QUADERNI DI
SEMANTICA 1-2/06
Studi in onore di Mario Alinei
QUADERNI DI SEMANTICA
DIRETTORE / GENERAL EDITOR
MARIO ALINEI
CONDIRETTORE / ASSOCIATE EDITOR
RITA CAPRINI (Università di Genova)
SEGRETARIO DI REDAZIONE / EDITORIAL SECRETARY
GABRIELE COSTA (Università del Molise)
COMITATO DI REDAZIONE / EDITORIAL BOARD
GIULIO ANGIONI (Università di Cagliari)
MICHEL CONTINI (Università Stendhal di Grenoble)
GABRIELE COSTA (Università del Molise)
FABIO FORESTI (Università di Bologna)
OTTAVIO LURATI (Università di Basilea)
GLAUCO SANGA (Università di Venezia)
QUADERNI DI SEMANTICA
Rivista internazionale di semantica teorica e applicata
An International Journal of Theoretical and Applied Semantics
Anno XXVII, n. 1-2, giugno-dicembre 2006
Motivazione e continuità linguistica.
Per Mario Alinei in occasione dei suoi 80 anni
a cura di Rita Caprini e Michel Contini
Introduzione . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
9
In Principio Era il Dimostrativo, di Xaverio Ballester . . . . . . . . . . . . . .
13
Origini delle letterature d’Europa, di Francesco Benozzo . . . . . . . . . . . .
31
Großindogermania o Grande Indoeuropa pluricontinentale e multimillenaria come modello per la preistoria linguistica dello spazio indomediterraneo, di Guido Borghi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
51
La Gatta Marella e gli altri: spauracchi infantili dal Piemonte, di Sabina
Canobbio . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
133
L’Uomo Selvatico, di Rita Caprini . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
149
Il nome della trottola in Alta Val di Magra: fra onomasiologia e semasiologia, di Elisabetta Carpitelli . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
167
Une frontière oubliée en domaine sarde?, de Michel Contini . . . . . . . . .
183
Linguistica e preistoria. II: linguaggio e creazione del sacro, di Gabriele
Costa . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
199
Zoonymes et relations parentélaires: réflexions sur la belette. De l’étymologie à la reconstruction lexicale, de Jean-Philippe Dalbera . . . . .
225
L ladin dolomitan: propostes de svilup, de Vittorio Dell’Aquila . . . . . . .
253
Il dio cornuto. Alcune metamorfosi di una divinità paleolitica, di Paolo
Galloni . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
277
4
Los nombres del murciélago en los atlas regionales españoles, de Pilar
García Mouton . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
289
Quan surt la ratlla de Sant Martí… Refranes romances del arco iris,
meteorología y cultura popular, de José Enrique Gargallo Gil . . . . . .
301
Le totemisme “alineien”. Vestige du totémisme “australien” en Occident,
de Tshimanga Kutangidiku Etienne . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
321
Dans le silence de l’histoie, de Jean Le Dû . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
327
Les noms gallo-romans de la chouette effraie (tyto alba), de Jeanine Élisa Médélice . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
339
Un fiore speciale: l’amento del castagno. Denominazioni toscane, di
Annalisa Nesi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
347
Italiano càtaro, tedesco Ketzer ‘eretico’, di Alberto Nocentini . . . . . . . . .
365
Cosa ci insegnano le grafie italiane antiche, di Glauco Sanga . . . . . . . .
371
Les noms de maladies dans les noms de plantes: quelle place pour le tabou linguistique? Le cas du daco-roumain, de Carmen Scarlat . . . . .
391
I dizionari: specchio della lingua? A proposito del genere di Botta (e) risposta, di Salvatore Claudio Sgroi . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
407
Ancora Marmotte, di Tullio Telmon . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
421
Italianismos en el Diccionari mallorquí-castellà (1840) de Pere A. Figuera, de Joan Veny . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . . .
435
Genes and Languages in Europe and South-Western Asia during the
Mesolithic and Neolithic Periods, by Francisco Villar . . . . . . . . . . . .
449
Collaboratori di questo numero / Contributors to this issue:
Xaverio Ballester, Universitat de València
Francesco Benozzo, Università di Bologna
Guido Borghi, Università di Genova
Sabina Canobbio, Università di Torino
Rita Caprini, Università di Genova
Elisabetta Carpitelli, Centre de Dialectologie de Grenoble
Michel Contini, Centre de Dialectologie de Grenoble
Gabriele Costa, Università del Molise
Jean-Philippe Dalbera, Université de Nice Sophia Antipolis
Vittorio Dell’Aquila, Vasa Universitet / Vaasan Yliopisto
Paolo Galloni, Roma
Pilar García Mouton, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Madrid
José Enrique Gargallo Gil, Universitat de Barcelona
Tshimanga Kutangidiku Etienne, Université de Kinshasa
Jean Le Dû, Université de Bretagne Occidentale, Brest
Jeanine Élisa Médélice, Centre de Dialectologie de Grenoble
Annalisa Nesi, Università di Siena
Alberto Nocentini, Università di Firenze
Glauco Sanga, Università di Venezia
Carmen Scarlat, Centre de Dialectologie de Grenoble
Salvatore Claudio Sgroi, Università di Catania
Tullio Telmon, Università di Torino
Joan Veny, Institut d’Estudis Catalans, Barcelona
Francisco Villar, Universidad de Salamanca
© 2006 by CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
Questo periodico è pubblicato con il contributo del Ministero per i Beni Culturali
ISSN 0393-1226
ISBN 88-491-2710-3
CLUEB
Cooperativa Libraria Universitaria Editrice Bologna
40126 Bologna - Via Marsala 31
Tel. 051 220736 - Fax 051 237758
www.clueb.com
Finito di stampare nel mese di settembre 2006
da Studio Rabbi - Bologna
Registrato al n. 4804 presso la cancelleria del Tribunale Civile di Bologna, 17-4-1980
Motivazione e continuità linguistica
Per Mario Alinei in occasione dei suoi 80 anni
a cura di
Rita Caprini e Michel Contini
Introduzione
I contributi raccolti in questa Festschrift sono, tra loro, molto disparati,
eppure tutti sono stati in qualche maniera ‟generati” dagli interessi e dagli
ambiti di studio del nostro Festeggiato: la ricostruzione linguistica e culturale
preistorica, i grandi temi del folklore – considerati nella loro lunga durata o
nelle loro epifanie a noi più prossime –, la ricerca dialettale sul terreno, la storia della lingua italiana, tutto è nella bibliografia di Alinei, e tutto è rappresentato nelle pagine che seguono.
Offrire un omaggio per gli ottant’anni di uno studioso di tale levatura costituisce in qualche modo un’impresa, che noi, i curatori, abbiamo intrapreso
con un certo tremore e un grande entusiasmo: tremore perché temevamo di
non riuscire a coprire tutti i campi di studio del Nostro, entusiasmo perché
l’insegnamento di Mario Alinei è stato un momento fondamentale di molte
delle nostre vite di studiosi. Rileggendo l’indice al momento di congedare il
manoscritto (ma si può ancora parlare di manoscritto? Questo sarebbe un tema nelle corde di Alinei…) possiamo dire che l’impresa è riuscita. Curare il
volume è stato per gli editori anche una piacevole esperienza, e ha consentito
l’accesso a una panoramica delle nuove tendenze in diversi settori della ricerca
linguistica.
Di diretta rilevanza per la Teoria della Continuità dal Paleolitico sono i
contributi di Xaverio Ballester, Gabriele Costa, Paolo Galloni, Francisco Villar e Guido Borghi. L’articolo di Ballester, di grande interesse (In Principio
Era il Dimostrativo), si rivolge a stadi antichissimi delle nostre lingue, sostenendo che potrebbe essere considerato come fondamentalmente valido il
principio che, a maggior mantenimento di condizioni primitive – cioè pro-neolitiche – in una continuità linguistica, saranno da attendersi maggiore presenza e complessità dei dimostrativi.
Un diverso salto nella preistoria è costituito, tra gli articoli qui raccolti, dai
lavori di Costa e Galloni: il primo (Linguistica e preistoria. II: linguaggio e creazione del sacro) presenta lo spettro delle possibili interazioni metodologiche,
teoretiche e fattuali tra la linguistica, osservata anche da un punto vista storico-disciplinare e meta-teoretico, e le altre discipline che si occupano
dell’evoluzione preistorica delle lingue e delle culture, in particolare sui temi
dello sviluppo preistorico del rito, della narrazione mitologica, della nascita
della rappresentazione simbolica e dell’origine delle religioni funzionalmente
moderne nel Paleolitico Superiore; l’argomento si rivela di assoluta attualità,
come si può constatare dalle opere cui Costa fa riferimento. Galloni (Il dio
10
cornuto: alcune metamorfosi di una divinità paleolitica) da parte sua
‟approfitta” della teoria alineiana della continuità paleolitica, che rivendica
appunto la continuità dal Paleolitico del popolamento europeo come pure
delle famiglie linguistiche attestate in Europa in epoca storica, per trarne diverse implicazioni interpretative nuove; tra le quali una è certamente la possibilità di accostare, con tutta la prudenza del caso, in una sequenza filogeneticamente accettabile dati archeologici collocati entro uno spettro cronologico
assai ampio. L’argomento qui trattato è quella delle ‟corna divine”, cioè delle
corna come attributo della divinità in epoca preistorica.
Villar (Genes and Languages in Europe and South-Western Asia during the
Mesolithic and Neolithic Periods), sulla base dell’analisi etimologica e distribuzionale di 307 toponimi antichi e moderni raggruppabili in tredici radici, stabilisce per l’indoeuropeizzazione dell’Europa la seguente cronologia (in parte
estendibile all’India): prima colonizzazione, dal Vicino Oriente (indoeuropeo
paleolitico) = prima del 13.000 a.C.; ripopolamento postglaciale, dalla Penisola Iberica (indoeuropeo mesolitico, DP 2) = 11.000-10.500 a.C.; diffusione
dell’agricoltura, dall’Anatolia (indoeuropeo neolitico, DP 1) = 7000 a.C.; invasioni di élites (indoeuropeo classico stricto sensu) = Età dei Metalli. Villar
nega che l’indoeuropeo tradizionalmente ricostruito sia stato la protolingua
dei linguemi indoeuropei storici, che invece risalirebbero in grado diverso ai
suddetti processi di espansione degli stadî antecedenti all’indoeuropeo classico.
Simile per base documentaria (416 toponimi) e prospettiva (identificazione tra toponomastica antica e toponomastica dell’Indoeuropa), il contributo
di Borghi (Großindogermania o Grande Indoeuropa pluricontinentale e multimillenaria come modello per la preistoria linguistica dello spazio indomediterraneo) è al contempo più vicino alla Teoria della Continuità (per la più lunga
cronologia adottata, che assegna all’indoeuropeo classico stricto sensu i millenni dal XL al III a.C. su tutta la metà sudoccidentale dell’Eurasia) e più
‛neogrammatico’ (ma abbondantemente laringalista) nelle etimologie indoeuropee (di cui 101 qui proposte per la prima volta).
Come Borghi insiste sulla continuità dal Paleolitico al Medioevo inoltrato
delle lingue dell’Europa antica, inclusi i sostrati preromani e specialmente il
celtico continentale, il lavoro di Francesco Benozzo (Origini delle letterature
d’Europa), rifacendo un famoso titolo alineiano, torna alla questione delle radici ‟celtiche” – precisamente galliche – di molta letteratura medievale (epica,
romanzo, lirica) europea e in particolare ibero- e galloromanza. Di respiro soprattutto medievale è anche il lavoro di Nocentini (Italiano càtaro, tedesco
Ketzer ‛eretico’), che contribuisce con una nuova etimologia di cataro (< mediogreco kátharos ‛scarafaggio’) al lungo dibattito sui nomi degli ‟eretici”, dibattito non solo continuato fino ad oggi nell’ambito delle discipline storiche,
ma anche in quello della linguistica (e qui Alinei e i «Quaderni di Semantica»
si sono trovati spesso in prima fila).
Annalisa Nesi (Un fiore speciale: l’amento del castagno. Denominazioni toscane) ed Elisabetta Carpitelli (Il nome della trottola in Alta Val di Magra: fra
11
onomasiologia e semasiologia) ci portano invece nella più domestica dimensione
della ricerca dialettale ‟classica” (che forse presto, per amari motivi accademici
e storici, dovremo dichiarare perduta): il ronzìo della trottola e il bosco di castagni ci richiamano, forse ingannevolmente, a una maggiore vicinanza culturale. Pilar García Mouton offre una dettagliata onomasiologia di ‹pipistrello›
in Spagna (Los nombres del murciélago en los atlas regionales españoles), classificando i continuanti di uespertilio e lo sconcertante numero di varianti di murciélago.
Babau, donnole, arcobaleni, civette, marmotte e malattie come piante (o
viceversa) sono temi che possiamo dichiarare in tutto alineiani, e che qui Sabina Canobbio (La Gatta Marella e gli altri: spauracchi infantili dal Piemonte),
Jean-Philippe Dalbera (Zoonymes et relations parentélaires: réflexions sur la belette. De l’étymologie à la reconstruction lexicale, con sorprendenti comparazioni tra grana, rana, renard, regina, basileia, balia, belette, mus-tela, (paren)tela,
filum, filius), José Enrique Gargallo Gil (Quan surt la rattla de San Martí…
Refranes romances del arco iris, meteorología y cultura popular), Jeanine Elisa
Médélice (Les noms gallo-romans de la chouette effraie (tyto alba)), Tullio Telmon (Ancora Marmotte, con una completa rassegna critica delle proposte etimologiche) e Carmen Scarlat (Les noms de maladies dans les noms de plantes.
Quelle place pour le tabou linguistique? Le cas du daco-roumain) rivisitano con
evidente soddisfazione: in effetti tutto è cominciato, tanti anni fa, con le
‟letture” alineiane dei dati dialettali soprattutto romanzi di queste nozioni. La
rivista «Quaderni di Semantica», giunta oggi al suo ventiseiesimo anno d’età
(età ragguardevole per una rivista, con i tempi che corrono), e ancor oggi diretta da Mario Alinei, ha cominciato il suo percorso proprio indagando i rapporti tra nozioni apparentemente così disparate come l’arcobaleno e i delfini,
le civette e le balie, gli animali più temibili, anche immaginari, e le persone
più vicine a noi. Anzi il barbagianni potrebbe essere investito della funzione di
animale totemico in pectore della tribù degli alineiani, che si annidano un po’
dovunque, soprattutto nelle università e nelle redazioni di riviste e atlanti linguistici. E di totemismo ci parla, dalla sua Africa, Tshimanga Kutangidiku
(Vestiges du totemisme ‟australien” en Occident), i cui lavori abbiamo già avuto
modo di apprezzare dovendo trattare, sulle pagine di «Quaderni di Semantica» e altrove, di zoonimia.
A temi più precisamente di ‟storia della lingua” – ambito nel quale non
occorre qui sottolineare di nuovo i meriti del Festeggiato – ci rimandano
Glauco Sanga e Salvatore Claudio Sgroi e, uscendo appena dal territorio italiano, Joan Veny che tratta degli italianismi nel dialetto di Maiorca. Sanga
(Cosa ci insegnano le grafie italiane antiche) ripercorre le vicende grafiche
dell’italiano, con minuziosa illustrazione degli usi per epoche e aree (corredata
da precise trascrizioni fonetiche) e risultati talvolta sorprendenti, mentre Sgroi
ci riporta alla stridente attualità (la presente e viva, e il suon di lei…) con la sua
indagine sul genere grammaticale di botta e risposta (I dizionari: specchio della
lingua?), che dimostra come anche il popolo sovrano dei parlanti fatichi a
mettersi d’accordo. Jean Le Dû (Dans le silence de l’histoire) ci racconta poi
12
cosa è successo alla sua lingua madre, il bretone, nel corso della sua vita: queste pagine si leggono con emozione, soprattutto se si pensa che il fenomeno
della ‟morte delle lingue” sembra esser quello che più caratterizza l’età di
grandi rivolgimenti (non solo linguistici!) che stiamo vivendo. A una lingua
che vuole vivere ed affronta la sua prima standardizzazione dedica il suo lavoro – non solo in questa raccolta – Vittorio Dell’Aquila, che scrive appunto in
‟ladino dolomitico” (L ladin dolomitan: propostes de svilup). Certo ha dovuto
riguardare le sue bozze molto attentamente, i curatori non hanno potuto offrire che un aiuto limitato!
A proposito di bozze va ricordato che l’intero lavoro di trasformazione
‟glottografica” (secondo la terminologia dell’interessato) dei diversi dattiloscritti in un volume unitario confezionato secondo le norme redazionali è stato svolto in massima parte da Luca Busetto, al quale il comitato editoriale
esprime qui la propria riconoscenza.
I curatori di sé non dicono nulla: il lettore troverà facilmente da solo in
quale paragrafo di questa introduzione collocare i loro lavori. Aggiungono solo, in chiusura, di essere stati contenti di dover leggere prima degli altri tutte
le pagine che seguono, e anche di poter festeggiare un Maestro e un Amico
giunto a un giro di boa così importante. Intanto le imprese comuni continuano pur nelle traversie che mai sono assenti dalle nostre vite. Auguri ancora a
chi festeggia e a chi è festeggiato.
Rita Caprini e Michel Contini
Genova–Grenoble, giugno 2006.
In Principio Era il Dimostrativo
di XAVERIO BALLESTER1
Una categoria sognata
Costituisce un fatto notevolissimo che tutte le lingue conosciute dispongano di dimostrativi e che, fino dove sappiamo, esse ne abbiano sempre disposto. Altre categorie morfologiche, invece, pur così generalmente utili come, ad
esempio, l’articolo o l’aggettivo, sono molto meno rappresentate nelle lingue
del mondo e persino assenti in un buon numero di esse. Una circostanza, questa, che si può dire specialmente significativa, giacché in principio niente obbliga le lingue a possedere questa categoria; in teoria, i dimostrativi potrebbero essere facilmente sostituiti da perifrasi del tipo: [che è] vicino/lontano da
me/te/della casa ecc.
Al contrario, la categoria – o come la si voglia chiamare; categoria almeno
nel senso di presenza obbligatoria – del dimostrativo risulta molto più comprensibile in un habitat differente a quello delle società che nacquero dal Neolitico, giacché la dimostratività diventa uno strumento idealissimo o una idea
strumentalissima per il nomade cacciatore-raccoglitore, tale che non sorprenderà la sua generosa presenza nelle lingue delle comunità di caccia e raccolta.
Da quest’ottica potrebbe presentarsi come fondamentalmente valido il principio che, a maggior mantenimento di condizioni primitive – cioè pro-neolitiche
– in una continuità linguistica, saranno da attendersi maggiore presenza e
complessità dei dimostrativi. Così, ad esempio, le lingue muṇḍā hanno un
modello di dimostrativi complicato [De Meo 1998: 206], e le lingue indoeuropee moderne, benché presentino inventari di solito molto ridotti e a volte
minimi, offrono chiare reliquie di un inventario pronominale molto più ricco,
essendo inoltre in esse spesso chiaramente perspicui i processi di riduzione
storica delle serie dei dimostrativi.
Circa l’importanza dei dimostrativi nel panorama paleolitico, essa pare cosa facile da giustificarsi: il dimostrativo è probabilmente il segno spaziale più
basilare nelle lingue, e lo spazio è un aspetto centrale nelle attività di cacciatori
1
Il testo riproduce quanto esposto in una conferenza tenuta il primo di aprile del 2005 in
una seduta del Circolo Linguistico Fiorentino presso la Facoltà di Lettere e Filosofia
dell’Università di Firenze. Ringrazio vivamente i dottori Pietro U. Dini e Alessandro Parenti
per il gentile invito e per la loro cordiale ospitalità. Ringrazio inoltre Pietro U. Dini per la revisione della versione italiana del testo.
QUADERNI DI SEMANTICA / a. XXVII, n. 1-2, giugno-dicembre 2006
14
e raccoglitori, giacché l’abilità nel localizzare con precisione una preda o un
frutto può essere letteralmente cosa di vita o di morte; la attività dei cacciatori
e raccoglitori in pro della loro sussistenza si sviluppa, inoltre, a differenza
dell’attività delle società di agricoltori, in un ambito molto più spaziale che
temporale.
Nel suo contributo su una comunità aborigena australiana la Piella [2002:
8] così commenta: «La conoscenza del habitat era indispensabile per vivere e
per sopravvivere, perciò la gente delle selve prestava speciale attenzione a questioni come la forma, la localizzazione e la direzione. Contrariamente, il tempo diventava un’estensione della localizzazione» e in nota aggiunge: «La principale referenza per situare un evento per gli aborigeni era (ed ancora è), più
del quando, il dove era accaduto un certo fatto». Si capisce che nella mitologia
degli aborigeni australiani i principali riferimenti siano il dove e lo spazio, e
non il tempo, giacché per essi è prioritario dove accade un certo fatto, e non
quando [Piella 2002: 37, 147]. E si capisce che, ora come causa, ora come
conseguenza, i riti dei cacciatori e raccoglitori non abbiano lo scopo di rappresentare eventi del passato, ma avvenimenti permanenti ed eterni [Piella 2002:
37]. Per gli aborigeni dell’Australia il tempo, dunque, è – o era – semplicemente una ‟estensione della localizzazione” [Piella 2002: 84]. Di fatto, la denominazione occidentale di ‛tempo del sonno’, dall’inglese dreamtime, come
traduzione del vocabolo locale alchera, formato dalla radice per ‛eterno’, si
considera oggi antropologicamente non corretta perché fa riferimento al tempo, e quindi nell’attualità si preferisce la denominazione inglese di dreaming
[Piella 2002: 37 n7], ciò che potrebbe tradursi bene in italiano come ‛sonno –
sogno’ o, ancora meglio, come ‛eternità’. Certamente i cacciatori e raccoglitori
proiettano e realizzano le loro principali attività nello spazio e le percepiscono
come qualcosa di spaziale; per gli agricoltori [e gli allevatori], invece, il tempo
[e il clima] è un aspetto non meno vitale e importante. E risulta che il dimostrativo è, come dicevamo, basicamente spaziale; il dimostrativo è basicamente
percezione, non concezione [Leiss 2000: 273].
Come risultato diretto di quanto brevemente su esposto, le lingue dei cacciatori solgono inoltre presentare paradigmi dimostrativi molto complessi, id
est precisi; paradigmi molto spesso adattati al loro habitat. Così, le lingue dei
papue, nella dirupata Nuova Guinea, solgono esibire un raffinato paradigma
epidittico, perché includono non solo il riferimento alla distanza, ma anche
quello al piano, cioè, alla orizzontalità o verticalità; inoltre prevedono
l’indicazione del movimento [Campbell 2000: 1325]. Analogamente, nelle
lingue del montagnoso Caucaso vi sono dimostrativi che potremmo denominare di altitudine; in queste lingue non basta dire ‛questo’ o ‛quello’ ma si avrà
bisogno di precisare ‛questo-su’ o ‛questo-giù’, ‛quello-su’, ecc. In avaro, ad
esempio, i dimostrativi distinguono tre distanze e precisano se sono superiori
o inferiori in altezza rispetto a chi parla [Del Moral 2002: 81]. Per ogni persona che si sia avventurata per valli così abissali come quelle del Caucaso, con
le sue enormi montagne che raggiungono i 4000 metri, è facile capire l’utilità
di tali dimostrativi di vertigine; per gli altri non è difficile immaginarla. Le
15
lingue parlate da cacciatori-raccoglitori in habitat aperti conterranno, invece,
come riconosce Palmer [2000: 177] «forme grammaticali adeguate per classificare oggetti a distanza. Così, l’eschimo ha uno ‟stile distale di classificazione” con una classe estesa che si applica solo a oggetti grandi […] i classificatori dei cacciatori-raccoglitori tobi degli ampi spazi del Chaco argentino sono
simili», mentre i classificatori di lingue parlate dai cacciatori-raccoglitori di
habitat boscosi conterranno più frequentemente dimostrativi per riferirsi con
maggiore precisione a ciò che è vicino (cf. ancora in modo simile Palmer
[2000: 37]), cioè, per situarsi nelle distanze corte. Ma non sono queste né le
uniche né probabilmente le massime sottigliezze che i dimostrativi conoscono.
Parlare per sentito dire
I dimostrativi dei boscimani dui, ad esempio, distinguono quattro [epi]dissi o situazioni dimostrative includendo la nozione circa la consapevolezza o meno da parte dell’uditore della situazione riferita [Silberbauer 1983:
159]. A questo rispetto è significativa la presenza di una nozione o, se si preferisce, di una categoria grammaticale, chiamata da molti evidenzialità, la quale
precisamente include la categorica specificazione se il parlante osservò il referente in persona, se ne fu informato da un altro, se semplicemente lo suppone
o deduce, o altro ancora… Almeno in teoria l’evidenzialità si lascia spiegare
stupendamente come una sottoclasse (o anche una superclasse) di dimostrativi, e la morfologia delle lingue non presenta – sembra ben chiaro – nessun argomento contro questa assunzione. Troviamo evidenzialità in alcune delle
lingue d’America, dei Balcani, in lingue tibeto-birmane, così come nel giapponese classico, giacché la categoria è praticamente scomparsa nel giapponese
moderno [Dixon 1997: 119].
L’evidenzialità si manifesta formalmente in diverse forme, da rudimentali
procedimenti binari fino ad espedienti molto più complessi. Alcune lingue
hanno solo due gradi di evidenzialità: evidenza – cioè, testimonianza oculare
(o dell’organo corrispondente) – e invidenza. Nella lingua papago dell’Arizona, ad esempio, è obbligatorio servirsi dell’elemento ó nel descrivere qualcosa che non si sia visto con i propri occhi [Palmer 2000: 74 e 237]. In hualapae, anch’esso parlato in Arizona, «il fatto che il locutore abbia visto in persona
quello di cui sta informando» scrive Palmer [2000: 237] «può specificarsi suffissando -o a un verbo». Contrariamente altre lingue presentano dei modelli
molto più complessi, come le lingue (tucanoane e araguaca) dell’area del bacino del Vaupé, fra Brasile e Colombia, lingue che, nella descrizione di Dixon
[1997: 120], distinguerebbero cinque evidenzialità: visuale, allorganica (udito,
olfatto o un altro organo non visuale), manifesta, riferita e supposta; così anche verosimilmente il tuyuca [Whaley 1997: 224s]. Questi tipi di modelli
complessi e minuziosi «solgono» come precisa Dixon [1997: 120] «emergere
solo presso popoli non industrializzati». Non è difficile immaginare perché.
16
Anche nelle lingue turciche, generalmente, assieme alla distanza, può essere
rilevante anche la visibilità [Johanson 1998: 40]. In cazaco i dimostrativi ol,
sol e ana sono impiegati per referenti che restano fuori dalla visione degli interlocutori [Kirchner 1998: 323]. In selcupo, una lingua samoiedica, il paradigma verbale include un modo inferenziale o latentativo per la narrazione di
avvenimenti di cui il locutore non è testimone diretto, e un modo auditivo per
avvenimenti che il locutore sa per sentito dire [Helimski 1998: 566]. In kashmir il dimostrativo suh viene riservato per referenti remoti e non visibili
[Campbell 2000: 865]. Presso gli eschimesi, fondamentalmente cacciatori in
vaste e visualmente monotone superfici, le serie di dimostrativi si presentano
molto elaborate; in iupiche (Yup’ike), assieme ad altre distinzioni, il dimostrativo può presentarsi come esteso, quando per la sua magnitudine l’entità richieda più di un’occhiata per essere contemplata, come ristretto, quando basti
uno sguardo per contemplarla, e come oscur[at]o, quando non risulti visibile
[Mithun 2001: 134s]. È certo che le lingue sono fondamentalmente ecologia.
Anche in molte altre lingue nordamericane, come lo halcomeleme (Halkomelem), lo heilzuche (Heiltsuk) o il chileute si dispone di una serie dimostrativa
che marca la [in]visibilità [Mithun 2001: 133s]. In tlingit o – come meglio ci
propone Moreno [1990: 60] – coluciano, del gruppo linguistico na-dene, il
dimostrativo we indica referenti molto remoti e mai visibili [Campbell 2000:
1662]. Ai cinque dimostrativi basilari della lingua dei Piedi Neri si può aggiungere il suffisso -hka indicando così la non visibilità da parte del locutore
[Mithun 2001: 132]. Presso i guintuni (Wintun) si usa «il suffisso verbale -ke
per l’informazione ricevuta per sentito dire e la narrazione di miti, i suffissi
-da, -besken o -be […] per l’evidenza visuale o indubitabile, i suffissi -ntida,
-nterestken e -nte per l’evidenza sensoriale non visuale e il suffisso -re per
l’informazione basata su inferenze» [Palmer 2000: 237]. In guaranì l’aggettivo
dimostrativo aipo[v]a indica ciò che non si è visto e non è conosciuto [Campbell 2000: 654].
La possibilità di scorgere, dunque, un rapporto naturale fra evidenzialità
[cf. Dixon 1997: 119-21; Moreno 2000: 219s; Palmer 2000: 237s] e comunità di caccia e raccolta risulta molto attraente (cf. Perkins [2000: 351s], con in
nota i dati sul rapporto fra elaborazione dittica e complessità culturale) e diventa una grande tentazione l’ipotesi di spiegare l’emergenza della determinazione nominale tramite l’articolo in tante lingue di società moderne, come un
riciclaggio di eventuali series evidenziali del passato. All’uomo delle popolose
società nate dal Neolitico, foss’egli agricoltore, allevatore, commerciante,
guerriero o scriba, interessava soprattutto discernere il definito e conosciuto
dall’indefinito o generico (le/delle frutte, la/una vacca, il/un prodotto, la/una
guerra, il/un libro…), indipendentemente dal fatto che lo avesse visto, odorato, udito o dedotto.
Nel caso dei dimostrativi molte lingue distinguono, quindi, fra parlare per
udito e parlare con buona conoscenza di causa, cioè, a causa della vista. Ma
non finiscono qui le singolarità del dimostrativo. Tutte certamente suggeri-
17
scono un carattere che glottogonicamente si deve qualificare senz’altro come
molto primitivo.
Parlando fuori gioco
Il transito dalle espressioni sintomatiche alle espressioni referenziali, ovvero, dalla comunicazione immediata e in praesentia alla comunicazione spostata
e in absentia, suppose certamente, per quanto ne sappiamo oggi, un autentico
passo da gigante per il parlare umano, fu l’avanzare dall’interiezione
all’avverbio, dall’imperativo all’indicativo, dal vocativo al nominativo,
dall’esclamazione all’enunciazione. L’espressione enunciativa o referenziale –
tale come è frequentemente definita dai linguisti – sarebbe così il polo inverso
dell’espressione sintomatica e la conseguenza inevitabile di una comunicazione spostata, di un messaggio posto come in fuori gioco. La comparsa di questa
espressione fu, quindi, un avvenimento straordinario, forse il più straordinario, nello sviluppo della comunicazione orale dell’uomo, giacché «L’utilizzazione di un segno, in assenza totale dell’oggetto della realtà alla quale si riferisce, è fondamentale per il linguaggio» [Bernárdez 1999: 197], e soprattutto
poiché probabilmente «L’indipendenza di spazio e tempo è ciò che distingue
il parlare umano dalla comunicazione animale» [Leiss 2000: 250]. Si noterà in
margine che la comunicazione spostata implicò, come sua conseguenza sociale
forse più importante, l’incorporazione della bugia verbale nello sviluppo
dell’umanità.
Di enorme trascendenza psicologica fu anche un’altra conseguenza della
comunicazione spostata, giacché essa suppose la possibilità d’integrare il tempo nelle lingue. Si trattò, quindi, di un intero processo di secolarizzazione linguistica, e, per quanto oggi ne sappiamo, di un processo relativamente recente, e quindi – come si poteva attendere – si verificò in misura diversa secondo
le lingue. Alcune percorsero grandi tratte di questo o quel cammino, come le
nostre lingue romanze che hanno raggiunto un grande sviluppo temporale nel
verbo. Altre continuarono, invece, a operare fondamentalmente con termini
spaziali. La lingua dacota, per esempio, «non ha parola per designare il tempo
[…] per il pensiero dacota, infatti, il tempo viene ridotto a una durata, nella
quale non interviene la misura: è un bene disponibile e senza limite» [Lévi
1997: 144 n2]. Pare allora evidente che andando à la recherche del tempo linguistico non si possa andare molto lontano, che non si possa verosimilmente
giungere sino alle radici del parlare umano. La domanda che tuttavia adesso
più urge è: come poté realizzarsi tutto quell’importante cambiamento che
condusse dall’espressione sintomatica alla marcatezza persino morfologica di
un’entità così astratta come il tempo?
Una delle ipotesi più attraenti, e innanzitutto più plausibili, è che un tale
sviluppo si realizzò fondamentalmente in virtù di un processo di segregazione
fra tempo e spazio. Così, dalla considerazione linguistica del tempo come una
18
concomitanza dello spazio, e dalla nozione dell’elemento temporale come una
metafora dello spazio, si sarebbe passati alla considerazione del tempo come
entità linguistica autonoma (generatrice di sue proprie metafore). È molto
probabile che in quel processo di apartheid fra spazio e tempo, giocarono una
parte molto rilevante i più frequenti, ubiquitari e utili indicatori spaziali, cioè
i dimostrativi. L’ipotesi è parzialmente verificabile nell’analogia con le lingue
storiche, dove è facile trovare una grande quantità di esempi che mostrino il
passaggio di locuzioni dimostrative a locuzioni (o congiunzioni e preposizioni) con valore temporale, come nello spagnolo y en esto letteralmente ‛e in
questo’ per ‛e allora’ (cf. il parallelo polacco wtedy ‛allora’), risultando inoltre
probabilmente molto significativo il fatto che il processo contrario (del tipo
allora per ‛lì’) è molto raro. Così, ancora in spagnolo, si suole impiegare detrás
‛dietro’ col senso di ‛dopo’ (¿Quién va detrás di ti?) ma non viceversa (Alguien
se esconde **después del sofá). Si direbbe che lo spazio includa il tempo, e non
viceversa. Sembra sicuro che forme come le latine tum, tunc ‛allora’ o l’inglese
then ‛allora’ sono di origine dimostrativa. Da temi dimostrativi devono derivare altresì le forme temporali latine dum ‛mentre – fino’ o nunc ‛adesso’. Di fatto, risulta poco frequente che una lingua usi indicazioni temporali totalmente
indipendenti e distinte dai dimostrativi [Anderson–Keenan 1985: 298]; la cosa più normale è che esistano chiare correlazioni fra indicazioni temporali e
dimostrativi, come illustrerebbero buoni esempi del guichi-muncano [Anderson & Keenan 1985: 298]. Più concretamente, secondo Leiss [2000: 250], alla
base della costruzione di una lingua con tempo indipendente sarebbero da
porre soprattutto le categorie morfologiche dell’articolo e dell’aspetto. Nondimeno, come si vedrà subito, alla base dell’articolo e anche dell’aspetto sta o
può stare nochmal il dimostrativo.
L’origine spaziale – cioè, locale – dell’idea di tempo verrebbe d’altra parte
ben suggerita in molte lingue da esempi, come quello del tauia, dove un buon
numero di nomi riferiti al tempo sono inerentemente locativi e non si presentano in altri casi [MacDonald 1990: 104]. Essi sono quindi comparabili agli
avverbi con significato temporale in lingue indoeuropee, per i quali è ancora
riconoscibile l’origine in un locativo fossilizzato; tale sarebbe probabilmente
ad esempio il caso del latino in diū noctūque ‛di giorno e di notte’. Il fatto è
che «Il tempo è un concetto astratto che spesso si struttura metaforicamente
in termini spaziali» [Diessel 1999a: 30] e, in conseguenza, «Rappresentare espressioni temporali in una dimensione spaziale fornisce storicamente una
comune fonte per quello sviluppo di marche temporali» [Diessel 1999a: 30].
Insomma, lo spazio è la nostra primaria metafora del tempo. Nella supposizione – è chiaro – che il tempo sia qualcosa più di una metafora…
19
Proteine morfologiche
Un’ulteriore e ammirabile caratteristica del dimostrativo è la sua muscolatura morfologica, cioè, il possesso – talora esclusivo, talaltra già come ultima
fortezza – di una categoria o caratteristica morfologica. Così, sebbene il malgascio non disponga altrimenti né di genere né di numero, esso presenta tali
distinzioni [Campbell 2000: 1041] nella serie dei dimostrativi. In tocario il
neutro è rimasto solo nel dimostrativo e nel singolare [Pobożniak 1986: 262].
Inoltre, sebbene il genere neutro, come in molte altre lingue romanze, sia sparito dallo spagnolo secoli fa, esso si mantiene, invece, e con buona salute, nel
singolare dei dimostrativi (esto, eso, aquello). In ungherese i dimostrativi sono
gli unici elementi che presentano concordanza in una proposizione nominale
[Abondolo 1998: 451]
Arriviamo così ad un’altra caratteristica importante del dimostrativo, probabilmente la più importante, giacché il dimostrativo è forse l’elemento morfologico con maggior capacità di trasformarsi in altri; il dimostrativo è un autentico Proteo della morfologia, forse l’elemento più polimorfologizzabile,
perché «i dimostrativi risultano storicamente fonte frequente per articoli definiti, relativi e pronomi della III persona, copule, connettivi proposizionali,
complementizzatori, marche di numero e molti altri elementi grammaticali»
[Diessel 1999a: 18]. Proseguendo la nostra illustrazione con una lingua ben
conosciuta e studiata come il latino, diremo che, tanto nello scorrere di questa
lingua, come nei suoi tortuosi e torbidi transiti alle lingue romanze, si può osservare la tendenza ad eliminare forme dimostrative o a riciclarle per altre funzioni, molte volte in direzione temporale. Pare così, ad esempio, evidente che
forme come il latino nam ‛poi’, nem-pe ‛certamente’, num ‛adesso – mai’ (cf.
nunc ‛adesso’), o anche tam ‛tanto’, tum ‛allora’ derivano da antiche radici dimostrative.
Come una delle prime tappe nel suo itinerario, il dimostrativo sta quasi
sempre all’origine dei pronomi forici, come nello spagnolo ello, lo (dal latino
illud o illum) e simili. V’era ormai poca distanza per arrivare così al pronome
di III persona (latino ille ‛quello’ e illa ‛quella’, spagnolo él e ella, francese il e
elle). Questo percorso lo troviamo in numerosissime lingue. In una lingua samoiedica come il camaiano, ad esempio, di vale sia ‛lui’ che ‛ella’ e anche
‛esso’ [Simoncsics 1998: 588]. Se non proprio l’identità, è [ancora] evidente
in molte lingue almeno il rapporto etimologico fra dimostrativo e III persona,
così come in tabasarano [Campbell 2000: 1583s], in ubiche [Campbell 2000:
1704] o in burusciaschio [Del Morale 2002: 109]. Inoltre, almeno nelle lingue indoeuropee, vi sono buoni argomenti – e come tali sono stati spesso illustrati – a proposito del rapporto tra dimostrativi e pronomi personali [Jordán
1993: 206s].
Molto spesso il dimostrativo diventa fonte di una categoria tanto utile come quella dell’articolo, innanzitutto dell’articolo definito; basterebbe qui citare gli esempi delle lingue germaniche o romanze (latino ille ‛quello’ e illa
20
‛quella’, spagnolo el e la, francese il e la ecc.). Se non proprio l’identità, è [ancora] evidente in molte lingue almeno il rapporto etimologico fra dimostrativo e articolo, come in tigrigno [Kogan 1997: 431] o in tibetano [Campbell
2000: 1643]. «Nell’origine dell’articolo il punto di partenza è sempre un elemento lessicale, nella regola generale un dimostrativo» [Leiss 2000: 231]; una
regola così generale che forse varrebbe la pena di riesaminare le poche eccezioni esistenti. Una di queste eccezioni è la presenza, in alcune lingue romanze, di articoli derivati da pronomi che si suppongono non dimostrativi in latino classico, così sa mare ‛la madre’ in maiorchino, dove sa deriverebbe da ipsa,
in latino classico ‛stessa’; in questo modo è possibile che ipsa abbia generato
l’articolo quando, sia in latino dialettale, sia in latino tardo, aveva non già il
valore di ‛stessa’ ma il valore dimostrativo di ‛essa’, com’è senz’altro evidente
in spagnolo (ipsa > esa ‛essa’). Il mutamento potrebbe essere stato inoltre auspicato dalla nota tendenza dei dimostrativi al rafforzamento (francese celui-ci,
latino ecce ille…) e come suggerisce il probabile parallelismo con lo svizzero-tedesco, dove selb ‛stesso’ ha finalmente assunto una funzione dittica, probabilmente partendo dal rafforzamento che per logoramento semantico, aveva
già un debilitato dimostrativo der in molti dialetti tedeschi [Diessel 1999b:
167 n53]. Come si sarà già capito, la questione del logoramento è – sia detto
incidentalmente – un’altra delle caratteristiche del dimostrativo; una caratteristica stavolta condivisa da altre categorie, perché probabilmente, alla base di
ogni morfologizzazione, vi è almeno una certa stanchezza semantica. Spesso ci
sono anche spostamenti in catena all’interno delle serie dimostrative, come
illustra bene il passaggio dal latino iste ‛quello qui’ a ‛questo’ in alcune lingue
romanze (spagnolo e portoghese este).
Inoltre il dimostrativo sta talvolta all’origine di numeri come il plurale
[Frajzyngier 1997: 193-242]: in samoano, ad esempio, la maggioranza dei
nomi vede marcata la sua pluralità grazie all’articolo [Campbell 2000: 1435],
elemento che – come si è già detto – rimanda regolarmente a un dimostrativo;
in occitano la pluralità nei nomi si marca nella pratica con i dimostrativi e gli
articoli [Campbell 2000: 1268]; in zapoteco i dimostrativi, che presentano il
numero grammaticale, possono esser impiegati per indicare il numero plurale
dei nomi, in quanto questi non dispongono della categoria di numero [Campbell 2000: 1802].
L’insostenibile leggerezza dell’‛essere’
La presenza del dimostrativo sta anche all’origine di certe marche di genere
e di classi nominali. Il dimostrativo è anche molto spesso fonte del verbo copulativo [Diessel 1999a: 33]. Abbiamo già altrove argomentato i motivi per
cui riteniamo che il medesimo processo poté avvenire anche nel complesso
linguistico indoeuropeo, cosicché in queste lingue il verbo ‛essere’ deriverebbe
in ultima analisi da un dimostrativo. Se la nostra ipotesi è corretta, linguisti-
21
camente ed etimologicamente, quindi, l’essere di Parmenide o di Heidegger
non sarebbe altro che un banale dimostrativo riciclato; in ogni caso, esso sarebbe sicuramente certo per un grande numero di lingue. Vediamo alcuni esempi.
In chilba, vi sono tre copule non verbali che hanno la stessa forma dei dimostrativi denominati identificativi nelle proposizioni nominali [Diessel
1999a: 36]. In geʼez la copula si esprime tramite pronomi indipendenti nel
presente e talvolta il pronome della III persona maschile singolare può funzionare come copula persino per le altre persone, entrambe non singolari e
non maschili [Gragg 1997: 260]. In tigré la copula ha la stessa forma dei pronomi personali indipendenti, tranne nella III persona, dove il prefisso həscompare, e appaiono tu, ta, tom e tan concordati in genere e numero [Campbell 2000: 1655]. In hararino il verbo copulativo ta [Wagner 1997: 507]
mostra una radice che risulta tipica per i pronomi dittici in numerosissime
lingue. In certi dialetti arabi, i pronomi della III persona funzionano frequentemente come copule ovvero conformano la loro base lessicale nel presente
[Kaye & Rosenhouse 1997: 303]. In ebraico moderno la rianalisi dei pronomi
della III persona come copule è il prodotto di uno sviluppo recente, ma
l’ebraico moderno non solo presenta copule derivate da pronomi personali,
bensì anche un complesso di copule non verbali, sviluppatesi dai dimostrativi,
i quali sono ancora impiegati come tali [Diessel 1999a: 34]. Le moderne lingue aramee orientali hanno una copula inflessa che si impiega con predicati
non verbali e deriva da pronomi personali parzialmente complementati con
una particella [Jastrow 1997: 372]. In ciagatai i pronomi personali possono
trovarsi nella forma cliticizzata, impiegati come suffissi della copula con senso
di presente, ma non si ha bisogno di nessuna copula per la III persona, in
quanto l’uso del pronome dimostrativo ol con valore copulativo fu del tutto
obsoleto nel periodo del turcico khuwarizmico [Boeschoten–Vandamme
1998: 171]. In patō la III persona del presente di ‛essere’ può derivare da un
antico dimostrativo *aita- [Skalmowski 1986: 188]. Possiamo ancora far rimontare ad antichi dimostrativi gli elementi copulativi per il presente in d- in
ossetico [Skalmowski 1986: 204] e -χ in ya nobī [Skalmowski 1986: 209]. In
quanto l’ainu presenta una radice anaforica, documentata in ene o nean, e una
radice interrogativo-indefinita, documentata in nekon[ka] o nep[ka] [Refsing
1986: 109], non si può escludere che in ainu la copula ne sia una forma cliticizzata del dimostrativo anaforico [Refsing 1986: 110]. In una proposizione
nominale, il senso esistenziale si esprime tramite l’articolo definito a in tolai
[Goddard 2001: 34]. In tasmanio il dimostrativo wa ‛questo’ si usò probabilmente anche come copula [Campbell 2000: 1618]. In maltese un dimostrativo seguito da un nome può avere valore di copula [Aquilina 1965: 97]. In polacco l’epidittico to è una specie di succedaneo colloquiale per ‛è’ in molte costruzioni. In guaranì gli equivalenti di ‛essere’, aime e aiko, usati in senso non
attribuivo, possono essere messi in rapporto con la radice dimostrativa di aipo[v]a ‛quello [non visto e sconosciuto]’.
22
A proposito di copule: anche il dimostrativo è talora all’origine di congiunzioni copulative. Così, per l’ambito indoeuropeo, vi è un certo accordo
sulla circostanza che *ia avrebbe generato le congiunzioni copulative per ‛e’
dell’ittito ya e del tocario kučeano (o occidentale) yo, e probabilmente anche
di i in slavo antico.
Cose di casi
Da un punto di vista archeoglottologico risulta, a nostro avviso, rilevante
anche la morfologizzazione – diretta o per mezzo dell’articolo – del dimostrativo in alcuni casi della flessione nominale. Vediamo alcuni esempi. In mon
antico le particelle deittiche marcavano il caso [Campbell 2000: 1144s]. La
desinenza del caso assolutivo definito in limbu, -ʔin, è identico all’articolo definito che è impiegato anche per formare la desinenza dell’ergativo definito
[Van Driem 1987: 34 e 39]. Anche in albanese l’antico dimostrativo *sa, accanto al pronome della III persona, produsse verosimilmente gli articoli [Bednarczuk 1986: 496] e questi propiziarono a loro volta una maggiore discriminazione nella flessione, in quanto nominativi e accusativi singolari indefiniti
non si distinguono, così come in mal ‛montagna’ (nominativo e accusativo),
ma si distinguono i definiti, così mali ‛la montagna’ (nominativo) e malin
‛[al]la montagna’ (accusativo). Il rumeno si comporta in modo simile
all’albanese per quanto riguarda l’articolo definito, così tren ‛[di/al] treno’, ma
trenul ‛il treno’ e trenului ‛del/al treno’; invece, nel caso dell’articolo indefinito
– che, a differenza del definito, non viene posposto – il rumeno è simile al tedesco o ad altre lingue, cosicché si ha prieten ‛amico’, ma un prieten ‛un amico’ e unui prieten ‛a/di un amico’. Già nel secolo XVII, grazie all’articolo enclitico, lo svedese poté distinguere casi quali il nominativo fisk-en ‛pesce’ e il
genitivo fisk-ens, ecc. [Szulc 1988: 760]. È ben conosciuto il fatto che in tedesco l’articolo è fondamentalmente la marca che indica i differenti casi della
flessione (nominativo der Mensch, accusativo den Mensch…). Ora,
l’anteposizione dell’articolo mette in difficoltà la sua eventuale assimilazione
funzionale a un caso della declinazione in complessi linguistici dove questa
marca è tradizionalmente desinenziale. In sede teorica, comunque, non si può
ignorare la possibilità che al meno gli articoli posposti – come anche gli avverbi, i dimostrativi, le posposizioni o i sostantivi – si trasformino diacronicamente in desinenze casuali; un fenomeno, quindi, che poté esistere nella
compagine indoeuropea.
Il dimostrativo può dunque, secondo Diessel [1999b: 155], trasformarsi
in: avverbi temporali, articoli definiti, articoli indefiniti, complement[izz]atori, connettivi proposizionali, coordinanti, copule verbali, determinativi adnominali, determinativi pronominali, espletivi, marche di casi,
marche di classi nominali, marche di focus, marche di genere, marche di numero, marche di confine (boundary markers) di proposizioni relative postno-
23
minali, possessivi, preverbi direzionali, pronomi di (almeno) III persona e relativi. Il dimostrativo è quindi un autentico coltello svizzero della lingua. Se
dobbiamo avere fiducia nella documentazione storica, nella finzione che se
qualcuno sbarcasse come naufrago in un’isola deserta e dovesse edificare ex
nihilo una morfologia, probabilmente niente gli sarebbe più utile che portar
con se una buona riserva di dimostrativi. In teoria, basandoci su analogie con
altre lingue, sarebbe possibile comporre una lingua con una ricca morfologia
utilizzando solo il lessico e i dimostrativi; naturalmente, se si avesse il tempo
sufficiente per permetterne la morfologizzazione tramite i soliti processi. Diessel [1999a: 19s] individua otto mutamenti (di tipo fonico, morfologico, sintattico e funzionale) come i più frequenti nella grammaticalizzazione (fondamentalmente: morfologizzazione) dei dimostrativi; di quegli otto, qui interessano specialmente i seguenti quattro: «spesso risultano obbligatori per formare
una determinata costruzione grammaticale […] possono aver perso la loro capacità per la flessione […] possono aver sperimentato un processo di riduzione fonologica […] possono essersi uniti ad altre forme libere».
Viaggio al centro della lingua
Ma come può avvenire che un elemento, in teoria così superfluo come il
dimostrativo, sia stato un elemento così importante? Come ormai si può dedurre, una possibile causa è di carattere esterno alla lingua e sarebbe radicata
nelle circostanze nelle quali insorse il parlare umano; circostanze che hanno
fatto del visualissimo dimostrativo un ottimo candidato per svolgere un ruolo
da protagonista nella fase aurorale e nello sviluppo successivo del parlare umano almeno durante più di 100.000 anni e forse persino durante qualche
milione di anni. Lo spazio – come abbiamo detto – dovette essere un tema di
capitale importanza nelle antiche culture paleolitiche di caccia e raccolta, come almeno verrebbe suggerito dall’analogia con le culture storicamente conosciute di cacciatori–raccoglitori. Il fatto che frequentemente nei dimostrativi
non vi sia distinzione fra umano e non umano, mentre, invece, tale distinzione è abituale negli interrogativi (per esempio: chi è quella donna? ma che è
quella cosa?), suggerisce che il referente generale dei dimostrativi non fosse un
essere umano. Invece esso si lascia individuare abbastanza bene nel contesto
delle attività proprie delle popolazioni storicamente conosciute di cacciatori;
gente che, Deo gratias, normalmente non si dedica[va] a cercar altri umani a
fini di degustazione.
Il dimostrativo poté quindi stare benissimo all’inizio o persino essere
l’inizio di tutto. I cacciatori primitivi dovevano disporre di un arsenale di
forme con significato dimostrativo sufficientemente ricco da poter adattarlo
ad altre funzioni e referenti secondo le necessità. Ma accanto a tutto ciò potevano anche esservi motivi di indole interna. V’è in primo luogo la questione
dell’associazione della epidissi, o pura dimostratività, alla morfologia. Essa an-
24
drebbe concepita come uno sviluppo forico dell’epidissi concreta e reale [Leiss
2000: 249], vale a dire un’epidissi astratta e figurata, riferita all’atto di parlare;
si tratterebbe di un’esperienza autoglottica, secondo la quale noi ci serviamo
della lingua non per indicare, come è usuale, un referente esterno alla propria
lingua (laguna, fiume, monte, pianura…), ma piuttosto come un grammatico,
per riferirci alla propria lingua (quella laguna [vicina] che dissi, questo fiume
[lontano] di cui ti sto parlando…). Così nozioni molto più astratte possono
considerarsi semplicemente epidissi secondarie, come notoriamente il tempo;
di fatto il tempo verbale è considerato da certi linguisti un tipo di epidissi
[Whaley 1997: 205]. E se, essenzialmente «tutte le categorie grammaticali
hanno funzioni epidittiche e referenziali» [Leiss 2000: 273], l’elemento epidittico, ancora una volta, deve essere quello antico, quello primigenio, quello ancestrale.
Restando nella cornice generale delle tante teorie (e argomentazioni) glottogoniche che indicano uno stretto legame tra il gesto e la parola, la gestualità
e la lingua, si deve accennare al fatto che probabilmente nessun’altra categoria
linguistica presenta così frequentemente una concomitanza gestuale maggiore
di quella presentata dai dimostrativi. Le lingue melanesiane sono solitamente
accompagnate da gesti abbastanza precisi e persino da fischi e, secondo Malherbe [1983: 263], anche l’espressione di direzione e di distanza si realizza
tanto tramite le parole, quanto con «movimenti di pupilla e avanzando le labbra nella direzione indicata».
Mentre il fenomeno di morfologizzazione si manifesta regolarmente, in
tanti casi, come un processo di riciclaggio del lessico, così, nel suo modello
più tipico, antichi nomi o verbi funzionarono, ad esempio, come congiunzioni, preposizioni ovvero persino come [altri] pronomi; nel caso dei dimostrativi
«non vi è prova […] che si sviluppino da una base lessicale o da un’altra base»
[Diessel 1999b: 150]. Tutto ciò suggerisce che i dimostrativi si generino da se
stessi. Quindi, lessicalmente parlando, nascono dal nulla.
Inoltre, mentre gli altri processi di morfologizzazione includono le abituali
trasferenze – più spesso metaforiche che metonimiche, come ha mostrato Moreno [1998] – in contesti definiti, la [meta]morfologizzazione dei dimostrativi
si basa, come già si è detto, nella più semplice trasferenza di contesto, cosicché
dal tipico uso esoforico e esterno al parlare [Diessel 1999b: 153] si passa
all’uso endoforico, cioè, come dicevamo, il dimostrativo diventa un tipo di
forico che non si riferisce a referenti esterni al parlare (quel luogo che visitammo) ma a referenti interni (quel luogo che ti dissi). E anche tale stato di cose
può essere ugualmente significativo: nei casi di concorrenza nella morfologizzazione, il dimostrativo sembra essere quello che regolarmente si guadagna la
parte del leone. Esempio ne sarebbe la concorrenza di dimostrativi e [restante]
lessico nella formazione di desinenze casuali. Abbiamo visto che i dimostrativi
si riservano generalmente per casi importanti quali l’assolutivo, il nominativo,
l’accusativo o il genitivo. Al contrario, per i casi periferici troviamo più spesso
come fonte [altro] e più variato lessico. Per esempio, i derivati dalla forma per
‛dare’ sono impiegati in molte lingue con funzione di dativo, così in acano
25
(maa Amma ‛per Amma’; Watters [2000: 221]), nel creolo portoghese di Santo Tomé (da mu ‛a me – me’; Moreno [2000: 72]) o in yae, lingua austronesiana (haɰ ku ‛a me – me’; Whaley [1997: 130]). In tamiḻ la ventina di postposizioni impiegate col locativo provengono dalla morfologizzazione di nomi
come ‛interiore’, ‛luogo’ o ‛prossimità’ [Lehmann 1998: 81]. Nelle parlate
mocse del mordvino il caso causativo è costruito partendo da un inksë ‛per
causa di’ [Zaicz 1998: 194]. Per i prefissi strumentali del gruppo numico si
sono ricostruite basi lessicali quali ‛mano’, ‛mente’ o ‛piede’ e per lo haida
‛barca’ [Mithun 2001: 123].
Un altro indizio indiretto dell’ancestralità dei dimostrativi sarebbe poi insito nella constatazione che essi sono fra gli elementi che vengono acquisiti
per primi nel processo di apprendimento naturale di una lingua [Diessel
1999b: 152].
La prova del nove
L’ancestralità dei dimostrativi può, dunque, venir consolidata da un gran
numero di argomenti e motivi, ai quali, per la sua importanza, si deve aggiungere quel che potrebbe denominarsi la prova del nove, un argomento empirico
e obiettivamente quantificabile come il testimone fonomorfologico. A questo
riguardo diremo in primo luogo che nelle lingue del mondo, i dimostrativi
presentano generalmente una chiara struttura di consonante – vocale (o una
struttura facilmente riducibile ad essa), e si sa bene che la sequenza consonante (C) – vocale (V) è la più comune nelle lingue del mondo e, per dimostrazione inversa, è l’unica accettabile, apparentemente, per tutte, poiché molte
lingue non permettono sequenze come VC, CCV o VCC. Vediamo alcuni
esempi illustrativi.
Nella maggioranza delle lingue africane CV è la sequenza sillabica favorita
e si preferisce persino realizzare le sequenze di nasale (N) con un’altra consonante come esplosive, cioè realizzare CVNCV come CV·NCV [Clements
2000: 140s]. In chisio molte regole di assimilazione nasale, epentesi e cancellazione consonantica o allungamento compensatorio, hanno come scopo quello di conformare le sequenze con la struttura sillabica CV [Childs 1995: 13],
essendo CV la configurazione sillabica basilare [Childs 1995: 62] e CVCV la
configurazione basilare delle ideofone [Childs 1995: 135]. Per simili motivi i
gruppi consonantici peregrini come CCV sono adattati in chisio come
CVCV, e così il francese drapeau ‛bandiera’ è copiato come dálápò [Childs
1995: 64]. In geʼez, tranne le solite eccezioni (come krəstos ‛Cristo’), tutto il
gruppo consonantico iniziale sviluppa una vocale epentetica (#CC => #CVC)
adattandosi così alla sequenza basilare; ciò avviene almeno in posizione iniziale, poiché in posizione finale la vocale si aggiunge dopo le due consonanti
(CC# => CCV#; Gragg [1997: 178s]). Anche per le lingue australiane è possibile ricostruire CV come struttura sillabica basilare [De Meo 1998: 197].
26
Non solo la struttura, ma anche la stessa sostanza fonica dalla quale solgono esser fatti i dimostrativi, suggerisce una grande antichità. Parlando ancora
del possibile carattere originario di queste forme, si noterà adesso che le forme
dimostrative non solo presentano solitamente quella comune sequenza di consonante – vocale, ma che in quelle solgono anche esser rappresentati gli elementi vocalici cardinali, tanto nella loro versione propriamente vocalica [a i u]
quanto in quella consonantizzata [h j w]; tutto ciò potrebbe significare una
conferma del loro carattere originario. Infatti molti dimostrativi non sembrano essere altra cosa che la combinazione di questi sei elementi basilari nella
regolare sequenza di consonante – vocale ([ha ja wa…]). Ma c’è ancora di più.
Qui, lì, là e aldilà
Più appariscente ancora può risultare un’altra contingenza fonologica propria dei dimostrativi. Il fatto è che essi «rappresentano una delle poche istanze
che manifestano un rapporto non arbitrario fra forma fonetica e significato»,
così Diessel [1999b: 151], il quale ci ricorda anche che vi è un «rapporto fra la
qualità della vocale e la distanza, cosicché la qualità vocalica della forma con
referente vicino è più acuta di quella della forma con referente lontano». Tale
sinestesia suggerisce evidentemente, per la sua maggiore vicinanza all’iconismo,
un carattere fonico primitivo per i dimostrativi. La cosa certa è che in numerose lingue pare esservi un contrasto sincronicamente sinestesico fra ciò che è
vicino e ciò che è lontano; in tal caso le vocali coronali e acute (Vi) si sogliono
associare all’elemento vicino, mentre le velari e compatte (Va) e le labiali e
gravi (Vu) si associano all’elemento lontano. Se manca l’elemento acuto (Vi), il
contrasto può verificarsi fra quello compatto (Va) per l’elemento vicino e quello grave (Vu) per l’elemento lontano. Non di rado le consonanti vengono utilizzate anche in queste sinestesie. Vediamo alcuni esempi.
Cominciando dall’Africa, ricorderemo che in hararino troviamo yi ‛questo’
e yaʼ ‛quello lì – quello là’ [Wagner 1997: 491]. Nelle lingue del gruppo silte
si presentano itta o iyii ‛questo’ e atta o ayii ‛quello lì – quello là’ [Gutt 1997:
515]. Nelle lingue sud-etiopiche esteriori abbiamo zəh o hə ‛questo’ e za o ha
‛quello lì – quello là’ [Hetzron 1997: 542].
Nel continente asiatico citeremo i ‛questo’ e a ‛quello lì’ in lezghiano [Hapelmath 1993: 190]. In baluči abbiamo ē e ī ‛questo’ [Elfenbein 1997: 767].
In canarese (o cannada) abbiamo intha ‛questo’ e antha ‛quello lì’ [Campbell
2000: 846], così come illa ‛qui’ e alla ‛lì’, īga ‛adesso’ e āga ‛allora’ [Diessel
1999a: 31]. In kashmiri v’è yih ‛questo’ e suh ‛quello [non visibile]’ [Campbell
2000: 865]. In yidinio v’è ayam ‛questo’ e iyam ‛questa’ [Bhat 2000: 370]. In
persiano moderno abbiamo in ‛questo/i’ e ān ‛quello/i lì’ [Campbell 2000:
1343]. In telugu idi ‛questo’ e adi ‛quello lì’ essendo i- una base per la referenza prossima e a- per quella distante [Campbell 2000: 1626]; così, ad esempio,
in ikkaḍa, ‛qui’ e akkaḍa ‛lì’ [Krishnamurti 1998: 212]. Le basi dimostrative
27
del tamil antico erano i- per la I, u- per la II e a- per la III deissi, così in ivare
‛questi’, uvare ‛quelli lì’ e avare ‛quelli là’ [Lehmann 1998: 82]. In colamio
troviamo ī ‛questo’ e ā ‛quello lì – quello là’ [Subrahmanyam 1998: 305]. In
modo molto simile in malto, un’altra lingua dravidica, troviamo la base ī- per
il vicino e ā- per il non vicino, così in īh ‛questo’ e āh ‛quello lì – quello là’
[Steever 1998: 367s]. In gadaba le radici dimostrative sono ī- per il vicino e āovvero ō- per il lontano [Bhaskararao 1998: 336]. In ainu abbiamo ta ‛questo’
e to ‛quello lì – quello là’ [Campbell 2000: 30] e taa ‛così – in questo modo’ e
too ‛in quel modo’ [Refsing 1986: 109].
Dell’Oceania citeremo il guichi–muncano (Wiki–Muncan), dove abbiamo
«tre radici dittiche, in- vicino, an- medio e nan- distante» [Diessel 1999a: 31].
In cambera troviamo elementi dittici quali ne ‛qui’, na ‛lì’ e nu ‛lì’ [Klamer
1998: 148]. In giavanese antico si utilizzavano iki ‛questo’, iku ‛quello lì’ e ika
‛quello là’ [Campbell 2000: 821]. Ormai in Nuova Guinea l’ambulas presenta
gli elementi dimostrativi kén per il vicino e wan per il distante [Diessel 1999a:
36]. Dal enghiyamba (Ngiyambaa) citeremo ŋilu ‛questo’ e ŋalu ‛quello lì –
quello là’ [Diessel 1999a: 8].
Anche per il protouralico è possibile proporre diversi gradi di deissi pronominale, dal momento che /t/ unita ad una vocale anteriore indicherebbe
prossimità, e /t/ unita ad una vocale posteriore indicherebbe lontananza
[Abondolo 1998: 25]; nella pratica, quindi, possiamo ricostruire modelli come *ti per il vicino, e *ta o *tu per il distante; così, per esempio, in mansio
abbiamo tiji ‛questo’ e ta[ji] ‛quello lì – quello là’ [Keresztes 1998: 413], in
khanto la base te- per il vicino e to- o tåå- per il lontano [Abondolo 1998:
369]. In ungherese vi sono ez ‛questo’ e az ‛quello lì – quello là’ e le serie dimostrative rappresentano in misura generale le previste sinestesie vocaliche,
così in így ‛così’ e úgy ‛di quel modo’ [Abondolo 1998: 444]. Nel luvio troviamo is ‛questo’ e apas ‛quello lì – quello là’ [Campbell 2000: 79]. In modo
significativo in spagnolo la probabile distinzione antica fra allí per il luogo ubi
lontano e allá per il luogo quo lontano si è riciclata nel parlare colloquiale in
due luoghi dove: allí per quello lontano e allá per quello molto lontano (per
esempio, más allá ‛al di là’, el más allá è di fatto ‛il mondo dei morti’), adattandosi così al generale modello di sinestesia vocalica.
Per quanto riguarda il continente americano citeremo il coluciano con ya
‛quello lì’ e yu ‛quello là’ [Campbell 2000: 1662]. In nahua troviamo iin come
indicatore di prossimità al riguardo dell’atto enunciativo e oon come indicatore di lontananza [Hernández 1997: 31]. In pipil vi sono ini ‛questo’ e uni
‛quello là’ oltre a yahini ‛questo’ e yahane, yahuni ‛quello là’ [Campbell 1985:
57]. Nelle serie determinate del dimostrativo del caribe tutte le forme sono di
vocalismo acuto per la referenza prossima e di vocalismo grave per quella distante, così īya ‛[verso] qui’ ma mōe ‛lì’ [Campbell 2000: 307].
Se si applica il rapporto epidittico a quello personale (quindi, alla fin fine,
i pronomi personali sono anche dimostrativi), risulta congruente anche il modello, che troviamo in lingue come il chisio, con i pronomi soggetto in singolare í per la I persona, à per la II e ò per la III [Childs 1995: 104]. Nel volof
28
del Senegal per la particella di classe (o articolo definito postposto) si impiega
il vocalismo -i per quello vicino e -a per quello remoto [Campbell 2000:
1766]. Anche nel verbo georgiano troviamo casi dove si utilizza Vi con referenza all’oggetto del verbo e Vu se l’oggetto è un referente lontano [Tovar
1997: 130]. Altresì per l’elemento *-i caratterizzatore di tanti presenti indoeuropei si accetta generalmente un valore epidittico di ‛qui – adesso’; secondo
Bomhard [1998: 33] l’elemento deriverebbe da un dimostrativo di prossimità
‛questo di qui’ di origine nostratico.
Insomma, le onomatopee comuni a tantissime lingue, che contengono le
sequenze di Vi – Va (tedesco Kling–Klang, Pif–Paf, spagnolo ñiqui–ñaca, plis–
plas, rifirrafe, tic–tac, tris–tras, zig–zag, zipi zape, inglese flip–flap), Vi – Vu
(spagnolo ping–pong, ding–dong) o Vi – Va – Vu (spagnolo pim–pam–pum)
possono essere motivate con motivi identici. Spesso i suoni forti o di strumenti grandi vengono associati a Vu (spagnolo tolón tolón per la campana) e i suoni deboli o di strumenti piccoli a Vi (spagnolo tilín tilín per la campanella).
Probabilmente è in questa piccolezza, in cui si trova l’uomo di fronte alla vastità di ciò che è sconosciuto, e dal quale proviene, che risiede la primeva associazione fra ciò che è: acuto – piccolo – vicino, e ciò che invece è: grave –
grande – lontano. Ma magari questo discorso ci porterebbe troppo lontano…
BIBLIOGRAFIA
Abondolo, Daniele ed. [1998], The Uralic Languages, London/ New York. Introduction, pp. 1-42. Khanty, pp. 358-386. Hungarian, pp. 428-456.
Anderson, Stephen R., Keenan, Edward L. [1985], Deixis, in T. Shopen ed., Language Typology and Syntactic Description, Cambridge, vol. II, pp. 259-308.
Bednarczuk, Leszek [1986-1988], Języki indoeuropejskie, voll. I e II, Varsavia. Indoeuropejskie języki Bałkanów, vol. I, pp. 469-513.
Bernárdez, Enrique [1999], ¿Qué son las lenguas?, Madrid.
Bhaskararao, Peri [1998], Gadaba, in Steever ed., pp. 328-355.
Bhat, D. N. S. [2000], The indefinite-interrogativa puzzle, in «Linguistic Typology» 4,
pp. 365-400.
Boeschoten, Hendrik [1998], Uzbek, in Johanson – Csató edd., pp. 357-378.
Bomhard, Allan R. [1998], Nostratic, Eurasiatic, and Indo-European, in Salmons, J.
C., Joseph, B. D., Nostratic. Sifting the Evidence, Amsterdam/Philadelphia, pp.
17-49.
Campbell, George L. [2000], Compendium of the World’s Languages, London/New
York, voll. I e II.
Campbell, Lyle [1985], The Pipil Language of El Salvador, Berlin/New
York/Amsterdam.
Childs, G. Tucker [1995], A Grammar of Kisi. A Southern Atlantic Language, Berlin/New York.
Clements, George N. [2000], Phonology, in Heine-Nurse eds., pp. 123-160.
De Meo, Anna [1998], Preistoria linguistica del continente australiano e relazioni esterne con lingue non-australiane, in «Α ΩΝ» 20, pp. 193-217.
Del Moral, Rafael [2002], Diccionario Espasa. Lenguas del Mundo, Madrid.
Diessel, Holger [1999a], The morphosyntax of demonstratives in synchrony and diachrony, in «Linguistic Typology» 3, pp. 1-49.
29
— [1999b], Demonstratives. Form, Function and Grammaticalization, Amsterdam/
Philadelphia.
Dixon, Robert M. W. [1997], The Rise and Fall of Languages, Cambridge.
Elfenbein, Josef [1997], Balochi Phonology, in Kaye, A. S., Daniels, P. T., eds., Phonologies of Asia and Africa, vol. II, pp. 761-776.
Frajzyngier, Zygmunt [1997], Grammaticalization of Number: From demonstratives to
nominal and verbal plural, in «Linguistic Typology» 1, pp. 193-242.
Goddard, Cliff [2001], Lexico-semantic universals: A critical overview, in «Linguistic
Typology» 5, pp. 1-65.
Gragg, Gene [1997], Geʼez (Ethiopic), in Hetzron ed., pp. 242-260.
Gutt, Ernst-August [1997], The Silte Group (East Gurage), in Hetzron ed., pp. 509534.
Haspelmath, Martin [1993], A Grammar of Lezgian, Berlin/New York.
Heine, B. – Nurse, D. edd. [2000], African Languages. An Introduction, Cambridge.
Helimski, Eugene [1998], Selkup, in Abondolo ed., pp. 548-579.
Hernández Sacristán [1997], Carlos, Introducción a la Lengua y Cultura Nahuas, Valencia.
Hetzron, Robert (ed.) [1997], The Semitic Languages, London/New York.
— [1997], Outer South Ethiopic, in Hetzron ed., pp. 535-549.
Jastrow, Otto [1997], The Neo–Aramaic Languages, in Hetzron ed., pp. 334-377.
Johanson, Lars – Csató, É. Á. edd. [1998], The Turkic Languages, London/New York.
Johanson, Lars [1998], The Structure of Turkic, in Johanson – Csató edd., pp. 30-66.
Jordán Cólera, Carlos [1993], Sobre el pronombre indoeuropeo de primera persona, «Veleia» 10, 199-209.
Kaye, Alan S. – Rosenhouse, Judith [1997], Arabic Dialects and Maltese, in Hetzron
ed., pp. 263-311.
Keresztes, László [1998], Mansi, in Abondolo ed., pp. 387-427.
Kirchner, Mark [1998], Kazakh and Karakalpak, in Johanson – Csató edd., pp. 318332.
Klamer, Marian [1998], A Grammar of Kambera, Berlin/New York.
Kogan, Leonid E. [1997], Tigrinya, in Hetzron ed., pp. 424-445.
Krishnamurti, Bh. [1998], Telugu, in Steever ed., pp. 202-240.
Lehmann, Thomas [1998], Old Tamil, in Steever ed., pp. 75-99.
Leiss, Elisabeth [2000], Artikel und Aspekt. Die grammatischen Muster von Definitheit,
Berlin/New York.
Lévi-Strauss, Claude [1997], El totemismo en la actualidad, trad. F. González, Bogotá.
MacDonald, Lorna [1990], A Grammar of Tauya, Berlin/New York.
Malherbe, Michel [1983], Les langages de l’humanité. Une encyclopédie des 3000 langues parlées dans le monde, Paris.
Mithun, Marianne [2001], The Languages of Native North America, Cambridge.
Moreno Cabrera, Juan Carlos [1990], Lenguas del Mundo, Madrid.
— [1998], On the relationships between grammaticalization and lexicalization, in A.
Giacalone Ramat – P. J. Hopper edd., The Limits of Grammaticalization, Amsterdam/Filadelfia 1998, 211-227.
— [2000], La Dignidad e Igualdad de las Lenguas. Crítica de la Discriminación Lingüística, Madrid.
Palmer, Gary B. [2000], Lingüística cultural, trad. E. Bernárdez, Madrid.
Perkins, Revere D. [2000], The view from hologeistic linguistics, «Linguistic Typology»
4-3, 350-353.
Piella Vila, Anna [2002], Parentiu a Jambun. Canvis i continuïtats en una comunitat
aborigen d’Austràlia, Bellaterra.
Pobożniak, Tadeusz [1986], Języki tocharskie, in Bednarczuk ed, I pp. 244-273.
Refsing, Kirsten [1986], The Ainu Language. The Morphology and Syntax of the Shizunai Dialect, Aarhus.
30
Silberbauer, George [1983], Cazadores del desierto. Cazadores y habitat en el desierto de
Kalahari, trad. L. Porta, Barcelona.
Simoncsics, Péter [1998], Kamassian, in Abondolo ed., pp. 580-601.
Skalmowski, Wojciech [1986], Języki irańskie i dardyjskie, in Bednarczuk ed., I pp.
161-244.
Steever Sanford, B. (ed.) [1998], The Dravidian Languages, London/New York.
— [1998], Malto, in Steever ed., pp. 359-387.
Subrahmanyam, P. S. [1998], Kolami, in Steever ed., pp. 301-327.
Szulc, Alexander [1988], Języki germańskie, in Bednarczuk ed., II, pp. 733-816.
Tovar, Antonio [1997], Estudios de Tipología Lingüística, Madrid.
Van Driem, George [1987], A Grammar of Limbu, Berlin/New York.
Wagner, Ewald [1997], Harari, in Hetzron ed., pp. 486-508.
Watters, John R. [2000], Syntax, in Heine – Nurse edd, pp. 194-230.
Whaley, Lindsay J. [1997], Introduction to Typology. The Unity and Diversity of Language, London/New Delhi 1997.
Zaicz, Gábor [1998], Mordva, in Abondolo ed., pp. 184-218.