; 2) la Separazione fondamentale, che consiste nella scissione, «nell’insieme incarnato mente/corpo» del vivente, delle sue facoltà; la Separazione fondamentale aggiunge alla privazione dell’«autonomia riproduttiva»36 la separazione dallo stesso agente cosificato di quelle che Alquati definisce le risorse calde (distinguibili dai mezzi-risorse fredde, ossia dall’«agire/lavorare trascorso e capitalizzato», sviluppatisi mangiando «imitativamente la capacità-umana»37), che servono ad altri, che da altri vengono utilizzate, che l’agente si limita a conservare e che, nell’iperindustriale, subiscono una macchinizzazione (esternalizzazione e trasferimento nel macchinario) più marcata di quella delle fasi precedenti38; 3) l’Asimmetria specifica costituisce, infine, la variabile-processo macro-sistemica del dominio delle risorse fredde su quelle calde (di cui l’agente umano è portatore). Quanto alla Sussunzione, essa si dà nelle vesti di: 1) sussunzione sostanziale, ovvero subordinazione dell’attività ai fini dei livelli posti in alto; 2) sussunzione effettiva (nel lessico marxiano: sussunzione reale), idest quel movimento che piega l’attività alle forme e ai contenuti delle forme capitalistiche dominanti, destrutturandola e ricomponendola, attraverso le risorse M. Pentenero, Per una teoria di medio-raggio, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., p. 42. 35 M. Manno, Per una paideia filosofica. Interventi e comunicazioni, Edizioni della Fondazione Nazionale «Vito Fazio-Allmayer», Palermo 2007, p. 107. 36 M. Pentenero, Per una teoria di medio-raggio, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., pp. 42-43. 37 R. Alquati, Lavoro e attività, cit., pp. 33-34. 38 Cfr. Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., p. 160: «La “Separazione Fondamentale” è un processo triplice: è fatta di tre sotto-separazioni: 1) nella sotto-separazione di alcune Capacità dalle altre (anche potenziali) nel corpo stesso della persona proletaria. 2) Nella sotto-separazione della Capacità umana merce dalla persona che ne è proprietaria e la contiene in sé. E 3) nella sotto-separazione e contrapposizione dell’utilità delle Capacità in mercificazione dai fini e dagli interessi “autonomi” della persona proletaria che la porta in sé e lì la sviluppa per altri. Mercificata in senso pieno […], la Capacità umana si è già staccata dalla persona che pure continua a portarla nel suo corpo; e diventata “Capitale Variabile umano” le si contrappone». 34 24 fredde (materiali o immateriali), sì da farla aderire agli imperativi del «risparmio del tempo» o della valorizzazione (dell’ottimizzazione della valorizzazione)39. La sussunzione capitalistica dell’agire realizzerebbe una sorta di «ribaltamento storico», per cui sarebbero «i mezzi a diventare i protagonisti del costruire specifico»40, con il conseguente impoverimento dell’attività umana (non infrequentemente contemporaneo, per quanto possa apparire paradossale, al suo potenziamento per il tramite dell’acquisizione, da parte dell’agente, di competenze e di capitale umano). Quanto alle Grandi componenti dinamiche, esse sono, nel modellone, macro-tendenze che orientano il sistema e appaiono a primo acchito reciprocamente in contraddizione: 1) la tendenza differenziante (quella attiva), indicante le «progressive differenziazioni co-evolutive che alimentano la specializzazione e il prodursi di nuova differenza», vale a dire quell’indispensabile (per il capitale) «processo poietico e vitale» (epperò foriero di conflittualità) che favorisce la proliferazione sistemica di opzioni; 2) la tendenza ugualizzante (quella passiva), complementare a quella precedentemente descritta in quanto meccanismo di stabilizzazione del moltiplicarsi delle opzioni (a mezzo di alcune «trasversalità […] isomorfizzanti»41) e tendente, nell’iperindustrialità, a prevalere sull’altra grande componente dinamica, con contraccolpi sia sulla capacità capitalistica di innovare, sia sull’agente umano (in termini di banalizzazione dell’agire). Rispetto alle Grandi componenti dinamiche, il modellone rende, in definitiva, conto del loro intrecciarsi dialettico e non privo di frizioni relativamente al difficile obiettivo capitalistico di «coniugare la sinergia delle differenze con l’uniformazione del quantitativo»42. Infine, giova gettare velocemente lo sguardo all’asse della profondità del modellone, nel quale convivono tre percorsi (a loro volta suddivisi in non pochi sotto-percorsi): 1) quello dell’ufficialità capitalistica, che costituisce il «modo in cui la parte dominante rappresenta la società e i processi che la strutturano», da non confondersi con il concetto di ideologia quale falsa coscienza; 2) quello dell’informalità, più nascosto e che dà la possibilità di innescare il terzo percorso o 3) contro-percorso della latenza, antagonistico rispetto al primo. A ciascuno dei percorsi corrispondono tre determinazioni idealtipiche dell’agente umano: 1) l’attore, interno all’ufficialità e «astratto M. Pentenero, Per una teoria di medio-raggio, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., pp. 43-44. 40 R. Alquati, Lavoro e attività, cit., p. 86. 41 Cfr. Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., pp. 52-53. 42 M. Pentenero, Per una teoria di medio-raggio, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., pp. 44-46. 39 25 attivatore di ruoli lavorativi»43 predeterminati, «mer[o] soggett[o] grammaticale di verbi»44; 2) la persona (o agente intermedio), che rappresenta una determinazione interna al percorso dell’informalità, «eccede l’attore, ha fini non del tutto riconducibili»45 all’ufficialità (ma non specificamente antagonistici), è, comunque, utile per il capitalismo (che non ha bisogno solo dell’attore, ma pure di determinazioni dell’agente che stimolino l’innovazione); 3) il soggetto (singolare o collettivo), eventualmente risultato di contro-percorsi alternativi alla riproduzione dell’attore. Ebbene, quel che qui maggiormente interessa è il tentativo, attraverso il modellone, di illuminare la progressiva industrializzazione in chiave capitalistica (o fabbrichizzazione) di tutti gli ambiti funzionali, che significa anche mercatizzazione impresizzante. Se si esamina il campo del consumo riproduttivo, in particolare della formazione erogata nel sistema di istruzione in cui si (ri)produce in forma allargata la capacità attiva umana, in effetti si osservano – oramai da più di trenta anni – gli esiti di una traiettoria aziendalizzante che investe la governance, le modalità di agire dei soggetti, la stessa soggettività. E proprio rispetto al tema della soggettività si palesa una delle maggiori differenze tra la lettura di Alquati e quelle di una parte degli intellettuali neo-operaisti. La modellizzazione alquatiana vieta di immaginare che nella produzione contemporanea si dia «un libero consorzio di intelligenze cooperanti»46 autonomamente e politicamente oppresse da un capitale che si comporterebbe in modo parassitario (donde le ipotesi di un ritorno di modalità sussuntive formali). Al contrario, il capitale continuerebbe a organizzare la cooperazione produttiva – attraverso i mezzi, la tecnica, la scienza – e a soggettivizzare (tanto nei contesti artefattivi, quanto, e forse soprattutto, in quelli riproduttivi)47. Di qui il rifiuto di quel «paradigma della cattura» rinvenibile in non poche diagnosi del pensiero radicale, che talora sembrano postulare l’esistenza di un «soggetto pieno», ancorché «non originario», ed «estrinseco al valore» o in procinto di rendersi tale48. Di qui, altresì, una let- R. Alquati, Lavoro e attività, cit., pp. 28-29. Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., nt. 7, p. 23. 45 S. Cominu, Industria e iperindustria, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., p. 55. 46 Ivi, p. 56. 47 Cfr. F. Chicchi - S. Cominu, Inchiesta e conricerca, in G. Roggero - A. Zanini (a cura di), Genealogie del futuro. Sette lezioni per sovvertire il presente, Ombre Corte, Verona 2013, p. 134. 48 R. Sciortino, Astrazione e soggetto, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., p. 127. 43 44 26 tura del general intellect oggi poco sintonica con quelle circolanti nell’area politico-culturale di riferimento dello stesso Alquati, risultando, per lui, la potenza di questa figura evocata nel Frammento sulle macchine dei Grundrisse addirittura ostile, al netto dell’ambivalenza delle risorse fredde, all’agente umano. Giudizio, questo, storico, non assoluto (essendo l’ostilità dell’industria in linea di principio reversibile) e debitore delle posizioni dell’ultimo Napoleoni in merito alle problematicità della legge marxiana del valore-lavoro49, che Alquati assume, sviluppa e declina, in parte distanziandosi dallo stesso Napoleoni, attraverso la tesi della «co-produttività» di lavoro e capitale (e natura)50, esemplificata da quell’intreccio di risorse calde e fredde risolventesi, nella neo-modernità capitalistica, nella subalternità delle prime alle seconde e tale da rendere il capitale costante in qualche misura assimilabile al capitale variabile, perciò un capitale «semivivo»51. Ed è importante rimarcare che il rifiuto di imputare la produttività al solo capitale permette Napoleoni cerca di mostrare come Marx per un verso (in un contesto di sussunzione reale) definisca il capitale produttivo in un senso non-metaforico, per l’altro descriva le procedure valorizzanti ricorrendo alla teoria del valore-lavoro (espressa attraverso l’unità di misura-tempo). Nelle pagine marxiane vi sarebbero, quindi, ragioni «sia per attribuire la produttività al lavoro sia per attribuirla al capitale». Ambiguità, per Napoleoni, risolvibile una volta compreso che, marxianamente, la produttività sarebbe da attribuire «in senso proprio al capitale e solo metaforicamente al lavoro» (Discorso sull’economia politica, Bollati Boringhieri, Torino 1985, pp. 70-71). In base a tale lettura, lo sfruttamento è declinato come «sottomissione di tutti a un’oggettività». Ne verrebbe l’esigenza di riconoscere la condizione comune dei capitalisti e del lavoratore, entrambe «maschere di un meccanismo» a causa del quale il secondo è trasformato in un predicato, il primo in una funzione del denaro, di cui non dispone incondizionatamente, ma dal quale è «avuto». Il che non vuol dire negare l’asimmetria tra queste due figure sociali (Il “Discorso sull’economia politica” di Claudio Napoleoni: un dibattito con l’autore, in «Quaderni di Storia dell’Economia Politica», n. 1-2, 1986, pp. 291-295). 50 Per Alquati, la teoria del valore-lavoro manifesterebbe il «lavorismo tattico» di Marx, che l’avrebbe usata quale arma ideologica che funzionava nell’800, in quanto nella realtà trovava un sostanzioso «riscontro razionale», ma che non funzionava più già nel ’900 e ancor meno funzionerebbe nell’iperindustrialità. Motivo per cui l’analisi sull’origine del sovrappiù dovrebbe arricchirsi mediante l’attribuzione al «lavoro capitalistico» d’una certa capacità valorizzante, il riconoscimento, nel «capitale-mezzo», di un fattore che «co-valorizza» e l’individuazione delle procedure valorizzanti anche oltre e fuori l’ambito funzionale dell’artefattura, essendo «tutto il co-agire» di una formazione sociale a rendere di più di quel che costi (Lavoro e attività, cit., pp. 134-135). 51 Id., Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., p. 120. 49 27 ad Alquati di mantenere aperta l’ipotesi di un rifiuto soggettivo dell’agente umano di partecipare alla co-produzione del valore. 2. AMBIVALENZA E RESIDUO IRRISOLTO Il modellone non veicola – né è questa l’intenzione del suo autore – l’immagine di un manto d’acciaio che schiaccia la soggettività e non lascia spazio per pratiche di liberazione, anche perché non solo il sistema è attraversato da ineliminabili ambivalenze52, ma in esso non si dà la possibilità d’una determinazione capitalistico-lavorizzante dell’agire umano nella sua interezza, in ragione della presenza di un residuo irrisolto, di una «irriduzione», almeno «nel tempo medio»53, sulla quale si fonderebbero sia la prospettiva «di sviluppo […] del Sistema capitalistico neo-moderno»54, come detto bisognoso, suo malgrado, dell’innovazione che non può provenire dall’attore interno al percorso dell’ufficialità, sia quella di un’exit strategy dal capitalismo. Quanto all’ambivalenza – comune e all’industrialità fordista, e all’iperindustrialità –, Alquati la scorge nelle relazioni tra agenti umani e nell’uso che essi fanno delle macchine, della scienza, dell’organizzazione. Dietro queste precise relazioni e questi precisi usi potrebbero intravedersi altri assetti relazionali e altri indirizzi d’uso. L’ambivalenza rappresenta, pertanto, una sorta di «principio di possibilità»55 privo, sì, di garanzie, ma in un certo senso rinforzato dall’idea, se ne faceva cenno, di un residuo socio-soggettivo che impedirebbe «al dominio del capitale sulla vita di chiudersi»56. L’idea dell’esistenza di qualcosa che non potrebbe essere fino in fondo fabbrichizzata viene ad Alquati ancora dall’ultimo Napoleoni57, le cui posizioni saranno oggetto del prosieguo del presente paragrafo. D. Giachetti, Recensione a F. Bedani - F. Ioanilli (a cura di), cit. (https://www.infoaut.org/notes/guida-al-pensiero-vigoroso-e-creativo-di-romano-alquati), il quale sottolinea come l’idea dell’ambivalenza giunga ad Alquati da Merton, convinto della strutturale ambivalenza dei sistemi sociali, immaginati quali campi striati «da tensioni imputabili alle incompatibilità [...] tra alcuni dei» loro «elementi costitutivi». 53 R. Alquati, Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., pp. 328-329. 54 Id., Introduzione a un modello sulla formazione, cit., p. 176. 55 S. Cominu, Industria e iperindustria, in F. Bedani - F. Ioannilli (a cura di), cit., pp. 62-63. 56 F. Chicchi, Dal feticismo del capitale alla prassi dell’imprevisto, in ivi, p. 22. 57 In un lavoro del 1992, Alquati ammetteva la vicinanza tra le sue tesi e quelle di Napoleoni, sottolineando, altresì, pure le difformità, in particolare concernenti – per ragionare nei termini del modellone – il posizionamento di Napoleoni del Metalivello al vertice della piramide (Introduzione a un modello sulla formazione, cit., nt. 47, pp. 31-32). 52 28 Nella III sezione del Discorso sull’economia politica del 1985, Napoleoni tratta del problema della soggettività in Marx, mostrando, con Ruggenini e Goldoni58, le criticità dei potenziali processi liberatori presenti in alcune pagine del moro: dall’idea d’una «restaurazione del soggetto» tale da rovesciare quel rovesciato rapporto di predicazione implicante la subalternità delle risorse calde a quelle fredde, il cui problema è, però, di pensare una soggettività (più o meno originaria) che non esce mai da un rapporto con la natura contrassegnato «in termini di oggettivazione-appropriazione»59, alla sottolineatura della naturalità del valore d’uso contrapposta alla storicità del valore di scambio, antagonismo, questo, che permetterebbe «il costituirsi di un nucleo di resistenza di un soggetto verso il movimento livellatore del capitale»60, quantunque lo stesso Marx rappresenti, nel capitalismo, il valore d’uso sempre mediato dallo scambio. La prima ipotesi emancipatoria sarebbe, secondo Napoleoni, frutto della riconduzione dell’alienazione a una variante della relazione servo-signore, per cui il servo potrebbe riconquistare una dimensione pienamente soggettiva lottando contro il suo proprio nemico e abolendolo. La medesima dialettica potrebbe in parte spiegare anche la seconda ipotesi emancipatoria, non essendo lo schema dell’opposizione tra naturalità del valore d’uso e storicità di quello di scambio significativamente diverso da quello del rapporto servo-signore. La questione, però, per Napo- Cfr. M. Ruggenini, La tecnica e il destino della ragione, Marsilio, Venezia 1979; D. Goldoni, Il mito della trasparenza. Saggi su Marx, Unicopli, Milano 1982. 59 C. Napoleoni, Discorso sull’economia politica, cit., p. 116. Si tratta, cioè, di un soggetto che «si rapporta al mondo come a ciò che è destinato a essere prodotto, e perciò alla figura di una producibilità universale, nella quale lo stesso soggetto alla fine si trova incluso, rimanendo […] contraddittoriamente identificato nel suo opposto» (p. 120). Per Napoleoni, questo è il portato di una cattiva impostazione del problema dell’alienazione in chiave di ricupero d’una «soggettività perduta» da fare riemergere attraverso il «superamento dei limiti che il capitalismo» gli «pone alla conquista del mondo». L’«uomo liberato» proprio di tale prospettiva è, dunque, naturalmente orientato al dominio pieno della natura – sinora impedito da rapporti di produzione strutturati per garantire l’appropriazione privata dei risultati dell’agire delle forze produttive sociali (Il “Discorso sull’economia politica” di Claudio Napoleoni: un dibattito con l’autore, cit., pp. 297-298). Ma, in questo modo, non si fa che riprodurre le condizioni di partenza. Marx, cioè, scrive Napoleoni, «non può neppure avere il sospetto che la soggettività si possa autodistruggere […] in forza della propria assolutizzazione; […] che se l’uomo si pone in un rapporto di assoggettamento della “natura esterna e interna al produttore”, egli stesso diventa, alla fine, un prodotto» (Discorso sull’economia politica, cit., pp. 115-116). 60 Ivi, p. 117. 58 29 leoni è male impostata, non risiedendo, dal suo punto di vista, il cuore del problema dell’alienazione capitalistica in un’altra classe-parte (in possesso dei mezzi di produzione e responsabile dell’annichilimento della naturalità del valore d’uso), ma in un meccanismo impersonale che include tutti e fa dello sfruttamento una condizione comune – sotto questo profilo, Alquati parlava (problematizzando ulteriormente) d’una «sussunzione al Capitale del capitalista stesso»61. L’escamotage marxiana sarebbe, secondo Napoleoni, errata, nonché poco compatibile con l’impianto complessivo proposto dallo studioso di Treviri, poiché: 1) anche una volta soppresso il padrone, il servo non potrebbe che ricominciare a riprodurre il capitale, schiavo, com’è, del meccanismo totalizzante e astrattizzante di cui s’è detto; 2) una naturalità non storica è inconciliabile con il nucleo del progetto di ricerca del materialismo storico – e non è qui il caso di aprire parentesi sull’annosa diatriba tra un primo e un secondo Marx. Né, d’altro canto, «si capisce», aggiunge Napoleoni, «come mai possa accadere che un soggetto diventato nulla, […] diventato il suo contrario, possa per le vie un po’ misteriose della dialettica riprendere quella che all’interno della teoria è concepita come la sua figura originaria. Chi è l’attore di questo rovesciamento, visto che l’attore è diventato niente? Il proletariato, si dice: ma il proletariato […] è stato annullato e completamente assorbito dall’oggetto: come avviene allora questo salto dialettico?»62. E se «il superamento dell’identificazione contraddittoria di soggetto e oggetto non può essere immaginato (“soggettivisticamente”) come un ripristino della loro distinzione-opposizione», quale sbocco liberatorio rimane? Ed è ancora lecito parlare di un soggetto, di soggettività? A questo punto, Napoleoni introduce la questione del residuo: nella storia data, la contraddizione, ossia il passare di soggetto e oggetto ciascuno nel proprio opposto, non si è forse consumata fino in fondo. Nel senso [...] che l’inclusione della realtà nella produzione e nella sua legge non avviene senza residui consistenti. La società moderna trasmette piuttosto l’immagine di un’egemonia del processo economico-produttivo, che implica, come tale, la presenza di realtà egemonizzate, [...] quindi non annullate dall’egemonia. Con ciò non vogliamo [...] dire che si tratti di realtà naturali, sopravvissute, non si sa come, all’assalto della storia; ma [...] di realtà determinate, condizionate, configurate [...] dal capitale, ma non assorbite totalmente entro la sua dimensione specifica della produzione come fine a se stessa. Se ciò è vero, la questione dell’uscita dalla contraddizione, dall’identificazione contraddittoria soggetto-oggetto, in modo da non riprodurre il preR. Alquati, Dispense di sociologia industriale, vol. III, tomo 1, cit., p. 75. C. Napoleoni, Cercate ancora. Lettere sulla laicità e ultimi scritti, Editori Riuniti, Roma 1990, p. 42. 61 62 30 supposto, potrebbe trovare un radicamento, non per semplice contrapposizione, nel processo storico dato63. Tale passaggio ha sin da subito provocato perplessità. V’è, infatti, chi vi ha scorto un’«istintiva e invero poco razionale fiducia – o […] speranza – […] nella capacità liberatrice della ragione umana»64. Chi scrive ritiene, al contrario, che esso non introduca un principio-speranza dal sapore metafisico. Piuttosto, i riferimenti di Napoleoni precipitano il ragionamento su un piano politico relativo alla trasformazione dei campi discorsivi nei quali si alimenta la macchina impersonale dell’astrazione capitalistica e per leggere correttamente il passo è d’uopo guardare all’egemonia gramsciana – il temaconcetto più importante della riflessione carceraria del militante comunista sardo, da non identificarsi con il puro dominio e da vedersi, al netto della polisemicità che tale lemma ha nelle pagine gramsciane, quale cerniera tra quest’ultimo e il consenso65 –, nonché a un’altra categoria della filosofia della praxis elaborata da Gramsci durante la prigionia, quella di rivoluzione passiva, da intendersi come una «forma […] di egemonia […] postgiacobina» propria dell’età della Restaurazione. Come spiega Frosini: L’età della Restaurazione [...] non si limita [per Gramsci] a rimodulare il rapporto tra mobilitazione e controllo, ma, proprio perché lo trasferisce dal terreno dell’azione diretta a quello della rete delle mediazioni rappresentative e costituzionali, ne modifica il significato. È il [...] tema del passaggio dalla “guerra di movimento” alla “guerra di posizione”, che [...] può [...] defini[rsi] come il passaggio della borghesia da un’attitudine di democratizzazione espansiva a una di controllo della popolazione. La Restaurazione ridefinisce insomma in modo sostanziale il rapporto tra ‘inclusione- coinvolgimento’ e ‘governo-subalternità’. Se in precedenza l’appello al popolo era funzionale alla mobilitazione in vista di una serie di rivendicazioni universalistiche [...], la borghesia dell’età della Restaurazione si muove già in presenza della coscienza del carattere illusorio di quelle rivendicazioni, che […] usa di volta in volta allo scopo non di mobilitare il popolo, ma di disattivarne le potenzialità di destabilizzazione di un potere che si va affermando dappertutto in Europa. L’età della Restaurazione inaugura [...] una forma nuova di egemonia, postgiacobina, che Gramsci chiama “rivoluzione passiva”66. Id., Discorso sull’economia politica, cit., p. 121. Il “Discorso sull’economia politica” di Claudio Napoleoni: un dibattito con l’autore, cit., p. 278. 65 Cfr. G. Cospito, Il ritmo del pensiero. Per una lettura diacronica dei «Quaderni del carcere» di Gramsci, Bibliopolis, Napoli 2011, pp. 122-123. 66 F. Frosini, L’egemonia e i “subalterni”: utopia, religione, democrazia, in «International Gramsci Journal», n. 1, 2006, p. 131. 63 64 31 Lo stesso Frosini fa, però, notare come il dispositivo-egemonia/rivoluzione passiva descritto da Gramsci sia solo sino a un certo punto applicabile al contemporaneo. Se i 30 gloriosi possono esser letti mediante la chiave della rivoluzione passiva, in quanto risultato compromissorio d’una guerra di posizione tra classi lavoratrici e classi che usano il lavoro altrui, a partire dagli anni ’70 e, ancor più, dagli ’80, il quadro muta, in quanto una delle 2 macro-parti sociali implicate nella mediazione abbandona il tavolo, scioglie il vincolo, fa saltare in aria l’accordo e mira, riuscendoci, a stabilizzare una forma sociale priva, per le compagini popolari e lavoratrici, di quegli elementi progressivi che contraddistinguono la rivoluzione passiva descritta nei Quaderni del carcere. Ne viene un’egemonia «di tipo nuovo», una forma di rivoluzione passiva che non ha i caratteri della rivoluzione passiva ottocentesca (la quale «accompagn[ò] la borghesia al potere senza Terrore giacobino»), né quelli della rivoluzione passiva novecentesca (funzionale a «impedire a un’altra classe di prendere il potere»). Per Frosini, questa inedita forma di egemonia/rivoluzione passiva non sorgerebbe «in risposta a una sfida per il potere» (ma su questo la lettura operaista dissentirebbe) e avrebbe un carattere «limitato […] nelle sue pretese di includere e di innovare»67. A questa limitatezza non corrisponderebbe una-altrettanto-debole-attenzione ai meccanismi di controllo, tutt’altro. Non v’è dubbio che la nuova ragione del mondo, quella neoliberale, per citare Dardot e Laval, abbia messo in campo robusti «dispositivi di passivizzazione»68 volti a impedire l’attivazione (se non la stessa pensabilità della possibilità) di articolazioni egemoniche rivali, le quali potrebbero scomporre l’articolazione egemonica neoliberale. E la capillare attenzione all’efficacia di questi dispositivi paleserebbe, oltre che un’intrinseca pulsione totalitaria e totalizzante del neoliberalismo, la presenza di un pericolo costante, lo sfondo d’una continua crisi, l’esistenza (neanchetroppo-residuale) di soggettività egemonizzate cui impedire ogni iniziativa autonoma. È a partire da Gramsci e dagli slittamenti storici dell’egemonia che potrebbe, allora, spiegarsi il riferimento, nel Discorso, a realtà egemonizzate, quindi non annullate dall’egemonia. Non stupisce che Demichelis, in un saggio sulla tarda produzione di Napoleoni69, ricorra proprio a una citazione dai Quaderni: «[il] generale De Cristoforis nel suo libro Che cosa sia la guerra dice che per “distruzione dell’esercito nemico” (fine strategico) Id., Gramsci in translation: egemonia e rivoluzione passiva nell’Europa di oggi, in «Materialismo Storico», n. 1, 2019, pp. 46-48. 68 M. Modonesi, Subalternità e passività. Una rilettura del concetto gramsciano di rivoluzione passiva, in «Critica Marxista», n. 64-5, 2016, p. 85. 69 L. Demichelis, Cercate ancora. Il capitalismo, la tecnica, l’ecologia e la sinistra scomparsa. L’attualità di Claudio Napoleoni, in «Economia e Politica», n. 19, 2020. 67 32 non si intende “la morte dei soldati, ma lo scioglimento del loro legame come massa organica”. La formula è felice e può essere impiegata anche nella terminologia politica»70. La pratica di disattivazione delle potenzialità egemoniche delle compagini sociali subalterne spiega, lo si vedrà, alcuni dei meccanismi della formazione contemporanea descritti da Alquati, il quale, negli scritti oggetto di questo articolo, talvolta – forse non casualmente – ricorre, seppur di sfuggita, alla categoria di rivoluzione passiva. 3. ALQUATI E LA PANTERA Alquati incontra la Pantera torinese il 15 febbraio del 1990, nella fase alta di quella mobilitazione, allorquando centinaia di facoltà sono occupate e tra non pochi contestatori serpeggia l’illusione di riuscire ad avere la meglio nel braccio di ferro con l’Esecutivo (un Governo penta-colore guidato da Andreotti) e con il Ministro dell’Università (Ruberti, di area Psi e già rettore della Sapienza romana), promotore (con il beneplacito di Confindustria) di un progetto di riforma che può considerarsi il punto d’abbrivio della trasformazione aziendalizzante dell’università italiana. Ora, va innanzitutto registrato l’atteggiamento polemico tenuto da Alquati nei riguardi della Pantera torinese, e della Pantera in generale, dovuto non all’avversità nei confronti della pratica delle occupazioni o a una qualche simpatia per la progettualità rubertiana, ma alla sensazione che il primo movimento contro l’università neoliberale non stesse portando la critica al livello di profondità adeguato. Quello di Alquati non era, ben intesi, il vecchio e tedioso adagio che prendeva di mira un deficit ideologico di ortodossia – anche perché sempre egli era stato un eretico, finanche nella chiesa che aveva contribuito a fondare –, bensì un rimprovero relativo all’incapacità di individuare i giusti bersagli e di comprendere le relazioni tra università e società. Innanzitutto, a essere messa in discussione era l’idealizzazione, da parte degli studenti in lotta, del processo di produzione di conoscenze proprio degli stabilimenti universitari (come se esso avesse tutto sommato ancora poco a che spartire con i processi di produzione delle merci). Idealizzazione che conduceva ad attardarsi su ipotesi propense a dare per scontato il contrassegno di per sé critico del sapere e a insistere sull’estraneità dell’intellettuale in formazione e del lavoro intellettuale (almeno di alcuni suoi settori non immediatamente coinvolti nella produzione materiale di merci) rispetto agli assetti di potere dati. Inoltre, Alquati lamentava il fatto che quel movimento non si stesse seriamente interrogando sulla didattica e sulla formazione, prediligendo una riflessione sull’eventuale condizionamento della ricerca da 70 A. Gramsci, Quaderni del carcere, Einaudi, Torino 1975, p. 1631. 33 parte delle imprese a seguito dell’apertura (contemplata e caldeggiata dai provvedimenti rubertiani, in specie dal d.d.l. n. 1935 del 1989) ai finanziamenti privati, vista quale preludio di un percorso di de-finanziamento statale degli atenei. A dire il vero, nelle facoltà occupate erano state attivate delle Commissioni di studio deputate a elaborare modelli di didattica altra e alternativa sia a quella pre-rubertiana, sia a quella che sarebbe scaturita dalla riforma, modelli che diffusamente ribadivano l’inscindibilità del nesso didattica-ricerca (pertanto rifiutando le ipotesi di differenziazione sistemica che aspiravano a importare nel nostro Paese la bipartizione tra teaching e researching universities) e spingevano per una strutturazione quanto più possibile seminariale dei corsi. Si pensi, poi, sempre in materia di didattica e di formazione, ai non pochi documenti della Pantera che bocciavano l’istituzione dei corsi di diploma universitari professionalizzanti previsti dalla l. 341 del 1990, a quell’altezza in fase di approvazione in Parlamento, pensati dal decisore politico quali itinera che avrebbero decongestionato i tradizionali corsi di laurea e rivolti a un target socio-culturale non-elevato e tuttavia interessato a procacciarsi un titolo di studio superiore. Questi corsi erano stigmatizzati poiché la didattica in essi da erogare si sarebbe affrancata dal rapporto con la ricerca e sarebbe stata orientata in direzione della disseminazione di contenuti culturali specializzati e, tutto sommato, modesti. Dunque gli appunti di Alquati erano fuori-fuoco e una riflessione sulla didattica e sulla formazione ci fu, eccome? In realtà, leggendo attentamente il testo dell’intervento del febbraio del 1990, si ha l’impressione che Alquati non si stesse limitando (a torto o a ragione) a rilevare un basso interesse del movimento dell’89/’90 per la formazione e che, invece, il core del suo discorso risiedesse nel segnalare come, anche quando la Pantera non si dedicava a una riflessione sulla ricerca o sulla nuova governance dell’università prevista dalla riforma e tematizzava, appunto, il problema-formazione, per lo più lo faceva concentrandosi su questioni concernenti l’insegnamento e non l’apprendimento71, i «contenuti didattici» e non «il metodo didattico»72, senza, R. Alquati, Cultura, formazione, ricerca. Industrializzazione di produzione immateriale, Velleità Alternative, Torino 1994, p. 46: «La parte della formazione che è più in gioco nell’idea e rivendicazione dell’“università critica” e di cui dovrebbe valere la pena di parlare e dibattere […] è l’apprendimento. Il momento dell’agente umano quale discente che produce la (propria) competenza è l’apprendimento. L’aspetto più importante della vicenda e precaria condizione studentesca è l’apprendimento; non l’insegnamento come si sente spesso, quasi sempre, accusare dagli studenti. L’apprendimento è l’altra faccia della medaglia, quella di cui non si parla mai, ma quella che conta veramente». 72 Ivi, p. 44. 71 34 perciò, indagare i meccanismi minuti della macchina della didattica o tentare di illuminare il «rapporto tra scopi della formazione e modelli pedagogici»73. Era pure questo appiattimento sul solo piano dei contenuti che non permetteva a quel movimento di realizzare come da molto tempo in non poche «attività accreditate come formative» non si desse un reale arricchimento della «Capacità vivente»74, così come, del resto, da molto tempo l’università, al di là delle disfunzioni e dei disagi materiali (strutture inadeguate, aule affollate, pensionati fatiscenti), non fosse un’isola in cui coltivare disinteressatamente il sapere in una dimensione comunitaria, ma una wissenschaftlichen Produktionsbetrieb, per dirla con Krahl. Il processo di mezzificazione mercificante era, insomma, a uno stadio avanzato e la Pantera impiegava il proprio (breve) ciclo di esistenza nella difesa di un ectoplasma, limitandosi in non poche occasioni a segnalare, in ordine al presente, inefficienze, disservizi, talvolta malaffare? Pertanto avanzando richieste efficientistiche che, anche nel caso in cui fossero state soddisfatte, non avrebbero comunque mutato la sostanza della mercificazione della formazione? Oppure rivendicando un sapere più critico dal punto di visto dei contenuti ed evitando, però, di discutere di metodi e di strategie didattiche? È verosimile, è bene ribadirlo, che Alquati sottostimasse – o forse non ne avesse piena contezza – gli innumerevoli testi delle Commissioni didattiche delle facoltà occupate cui si faceva cenno, la cui lettura smentisce ricostruzioni propense a circoscrivere la critica pedagogica della Pantera alla dimensione contenutistico-curriculare degli insegnamenti. Non sbagliava, però, quando, di fatto, rimarcava una sorta di impreparazione collettiva degli occupanti su alcune questioni riguardanti la formazione della capacità attiva, tanto più preoccupante in quanto il capitale italiano aveva da anni individuato la sua «centralità», discutendo in occasioni pubbliche dell’esigenza di «rendere efficiente»75 il sistema educativo sincronizzandolo con le richieste del mercato – sebbene, lo si dirà, tale anelito non Ivi, p. 6. Ivi, p. 14. 75 Ivi, pp. 4-5: «Il problema gravissimo pei confindustriali era ed è […] quello di rendere efficiente il sistema scolastico italiano (università compresa), sempre rispetto ai loro obiettivi […]. Soprattutto perché questo è in gran parte pubblico, nel quadro del Welfare-state italiano nella sua atipicità; il quale stato-del-benessere sarebbe – per loro – piuttosto da abolire gradualmente, fabbrichizzando così anche la formazione […] mediante il suo affidamento a imprese private specializzate […]. Il primo obiettivo sembra sia la riduzione dei costi della formazione e quindi l’efficienza, magari taylorizzando integralmente la scuola […]. E quasi allo stesso grado poi la sua efficacia, ma già dopo: nel senso di adeguarla ad esigenze di ristrutturazione generale del sistema e dell’agire, che richiede capacità anche nuove». 73 74 35 poteva che rimanere all’insegna della vacuità e dell’indeterminatezza. Confindustria, i suoi intellettuali organici, gli attori politici e accademici che spingevano per una riconfigurazione dell’università e della scuola, perseguivano una serie di obiettivi «complessi e stratificati», spesso non giustapponibili agli scopi dichiarati, i quali palesavano la consapevolezza imprenditoriale del «primato della didattica negli interessi capitalistici»76, spiegabile in quanto essa era (ed è) lo strumento di riproduzione della capacità-attivaumana come merce, ossia d’una risorsa «trasversale», individuabile in tutte le attività e preliminare al loro svolgimento77. E quella impreparazione era ancora più preoccupante in quanto il mantra d’una più stretta interrelazione tra università e impresa non risultava indigesto alla maggioranza degli studenti (Alquanti specificava: del Nord), non solo, potrebbe aggiungersi, di quelli dichiaratamente avversi alle occupazioni, ma, più in generale, di coloro i quali interpretavano l’esperienza universitaria innanzitutto come un investimento in capitale umano funzionale ad aumentare la propria appetibilità nel mercato della compravendita della forza-lavoro. Per non dire che un tale sentire non era estraneo neppure al Pci e alla sua federazione giovanile (Fgci), che partecipò attivamente alle proteste aderendo alla formula che si disse del privato controllato, con la quale si voleva esprimere una non-pregiudizialechiusura nei confronti del consolidamento di relazioni (pure di natura finanziaria) tra università e impresa, a patto che esse fossero state trasparenti e regolamentate e che ciò non finisse per comportare un disimpegno dello Stato a detrimento delle realtà socio-economicamente deboli (laddove, ad es., non insistevano poli industriali) o delle aree di studio meno attraenti per gli investitori privati (principalmente quelle umanistiche e quelle delle scienze hard orientate alla ricerca pura). Sennonché, il variegato fronte che manifestava moderate e caute ovvero entusiastiche aperture nei confronti dell’impresa, scontava l’incomprensione della difficoltà (se non impossibilità), a maggior ragione negli assetti produttivi contemporanei, d’una stabile corrispondenza tra «aumento della qualificazione prodotta dal sistema formativo» adeguata a presunte domande del mondo economico, in realtà sempre più indeterminate, e «aumento della produttività» tale da incrementare le capacità del mercato di assorbire capitale umano generato nelle knowledge factories universitarie. Sembrava, quindi, non cogliere il prevedibile fallimento delle «finalità programmatiche della politica dell’educazione»78 incentrate, almeno sulla carta, sulla riduzione a monte (nel sistema formativo) del mismatch tra Ivi, p. 5. Cfr. Id., Introduzione a un modello sulla formazione, cit., p. 161. 78 F. Giovannini, Offe dimenticato, in «Democrazia e Diritto», 3, 1991, p. 109. 76 77 36 offerta e domanda di lavoro, pertanto volte – nello storytelling neoliberale – ad alimentare il circolo virtuoso aumento della qualificazione-aumento della produttività-aumento della capacità del sistema economico-produttivo di assorbire capitale umano e di remunerarlo adeguatamente. In ogni modo e tornando all’incontro del febbraio del 1990, in merito alla lunga storia di mercificazione dei saperi generati e veicolati negli atenei, Alquati faceva notare come essa fosse obliterata non solo dalla Pantera, ma pure da quegli intellettuali progressisti suoi simpatizzanti, anch’essi convinti della presenza di un pericolo imminente e della necessità di difendere dagli attacchi impresizzanti la produzione e la diffusione della conoscenza nelle università, come se esse non fossero sino ad allora state attraversate se non di sfuggita dal dominio del capitale, assunto riduttivamente a sistema di produzione di merci e non compreso quale rapporto sociale e sistema di riproduzione di rapporti sociali di produzione dai quali non può essere esclusa la riproduzione, attraverso l’istruzione, della forza lavoro più o meno qualificata – di qui, per evocare un saggio di Palano di qualche anno addietro, la corretta definizione dello studente quale lavoratore riproduttivo non salariato79. A titolo esemplare, Alquati citava le posizioni di Ingrao e Barcellona, persuasi dell’urgenza di proteggere una serie di «beni non mercificabili» dalla «mercificazione futura» – beni individuati in quelli che, nel vocabolario alquatiano, ricadevano nel catalogo della «cultura esplicita»80 –, perciò apparentemente ignari che la mercificazione della conoscenza non fosse il punto di arrivo del capitalismo avanzato, ma «il punto di partenza di ogni sistema capitalistico». E se la conoscenza era «già merce […] da molti decenni»81, alla cultura esplicita, anch’essa mezzificata, non poteva essere accreditato alcun carattere di per sé liberatorio, risultando, essa, al contrario, ostile al soggetto, ossia un mezzo di «de-soggettivazione»82, per di più «centrale» e «strategic[o]» nel capitalismo «ipermoderno»83. Ecco il motivo che Cfr. D. Palano, Università, formazione, antagonismo. Per un’analisi di classe della ristrutturazione universitaria, in «Vis à Vis», n. 5, 1997. 80 Per cultura esplicita, Alquati intende «quella della concezione umanistica e non quella dell’antropologia» (Cultura, formazione, ricerca, cit., p. 23). Vale a dire «l’insieme di filosofia (inclusa la scienza, però come pensiero scientifico ed epistemologico, e non come scienza effettivamente applicata e così funzionante come Mezzo, capitale-mezzi) letteratura ed arte. Quindi una parte soltanto, e quella più “nobile”, della cosiddetta cultura-immateriale, e parte sacralizzata, per la sua conclamata “spiritualità”» (nt. 34, p. 23). 81 Ivi, pp. 16-17. 82 Ivi, p. 29. 83 Ivi, p. 23. 79 37 spingeva Alquati a denunciare come feticistiche le posizioni di chi, a sinistra, coltivava una concezione della cultura «come monolito umanista» dotato di un’«utilità emancipatoria intrinseca»84 e a individuare la sfida veramente entusiasmante nella de-mercificazione del sapere, implicante la de-mercificazione della capacità-attività-umana-vivente. Qualora, tuttavia, la Pantera avesse deciso di giocare questa partita de-mercificante, avvertiva Alquati, si sarebbe inimicata la maggior parte della popolazione studentesca ed è a tal proposito che il suo discorso propone un ragionamento sui «modelli pedagogici»85 (allora) vigenti e, a ben vedere, nient’affatto incompatibili con il programma neo-capitalistico di ristrutturazione del sistema di istruzione. Ebbene, citando il modello del general problem solving di Simon e Newell (e non risparmiando critiche), Alquati suggeriva di inscrivere la didattica allora praticata nelle università, nonché quella sponsorizzata da Confindustria e dai suoi think thank, nel solco d’una certa tradizione cognitivista mirante al rintracciamento e alla disseminazione di soluzioni standardizzate per la risoluzione di problemi già «strutturati». Tale tradizione aveva ispirato l’elaborazione di pratiche didattiche che, lo si accennava, riscuotevano, per Alquati, il consenso di buona parte degli studenti (al di là della formale opposizione a Ruberti d’una fetta non marginale della popolazione universitaria), impazienti di apprendere una «metodologia già fatta per risolvere problemi, e per conoscere, pensare, comprendere», propensi, perciò, a vedere nel docente un diffusore di «presoluzioni ben confezionate di particolari problemi, in specie richieste dal mercato»86, e fruitori eventualmente soddisfatti d’una didattica ridotta alla «distribuzione della conoscenza già prodotta altrove», al postutto indistinguibile dal «commercio»87. Questa constatazione non aveva nulla dell’aura aristocratica caratterizzante le prese di posizione dell’intellettuale tradizionale, per citare Gramsci. Alquati ammetteva, anzi, come la massa studentesca (la cui composizione sociale era di ceto per lo più medio) non avesse poi tutti i torti a chiedere, anche solo per un mero calcolo costi-benefici, una formazione standardizzata, a desiderare, dunque, di entrare in possesso d’una «competenza-merce», vista e considerata la domanda (anch’essa qualitativamente povera) proveniente dalle imprese italiane88. La «banalizzazione» della relazione educativa era, in fin dei conti, coerente con Ivi, p. 31. Ivi, p. 6. 86 Ivi, pp. 8-9. 87 Id., Riforma universitaria e formazione standardizzata, intervista a «La Lente», giornale studentesco, Torino, gennaio 1990, pp. 3-4. 88 Cfr. Id., Cultura, formazione, ricerca, cit., pp. 44-45. 84 85 38 la banalizzazione del lavoro iperindustriale del contesto nostrano (anche di quello cognitivo e intellettuale), nonché, dopotutto, per Alquati, in qualche misura fisiologica e non estremisticamente disprezzabile. Un quantum di proceduralità standardizzata sarebbe, in altre parole, normale, anche positivo, tanto nell’attività artefattiva (né farebbe eccezione quella industrializzata a fini, caso mai, non capitalistici), quanto negli ambiti della riproduzione della capacità attiva. Motivo per cui il problema riposerebbe nella determinazione dell’intera esperienza formativa in chiave di diffusione di proceduralità standardizzata. E il (presunto) basso tasso di interesse dei protagonisti della Pantera su tali questioni invalidava, secondo Alquati, i loro appelli a una università critica, la quale sarebbe stata tale solo qualora avesse accettato «la dimensione della problematicità» e non si fosse impegnata esclusivamente nella veicolazione di «formule» da distribuire all’agente umano futuro applicatore, bensì pure in quella di «capacità-non-procedural[i] ma davvero euristic[he] e soprattutto creativ[e] e inventiv[e], ed esperenzial[i]»89. Emerge, in queste considerazioni, la baricentralità della formazione nell’ultimo Alquati90: è la tendenza all’industrializzazione impresizzante e mercatizzante dell’attività umana a richiedere un modello formativo povero ed è, perciò, dall’inversione di tendenza di questo settore dell’ambito funzionale del consumo riproduttivo che possono costruirsi le pre-condizioni per arricchire, e non solo per potenziare, l’agente umano, con tutto ciò che politicamente e socialmente ne conseguirebbe, intendendo il potenziamento come un incremento della potenza che incrementa altre utilità, l’arricchimento come un’azione sulle utilità potenziali, pertinente alla «gamma delle sue modalità»91. L’inversione Ivi, pp. 10-12. Cfr. Id., Introduzione a un modello sulla formazione, cit., pp. 157-158, laddove questi spiega cosa intenda per baricentralità: «una centralità secondo più dimensioni, e fra loro interconnesse, interrelate, ed una centralità sia verticale che orizzontale, che si ripresenta in molti o quasi tutti i i livelli di realtà, a partire da quelli alti: più o meno una Macro-centralità sistemica capitalistica, specifica dunque, epperò […] storica, contingente [;] i motivi […] di questa […] Baricentralità [della formazione] sono […] di Mega-dominio: sono il controllo politico intrinseco sulla Riproduzione allargata di una Merce strategica specialissima ed indispensabile nelle sue attuali irriduzioni. Ed in secondo luogo i Meta-motivi accumulativi stanno nell’essere un settore […] di merce strategica a sua volta strategicamente produttivo di Capitale in generale oltreché di Capitale-umano e di Capitale-mezzi strategico, e che scambia anche direttamente con un mercato di importanza crescente di ciò, e centrale nel Mercato in quanto […] esso tiene insieme e regola l’intero sistema. Le altre subcentralità sottostanti, dal Terzo livello in giù, sostanziano ciò». 91 Id., Lavoro e attività, cit., p. 32. 89 90 39 di tendenza, tra l’altro, andrebbe, secondo Alquati, a incastrarsi in quello che appare un vulnus congenito del regime capitalistico, interessato a formare l’attore a mezzo di un sistema di istruzione incaricato di farlo entrare in possesso d’una serie di competenze, di conoscenze, di meta-conoscenze «già finalizzat[e], già dotat[e] dell’intenzionalità dell’uso sistemico»92 e, al contempo, nonostante tutto bisognoso della persona perché necessitante di forza-lavoro dotata di capacità di modificare i processi e sviluppare ulteriori conoscenze. Queste ultime non potrebbero, però, essere riprodotte per il tramite d’una trasmissione dei saperi programmaticamente avvezza a parcellizzarli e a spezzettarli in moduli somiglianti a quelli d’una catena di montaggio che trasforma il corpo/mente in «un insieme di merci, un coacervo sistemico di merci» o di «quasi-merci» e di «capacità in via di mercificazione»93 non appartenenti all’agente umano. In una parola, ambivalenza: da un lato tensione formativa standardizzante, dall’altro (fastidiosa) esigenza di non annullare del tutto la persona e di mantenere in vita un residuo irrisolto. CONCLUSIONI Per Alquati, l’istruzione superiore dovrebbe contemperare due istanze: «insegnare […] a convivere con problemi aperti» e «insegnare le meta-procedure risolutive già esistenti» e, rispetto a questa mission, mostrare come dette «soluzioni parziali» siano state «originariamente inventate, e poi come e perché banalizzate e standardizzate, e grazie a cosa»94. Arricchire, pertanto, e potenziare l’agente. Sennonché, pur ritenendo, Alquati, che in regime capitalistico l’obiettivo formativo sia potenziare e non arricchire, i sistemi di istruzione sovente finirebbero, a suo parere, per non potenziare quanto sarebbe possibile fare, determinando, così, un «saldo negativo fra potenziamento ed impoverimento della capacità-attiva-umana-vivente»95. Ciò sia a causa dell’ignoranza della classe docente sulle «alternative pedagogiche» e sulla possibilità di sperimentare un «metodo pedagogico critico»96, sia perché talora non converrebbe neppure incrementare la capacità umana come merce Id., Cultura, formazione, ricerca, cit., p. 43. Ivi, pp. 22-23. 94 Ivi, p. 12. 95 N. Cuppini, Merito e formazione: riflessioni e spunti di dibattito verso l’autunno che viene, in «Uninomade», 20-06-2012, http://archivio-uninomade-effimera.euronomade.info/merito-e-formazione-riflessioni-e-spunti-di-dibattito-verso-lautunnoche-viene-uninomade/. 96 R. Alquati, Cultura, formazione, ricerca, cit., pp. 44-46. 92 93 40 (e già, comunque, questo potenziamento sarebbe impoverente97), nel senso che il mantenimento dell’egemonia su realtà egemonizzate e per questo nonpropriamente-annullate consiglierebbe soluzioni in alcuni casi anti-economiche e, tuttavia, indispensabili per disattivare la pensabilità di articolazioni egemoniche rivali e disarticolare la possibilità che esse possano (ri)costruire un campo discorsivo nel quale ricomporsi per problematizzare l’ordine discorsivo del meccanismo impersonale astrattizzante tematizzato da Napoleoni (e da Marx). Troviamo, qui, uno slittamento politico della tradizionale strategia di svalorizzazione della forza-lavoro storicamente praticata al fine di frenare la caduta tendenziale del saggio di profitto attraverso, ad esempio, misure di deflazione salariale. Nell’iperindustrialità, tale svalorizzazione si posizionerebbe anche a monte, dandosi come svalorizzazione, nella e attraverso la formazione, della capacità attiva sia della persona, sia dell’attore. Quindi, svalorizzazione del valore d’uso e non solo di quello di scambio e ciò nonostante il capitalismo necessiti tanto dell’attore depositario per conto terzi di potenziate capacità proceduralizzate, quanto della persona in grado di innovare i processi. Poiché, insomma, la merce-capacità umana è «specialissima», la svalorizzazione del suo valore d’uso non sarebbe esente dal generare problematicità per l’iperindustrialità neomoderna curvata capitalisticamente98, il cui output pedagogico ottimale risiederebbe, da un lato, nel realizzare l’impoverimento delle capacità attive umane «in modo non solo da non compromettere, ma magari» da «incrementare, […] la Potenza della capacità stessa […] potenziando il più possibile […] le Sub-capacità» da sfruttare e da usare «a minor costo rispetto ai Mezzi»99, dall’altro nel lasciar sopravvivere un certo residuo irrisolto, non potendo il capitalismo funzionare «senza l’Informalità e la Latenza, e […] senza una certa Ambivalenza, flessibilità varietà, ed anche Autonomia del Co-agente iperproletario»100. La svalorizzazione declassante a monte101 avrebbe, dunque, una natura squisitamente politica prima ancora che economica – benché la differenza tra le 2 sfere sia puramente metodica, per parafrasare Gramsci –, vale a dire che essa soddisferebbe esigenze di controllo delle realtà egemonizzate anche a scapito d’una soddisfacente espansione della produttività. Nel modellone, il «Politico» sarebbe «la quintessenza e il fine dominante dell’Accumula- Cfr. Id., Introduzione a un modello sulla formazione, cit., p. 61. Ivi, pp. 26-28. 99 Ivi, p. 63. 100 Ivi, p. 165. 101 Cfr. A. De Nicola, Il trionfo del cervello. Il movimento dell’Onda e la ricomparsa della Politica, in «Common», n. 0, 2010, p. 26. 97 98 41 zione»102. Ecco perché Alquati giunge a ritenere che uno degli obiettivi, appunto, politici di un movimento universitario trasversale (composto da studenti e docenti) potrebbe almeno essere quello di incrementare (e arricchire solo in un secondo tempo, in un contesto di rapporti di forza meno sfavorevoli) il «valore d’uso della stessa capacità-umana-merce», ponendo, così, «un’alternativa nel sistema capitalistico»103: Chiediamo “almeno” l’effettiva nostra riproduzione semplice, […] chiediamo almeno la riproduzione semplice effettiva e non solo simulata della nostra capacità: che almeno non sia distrutta! Chiediamo la nostra riproduzione semplice, “almeno”: di noi e della nostra capacità in distruzione […]! In primo luogo fruire diversamente ed essere fruiti diversamente, quantunque come merce104. Alquati non sembra, insomma, rifiutare talune riforme didattiche critiche in un’accezione debole dell’aggettivo. Le motivazioni di questa solo-apparentemente-inaspettata torsione riformistica sono tattiche. Per essere più chiari: l’iperindustrialità curvata capitalisticamente radicalizzerebbe la tendenza all’impoverimento delle capacità, sacrificando l’innovazione all’altare della stabilizzazione sistemica e potenziando meno di quanto si potrebbe potenziare, ma ciò non aprirebbe spazi conflittuali, tutt’altro. La logica del tanto peggio tanto meglio non varrebbe, giacché, in mancanza finanche di un potenziamento delle capacità del vivente come merce e in presenza d’una tramutazione del consumo riproduttivo esperito nei contesti della formazione istituzionale in consumo distruttivo105, si assottiglierebbero le «possibilità di Cfr. R. Alquati, Introduzione a un modello sulla formazione, cit., p. 180. Id., Cultura, formazione, ricerca, cit., pp. 57-58. 104 Ivi, p. 58. 105 Cfr. Ivi, pp. 56-57: «Come avviene questa distruzione di capacità perfino dentro la formazione? Avviene […] con la presenza di un’acculturazione in nozioni obsolete [e a causa di] metodi pedagogici controproducenti […], fin qui non di proposito. Ma avviene anche con l’introduzione crescente di un macchinario e mezzi che non hanno […] portata formativa, utilità formativa, e con la progressiva trasformazione del tempo di presunta formazione in un tempo di consumo culturale […] non funzionale alla formazione […] ma […] meta-finalizzato a vendere e consumare mezzi, distruggendo anche il nostro tempo e le nostre energie, senza che […] ci sia tutto l’incremento di nostra capacità promesso. E comunque anche nell’intento di limitare e condizionare la qualità della nostra capacità-umana, singolare e collettiva. Infatti questo viene fatto di proposito! La formazione è oggi ovunque molto compressa e compromessa. E questo non è un fenomeno settoriale, locale. Ma è un fenomeno culturale del Capitalismo della nostra epoca». 102 103 42 progettare contro-percorsi»106. Donde l’accoglimento di un’ipotesi di riformismo pedagogico in grado di giocare nel perimetro della dialettica potenziamento non distruttivo-arricchimento e la cui finalità non sarebbe quella di produrre contro-soggettività (se non a lungo termine), quanto di frenare il trend dissipativo «per provocare l’accelerazione e l’accentuazione dell’innovazione e deviarla»107 a fini antagonistici. Un frenare che, in virtù della presenza di residui irrisolti e delle ambivalenze sistemiche non eliminabili dalla pianificazione pedagogica del capitalismo neo-moderno, potrebbe essere propedeutico all’«innesco di processi di una nuova contro-mutazione antropologica, anche culturale, mediante contro-trasformazione di soggettività di agenti umani in ri-soggettivazione, e non solo di soggettività macchiniche, ed in combinazione attiva con queste (soggettività dei mezzi)»108. 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