CULTURE
Nel 1986 furono scoperte alcune opere di drenaggio e una strada
lastricata nei pressi di corso Garibaldi,. Un ritrovamento molto importante
che ridefinì l’assetto urbanistico della Brindisi romana
viA PerGOLA,
un’AreA
ArcHeOLOGicA
imPOrtAnte
mA scOnOsciutA
di Giovanni membola
urante i secoli di dominazione
romana, lo spazio urbano di
Brindisi era delimitato da un
circuito murario e si distingueva in due aree principali,
quello pubblico e monumentale, situato
sulla collina oggi dominata dalla Basilica
Cattedrale, e il nucleo abitativo, individuato nell’area del Seno di Ponente. La
città si articolava su un reticolo viario regolare, fatto di cardi e decumani (vedi
n.156 del nostro settimanale) nei quali si
sviluppavano imponenti edifici pubblici e
di culto, complessi abitativi e domus, archi
e monumenti onorari, impianti termali, acquedotti e le relative opere di drenaggio.
Queste ultime, risalenti principalmente
all’età tardo repubblicana (dal II secolo al
30 a.C.), erano indispensabili per garantire
il libero deflusso e la regimazione delle
acque all’interno del tessuto urbano, la loro
esistenza è testimoniata dai reperti rinvenuti in via Pergola, angolo con vicolo Tarallo, messi in luce nel 1986 all’interno di
un cantiere edile per la costruzione di un
parcheggio multipiano annesso all’attigua
struttura alberghiera.
I primi saggi archeologici avevano rivelato
la presenza nell’area, posta alle falde della
collina prospiciente il Seno di Levante e in
D
prossimità del porto, di considerevoli opere
di drenaggio di età romana. Il successivo
scavo in estensione dell’area interessata
alla nuova costruzione, effettuata tra marzo
e giugno del 1987, ha consentito di ottenere
importantissimi risultati ai fini dello studio
dell’assetto storico-topografico della Brindisi romana: sino ad allora, infatti, si era ritenuto che l’impianto urbanistico di
Brundisium, colonia di diritto latino dal
244 a.C., fosse limitato alla sola collina del
Seno di Ponente, mentre questi nuovi ritro-
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vamenti, i primi relativi all’abitato nel settore sud-orientale della città, aprirono
nuove prospettive di approfondimento da
parte della Soprintendenza per i Beni Archeologici della Puglia. Referente dell’impegnativa attività ispettiva e di ricerca fu la
dott.ssa Assunta Cocchiaro, già funzionario
dell’Istituto che garantisce la tutela del patrimonio culturale del territorio. La direttrice scientifica dell’indagine raccolse tutti
gli elementi e i materiali scoperti in quei
quattro mesi, e ne fece oggetto di lunghi ed
Sopra vista d'insieme dei resti della strada e
delle opere di drenaggio, a destra l’ingresso
della strada da corso Garibaldi, nella pagina
accanto muri di sostituzione a lato della strada
e le opere idrauliche
approfonditi studi che hanno permesso di
stabilire la cronologia di costruzione, uso e
abbandono della zona.
L’area indagata “era attraversata, nel III secolo a.C., da un setto viario pedonale con
forte pendenza da sud a nord e, cioè, dalla
collina verso l’attuale corso Garibaldi”,
dove era situato sino alla fine del Settecento il Canale della Mena, una insenatura
paludosa ritenuta l’antico “canale di dissabbiamento del porto” della città romana, un
bacino avente lo scopo di trattenere le materie sabbiose trasportate dall’acqua. A giudicare dalla mappa disegnata dagli spagnoli
nel 1739, il canale partiva dall’odierna via
Schiena, attraversava una parte di corso
Roma, quindi percorreva per intero l’attuale corso Garibaldi e il primo tratto di via
del Mare, e confluiva nelle acque nel porto
in corrispondenza del lungomare oggi occupato dall’ex Stazione Marittima. Durante
il tragitto raccoglieva le acque piovane e reflue di abitazioni e officine, una sorta di
fogna a cielo aperto che appestava l'aria soprattutto in estate. Fu Ferdinando IV di
Borbone, nell’aprile del 1797, a farla diventare Strada Carolina, in onore della moglie austriaca del sovrano, poi intitolata a
Giuseppe Garibaldi dal 7 giugno 1882.
Il setto viario identificato in via Pergola era
pavimentato con lastre di carparo e delimitato da muri di sostituzione in opera quadrata (opus quadratum), rinforzati da setti
trasversali. Sul muretto a ovest venne individuata la presenza di una soglia, “successivamente tompagnata”, dal quale si
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accedeva in uno spazio privo di copertura,
forse un ampio cortile (lo confermerebbe la
presenza del rocchio cilindrico che costituiva il fusto di una colonna in tufo), facente parte di un complesso abitativo di cui
furono messi in luce solo alcuni ambienti,
poiché il resto risultò seriamente danneggiato dai lavori per la realizzazione delle
fondamenta dei moderni edifici. Il vano
scoperto, anch’esso in pendenza da sud a
nord, era pavimento con mattoncini rettangolari di laterizi, collocati rispettando la disposizione a spiga (opus spicatum), una
tecnica molto diffusa all’epoca, dove si trovano inserite alcune lastre di carparo; all’interno dell’area vi era “un pozzetto per
il deflusso dell’acqua verso una canaletta
sottostante costruita e coperta da blocchi”.
L’area fu poi abbandonata, presumibilmente durante la fine della fase di governo
della Repubblica romana (Res publica Populi Romani), quando l’intera zona – con
molta probabilità – fu interessata dal progressivo impaludamento, ipotesi sostenuta
dagli studiosi sulla base della presenza, al
centro della strada, di un canale di deflusso
coperto realizzato per la sopraggiunta esigenza idrologica, una
complessa opera di drenaggio da ri-
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condurre alla vicinanza dell’ampio bacino
di raccolta e convogliamento delle acque.
Non solo, anche sulla parte a ovest dell’area scoperta fu ritrovato un sistema di
drenaggio realizzato con un riempimento
di materiali plasmati in terracotta (fittili) su
cui furono sistemati alcuni blocchi paralleli
alla strada, aventi la funzione, verosimilmente, di “banchina percorribile”, un vero
e proprio marciapiede dell’epoca.
I dati acquisiti nel corso delle indagini archeologiche sull’intera superficie interessata allo scavo non hanno evidenziato
tracce di frequentazione successiva al I sec.
d.C., epoca alla quale gli studiosi hanno attribuito la fossa riscontrata a ridosso del
muro perimetrale dell’ambiente originariamente pavimentato sempre in “opus spicatum”, trovata ricolma di “una grande
quantità di terra sigillata italica”, costituita
da ceramica fine da mensa databile ai primi
decenni del I sec. d.C., tra cui anche un
frammento di una coppa aretina a rilievo
attribuita al vasaio Tigrano (30 a. C. circa)
proprietario della nota officina di Marco
Perennio nella città toscana.
Durante una serie di saggi effettuati dagli
archeologi, al fine di ottenere la restituzione grafica di tutto ciò che era ancora
conservato nel sottosuolo, furono inoltre
individuati alcuni elementi attribuibili alla
fase di occupazione dell’area tra il V e il
IV secolo a.C., in particolare nell’angolo a
nord-est venne identificato un setto murario costruito a secco, “tangente ad una
struttura circolare, prima testimonianza a
Brindisi di strutture abitative di età messa-
Sopra una pavimentazione opus spicatum,
sotto strada basolata in pendenza
pica”.
Durante lo scavo vennero concordate con
la proprietà e la direzione lavori le opportune varianti del progetto di costruzione, al
fine di salvaguardare le prime e sino ad allora uniche testimonianze rinvenute nel
settore orientale della città. I resti archeologici furono quindi consolidati, con la realizzazione di muri in mattoni di
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sottofondazione, all’interno del garage
della struttura alberghiera. Ai titolari dell’hotel va riconosciuto il merito di aver preservato con particolare attenzione
l’interessante patrimonio archeologico di
quella che fu la città romana oltre il naviglio della Mena, rendendolo fruibile a studiosi e per le attività di didattica.
Purtroppo, gli esiti degli studi non sono
stati sufficientemente diffusi, per questo
l’area archeologica è pressoché sconosciuta alla gran parte della popolazione locale e ai turisti.