Idee del Comune
di Lorenzo Coccoli
Questo contributo vuole proporsi come un tentativo di tracciare la genealogia di due narrazioni contrapposte in tema di proprietà,
due narrazioni che attraversano, in maniera spesso conflittuale, buona
parte della tradizione filosofica occidentale. Prima di cominciare sarà
perciò bene chiarire i due termini principali di seguito utilizzati: genealogia e narrazione.
Il primo va inteso nell’accezione definita da Nietzsche e fatta poi
propria da Foucault in un suo saggio del 1971 dal titolo Nietzsche, la
genealogia, la storia. Qui Foucault contrapponeva l’operazione genealogica alla ricerca (filosofica, ma non solo) dell’Origine. Quando la teoria va in cerca di un’Origine (e questo, lo vedremo, è precisamente il
caso di buona parte delle teorie sulla proprietà privata), essa pretende
di “raccogliere l’essenza esatta della cosa, la sua possibilità più pura,
la sua identità accuratamente ripiegata su se stessa, la sua forma immobile e anteriore a tutto ciò che è esterno, accidentale e successivo”1.
L’Origine insomma esclude il divenire storico: parte da un’istituzione
(nel nostro caso, la proprietà privata), la colloca all’inizio dello sviluppo umano, e ce la fa ritrovare praticamente immutata alla fine di
questo sviluppo, così da conferirle anche lo statuto di verità eterna, di
fondamento metafisico. Cosa fa invece la genealogia? Il suo compito
non è mostrare come quel che era originariamente si sia mantenuto
inalterato: al contrario, la genealogia deve ritrovare gli scarti, gli errori, le deviazioni da quella linea retta che si pretenderebbe di tracciare
a partire dall’origine; deve insomma “scoprire che alla radice di quel
che conosciamo e di quel che siamo – non c’è la verità e l’essere, ma
1
Michel Foucault, Nietzsche, la genealogia, la storia, in Id., Microfisica del potere. Interventi
politici, Einaudi, Torino 1977, p. 31.
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OLTRE IL PUBBLICO E IL PRIVATO
l’esteriorità dell’accidente”2. Così, nel nostro caso, fare la genealogia
di quella che in seguito chiameremo narrazione proprietaria significa
far vedere come i suoi contenuti (l’individuo possessivo, il lavoro e
l’efficienza, la scarsità naturale delle risorse), che per la loro “lunga
cottura” ci si presentano ormai come verità indubitabili, si siano in
realtà formati a partire da strategie discorsive molteplici, traiettorie
di pensiero di epoche diverse, rappresentazioni persuasive ma errate
o falsamente universali; significa anche dar conto delle opposizioni,
delle tensioni, delle rotture e delle inversioni che quella narrazione,
prima di diventare egemone, ha dovuto vincere e superare. È questo,
in breve, quel che proveremo a fare.
Il secondo termine, narrazione, viene qui usato nel significato attribuitogli da Robert Cover in un suo articolo del 1983, dal titolo Nomos
e narrazione. La tesi di Cover è che l’attività umana per eccellenza
consista nel creare e mantenere un ambiente fatto di bene e di male,
di giusto e ingiusto, di legalità e illegalità. Tuttavia, si ingannerebbe
chi volesse ridurre questa normatività alle sole istituzioni formali del
diritto o alle sole convenzioni dell’ordine sociale, perché esse in realtà “costituiscono solo una piccola parte dell’universo normativo e
di quanto dovrebbe attirare la nostra attenzione. Nessun insieme di
istituzioni o di prescrizioni giuridiche può esistere al di fuori delle
narrazioni che lo collocano in uno spazio e lo dotano di significato.
Una volta compreso nel contesto delle narrazioni che gli attribuiscono significato, il diritto diviene non solo un sistema di regole da osservare, ma un mondo nel quale viviamo”3. In poche parole, nessun
ordine giuridico possiede un significato in sé, indipendentemente da
una narrazione che glielo fornisca. Questo vale anche per il diritto di
proprietà: il suo senso cambia radicalmente a seconda che sia inserito
in una narrazione che gli dia legittimità e validità universale (appunto,
una narrazione proprietaria), o che invece sia interpretato a partire da
un racconto che lo rappresenti come violento e ingiusto.
Un esempio può forse aiutare a comprendere meglio. Nel settembre 2002, Benetton intenta causa contro i Mapuche, una popolazione
amerinda stanziata tra Cile e Argentina, rei secondo la nota azienda italiana di “occupazione violenta e occulta”, per aver abbattuto
di notte i recinti che delimitavano alcuni possedimenti argentini di
2
3
Ivi, p. 35.
Robert Cover, Nomos e narrazione, trad. it. in “Bollettino telematico di filosofia politica”,
2007, reperibile su http://purl.org/hj/bfp/149.
IDEE DEL COMUNE
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Benetton, occupandoli poi “abusivamente”. Il fatto era che quei terreni costituivano parte del territorio atavico dei Mapuche, svenduto
nel 1896 dal presidente Uribe e acquistato nel 1991 dalla compagnia
italiana, ma su cui gli indigeni continuavano a rivendicare i loro ancestrali diritti. Il loro appello è raccolto nel luglio 2004 dal premio
Nobel argentino per la pace Adolfo Pérez Esquivel, che decide di
scrivere direttamente a Luciano Benetton:
Le scrivo questa lettera, che spero legga attentamente, tra lo stupore e il
dolore di sapere che Lei, un imprenditore di fama internazionale, si è avvalso del denaro e della complicità di un giudice senza scrupoli per togliere
la terra ai fratelli Mapuche [...]. Deve sapere che quando si toglie la terra
ai popoli nativi li si condanna a morte, li si riduce alla miseria e all’oblio.
Ma deve anche sapere che ci sono sempre dei ribelli che non zoppicano di
fronte alle avversità e lottano per i loro diritti e la loro dignità come persone
e come popolo. Continueranno a reclamare i loro diritti sulle terre perché
sono i legittimi proprietari, di generazione in generazione, sebbene non siano in possesso dei documenti necessari per un sistema ingiusto che li affida
a coloro che hanno denaro [...]. Signor Benetton, Lei ha comprato 90 mila
ettari di terra in Patagonia per accrescere la sua ricchezza e potere e si muove con la stessa mentalità dei conquistatori [...].Vorrei ricordarle che non
sempre ciò che è legale è giusto, e non sempre quello che è giusto è legale
[...]. Vorrei farle una domanda, signor Benetton: Chi ha comprato la terra
a Dio? Lei si sta comportando come i signori feudali che alzavano muri di
oppressione e di potere nei loro latifondi.
Insomma, Esquivel contrapponeva ai diritti “legali” di Benetton
i diritti “legittimi” dei Mapuche, evocando parallelamente lo spettro
delle conquiste coloniali e quello delle recinzioni che, nel passaggio
alla modernità, misero fine al regime delle terre comuni e inaugurarono il nuovo modello esclusivo di proprietà privata. La risposta di
Benetton non si fa attendere:
Chiedendomi ‘Chi ha comprato la terra a Dio?’, lei riapre un dibattito sul
diritto di proprietà che, comunque la si pensi, rappresenta il fondamento
stesso della società civile [...]. Da parte mia credo che nel mondo terreno
e ormai globalizzato la proprietà fisica, come quella intellettuale, sia di chi
può costruirla con la competenza e il lavoro, favorendo anche la crescita e
il miglioramento degli altri [...]. La nostra era, ed è tuttora, una sfida di sviluppo [...]. Senza entrare nel crudo dettaglio delle cifre, abbiamo investito
per portare l’azienda a buoni livelli di produttività, ben consapevoli che
questo avrebbe contribuito a produrre sviluppo e lavoro per il territorio e i
suoi abitanti [...]. Abbiamo semplicemente seguito le regole economiche in
cui crediamo: fare impresa, innovare, operare per lo sviluppo, continuare a
investire per il futuro.
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OLTRE IL PUBBLICO E IL PRIVATO
Il ragionamento di Benetton si basa su alcuni assunti più o meno
espliciti: la proprietà privata, fisica o intellettuale, “rappresenta il
fondamento stesso della società civile”, e come tale “è necessaria” al
mantenimento e allo sviluppo produttivo dell’ordine sociale; viceversa, dove il regime proprietario è assente, ci sono solo “terre desertiche
e inospitali”. È questa serie di assunti che costituisce quel tipo particolare di narrazione che abbiamo definito proprietaria: il diritto di
proprietà è associato a efficienza, lavoro, produttività; tutto il resto
non è che abbandono, degrado e rovina4.
L’idea della proprietà come luogo per eccellenza dell’efficienza e
del buon funzionamento della società ha una storia antica, ma non antichissima. Per quanto una “lunga cottura” possa farcela apparire oggi
come una verità oggettiva e, per così dire, naturale, essa si afferma in
un momento preciso, in una fase storica ben determinata che coincide
all’incirca col passaggio alla modernità. Semplificando al massimo, si
può dire (pur con molta approssimazione) che prima della modernità
il proprietario era limitato nei suoi diritti dal ruolo che si pensava
egli dovesse svolgere nei confronti della collettività: come scrive per
esempio Tommaso, la proprietà delle ricchezze può essere privata, ma
l’uso che se ne fa deve necessariamente essere collettivo, e questo perché “secondo il diritto naturale tutto è comune, e la proprietà privata
è incompatibile con tale comunanza”5. Viceversa, a partire almeno
dalla seconda metà del Cinquecento, la proprietà tende a diventare
un incondizionato ius utendi et abutendi, il diritto cioè di escludere
chiunque dal godimento del bene in questione e di disporre di esso a
pieno titolo (anche se nei limiti stabiliti dalle leggi civili).
Ora, nella nostra tradizione filosofica, il campione di questo passaggio è stato spesso indicato in John Locke6. Il celebre V capitolo del
Secondo Trattato lockiano sul Governo, interamente dedicato a una
4
5
6
Il resoconto, la cronologia e la documentazione del conflitto Mapuche/Benetton, oltre
alla corrispondenza tra Luciano Benetton e Pérez Esquivel, è reperibile sul sito del Centro
Documentazione Conflitti Ambientali: http://www.cdca.it/spip.php?article45.
Tommaso d’Aquino, La somma teologica, II-IIae Qu. 66 art. 2 co., Edizioni Studio Domenicano, Bologna 1996.
Naturalmente, anche le posizioni di Locke non nascono dal nulla, ma sono in un certo
senso preparate da una parabola secolare di pensiero che, almeno secondo alcuni interpreti, può esser fatta risalire agli inizi del Trecento con la celebre disputa sulla povertà tra
Papato e Ordine francescano. Cfr. Paolo Grossi, Usus facti. La nozione di proprietà nella
inaugurazione dell’età nuova, in “Quaderni Fiorentini per la Storia del Pensiero Giuridico
Moderno”, I, 1972, pp. 287-355.
IDEE DEL COMUNE
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teorizzazione sistematica della proprietà privata, rappresenta effettivamente uno snodo centrale all’interno di questa traiettoria. L’incipit
è assai significativo:
Sia che si ascolti la legge naturale, la quale ci dice che gli uomini, una volta
nati, hanno diritto alla sopravvivenza, e dunque a cibo, bevanda e a tutto
ciò che la natura offre per la loro sussistenza; sia che si ascolti la rivelazione,
la quale ci descrive la donazione che del mondo Dio fece ad Adamo [...] è
comunque evidente che Dio [...] ha dato [la terra] in comune a tutta l’umanità. Ciò posto, ad alcuni sembra difficilissimo spiegare come si sia venuti
ad avere singolarmente proprietà di qualcosa [...]. Cercherò invece di mostrare come gli uomini poterono giungere ad avere in proprietà singole parti
di ciò che Dio aveva dato in comune al genere umano, e ciò senza alcun
patto esplicito di tutti i membri della comunità7.
Locke pone quindi all’inizio della sua storia una situazione di
originaria proprietà comune dei beni. Quest’idea di una comunanza
primigenia delle risorse naturali ha una storia molto antica. Dalla Repubblica di Platone passando poi per gli stoici, attraversa la patristica
(dove però si sostanzia di nuovi significati, soprattutto in riferimento
alla Chiesa dei primi Apostoli), riaffiora con forza nel Decretum di
Graziano (1140 circa), per arrivare al giusnaturalismo moderno8, a
Rousseau, a Kant9. Secondo questa “tradizione” (di cui potrebbero
essere elencati ancora altri ascendenti e altri riferimenti culturali), Dio
in origine avrebbe donato il mondo a tutti gli uomini, così che ne
godessero in comune: solo a partire da questa situazione di primitiva
comunanza dei beni sarebbe poi stata istituita la proprietà privata10.
Anche Locke, almeno apparentemente, rimane fedele a questo quadro culturale. Cos’è però che, secondo il filosofo inglese, permette di
passare dall’originaria situazione di proprietà comune a quella attuale
di proprietà privata? La risposta è nota: è il “lavoro del suo corpo e
l’opera delle sue mani” che permette all’uomo di appropriarsi i frutti
7
8
9
John Locke, Trattato sul governo, trad. it. Editori Riuniti, Roma 2006, p. 22.
Cfr. in particolare Ugo Grozio, Mare liberum, trad. it. Liguori, Napoli 2007.
Per una ricostruzione approfondita delle varie teorie in tema di proprietà (non solo privata), cfr. Peter Garnsey, Thinking about Property: From Antiquity to the Age of Revolution,
Cambridge University Press, Cambridge 2007.
10 Anche il grido di battaglia della rivolta contadina del 1525 (Omnia sunt communia) si
riferiva precisamente a questa tradizione di pensiero. Il che ci offre una rappresentazione
plastica di come ciò di cui ci stiamo occupando non resti confinato in un cielo iperuranio di Idee astratte, ma possa invece diventare all’occasione un’arma potente di conflitto
politico. Cfr. Ernst Bloch, Thomas Münzer teologo della rivoluzione, trad. it. Feltrinelli,
Milano 2010.
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OLTRE IL PUBBLICO E IL PRIVATO
che altrimenti sarebbero di tutti. L’assioma di partenza è che “ciascuno ha la proprietà della sua persona: su questa nessuno ha diritto
alcuno all’infuori di lui”11. Il lavoro, allora, non fa che trasmettere il
vincolo proprietario dal rapporto tra l’individuo e il proprio corpo,
a quello tra soggetto e oggetto naturale: “Quanto terreno un uomo
zappa, semina, migliora e coltiva, e di quanto può usare il prodotto,
tanto è di proprietà sua. Col suo lavoro egli lo ha, per così dire, recinto
dalla terra comune”12. Quali sono le conseguenze di questo modo di
intendere la proprietà come diritto naturale fondato sul lavoro? Se è
il lavoro, possesso assoluto dell’uomo, che giustifica l’appropriazione,
il diritto individuale di appropriazione passa sopra a qualsiasi pretesa
di ordine morale della società. Risulta così rovesciata la concezione
tradizionale che attribuiva a proprietà e lavoro una funzione sociale, e che all’autorizzazione a possedere associava tutta una serie di
obblighi verso la collettività. Ma c’è di più. In effetti, Locke non si
accontenta di giustificare una forma limitata di proprietà. Il suo scopo
è legittimare l’appropriazione illimitata delle risorse. Per farlo però
deve superare una difficoltà: se, come egli stesso ha ammesso, tutti gli
uomini hanno diritto alla sopravvivenza (e quindi all’accesso ai mezzi
di sussistenza), come è possibile permettere un’appropriazione illimitata della terra? Lo si può fare solo a condizione che avanzino anche
per gli altri beni “sufficienti e altrettanto buoni”. A garantire il soddisfacimento di questa condizione, Locke invoca le superiori virtù di
efficienza e produttività che egli attribuisce al lavoro (e quindi all’appropriazione privata): “Chi si appropria col suo lavoro la terra non assottiglia ma accresce le provvigioni comuni dell’umanità: infatti i beni
atti al sostentamento della vita umana che sono prodotti da un acro di
terra cintata e coltivata sono, a dir poco, dieci volte quelli forniti da
un acro di terra altrettanto ricca ma lasciata incolta e comune”13. Per
concludere, in Locke la proprietà è (come per Benetton) il luogo per
eccellenza dell’efficienza; il comune è invece improduttivo, abbandonato, incolto.
A questo punto bisogna chiedersi se è questa l’unica narrazione
disponibile all’interno della nostra tradizione di pensiero. Lo stesso
Locke può offrirci lo spunto per rispondere, negativamente, a questa
domanda. A un certo punto, sempre nel capitolo V, egli si chiede re11 John Locke, Trattato sul governo, cit., p. 23.
12 Ivi, p. 26, corsivo mio.
13 Ivi, p. 30.
IDEE DEL COMUNE
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toricamente: “È stato un furto prendere per sé ciò che apparteneva a
tutti in comune?”14. Ovviamente no, risponde Locke. Ma cosa spinge
il filosofo inglese a sollevare, sia pur solo retoricamente, questo dubbio? È nota la risposta che nel 1840 Pierre-Joseph Proudhon diede
alla domanda Che cos’è la proprietà?: la propriété c’est le vol, la proprietà è un furto15. Il punto però è che l’idea della proprietà privata
come furto (in particolare, furto di beni comuni) aveva già fatto la sua
comparsa ben prima di questa data. Così si esprimeva per esempio
l’umanista spagnolo Vives nel 1526: “Sappia pertanto ciascuno che
possiede doni della natura che, se ne fa partecipe il fratello bisognoso,
quel suo possesso è legittimo; in caso contrario egli è un ladro e un
rapinatore, dal momento che occupa e detiene quello che la natura ha
procurato non esclusivamente per lui”16. Sempre a titolo di esempio,
in un pamphlet Leveller del 1649 leggiamo:
Tu rubi, tu, che ordini agli altri di non rubare? [...]. Questi ricchi e astuti
ladri che non hanno bisogno di stare in agguato a lato delle strade per appropriarsi della altrui borsa, né di sgattaiolare dalle finestre – avendo trovato un modo più sottile, più empio, di rubare, di quello cui sono costretti
i poveri ignoranti – pensano di essere al sicuro. Legge e boia sono al loro
servizio, e quindi sono ben sicuri di non finire appesi: il loro furto è benedetto dalla Legge del Parlamento, ossia non è furto! Tutto ciò che rubano e
sottraggono diviene loro proprietà17.
Ancora, un componimento anonimo inglese del XVIII secolo recita:
“The law locks up the man or woman/Who steals the goose from off
the common/But leaves the greater villain loose/Who steals the common from off the goose”18. Questi sono solo alcuni esempi (altri se ne
potrebbero fare), tratti peraltro da contesti storici e culturali eterogenei – e perciò solo approssimativamente sovrapponibili. Tuttavia,
mettendo insieme anche solo queste poche tessere, possiamo comporre un mosaico diverso da quello lockiano: qui la proprietà privata
non ha nulla o quasi dell’aura di legittimità di cui il filosofo inglese
14 Ivi, p. 24.
15 Cfr. Pierre-Joseph Proudhon, Che cos’è la proprietà? o ricerche sul principio del diritto e del
governo. Prima memoria (1840), trad. it., Laterza, Roma-Bari 1974.
16 Juan Luis Vives, L’aiuto ai poveri. De subventione pauperum, trad. it. Serra editore, PisaRoma 2008, p. 66.
17 Cit. in Daniel Bensaïd, Gli spossessati. Proprietà, diritto dei poveri e beni comuni, ombre
corte, Verona 2009, pp. 34-35.
18 Cit. in James Boyle, The second enclosure movement and the construction of the public
domain, in “Law and contemporary problems”, 66, 2003, p. 33.
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OLTRE IL PUBBLICO E IL PRIVATO
l’aveva circondata. Lungi dall’essere il luogo pacifico dell’efficienza,
la proprietà si fonda su una violenza, su un primitivo elemento di
illegittimità. Ecco l’altra narrazione cui si accennava all’inizio, contrapposta a quella proprietaria. Ora, se prima della modernità questo
riferimento alla proprietà come furto aveva di mira soprattutto alcune
istituzioni proprie dell’attività di mercato (l’usura su tutte), con la
modernità esso si sostanzia di un contenuto nuovo: i processi di enclosures, di recinzione delle terre comuni. Di che si tratta?
Una delle analisi più vivide di questi processi la troviamo nel XXIV
capitolo del primo libro del Capitale di Marx, dedicato alla “cosiddetta accumulazione originaria”. Questo capitolo, posto significativamente alla fine del libro, mira a esaminare le condizioni storiche
che hanno permesso la transizione da un’economia prevalentemente
agricola di tipo feudale al modo di produzione capitalistico; la scena
descritta si colloca dunque nel passaggio dal mondo pre-moderno a
quello moderno. L’obiettivo è innanzitutto confutare le tesi “idilliche” dei teorici dell’economia politica, secondo le quali (banalizzando) i ricchi sono ricchi e i poveri sono poveri perché i primi hanno
lavorato e risparmiato, i secondi hanno oziato e dissipato. Tuttavia,
ricorda Marx, “Nella storia effettiva, come ben si sa, la conquista,
la tirannia, il depredamento rappresentano sempre la parte più
importante”19. Il suo scopo diventa allora quello di fornire una genealogia alternativa del capitale, mostrando come esso si costruisca su
fondamenta “di sangue e di fuoco”.
Ma cosa intende Marx per “capitale”? “Il capitale non è una cosa,
ma un rapporto sociale tra persone mediato da cose”20. Ricostruire
l’origine del capitalismo significa perciò comprendere come siano
venuti alla luce i personaggi che si collocano ai due lati del rapporto:
da una parte, il proprietario del denaro e dei mezzi di produzione e
sussistenza, il cui interesse è acquistare la forza-lavoro che gli consentirà di valorizzare la somma di valore di cui già dispone; dall’altra,
il “libero lavoratore”, venditore della propria forza-lavoro: “Il movimento storico che trasforma i produttori in operai salariati appare
quindi da un lato come loro liberazione dalla servitù e dagli obblighi
corporativi; e per i nostri storiografi borghesi esiste solo questo lato.
Ma dall’altro lato queste persone da poco liberate divengono vendi19 Karl Marx, Il Capitale. Critica dell’economia politica, trad. it. Newton Compton, Roma
2010, p. 515.
20 Ivi, p. 550.
IDEE DEL COMUNE
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trici di sé medesime solo dopo che sono state private di tutti i loro
mezzi di produzione e di tutte le condizioni d’esistenza che garantivano loro le antiche istituzioni feudali”21. Queste “istituzioni feudali” che garantivano mezzi di produzione e condizioni di esistenza
erano, appunto, il sistema delle proprietà comuni. Fino alle soglie
della modernità, le comunità rurali potevano vantare tutta una serie
di diritti consuetudinari su alcune terre aperte, poste solitamente ai
margini dei latifondi dei signori: poteva trattarsi di pascoli su cui
allevare il bestiame, campi coltivati a turno, boschi da cui si otteneva
la legna per le abitazioni e per il riscaldamento, fiumi e foreste da
cui si ricavavano varie forme di nutrimento (selvaggina, frutta selvatica, pesce, acqua). Queste terre, insieme alle risorse che ospitavano,
venivano considerate proprietà comune (né privata né demaniale) e
gestite solitamente da organi di autogoverno. Ora, a partire appunto
dalla fine del Quattrocento, e con tempi e modalità diverse a seconda delle epoche e dei luoghi, i proprietari fondiari (signori feudali o
mercanti arricchiti) cominciarono a chiudere (enclose) e privatizzare
le terre comuni – recintandole o scavando fossati – per convertirle
in pascoli. Le comunità che abitavano quelle aree furono costrette,
il più delle volte con intimidazioni e violenze, ad abbandonarle e
a rifugiarsi altrove. Una massa di donne e uomini, spossessati dei
loro tradizionali mezzi di produzione e sostentamento, si trovarono di fronte alla scelta tra il vagabondaggio e l’illegalità da un lato,
e l’ingresso nelle nascenti manifatture industriali dall’altro. Questo
processo (che già Tommaso Moro denunciava ferocemente nella sua
Utopia, agli inizi del XVI secolo22) va sotto il nome di enclosures of the
common.
Per ragioni di brevità, non possiamo seguire nei particolari tutti i passaggi dell’analisi marxiana del fenomeno. Quel che però qui
è interessante notare è che essa mostra come le due sfere d’azione
che costituiscono la struttura del mondo moderno – e cioè la sfera
privata e quella pubblica/statale – nascano a partire dalla rimozione violenta di una terza dimensione, alternativa a entrambe: quella,
appunto, del Comune. In effetti, a partire almeno dalla fine del XVII
secolo, i proprietari che portavano avanti il movimento delle recinzioni cominciarono a essere appoggiati direttamente dalle autorità
21 Ivi, p. 516.
22 Cfr. Tommaso Moro, L’Utopia o la migliore forma di repubblica, trad. it. Laterza, RomaBari 1971, pp. 42-43.
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OLTRE IL PUBBLICO E IL PRIVATO
del nascente Stato moderno, interessato a garantirsi il monopolio
del potere sul territorio nazionale: un monopolio messo in questione
dalla moltiplicazione dei centri di relativa autonomia rappresentati dalle varie comunità di villaggio. Si tratta dunque di un duplice
movimento: assolutizzazione del diritto di proprietà privata, da una
parte; assolutizzazione del potere statale, dall’altra. L’origine della
modernità non ha nulla di idillico.
Abbiamo allora aggiunto un tassello importante alla nostra genealogia: lungi dall’essere un istituto eterno e immutabile dell’umanità,
la proprietà privata moderna nasce, nel racconto di Marx, a partire
da un momento originario di violenza, e paradossalmente finisce per
assomigliare in modo inquietante a ciò di cui dovrebbe rappresentare il luminoso contrappunto: il furto. L’accumulazione originaria
del capitale si configura come un vero e proprio furto dei commons.
Ora, tutto questo – che in realtà si riferisce alla “preistoria” del
capitale – sembra però poterci dire molto anche sul nostro presente.
Il fatto è che, almeno secondo alcuni autori (ascrivibili soprattutto,
ma non solo, al cosiddetto post-operaismo), ci troveremmo oggi in
una fase di transizione da un modo di produzione di tipo fordista
(incentrato sul primato del lavoro astratto) a uno di tipo post-fordista, in cui la principale fonte di valore non è più il lavoro materiale
ma quello immateriale: linguaggi, affetti, saperi, conoscenze23. Senza
entrare nel dettaglio, possiamo provare ad accennare brevemente
alcuni dei tratti salienti di questa transizione. Il punto principale,
sempre secondo i suddetti autori, è che il passaggio dal fordismo al
postfordismo apre delle forti contraddizioni all’interno dei circuiti del capitale, perché quando il sapere diventa il principale fattore
produttivo, i meccanismi normali di valorizzazione del valore (basati
sullo sfruttamento della forza-lavoro materiale) entrano in crisi. Per
valorizzarsi, il capitale non deve più sussumere sotto di sé solo il
lavoro vivo dell’operaio, ma anche quell’insieme assolutamente eterogeneo di competenze e capacità che soltanto in modo improprio
23 Non abbiamo qui lo spazio per dilungarci più di tanto su quello che viene in vario modo
definito come capitalismo cognitivo o immateriale. La bibliografia sull’argomento è peraltro assai vasta. Per citare solo qualche titolo: Christian Marazzi, Il posto dei calzini. La svolta linguistica dell’economia e i suoi effetti nella politica, Edizioni Casagrande, Bellinzona
1994; Carlo Vercellone (a cura di), Capitalismo cognitivo. Conoscenza e finanza nell’ epoca
postfordista, manifestolibri, Roma 2006; André Gorz, L’immateriale. Conoscenza, valore e
capitale, Bollati Boringhieri, Torino 2003; Andrea Fumagalli, Bioeconomia e capitalismo
cognitivo. Verso un nuovo paradigma di accumulazione, Carocci, Roma 2007.
IDEE DEL COMUNE
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possiamo ridurre alla categoria unica di “conoscenza”. Inoltre, nel
caso del sapere, grazie soprattutto ai processi di virtualizzazione che
permettono di separarlo e renderlo utilizzabile indipendentemente
da ogni sostrato materiale (qual era per esempio la macchina nell’era
fordista), il costo di produzione non coincide più col costo di riproduzione. Pensiamo alla progettazione di un nuovo software: una
volta che una prima unità è stata realizzata, il costo di riproduzione
delle sue copie tende a zero. Il che vuol dire che i beni cosiddetti
immateriali non sono soggetti a scarsità, potendo essere riprodotti
in numero pressoché infinito a costi trascurabili. Il risultato è che,
indipendentemente dal suo valore d’uso, il valore di scambio della
conoscenza (potenzialmente disponibile in quantità illimitate) tenderà a zero24.
Come può allora il capitale valorizzare una merce tanto poco docile? L’unica soluzione è, appunto, creare artificialmente la scarsità.
Nuove recinzioni, siano esse ottenute con strumenti legali o extralegali, consentono al capitale di appropriarsi della conoscenza, impedendo quindi che essa diventi bene comune. Ecco come funziona il
nuovo processo di valorizzazione: i saperi, frutto dell’interazione e
dello scambio collettivo, vengono espropriati tramite barriere artificiali o limitazioni imposte sui mezzi d’accesso (Internet in primis).
Chi vorrà usufruirne dovrà pagare: il profitto diventa rendita. Ecco
perché il racconto marxiano sull’accumulazione originaria (e in generale, la contro-narrazione che ho cercato di ricostruire) torna di
attualità. Il capitalismo cognitivo opera oggi attraverso “predazione
di esternalità”25: esso crea cioè le condizioni per appropriarsi gratuitamente dei frutti della cooperazione sociale, non più rinchiusa tra
le mura dell’industria fordista e quindi non più gestibile secondo
logiche e metodi fordisti. Brevetti, copyright, tasse d’accesso sono i
nomi delle nuove enclosures che consentono al capitale di fare suoi
i frutti della cooperazione sociale. Solo che oggi le recinzioni non
colpiscono più esclusivamente i beni comuni materiali (terre, boschi, laghi) ma si rivolgono anche a quelli immateriali (saperi, affetti, relazioni). Non è un caso allora che il tema dei commons stia
acquistando sempre più rilievo non solo a livello accademico, ma
anche all’interno dei movimenti sociali che si oppongono al dilagare
24 Cfr. Enzo Rullani, Le capitalisme cognitif: du déjà vu?, in “Multitudes”, 2, 2000, pp. 87-94.
25 Cfr. Yann Moulier-Boutang, La revanche des externalité. Globalisation des économies, externalités, mobilité, transformation de l’économie et de l’intervention publique, in “Futur
Antérieur”, 39-40, 1996, pp. 39-70.
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OLTRE IL PUBBLICO E IL PRIVATO
dell’ideologia neoliberista. Tornare oggi a rivendicare i beni comuni contro il saccheggio sistematico del capitale significa, tra le altre
cose, “espropriare gli espropriatori”, riappropriarsi cioè di quei mezzi di produzione e sussistenza (tanto materiali quanto immateriali)
che possano consentirci di riconquistare spazi di autonomia all’interno dei rapporti di produzione capitalistici. In un documento del
1847, Tocqueville profetizzava che “è tra coloro che possiedono e
coloro che non possiedono che verrà a prodursi un giorno la lotta
politica; il grande campo di battaglia sarà la proprietà [...]”26. Oggi
questa profezia pare esser divenuta realtà, e in un senso assolutamente radicale.
26 Cfr. Alexis de Tocqueville, Della classe media e del popolo, trad. it. in Id., Scritti politici,
Utet, Torino 1981, vol. I, pp. 247-250.