i Diamanti
11
1
Ai miei genitori
[ISBN-978-88-7497-858-8]
© 2014, Edizioni Solfanelli
del Gruppo Editoriale Tabula Fati
66100 Chieti - Via Colonnetta n. 148
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Nicola Guerra
I VOLONTARI ITALIANI
NELLE WAFFEN-SS
Pensiero politico, formazione culturale
e motivazioni al volontariato
Una storia orale
Solfanelli
3
4
INTRODUZIONE
Sebbene il fenomeno dei volontari militari stranieri arrivi ai nostri giorni
attraversando le epoche, è rinvenibile infatti sin nell’Impero Romano e nell’esercito di Giulio Cesare1, ancora limitata è l’attenzione che gli studiosi hanno
dedicato ad esso, tanto che le storie di volontariato sono divenute spesso “storie
invisibili” e il ruolo che il fenomeno ha rivestito all’interno delle dinamiche
storiche reclama ancora attenzione2. Quand’anche si siano svolte ricerche sui
volontari di guerra, ci si è prevalentemente indirizzati nello studio delle operazioni militari trascurando due quesiti chiave per la comprensione di ogni
fenomeno di volontariato: chi furono i volontari e perché decisero di arruolarsi?
Il fenomeno del volontariato militare assume rilevanza numerica sempre
maggiore nel diciannovesimo e ventesimo secolo, nelle guerre antinapoleoniche,
nella prima guerra mondiale, nella guerra civile spagnola e nella seconda guerra
mondiale. Ed è in quest’ultimo contesto che si verifica il fenomeno del volontariato nelle Waffen-SS, che assume un importante rilievo all’interno delle più ampie
vicende del volontariato che attraversano le epoche. Si tratta, infatti, di un corpo
di cosiddetta élite del Terzo Reich che amalgamò volontari delle più eterogenee
nazionalità, etnie, culture e religioni.
Sebbene volontari stranieri abbiano militato in più branche dell’esercito tedesco, i volontari delle Waffen-SS furono numericamente superiori, rispetto a coloro
che servirono nella marina e nell’aeronautica, e maggiormente coinvolti nei combattimenti decisivi per le sorti del secondo conflitto mondiale3. Dato che nelle ultime fasi
del confitto le Waffen-SS risultano composte prevalentemente da soldati non
tedeschi4 e che i volontari italiani rappresentarono un fenomeno consistente di tale
volontariato5, si è ritenuto opportuno, relativamente al contributo italiano, comprendere quale pensiero politico animasse i volontari, perché aderirono alle WaffenSS e non ad altre forze armate fasciste, e quali dinamiche storiche, politiche, sociali,
personali e culturali li spinsero al volontariato.
Per rispondere a tali interrogativi non risultano appropriate le fonti d’archivio disponibili che contengono informazioni operative sullo spostamento delle
1
Webster 1979: 144; Goldsworthy 1996: 93; Le Bohec 2000: 37, 128; Cinquini 2009: XIV-XIX.
Kruger e Levsen 2010. Nel corpo del testo si adotta il formato “abc” per quanto concerne
le citazioni bibliografiche e quello «abc» per quanto concerne le citazioni che hanno valore di fonte
primaria.
3
Stein 1984: 215-216, 289; Butler 1979: 75; Estes 2003, Introduction - The Volunteer
Phenomenon: 1.
4
Stein 1984: 137; Jesi 1993: 79; Bishop 2005: 8; Lumsden 2006: 248.
5
La stima numerica della presenza italiana oscilla, a seconda degli studi, tra le 15.000 e le
23.000 unità (Lazzero 1982; Littlejohn 1987: 238; Landwehr 1987: 6; Corbatti e Nava 2001: 25;
de Lazzari 2002: 15-16; Ailsby 2004: 90; Bishop 2005: 157, 177; Chessa 2005: XVI) e si riferisce
talvolta alla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, composta da italiani, e altre a tutti i militi
italiani che servirono anche in altre divisioni.
2
5
truppe, le operazioni effettuate nel teatro di guerra, gli organigrammi, ma che
non forniscono documentazione sul pensiero e il vissuto politico, il retroterra
culturale, l’ambiente famigliare, e tutta quella sfera del sentire e delle passioni
individuali dei volontari che sfuggono alla reportistica militare. Informazioni che
possono essere rintracciate soltanto o nelle lettere ai famigliari e nei diari privati
dell’epoca, che non si rinvengono presso gli archivi pubblici e sono andati sovente
perduti, o nelle memorie degli stessi volontari sopravvissuti. È per questo motivo
che la presente ricerca si avvale prevalentemente dell’intervista ai volontari
come fonte, integrata dal reperimento e dall’analisi della memorialistica edita e
soprattutto inedita.
Si potrebbe obiettare che sono trascorsi molti anni dalle esperienze di
volontariato maturate e che ciò possa rappresentare una barriera al ricordo o una
occasione di rielaborazione sociale del vissuto; ma è bene tener presente come,
sebbene alcuni di questi rischi possano essere reali, essi siano gestibili a livello
di reperimento e analisi delle informazioni6 e il momento storico attuale rappresenta quello più adatto per la realizzazione della ricerca.
Le memorie di guerra più si allontanano dagli eventi stessi, più si liberano
da polemiche e tendenziosità politiche legate alle circostanze7. L’età avanzata, si
tratta di persone la cui età è sempre maggiore di ottanta anni, rappresenta un
aspetto favorevole perché ad essa si abbina il desiderio di lasciare memoria di sé
prima della morte, una memoria sinora mai raccolta. È stato complesso individuare i volontari italiani nelle Waffen-SS, ma ancor più ottenere la loro fiducia
e raccoglierne le memorie. Ciò per la paura da questi avvertita e dichiarata di
essere discriminati nella vita sociale e sottoposti a procedimenti penali come
quelli recenti a carico di soldati tedeschi nei tribunali italiani8. Solo l’età
avanzata e l’ultima possibilità di tramandare il proprio vissuto si è rivelata utile
a vincere queste barriere, rendendo possibile l’accesso alle fonti indispensabili
per le finalità di questo studio.
Alla possibile obiezione che le memorie dei volontari potrebbero essere
soggette ad una rielaborazione filtrata dalle esperienze successive al volontariato è importante contrapporre una rilevante peculiarità italiana: non esiste in
Italia alcuna associazione che rappresenti o riunisca i volontari nelle Waffen-SS9
e, dunque, non sussiste un condizionamento che porti alla costruzione di una
verità comune. Le testimonianze italiane mantengono forte valenza personale.
Una rilevante problematica che viene a cadere è, dunque, quella avvertita in
alcuni studi internazionali sui volontari nelle Waffen-SS che consiste proprio nel
6
Relativamente alla raccolta di memorie di guerra e inerenti eventi temporalmente distanti
sono interessanti, tra gli altri, i seguenti contributi: Mauer 1975; Engelmann 1990; Brinker 1992
e 1997; Bertaux e Thompson 1993; Hess 1993; Bates 1996; Zinn 2010; AA.VV. 2004; Roberts 2004;
Lofgren 2006.
7
Estes 2003, Chapter 1 - The Volunteer Phenomenon: 2.
8
Sui processi e sulla situazione di processualizzazione della storia presente in Italia e l’eco
mediatica di essa: Maurizio 1997; Franzinelli 2002; Priebke 2003; Carioti 2007; Tortora 2009; Sansa
2010; Atti del processo per l’eccidio di Sant’Anna di Stazzema (http://www.santannadistazzema.org/
sezioni/LA%20MEMORIA/elenco_pagine.asp?Sez_ID=75&Box_ID=1184).
9
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini che dichiara: «Alla fine della
guerra, tutti nella RSI hanno potuto creare associazioni di combattenti, anche le GNR [Guardia
Nazionale Repubblicana], che in Italia erano un reparto altamente politicizzato e di fascisti
sfegatati, ma le SS non hanno potuto, era troppo pericoloso».
6
fatto che questi passassero parte del proprio tempo nelle associazioni di veterani,
responsabili della creazione di un clima nostalgico e di una verità collettiva che
rende difficile considerare le memorie come rappresentative dei pensieri soggettivi10. Un aspetto che agevola la spontaneità e la libertà delle memorie raccolte
è rappresentato dal fatto di trovarci ormai lontani dalla guerra fredda, che
avrebbe potuto costituire un forte condizionamento nel senso di una memoria
sovraccaricata di riferimenti anticomunisti e filo-occidentali11, strumentali a
rendere maggiormente accettabile agli occhi di una parte dell’opinione pubblica,
quella anticomunista, l’esperienza militare vissuta12. La lontananza dagli eventi
bellici e dalla guerra fredda, unita all’assenza di un associazionismo italiano,
garantiscono, dunque, memorie più libere e retrospettive.
All’interno dei numerosi limiti della storiografia italiana sui volontari nelle
Waffen-SS, che saranno esaminati più avanti in dettaglio, è importante fare
chiarezza sin da ora su uno di essi che risulta determinante per delineare e
delimitare gli obiettivi dello studio. Non è presente ad oggi in letteratura una
definizione di volontario italiano nelle Waffen-SS.
Nella presente ricerca si considera volontario un soggetto che, in base ad un
processo decisionale personale e libero, cioè in assenza di elementi di coscrizione,
abbia deciso di arruolarsi in una delle divisioni delle Waffen-SS o, dovendo
prestare servizio militare, abbia scelto questa preferendola ad altre formazioni
e alla diserzione o militanza nelle truppe partigiane. Poiché la durata dell’esperienza italiana nelle Waffen-SS è, per ragioni oggettive, temporalmente contenuta, dato che il fenomeno del volontariato riguarda principalmente il periodo che
10
Estes 2003, Chapter 6 - The Character of Military Collaboration: 2.
In Italia, nel secondo dopoguerra, le campagne elettorali furono giocate sulla mobilitazione
dei militanti dei grandi partiti di massa di ispirazione cattolica (Democrazia Cristiana) e
comunista (Partito Comunista Italiano) sin dalle prime elezioni, quelle del 2 giugno del 1946 per
la scelta tra sistema monarchico e repubblicano e quelle del 1948 per l’elezione del primo
parlamento. Per tutto il dopoguerra vi fu una accesissima propaganda ideologica incentrata sulla
radicale contrapposizione tra i distinti universi culturali che la guerra fredda rifletteva. Nella
forte ideologizzazione del discorso politico pesarono sia l’antifascismo resistenziale sia, da parte
cattolica, un pervasivo anticomunismo (Ballini e Ridolfi 2002: 84). Non meraviglia che già nel
maggio 1945, se non da prima della fine delle ostilità, James Jesus Angleton, il numero due
dell’OSS (Office of Strategic Service, divenuto poi CIA), potesse aver contattato per corpi militari
e organizzazioni anticomuniste alcuni fascisti di sicura fede e/o accesi nazionalisti che gli Stati
Uniti avevano combattuto fino a pochi giorni prima (Cavalleri 2006: 84). In Italia, inoltre, oltre
alle organizzazioni militari legate alla NATO (North Atlantic Treaty Organization) ed agli Stati
Uniti, come Gladio, era presente anche un convinto anticomunismo a livello culturale, che in
alcuni casi faceva riferimento anche ad ambienti progressisti e di sinistra. È il caso dell’Associazione italiana per la libertà della cultura, istituita da Ignazio Silone negli ultimi mesi del 1951,
che divenne il centro di una federazione di circa cento gruppi culturali indipendenti, ai quali
l’associazione forniva conferenzieri, libri libelli, film. L’associazione si dotò anche di una testata,
Tempo Presente, diretta da Silone e Chiaromonte che ne furono anche i proprietari (Saunders
2004: 51, 94, 386).
12
Fu proprio Karl Wolff, Governatore Militare e Comandante supremo delle SS e della
Polizia nel nord d’Italia, che durante alcuni procedimenti penali, in accordo con il clima politico
della guerra fredda, si presentò come un antibolscevico che si arruolò nelle SS per quel motivo,
arrendendosi in Italia agli angloamericani per la stessa ragione (Himmler 2008: 294-295). Gli
anni della guerra fredda condizionarono la rappresentazione dei volontari nelle Waffen-SS, con
un forte riferimento all’anticomunismo e alla qualifica del corpo come baluardo contro l’Unione
Sovietica (Large 1987; Mackenzie 1997: 141; Goldsworthy 2007: 55-56).
11
7
va dall’8 settembre 1943 al termine del conflitto, il presente studio considera
come determinante l’effettivo arruolamento nel corpo e non soltanto l’aver
sottoposto domanda per esso. Gli obiettivi sopracitati, ossia la determinazione di
fattori sociali, politici, storici, economici, ideologici, famigliari e socioculturali che
caratterizzano i volontari italiani nelle Waffen-SS, si riferiscono pertanto a
soggetti che effettivamente militarono in quel corpo13 e non a coloro che, pur
presentando domanda, non fecero in tempo a vestire l’uniforme.
Non sono stati ovviamente considerati eleggibili ad essere intervistati coloro
che militarono nelle forze armate della RSI, dato che essi, pur collaborando con
le autorità tedesche presenti in loco e talvolta con le stesse Waffen-SS, non
appartennero al corpo oggetto della ricerca. Un errore di attribuzione questo che
è frequente in studi precedentemente realizzati sul fenomeno del volontariato
italiano nelle Waffen-SS14.
Le testimonianze raccolte sono state analizzate in modo critico e collocate nel
contesto storico e culturale dell’epoca antecedente e contemporanea all’esperienza di volontariato. Lo studio e la comprensione del pensiero politico, del vissuto
culturale e della valenza attribuita agli accadimenti storici dagli intervistati,
oltre a essere determinante per comprendere le motivazioni all’arruolamento
nelle Waffen-SS, può, infatti, aiutare anche ad una migliore comprensione delle
dinamiche ideologiche dell’ultimo fascismo e dell’Italia negli anni finali della
guerra. Ma alcune implicazioni del pensiero e del vissuto dei volontari italiani
hanno valenza che va oltre la sola Italia.
Una delle più discusse tematiche relativamente al fenomeno militare e
politico delle Waffen-SS è rappresentata dall’interrogativo, ancora aperto, se
esse fossero un esercito europeo o semplicemente di europei o internazionale15. La
prospettiva dei volontari italiani, sebbene circoscritta a questa esperienza e non
estendibile in automatico a volontari di altra nazionalità, può certamente offrire
un contributo alla chiarificazione dell’eventuale presenza di un sentire europeista all’interno delle Waffen-SS.
13
Non vengono considerati come volontari coloro che, pur vestendo l’uniforme delle WaffenSS, lo fecero a seguito di una decisione presa, mentre erano prigionieri in Germania, col solo
intento di cercare la fuga una volta lasciato il campo di prigionia. È il caso di Riccardo Menchicchi,
caduto sul fronte di Nettuno, del quale il figlio Luciano, in una intervista del 11 giugno 2008 ha
così ricostruito le vicende: «Mio padre era una Camicia Nera ed era partito prima per l’Africa con
l’obiettivo di cercare un lavoro e poi aveva combattuto in Albania. Dopo l’8 settembre fu fatto
prigioniero dai tedeschi, proprio in Albania, e portato in Germania. Dopo le decisioni di Mussolini
di fondare la RSI ed il suo esercito, gli fu chiesto se voleva aderire all’esercito come volontario o
restare nel campo di prigionia. Dal campo sarebbe stato difficile fuggire, in un paese straniero
e senza conoscere la lingua ed allora decise di aderire alla RSI, con la speranza di tornare in Italia.
Effettivamente fu inviato in Italia e tornato raccontava a mia mamma che era impossibile fuggire
perché sarebbero stati fucilati. Erano un gruppo di amici, ma se non si fossero presentati al
comando dopo le licenze li avrebbero condannati a morte per diserzione. Raccontò a mia mamma
anche di aver provato a fuggire ma, subito scoperti, li avevano rimandati al fronte. Lui voleva
fuggire, ma dovette andare al fronte. Decise però che sarebbe comunque fuggito alla prima licenza
e lo comunicò a mia mamma. Purtroppo poco prima della licenza, un altro soldato del suo gruppo
si ferì ad un piede e lui dovette sostituirlo e restare al fronte invece che rientrare in licenza.
Durante la missione morì, era il 9 aprile ed io ero nato a gennaio. Purtroppo è questo che mi è
toccato in eredità dalla guerra».
14
Lazzero 1982; de Lazzari 2002; Caniatti 2010.
15
Stein 1984: 147-148; Wieland 2001: 32.
8
1
INQUADRAMENTO STORICO E STORIOGRAFICO
Le Waffen-SS italiane negli studi internazionali
Se diversi studi sono stati realizzati sulle Waffen-SS, essi si muovono
prevalentemente all’interno di ricostruzioni del fenomeno che, pur prendendo in
considerazione il contributo dei volontari non tedeschi, si concentrano sulla
Germania nazionalsocialista. Anche quando viene posta particolare attenzione
al contributo dei volontari non tedeschi, ciò avviene con ricostruzioni che si
concentrano soprattutto sulla storia militare e politica tedesca16.
L’unico studio interamente dedicato al fenomeno dei volontari europei è stato
per molti anni il lavoro, denso di toni apologetici, di Felix Steiner del 1958, nel
quale l’ex Waffen-SS, basandosi su note e ricordi personali, enfatizza il ruolo delle
Waffen-SS come esercito antibolscevico europeo precursore della NATO17. Un
altro interessante studio, che offre un quadro sul collaborazionismo filonazista
in Europa, è The Patriotic Traitors, di David Littlejohn (1972), che riunendo le
fonti secondarie disponibili traccia la storia dei volontari militari, non solo delle
Waffen-SS ma anche nelle varie milizie nazionali che si schierarono col Terzo
Reich18.
Altri studi sono stati condotti sulle Waffen-SS e i volontari stranieri dopo che
Stein nella sua importante ricerca del 1966, ricostruendo in dettaglio lo sviluppo
del corpo, lamentava come “nessun serio studio fosse stato condotto sulla
16
Butler 1979; Stein 1984; Wegner 1988; Ailsby 2004; Ripley 2004; Bishop 2005; Lumsden
2006; Goldsworthy 2007; Duprat 2009.
17
Steiner 1958. Felix Steiner partecipò alla creazione della 5ª SS-Panzer-Division Wiking
delle Waffen-SS che comandò sul fronte dell’Est dal 1941 al 1943. Ebbe particolare successo nel
plasmare in un corpo unitario soldati olandesi, danesi, norvegesi, finlandesi e svedesi (Hillblad
e Wallin 2004). Come fatto presente gli anni della guerra fredda ebbero un alto impatto sulla
descrizione che dei volontari nelle Waffen-SS venne fatta, con un costante riferimento all’anticomunismo e alla qualifica del corpo come baluardo contro l’Unione Sovietica. Gli apologeti delle
Waffen-SS, nel dopoguerra, sollevavano l’argomento che esse furono un esercito europeo che si
oppose al comunismo: più che realmente nazisti i volontari venivano presentati come antibolscevichi (Goldsworthy 2007: 55-56). Se certamente la battaglia contro il bolscevismo viene adoperata
da Steiner, all’interno dello scenario della guerra fredda, come strumento di legittimazione storica
e politica dei volontari nelle Waffen-SS, egli, protagonista della costituzione di diverse divisioni
di volontari, opera una riabilitazione dei suoi uomini anche rifacendosi alla tradizione del
volontariato durante le guerre di liberazione, come nel caso dei volontari che seguirono Byron nella
guerra di Indipendenza greca e all’interno di un quadro di valori nel quale il volontario in guerra
è colui che tenta di rompere le catene della società e, come aveva cantato lo stesso Friedrich
Schiller, incarna l’uomo libero per eccellenza perché capace di guardare negli occhi la morte (Mosse
1991: 207-211).
18
Littlejohn 1972.
9
mobilitazione di forze non tedesche per l’esercito tedesco”19, ma anche questi
fanno prevalente ricorso a fonti secondarie e hanno il carattere della raccolta di
fonti bibliografiche20. Soltanto recentemente sono stati condotti studi nazionali
che pongono effettiva e prevalente attenzione al fenomeno di volontariato nelle
Waffen-SS da differenti Paesi, investigando le caratteristiche che tale apporto
ebbe non solo rispetto alla realtà militare e politica tedesca, ma anche e
soprattutto nel quadro culturale e politico dei paesi di provenienza21. Già nel 1948
van Hosel aveva pubblicato uno studio su 450 giovani olandesi che furono
arrestati per collaborazionismo con i tedeschi, la maggior parte dei quali militò
nelle Waffen-SS, con interviste ai volontari stessi e ad amici e famigliari, col fine
di comprendere le motivazioni alla base della scelta di volontariato22.
Questa strada della ricerca, che mira a cogliere dal narrato dei protagonisti
informazioni che, risiedendo nella sfera delle visioni politiche, dei sentimenti,
delle passioni, del retroterra culturale e famigliare e dei tratti della personalità
individuale, difficilmente si possono trovare negli archivi di Stato, non è stata
però perseguita come ci si sarebbe potuti aspettare23.
Essendo il fenomeno dei volontari non tedeschi nelle Waffen-SS caratterizzato da una dimensione fortemente internazionale, gli studi affrontano solitamente in modo parziale il caso dei volontari italiani all’interno del quadro
generale ed insieme a volontari di altre nazionalità. Se si esclude lo studio di
Landwehr, dedicato interamente agli italiani della 24ª Waffen-GebirgsKarstjäger-Division der SS e della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS
(italienische Nr. 1)24, che offre una ricostruzione priva di indicazione delle fonti,
concentrata sulle operazioni militari e puntellata di toni apologetici, gli studi
internazionali trattano solitamente i volontari di nazionalità italiana all’interno
di panoramiche che coinvolgono quelli di altri Paesi e senza dedicarvi specifica
attenzione25.
Nascita, sviluppo e internazionalizzazione delle Waffen-SS
La presente ricerca si concentra in modo esclusivo sul volontariato italiano
nelle Waffen-SS, un fenomeno che deve però essere inquadrato nella realtà
storico-politica nazionale, europea ed internazionale per comprenderne appieno
le dinamiche e il ruolo, e che richiede pertanto una analisi del processo di
internazionalizzazione che caratterizzò le Waffen-SS con particolare attenzione
alle dinamiche culturali e politiche coinvolte. Così facendo si sarà poi effettivamente in grado di valutare e inquadrare eventuali componenti europeiste o
19
Stein 1984: 137.
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 1.
21
Núñez Seixas 2005, 2006, 2008, 2010; Jokipii 1996 e 2002; Pierik 2002, Leleu 2007.
22
van Hosel 1948.
23
Iglesias Rogers 2007: 1; Kruger e Levsen 2010.
24
Landwehr 1987.
25
Pagine specificatamente dedicate ai volontari italiani si trovano in alcuni studi che
analizzano il fenomeno sotto la prospettiva del contributo offerto alle Waffen-SS dalle diverse
nazioni (Littlejohn 1987: 23; Ailsby 2004: 77-95; Bishop 2005: 42-46, 149 e 156).
20
10
internazionaliste dei volontari italiani all’interno del fenomeno complessivo delle
Waffen-SS.
Secondo il pensiero di Heinrich Himmler ogni rivoluzione deve controllare
l’esercito e infondere nei soldati il suo spirito, e soltanto nel momento in cui ciò
avviene, la rivoluzione trionfa realmente. Soltanto sostituendo le forze armate
convenzionali con un ordine militare rivoluzionario superiore e ideologicamente
preparato si ha il completamento della rivoluzione26. Ma non essendo possibile
per il Reichsführer-SS rimuovere i vecchi ufficiali e fare della Wehrmacht un
esercito in linea con le sue aspettative rivoluzionarie, decide, come alternativa,
di creare le Waffen-SS, una forza armata che incarni le visioni che il nazionalsocialismo avrebbe dovuto, a suo avviso, introdurre nella Wehrmacht 27.
Il nome delle Waffen-SS diviene ufficiale, come quarta branca della Wehrmacht, nel marzo del 194028, sebbene di uso comune già alla fine del 193929, e
queste truppe non godono da subito dell’appoggio di Hitler, che vuole restare
estraneo allo scontro tra Himmler e i generali sul futuro delle SS armate30. Hitler
guarda alle Waffen-SS come una futura polizia di Stato militarizzata,
26
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 3. Quello di Himmler è un ordine
militare di soldati politici che può ricordare per certi aspetti quello descritto da Jünger (2007: 23)
come presente presso i Mauretani che esigevano che «la forza fosse usata senza passione alcuna
e al modo degli dèi e secondo questa esigenza le loro scuole educavano una razza di spiriti chiari,
liberi e sempre tremendi», perché «quando l’uomo perde l’equilibrio, lo spavento s’insinua in lui
e lo domina, ed egli si abbandona cieco al vortice; ma presso i Mauretani regnava la quiete intatta
che persiste nel centro del ciclone». Se il personaggio chiave del romanzo di Jünger, il Forestaro,
è stato ricondotto alla figura di Hitler (Galli 2007: 179, 181), se il narratore del romanzo e il
fratello Ottone rappresentano Jünger stesso e il fratello (Galli 2007: 177) e se Braquemart
potrebbe incarnare Himmler, con la pastiglia al veleno e con l’offerta di salvezza al narratore del
romanzo e al fratello Ottone presso la mitica Burgundia - Himmler voleva fare della Borgogna
lo Stato delle SS (Galli 2007: 177) -, ciò che ancor più interessa, relativamente al presente studio,
è che Carl Schmitt non esita ad asserire che i Mauretani rappresentano una allegoria delle SS
(Giglio 1995). Per meglio comprendere la descrizione di Jünger è utile tener presente che
nell’interpretazione dello swastika, simbolo della rivoluzione nazionalsocialista, è importante
porre attenzione al centro della croce, il punto fisso che tutte le tradizioni sono concordi a
designare simbolicamente come il Polo, perché è attorno ad esso che si effettua la rotazione del
mondo, rappresentata generalmente dalla ruota, sia presso i Celti sia presso i caldei e gli Indù.
Il centro, il punto fisso, è il Chakravarti o monarca universale: letteralmente è colui che fa girare
la ruota, colui cioè che, posto al centro di tutte le cose, ne dirige il movimento senza parteciparvi
egli stesso, o che secondo l’espressione di Aristotele, ne è motore immobile (Guénon 1997: 22-23).
Se molti studi hanno voluto vedere nello swastika un segno quasi esclusivamente solare, René
Guénon (1990: 63) fa notare come esso sia principalmente simbolo di movimento, ma non di un
movimento qualunque, bensì di un movimento di rotazione che si compie attorno ad un centro
immobile che è l’elemento essenziale del simbolo: punto fisso che rappresenta il Principio,
l’Essere puro che empie del suo irradiamento lo spazio che non esiste se non per questo suo
irradiamento senza il quale detto spazio, il Mondo, non sarebbe che privazione e nulla. Anche
Julius Evola si sofferma sulla necessità di un esercito di guerrieri e non di militari o di soldati,
dove guerriero significa cosa diversa perché assume un significato spirituale che consentirebbe
di aprire gli orizzonti all’Impero che «non è dato dal mero fatto di dominio, ma solo quando questo
dominio si attua sullo sfondo di una visione eroico-guerriera dello spirito» (Evola 1930).
27
Stein 1984: 17.
28
Stein 1984: 48-49.
29
Ripley 2004: 51.
30
Stein 1984: 18, 31 e 128-129.
11
Staatstruppen-Polizei, capace di rappresentare e imporre l’autorità del Reich in
qualsiasi situazione e ne limita la dimensione a non più del 5-10% degli effettivi
dell’esercito in tempo di pace31. Hitler resta ancorato al fatto che le SS nacquero
come forza speciale di sicurezza del partito nazionalsocialista per proteggere la
sua persona e altri leader del movimento, nonostante funzioni quasi militari le
fossero state attribuite durante il loro sviluppo in Verfügungstruppen, forze di
sostegno al combattimento, con la creazione di quattro reggimenti motorizzati
nel 193832, che combatterono nelle prime campagne del Blitzkrieg. Nonostante
ciò i responsabili del reclutamento delle Waffen-SS cercano di aggirare spesso
queste limitazioni di organico per arruolare il maggior numero possibile di
volontari33. La situazione delle Waffen-SS è però difficile; inizialmente armate
con materiale di scarto34, restano in questa condizione fin quando, nel 194235, con
il supporto di Albert Speer36 diviene possibile ottenere i fondi per un programma
di armamento indipendente37. Hitler si lamenterà, però, spesso del fatto che armi
ed equipaggiamento militare vengano allocati ad unità straniere di SS a spese
di unità germaniche38.
Sebbene le Waffen-SS si dotino, sotto la guida di Gottlob Berger39, di una rete
di centri di arruolamento geograficamente parallela a quella dell’esercito, la
situazione resta problematica per le limitazioni imposte da Hitler40 che cadranno
parzialmente nel 1943 e definitivamente soltanto dopo l’attentato del 20 Luglio
194441. Berger e Himmler intraprendono e sviluppano il reclutamento di volon31
32
33
Stein 1984: 99-100.
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 3.
Klietmann 1965: 501; Fletcher 1970: 533-544; Rich 1974: 23-35 e 166; Wegner 1980:101-
103.
34
Stein 1984: 51. Il fatto, spesso citato, che vorrebbe un miglior equipaggiamento militare
in dotazione alle Waffen-SS rispetto all’esercito è reale soltanto per quanto concerne gli ultimi
anni della guerra (Mackenzie 1997: 152).
35
Il 1942 è un anno importante nello sviluppo delle Waffen-SS perché Hitler diviene
sospettoso nei confronti dell’alto comando dell’esercito dopo che esso disobbedisce ai suoi ordini
di non ritirarsi da Mosca nel dicembre del 1941 e aumenta il credito militare riconosciuto ad
Himmler. Proprio nel 1942, oltre all’autorizzazione di una seppur contenuta espansione, viene
concessa l’opportunità di impegnare le Waffen-SS anche nella guerra antipartigiana nell’Est e
nei Balcani (Ripley 2004: 83).
36
Oltre al suo assenso al programma di armamento, nell’aprile del 1943 Albert Speer, come
ministro del lavoro, concede la sua approvazione al reclutamento di volontari dalle fabbriche del
Terzo Reich che Berger subito intraprende. Ad agosto i reclutati saranno 8.105 dei quali solo 3.154
provati adatti al compito (Estes 2003, Chapter 4 - Transformation in 1943: 2).
37
Stein 1984: 55.
38
Ripley 2004: 90.
39
Gottlob Berger (16 luglio 1896 - 5 gennaio 1975) raggiunse il grado di Obergruppenführer
durante la seconda guerra mondiale, incarcerato per crimini di guerra, fu il più importante
collaboratore del Reichsführer-SS Heinrich Himmler per il reclutamento nelle Waffen-SS. Le
grandi capacità organizzative di Gottlob Berger furono dedicate continuamente all’espansione
delle Waffen-SS. Berger ideò ogni modo e strumento per superare i limiti imposti dall’OKW
(Oberkommando der Wehrmacht - Alto comando delle forze armate tedesche) (Fleming 2003: 12).
Dal 1940 si dedicò principalmente all’allargamento delle Waffen-SS e alla loro internazionalizzazione.
40
Stein 1984: 36-37.
41
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 4. Dopo l’attentato a Hitler prende
maggior forza il piano di Himmler di ricostruire il comando supremo dell’esercito basandosi sulla
leadership delle SS, fatto che sarebbe dovuto divenire compiuto dopo la guerra (Payne 1996: 373).
12
tari nei Paesi stranieri prima di ottenere l’approvazione di Hitler42, che aveva
acconsentito soltanto un moderato incremento all’organico delle Waffen-SS
durante il 194043.
È importante notare che già nel 1938, oltre ai volontari etnicamente tedeschi
da tempo accettati nelle SS, vengono arruolati volontari nordici non tedeschi44 e
nel maggio del 1940 risultano presenti cento volontari non tedeschi dei quali
cinque statunitensi, tre svedesi e quarantaquattro svizzeri, che servono senza
alcun problema imputabile alla loro nazionalità in divisioni regolari45, nonostante l’approvazione di Hitler all’arruolamento di volontari dai Paesi occupati arrivi
a fine giugno del 194146. Già dopo il 1940 i regolamenti razziali divennero in certa
misura lettera morta47.
La grande espansione delle Waffen-SS prende corpo negli ultimi due anni di
guerra, segnando la trasformazione definitiva di quello che inizialmente fu un
piccolo gruppo di guardie del corpo del Führer in un’armata internazionale48,
quando questi soldati dimostrano il loro valore riconquistando Kharkov nel
marzo del 194349 e l’obiezione di Hitler alla creazione di più divisioni delle WaffenSS si stempera assieme alla sua ansia di non provocare i generali dell’esercito e
di non permettere a Himmler la costituzione di un esercito personale50.
Già agli inizi del 1942 all’interno delle Waffen-SS cade la divisione in reparti
separati di tedeschi e non tedeschi e le due componenti si mescolano in concomitanza con l’afflusso di un largo numero di volontari stranieri51. L’aumento del
numero di volontari non tedeschi pone, inoltre, questioni di gerarchia militare e
di possibilità di coordinamento di soldati che parlano lingue differenti e, sebbene
Hitler nel 1940 non si fosse dimostrato favorevole alla presenza di volontari
stranieri guidati dai propri ufficiali52, il problema viene superato da Berger e
Himmler ammettendo comunque i non tedeschi ai corsi per ufficiali di Bad Tölz
e affidando loro il comando delle unità, con ufficiali tedeschi collocati poi ai gradi
di coordinamento53. Con questo copioso afflusso, come afferma Felix Steiner54, si
apre la strada per «l’idea storicamente e politicamente corretta di Europa con un
42
Gingerich 1997: 815-830.
Stein 1984: 46 e 100.
44
Bishop 2005: 8.
45
Stein 1884: 94.
46
Bishop 2005: 31.
47
Lumsden 2006: 243.
48
Duprat 2009: 11-12.
49
Stein 1984: 163.
50
Reitlinger 1957: 87, 154, 191, 194. Nel 1943 permane comunque il limite rappresentato
dal fatto che l’alto comando dell’esercito controllava l’allocazione delle forze richiamate per la leva
militare, perpetrando una tensione continua tra Himmler e i generali dell’esercito (Ripley 2004:
85).
51
Stein 1984: 157; Bishop 2005: 16.
52
Stein 1984: 149.
53
Stein 1984: 161.
54
Felix Steiner (Nato a Ebenrode nel 1914) oltre ad aver partecipato, come già citato, alla
creazione della Divisione Wiking delle Waffen-SS (Hillblad e Wallin 2004), fu responsabile
inizialmente dell’addestramento della SS-Verfügungstruppen (SS-VT; la prima delle future
divisioni delle Waffen-SS) creando un nuovo tipo di soldato-atleta, rivoluzionando le concezioni
della strategia militare e puntando soprattutto sulla coesione, sulla rispettiva fiducia e sulle
relazioni informali tra soldati e ufficiali (Jesi 1993: 72).
43
13
destino comune che abbracci tutti i volontari europei in un comune spirito55». A
Gottlob Berger, protagonista di questa internazionalizzazione, viene attribuita
la seguente frase sulle Waffen-SS: «come soldato simpatizzo con tutti i soldati
d’Europa. I volontari francesi portano la croce di ferro accanto alla Legion
d’Onore, anche quando se la sono guadagnata contro i tedeschi. Due splendide
decorazioni di due nazioni diverse sullo stesso petto: ecco la nuova Europa56».
Il concetto di Nuovo Ordine europeo appare in molti documenti diffusi per
promuovere l’arruolamento di volontari e in essi viene fatto spesso riferimento ad
una fratellanza paneuropea57. Se all’inizio della seconda guerra mondiale il
numero di non tedeschi arruolati nelle Waffen-SS è trascurabile, alla fine essi
superano i nativi tedeschi giungendo a costituire la parte maggiore58.
Le Waffen-SS in questa rapida espansione di effettivi arrivano ad incorporare anche numerosi volontari cosacchi, musulmani di Bosnia e Erzegovina, slavi,
indiani59, caucasici, asiatici60, comprendendo un amalgama che giungerà a
comprendere trentasette nazionalità diverse61. Come anticipato, il fatto che le
Waffen-SS divengano un “esercito eclettico negli idiomi e nei costumi62”, lascia
aperti importanti interrogativi storiografici sulla effettiva presenza del progetto
di una Europa unificata, sia economicamente sia politicamente, che parte delle
gerarchie nazionalsocialiste avrebbe pianificato durante la guerra, ed al quale
avrebbe lavorato, tra gli altri, lo stesso Albert Speer prima che rivalità burocratiche e l’ideologia razzista di Hitler facessero naufragare il suo piano di abbattimento delle barriere doganali in un’area di libero scambio di merci63.
55
Steiner 1958: 68.
Jesi 1993: 75.
57
Payne 1996: 379; Ripley 2004: 86.
58
Il 57%, delle Waffen-SS sarebbe stato costituito da non tedeschi. Si stima infatti che
durante la guerra servirono nelle Waffen-SS 400.000 tedeschi del Reich, 137.000 europei
occidentali, 200.000 europei orientali e 185.000 Volksdeutsche (Stein 1984: 137; Lumsden 2006:
248-249). Sebbene il numero complessivo di membri che militarono nelle Waffen-SS venga
stimato in modo non uniforme da diversi autori, sia per la difficoltà di valutare il numero delle
perdite subite e quello dei nuovi arruolati sia per la dispersione delle fonti, le cifre riportate si
aggirano attorno al milione di soldati a maggioranza non tedeschi (Payne 1996: 373; Jesi 1993:
79; Bessel e Schumann 2003: 26; Ripley 2004: 90; Goldsworthy 2007: 55).
59
La nona Compagnia della Legione India Libera (Indisches Freiwilligen Legion der Waffen
SS) operò anche sul territorio italiano (Valente 2006; Afiero 2007b; Valente 2007: 160).
60
Stein 1984: 179-196; Ailsby 2004: 105-115, 117-136, 151-170; Bishop 2005: 21, 68-82, 132,
180-185; Lumsden 2006: 251-256. Fabei (2002: 16-17 e 67) fa notare come «dal pangermanesimo
originario, attraverso varie fasi, la Germania fosse approdata prima ad un arianesimo rispettoso
delle stirpi indoeuropee e successivamente alla creazione di un fronte internazionale, comprendente uomini di tutte le fedi, cristiani, musulmani, buddisti e induisti» con la presenza, inoltre,
di «unità dell’esercito e delle Waffen-SS cui dettero vita uomini originari delle repubbliche
musulmane dell’URSS: tartari, uzbeki, turcomanni, tagiki, azeri, kirghisi», fatto che dimostra
come rispetto alla prima fase del nazionalsocialismo «la rigidità del razzismo biologico sarebbe
stata decisamente ridimensionata».
61
Mosse 1991: 205; Ripley 2004: 90; Duprat 2009: 11-12.
62
Marchi 1997: 19.
63
Gillingham 1985: 140; Wieland 2001: 32. Hans Fritzsche, funzionario e importante
esponente del regime nazionalsocialista, fa presente come più volte propose l’emanazione di una
Magna Charta europaensis pro europaeensis approvata da Goebbels e raccomandata a Hitler e
come Ribbentrop fece un tentativo analogo, ma Hitler, pur non respingendo mai, in principio,
l’idea di un programma europeo, contestò la necessità delle direttive, formulate per singoli
56
14
Come visto in precedenza, Himmler e Berger lavorano, anche contro gli
indirizzi di Hitler, come avviene ad esempio per la costituzione della Divisione
composta di Ucraini osteggiata dal Führer64, alla costituzione di un esercito al
quale partecipano migliaia di europei di diversa nazionalità. Non può essere
pertanto archiviato come un caso che tra i difensori di Berlino degli ultimi giorni
di guerra vi fosse la rilevante presenza di soldati di nazionalità non tedesca65, tra
i quali i francesi dei quali Hitler aveva ostacolato l’ingresso nelle Waffen-SS66.
Come non può essere sorvolato come casuale il fatto che personale non tedesco
ricoprì all’interno delle Waffen-SS gradi elevati sin dal 194167, che vi furono
figure di soldato politico come quella del pluridecorato Léon Degrelle68, e che
ufficiali non tedeschi ebbero ai propri ordini soldati tedeschi69, come avvenne
anche nel caso dei volontari italiani70.
Interessante è, inoltre, il fatto che lo stesso Himmler si occupò in prima
progetti, per i diritti delle nazioni europee (Fritzche 1949: 208).
64
Bishop 2005: 82.
65
Butler 1979: 141; Stein 1984: 164; Mabire 2001; Bishop 2005: 137; Duprat 2009: 11-12. Una
descrizione romanzata della battaglia per la difesa di Berlino è fornita da Saint-Paulien (2002)
che affronta, seppur brevemente, tematiche interessanti, che saranno approfondite nel corso
dello studio, come la collaborazione franco - tedesca contro il bolscevismo, le figure del soldato
politico e dell’Uomo nuovo, il mito della cavalleria, il culto della morte e il guerriero romantico.
Sempre riguardo la battaglia di Berlino è interessante l’autobiografia romanzata del volontario
spagnolo Miguel Ezquerra (2004) che affronta una descrizione delle vicende dei volontari spagnoli
e della difesa di Berlino nel quadro dell’integrazione tra spagnoli e tedeschi nelle Waffen-SS e con
accenni alle motivazioni dei volontari e alla prospettiva dell’Ordine nuovo. La presenza di
volontari spagnoli è segnalata anche in Italia quando all’inizio del 1945 nel Friuli orientale arriva
un reparto di superstiti della Divisione Azzurra Spagnola reduce dallo scontro sul fronte dell’Est
con l’Armata Rossa (Vincenti 2003).
66
Jäckel 1966: 182; Davey 1971: 29-33. Il 26 febbraio 1945, Hitler si esprime così sul destino
dell’Europa: «Io sono stato l’ultima speranza dell’Europa. L’Europa non poteva essere unificata
per effetto di una riforma volontariamente concertata. Non poteva venire conquistata con il
fascino e con la persuasione. Per poterla prendere bisognava violentarla. L’Europa può essere
costruita soltanto su rovine. Non su rovine materiali, ma sulla rovina congiunta degli interessi
privati, delle coalizioni economiche, sulla rovina delle idee ristrette, dei particolarismi superati
e dello stupido spirito di campanile. Bisogna fare l’Europa nell’interesse di tutti e senza
risparmiare nessuno. Napoleone lo aveva compreso perfettamente» (Hitler 1988: 82). Ciò che
certamente, come preso in esame, emerge è che gli indugi di Hitler nello sviluppo delle WaffenSS e nell’apertura al reclutamento degli stranieri caddero quando fu troppo tardi (Ripley 2004:
90). La decisione di amalgamare i francesi in una singola formazione di Waffen-SS fu indubbiamente di Himmler che intendeva trasferirci tutti gli uomini che prestavano servizio negli altri
corpi e nella Todt, ed il 10 agosto 1944 ordinò la costituzione della 33ª Waffen-Grenadier-Division
der SS Charlemagne (Forbes 2006: 137).
67
Bishop 2005: 121.
68
Ailsby 2004: 75
69
Windrow 1992: 21; Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 6. Secondo
quanto afferma Landwehr (2001) la 38ª SS-Grenadier-Division Nibelungen, creata agli inizi del
1945 e composta prevalentemente da volontari tedeschi, era guidata da volontari europei non
tedeschi. Alcuni autori italiani, non fornendo però prove documentali in proposito, registrano la
presenza di volontari italiani in tale divisione (Afiero 2009a).
70
Alcuni ufficiali italiani che avevano combattuto nei reparti Arditi in Africa Settentrionale
e in Russia, ad esempio, furono assegnati come istruttori, sul fronte di Nettuno, per gruppi di élite
composti di 7-9 uomini della 16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS destinati a
compiti di rottura sulla linea del fronte (Unità italiane delle Waffen SS, Archivio Privato Cipriano
Porcu - APCP Sez. 30/1, p. 17, Reg. 134).
15
persona dell’integrazione dei volontari non tedeschi e dello sviluppo di un reale
cameratismo, senza il quale i volontari stranieri non avrebbero potuto servire
nelle Waffen-SS, ed identificò la necessità di reperire ufficiali stranieri con
qualità e esperienza che potessero operare in unità più grandi e complesse: su sua
indicazione ufficiali stranieri e cadetti cominciano l’addestramento a Bad Tölz
nel 1942 ricevendo i regolari gradi delle Waffen-SS in modo indistinguibile dai
tedeschi71. È appurato che nel 1943 gli ufficiali dei volontari stranieri ricevevano
un corso che era quello tipico di Bad Tölz a livello morale, ideologico, tattico e
tecnico72.
Su “Signal”, periodico illustrato che rappresentò un efficace strumento di
propaganda di guerra73, nel dicembre 1944, Cornelius Van der Horst, relativamente alle Waffen-SS, sostiene la nascita di uno spirito europeista sotto un
vessillo «da cui sono sorti gli spiriti, gli dèi e gli eroi d’Europa per popolare il regno
dei cieli», sebbene manchi ancora, a suo avviso, quel qualcosa in più che può far
parlare di un militarismo politico europeo74. Saint-Loup, aldilà del tono apologetico che attraversa le sue ricostruzioni, riporta che Himmler avrebbe ripetuto
spesso a Riedweg75: «Quando l’Europa sarà formata con il nostro combattimento,
mi sarà del tutto indifferente che il Reichsführer sia un ex tedesco o un ex
svizzero»76. È conseguenza di quanto ricostruito che la storiografia si ponga
l’interrogativo se le Waffen-SS fossero un esercito europeo o un esercito di
europei77.
La presente ricerca, focalizzandosi sui volontari italiani, sulle loro memorie
e sul loro vissuto, potrà contribuire a fare luce su come essi vivessero la propria
italianità rispetto al corpo nel quale militarono. Questo studio non potrà far luce
71
Estes 2003, Chapter 4 - Transformation in 1943: 2.
Schulze-Kossens 1982: 56-58.
73
Il periodico illustrato, stampato anche in lingua italiana, pur essendo pubblicato dalla
Wehrmacht, ospitò diversi articoli sull’operato delle Waffen-SS e sulle legioni di volontari non
tedeschi.
74
Van der Horst 1944.
75
Franz Riedweg, SS-Obersturbannführer membro dello staff di Heinrich Himmler, fu
probabilmente il più influente svizzero all’interno del nazionalsocialismo (Skenderovic 2009:
329).
76
Saint-Loup 1985: 195. Interessante è notare come questa frase sia stata rivolta ad un
volontario di nazionalità svizzera, mentre forte era l’avversione verso il neutralismo e quello che
veniva definito come “insvizzerimento” o “olandizzazione” intellettuale e spirituale con “forti
tendenzialità anti-guerriere” e antipolitiche, responsabile della malattia stessa dell’Europa e del
suo estraniamento e ostilità di fronte all’idea imperiale (Evola 1942). Secondo Evola il 4 ottobre
1943, in occasione di un discorso tenuto a Poznañ, Himmler pubblicamente “realizzò un certo
spostamento delle prospettive. Si cessò di identificare l’arianità con la tedeschità. Si intendeva
combattere non per un pangermanesimo, ma per un’idea superiore, per l’Europa e per un Ordine
Nuovo europeo. Questo orientamento guadagnò terreno nell’ambiente delle SS e trovò espressione nella dichiarazione di Charlottenburg pubblicata verso la fine della guerra come risposta alla
dichiarazione di S. Francisco fatta dagli Alleati (Evola 2001: 224)”. Interessante è notare come
tra i volontari italiani nelle Waffen-SS figuri Asvero Gravelli, che da sempre guardò oltre i confini
nazionali proponendo il Panfascismo come soluzione ai problemi europei, che animò le attività
di quella che può essere definita come l’internazionale fascista, non senza polemizzare con Evola
e con i nazisti accusati di essere pagani e anticristiani, e che guardò con interesse ai vari
movimenti fascisti europei dedicando la sua attenzione anche al movimento lappista finlandese
(Sabatini s.d.).
77
Wieland 2001: 32.
72
16
sui processi decisionali e sugli intenti di chi decise l’internazionalizzazione delle
Waffen-SS, ma potrà offrire un nuovo punto di vista, dall’interno, sullo spirito di
corpo, sulle sintonie e le distonie vissute dai soldati di diversa nazionalità e su
eventuali gerarchie interne imputabili alla loro provenienza nazionale.
Gli interrogativi sull’europeismo delle Waffen-SS sono certamente importanti, ma appaiono anche riduttivi, visto lo sviluppo internazionale di questo
esercito che includeva volontari da terre asiatiche e anche dall’India, e sembra
maggiormente opportuno che il dibattito e la ricerca storiografica si focalizzino
sul veloce sviluppo che portò l’élite militare del Terzo Reich a trasformarsi da un
esercito tedesco, ad uno europeo o di europei ed infine ad uno internazionale.
Si può affermare che Stein accenni alla maggior complessità della questione
storiografica citata quando, esaminando il passaggio della dottrina delle WaffenSS da quello della grande Germania a quello dell’Europa, asserisce che in
Himmler era presente una visione fortemente imperiale più che europea78. È da
ritenersi che le ragioni di questo sviluppo e della tematica imperiale non possano
prescindere da una analisi del pensiero di autori come Oswald Spengler79, Carl
Schmitt80 e Ernst Jünger81 che si ricollegano alla dottrina geopolitica di Karl
Haushofer82, figura che sarà presa in esame in relazione ad ambienti culturali
vicini alle Waffen-SS italiane.
Resta dunque da chiarire, pur non essendovi contrapposizione e non escludendo l’una l’altra, se prevalesse in Himmler la concezione di una Nuova Europa
unificata che cancellasse tutte le malattie dei passati nazionalismi83 o la
concezione imperiale. E in quest’ultimo caso, se essa fosse quella di un impero
europeo dall’Atlantico agli Urali84, di un impero germanico multinazionale che
78
Stein 1984: 147-148.
Tutta l’opera di Spengler contiene molti riferimenti circa i destini del mondo, anche in
chiave più propriamente geopolitica, che trovano una loro condensazione nell’opera Il Tramonto
dell’Occidente. Lineamenti di una morfologia della Storia mondiale (1957).
80
Sulla tematica dell’Impero è indispensabile consultare, tra le altre dell’autore, soprattutto
l’opera di Schmitt, pubblicata in Italia nel 1941, Il concetto d’impero nel diritto internazionale.
Ordinamento dei grandi spazi con esclusione delle potenze estranee.
81
Di Jünger è indispensabile la consultazione di L’Operaio. Dominio e forma, che vasta eco
ebbe in Italia con la recensione di Julius Evola (1943): L’”Operaio” e le Scogliere di marmo.
82
Haushofer elaborò una teoria geopolitica che sosteneva la nascita dei Grandi Stati e la fine
dei piccoli Stati. Grande propositore dell’Eurasismo e delle strategie geopolitiche che avvicinarono la Germania all’Italia ed al Giappone, formulò un concetto di regionalismo all’interno della
geopolitica globale, nel quale figuravano tre principali regioni dominate da un superstato: gli
Stati Uniti per l’emisfero occidentale, il Giappone nell’Asia orientale e la Germania in Eurasia
ed Africa. Asserì con decisione che i custodi del Nuovo Ordine, concetto da lui formulato come
superamento dell’idea ritenuta ormai vetusta di Lebensraum, avrebbero dovuto affrontare
grandi compiti nello scenario eurasiatico a livello di spazio, economia e geopolitica. Haushofer
riteneva che l’alleanza della Germania con Italia e Giappone avrebbe consentito un controllo
dell’Eurasia ed un avvicinamento a quello che è il centro di gravità dell’umanità: l’Eurasia-Africa
(Herwig 1999: 218-241; Spang 2006: 139-157). Karl Haushofer è una figura importantissima
all’interno del nazionalsocialismo sin dalle sue origini, rese anche diverse visite a Rudolf Hess
e Hitler nella prigione di Landsberg, nella quale si trovavano in seguito al tentato colpo di Stato
del 1923 (Zagni 2004: 39-42; Tombetti 2005: 100-101; Hakl 2006: 239; Galli 2007: 78). Interrogato
dagli americani al termine del secondo conflitto mondiale, citò l’italiano Giuseppe Tucci come
persona interessata alle sue idee di geopolitica (Grossato 2003: 124).
83
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 6.
84
Bishop 2005: 11
79
17
lottando contro i nemici giudeo-bolscevichi mobilitasse i volontari di diverse
nazionalità85, di un impero gotico-franco-carolingio le cui dimensioni dovevano
ancora essere stabilite86 o quella di un unico continente Euroasiatico. Il dibattito
sull’Impero europeo, che ebbe forti riflessi anche in Italia ad opera di Julius
Evola87 e Giuseppe Tucci88, si mosse, all’interno di tematiche attinenti sia al
diritto internazionale sia ad elementi meta-politici e meta-giuridici, dal superamento dell’iniziale idea di Spazio vitale a quella di Grande spazio e di Spazio
imperiale89, che individuavano la necessità del superamento della figura dello
85
Loock 1960: 240-24; Estes 2003, Introduction - Crusade and Propaganda: 3.
Wegner 1990: 836.
87
Evola 1930; 1934; 1937; 1940; 1942; 1942b.
88
Se Evola pubblicò diversi scritti sulla questione dell’Impero e sulle implicazioni geopolitiche e tradizionali di esso, la personalità che promosse la geopolitica in Italia sotto la prospettiva
di una “Eurasia continente”, secondo una accezione spirituale e culturale, ed identificando le
grandi identità di fondo fra civiltà solo in apparenza così distanti nello spazio e nella mentalità,
fu Giuseppe Tucci (Grossato 1999: 10; Hakl 2006: 240). L’orientalista marchigiano fu assertore
dell’unità geopolitica dell’Eurasia e orientò la sua opera alla promozione dei rapporti tra Europa
e continente asiatico (Grossato 1999: 10). Tucci era amico di Haushofer (Grossato 2003: 48-51;
Grossato 2006: 276) e invitò lo studioso tedesco nel 1937 e nel 1941 per due conferenze presso
l’IsMEO (Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente) inerenti il Giappone (Hakl 2004: 124;
Hakl 2006: 239; Grossato 2006: 276; Graziani 2008: 11). La tematica geopolitica di un’alleanza
naturale euroasiatica viene ricondotta agli anni ’30 ed alla collaborazione di Haushofer e Tucci
(Graziani 2008: 13). Se dunque Evola fu autore di articoli sull’Impero, fu certamente Tucci la
persona di riferimento per la geopolitica euroasiatica italiana con Haushofer e sembra anche con
Theodor Illion, collegato con l’Ahnenerbe-SS (Il Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe
fu una società di ricerca dell’eredità ancestrale dedicata a studi riguardanti la storia, l’antropologia, la cultura e svariati argomenti scientifici, che viene considerata l’Accademia delle scienze
delle SS) (Hakl 2004: 131, Hakl 2006: 248). Evola e Tucci si conobbero nel 1925 presso un circolo
teosofico indipendente diretto da Decio Calvari, la Lega Teosofica Indipendente Ultra (Hakl
2004: 130; Hakl 2006: 247; Rossi M. 2006: 55). Il Calvari, che promosse attività nelle quali si
potevano incontrare figure come Arturo Reghini, Adriano Tilgher, Roberto Assagioli, l’antroposofo Giovanni Colonna oltre ad Evola e Tucci (Rossi M. 2006: 55), ebbe modo di collaborare anche
con Giovanni Colazza (Rossi M. 2006: 54) che fu frequentatore e discepolo caro a Rudolf Steiner
dal quale fu posto a capo del primo Gruppo di Studi antroposofici Novalis sorto a Roma nel 1911
(Beraldo 2006: 77). Tali legami, come avrò modo di approfondire più avanti, hanno assoluta
rilevanza rispetto ad una componente dei volontari italiani nelle Waffen-SS. Nello stesso contesto
non deve essere trascurato, oltre al legame tra Tucci e Haushofer, quello dello studioso italiano
con Sven Hedin (Tucci 1996: 12; Zagni 2004: 125), al quale Himmler, all’interno dell’Ahnenerbe,
dedicò lo Sven-Hedin-Institut für Innerasienforschung (Istituto Sven Hedin per le ricerche
nell’Asia Centrale), che durante la seconda guerra mondiale fu coinvolto nella divulgazione della
causa nazionalsocialista nel mondo (Zagni 2004: 122).
89
È Julius Evola, in un articolo pubblicato su La Vita italiana nel novembre del 1940, ad
auspicare una maggiore integrazione dell’idea fascista con quella germanica per prepararsi ai
nuovi compiti politici, culturali e spirituali che la vittoria comporterà. La vittoria dell’Asse
avrebbe dovuto comportare, come fa notare Evola, la liquidazione di due idee, quella di Stato
nazionale come spazio inviolabile e quella di imperialismo plutocratico, per fare spazio a quello
di “una nuova Europa articolantesi in spazi imperiali”. Sempre Evola, il pensatore italiano che
più fu in contatto con le SS, affermando che “un imperialismo è tale, quando domina in virtù di
valori universali ai quali una determinata nazione o stirpe si è elevata attraverso la potenza di
superare se stessa” perché “senza un muori e divieni nessuna nazione può aspirare ad una
missione imperiale effettiva e legittima” (Evola 1931), offre una panoramica dei concetti di Spazio
vitale, Grande spazio e Spazi imperiali nel 1942, evidenziando come il dibattito fosse in corso
all’interno dell’ambiente culturale promosso da Himmler (Evola 1942b).
86
18
Stato moderno inteso come Stato nazionale fondato sul concetto di confine
naturale90.
Non è compito del presente studio l’analisi di dettaglio di dette tematiche, ma
giova notare come attraverso le vicende dell’internazionalizzazione delle Waffen-SS emerga una diversa impostazione tra Hitler e Himmler, il primo maggiormente animato da cesarismo91, il secondo più focalizzato su un’idea imperiale92.
Aspetti questi che interessano una minoranza di volontari italiani nelle WaffenSS che furono in stretto contatto con le alte gerarchie del nazionalsocialismo e con
ambienti filosofico-esoterici nei quali le tematiche imperiali trovarono ampio
spazio e si rifletterono anche sull’organizzazione e sulla natura militare delle
Waffen-SS, con una distinzione tra soldato e guerriero93 che interessò l’organizzazione. A questo gruppo di volontari non interessa molto il fatto contingente
politico, il partito, il Führer, il passato prossimo fascista ed all’inizio del 1944
viene segnalata la costituzione spontanea, fra ufficiali tedeschi, francesi e
italiani delle Waffen-SS, di un’intesa che mira a spazzare via, finita la guerra, le
strutture del partito nazionalsocialista per sostituirle con una Führung elitariomilitare su tutta l’Europa94.
Certo è che a metà della guerra, in tutti i corsi di addestramento per i
volontari, indipendentemente dalla nazionalità di provenienza e specialmente
per gli ufficiali, erano previste cinque ore di formazione ideologica a settimana
che trattava prevalentemente la storia politica e razziale europea nella visione
nazionalsocialista95.
La tematica dell’Impero e dell’europeismo sopracitata si correla al presente
studio in quanto una internazionalizzazione delle truppe nelle quali militarono
i volontari italiani non può non aver lasciato memoria nei volontari stessi e sarà
compito della ricerca far luce sul vissuto che gli italiani ebbero del fenomeno;
90
Perez 2004: 36.
Il cesarismo rappresenta una versione sminuente dell’idea imperiale, espressione della
potenza dei singoli individui privi di riferimenti all’orizzonte della trascendenza o della sacralità
connaturata ad ogni autorità veramente legittima, e quindi dominatori in funzione dell’assoluto
principio politico nel clima di una civiltà agonizzante e ormai del tutto degenerata e sconsacrata
(Perez 2004: 35).
92
Nel diario di Giuseppe Bottai, il gerarca, in data 9 dicembre ’42 annota: “Himmler, il capo
della polizia, il cui astro sale, promuove anche lui, un suo movimento culturale: la Gestapo ha i
suoi istituti d’alti studi, filosofici, letterari, storici, archeologici. Nel silenzio quasi generale, che
s’è fatto intorno ai problemi dell’”ordine nuovo”, così discussi appena un anno fa, solo Himmler
e i suoi mantengono viva la fiamma” (Bottai 1977: 238). Oltre ad emergere che Bottai non aveva
chiara percezione del ruolo di Himmler all’interno del Terzo Reich e delle organizzazioni che a
lui facevano capo, ciò che più interessa l’aspetto trattato è che il gerarca fascista identifica
Himmler come la figura che mantiene accesa la fiamma e anima il dibattito sulla creazione
dell’Ordine nuovo, aspetto chiaramente connesso all’organizzazione politico istituzionale, in caso
di vittoria dell’Asse, della nuova Europa - Eurasia che si sarebbe venuta a determinare.
93
Secondo Evola, riguardo alla struttura guerriera che l’Impero deve avere, “i moderni al
luogo del guerriero non conoscono più che il soldato, il militare – o, al più, il conquistatore alla
barbara – è evidente l’impossibilità di esaurire l’imperialismo nel dominio e nell’espansione
attraverso la pura forza delle armi. Ma se in altri tempi, in tempi di verità e di normalità, il
guerriero ha significato, come effettivamente significò, una cosa diversa, e soprattutto un
significato spirituale, allora si aprono ben altri orizzonti” (Evola 1930).
94
Unità italiane delle Waffen SS presso APCP Sez. 30/1, p. 17, Reg. 134.
95
Schultze-Kossens 1982: 126-143.
91
19
aspetto che diviene ancora più interessante perché correlato ad uno degli
argomenti chiave delle Waffen-SS, quello della ideologia razziale e razzista
solitamente loro attribuita96. Come furono percepiti i volontari stranieri, ed in
particolare gli slavi e i polacchi dai volontari italiani che combatterono al loro
fianco? Quale trattamento era riservato agli stessi italiani e ai volontari di altra
nazionalità dai membri tedeschi delle Waffen-SS?
Il presente studio non farà luce sui processi decisionali fautori di tale
internazionalizzazione, ma su come essa fu vissuta dai volontari e che idee si
fecero di questo processo di europeizzazione e/o internazionalizzazione i combattenti italiani.
È importante chiarire che le Waffen-SS rappresentano delle unità combattenti e che esse non devono essere confuse né con le Einsatzgruppen, le squadre
di sterminio che seguono l’esercito in Unione Sovietica con compiti di eliminazione di soggetti razzialmente e politicamente indesiderati97, né col personale posto
a guardia dei campi di concentramento. Le Einsatzgruppen, create prima
dell’invasione della Russia, furono composte di 480 ufficiali e da un totale di circa
3.000 uomini98, fecero capo al Reichssicherheitshauptamt (RSHA, ossia Ufficio
centrale per la sicurezza del Reich), originato dalla riorganizzazione di SD
(servizio di sicurezza), Gestapo (polizia politica) e Kripo (polizia criminale)99, e
furono sempre comandate da personale di Sicherheitsdienst des Reichsführers
SS (SD), Sipo, Gestapo e Kripo100, ossia dalle Allgemeine-SS, le SS generiche101,
così denominate per distinguerle dalle divisioni militari armate102.
Le Allgemeine-SS a differenza delle Waffen-SS, che dipendevano dai finanziamenti dello Stato e del Ministero delle Finanze, furono, anche per quel che
concerne l’organizzazione finanziaria, separate dalle unità combattenti: mentre
le Allgemeine rimasero al servizio del partito, le Waffen-SS furono a quello dello
Stato103. La distinzione organizzativa appare evidente anche dal nome completo
di queste unità, Einsatzgruppen der Sicherheitspolizei und des SD104, che
rientrarono nel controllo degli uffici del RSHA, furono composte da Allgemeine
SS e dotate, rispetto alle Waffen-SS, di un proprio quartier generale distinto e da
separate organizzazioni anche nei paesi esteri, con compiti di polizia e intelligence105.
Le Waffen-SS, dunque, non sono ricollegabili come organizzazione alle
96
Lazzero 1982; de Lazzari 2002. È interessante notare, piuttosto, come lo Schwarze Korps,
giornale delle SS, reclamando la libertà dei popoli a disporre di se stessi, non solo aveva difeso
il diritto degli indù all’indipendenza, ma bollò con il termine dispregiativo di “imperialista” la
guerra condotta dagli italiani contro l’Abissinia: il giornale non si limitava a parteggiare per il
Negus, ma ironizzava sulla crociata cattolica del Duce (Fabei 2002: 79).
97
Stein 1984: 263; Lumsden 2006: 85.
98
Reitlinger 1957: 185; Krausnick 1981: 287; Bessel e Schumann 2003: 26; Wegner 1997:
253.
99
Stein 1984: xxix.
100
Stein 1984: 263
101
Nel corso del testo l’uso del corsivo è limitato ai soli casi in cui il suo mancato uso potrebbe
rendere difficile la lettura e la comprensione dell’esposto.
102
Lumsden 2006: 27.
103
Lumsden 2006: 31-32.
104
Lumsden 2006: 114.
105
Lumsden 2006: 37.
20
Einsatzgruppen, sebbene punti di contatto vi siano stati, in quanto queste ultime
videro affluire tra i propri ranghi alcuni individui ex Waffen-SS la cui carriera
militare era finita davanti alla corte marziale e ai quali era lasciata la possibilità
o di subire la sentenza o di accettare il trasferimento punitivo nelle
Einsatzgruppen106.
Anche volendo considerare ancora come Waffen-SS coloro che vennero puniti
col trasferimento negli Einsatzgruppen, sebbene da quel momento entrassero a
far parte di un corpo differente e distinto dal precedente, è importante comprendere la dimensione numerica del fenomeno. Secondo Kempner e Stein, riferendosi ai documenti del processo di Norimberga, l’Einsatzgruppe A incluse, ad
esempio, 340 ex Waffen-SS su un totale di 990 uomini107, per un totale del 34%,
che Lumsden conferma per tutte le Einsatzgruppen e rapporta con un 28% di
provenienza dall’esercito108. Ci troveremmo così di fronte a circa mille membri di
queste squadre109 che fecero parte precedentemente delle Waffen-SS e, soggetti
a corte marziale, accettarono il trasferimento; pertanto il contributo, sovrapponibile a quello dall’esercito, risulta assai ridotto, dato che questi circa mille
membri rappresenterebbero una piccolissima percentuale, lo 0,1%, degli effettivi
delle Waffen-SS110.
Giova, inoltre, precisare che le Allgemeine-SS, che erano addestrate e
equipaggiate per fronteggiare eventuali insurrezioni interne al Terzo Reich, col
proseguire della guerra videro ridursi i propri effettivi, per trasferimenti di
personale alla Wehrmacht e alle Waffen-SS, e che nel secondo caso gli uomini
trasferiti vedevano assegnarsi un grado inferiore rispetto al precedente111.
Per quanto concerne il coinvolgimento delle Waffen-SS in operazioni di servizio
nei campi di concentramento, viene solitamente citato il fatto che 6.500 membri delle
SS-Totenkopfverbände112 vennero trasferiti alla SS-Division Totenkopf113, formazione delle Waffen-SS, passaggio che però avvenne già nell’ottobre del 1939. Inoltre,
alcuni mesi dopo l’inizio della guerra, l’alto comando della Wehrmacht (OKW) emise
una direttiva elencando quali componenti delle SS fossero ufficialmente riconosciuti
come formazioni delle Waffen-SS e il sistema dei campi di concentramento non era
incluso114. Lo stesso Himmler volle tenere attentamente separato il sistema dei
campi di concentramento dalle sue amate Waffen-SS, aldilà dell’organizzazione
amministrativa ed economica che a lui faceva capo115. Tanto che le Waffen-SS, come
ricostruito da Stein, furono una organizzazione che, nonostante un ridotto scambio
di personale fosse intervenuto, deve essere considerata separata da quella che
gestiva i campi di concentramento116.
106
Reitlinger 1957: 171.
Kempner 1964: 18. Stein 1984: 264.
108
Lumsden 2006: 114.
109
Il 34% dei 3.000 effettivi ad oggi attribuiti alle Einsatzgruppen.
110
1.000 membri passati agli Einsatzgruppen, su circa 1.000.000 di volontari nelle WaffenSS rappresenta lo 0,1% degli effettivi.
111
Lumsden 2006: 46, 59, 69.
112
SS-Totenkopfverbände è traducibile come “Unità-SS testa di morto”, reparti appartenenti al corpo delle Schutzstaffel (SS) ed adibiti alla custodia dei campi di concentramento.
113
Divisione combattente appartenente invece alle Waffen-SS.
114
Stein 1984: 258-260.
115
Kersten 1957: 250; Reitlinger 1957: 265.
116
Stein 1984: 262. Rupert Butler (1979: 67) asserisce, senza citare la fonte, che a fine Guerra
107
21
Definizione di volontario italiano nelle Waffen-SS e modalità di
arruolamento
Prima di affrontare l’inquadramento storiografico dei pochi studi ad oggi
presenti interamente dedicati ai volontari italiani, è necessario fare chiarezza su
due aspetti importanti: la definizione della qualifica di volontario italiano nelle
Waffen-SS e le differenti modalità di arruolamento che hanno originato il
fenomeno.
Tenendo conto che, a livello di ricostruzione storica, non è stato ancora
determinato il numero effettivo di italiani che prestarono servizio volontario
nelle Waffen-SS, con stime che oscillano dai più di 15.000 volontari della maggior
parte delle fonti117, ai 20.000 dei due più noti studi italiani ed ai 23.000 nella
stima maggiore118. Sarebbero 6.200, secondo Corbatti e Nava, i volontari nella
sola 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, divisione quasi integralmente composta di italiani119. Ma italiani furono presenti, soprattutto dopo il cambio di
fronte del Governo Badoglio dell’8 settembre 1943, anche in altre divisioni, tra
le quali quelle generalmente citate sono: 1ª SS-Panzer-Division LeibstandarteSS Adolf Hitler120, 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division, 7ª SS-FreiwilligenGebirgs-Division Prinz Eugen, 17ª SS-Panzergrenadier-Division Götz von
Berlichingen121, 28ª SS-Freiwilligen-Panzergrenadier-Division Wallonien, 36ª
Waffen-Grenadier-Division der SS 122, 24ª Waffen-Gebirgs-Karstjäger-Division
der SS 123, SS-Wehrgeologen-Bataillon 500124 e 16ª SS-Panzergrenadier-Division
Reichsführer SS125.
Se una stima numerica dei volontari non è univoca per quanto concerne la 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS, ancora minori dati sono presenti sulla
si stima che dai 30.000 ai 35.000 membri delle Waffen-SS prestarono servizio nei campi di
concentramento. Ciò può essere dovuto ad una valutazione dovuta alla comunanza di uniformi
e da uno scambio di personale che in parte effettivamente avvenne, come del resto per la
Wehrmacht, ma il numero citato da Butler, rispetto al milione di volontari nelle Waffen-SS,
mostra comunque un coinvolgimento ridotto al 3,5% dei membri delle Waffen-SS.
117
Landwehr 1987: 6; Littlejohn 1987: 238; Ailsby 2004: 90. Bishop (2005: 156 e 177) ne
attribuisce 15.000 alla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS e 1.500 al SS - Bataillon Debica.
118
Lazzero 1982; de Lazzari 2002. Lazzero e de Lazzeri offrono questa stima relativamente
alla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, facendo però molta confusione quanto all’attribuzione di volontari alle Waffen-SS. Nell’elenco del Lazzero, pubblicato in appendice, rientrano
addirittura membri del Battaglione volontari partigiani Davide. Pasquale Chessa (2005: XVI)
arriva a stimare in 23.000 il numero degli italiani nelle Waffen-SS.
119
Corbatti e Nava 2001: 25.
120
Gentile 1995.
121
Secondo un articolo di autore ignoto precedentemente citato, Unità italiane nelle WaffenSS, gli italiani presenti in questa divisione furono 6.830.
122
Corbatti e Nava 2001: 141-142.
123
Landwehr 1987; Vincenti 2003: 5; Bishop 2005: 149; Corbatti e Nava 2005.
124
Si tratta di un battaglione di geologi delle Waffen-SS, di una particolare unità del genio,
specializzata nella costruzione di opere difensive e sabotaggi delle vie di comunicazione,
trasferita in Italia dalla Francia per contribuire all’approntamento dell’ultima linea difensiva.
Nelle sue fila, tra gli ufficiali, militavano diversi studiosi e accademici, tra loro qualcuno era stato
direttamente al servizio di Himmler negli anni Trenta, all’epoca della campagna di scavi
archeologici condotta per volere del Reichsführer per lo studio degli antichi popoli germanici
(Valente 2007).
125
Gentile 2003; Unità italiane delle Waffen SS.
22
valutazione numerica della presenza italiana nelle altre divisioni. Ciò è imputabile alla scarsa presenza e alla dispersione delle fonti archivistiche126 che dipende
anche dalle differenti modalità di arruolamento dei volontari italiani nelle
Waffen-SS.
Un primo flusso di volontari avviene in stretta prossimità degli eventi dell’8
settembre 1943 e dell’ordine emanato dalle nuove autorità italiane di cambiare
fronte e combattere contro i tedeschi127. Alcuni italiani, individualmente o in
gruppo, decidono di passare in forza alle unità tedesche assieme alle quali
avevano combattuto fino ad allora sul fronte di guerra. Questa modalità di
arruolamento riguarda direttamente alcuni volontari al centro del presente
studio ed il fenomeno si mostra frammentato sui diversi teatri di guerra, con
volontari che si presentano, singolarmente o in gruppo, direttamente ai reparti
e vogliono essere inquadrati nelle Waffen-SS, come ad esempio nel caso dei 200
volontari che si uniscono al SS-Wehrgeologen-Bataillon 500128.
Altri italiani sin dal giugno 1943 raggiungono i centri di arruolamento sorti
in Sudtirolo, che secondo gli accordi intercorsi tra Hitler e Mussolini consentono
agli italiani di etnia tedesca di optare per l’arruolamento in reparti del Terzo
Reich piuttosto che in formazioni italiane, e chiedono di essere arruolati nelle
Waffen-SS129.
Una terza modalità di volontariato è rappresentata dalla costituzione della
29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, con i soldati italiani che, dopo la cattura
effettuata dai tedeschi a seguito del tradimento dell’8 settembre, si trovano nei
campi di prigionia del Reich e hanno possibilità di scegliere tra la prigionia ed il
ritorno alle armi a fianco della Germania. Con la possibilità di passare, in
quest’ultimo caso, alle Waffen-SS, qualora presentino i necessari requisiti fisici,
o al costituendo esercito della RSI130.
Nell’organizzazione e gestione di queste modalità di arruolamento dai campi
di prigionia del Reich e nelle dinamiche costitutive dell’esercito della RSI risulta
centrale la figura di Renato Ricci131, la cui intenzione è di fare della Milizia l’unica
126
Corbatti e Nava 2005: 5.
Quello in esame è un periodo complesso della vita della nazione italiana che va dal 25 luglio
1943, con la deposizione di Benito Mussolini, passa per l’8 settembre dello stesso anno, quando
l’Italia cambiò fronte di guerra passando dall’alleanza coi tedeschi a quella con gli angloamericani, e si chiude con la fine del secondo conflitto mondiale. Le date del 25 luglio e, soprattutto,
quella dell’8 settembre del 1943 rappresentano una svolta nelle vicende del fascismo e dall’Italia
e sono da sempre al centro di un acceso dibattito storiografico per quanto concerne non solo la
ricostruzione degli eventi stessi, ma anche per l’impatto che essi ebbero ed hanno sull’assetto
politico, istituzionale ed internazionale dell’Italia. Tra i diversi studi e approfondimenti: Musco
1976; Lepre 1994; De Felice 1996: 959-1410; De Felice 1998; Galli della Loggia 2003.
128
Valente, 2007: 102.
129
Corbatti e Nava 2001: 19 e 68.
130
Per la modalità costitutiva della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS si faccia
riferimento allo studio di Corbatti e Nava 2001: 19-52.
131
Renato Ricci arrivò al fascismo attraverso l’esperienza dannunziana e con D’Annunzio lo
legò una solida amicizia nata in occasione dell’occupazione della città di Fiume. Di umili origini,
aveva sempre presente il ricordo del duro lavoro del padre nelle cave di marmo della famiglia
Fabbricotti e promotore del movimento fascista carrarese e apuano, coinvolse molti cavatori tra
gli iscritti, tanto che nel Fascio di Carrara, nel 1921, si contavano 1.270 operai su 1.600 iscritti.
Animato da una forte anima anticapitalista si batté contro i baroni del marmo e per l’aumento
dei salari degli operai. Tra gli incarichi all’interno del regime ricoprì quelli di ministro delle
127
23
forza armata della RSI sul modello e alle dipendenze delle SS132. Il gerarca
apuano rientra in Italia dal suo viaggio nel Reich successivo agli eventi del 25
luglio 1943, che comportano la deposizione e l’arresto di Mussolini, con l’investitura di Himmler, col quale aveva stretto un saldo rapporto da quando questi
nell’ottobre del ’42 era stato a Roma, a divenire “un Reichsführer italiano”133.
Sulle modalità costitutive della Milizia è interessante fare riferimento a De
Felice per quanto concerne lo scontro politico che avvenne all’interno della RSI
tra l’ipotesi di costituire un esercito di volontari altamente motivato, politicizzato
ed addestrato dai tedeschi, sostenuta in primis da Ricci e Pavolini134, e quella
sostenuta da Graziani135 e dai militari, ed in seguito approvata da Mussolini con
un cambio di opinione rispetto alle sue iniziali intenzioni, di un esercito apolitico
e nazionale che facesse ricorso alla leva136. Tale scontro interno alla RSI si riflette
Corporazioni e di presidente dell’Opera Nazionale Balilla, distinguendosi per l’attivismo nell’organizzazione delle colonie e dei Campi solari, e sempre si occupò della Gioventù Europea in stretto
contatto coi colleghi tedeschi (Zanzanaini 2004). Ricci era in ottimi rapporti coi tedeschi, specie
con von Schirach, e nel maggio del 1943 Dollmann l’aveva definito l’amico più incondizionato della
Germania. Tenne un saldo rapporto anche con Himmler, che aveva conosciuto durante la visita
di quest’ultimo a Roma nell’ottobre del 1942, così saldo che il Reichsführer-SS aveva guardato
a lui come a uno dei pochi leader fascisti su cui Berlino avrebbe potuto fare pieno affidamento,
tanto che quando Ricci riparò in Germania dopo il 25 luglio 1943 ne fece il nome a Hitler come
un possibile capo del governo italiano (De Felice 1998: 423-424). Renato Ricci all’interno della RSI
fu strenuo sostenitore della creazione di una Milizia costituita di volontari motivati e politicizzati
addestrati dai tedeschi e dalle SS (De Felice 1998: 437-455).
132
De Felice 1998: 423.
133
Deakin 1968: 591.
134
Alessandro Pavolini ricoprì vari incarichi negli istituti di cultura e nei movimenti giovanili
fascisti: pubblicò il romanzo Giro d’Italia e compose poesie di tema crepuscolare. Nel 1929,
ventiseienne, venne nominato segretario della federazione provinciale del PNF di Firenze e in
questo ruolo promosse la realizzazione dell’autostrada Firenze - Mare e della centrale Stazione
di Santa Maria Novella, oltre ad instituire il Maggio Musicale Fiorentino. Eletto deputato nel
1934, dal 1934 al 1942 fu stabilmente al “Corriere della Sera” come inviato speciale. Fu membro
del Consiglio Nazionale delle Corporazioni. Nel 1938 Pavolini fu tra i firmatari del Manifesto
della razza e dall’ottobre 1939 ministro della Cultura Popolare. Aderì alla Repubblica Sociale
Italiana e fu nominato segretario del Partito Fascista Repubblicano (Petacco 1999). Anche
Pavolini, come Renato Ricci, mirava a creare un esercito politico per la Repubblica Sociale
Italiana, fatto che lo portò a vari scontri con Graziani, che desiderava invece che il nascente
esercito fosse apolitico e facesse ricorso alla leva (De Felice 1998: 437-455). Animato da un forte
“culto della coerenza”, di cui non erano mancate manifestazioni già in precedenza ma che nel
periodo della RSI assunse in lui i toni di una norma di vita votata alla lotta, priva di alcun calcolo
delle probabilità e consapevole che la vicenda della RSI si sarebbe per lui conclusa con la morte,
per riscattare l’onore nazionale e l’immagine del fascismo (De Felice 1998: 353).
135
Rodolfo Graziani, nonostante fosse già all’epoca accusato di aver evidenziato gravi carenze
di condotta tattica e strategica nella guerra d’Africa, rifiutando più volte l’aiuto della forze
meccanizzate tedesche (Canosa 2005), con la costituzione della Repubblica Sociale Italiana venne
nominato Ministro della Difesa e si distinse per la sua volontà di creare un esercito nazionale
apolitico e di imporre l’arruolamento obbligatorio piuttosto che ricorrere ai soli volontari
nell’intento di creare un esercito politico come volevano Ricci e Pavolini. Assecondato in questo
da Mussolini, che come analizza il De Felice cambiò la sua opinione iniziale, favorevole all’esercito
politico di volontari, per sostenere quella dell’apoliticità dell’esercito, basandosi su valutazioni
politiche e di conferimento di credibilità alla RSI come Stato (De Felice 1998: 437-445 e 455),
Graziani il 19 febbraio 1944 arrivò ad emettere un bando che prevedeva la pena di morte per coloro
che si sottraevano al servizio militare (noto come “Bando Graziani”), che costituì un grosso scacco
politico per la RSI ed un successo politico-propagandistico per la Resistenza (De Felice 1998: 301).
136
De Felice 1998: 423-470.
24
sulla scelta di volontariato degli italiani catturati dai tedeschi dopo l’8 settembre
1943 e sulla tipologia di volontario all’interno delle Waffen-SS, che non sono
certamente una forza militare apolitica e che fanno del volontariato la ragione di
inclusione, con l’afflusso dei volontari più motivati e militarmente capaci.
Himmler stesso si dimostrò interessato, subito dopo l’8 settembre, ad arruolare
gli italiani membri della Milizia e i soldati provenienti dai reparti scelti, alpini
e bersaglieri, al fianco della Germania e decise, nell’agosto del 1943, che i
volontari provenienti dalla Milizia e da alpini e bersaglieri fossero presi in
consegna dalle SS per valutarne l’idoneità all’arruolamento, mentre quelli
provenienti dal Regio esercito fossero presi in consegna dalla Wehrmacht 137.
Un’altra modalità di arruolamento nelle Waffen-SS diviene effettiva il 18
febbraio 1944 con l’ordine costitutivo dei centri di reclutamento sul territorio
italiano, che consentono l’arruolamento delle classi comprese fra il 1907 e il 1927,
con l’esclusione però solo teorica delle classi richiamate dal governo della RSI,
dato che ufficiali arruolatori delle Waffen-SS circolavano liberamente nei distretti dell’esercito repubblicano138.
Si verifica, oltre le citate, un’ulteriore modalità di arruolamento nelle
Waffen-SS, da parte di italiani che si trovano nei territori del Reich per ragioni
lavorative; si tratta di elementi dei Fasci in Germania che facevano riferimento
ad ambienti del fascismo vicini a Renato Ricci139. Ultima modalità di afflusso di
volontari italiani è quella rappresentata dal passaggio di partigiani nelle fila
delle Waffen-SS140, fatto che rientra in quel periodo di caos successivo al 25 luglio
ed all’8 settembre 1943 che investe la società italiana141 e vede il fenomeno
volontaristico intrecciarsi di scelte che con gli occhi del presente possono apparire
complesse, come quelle di coloro che dai partigiani passavano alla RSI e viceversa
all’interno della guerra civile in corso142.
137
Corbatti e Nava 2001: 21.
Corbatti e Nava 2001: 68.
139
De Felice 1998: 452.
140
Valente 2007: 146.
141
La caduta di Mussolini del 25 luglio 1943 determina giubilo nella popolazione perché
associato alla speranza della fine della guerra, ma passato il momento dell’euforia ad esso si
sostituisce disagio e disorientamento, determinati dai bombardamenti Alleati, dall’ambigua e
repressiva politica badogliana e soprattutto dalla delusione che la liquidazione di Mussolini non
coincidesse con l’uscita dell’Italia dalla guerra, mentre la presenza militare tedesca andava
aumentando. Cosicché dopo l’8 settembre il disorientamento si sarebbe trasformato in reazioni
e comportamenti che la storiografia ha finito per classificare come incomprensibili e aberranti,
mentre soprattutto dopo l’8 settembre non mancò chi, deluso dal comportamento di Badoglio,
della monarchia e degli stessi antifascisti finì per manifestare simpatie, anche non in sintonia
con le proprie iniziali premesse, per la RSI, sperando che essa potesse costituire un fatto positivo,
di dignità, di rinnovamento, di dignità nazionali (De Felice 1996: 1365-1368). Ciò anche
conseguentemente al fatto che delle manifestazioni popolari che avevano salutato il 25 luglio, solo
una minoranza avevano avuto carattere politico, patriottico e antifascista, mentre per la
maggioranza erano state soprattutto una manifestazione liberatoria di chi percepiva la caduta
di Mussolini coincidente con la fine della guerra (De Felice 1998: 72-75). Non stupisce, quindi,
come nella popolazione tendeva a prevalere, in seguito, l’estraneità nei confronti di tutti coloro
che combattevano e talvolta l’ostilità popolare faceva poca differenza tra anglo-americani e
tedeschi, dato che i più non riuscivano a capire come fosse ancora possibile continuare a
combattere (De Felice 1998: 102-104).
142
Calvino 1964: 16; De Felice 1998: 100.
138
25
Per quanto riguarda le operazioni militari intraprese, che esulano dagli
obiettivi del presente studio, esse vengono accuratamente ricostruite, per la 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS e la 24ª Waffen-Gebirgs-Karstjäger-Division
der SS, dagli studi di Corbatti e Nava. È importante qui citare soltanto che le
modalità di impiego dei volontari italiani nelle Waffen-SS sono quelle alle quali,
nello scenario di guerra, l’intera Divisione di appartenenza venne destinata.
Da parte di alcune ricostruzioni si è fatto riferimento a come gli italiani
fossero impiegati nella lotta antipartigiana, piuttosto che al fronte, come segno
della scarsa stima dei tedeschi143; ma in realtà le Waffen-SS furono impegnate sin
dal 1942, oltre che al fronte, nella guerra antipartigiana anche nell’Est e nei
Balcani144. Se certamente l’impiego prioritario della 29ª Waffen-GrenadierDivision der SS e della 24ª Waffen-Gebirgs-Karstjäger-Division der SS fu quello
della lotta antipartigiana, i volontari italiani, che come visto furono presenti in
diverse Divisioni delle Waffen-SS, combatterono pressoché su tutti gli scenari di
guerra.
Un aspetto militare da rilevare e che risulterà interessante nel prosieguo
dello studio, consiste nel fatto che inizialmente i volontari della 29ª WaffenGrenadier-Division der SS hanno in dotazione sull’uniforme mostrine di color
rosso, piuttosto che le nere tipiche delle Waffen-SS. Ciò perché in un primo
momento Himmler considerò la Divisione italiana come una formazione ausiliaria delle Waffen-SS che solo dimostrando il proprio valore in battaglia avrebbe
potuto porsi al pari delle altre legioni europee: ancora era forte l’amarezza
tedesca per le vicende dell’8 settembre 1943. Fatto che avviene in data 20 maggio
1944, in seguito al valore dimostrato sul fronte di Anzio, quando alla Brigata
italiana viene assegnata la denominazione ufficiale di Waffen-Grenadier-Brigade
der SS con l’adozione delle mostrine nere145. La vicenda delle mostrine rosse
riguarda però esclusivamente la storia della 29ª Waffen-Grenadier-Division der
SS, perché i volontari italiani arruolatisi nelle altre divisioni adottarono da
subito le mostrine nere.
Nel presente studio i volontari italiani intervistati o le cui storie sono state
ricostruite hanno differente provenienza regionale e si è ritenuto utile includere,
tra queste, anche il Sudtirolo. La decisione di includere un sottogruppo di
volontari sudtirolesi di lingua tedesca afferisce a un duplice ordine di motivi.
Il primo consiste nel fatto che la ricerca mira a tracciare un profilo dei
volontari italiani e, dunque, non può prescindere da coloro che, sebbene appartenenti alla minoranza germanofona e costretti a far parte della nazione italiana,
in seguito alle vicende della prima guerra mondiale, risiedevano all’epoca in
Italia. La situazione dei volontari sudtirolesi è complicata dalla questione delle
opzioni, ossia dall’accordo raggiunto a Berlino in data 23 giugno 1939, nella sede
del Comando Generale delle SS, tra la delegazione tedesca e italiana, secondo il
143
Lazzero 1982: 11. Lo scetticismo tedesco riguardò soprattutto la costituzione di un esercito
della RSI e affondava le sue radici nella paura del tradimento, nella paura che si ripetessero
situazioni come quella dell’8 settembre 1943, si guardava invece con favore all’arruolamento dei
volontari più motivati e preparati dal punto di vista militare nelle fila delle Waffen-SS (De Felice
1998: 437-441).
144
Ripley 2004: 83.
145
Sparacino 1996: 48-56; Corbatti e Nava 2001: 133-136; 29° Divisione Waffen SS italiane,
APCP Sez. 30/6, p. 1, Reg. 117.
26
quale i cittadini del Reich, germanici ed ex austriaci, residenti in Sudtirolo
sarebbero stati coattivamente richiamati oltre Brennero, e ai cittadini italiani di
lingua e etnia tedesca delle Province di Bolzano, Trento, Belluno e Udine sarebbe
stata offerta la possibilità di optare tra la conservazione della cittadinanza
italiana, col diritto di rimanere nelle loro sedi storiche, o l’acquisizione della
cittadinanza tedesca con l’obbligo di trasferirsi nel Reich146.
Nel 1940 si verificò il primo esodo di cittadini tedeschi e di sudtirolesi dall’Alto
Adige - Sudtirolo al Reich, ma la guerra bloccò il progetto creando una situazione
per la quale cittadini sudtirolesi che sulla carta avevano optato per il Reich
restarono comunque in territorio italiano. In alcuni casi le famiglie si divisero e
a trasferirsi fu un solo membro della famiglia, perché l’altro restava in loco per
gestire le proprietà. La questione della nazionalità per alcuni sudtirolesi si
complicò con strascichi che arrivano sino ai giorni nostri, come nel caso, ad
esempio, della famiglia Tappeiner nella quale due fratelli gemelli hanno l’uno
nazionalità tedesca e l’altro italiana147.
La scelta della nazionalità veniva, inoltre, effettuata dalla famiglia e i figli,
alcuni dei quali saranno soldati delle Waffen-SS, potevano solo accettarne le
conseguenze. Si è deciso, pertanto, di includere nello studio i volontari sudtirolesi
che all’epoca degli eventi si trovavano in territorio italiano e la cui situazione di
cittadinanza era a cavallo tra i due Paesi dell’Asse. Si tratta di persone che si
presentarono come volontari o che, richiamate per la leva dalla Germania,
scelsero e/o preferirono militare nelle Waffen-SS piuttosto che in altri corpi
dell’esercito tedesco.
Un ulteriore motivo, per il quale sono inclusi nello studio anche i volontari
sudtirolesi, riguarda un confronto delle motivazioni di arruolamento tra questi
volontari, che avendo subito una italianizzazione violenta e un’oppressione
linguistica e sociale da parte del fascismo148 ad esso erano probabilmente avversi,
e quelli italiani di altra provenienza regionale che, invece, dovrebbero mostrare
forte adesione al fascismo. È interessante comprendere come l’esperienza di
volontariato nelle Waffen-SS fu vissuta dalle due componenti, l’italiana e la
sudtirolese, che la politica di nazionalizzazione attuata dal fascismo in Sudtirolo
146
Corsini e Lill 1988: 290.
Intervista del 17 ottobre 2009 a Josef e Hans Tappeiner. Hans racconta come il padre,
«Josef, era con l’esercito tedesco mentre uno dei suoi fratellastri con l’italiano e sebbene la
famiglia di Josef avesse scelto la Germania, il padre si era effettivamente trasferito in Austria
mentre la madre era rimasta per badare alla terra e siccome il processo di sistemazione in
Germania era complicato il processo di spostamento si è fermato». Hans Tappeiner racconta
anche come suo padre abbia tentato di riavere la nazionalità italiana, la scelta era stata fatta dai
suoi genitori, ma l’Italia l’abbia sempre respinta probabilmente per la sua attività con gli
Schützen. Racconta Hans: «Ci fu una grande festa degli Schützen nel ’59 e lo chiamarono a
dirigere la compagnia. La sua Croce di Ferro in oro che ricevette a Budapest per aver distrutto
i carri armati russi l’aveva conservata. Ci fu una gran discussione in famiglia se mettere le
medaglie o no. Noi volevamo acquisire la cittadinanza italiana, lui non aveva optato per quella
tedesca, ma i suoi genitori si. Allora bisognava dare disdetta dai tedeschi che la cedevano e per
tanti anni noi non esistevamo, né tedeschi né italiani, e con il suo coinvolgimento con gli Schützen
non gliela diedero quella italiana. L’Italia lo ha sempre respinto e allora abbiamo ripreso la
tedesca, io compreso, ma ho due fratelli gemelli dei quali uno italiano e uno tedesco, c’è ancora
confusione».
148
Corsini e Lill 1988: 94-96.
147
27
avrebbe potuto porre su fronti politici opposti nello scenario nazionale, ma che si
ritrovarono, invece, a vestire la medesima uniforme.
LE WAFFEN-SS ITALIANE NELLA STORIOGRAFIA
E NEI MEDIA NAZIONALI
Gli anni della guerra civile come oggetto di studio
L’intero periodo storico all’interno del quale prende corpo il fenomeno dei
volontari italiani nelle Waffen-SS è uno dei più controversi e a tutt’oggi dibattuti
della storia nazionale. Per quanto concerne gli eventi del 25 luglio 1943 e dell’8
settembre dello stesso anno, che vedono la deposizione di Mussolini ed il nuovo
Governo Badoglio siglare l’armistizio col nemico angloamericano e poi cambiare
fronte di guerra tradendo l’alleanza coi tedeschi149, si è in presenza di una
storiografia e di una cultura volte non a ricostruire e capire la realtà e la
drammaticità di quei mesi, ma a riportare tutto a una schematica contrapposizione in bianco e nero che ha finito per giudicare incomprensibili e aberranti le
reazioni e i comportamenti di coloro che provarono simpatie o aderirono alla
Repubblica Sociale Italiana150.
La guerra civile che seguì il cambio di fronte italiano ed insanguinò le regioni
sotto controllo della RSI divise profondamente gli italiani e scavò solchi d’odio,
condizionando poi pesantemente per decenni la vita italiana e la storiografia
nazionale, tanto che di guerra civile parlarono per lungo tempo soprattutto i
fascisti151, mentre fermissimi nel negarla furono soprattutto i comunisti, per i
149
L’armistizio dell’Italia dell’8 settembre 1943 comportò molti problemi per l’Alto Comando
tedesco. Il più importante riguardava la porzione di territorio da difendere, vale a dire in quale
punto dovesse essere arrestata l’offensiva Alleata. Gli sbarchi sulla punta dello Stivale ed a
Salerno, uniti alle rapide avanzate successive, portarono alla caduta di grandi basi aeree come
Foggia. Tutto ciò lasciò l’OKW con il doppio compito di proteggere la Pianura Padana, di vitale
importanza politica, economica e militare, e la regione di Roma per la sua rilevanza politica
(Lagomarsino e Lombardi 2004: 7). Erich Priebke, a proposito dell’8 settembre, scrive nella sua
autobiografia: «Certamente Kappler, anche tenuto conto di come il Re aveva tradito Mussolini,
non si sentiva del tutto tranquillo, ma ancora una volta mai ci saremmo aspettati una simile
pugnalata alle spalle» (Priebke 2003: 82). In un colloquio avvenuto in data 15 ottobre 2009,
Priebke descrive il suo stato d’animo successivo all’8 settembre, che è utile riportare per avere
un punto di vista tedesco sulla vicenda: «Avevamo buoni rapporti con gli italiani che sono rimasti
fedeli dopo l’8 settembre, ma è stata una cosa tristissima, ieri eravamo amici e oggi siamo nemici,
era terribile, anche per gli italiani che portavano la divisa. Non avevo molti rapporti continui con
l’esercito, ma i rapporti con gli italiani rimasti amici furono sempre molto buoni, quello che
accadde l’8 settembre fu difficile e triste per coloro che portavano la divisa italiana e vollero
continuare a combattere. Ma gli italiani hanno mentito tante volte a Mussolini, come per gli aerei
che gli facevano vedere e erano sempre gli stessi, o come a Napoli quando per la visita di Hitler
fecero salire in superficie cento sottomarini, e io dicevo “ma che bello!”, ma in realtà erano vecchi
e anche il maresciallo italiano aveva paura perché erano vecchi. Quello che mi fece tristezza è che
eravamo due nazioni sulla medesima strada e poi ci troviamo nemici, ma è stato terribile per
l’Italia, perché in Germania si è evitato uno scontro tra fratelli che invece in Italia è avvenuto».
150
Littlejohn 1987: 237-249; De Felice 1996: 1366-1367.
151
Pisanò 1965.
28
quali la Resistenza doveva essere descritta come una guerra di liberazione
nazionale contro il tedesco invasore e per i quali ai fascisti doveva essere negata
ogni autonomia152, ogni ideale ed ogni rappresentatività, riducendoli a meri
traditori prezzolati e senza principi.153
Nel 1983 De Felice fa notare come il fascismo fosse in Italia un fenomeno
storico ancora scarsamente studiato con criteri scientifici e gli studi non italiani,
non condizionati da preconcetti e preoccupazioni di ordine politico-ideologico,
fossero più avanzati di quelli nazionali.154 In Italia si era diffuso un uso
propagandistico e di polemica politica dell’aggettivo “fascista”, con un utilizzo
indiscriminato e distorcente155, che a livello storiografico trovava riscontro anche
in ricostruzioni che ancora negli anni Settanta offrivano una versione se non
ancora demonologica, certo largamente ideologico-politica156 e, talvolta, impegnata a ridurre il fascismo ai suoi aspetti più grotteschi157. Prevaleva cioè la
visione utilizzata dalla sinistra che presentava il fascismo come male permanente della società158.
Se agli inizi degli anni Ottanta De Felice affermava che il dibattito e la
riconsiderazione del problema storico del fascismo si trovavano in un punto
particolare che poteva essere decisivo per il futuro, potendosi tradurre o in una
posizione di stallo o in un ulteriore sviluppo su basi in buona parte nuove159, la
caduta del muro di Berlino e il terminare della guerra fredda facevano propendere per la seconda ipotesi.
Nel 1991 viene pubblicato, durante quella che lo stesso autore definisce, nella
prefazione alla successiva edizione del 1994, “una fase di transizione” del discorso
sulla Resistenza, il saggio storico di Claudio Pavone: Una guerra civile. Lo studio
presenta aspetti di forte innovazione per quanto concerne la ricostruzione storica
delle dinamiche che costituiscono e attraversano la storiografia resistenziale, ma
resta ancorato ad interpretazioni talvolta frettolose; lo storico stesso ammette di
essersi occupato dei fascisti “più sbrigativamente”160, e spesso improntate ad un
giudizio morale dei vinti della guerra civile. Partendo da queste ultime si nota
come nello studio di Pavone il volontariato militare a favore della RSI sia
interpretato come “fuga da un momento della verità” che per queste persone
avrebbe rappresentato, secondo l’autore, una “prospettiva paurosa”161 rimossa in
152
In realtà sia formalmente sia effettivamente la Repubblica Sociale Italiana (RSI),
diversamente dalla Francia e da tutti i paesi sottomessi all’amministrazione e controllo tedeschi,
non fu un regime collaborazionista, ma alleato della Germania e, data l’esistenza di un governo
e di un’amministrazione propria ebbe una parziale possibilità di azione autonoma (Klinkhammer
1993; De Felice 1998).
153
De Felice 1998: 64.
154
De Felice 2005, Prefazione 1983: VIII-XI.
155
Tarchi 2003: 11; De Felice 2005: 17.
156
De Felice 2005, Prefazione 1983: X.
157
Guerri 1995: 3; De Felice 2005: 228.
158
Romano 1997: XI.
159
De Felice 2005, Prefazione 1983: X.
160
Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: IX e XV. Gran parte delle considerazioni
innovative che il Pavone formula sullo stato dell’arte della storiografia italiana che si interessa
al fenomeno del fascismo e della Resistenza sono contenute proprio nella prefazione all’edizione
del 1994.
161
Pavone 2009: 60.
29
nome di una “meccanica continuità col passato”162.
Le istanze sociali che animarono la RSI, e che saranno in parte oggetto del
presente studio quando condivise dai volontari italiani nelle Waffen-SS, vengono
sbrigativamente archiviate nella definizione di “sinistrismo fascista interpretato
soprattutto come manganello e violenza”163, senza tentativo alcuno di ricostruzione storiografica, ideologica o politica di dette istanze bollate come demagogiche164.
Gli studi italiani sull’interpretazione del fascismo si sono spesso focalizzati
su una analisi di esso legata ad interpretazioni di classe ed in particolare
concentrandosi sulla relazione tra fascismo e borghesia165, atteggiamento che ha
portato ad accogliere in modo polemico contributi scientifici innovativi come
quelli di Sternhell166 che, classificando il fascismo come “terza via tra liberalismo
e socialismo marxista”167, coglie le radici di sinistra, sociali, dei primi movimenti
fascisti. Ancora oggi è difficile sostenere, nel quadro storiografico italiano, che il
fascismo rappresenti “una ideologia che ha tentato di forgiare una rinascita
sociale basata su una Terza Via olistica, nazionale e radicale”168.
Anche nella descrizione dell’esercito e delle milizie della RSI prevale un tono
retorico e denigratorio che spinge Pavone a definirle come “bande raccogliticce in
cerca di avventura e di bottino”; ciò porta lo storico, che pur riconosce la rilevante
esistenza di una violenza partigiana, ad affermare che la presenza di crudeli e
sadici si annovera “in misura senza confronto superiore” nello schieramento
fascista dotato, secondo la sua interpretazione, di strutture culturali “più adatte
delle altre a selezionare i crudeli e i sadici e a far emergere con tutta evidenza al
livello dei comportamenti politicamente rilevanti le più oscure pulsioni dell’animo umano”169.
Per quanto concerne i volontari nella RSI, toni sovrapponibili attraversano
la maggioranza della storiografia italiana e nella ricostruzione di Silvio Bertoldi,
ad esempio, agli aderenti alla Repubblica Sociale viene negato anche un credo,
persino quello fascista, quando l’autore afferma che i tedeschi “finiscono con
162
Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: IX. Per una breve panoramica di dette
motivazioni: De Felice 1998: 128-133.
163
Pavone 2009: 243. In realtà tematiche come socializzazione, anticapitalismo, lotta contro
le plutocrazie portarono alcuni aderenti alla RSI a parlare di “tendenze comunistoidi” (De Felice
1998: 348-349, 402, 404-407).
164
Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: IX.
165
De Felice 2005: 253-277.
166
La mancata attenzione e le polemiche generate in Italia dagli studi di Sternhell sono
descritti da Marco Tarchi (2003: 11).
167
Sternhell 1983, 1993 e 1997. La situazione storiografica italiana rende difficile il
recepimento di contributi come quelli di Sternhell che considera il fascismo una terza via ed “una
forza di rottura, capace di partire all’assalto dell’ordine costituito e di porsi in diretta concorrenza
con il marxismo nel tentativo di procacciarsi il favore tanto degli intellettuali quanto delle masse”
ed “il prodotto di una sintesi tra nazionalismo organico e la revisione antimaterialistica del
marxismo [...] portatrice di un messaggio rivoluzionario fondato sul rifiuto dell’individualismo,
marxista o liberale che sia”. Sempre secondo Sternhell il fascismo “è irriducibile, come vorrebbe
invece l’interpretazione marxista classica, ad una semplice reazione antiproletaria, che interverrebbe ad un determinato stadio del capitalismo in fase declinante” (Sternhell 1993: 10-14).
168
Eatwell 2006: 132.
169
Pavone 2009: 235 e 427.
30
l’utilizzarli nelle operazioni contri i partigiani170 e allora questi ragazzi si trovano
di fronte altri italiani come loro, e gli viene l’orrore del fascismo e della guerra
fratricida. Anche perché dall’altra parte sta gente che crede davvero in qualcosa
e combatte davvero per qualcosa”171.
In Una guerra civile emergono però, oltre ad elementi di conservazione,
anche spunti di forte innovazione storiografica per quanto concerne, ad esempio,
la ricostruzione delle controrappresaglie partigiane, fino ad allora poco trattate
dalla storiografia resistenziale, a danno non solo di militari fascisti e tedeschi, ma
anche delle “autorità civili” e dei “funzionari fascisti traditori”, secondo una
pianificazione che prevedeva un criterio variabile di fascisti da fucilare per ogni
partigiano ucciso che arriva sino a dieci172.
Nonostante il Pavone affermi la necessità di guardare alle controrappresaglie attuate dalla Resistenza sotto l’ottica “delle rappresaglie e delle violenze
evitate [ossia delle violenze e delle rappresaglie che i tedeschi non avrebbero
effettuato] per paura delle controrappresaglie partigiane”173, il porre alla luce
l’argomento apre uno squarcio su come le modalità operative della Resistenza si
sovrappongono in questo caso a quelle tedesche. Ciò aggiunge informazioni
importanti alle probabili ragioni per cui le azioni partigiane talvolta causano
nelle popolazioni locali avversione al movimento resistenziale stesso174, e evidenzia come a tutti gli effetti, il movimento partigiano contribuì alla spirale di
violenza che, partendo dalle imboscate partigiane175, trovando risposta nelle
rappresaglie tedesche e continuando nelle controrappresaglie partigiane, insanguinò il Paese.
Oltre a portare all’attenzione della storiografia altri eventi spesso taciuti
sulla Resistenza, come, ad esempio, l’obbligo decretato dal CLNAI176, in data 4
dicembre 1944, di un’imposta straordinaria di guerra alla quale erano obbligate
ad assoggettarsi “tutte le persone e gli enti facoltosi” per non essere considerati
“come traditori della causa nazionale” ed essere “deferiti agli organi di giustizia
dei patrioti per un’esemplare applicazione nei loro confronti di quelle sanzioni
punitive che gli organi stessi riterranno del caso”177, lo studio di Pavone, e
soprattutto la sua prefazione dell’edizione del 1994, offre una coraggiosa ricostruzione delle ragioni di una storiografia nazionale restia ad innovazioni
storiografiche e ancorata a ricostruzioni agiografiche improntate ad una visione
in bianco e nero della storia: da un lato il bene, incarnato dai partigiani buoni,
170
L’utilizzo contro la guerriglia partigiana, che nell’intento dell’autore rappresenta chiaramente un segno di disistima dei tedeschi verso i volontari italiani, è invece uno dei tanti compiti
di guerra che furono assegnati alle Waffen-SS, anche quelle di nazionalità tedesca, sin dalla
guerra contro l’Unione Sovietica, quando le Waffen-SS furono impiegate anche nei grandi sforzi
in atto contro i partigiani sul fronte dell’Est (Shepherd 2004: 115).
171
Bertoldi 1976: 94.
172
Pavone 2009: 488-492.
173
Pavone 2009: 492.
174
Trupiano 2008: 10; Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: XV-XVI.
175
Secondo Pavone vi è nella Resistenza la convinzione che conviene attaccare il nemico senza
preoccuparsi delle rappresaglie, che in definitiva sempre si ritorcono sullo stesso nemico (Pavone
2009: 427 e 480).
176
CLNAI: Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia.
177
Pavone 2009: 463.
31
dall’altro il torto, il male, rappresentato dai nazifascisti assetati di sangue178.
Secondo Pavone a creare questa immagine “apologetica, levigata e rassicurante”179 della Resistenza contribuiscono diverse motivazioni. In primis il fatto
che gli studi su questa epoca della storia nazionale “avevano progredito ad opera
specialmente dell’ampia rete di istituti facenti capo all’Istituto nazionale per la
storia del movimento di liberazione in Italia” e con “ricerche specialistiche, legate
il più delle volte alle tradizioni dei singoli partiti antifascisti”, ragione per la quale
egli colloca il suo studio nell’alveo di una necessaria “ricerca critica” coincidente
temporalmente con i grandi eventi internazionali e italiani, la caduta del muro
di Berlino e la crisi dei partiti politici italiani legata a tangentopoli, che portano
ad un processo di revisione e di rimescolamento delle posizioni ideali e politiche180.
Di fronte ad un principio di revisione storica messo in atto da alcuni studiosi,
la storiografia della Resistenza, “prevalentemente politica” nel senso che vede
“nelle linee dei partiti gli unici agenti della storia”, si traduce, secondo Pavone,
in “un arroccamento da parte dei difensori della Resistenza che, colti alla
sprovvista, si sentono turbati e offesi” e soprattutto temono di vedere indebolito
il concetto della Repubblica nata dalla Resistenza181. Tale indebolimento rischierebbe, infatti, di compromettere il ruolo che il fenomeno resistenziale ha sempre
più assunto, ossia quello “di legittimazione dell’intero sistema politico repubblicano”182.
Lo spiraglio di una storiografia meno politicizzata e meno asservita all’interesse partitico viene però costantemente chiuso da ricostruzioni che continuano
a negare persino la definizione di guerra civile per un periodo che innegabilmente
vide fronteggiarsi e uccidersi italiani, con una linea di separazione tra i due
schieramenti che si combattevano che, come fa notare Aurelio Lepre, era passata
talvolta all’interno delle stesse famiglie183.
Ciò avviene, ad esempio, nel caso dello studio di Sergio Cotta che vede nella
definizione di guerra civile due pericoli principali: quello che tale definizione,
piuttosto che quella di guerra di liberazione, comporti la trasformazione del
vissuto di quegli anni da una esperienza positiva (di resistenza e di liberazione)
ad una negativa (di fratricidio e/o disfacimento) col rischio che quella esperienza
178
Già De Rosa (1959: 26) aveva sottolineato la “necessità di scrivere storia senza spartire
ragioni e torti a destra e a manca e secondo una sensibilità politica di molto superiore agli eventi
che si studiano”. Sarà De Felice (1996: 1366-1367) a evidenziare la complessità dei comportamenti che il disorientamento per la liquidazione di Mussolini e per gli avvenimenti dell’8 settembre
1943 determinò negli italiani. Comportamenti che secondo il De Felice “una storiografia e una
cultura volte non a ricostruire e capire la realtà e la drammaticità di quei mesi, ma a riportare
tutto a una schematica contrapposizione in bianco e nero, hanno finito per rendere incomprensibili ed aberranti, mentre invece si trattò di manifestazioni di uno stato d’animo che [...] era più
diffuso di quanto si creda”. Tanto che non sarebbe mancato chi, come nel caso emblematico di
Cesare Pavese, citato dal De Felice, “deluso dal comportamento del governo Badoglio, della
monarchia e degli stessi antifascisti, avrebbe finito, almeno in un primo momento, per aggrapparsi alle ipotesi meno credibili e, in certi casi, meno in sintonia con le proprie iniziali premesse
e persino per manifestare simpatie per la RSI, sperando che essa potesse costituire un fatto
positivo, di dignità, di rinnovamento, di responsabilità nazionali”.
179
Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: IX.
180
Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: IX-X.
181
Pavone 2009, Prefazione all’edizione 1994: XI-XIV.
182
Pavone 2009, Premessa: XIX.
183
Lepre 1999: 5.
32
non sia mantenuta viva nella coscienza nazionale e venga, invece, consegnata
all’oblio o superata nella riconciliazione; e, secondo, che avvenga un processo che,
non considerando i fascisti come indegni della comunità nazionale e riconoscendo
il loro impegno politico e combattentistico, parifichi fascismo di Salò e Resistenza184.
In questo intento Sergio Cotta giunge a negare la presenza di una situazione
di guerra civile in base ad assunti di carattere politico e di giudizio morale, più
che di ricostruzione storica, incentrati sulla descrizione della RSI come governo
fantoccio di creazione hitleriana che non riesce a darsi un esercito, priva di
adesione popolare, priva di ideologia propria e priva di una élite in grado di
conferirgli una qualche dignità culturale185; affermazioni che propongono visioni
che, più che storiografiche, sembrano affondare le loro radici nella politicizzazione della storiografia.
Che la RSI, data l’esistenza di un governo e di una amministrazione propria,
cosa diversa da una situazione di collaborazionismo, ebbe possibilità di azione
autonoma è stato dimostrato e sostenuto da Klinkhammer e De Felice186. Quanto
all’esercito proprio, la RSI, nel quadro di un sentito dibattito interno tra i
propugnatori di un esercito politico di volontari ed i sostenitori di un esercito
nazionale apolitico che ricorresse alla leva187, lo ebbe e lo schierò a fianco dei
tedeschi sino al termine della guerra188.
L’adesione popolare alla RSI si tradusse, inoltre, in un afflusso di volontari
ed in uno spontaneismo militante già a partire dal 25 luglio 1943, e volendo
guardare a confronto la chiamata alle armi della RSI e del Regno del Sud, la
renitenza e le diserzioni furono numerose tanto a Nord quanto a Sud, con la
differenza che coloro che venivano richiamati alle armi dalla RSI avevano la
certezza o di essere inviati in Germania per l’addestramento o di essere subito
impiegati in operazioni belliche e di controguerriglia, mentre per quelli richiamati dal regio governo i rischi erano certamente minori189. Quanto alle affermazioni
di Sergio Cotta che vorrebbero la RSI priva di ideologia e di élite che le
conferissero una dignità culturale, basta, nel primo caso, citare l’acceso dibattito
politico che la animò su tematiche come quella della socializzazione delle
imprese190, il disegno di una terza via di socialismo nazionale anticapitalista ed
anticomunista e il superamento della nazione a vantaggio di una nuova concezione dell’Europa191; e nel secondo caso la presenza di figure, tra le altre, quali
quelle di Giovanni Gentile, Filippo Tommaso Marinetti, Nicola Bombacci,
Alessandro Pavolini e Renato Ricci.
Le recenti polemiche, relative agli studi di giornalismo storico condotti da
Giampaolo Pansa sulla guerra civile italiana e sui mesi segnati dalla resa dei
184
Cotta 1994: 17-19.
Cotta 1994: 21-22.
186
Klinkhammer 1993; De Felice 1998.
187
De Felice 1998: 423-470.
188
Per quanto concerne l’esercito della RSI: Pisanò 1967; Pansa 1969; Cavaterra 1987;
Bertoldi 1995; Rocco 1998; Arena 1999; Gagliani 1999; Arena 2000; Arena 2002.
189
De Felice 1998: 68, 99,106, 126, 128-133.
190
Sulla tematica della socializzazione delle imprese: Galanti 1949; Bonini 1993; Landolfi
1996; Magnanini 1996.
191
De Felice 1998: 348-349, 382, 404, 420, 483 e 540.
185
33
conti inflitta dai partigiani vittoriosi ai fascisti sconfitti192, dimostrano ancor più
come in Italia lo sviluppo di una storiografia scevra da condizionamenti politici
sia ben lungi dall’affermarsi193.
Gli studi sul periodo storico che interessa la presente ricerca sono ancora
spesso pesantemente influenzati da omissioni imposte dalla retorica sulla
Resistenza e da una egemonia culturale di sinistra che ha sempre dichiarato
intoccabili la Resistenza, l’antifascismo e lo scontro tra il movimento partigiano
e la RSI194. Il primo ordine di motivi che porta alla situazione storiografica attuale
è da Pansa attribuito all’influenza che una storiografia ideologizzata, basata
sulla divisione tra buoni e cattivi, ha sulla scelta delle fonti, che rappresentano
un elemento cardine di ogni ricerca: gli studi sul movimento di Liberazione sono
condotti, secondo una stima di Pansa, per il 95 per cento su fonti partigiane o
antifasciste e solo per il 5 per cento su fonti nemiche, senza possibilità di verifica
della documentazione partigiana e con la conseguenza di acuire il vizio di fondo
degli studi della Resistenza di produrre storia a senso unico e di dare voce solo ai
vincitori e negarla agli sconfitti195.
Ancora oggi permane una forte influenza storiografica da parte dell’Associazione nazionale partigiani (ANPI) e degli Istituti della storia della Resistenza che
si ergono a “sacerdoti di una religione impermeabile a qualsiasi revisione”196 e di
un ancora vigente “bigottismo storiografico”197.
Della presenza di “paralogismi ideologici” parla anche lo storico e politologo
Gian Enrico Rusconi, secondo il quale si assisterebbe, riguardo alla Resistenza,
ad un “progressivo logoramento anche da parte della storiografia tradizionale,
che rimanda alla depressione complessiva della cultura di sinistra e insieme a un
192
Pansa 2009a. Interessante è anche lo studio di Pasquale Chessa (2005). Sempre Pansa
(2009: 327) mette in risalto quanto fu tragica la guerra civile e quanto segnò la società italiana,
anche in virtù della pratica di fare sparire i corpi dei vinti senza rivelarne il luogo di sepoltura,
riportando le parole rivoltegli da una persona presente alla presentazione di una sua opera che
si espresse così: “Io non mi sento cittadino di serie A. Sono soltanto un cittadino di serie B. E sa
perché, dottor Pansa? Perché è da sessant’anni che cerco le ossa di mio padre e non le ho ancora
trovate”. Relativamente al fenomeno dei corpi dei vinti nascosti ai famigliari ho avuto modo di
ricostruire una storia in occasione di una intervista per la presente ricerca attraverso le parole
di Albarosa Tosi Malossi e di Fulvio Tosi, rispettivamente sorella e cugino di Vittorio Tosi
volontario italiano nelle Waffen-SS ucciso dai partigiani, incontrati nell’agosto 2008. Racconta
Albarosa: «non fu facile ritrovare il corpo di mio fratello, non ci venne detto dove si trovava, mia
mamma era testarda ... voleva ritrovarlo e allora si recò più volte nella zona in cui sapeva che era
stato ucciso e chiese a molte persone. Riuscì a sapere dove era il corpo di Vittorio solo dopo undici
anni dalla morte e ... non so se si può dire ... pagando anche per sapere dove era sepolto ... avevamo
un negozio e uno di quelli che sapeva dove era il corpo era diventato sindaco e dovemmo pagare.
Quando sono stati riportati i resti in una piccola cassettina, dopo undici anni, nel 1955, con la
costanza della mia mamma ... lei scrisse la lapide “fu legionario senza macchia, eroe senza corona”
... ai funerali parteciparono tutti i suoi amici, i vecchi compagni di scuola, gente che ne ebbe
stima».
193
Cecchini (2003: 20-24) attacca duramente Pansa sul contenuto della sua pubblicazione ma
anche, nell’alveo della politicizzazione alla quale è stato soggetta la storiografia italiana, per
«aver scritto un libro di tal fatta proprio mentre nel Paese c’è il clima che c’è»; ancora oggi si
auspica, dunque, che la ricostruzione storica si pieghi all’interesse politico e partitico.
194
Pansa 2009: 7.
195
Pansa 2009: 101, 109 e 37; Pansa 2009a: XII.
196
Pansa 2009a: XII.
197
Pansa 2009: 237.
34
certo calo fisiologico dell’interesse”198, ciò però sembra configurarsi nell’attuale
quadro della ricerca in un pericoloso conservatorismo storiografico che assume i
tratti descritti da De Felice, Pavone e Pansa e che trova riscontro in una lettera
indirizzata dall’ANPI a Pansa stesso. In essa emerge con chiarezza sia come la
ricerca storica venga ancora vissuta come presa di posizione politica, sia l’uso di
toni classificabili come intimidatori da parte di chi si erge a custode della
Resistenza.
La Presidenza e Segreteria Nazionale ANPI scrivono rivolgendosi a Pansa:
“senza dubbio nell’Italia di allora poteva essere facile anche sbagliare. Ma
continuare a sbagliare a distanza di 60 anni è veramente insopportabile”199.
Alcuni autori, come De Luna, arrivano a giudicare il successo editoriale di Pansa
esemplare del fatto che il “revisionismo va incontro a una domanda del pubblico,
aderisce all’esistente ed è preoccupato solo dell’immediata attualità che garantisce il consumo dei suoi prodotti, concepisce la storia dal punto di vista della sua
fine, di un presente assoluto in cui il rapporto col passato è piegato alle leggi dello
spettacolo”200; si tratta, come verrà esposto in dettaglio nella sezione metodologica del presente studio, di una presa di posizione che appare strumentale
mirando a discreditare gli studi che si allontanano dal conformismo storiografico,
perché in realtà l’uso di nuove fonti fino ad oggi trascurate impone un’opera di
revisione storica che può divenire attività di giustizia sociale quando gli outsiders
e i membri periferici della società vengono inclusi in progetti di ricerca201.
Quanto affermato da Pavone, riguardo la paura che l’indebolimento della
Resistenza possa acuire quello dei partiti e delle istituzioni che su essa hanno
fondato la propria legittimazione, trova conferma nella polemica a mezzo stampa
che nel 2002 si è verificata tra il Presidente della Repubblica Ciampi e lo storico
Galli della Loggia.
Ciampi nel suo intervento critica l’iniziativa del Comune di Trieste di
celebrare insieme due eventi, peraltro intimamente collegati alla guerra civile,
come quello della liberazione e quello delle vittime delle foibe202 e giudica “un
improponibile revisionismo” quello che intacca la Resistenza che fu, a suo avviso,
frutto di una “reazione spontanea e largamente diffusa203” e i cui valori sono le
fondamenta non solo della Costituzione italiana ma anche dell’Unione Euro-
198
Trocini s.d..
Presidenza e Segreteria Nazionale ANPI 2003: 25.
200
De Luna 2004: 87. Il De Luna, con un ribaltamento della realtà storiografica dominante
in Italia, assoggettata alla politicizzazione evidenziata non solo da Pansa, ma come esposto anche
da De Felice e Pavone, giunge ad affermare che “il revisionismo storiografico insegue obiettivi
immediati, tutti dichiaratamente politici, sui quali modella le proprie priorità nella trasmissione
della conoscenza storica” (De Luna 2004: 76).
201
Janesick 2007: 116.
202
Belardelli 2002; La Stampa 2002.
203
De Felice (1998: 275-297) mette in evidenza come in realtà la maggioranza degli italiani
ebbe un atteggiamento di sostanziale estraneità e di rifiuto rispetto sia alla RSI sia alla
Resistenza e “quelli che effettivamente si schierarono in un modo o in un altro con la resistenza
[...] furono meno di quanti la retorica resistenziale ha voluto far apparire, mentre a costituire la
maggioranza fu sino alla fine [...] una grande zona grigia composta da coloro che si sforzavano di
sopravvivere tra gli uni e gli altri”. Ciò trova riscontro, ad esempio, nell’autobiografia di Carlo
Mazzantini (2005: 57) che mette in evidenza come la logica dominante della situazione fosse
quella del “Ma fatti furbo... Ma questo crede ancora alla Befana!”.
199
35
pea204. Nel far ciò egli prosegue criticando anche gli storici e i politologi, come De
Felice e Galli della Loggia, che identificano nell’8 settembre 1943 l’incipit della
morte della patria ed afferma di non comprendere “perché indicano nell’8
settembre la data di questo lutto senza ritorno”205.
Nel quadro di analisi dello stato in cui verte in Italia la ricerca storica sul
periodo inerente il presente studio, è importante riportare la condivisibile replica
di Galli della Loggia che scrive apertamente a Ciampi: “non avrei mai immaginato, signor presidente, di essere costretto, un giorno, a dover discutere i risultati
della mia ricerca con il capo dello Stato, di dover rendere conto a lui di quei
medesimi risultati; di doverli difendere dalle critiche della più alta carica politica
del mio Paese. Ho sempre pensato e continuo a pensare, all’opposto, che in una
democrazia non è compito dei politici – in specie di chi vi copre importanti ruoli
istituzionali – dire la propria nel merito di complessi problemi storiografici, né
tanto meno esprimere le proprie personali preferenze per questa o quella
interpretazione del passato: con l’eventuale, ma a quel punto logicamente
inevitabile, conseguenza di censurare, di fatto, i libri e i manuali che le divulgano”206.
La storiografia nazionale sui volontari italiani nelle Waffen-SS
Focalizzando l’attenzione, nel quadro storiografico sopra ricostruito, sullo
stato della ricerca storica nazionale riguardante specificatamente i volontari
italiani nelle Waffen-SS, la situazione si presenta povera di studi scientifici e
caratterizzata da un quadro di forte ideologizzazione. Prendendo in esame i
contributi monografici sull’argomento è importante citare, innanzitutto, due
importanti monografie di Sergio Corbatti e Marco Nava, che attraverso l’uso di
fonti orali e di archivio ricostruiscono la storia militare di due divisioni nelle quali
i volontari italiani furono numerosi, la 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS207
204
La Stampa 2002. Sull’8 settembre 1943 sono spesso prevalse “verità addomesticate” con
ampi strati dell’esercito e delle istituzioni che preferivano “si rimanesse muti o reticenti su talune
sfere di responsabilità», ma, nonostante ciò, è evidente che quegli eventi possono essere a tutti
gli effetti classificati, all’interno della storia nazionale, come la «catastrofe dell’8 settembre 1943"
e quella data può essere considerata come “uno dei giorni più bui della nostra storia recente”
(Musco 1976: 9-13).
205
I toni contro la teoria della morte della patria ed il suo inizio collocabile all’8 settembre
1943 si erano peraltro ampiamente accesi ad opera degli ambienti della conservazione storiografica con un uso di termini e frasi che vanno al di fuori di quelli propri di un civile dibattito storico,
come nel caso di Vander (2001: 11) che si scaglia contro quello che egli definisce “laido
revisionismo dei giorni nostri che considera patriottico il fascismo, sicché la patria sarebbe morta
con e dopo l’8 settembre 1943". Lo stesso autore riprende una tesi superata a livello storiografico
come quella di Costanzo Casucci che asserisce il “carattere non nazionale e antitaliano del
fascismo” mentre al contrario “l’antifascismo [...] ha una giusta visione della nazione che può
permettere di comprendere qual è il compito dell’Italia, la nostra vocazione nazionale” (Vander
2001: 11).
206
Ciampi 2001; Galli della Loggia 2001.
207
Corbatti e Nava 2001. In questa ricerca, pur emergendo talvolta toni che denotano una
certa partecipazione e simpatia degli autori per i volontari, non prevale comunque la forma
apologetica.
36
e la 24ª Waffen-Gebirgs-Karstjäger-Division der SS 208.
I due studi prendono in esame principalmente la ricostruzione delle operazioni militari, con ricostruzioni dettagliate delle operazioni corredate da consistenti apparati fotografici. Il primo studio, Sentire-Pensare-Volere, pur presentando un uso delle note di rimando alle fonti consultate che sarebbe potuto essere
più ampio, appare indispensabile per chi voglia conoscere le azioni in cui parte
dei volontari italiani trovarono impiego e lo stesso dicasi, in questo caso con un
più consono uso di rimandi bibliografici, per Karstjäger, che ricostruisce le azioni
della divisione operante al confine orientale italiano. L’obiettivo di tali ricerche
mira a ricostruire la storia militare e pertanto soltanto nella prima opera, nella
prefazione a cura di Pio Filippani Ronconi, si fa breve riferimento alle motivazioni che, secondo il noto orientalista già volontario in quel corpo, spinsero alcuni
nostri connazionali a quella scelta209.
Un’altra ricerca recente ed interessante è quella di Luca Valente, che
ricostruisce le operazioni militari del SS-Wehrgeologen-Bataillon 500 del quale
fecero parte, dopo l’8 settembre 1943, circa 200 italiani210. Anche questo studio,
pur tracciando il profilo di alcuni volontari, si concentra principalmente sulla
ricostruzione delle operazioni militari del battaglione ed in questo quadro tratta
il rapporto che questi militari intrattennero con la popolazione locale, le regole
comportamentali dei militari, le origini delle rappresaglie, i legami affettivi tra
i volontari e le ragazze del luogo e non ultimo il passaggio di alcuni partigiani alle
Waffen-SS. Gli studi finora esaminati sono quelli che, pur nel loro obiettivo
afferente alla ricostruzione della storia militare e pertanto differente da quello
della presente ricerca, si sono rivelati utili per la comprensione delle azioni
compiute dai volontari italiani e per un inquadramento temporale e militare
degli eventi.
Altri studi monografici sull’argomento che sono stati consultati mostrano, al
contrario dei precedenti, i vizi tipici della storiografia politicizzata che adopera
chiavi di lettura più riconducibili al giudizio morale che al metodo storico e una
certa fretta di giungere a conclusioni che appaiono già disegnate prima che la
ricerca prenda corso. Questo sia che la ricerca sia condotta da storici del filone
resistenziale sia da storici di impostazione neofascista o di destra radicale.
Tutti questi studi, sebbene con intensità diversa, presentano lacune a livello
di citazioni bibliografiche e rintracciabilità delle fonti, che li collocano spesso più
nello scritto politico-giornalistico che nella ricerca storica e sociale. Tra questi
studi figura quello che, pubblicato nel 1982, fino al 2001 è stato l’unico disponibile
come riferimento della storiografia sulle Waffen-SS italiane, Le SS italiane.
Storia dei 20.000 che giurarono fedeltà a Hitler211, evidenziando un ritardo della
ricerca su un fenomeno che per il nostro paese, come si evince dal titolo stesso di
questo studio, non era stato numericamente irrilevante. Lo studio di Ricciotti
Lazzero si interseca maggiormente con gli obiettivi della presente ricerca, e
nonostante il suo tono denigratorio fortemente politicizzato atto ad offrire una
visione demonologica del fascismo, e il mancato ricorso a fonti orali, che come
208
209
210
211
Corbatti e Nava 2005.
Corbatti e Nava 2001: 5-6.
Valente 2007.
Lazzero 1982.
37
auspicava De Felice, dessero voce ai vinti per studiarli e capirli212, può essere
preso a riferimento per un confronto con quelli che saranno i risultati del presente
studio, ciò soprattutto perché esso, come anticipato, per lungo tempo è stato
l’unica rappresentazione che la storiografia italiana ha dato dei volontari italiani
nelle Waffen-SS.
Nello studio di Lazzero i volontari italiani sono presentati sin dalle prime
pagine come persone che, insoddisfatte delle capacità militari dei capi fascisti, si
erano affidati alla guida dei nazisti213; come una accozzaglia di “idealisti, illusi,
fanatici, profittatori, gente in buona e malafede [...] altri che credevano in un
nuovo ordine europeo all’ombra della svastica e ne volevano essere i forgiatori,
e quindi in un certo momento i privilegiati”214; come soldati verso i quali i tedeschi
“si comportarono da padroni cinici, come avevano fatto i loro antenati durante le
invasioni barbariche”215; come una divisione incapace di combattere perché
nonostante i propositi “si è volatilizzata” all’impatto brutale della realtà bellica216. Spesso l’autore esprime giudizi sulle motivazioni di questi volontari, sul loro
profilo, sui loro valori senza che essi siano ricondotti ad alcuna fonte e traendoli
dalla generalizzata visione del fascismo come malattia morale217 che porta a
denigrare i vinti come male assoluto218.
Ancor più forte è questo atteggiamento denigratorio e di ritratto demonologico dei volontari italiani nelle Waffen-SS all’interno dello studio di Primo de
Lazzari219 che, già nell’introduzione a cura di Arrigo Boldrini, presenta, dopo una
interessante prima domanda sulle ragioni che spinsero questi giovani ad arruolarsi volontari nelle truppe della Germania nazista, una serie di successivi
interrogativi che contengono già risposte che attengono al giudizio morale e
politico, ma che nulla hanno a che vedere con il metodo storico.
Per chiarezza giova riportare di seguito gli interrogativi retorici citati: “Che
cosa animava e ipnotizzava gli uomini delle SS italiane se non una ideologia
maligna? Chi erano questi ventimila armati, organizzati da militari, fanatici e
agli ordini di ufficiali tedeschi, non pochi autopromossi sul campo con gradi
inesistenti e ammiratori del nazismo germanico? Che cosa li spingeva a combattere una guerra già persa tradendo di fatto e di diritto il proprio Paese?”220.
La ricostruzione storica dell’autore è improntata, infatti, ad un ferreo
dualismo che lo porta ad identificare sul teatro storico e di guerra due soli
contendenti, due soli attori della storia, mentre in realtà in quegli anni operarono
sul nostro territorio più eserciti con obiettivi e motivazioni differenti, e a
descriverli come la “parte giusta, della ragione portatrice di ideali di libertà, di
indipendenza nazionale inserita nel fronte delle nazioni democratiche e liberali”
che fronteggia la “parte sbagliata [...] negatrice di ogni libertà e democrazia”221.
212
213
214
215
216
217
218
219
220
221
38
De Felice 2005, Prefazione 1983: XXIV.
Lazzero 1982: 9.
Lazzero 1982: 11.
Lazzero 1982: 11.
Lazzero 1982: 259.
De Felice 2005: 29-41.
De Felice 2005, Prefazione 1983: XXIV.
de Lazzari 2002.
Boldrini 2002: 7-8.
de Lazzari 2002: 37.
La Resistenza viene presentata come un fenomeno unitario libertario, animato
da spirito nazionale e inserito nel fronte delle nazioni democratiche; fatto
documentalmente smentito da ricerche precedenti che evidenziano le differenti
anime della Resistenza e il ruolo della forte componente che era animata dal mito
dell’Unione Sovietica e di Stalin222, collegata al Partito comunista italiano (Pci)
che agiva in totale adesione a strategie politiche e operative concepite da
Mosca223.
Concentrando l’attenzione sulle ricostruzioni inerenti i volontari italiani
nelle Waffen-SS, il de Lazzari tende, in tutto il corso dello studio e nella sua
produzione di documenti, a mescolare invece fonti riguardanti altri corpi e
autorità della RSI che non erano correlati alle Waffen-SS italiane, in un
approccio di indagine che attribuisce ogni aspetto emergente a quella che viene
identificata come una unitaria e uniforme parte sbagliata. Addirittura identifica,
come già fatto dal Lazzero, ma dedicando ampio spazio alla vicenda, come
membri delle SS italiane Enrico Ferrero224 e alcuni membri del suo Battaglione
Davide225, che nel loro operare tra astuzie e ambiguità a cavallo tra Resistenza
e accordi con tedeschi226 e RSI finiranno prigionieri dei tedeschi quando questi si
accorgono dell’imminente passaggio nelle fila della Resistenza del battaglione227.
I membri del battaglione, composto da simpatizzanti partigiani, ex partigiani e avversari della RSI, viene internato nella Risiera di San Sabba ed il Ferrero
inviato a Dachau. Per aver salva la vita, alcune persone del battaglione228,
rivestite con divise kaki senza emblemi, accettano di svolgere il ruolo di guardie
esterne della Risiera229. Sebbene l’argomento necessiti una specifica ricerca, si è
provveduto a fare ulteriore chiarezza sugli eventi facendo ricorso alla memoria
di alcuni famigliari di queste guardie.
La sorella di uno di questi volontari, Andrea Tua Rivoli, ha confermato che
il fratello era partito «per arruolarsi coi partigiani e che un tradimento interno
li aveva fatti finire nelle mani dei tedeschi», e come egli «era andato a combattere
con i partigiani e perciò è per lui stato possibile tornare a casa libero, senza niente
da cambiarsi, perché non era andato volontario coi tedeschi»230.
222
Pavone 2009: 403-412.
De Felice 1998: 174-177.
224
de Lazzari 2002: 12.
225
Lazzero 1982: 77-80. Anche il Lazzero non chiarisce bene gli avvenimenti e le apparenze
e trasforma in Giovanni il comandante Davide che si chiama in realtà Enrico Ferrero (Ruzzi s.d.).
226
Trattative tra elementi delle SS e i partigiani risultano presenti anche in Veneto con lo
scopo di assicurare alla Germania l’appoggio di questi ultimi in caso di un’invasione angloamericana (Archivio Centrale di Stato – ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto RSI (1943 – 1945),
b. 45).
227
Scalpelli 1995: 75. Si tratta di uno strano battaglione in cui si incrociavano scelte e
dilemmi che molti giovani di allora dovettero affrontare, ed era ingrossato dall’afflusso di
renitenti alla leva di Salò. Formalmente appartenente alla RSI, in realtà la osteggia per la
presenza in esso di ex partigiani e avversari del fascismo repubblicano che causarono anche
incidenti con i militi della RSI. Il Ferrero attende il momento buono per passare definitivamente
ai partigiani, ma i tedeschi arrestano i membri del battaglione, li disarmano e internano nella
Risiera di San Sabba.
228
Un elenco dei nominativi è presente nelle seguenti pubblicazioni: Lazzero 1982: 377-380;
Pirina 2006: 488.
229
Scalpelli 1995: 75.
230
Intervista del 10 Settembre 2009 a Pierina Tua Rivoli, sorella di Andrea Tua Rivoli,
guardia presso San Sabba.
223
39
Paola Bottero, nipote di Oreste Culasso, guardia presso la Risiera di San
Sabba, scrive che suo nonno ed altri «si erano nascosti in collina dopo l’8
settembre per unirsi alle brigate partigiane» ma finirono traditi a San Sabba e
fa presente che non crede che «la definizione di volontario SS e di guardia possa
essere attribuita in nessuna maniera a queste persone che hanno lottato per
sopravvivere», anche perché suo nonno «stava male e gli veniva da piangere ogni
volta che se ne parlava»231. Dunque gli studi di de Lazzari e di Lazzero mostrano,
oltre una politicizzazione esasperata, una eccessiva approssimazione nell’assegnare una generica qualifica di SS232 col risultato di attribuirla a italiani che non
vestirono alcuna divisa e, vicini al movimento di Resistenza, si prestarono a
svolgere il ruolo di guardia della Risiera per aver salva la vita.
La pubblicazione più recente, del 2010, del giornalista Enzo Caniatti appare
piuttosto incoerente tra le sue premesse, che asseriscono voler difendere l’impostazione di Pansa, e la mancata produzione di nuove fonti che porta poi l’autore
a ricalcare l’impostazione degli studi di Lazzero e de Lazzari. I volontari italiani,
dei quali anche in questo caso non viene raccolta alcuna testimonianza, vengono
infatti descritti secondo un canone demonizzante come “psicopatici” e “bestie
assetate di sangue”. La pubblicazione incorre, inoltre, nei medesimi errori di
attribuzione del ruolo di volontario attribuibili agli studi di Lazzero e de Lazzari
e non apporta alcuna nuova informazione neppure a carattere militare233.
Altre monografie dedicate ai volontari italiani nelle Waffen-SS sono quella
a cura del periodico Ritterkreuz, con i contributi preponderanti di Massimiliano
Afiero234, e quella di Ernesto Zucconi235, che possono essere inquadrate in una
storiografia politicizzata di destra. Queste opere sono sprovviste di citazioni
accurate delle fonti ed hanno un forte tono apologetico, di segno opposto a quello
delle pubblicazioni precedentemente prese in esame, ma con i medesimi effetti:
la descrizione dei volontari italiani nelle Waffen-SS effettuata attraverso le lenti
dell’ideologia più che della ricerca storica.
La produzione di Massimiliano Afiero si incentra sui volontari stranieri nelle
Waffen-SS236, ed è subito chiara la partecipazione ideale dell’autore alle scelte dei
volontari, uno dei suoi volumi si apre con la dedica ai volontari stessi e con una
frase di Hitler237, fatto che non comprometterebbe la ricerca se condotta secondo
il metodo storico, ma che invece tale metodo non segue e finisce per giungere a
conclusioni tipiche dell’ambiente della destra radicale per quanto concerne i
231
Corrispondenza del 5 settembre 2009 con Paola Bottero, nipote di Oreste Culasso,
partigiano impiegato come guardia a San Sabba.
232
Sia il Lazzero sia il de Lazzari adoperano la generica qualifica di SS senza alcuna
distinzione tra Waffen-SS e Allgemeine-SS, Sicherheitsdietsdienst (SD, Servizio di sicurezza),
Sipo (Polizia di sicurezza), Gestapo (polizia politica) e Kripo (polizia criminale). Distinzione che,
come trattato in precedenza, è determinante per inquadrare i volontari nelle Waffen-SS e per
garantire la corretta interpretazione del fenomeno.
233
Caniatti 2010: 15, 159, 201, 209.
234
Afiero 2009 e 2009a.
235
Zucconi 1995.
236
Afiero 2001; 2001b; 2003; 2004; 2006; 2007; 2007b; 2008, 2009; 2009a.
237
La dedica dell’autore è «Ai soldati italiani che si batterono al fianco dei tedeschi durante
la Seconda Guerra Mondiale» e la frase attribuita ad Hitler, la seguente: «Ho bisogno di uomini
completamente privi di religione capaci di andare incontro alla morte con animo sereno» (Afiero
2001b).
40
valori attribuiti ai volontari: l’antibolscevismo238, il nazionalismo239 e la fede in un
nuovo ordine europeo240. Anche qui più che dar voce ai volontari, che nella
ricostruzione storica dell’autore hanno rivestito ruolo marginale, sembra sia
stata effettuata una operazione che, partendo dalle ricostruzioni di storia
militare presenti in letteratura straniera, innesta su esse delle frasi che proiettano come effettivamente avvertiti dai volontari gli slogan della propaganda di
arruolamento dell’epoca241 e le chiavi interpretative presenti nella cultura della
destra radicale.
Come preso in esame in precedenza, la tematica dell’europeismo delle
Waffen-SS è ancora dibattuta a livello storiografico, per comprenderne il ruolo e
la rilevanza, e non può essere considerata come un semplice dato di fatto. Anche
per quanto concerne l’antibolscevismo, considerato da Afiero come valore cardine
dei volontari italiani nelle Waffen-SS, sebbene esso possa sembrare plausibile,
deve necessariamente essere verificato sulla base di fonti che consentano di
ricostruire il sentire politico dei volontari.
L’opera di Zucconi manifesta le medesime debolezze di quella di Afiero, sia
a livello metodologico sia interpretativo, e propone aprioristicamente un profilo
dei volontari nelle Waffen-SS incentrato sull’europeismo e la lotta contro il
bolscevismo242.
Non vengono considerate nel presente inquadramento storiografico le autobiografie pubblicate o diffuse in forma privata dai volontari che rientrano tra le
fonti primarie dello studio e saranno citate nel corso della ricerca. Come non
vengono presi in esame i pochi articoli disponibili sui volontari italiani nelle
Waffen-SS che denotano le medesime pecche delle monografie precedentemente
inquadrate. È interessante invece citare, tra gli articoli, due studi di Carlo
Gentile che, seguendo il metodo storico, ricostruiscono le vicende militari italiane
di due unità tedesche, nelle quali operarono volontari italiani: la 16ª SSPanzergrenadier-Division Reichsführer SS 243 e la 1ª SS-Panzer-Division
Leibstandarte-SS Adolf Hitler 244. In entrambi gli articoli lo storico ricostruisce
con attenzione la spirale di violenza di imboscate e rappresaglie, le motivazioni
delle rappresaglie, l’avversione dei soldati per i religiosi, il radicalismo dei
volontari, l’età e l’estrazione sociale, il rastrellamento di ebrei, l’atteggiamento
della popolazione nei confronti delle truppe naziste, con una puntuale indicazione delle fonti. Sebbene questi articoli si concentrino maggiormente sulla ricostruzione delle operazioni militari, più che su tematiche oggetto della presente
ricerca, essi sono di estrema utilità per la ricostruzione del quadro storico e
militare nel quale i volontari italiani si trovarono ad operare.
238
239
240
241
242
243
244
Afiero 2004.
Afiero 2001b: 12.
Afiero 2001b: 11.
Afiero 2004: 31.
Zucconi 2005.
Gentile 2003.
Gentile 1995.
41
Stigma sociale, giornalismo e processi
Come esaminato in questa ricostruzione, all’interno della storiografia italiana sul periodo riguardante il presente studio e sui volontari italiani nelle WaffenSS si assiste ad una dominante “storiografia antifascista” che classifica le
ricerche sgradite come “campagne denigratorie contro la Resistenza”245 ed arriva
a teorizzare un uso giudiziale e tribunalesco della storia, relativamente alle
rappresaglie tedesche, sostenendo che “per la giustizia ci può essere la prescrizione di un reato, ma per la ricerca storica ciò non è possibile. Per la storia nulla
cade in prescrizione. Mai” 246. È pertanto necessario, al fine di inquadrare in
dettaglio il contesto nel quale il presente studio è stato realizzato, intraprendere
anche una breve analisi del clima giornalistico e legale che sugli argomenti
oggetto dello studio tanto impatto culturale hanno avuto e hanno tutt’ora. Ciò
anche in virtù del fatto che il giornalismo storico vanta in Italia una lunga
tradizione con forte influenza culturale.
Partendo da quest’ultimo aspetto è interessante fare presente il caso di
Pietro Ciabattini, volontario nelle Waffen-SS italiane che ha contribuito con le
sue memorie alla presente ricerca, e citare le polemiche relative alla sua
premiazione, per gli studi di storico autodidatta247, col Fiorino d’argento per la
saggistica della XXIV edizione del Premio Firenze248.
L’assegnazione del premio ha indotto il Comune a revocare il patrocinio alla
manifestazione che si è svolta, dunque, in assenza del gonfalone comunale.
Questo in virtù del fatto che la consegna del premio avrebbe rappresentato una
“offesa [...] per Firenze e per il suo Palazzo, simbolo della Liberazione e del
sacrificio dei partigiani [...] un evento che rappresenterebbe una ferita profonda
e insanabile nella coscienza democratica e antifascista di tutti gli italiani”249.
Prima del caso Ciabattini si era verificato un caso mediatico che aveva
coinvolto Pio Filippani Ronconi, professore all’Istituto Universitario Orientale di
Napoli e autore di numerose opere che ne fanno uno dei grandi orientalisti del
nostro tempo250. Il noto orientalista nel 2000 aveva iniziato una collaborazione
col “Corriere della Sera”251, ma i fantasmi della sua militanza giovanile erano
245
Rossi A. 2006: 152.
Rossi A. 2006: 159. Alcune pubblicazioni sulla Resistenza riportano ancora oggi un’impronta polemica e politicizzata sin dal titolo che si oppone ad ogni tentativo di revisione storica
come nello studio di Vincenti (2003) che riporta nel sottotitolo la frase: “La realtà storica contro
le falsità del revisionismo”. Lo stesso autore si rammarica di una presunta assenza di una
“Norimberga italiana”, mentre in Italia in realtà i processi si celebrarono non solo per i vertici
del fascismo ma anche per i soldati ed avvennero anche internamenti di massa di militari della
RSI in campi di concentramento (Ciabattini 1995), oltre all’epurazione messa in atto dai
partigiani anche a conflitto ormai terminato (Pansa 2009a, Chessa 2005) e alla previsione del
reato di vilipendio alle forze della liberazione (de Lazzari 2002: 39). Secondo il Vincenti (2003: 21)
la presunta mancanza di una “Norimberga italiana” avrebbe come conseguenza che “il revisionismo politico della destra fascista vuole assolvere dalla colpevolezza morale di alto tradimento
chi si pose al servizio dell’invasore contro la Patria”.
247
Ciabattini 2006.
248
La Repubblica: 2006; Boschi 2008.
249
Rifondazione Comunista, comunicato stampa, Comune di Firenze, Gruppi Consiliari
2006.
250
Torno 2010.
251
Filippani Ronconi 2000 e 2001.
246
42
riapparsi sulla sua strada quando un lettore, secondo la versione ufficiale, ma
forse più probabilmente un giornalista interno, aveva riportato alla luce via email i trascorsi di Waffen-SS della celebre firma e nel gennaio 2001, sotto la
direzione di Ferruccio de Bortoli, il comitato di redazione chiese la testa del
“nazista” e del responsabile delle pagine culturali, Armando Torno. Questo
nonostante pochi mesi prima Pio Filippani Ronconi fosse stato insignito di una
laurea honoris causa, a Trieste, controfirmata dal ministro dell’Istruzione del
governo Prodi, Luigi Berlinguer252. Così ricorderà Pio Filippani Ronconi la
polemica che per giorni tenne banco sui giornali: «L’acqua bagna, il fuoco brucia:
è il dharma, come lo chiamano gli indiani... sarebbe a dire che ognuno fa le cose
con i mezzi che ha. C’è gente che striscia nel fango e non può fare altro che
inzaccherarti»253.
In occasione della sua morte, il Comitato delle associazioni della Resistenza
di Roma e Lazio ha provveduto ad incaricare uno studio legale di denunciare alla
Procura gli organizzatori della “manifestazione celebrativa delle SS italiane
inquadrate nelle forze armate naziste, svoltasi a Nettuno il 14 marzo 2010, per
aver violato le leggi che proibiscono l’apologia del fascismo”, dato che “si è tenuta
al sacrario dei caduti della Repubblica Sociale Italiana di Nettuno una celebrazione per ricordare il professor Pio Filippani Ronconi, ufficiale combattente del
II Battaglione SS italiane, ferito sul fronte di Nettuno”254.
Oltre alle forti polemiche riguardanti i volontari italiani hanno avuto larga
eco sui giornali anche vicende straniere come l’ammissione del premio Nobel
Günter Grass di avere militato nelle Waffen-SS255 e quella precedente che
riguardò il capo di Stato maggiore americano nominato da Clinton, generale
John Shalikashvili, il cui padre prima di emigrare negli Stati Uniti era stato un
ufficiale delle Waffen-SS ed aveva combattuto sul fronte italiano negli ultimi
mesi della guerra. Fatto che determinò agli occhi dei media italiani la sua
impossibilità a “guidare le Forze armate degli Stati Uniti sotto la macchia del
teschio delle Ss indossato dal padre”, trasformando “una magnifica fiaba americana, quella del bambino profugo che diventa generalissimo [...] in una amara
tragedia umana della storia contemporanea”256.
Ma il fatto che ancor più ha impedito ai volontari italiani di far emergere la
propria esperienza è quello della processualizzazione della storia che in Italia ha
avuto larga eco col caso Priebke257, ad oggi detenuto agli arresti domiciliari258, e
252
Mascheroni 2010.
Mascheroni 2010.
254
“Corriere della Sera” 2010.
255
Jacomella 2006; Klinkhammer 2006; Valentino 2006.
256
Zucconi 1993.
257
Priebke (2003: 138, 601) descrive nella sua autobiografia l’andamento del processo a suo
carico e parla della presenza di una «lobby della vendetta» nella quale inserisce anche il Ministro
italiano di Grazia e Giustizia Giovanni Maria Flick, nipote di quel Massimo Flick che fu
volontario nelle Waffen-SS, decorato con la Croce di Ferro di II classe per le ferite riportate sul
fronte di Anzio, e conobbe Priebke stesso a Rodengo Saiano, in occasione di una visita che
quest’ultimo fece al gruppo delle Waffen-SS italiane Pronto Impiego comandato dal sudtirolese
Alois Thaler. Altri casi che hanno avuto eco mediatica e costituito una barriera alla condivisione
del ricordo da parte dei volontari italiani nelle Waffen-SS sono le indagini del Tribunale militare
di Verona con intercettazioni a carico di militari ultraottantenni (Sansa 2010: 9) e il caso di uno
studente austriaco che ha condotto, assieme al suo professore, una intervista ad un milite delle
253
43
i recenti processi per le rappresaglie avvenute in Italia durante la seconda guerra
mondiale, che hanno comportato la condanna per questi anziani ex soldati e la
costernazione della stampa qualora non tradotti in carcere259.
Questi processi hanno portato gli storici ad interrogarsi sull’intreccio tra
ricerca storica e procedimento penale. Klinkhammer260 afferma che le sentenze
di oggi valgono come risarcimento morale per le vittime e come messaggio politico
attuale, per affermare che le atrocità dei militari contro i civili non possono cadere
in prescrizione, se si configurano come crimini contro l’umanità; ed i condannati
non sconteranno gli ergastoli irrogati dai tribunali, ma subiranno la vergogna di
veder rivelate le loro atrocità, una pena di non poco conto261. Aurelio Lepre262
avanza, invece, l’obiezione riguardante la mancata condanna dei criminali di
guerra italiani ed evidenzia il teorema che porta ad una unidirezionalità delle
condanne: “anche il nostro esercito commise in Africa e nei Balcani efferati delitti,
che nel dopoguerra non sarebbe stato difficile perseguire. Quindi prima di ergerci
a giudici dovremmo pensarci due volte. Del resto una sentenza a sessant’anni di
distanza ha soprattutto un valore politico, quindi sarebbe ancora più importante
dare il buon esempio. Credo sia accettabile che la magistratura di un Paese
processi i criminali di guerra stranieri, ma solo se prima ha punito quelli della sua
stessa nazionalità”263.
A tal proposito, però, Nicola Tranfaglia264 sostiene che i processi si dovevano
celebrare allora, ma farli oggi “ha comunque un positivo valore simbolico” ed
arriva ad esprimere un giudizio sull’amnistia italiana del 1946 che è utile
riportare testualmente: “penso che quell’amnistia così ampia sia stata inopportuna, perché garantì l’impunità a colpevoli di delitti molto gravi: il fatto di aver
commesso un errore non implica che si debba ripeterlo”265.
Questo intreccio tra ricostruzione storica e processualizzazione ha creato
forti ostacoli alla presente ricerca rendendo assai complesso il reperimento delle
memorie dei volontari italiani nelle Waffen-SS che, spesso comprensibilmente,
visto quanto esaminato in precedenza, vedono nel ricercatore storico una potenziale causa di problematiche legali e di gogna giornalistica.
Se in Italia la storiografia ha subito forti condizionamenti politici che hanno
comportato ripercussioni serie sulla qualità della ricerca, è anche vero che lo
storico può vivere il dilemma tra l’obiettivo di ricostruzione e interpretazione
degli eventi e il bisogno morale di un loro perseguimento penale, specie quando
essi cozzino col suo quadro di valori. Ma sarebbe in quel caso tenuto a far
prevalere il primo e garantire, specie a distanza di molti anni dagli eventi e in
quadro nazionale di ricostruzione storica spesso demonologica dei vinti, l’anonimato alle persone, ormai anziane, come avviene in genere negli studi di storia
militare o correlati ad argomenti problematici.266 La mancanza o debolezza di
Waffen-SS per poi offrire la registrazione al tribunale di Duisburg (Tortora 2009).
258
Isman 2007.
259
Tarquini 2006; Jacomella 2009; Tortora 2009.
260
Klinkhammer 2006a; 2007.
261
Carioti 2007.
262
Lepre 1996; 1997; 1999.
263
Carioti 2007.
264
Tranfaglia 1999; 2000; 2001; 2006.
265
Carioti 2007.
266
Brinker 1997; Janesick 2007; Zinn 2010.
44
tale approccio comporta la compromissione della possibilità di studiare fenomeni
ed eventi che non offrono fonti documentali di archivio e che potrebbero essere
solo investigati attraverso la memoria e le fonti orali267.
267
Non è un caso, ad esempio, che in un Paese come il Sud Africa il doloroso fenomeno della
apartheid, col suo bagaglio di torture ed omicidi, sia stato studiato grazie all’istituzione della
Truth and Reconciliation Commission (TRC) che è divenuta una istituzione cardine per
raccogliere le storie dei testimoni di eventi accaduti sotto il sistema razzista. Ai testimoni che si
presentavano per condividere la propria testimonianza era assicurata la chiusura del caso,
garantendo così sia la ricostruzione storica sia la possibilità di avanzare come stato democratico
nella costruzione del concetto di cittadinanza e comunità. La TRC ha consentito così di
comprendere più esaustivamente, come non era avvenuto prima, gli aspetti politici, culturali,
emozionali e psicologici dell’apartheid, facendo della memoria e dei racconti un elemento della
cultura sudafricana ed un primo passo verso la riconciliazione (Janesick 2007: 118). Situazione
ben lontana da quella italiana in cui lo storico ancora oggi, troppo spesso, incarna il ruolo del
giudice e gli attori della storia evitano di trasmettere le proprie conoscenze ed esperienze per non
trovarsi di fronte ad un tribunale storico o reale del quale a priori conoscono la sentenza.
45
46
2
FONTI E METODOLOGIA
L’intervista come metodo di ricerca
Innanzitutto l’intervista consente una “democratizzazione” della ricerca, con
l’affacciarsi alla ribalta del protagonismo storiografico di elementi che fino ad
oggi non hanno avuto né possibilità né sollecitazione ad accedervi268 e può, perciò,
contribuire ad evitare la riduzione della storia a simbolo269.
La raccolta di storie e testimonianze è parte cruciale dell’impegno a dare voce
a coloro che precedentemente sono rimasti inascoltati e le cui memorie possono
rappresentare una risorsa significativa soprattutto per lo studio di gruppi politici
e movimenti sociali270. Molte voci devono essere ancora raccolte, tra quelle che
sono state sistematicamente escluse da progetti di ricostruzione storica del secolo
scorso, affinché la conoscenza più approfondita del passato possa servire a
rifiutare miti, mezze verità, fabbricazioni e prospettive difettose: ciò fa della
storia orale una attività di giustizia sociale e consente ai soggetti marginalizzati
di essere considerati all’interno di progetti di ricerca271.
268
Galasso 1986: 141
De Rosa 1986: 125
270
Roberts: 2002: 25; Roberts: 2004. Esaminando le autobiografie dei vinti emerge con forza
la problematica della loro impossibilità a narrare le proprie vicende e spiegare le proprie scelte,
e giova citare in questa sede due esempi di vinti, come quelli del volontario Sebastiani e del
coscritto Fronza. Nel caso di Pietro Sebastiani, volontario nella Brigata Nera Lucca comandata
da Idreno Utimpergher, egli scrive nella sua autobiografia: «Ma va tenuto conto che nel
dopoguerra e per non pochi anni, nessuno spazio editoriale era consentito ai reduci sconfitti; essi
non ebbero modo di giustificare in qualche modo il loro operato e neppure di poterne discutere
pubblicamente i motivi ed il merito delle loro sciagurate scelte. [...] “Corriere della Sera” [...]
diceva infatti fosse inammissibile ritenere che fra i fascisti della RSI potessero esservi persone
perbene in quanto la loro complicità con i tedeschi li rendeva tutti personalmente corresponsabili
di tutte le infamie naziste e quindi come tali dovessero essere duramente giudicati e condannati»
(Sebastiani 2006: 11-12). Anche Attilio Fronza, nel redigere la biografia del padre Marcello,
coscritto nel Corpo di Sicurezza Trentino (CST) e animato da ideali tutt’altro che fascisti, scrive:
«Da sempre la storia è stata scritta dai vincitori e per tale motivo i vinti non hanno mai potuto
esprimere le loro esperienze; con ciò non voglio togliere onore a chi ha liberato il Paese
dall’invasore tedesco come nel nostro caso. Esponendomi, ho voluto scrivere ciò che ha visto e
vissuto, chi faceva parte, suo malgrado, delle forze sconfitte, dando un piccolo contributo ad
ampliare le ricerche degli storici di professione. Omaggiando mio padre ho voluto illustrare il
momento storico attraverso una visione meno ufficiale e più diretta agli occhi di chi combatté,
tramite la sua memoria. Per moltissimo tempo tacciato di collaborazionismo, il Corpo di
Sicurezza Trentino, è stato ostacolato anche nel momento in cui si voleva riconoscere una
pensione di guerra ai suoi componenti» (Fronza 2008: 14-15).
271
Janesick 2007: 116.
269
47
Il riannodarsi alla forma archetipica della conoscenza orale, della comunicazione orale che è dialogo platonico, può essere un passo in avanti notevole proprio
per sviluppare all’interno della ricerca storica italiana una particolare sensibilità
che finora è rimasta spesso addormentata, quella di chi non si vuole limitare alle
apparenze, di chi vuole andare al di là degli schemi e cercare, attraverso la
conoscenza degli individui, di recuperare anche la storia come somma non
meccanica ma creativa di azioni individuali e collettive.272
Interessante è far presente che la testimonianza orale può offrire una visione
di dettaglio di una varietà di tipi umani e di episodi che aiutano a comprendere
meglio come fosse ricca di contrasti e anche di appassionati drammi personali la
storia che alcuni soggetti, facendo i conti con il proprio credo ideologico e politico,
hanno vissuto in una determinata stagione storica.273
Le storie orali possono, andando oltre il generale con la raccolta di voci
precedentemente inascoltate, corroborare o sfidare le interpretazioni correnti dei
fenomeni legati alla guerra274. L’intervista, affidata alla sensibilità e all’esperienza del ricercatore e soprattutto alla volontà di non limitarsi a svolgere
soltanto pedissequamente ciò che i manuali di metodologia della ricerca prescrivono, ma ad andare oltre l’ascolto meccanico e il semplice riportare fedelmente
ciò che si è udito restando al di qua della comprensione, consente di vincere la
“cultura della sordità e della cecità” che “è omogenea alla logica del dominio”275.
Ovviamente l’intervista rappresenta una fonte tra le molte che poi andranno
verificate e controllate l’una con l’altra276, ma nell’ambito di studio della presente
ricerca essa assume un ruolo centrale perché i rapporti ufficiali non raccontano
mai l’intera storia e molti aspetti restano nascosti dietro quella che viene
solitamente definita the fog of war, la nebbia di guerra277. È possibile dissipare
questa nebbia e superare una storiografia largamente ideologico-politica del
fascismo278, e ancor più del fenomeno dei volontari italiani nelle Waffen-SS,
proprio attraverso l’intervista e il suo studio. Essa è cruciale per superare la
visione che riduce un fenomeno, come quello trattato, ad una malattia della quale
più che cercare una spiegazione si condanna l’esistenza e per studiare gli aspetti
generalmente etichettati come assurdi, senza negare a priori la buona fede e
l’impegno di chi ne fu partecipe, solo perché essi appaiono incomprensibili,
aberranti e spiegabili solo con la perversione, l’illusione, l’ipocrisia, l’opportuni-
272
Villari 1986: 124.
Spriano 1986: 117-120. L’autore dell’intervento fa riferimento a come l’intervista e il suo
uso nel quadro della storia orale possano contribuire al superamento della “stagione agiografica,
pedagogica” nella ricostruzione storica della Resistenza e della Liberazione grazie al fatto che
essa contribuisce ad una revisione storiografica che consente a chi visse la stagione della
Resistenza di liberarsi di “quello che credeva fosse l’unico modo di raccontare la propria storia
vissuta”. Inoltre l’intervista consente di far luce su alcune regole del mondo partigiano come
quelle inerenti la clandestinità e le norme da osservare che non si trovano né in biblioteca né in
archivio, perché “laddove poi lo studioso attinge dall’Archivio centrale dello Stato è di fronte, in
questo caso a fonti di polizia [che offrono] le cose viste dalla parte del gatto rispetto al topo, della
guardia rispetto al ladro”.
274
Brinker 1997: 16.
275
Lombardi Satriani 1986: 82-83.
276
Pestolazza 1986: 41.
277
Lofgren 2006: 8.
278
De Felice 2005, Prefazione 1983: X.
273
48
smo e il terrore poliziesco279.
La scelta metodologica di dar voce ai volontari italiani nelle Waffen-SS è un
tentativo di proseguire nel processo di demistificazione e democratizzazione
storiografica realizzando, come auspicava De Felice, “un impegno di studio e di
ricerca libero e spregiudicato” che contribuisca a dipanare gli ancora molteplici
nodi da sciogliere di un dibattito storiografico sul fascismo che talvolta assume
i toni della rissa280.
Come esaminato, non è un caso che recentemente Pansa, per la sua opera di
revisione storica sul periodo della guerra civile, attaccato dai portatori di quei
conformismi a cui faceva riferimento De Felice, abbia definito se stesso come “un
rompiscatole, un bastian contrario, uno spacca vetri” che ha “tirato sassi contro
i padroni postcomunisti della storia italiana”281.
Una riflessione ulteriore da affrontare a livello metodologico è quella sulla
natura dell’intervista e sul tipo di intervista adottata nel presente studio.
Sebbene l’intervista sia un dialogo e il dialogo come genere letterario sia nato
proprio con la nascita della storiografia, — Erodoto individua infatti nel dialogo
uno strumento di conoscenza storica e Socrate spiega nel Fedro che il discorso
scritto è solo una copia del vivente e che, mentre la scrittura addormenta la
memoria, l’oralità la ravviva e recupera dall’oblio — l’intervista, che è uno dei più
ovvi metodi di ricerca, è stata ed è soggetta a discussione perenne282. Ciò è
certamente imputabile al fatto che la storia non solo è divenuta un dominio della
scrittura, come aveva ampiamente fatto il diritto, ma essa è stata identificata
integralmente con la scrittura, tanto che il mondo antecedente ad essa è stato
definito preistoria283.
La conseguenza della continua messa in discussione dell’intervista come
metodo e il confronto di questa con le fonti scritte ha portato ad un contesto nel
quale si moltiplicano i tentativi di testare le risultanze dell’intervista in un
processo di validazione che cerca spesso di verificare se ciò che viene riferito dagli
intervistati corrisponde ad una realtà verificabile284. Ciò all’interno del paradosso di come sviluppare una scienza interpretativa oggettiva delle esperienze
umane soggettive285. Anche se molti ricercatori hanno giustamente asserito che
la relazione tra conoscenza e realtà è strumentale, perché ciò che conta è
conoscere modi e significati dell’agire e del pensare che permettano alla ricerca
di raggiungere gli obiettivi prefissati, si è assistito ad una frammentazione
dell’intervista in varie tipologie correlate alla rivendicazione di specifiche professionalità286 ed alla pubblicazione di manuali che, nell’intento di aumentare
l’affidabilità e la validità dell’intervista, cercano di standardizzare istruzioni per
una buona intervista qualitativa287 per qualunque intento essa sia realizzata288.
279
280
281
282
283
284
285
286
287
288
De Felice 2005, Prefazione 1983: XXIV.
De Felice 2005, Prefazione 1983: XXII.
Pansa 2009: 7-8.
Kalekin-Fishman 2002.
Tonkin 2000: 31.
Kalekin-Fishman 2002.
Schwandt 2000: 119.
Kalekin-Fishman 2002.
Goodge e Hatt 1952: 184.
Madge 1967: 144-252.
49
La risultanza di ciò, nonostante recentemente sia in corso una ricomposizione metodologica basata sulla consapevolezza che, aldilà delle informazioni che si
vogliono ottenere dall’intervista, una tale frammentazione appare ingiustificata
alla luce del fatto che le strategie, le tattiche, le sfide e gli ostacoli con i quali ogni
intervistatore si deve confrontare sono comuni aldilà del campo della ricerca289,
è che ancora oggi manca una singola definizione consensuale di intervista290 e
formulare domande ed ottenere risposte appare un compito più arduo di come
sembrasse all’inizio291. Unica raccomandazione spesso condivisa è che, qualsiasi
sia il fine della ricerca, la conversazione aperta rappresenta la pratica migliore
per ottenere un numero più vasto di informazioni292, perciò Wengraf definisce
l’intervista finalizzata alla ricerca come una conversazione interattiva che ha lo
scopo di aumentare la conoscenza sull’obiettivo della ricerca e che deve essere ben
preparata293. È dunque proprio quest’ultimo l’approccio che si è deciso di implementare per la realizzazione delle interviste in profondità alla base del presente
studio nelle quali una serie di domande ruota liberamente attorno ad alcuni
nuclei tematici.
L’adozione di una guida di intervista aperta e libera, funzionale alla conduzione di interviste in profondità, ha consentito di entrare in possesso di tre diversi
prodotti culturali: la descrizione del fenomeno culturale, in questo caso il
volontariato militare nelle Waffen-SS, secondo la visione, concezione e/o esperienza che l’informatore ne ha; le valutazioni che l’informatore da del fenomeno
stesso e ancora uno specimen, più o meno ricco, di certi modi di dire che riflettono
i modi del pensare caratteristici dell’informatore e della sua cultura294.
Questo tipo di intervista aperta in profondità consente, inoltre, di mantenere
viva la forma cruciale di interazione collaborativa che l’intervista deve avere e di
restare riflessivo rispetto alle informazioni che emergono e a come esse si
correlino agli obiettivi della ricerca, potendo determinare così la direzione che
l’intervista deve prendere per coprire tutti gli obiettivi per i quali è in atto, ma
senza che l’intervistato si senta ciecamente guidato in una direzione dall’intervistatore perdendo la sua spontaneità con il rischio di una riduzione del numero
di informazioni condivise295.
Altro vantaggio della metodologia di intervista adottata è quello di consentire all’analisi di proseguire di pari passo con la ricerca; è infatti difficile separare
la ricerca dall’analisi che procede con la realizzazione delle interviste che
consentono al ricercatore di sviluppare continuamente la sua comprensione degli
informatori e del loro mondo culturale e sociale; con una analisi riflessiva del
processo e delle relazioni attraverso le quali la conoscenza viene prodotta: la
guida di intervista nel suo contenuto e nella sue modalità di interazioni con
l’intervistato è un elemento vivo che fa parte dell’analisi stessa e si arricchisce
intervista dopo intervista296.
289
Wengraf 2001.
Kalekin-Fishman 2002.
291
Fontana e Frey 2000: 361.
292
Kalekin-Fishman 2002.
293
Wengraf 2001: 3-5.
294
Signorelli 1986: 89.
295
AA.VV. 2008.
296
Pink 2004: 370. Per questa ragione alcuni degli intervistati, quando disponibili, sono stati
290
50
Il ritardo nell’uso dell’intervista nella storiografia italiana
I testi metodologici di riferimento e gli studi consultati, i primi riguardanti
l’uso dell’intervista ed i secondi finalizzati ad obiettivi sovrapponibili a quelli del
presente studio, riportati nelle note a pie’ di pagina, si riferiscono principalmente
a testi non italiani. Ciò riflette il ritardo che in Italia si è verificato sull’adozione
delle ricerche qualitative a causa di una storiografia dominata dall’idealismo
filosofico, secondo il quale solo la filosofia, non la scienza, è capace di produrre
conoscenza297.
Una delle principali conseguenze del guardare in modo stereotipato alle
ricerche qualitative come non scientifiche è stato un duraturo ostracismo dei
corsi universitari di metodologia. Soltanto durante gli anni Ottanta un primo
segno di apertura si verifica sia con le traduzioni in italiano dei classici della
sociologia qualitativa ad opera di Alessandro Dal Lago298 sia con gli studi di Luisa
Passerini299 e Fortunata Piselli300. Ma tra gli anni Ottanta e l’inizio dei Novanta
influenti metodologi italiani come Statera e Leonardi attaccavano di tanto in
tanto il “mito delle ricerche qualitative” 301.
Agli inizi degli anni Novanta testi di metodologia ad opera di studiosi italiani
non erano ancora presenti, se non alcuni articoli sul life-history method, e la
ricerca qualitativa resterà ancora ignorata dai corsi universitari sino alla metà
degli anni Novanta: fare ricerca qualitativa è visto come qualcosa di non
genuinamente scientifico e il superamento del dilemma qualitativo-quantitativo
avverrà solo nella seconda metà degli anni Novanta302.
All’interno della prospettiva storiografica italiana la ricerca qualitativa, e il
suo strumento cardine rappresentato dall’intervista, evidenziano un ritardo
rispetto al dibattito storiografico internazionale e l’individuo, cioè l’uomo che
opera orizzontalmente nella storia, ancora nella seconda metà degli anni Ottanta, non è stato preso in considerazione a causa del prevalere dello storicismo di
derivazione crociana303.
Ancora nel 1986 per lo storico, anche per colui che studia l’età contemporanea, resta, secondo De Rosa, “prioritaria la fonte bibliografica e archivistica: il
ricorso all’intervista ha prevalentemente un carattere integrativo, ha il peso di
un’aggettivazione, può migliorare, ampliare, arricchire la narrazione storica, ma
non può sostituirsi al documento e all’archivio304”. Sempre il De Rosa arriva a
negare la valenza accademica della ricerca qualitativa quando afferma: “in molti
casi si ha quasi l’impressione che alla testimonianza ottenuta con l’intervista si
annetta un’importanza maggiore che alla ricerca tradizionale di tipo accademico” e quando si pone, a riguardo, l’interrogativo se si tratti solo del dilagare di una
moda relegando l’intervista a mezzo al quale “per lo più [...] si ricorre per chiarire
intervistati più di una volta o è stata tenuta con loro corrispondenza continuata.
297
Bruni e Gobo 2005.
298
Huges 1980.
299
Passerini 1984.
300
Piselli 1984.
301
Statera 1984; Leonardi 1991; Statera 1992.
302
Bruni e Gobo 2005.
303
Villari 1986: 123.
304
De Rosa 1986: 125-126.
51
avvenimenti, gesti, pensieri che interessano una opinione pubblica più o meno
larga”305.
Altra nicchia nella quale vengono relegate le testimonianze ottenute delle
interviste è quella di mezzo integrativo e subordinato al “chiarire gli aridi, e
talvolta incompleti e frammentari, documenti scritti”306. Non deve pertanto
stupire che spesso l’intervista orale, in Italia, sia considerata strumento utile solo
quando effettuata a “personalità di classe eccezionale per le loro competenze” che
partecipino in posizioni di rilievo o in qualità di “osservatori privilegiati” a
determinate decisioni storiche307. Quest’ultimo aspetto dell’intervista destinata
alle élite partecipanti rimanda all’era tradizionalista della storia orale degli inizi
del secolo scorso308 e ciò sintetizza l’arretratezza italiana nell’adozione di questo
metodo di ricerca.
Questo ritardo nell’uso dell’intervista come fonte storica è ancora più forte se
si prende in considerazione la storia militare, per la quale in Italia prevale una
situazione ben lontana da quella presente negli Stati Uniti, che all’interno
dell’esercito vede una lunga tradizione di oral history, con ruolo nel Programma
Storico dell’Esercito (Army Historical Program) sin dalla seconda guerra mondiale e con finalità di raccolta e preservazione di importanti informazioni storiche,
altrimenti non disponibili, destinate ad arricchire i rapporti operativi309. Ciò nella
consapevolezza che le interviste sono importanti per chiarire il retroterra di
importanti eventi e contestualizzare i processi decisionali310.
Il presente studio, dunque, ha come obiettivo accessorio, ma non trascurabile, anche quello di dimostrare la validità dell’intervista come fonte in ambiti di
ricerca che, come esposto, sono caratterizzati da una elevata complessità tematica e storiografica.
La raccolta dei dati e il profilo degli informanti
Alcune riflessioni si rendono necessarie, oltre alle precedenti, sul tipo di
intervista e guida adottata nel presente studio, relativamente alle modalità di
reperimento delle persone intervistate, i volontari italiani nelle Waffen-SS
ancora in vita e/o i loro famigliari. Il reperimento degli intervistati è stato molto
arduo per una serie di motivi: la difficoltà di reperire elenchi con i nominativi di
tali volontari; una storiografia che, come visto, li ha spesso appiattiti su un cliché
criminale; le conseguenze legali che tale militanza ancora oggi può comportare
a causa di una processualizzazione della storia; il sensazionalismo giornalistico
che ancora accompagna la scoperta di persone, più o meno importanti, che si
arruolarono volontarie nelle Waffen-SS; lo stigma sociale che circonda questa
esperienza di volontariato militare e, non ultimo, uno sciame di collezionisti di
cimeli storici, decorazioni militari e fotografie, che disturba spesso la privacy dei
305
306
307
308
309
310
52
De Rosa 1986: 127.
Guazzaroni 1986: 130.
Melchionni 1986: 134.
Janesick 2007: 111, 114.
Lofgren 2006: iv-1.
Lofgren 2006: 1.
volontari col desiderio di acquistare o estorcere materiale.
Per quanto concerne i nominativi dei volontari, essi sono stati reperiti da
fonti eterogenee: documenti di archivio, pubblicazioni precedenti, siti internet di
appassionati di storia militare e di simpatizzanti della destra radicale, ma mai
alcun intervistato ha rivelato il nome di un commilitone nella paura di esporlo a
rischi. Dall’elenco così determinato sono stati scartati i cognomi più comuni e,
consultato l’elenco telefonico nazionale, si è provveduto ad inviare una lettera
recante le motivazioni della ricerca e la richiesta di una disponibilità ad essere
intervistati a tutti coloro che portano il cognome di uno dei volontari qualora si
fossero rivelati essere effettivamente il volontario stesso o un famigliare.
La scelta di intervistare, oltre ai volontari reperiti, anche i famigliari è
avvenuta in base ad una duplice ragione sia anagrafica sia metodologica. Dal
punto di vista anagrafico è bene aver presente che è ad oggi difficile trovare in vita
questi volontari, molti dei quali sono peraltro deceduti nella fase di raccolta della
documentazione iniziata nell’anno 2005; dal punto di vista metodologico i
famigliari rappresentano i custodi più prossimi della memoria di questi volontari311 e del retroterra culturale trasmesso dalla famiglia in più generazioni, dato
che i racconti di vita divengono materiali e capitali culturali famigliari che fanno
parte della mappa mentale dei membri della famiglia312.
In totale sono state inviate 1028 missive ed effettuate altrettante telefonate
per verificare l’effettiva identificazione di un volontario o famigliare e sondare la
disponibilità a rilasciare un’intervista. Sono stati così reperiti 20 volontari e 19
famigliari che compongono l’universo di riferimento della presente ricerca313. Le
persone contattate hanno inizialmente mostrato sospetto sull’uso che si sarebbe
potuto fare delle interviste; alcune di esse, una volta informate sui propositi della
ricerca, hanno acconsentito ad una classica intervista di persona (face to face)
senza richiesta di anonimato, mentre altre hanno acconsentito all’intervista di
persona a patto di restare anonime o hanno richiesto di essere intervistate
attraverso il canale telefonico rifiutando un incontro di persona. Ciò non può
stupire nel difficile quadro sociale e storiografico precedentemente ricostruito
ancora in atto in Italia.
Del resto anche per ricerche relative a corpi militari meno criminalizzati delle
Waffen-SS, come ad esempio i soldati americani che operarono in Vietnam, si
adotta solitamente un sistema di codifica, adoperando pseudonimi, che rende più
agevole per chi consulta la ricerca la ricostruzione delle storie individuali parti
del progetto, ma senza svelare il nome reale dell’intervistato314.
La richiesta di anonimato, nel presente studio, rimane comunque minoritaria in virtù degli sforzi intrapresi per far comprendere a fondo le finalità della
ricerca alle persone contattate, ma si è comunque deciso di non fare riferimento
in modo sistematico a dettagli personali come l’area geografica di provenienza,
il grado ricoperto all’interno delle differenti divisioni in cui i volontari operarono,
311
Brinker 1997: 15.
Thompson 1993:13, 36.
313
In questo universo sono computati esclusivamente coloro che hanno militato volontariamente nelle Waffen-SS. Ad essi vanno aggiunti i volontari relativamente ai quali erano
disponibili interviste edite che verranno adoperate nel corso dello studio.
314
Brinker 1997: 15.
312
53
le zone di operazione, che tra l’altro non interessano gli obiettivi della ricerca che
esulano da ricostruzioni di storia militare, le date anagrafiche esatte e soprattutto la attuale area di residenza. Solo qualora queste variabili anagrafiche,
geografiche e di grado si leghino a considerazioni rilevanti per l’obiettivo della
ricerca ne viene fatta menzione o in modo anonimo o previo consenso degli
intervistati.
È importante specificare come l’universo dei volontari oggetto della ricerca,
direttamente intervistati o studiati attraverso il racconto dei famigliari, si
distribuisca in differenti classi anagrafiche, dai volontari giovanissimi al caso di
un settantenne, per grado ricoperto, dal soldato semplice all’ufficiale, e per
provenienza geografica tra aree nel Nord, Centro e Sud Italia. Importante è,
inoltre, elencare le differenti divisioni di appartenenza dei volontari che compongono l’universo studiato, tenendo conto che in alcuni casi si riscontra, durante
l’arco dell’esperienza di volontariato, un passaggio tra differenti divisioni315:
1ª SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler
4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division
5ª SS-Panzer-Division Wiking
8ª SS-Kavallerie-Division Florian Geyer
16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS
24ª Waffen-Gebirgs-Karstjäger-Division der SS
29ª Waffen-Grenadier-Division der SS
SS-Wehrgeologen-Bataillon 500
Il reperimento delle principali fonti alla base del presente studio è avvenuto
secondo le seguenti modalità: interviste avvenute di persona con il volontario
presso l’abitazione; interviste con il volontario per via telefonica; interviste con
il famigliare presso l’abitazione; interviste con il famigliare per via telefonica;
corrispondenza con il volontario; corrispondenza con i famigliari e fornitura di
scritti e memoriali da parte del volontario e/o dei famigliari.
Nella seguente tabella, che include tutti i volontari oggetto della ricerca, sia
quelli reperiti con le modalità sopracitate sia i pochi precedentemente noti, è
riassunta schematicamente la tipologia delle fonti utilizzate:
315
Poiché non tutti gli intervistati hanno acconsentito a rendere pubblica la propria divisione
di appartenenza e il grado ricoperto all’interno di essa, tali informazioni saranno adoperate nel
corso dell’analisi ma non si provvederà, se non nei casi di avvenuto assenso, ad abbinare il
nominativo del volontario con quello della divisione. L’elenco delle divisioni di appartenenza
evidenzia come i volontari italiani abbiano operato su pressoché tutti i fronti di guerra.
54
È importante far presente che nessuno ha acconsentito alla registrazione
dell’intervista nel timore di conseguenze legate ai processi ancora in corso316 a
commilitoni tedeschi e che si è deciso di svolgere comunque le interviste alla
presenza di un secondo intervistatore317 che coadiuvasse nella raccolta delle
testimonianze e potesse confermare l’effettiva realizzazione di dette interviste.
La mancata registrazione, pur non rendendo disponibile il narrato se non in
forma trasposta ad altri ricercatori, non comporta, data la tipologia delle persone
intervistate, danno metodologico rilevante visto che il pretendere l’attività di
registrazione avrebbe reso impossibile la raccolta del dato e la paura correlata al
registrare avrebbe aumentato il nervosismo e compromesso la franchezza del
narrato318, inibendo l’interazione tra intervistatore ed intervistato ed influen316
In Italia, con un articolo sul “Corriere della Sera”, ha avuto larga eco il caso di uno
studente austriaco che dopo aver condotto, assieme al suo professore, una intervista ad un milite
delle Waffen-SS ha poi offerto la registrazione al tribunale di Duisburg che ha aperto un
procedimento penale a carico del novantenne Adolf Storms (Tortora 2009).
317
La persona che ha coadiuvato il reperimento delle fonti è la dottoressa Johanna Litzen.
318
Arksey e Knight 1999: 105.
319
AA.VV. 2004a: 18-20.
55
zando negativamente il contenuto e la ricchezza delle informazioni raccolte319.
Del resto, anche senza far riferimento a soggetti che rappresentano oggettive
difficoltà nell’essere individuati ed intervistati, si è fatto notare come la presenza
del registratore possa far percepire all’intervistato la propria condizione di
soggetto interessante o drammatico con conseguente alterazione del contenuto
del narrato, o possa al contrario, per “soggetti complicati” come sono i volontari
nelle Waffen-SS, intimidire il testimone320.
Per quanto concerne la modalità telefonica di alcune interviste alla base della
presente ricerca, essa è conseguenza, come esposto in precedenza, del fatto che
gli argomenti investigati sono considerati controversi e che in genere per tali
tematiche alcuni protagonisti sono riluttanti a parlarne davanti ad un registratore321 o ad incontrare di persona il ricercatore.
Considerando che il citofono è il nemico dell’intervistatore, prima si riusciva
ad accedere all’abitazione e a spiegare i motivi dell’intervista, il telefono consente
però di intervistare anche coloro che sono meno disposti a parlare e di non
fermarsi soltanto a coloro che hanno la volontà di farlo, ottenendo comunque
valide interviste qualitative322.
L’uso dell’intervista telefonica finalizzata alla comprensione di un fenomeno
è del resto sempre più adoperata, adattando la guida di intervista al mezzo
telefonico stesso, con l’introduzione di domande e interventi che favoriscano
l’approfondimento sulle tematiche cardine della ricerca e tenendo presente
l’importanza di lasciar parlare il più possibile l’intervistato superando i limiti di
durata che l’intervista telefonica comporta323. Nel presente studio il mezzo
telefonico ha consentito di ampliare il numero degli intervistati con interviste
della durata media di un’ora e con la possibilità di ascoltare più volte sia coloro
che hanno dato assenso all’intervista di persona sia coloro che hanno optato per
la sola intervista telefonica. Dunque per più intervistati è stato possibile
raccogliere informazioni con interviste di persona, con interviste telefoniche ed
anche con una corrispondenza intrattenuta nel tempo.
Tra le fonti primarie della presente ricerca è stata inclusa, come evidenziato
nella tabella precedente, anche la memorialistica, peraltro assai limitata, di tali
volontari, che in alcuni casi hanno redatto scritti sulla propria esperienza che
sono rimasti inediti e in altri sono stati pubblicati da piccole case editrici o
stampati in proprio e diffusi ai soli conoscenti. Se si esclude un solo caso, relativo
al volontario Pio Filippani Ronconi, è stato comunque possibile realizzare
un’intervista a coloro che hanno redatto in forma scritta le proprie memorie che
rappresentano, pertanto, un arricchimento delle informazioni raccolte.
Il presupposto metodologico per l’accettazione delle memorie autobiografiche
come fonte primaria consiste, tenendo presente comunque che per la maggior
parte di questi volontari è stata effettuata anche la raccolta di informazioni a
mezzo intervista, nel considerarle come una sorta di intervista a se stesso del
protagonista-narratore324, forma che, interpretata criticamente e destrutturata
320
321
322
323
324
56
Revelli 1986: 101.
Lofgren 2006: 13.
De Masi 1986: 106-109.
Burke e Miller 2001.
Galasso 1986: 139.
dalla sua forma letteraria325, è ormai sempre più adoperata anche per la scrittura
di testi scientifici326.
È inoltre importante, anche in via di principio metodologico, studiare la
memorialistica poiché essa in Italia è troppo spesso, per ambiti di ricerca con
tematica politica, una miniera quasi inesplorata, dato che il soggetto, il vecchio
militante, stampa a sue spese il libro, ne distribuisce qualche decina di copie agli
amici ma il lavoro circola poco e nessuna copia perviene alle biblioteche327.
L’autobiografia, per scrivere la quale un soggetto può avere svariate ragioni,
solitamente incluse nella prefazione, che variano dalla giustificazione delle
azioni compiute al tramandare una memoria storica, al ristabilire o aumentare
la reputazione, all’offrire un modello agli altri o al fare i conti col proprio passato,
rappresenta sempre una forte importanza storiografica e sociale che è quella
della testimonianza di chi ha partecipato o assistito a determinati eventi e
fenomeni sociali e ne offre un resoconto autorappresentativo o testimoniale328.
Durante le interviste, che rappresentano la fonte primaria del presente
studio, all’interno del rapporto collaborativo tra intervistato ed intervistatore si
è fatto ricorso, quando possibile, alla “auto-elicitazione” fotografica delle immagini che in alcune occasioni i volontari si sono resi disponibili a condividere.
Il materiale fotografico a disposizione dei volontari si è sempre dimostrato di
dimensione ridotta poiché le immagini in divisa sono state distrutte immediatamente dopo la guerra per paura di rappresaglie da parte dei partigiani e per
timore del già citato fenomeno di processualizzazione. Aldilà del crescente
interesse della ricerca sociale per la cultura visiva il ricorso al materiale
fotografico, avvenuto solitamente verso il terminare dell’intervista, è stato
adottato per ottenere informazioni dagli intervistati alle quali sarebbe stato
altrimenti difficile accedere durante il corso dell’intervista e per migliorare la
profondità di alcune informazioni precedentemente raccolte329.
Le fotografie da sole non forniscono necessariamente informazioni, ma se
adoperate all’interno dell’intervista se ne coglie il valore e l’importanza, che
consiste in una facilitazione della comunicazione su alcune tematiche tra
intervistato ed intervistatore e all’emergere conseguente di argomenti e soggetti,
precedentemente non toccati nell’intervista, che sono importanti per gli intervistati330. Si tratta di un importante contributo che aiuta l’intervistatore a
guardare ancora di più al mondo degli intervistati con gli occhi degli intervistati331 e, proprio questo, può offrire dettagli e significati ai quali non si era
pensato332; motivo per cui la tecnica dell’elicitazione fotografica viene spesso
adoperata nello studio delle memorie militari e di guerra all’interno dei progetti
di storia orale333.
325
326
327
328
329
330
331
332
333
Roth 2004.
Roth 2000: 1-12.
Spriano 1986: 118.
Beverly 2000: 555-566; Radstone 2000; Roberts 2004.
AA.VV. 2008.
Collier e Collier 1986: 70-71, 99, 126 e 257. Tonkin 2000: 134.
Noland 2006: 2.
AA.VV. 2008.
Frantila e Sionis 2006: 369-399.
57
Una metodologia integrata
Pur restando l’intervista in profondità la fonte cardine di questo studio, l’uso
integrato delle memorie scritte, delle fotografie e, in due casi, di interviste
videoregistrate rilasciate per un programma televisivo, colloca il presente studio
all’interno della storia orale postmoderna che mira, attraverso l’uso di fonti
multiple, a ricostruire un profilo dei partecipanti il più completo possibile,
investigando anche le tematiche spirituali ed estetiche334.
La ricerca qualitativa si incontra con la storia orale per la condivisione di
diversi elementi tecnici (come l’uso dell’intervista in profondità, dell’osservazione
e dei documenti), per l’uso della storia raccontata dagli intervistati in modo
dialogico con l’intervistatore attraverso il ricordo e la descrizione delle memorie,
per l’adozione di un linguaggio ordinario nel riportare il contenuto e per l’assenza
di strutture precostituite di spiegazione e interpretazione dei dati raccolti. Giova
ricordare che compito della storia orale, con il suo approccio face to face integrato
da documentazione supplementare, è quello di aiutare a fornire una strada per
la comprensione dei comportamenti e delle loro motivazioni e a costruire, dando
voce a coloro che sono tradizionalmente trascurati dalla storia fino ad oggi scritta,
una conoscenza del passato che rifiuti miti, mezze verità, invenzioni, prospettive
fasulle ed approssimative: è per questo che la storia orale assume i tratti di una
attività di giustizia sociale335.
Per i volontari italiani nelle Waffen-SS si è sentito forte il bisogno di
raccogliere materiale, prima che sia troppo tardi, in un quadro in cui, nonostante
la loro esperienza rimandi ad un evento lontano come la seconda guerra
mondiale, gli individui ancora sentono la minaccia delle rappresentazioni pubbliche del passato che negano significato alla loro identità o la criminalizzano
rendendo loro solitamente impossibile discutere socialmente o politicamente
della propria esperienza336.
Proprio tutto quanto esposto rende la storia orale e la ricerca qualitativa la
metodologia più consona al raggiungimento degli obiettivi del presente studio:
comprendere quale pensiero politico animasse i volontari, perché aderirono alle
Waffen-SS e non ad altre forze armate fasciste, e quali dinamiche storiche,
politiche, sociali, personali e culturali li spinsero al volontariato.
Flusso dell’analisi
È utile inoltre far presente brevemente come verrà organizzata ed esposta
l’analisi delle fonti primarie reperite. Data l’ampiezza del materiale raccolto,
rappresentato dalle interviste effettuate e dal materiale autobiografico accessorio reperito, si è reputato opportuno procedere all’analisi ed all’esposizione
facendo riferimento a quattro aree tematiche principali.
Il narrato dei volontari italiani nelle Waffen-SS ha, ovviamente, carattere di
continuità e si presenta ricco di correlazioni tematiche, con argomenti che
334
335
336
58
Janesick 2007: 114.
Janesick 2007.
Tonkin 2000: 16, 24, 78.
all’interno del flusso narrativo ricorrono più volte e si intrecciano e intersecano
assecondando la memoria, le emozioni e le sensibilità degli intervistati. Ciascuno
dei quali adotta un proprio stile narrativo, anche come conseguenza del fatto che
per la maggior parte degli intervistati si è trattato della prima condivisione della
propria esperienza al di fuori del nucleo famigliare e che in Italia non è presente
alcuna associazione d’armi di appartenenti alle Waffen-SS.
I quattro cluster tematici individuati, utili per una analisi organizzata e non
dispersiva del narrato, sono i seguenti: l’apparato sociale e culturale; gli elementi
di ideologia politica; le contingenze storiche vissute; lo stile narrativo. Nel primo
cluster tematico vengono presi in esame i temi dell’inquadramento sociale dei
volontari, delle fascinazioni letterarie emerse, del concetto di spirito d’avventura
che attraversa il narrato, dei sentimenti amorosi e dell’inserimento sociale, delle
figure di riferimento e dei modelli eroici, del mito del soldato tedesco e delle SS,
della religiosità, del cameratismo e di tutte quelle tematiche non meramente o
esclusivamente ideologiche che caratterizzano i volontari intervistati.
Nel secondo cluster sono prese, invece, in esame tutte le componenti costitutive dell’ideologia politica che animò i volontari. Vengono cioè analizzati nella
medesima area tematica quegli argomenti che appaiono maggiormente legati
alla formazione del pensiero politico e tra questi anche il giudizio storico e politico
che gli intervistati esprimono sul fascismo sia come ideologia sia come esperienza
di governo.
Si passa poi nel terzo cluster tematico all’analisi del vissuto dei volontari
rispetto agli accadimenti storici che hanno ruolo rilevante all’interno del flusso
narrativo. In questa sezione diviene possibile inquadrare, dunque, sia l’apparato
culturale sia quello politico all’interno delle contingenze storiche e determinare
la relazione tra gli eventi e il pensiero degli intervistati.
Un ulteriore cluster tematico è rappresentato dall’analisi dello stile narrativo degli intervistati che consente di valutare gli accorgimenti narrativi adottati
all’interno della rappresentazione del sé, dei nemici e degli accadimenti. Tale
analisi consentirà anche di identificare le aree tematiche soggette a maggior
coinvolgimento emotivo e che, come tali, hanno comportato aggiustamenti di
stile narrativo, lessico, tono di voce da parte dei volontari. Ciò contribuirà non
solo all’approfondimento della comprensione dei cluster tematici precedenti, ma
anche all’identificazione di alcune tematiche cardine o investite da particolare
coinvolgimento all’interno del narrato. A tale cluster tematico non è riservata
un’apposita sezione, ma lo sviluppo e l’esposizione di esso si accompagna alla
trattazione delle precedenti aree tematiche accompagnandone la comprensione.
59
60
3
APPARATO SOCIALE E CULTURALE
DEI VOLONTARI ITALIANI
Inquadramento sociale, famigliare e istruzione
Fattori importanti che meritano di essere presi in considerazione da subito
all’interno del presente studio sono quelli della classe sociale di appartenenza dei
volontari e dell’eventuale influenza di essa sulle dinamiche di volontariato e sulla
successiva capacità di integrazione con camerati di diversa estrazione sociale.
Le interviste realizzate non offrono, come già anticipato ed evidenziato, un
campione rappresentativo dell’universo dei volontari italiani nelle Waffen-SS,
che non sarebbe comunque funzionale agli obiettivi di questa ricerca, e rappresentano, ad oggi, l’unica consistente raccolta di testimonianze dirette sul fenomeno. La numerosità delle interviste e delle esperienze personali con esse ricostruite è comunque tale da garantire una valida esplorazione delle dinamiche
correlate alla classe sociale dei volontari. Si è ritenuto pertanto utile prendere in
esame le interviste effettuate per comprendere l’impatto del ceto sociale sulla
decisione di volontariato e sull’interazione con commilitoni di diversa estrazione.
È importante far presente come nel corso delle interviste i volontari non
abbiano mai fatto riferimento spontaneamente alla propria estrazione sociale e,
quando stimolati ad affrontare l’argomento, il loro narrato si sia sempre limitato
all’esperienza personale, potremmo dire famigliare, senza che essi evidenziassero alcuna correlazione tra la propria classe sociale di appartenenza e l’interazione
con camerati di altra estrazione.
Dal narrato dei volontari emerge con chiarezza che elementi come il ceto
sociale, l’istruzione e la provenienza famigliare non hanno avuto alcun impatto
sui rapporti tra volontari, come del resto non lo ha avuto la differente provenienza
geografica. È emerso, invece, un certo orgoglio per l’eterogeneità di provenienza
sociale e geografica dei camerati, che ha assunto i toni della fierezza quando gli
intervistati hanno citato la presenza di volontari non italiani337. Anche l’interazione con i camerati sudtirolesi, che avrebbe potuto essere caratterizzata da
337
Giova qui citare alcuni passi dalle interviste realizzate, che saranno approfonditi
ulteriormente nel corso dello studio, sul cameratismo tra volontari di diversa provenienza
nazionale. Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti: «Uno degli svizzeri che era
nel mio battaglione, se non ricordo male si chiamava Gorino Tosana, era un combattente
eccezionale, dell’antica tradizione guerriera e mi ricordava Cavallo Pazzo». Intervista del 18
ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer: «C’erano una ventina di popoli con noi nel Karstjäger
[24ª Waffen-Gebirgs-Division der SS] alla fine del 1944, c’erano olandesi, spagnoli, albanesi,
francesi, rumeni, insomma volontari da tanti paesi». Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego
Morini, figlio del volontario Walter Morini: «mio padre mi diceva che l’errore del nazionalsocialismo era stato quello di non accettare prima tutti i volontari di diverse nazionalità».
61
tensioni legate alle politiche fasciste di italianizzazione in quelle aree geografiche
di recente annessione allo Stato italiano338, viene narrata, da ambo le parti,
quella sudtirolese e quelle dei volontari di altra provenienza regionale, come
serena e collaborativa339.
Anche la differente età dei volontari, tra gli intervistati essa varia dai
quindici ai settant’anni al momento dell’arruolamento, non si caratterizza
all’interno del narrato come fattore di divisione o di barriera all’integrazione, ma
è stata citata dagli intervistati piuttosto come elemento che contribuisce a
qualificare come collettiva e comunitaria l’esperienza vissuta. Ciò che è emerso
con frequenza all’interno del flusso narrativo degli intervistati è la presenza di
un forte spirito di corpo che va aldilà delle variabili sociali, come ceto, istruzione,
lavoro svolto, età e provenienza geografica.
Emerge nelle memorie dei volontari italiani nelle Waffen-SS il sentirsi parte
sia di un corpo di élite sia di una collettiva esperienza militare e politica.
Coerentemente con ciò e con il modello organizzativo delle Waffen-SS340, gli
intervistati non fanno mai del grado ricoperto nell’organizzazione un fattore di
distinzione. Anche gli ufficiali intervistati non citano mai il numero di sottoposti
e nel narrare particolari azioni di guerra si riferiscono ai camerati per nome e li
descrivono per le loro gesta e non in base al grado o ruolo che essi ricoprivano. La
stessa impostazione narrativa permane nella descrizione dei rapporti umani e
338
Per quanto concerne le politiche di italianizzazione del Sudtirolo: Corsini e Lill 1988;
Gruber 1998.
339
Sull’integrazione tra sudtirolesi ed italiani di differente provenienza regionale avrò modo
di approfondire l’analisi più avanti nel corso dello studio, ma è utile qui citare, come esempio, le
parole di Luis Innenhofer, volontario sudtirolese intervistato il 18 ottobre 2009: «Tra l’8 e il 9
settembre ho avuto il mio primo combattimento ed era contro l’esercito italiano, dovevamo
disarmarli dopo che Badoglio aveva cambiato alleato, in poche ore quelli che erano alleati
diventarono nemici armati contro di noi. Poi i rapporti con i volontari italiani furono sempre
ottimi nelle Waffen, qualche difficoltà c’è stata coi volontari albanesi, alcuni di loro si erano
arruolati solo per mangiare, ma tra sudtirolesi e italiani ci fu un forte cameratismo».
340
All’interno delle Waffen-SS il rapporto tra ufficiali e truppa era fondato sul cameratismo
e sul mutuo rispetto ed all’interno di questa élite militare si sviluppò “una forma di democrazia
solitamente sconosciuta nell’esercito” (Butler 1979: 13); la disciplina era ovviamente la regola,
ma essa andava di pari passo con il cameratismo tra soldati e tra soldati e ufficiali (Duprat 2009:
251). George H. Stein fa notare che come concessione all’orientamento politico delle Waffen-SS
i suoi membri furono liberati da numerosi obblighi ed osservanze militari tradizionali (Stein
1984: 56). Ernst Nolte nel suo raffronto tra l’esercito tedesco e quello sovietico durante il secondo
conflitto mondiale cita l’egualitarismo interno tedesco, rispetto alla marcata separazione di
classe tra gli ufficiali e la truppa voluta da Stalin a partire dal maggio del 1942, messo in evidenza
dalle parole del generale russo Andrey Andreyevich Vlasov, a capo del Russian Liberation Army
– ROA, che doveva riferirsi alle Waffen-SS nelle quali poi confluirono numerosi volontari russi
(Nolte 2008: 539-543). Anche il volontario italiano Pio Filippani Ronconi, oggetto del presente
studio, scrive nel suo memoriale dattiloscritto a proposito delle Waffen-SS: «Vi era la possibilità
– almeno così io credevo – di sperimentare in prima persona il livello addestrativo e combattivo
delle forze armate germaniche, governate fin nei minimi gradi da quella Auftrags-taktik per cui
ognuno sapeva ciò che doveva fare in qualsiasi occasione e situazione, senza attendere l’imbeccata
dai superiori (la cosiddetta Befehls-taktik) [...] Vi regnava, a dire il vero, una disciplina sommaria
ma straordinariamente efficiente, propria ai soldati di mestiere che hanno fatto molte campagne
insieme, con ufficiali che si erano dimostrati degni di rispetto» (Filippani Ronconi, L’aspro sapore
della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme (La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez.
30/6, pp. 3 e 5, Reg. 171 e 173).
62
delle chiacchierate intercorse tra camerati nella fruizione del tempo libero e nelle
bevute tra commilitoni: mai gli intervistati fanno riferimento ad un altro
volontario in base al suo grado. Anche l’ammirazione per un camerata del quale
si sono apprezzate le gesta in battaglia appare nel narrato dei volontari slegata
dal grado militare da esso ricoperto341, dalla sua provenienza geografica342, e
dalla sua estrazione sociale.
È pertanto possibile asserire che le variabili sociali che caratterizzano i
volontari intervistati non appaiono come influenti sul loro interagire e sullo
spirito di corpo interno alle Waffen-SS.
Interessante è, però, analizzare se e come le suddette variabili sociali
possano aver influenzato la personale scelta di volontariato nelle Waffen-SS.
L’età degli intervistati varia in modo sensibile dai giovanissimi ai volontari in età
avanzata343, e se certamente la giovane età può aver giocato un ruolo in alcune
scelte di volontariato, come evidenziato in alcune pubblicazioni che tendono a
correlarla con l’indottrinamento della propaganda fascista344, essa non può
essere identificata come fattore determinante e tantomeno univoco della scelta
di volontariato. Coetanei dei volontari italiani nelle Waffen-SS fecero, infatti, la
scelta esattamente opposta militando nella Resistenza o entrando in quella zona
grigia che evitò loro di schierarsi tra i contendenti345.
Nelle Waffen-SS uomini di differenti fasce di età, come evidenziato dai dati
demografici e dal narrato degli intervistati, si amalgamarono in un cameratismo
molto coeso dove, fa notare uno degli intervistati, «non era l’età a determinare il
grado o il ruolo ricoperto ma le capacità combattentistiche346».
341
Il volontario Rutilio Sermonti, come esempio tra gli altri volontari, in una intervista del
8 giugno 2008 ricorda: «ho combattuto con un grande combattente svizzero e poi c’era un altro
camerata che era combattente nato, era un certo Sclafani, che era capace di prendere per la testa
un mulo e buttarlo a terra, aveva una forza enorme e lo ricordo in azione che era capace di grandi
slanci e di un profondo cameratismo».
342
Il volontario Ireneo Orlando, nell’intervista del 10 maggio 2008, ricorda che «Thaler era
un combattente nato, severo, lo temevamo ma faceva le serate di cameratismo. Bevevamo,
chiacchieravamo, ma finita la serata ognuno poi tornava al suo ruolo». La sua ammirazione per
il camerata sudtirolese, che egli cita sempre usando il cognome e mai il grado, è forte,
indipendentemente dalla regione di provenienza di quest’ultimo che, come precedentemente
accennato, avrebbe potuto portare a delle tensioni conseguenti all’italianizzazione del Sudtirolo
attuata dal fascismo.
343
Oltre a persone in giovanissima età, tra i volontari figurano persone di età matura e di
provata esperienza come, ad esempio tra gli altri, Walter Morini, ed anche volontari in età
avanzata. È questo il caso ricostruito nell’intervista del giugno 2008 a Enrico di Robilant figlio
del volontario Carlo Manfredo di Robilant: «Durante la seconda guerra mondiale, per motivi di
età era a casa, ma con gli eventi dell’8 settembre aveva deciso di prendere parte attiva alla difesa
della patria, seguendo i valori che erano cari agli ufficiali. Come vecchio ufficiale aveva deciso,
secondo i suoi valori, di aderire alla RSI come reazione all’8 settembre. Chiede, dunque, di essere
ripreso in servizio che aveva lasciato col grado di generale di brigata. Davanti a quello che era
successo, la posizione che condivideva era quella di aderire alla RSI. Per i comandi militari
dell’esercito non aveva più l’età, era già un uomo di settanta anni, ma non voleva fare l’imboscato,
si arruolò nelle SS italiane».
344
Caniatti 2010: 35, Ailsby 2004: 26.
345
È De Felice con le sue ricerche a mettere in luce come dopo l’8 settembre 1943, con l’esercito
italiano che si sciolse come neve al sole, si determinò una vasta zona grigia di rifiuto sia della RSI
sia della Resistenza nella popolazione. Una zona grigia numericamente superiore a coloro che,
su un fronte o sull’altro, presero parte alla guerra civile (De Felice 1998: 92, 275, 294, 317).
346
Intervista telefonica del 11 giugno 2008 al volontario Paolo Cavalletti. L’affermazione del
63
Il volontario Adolfo Simonini, durante l’intervista, non nega, ad esempio, la
propria sorpresa nell’essersi trovato a ricoprire gradi elevati nonostante la
giovane età ed il basso livello di istruzione347. Se, dunque, in alcuni casi la giovane
età può essere considerata uno dei fattori che ha effettivamente giocato un ruolo
nella scelta di volontariato, anche in questi casi ciò avviene, come verrà preso
dettagliatamente in esame più avanti, per il suo ricollegarsi ad elementi come lo
spirito di avventura, le letture effettuate, il ribellismo giovanile348 e la cultura
politica, ma non come fattore a sé stante. Alcuni dei volontari intervistati non
erano giovani al momento dell’arruolamento, avevano infatti anni di guerra alle
spalle, ma decisero di unirsi alle Waffen-SS. È eclatante, in proposito, il caso di
Carlo Manfredo di Robilant che matura la sua scelta di volontariato all’età di
settant’anni349.
Lo stesso profilo demografico dei volontari intervistati smentisce, dunque,
alcune interpretazioni storiografiche italiane secondo le quali la giovane età,
spesso interpretata come immaturità, prepotenza giovanile o ignorante adesione
ad una ideologia maligna, sia elemento centrale del volontariato italiano nelle
Waffen-SS350.
È in proposito necessario puntualizzare come i volontari stessi abbiano
ammesso nel corso delle interviste di comprendere il fatto che tra loro «alcuni
possano aver adoperato la giovane età, soprattutto nelle immediate vicinanze
volontario trova peraltro riscontro nel fatto che il concetto tradizionale di soldato fu trasformato
nelle Waffen-SS in un’idea di belligeranza pura che superava di gran lunga il normale spirito di
sacrificio di un militare e che una volta entrati nelle Waffen-SS i volontari divenivano degli atletisoldati addestrati a cavarsela da soli e a non contare troppo sugli ordini superiori. Ogni uomo
delle Waffen-SS era considerato un potenziale sottufficiale, e ogni sottufficiale un potenziale
ufficiale (Lumsden 2006: 220-221). È per questa ragione che il metodo di addestramento e di
azione dei volontari, al centro del quale vi è l’efficienza militare all’interno di un clima
cameratesco di mutuo rispetto, viene talvolta paragonato a quello degli opliti spartani (Stein
1984: 12-13). È indubbio, inoltre, che il fatto che gli ufficiali condividessero giornalmente ogni
pericolo e rischio coi propri soldati fu elemento di elevate perdite che portarono a promozioni sul
campo e al bisogno di nuovi volontari (Butler 1979: 62; Stein 1984: 287-291).
347
Nell’intervista del 2 ottobre 2010 Adolfo Simonini fa presente: «Mi hanno dato i gradi
anche se non avevo studiato, proprio a me che avevo studiato meno degli altri, ma ero un
combattente e mi consideravano per quello».
348
In proposito alcune ricerche pongono in evidenza l’attrattività del nazionalsocialismo per
le giovani generazioni (Stein 1984: 290; Ailsby 2004: 25-26). Anche un testo con forte caratterizzazione apologetica come quello di Duprat pone però in chiara evidenza l’aspetto della forte
attrattività delle Waffen-SS per le giovani generazioni attribuendone la ragione a due dinamiche,
che saranno approfondite più avanti per i volontari italiani, quali l’avidità di avventura e di
eroismo e la volontà di costruire un mondo nuovo fondato su un cameratismo libero da formalismi
e sul socialismo (Duprat 2009: 255-256).
349
Intervista telefonica del 10 giugno 2008 a Enrico di Robilant, figlio del volontario Carlo
Manfredo di Robilant.
350
Le ricostruzioni italiane che si caratterizzano per i loro toni denigratori del fenomeno del
volontariato italiano nelle Waffen-SS, nella loro impostazione caratterizzata dall’identificazione
di un esercito schierato dalla parte sbagliata che si contrapponeva ai partigiani schierati dalla
parte della ragione portatrice di ideali di libertà, identificano nell’incoscienza e nella prepotenza
di giovani cresciuti negli ideali fascisti una ragione chiave del volontariato (Lazzero 1982; de
Lazzari 2002; Caniatti 2010). D’altro canto le pubblicazioni apologetiche sembrano inquadrare
la mobilitazione di giovani volontari come testimonianza e conferma della volontà di creazione
di una nuova Europa, mancando anch’esse di indagare con la dovuta profondità le motivazioni
di arruolamento nella loro profondità (Zucconi 1995; Afiero 2001b; Afiero 2009; Afiero 2009a).
64
della fine del conflitto, come pretesto per difendersi dalle accuse e dai processi
sommari351». Se quest’ultimo aspetto può rappresentare una parziale scusante
dell’eccessivo peso attribuito da alcune ricostruzioni alla giovane età come fattore
determinante nella maturazione della decisione di volontariato, è bene ribadire
che la distribuzione anagrafica dei volontari oggetto del presente studio e il
contenuto narrativo raccolto consentono di asserire che la variabile anagrafica
non rappresenta un elemento cardine, e tantomeno esclusivo, delle dinamiche
che portarono gli intervistati ad arruolarsi nelle Waffen-SS. Ciò anche perché le
tematiche che saranno analizzate di seguito, relative ai riferimenti culturali,
all’ideologia politica e al vissuto degli eventi storici in atto al momento dell’arruolamento, e che rivestono un importante ruolo nelle scelta di volontariato,
attraversano le differenti fasce d’età dei volontari intervistati senza possibilità
di esclusiva correlazione di fattori specifici con la giovane età.
Ma per completare l’analisi di tale tematica può essere utile citare, tra le
tante raccolte, le dichiarazioni del volontario Pietro Ciabattini che in proposito
afferma: «a me questa storia dell’incoscienza giovanile mi ha bello e stufato, ma
se una persona è nel pieno delle forze e vede che la sua patria viene invasa e l’idea
in cui crede è calpestata e c’è un esercito che le difende, cosa dovrebbe fare costui
se non mettersi a disposizione, se non combattere? Poi certo ci vogliono anche le
forze per farlo e una certa incoscienza, nel senso che andando nelle SS metti a
rischio la tua vita352, ma anche credendo che uno è giovane e perciò incosciente,
351
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti. Si noti riguardo a tale
aspetto che alcuni dei volontari italiani nelle Waffen-SS, come del resto avvenne per i militi della
RSI, si trovarono a dover testimoniare e addurre prove davanti alle Commissioni di Epurazione
istituite nell’immediato dopoguerra. È questo, ad esempio, il caso del volontario Carlo Gionzer
relativamente al quale la figlia Renata mi ha fornito copia, con missiva del 10 settembre 2009,
della memoria difensiva del 7 maggio 1946 presentata alla Commissione Provinciale di Epurazione di Trento che ne giudicava l’incompatibilità con la permanenza in servizio quale veterinario
consorziale di Bronzolo; la decisione della Commissione del 26 maggio 1946; e la lettera alla
Commissione per il riesame della cancellazione dai ruoli degli ufficiali di grado inferiore a
colonnello del 2 agosto 1948. Interessante è anche far presente come nei giorni dell’immediato
dopoguerra i volontari ebbero da temere i tribunali rivoluzionari che, senza alcuna autorità
giuridica, dettavano legge, condannavano a morte, facendo fucilare ogni fascista catturato dalle
squadre delle cosiddette polizie del popolo (Caniatti 2010: 93).
352
È stato in più studi ricostruito come la mortalità nelle Waffen-SS fosse elevata (Ailsby
2004: 75; Lumsden 2006: 221) e come esse fossero inviate a combattere nelle zone più calde del
fronte di guerra (Butler 1979: 75; Stein 1984: 246, 289), dove rappresentarono sempre, sino alla
fine della guerra, un pericoloso antagonista perché composte di soldati pronti a combattere sino
allo stremo (Stein 1984: 222, 246). In alcuni casi i soldati delle Waffen-SS preferirono, come aveva
teorizzato Himmler, il suicidio piuttosto che cadere in mano nemica (Stein 1984: 131). Un caso
di suicidio mi è stato narrato anche dal volontario Alessandro Scano, che lo riporta anche nel suo
memoriale (Scano 2005: 45), durante l’intervista del 2 agosto 2008: «noi non volevamo arrenderci,
era la notte del 24 aprile [1945] e eravamo assediati dai partigiani coi quali avevamo avuto
durissimi scontri a fuoco, ma avevamo praticamente finito le munizioni e un tenente tedesco dei
paracadutisti che si era aggregato alle SS e che comandava il plotone ci disse che avrebbe voluto
rifiutare, come era già avvenuto, la resa, ma che essendo privi di munizioni era meglio evitare
di far scorrere inutilmente altro sangue. Poco dopo udimmo uno sparo, si era tolto la vita pur di
non darsi prigioniero. Ricordo ancora l’intreccio di emozioni e di sentimenti che provai fra
l’ammirazione e lo sgomento. Ma ciò non era un’eccezione nelle SS, lo sapevamo bene, ma quel
giorno fui preso da molti sentimenti e mi chiesi perché io non fossi morto in guerra, ma
evidentemente per me il destino non aveva previsto la morte». Come sopracitato sulla combat-
65
c’è sempre una ragione che lo spinge o io combattevo assieme a soldati che
avevano tutte le età, c’era anche il senese degli Oddi che un giovincello non era
più, e allora cosa si vuol dire che eravamo tutti giovani rincitrulliti?353».
Come si desume la variabile anagrafica è ricondotta dai volontari più che alla
gioventù, alla presenza di un’età, e di conseguenza di una condizione fisica, che
consenta di realizzare i propri intenti di combattimento. Non è condizione
necessaria l’essere giovane, ma l’essere in grado di combattere o comunque di
rendersi utile all’interno del teatro di guerra.
Per quanto concerne il ceto sociale e l’istruzione, quest’ultima legata al dato
anagrafico, anch’essi appaiono dall’analisi del narrato dei volontari come non
determinanti, nella diversità dei casi presi in esame, per la maturazione delle
scelte di volontariato. Vi è tra i volontari italiani nelle Waffen-SS oggetto del
presente studio una composizione eterogenea, per quanto concerne l’estrazione
sociale e l’istruzione maturata al momento dell’arruolamento, che non consente
di spiegare il fenomeno di volontariato in base a tali variabili.
È bene far presente sin d’ora, invece, come dall’analisi del pensiero politico
e del vissuto dell’esperienza militare nelle Waffen-SS degli intervistati, che sarà
affrontata più avanti, emerga nei volontari un completo superamento, più o
meno consapevole, della propria estrazione sociale che non riveste rilevanza
alcuna diluendosi e perdendosi in sovrastrutture cardine dell’ideologia adottata
e dell’esperienza maturata come quelle di patria, giustizia sociale e cameratismo.
Un esame di dettaglio merita, in proposito, l’appartenenza di due dei
volontari alla nobiltà italiana: Pio Filippani Ronconi e Carlo Manfredo di
Robilant. Tenendo però sempre presente che le storie di volontariato ricostruite
riguardano tutti i ceti sociali e non è emersa alcuna particolare estrazione sociale
come maggioritaria. Focalizzando brevemente l’analisi sul fattore nobiltà, emerge come esso sia stato motivo di spinta all’arruolamento nel caso di Pio Filippani
Ronconi354, mentre non lo sia stato per Carlo Manfredo di Robilant355. Anche
questo caso evidenzia come non sia sufficiente lo studio delle variabili sociali,
come ceto, istruzione, lavoro svolto, età, provenienza geografica, per determinare
i motivi che spinsero alcuni italiani ad una scelta di volontariato nelle Waffentività delle Waffen-SS la storiografia ha raggiunto un consenso pressoché unanime, ma nel testo
del Lazzero sui volontari italiani le ricostruzioni oscillano tra l’attribuzione di un fanatismo
combattentistico e l’affermazione che “i battaglioni si sciolsero come burro” (Lazzero 1982: 29,
259). Una dettagliata descrizione delle operazioni della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS
composta da italiani è contenuta nello studio di Corbatti e Nava (2001) che, sebbene in alcuni
punti evidenzi toni apologetici, ricostruisce in dettaglio le operazioni dei volontari italiani.
Interessante, tra le tante storie ricostruite, per quanto concerne la combattività propria delle
Waffen-SS è la vicenda del sudtirolese SS-Sturmbannführer Thaler (Corbatti e Nava 2001: 324331).
353
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
354
Pio Filippani Ronconi afferma: «ad arruolarmi mi ha spinto il dovere, è tanto semplice.
Il Paese è in guerra, io sono giovane e uomo, quindi è mio dovere di italiano andare a combattere.
Inoltre, il dovere sociale: io sono un patrizio romano, sono conte del Sacro Romano Impero e sono
anche patrizio di una mezza dozzina di paesetti nella penisola italica» (Capano 2001). Sempre Pio
Filippani Ronconi ribadisce: «Incontrai prima il generale Lombard che mi offrì di entrare nel suo
stato maggiore e di aiutarlo con la popolazione italiana. Gli dissi che ero un patrizio romano e
come patrizio romano mi corrisponde, mi compete di morire riscattando la vergogna dei più»
(Dolcetta 2005: “Intervista a Pio Filippani Ronconi” in Il volto oscuro della liberazione, DVD
supplemento a “L’Unità”, n. 3 / I tabù della storia).
66
SS. Indispensabile, vista anche la composizione eterogenea dei volontari, è un
approccio di maggior profondità, si potrebbe dire più qualitativo, che raccolga e
analizzi non soltanto le variabili sociali ma anche, e soprattutto, quelle più intime
che afferiscono alla sfera della concezione della vita, del pensiero politico, della
lettura degli eventi in atto al momento della scelta, della formazione culturale e
delle esperienze vissute.
Interessante, relativamente al mancato ruolo dell’estrazione sociale dei
volontari, è far riferimento a ciò che gli intervistati dichiarano quando viene
chiesto loro di descrivere i propri camerati. Nessuno dei volontari cita spontaneamente, all’interno del narrato, l’estrazione sociale e, quando viene espressamente richiesto loro di affrontare la tematica, pressoché tutti gli intervistati non
comprendono l’utilità e le implicazioni della domanda. Tra questi, ad esempio, il
volontario Mario Lucchesini dichiara: «ma che importanza ha di chi era figlio
Tizio o che lavoro faceva il babbo di Caio? Noi combattevamo per le nostre idee
e basta, certo qualcuno avrà avuto più a cuore una ragione piuttosto che un’altra,
ma mica combattevamo per le nostre famiglie, combattevamo per le nostre
idee356». Soltanto il volontario Rutilio Sermonti intravede nella domanda delle
implicazioni storiografiche ed afferma: «certo la vulgata marxista ci vorrebbe
tutti al servizio del capitale, ma purtroppo per loro non era così, non combattevamo per difendere le nostre proprietà o quelle di altri, eravamo figli di tante
realtà sociali e ci battevamo anche per la giustizia sociale che loro confondevano
col materialismo357».
Interessante è, certamente, analizzare il retroterra famigliare dei volontari,
con particolare riferimento all’esame della eventuale partecipazione di membri
del nucleo familiare alla vita politica durante il fascismo. All’interno di tale
prospettiva non può, però, considerarsi sufficiente la rilevazione della sola
iscrizione dei membri della famiglia dei volontari al partito nazionale fascista
(PNF), dato che gran parte degli italiani vi era iscritto per varie ragioni che vanno
dalla comunanza ideale all’opportunismo o all’obbligo358. Assume, invece, maggior rilevanza valutare, all’interno del narrato dei volontari e dei loro famigliari,
355
Sulla scelta di volontariato del settantenne Carlo Manfredo Robilant, come risulta
dall’intervista al figlio Enrico del 10 giugno 2008, influisce la precedente appartenenza agli
ufficiali dell’esercito italiano ed il senso di responsabilità attribuito a tale grado: «con gli eventi
dell’8 settembre aveva deciso di prendere parte attiva alla difesa della patria, seguendo i valori
che erano cari agli ufficiali».
356
Intervista telefonica del 10 settembre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
357
Intervista al volontario Rutilio Sermonti del 8 giugno 2008. Il volontario con le sue parole
fa riferimento, in modo critico, alle interpretazioni che classificano il fascismo come prodotto
della società capitalistica e come reazione antiproletaria (De Felice 2005: 51-81) o che considerino
la sua componente socialista come equivoca e lontana dal perseguimento dell’emancipazione
degli esseri umani (Gentile 2008: 58).
358
De Felice mette in risalto, ad esempio, come all’interno del PNF si verificarono adesioni,
dopo la presa del potere, di elementi che possono essere definiti come “fiancheggiatori del
fascismo” e come emerse la figura del “fascista di adattamento” o del “antifascista mascherato”
(De Felice 1995: 23, 274). Una tabella, riportata all’interno dell’analisi di De Felice sulla crisi e
agonia del regime, per quanto concerne le iscrizioni dal 1939 al 1942 ad organizzazioni del PNF
o dipendenti da esso evidenzia un’elevata crescita (De Felice 1996: 969). Al PNF nel 1942
risultava iscritto il 61% della popolazione italiana, ma ciò senza che dietro i numeri, come già
all’epoca si discuteva all’interno delle gerarchie fasciste, vi fossero delle coscienze fasciste ma
anche molti iscritti di comodo animati da opportunismo (Gentile 2008: 172-179, 198-202).
67
il livello di quella che si potrebbe definire la fascistizzazione del contesto
famigliare. Contesto nel quale i volontari crebbero e che potrebbe aver rivestito
anche una certa influenza sulla loro decisione di volontariato nelle Waffen-SS.
Non che si possa sostenere una diretta correlazione, e tantomeno esaustiva, tra
ambiente famigliare e scelte di militanza politica, specie in un periodo di
smarrimento collettivo come quello italiano successivo al 25 luglio ed ancor più
all’8 settembre 1943359, ma l’argomento merita attenzione per valutare se
sussista tra i volontari un retroterra famigliare politico comune.
Il volontario Benito Scarazzini, che militò nella 1ª SS-Panzer-Division
Leibstandarte-SS Adolf Hitler, divisione di élite delle Waffen-SS360, proveniva
certamente da una famiglia di fede politica fascista e lo si vede ritratto in
tenerissima età nel gesto del saluto romano361. Il suo approccio con le Waffen-SS,
come racconta il nipote362, lo ebbe a Frugarolo, un paese nei pressi di Alessandria
dove stazionavano reparti della LSSAH in partenza per la Russia363 e dove suo
padre aveva stretto amicizia con un capitano. Quando il giovane Benito, mentendo sulla sua età e fingendosi più grande, decise di arruolarsi volontario in quella
formazione, la sua famiglia, nonostante la fede politica fascista, tentò invano di
convincere il giovane e i tedeschi a rinunciare all’arruolamento.
Il volontario Carlo Gionzer nasce in una famiglia nella quale, come narra la
figlia364, «si respirava un forte clima patriottico, dato che il padre era pro italiano
ai tempi dell’irredentismo e venne anche internato in un campo di concentramento austriaco». Vi era in famiglia un grande amore per l’Italia, ma anche un senso
di sfiducia nella politica che il padre del volontario aveva maturato in seguito alla
forte delusione patita per come vennero trattati i combattenti alla fine della
359
In proposito De Felice analizza come tale smarrimento collettivo si ricolleghi al fenomeno
della renitenza alla leva sia al Nord (RSI) sia al Sud (Alleati) del Paese e a quello che portò alcune
persone a passare dall’esercito repubblicano alla Resistenza e viceversa (De Felice 1998: 99-100).
Interessante è notare come, tra i volontari italiani nelle Waffen-SS le cui storie sono state
ricostruite all’interno di questo studio, ve ne sia uno, Alamiro Lottici detto Miro, che passerà dalle
Waffen-SS alle formazioni partigiane e successivamente lascerà anche queste, come ricostruito
nell’intervista del 5 giugno 2008 al figlio Mauro. Il volontario Alessandro Scano, nell’intervista
del 2 agosto 2008, e il volontario Pietro Ciabattini, nell’intervista del 15 maggio 2006, fanno
riferimento, invece, al passaggio di un volontario dalle fila della Resistenza a quelle delle WaffenSS. Il primo inserisce tale vicenda anche all’interno della propria autobiografia (Scano 2005: 24).
Anche all’interno dello studio di Valente sul SS-Wehrgeologen-Bataillon 500 e le sue operazioni
in territorio italiano, si fa riferimento al volontario Victor Piazza passato dai partigiani alle SS
(Valente 2007: 146).
360
La 1ª SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler (LSSAH) ebbe un ruolo cruciale
nella nascita e sviluppo delle Waffen-SS (Stein 1984: 4-15) e nel suo ruolo di prima unità armata
delle SS fu destinata a mantenere la propria posizione di unità più antica e più valorosa delle
Waffen-SS e a guadagnarsi il primato nei combattimenti al fronte (Lumsden 2006: 211). Anche
Carlo Gentile nella sua ricostruzione delle operazioni della LSSAH in Italia, tra l’agosto e il
settembre 1943, definisce questa divisione come “una delle più celebri unità di élite delle forze
armate tedesche” (Gentile 1995: 75).
361
Si veda la fotografia del piccolo Benito Scarazzini che saluta romanamente all’interno
dell’appendice fotografica.
362
Intervista del 10 settembre 2009 a Stefano Monti, nipote del volontario Benito Scarazzini.
363
Per quanto concerne le operazioni della LSSAH in Italia si veda per il Piemonte la già
citata ricostruzione di Gentile (1995) e per il Lago Maggiore quella di Parachini (s.d.).
364
Intervista telefonica del 1° settembre 2009 a Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo
Gionzer.
68
prima guerra mondiale365. Carlo rimase orfano di padre nel 1930. Suo padre,
farmacista, ebbe contatti con il fascismo e con Roma per l’opera di rilancio delle
terme di Roncegno che aveva a cuore, ed era inserito nella vita sociale dell’epoca,
ma il suo primo riferimento restava più la patria che il fascismo.
Un forte sentimento patriottico animava anche la famiglia Taffon, ed
Antonio, poi volontario nelle Waffen-SS, visse all’interno del contesto famigliare
una stretta amicizia col cognato Giovanni, che fu volontario nelle Camicie Nere
d’Assalto366.
Fortissimo è, invece, il retroterra famigliare di stampo fascista del volontario
Alessandro Scano, il cui padre, che militò negli arditi durante la prima guerra
mondiale e «partecipò alla fondazione e ascesa del movimento fascista», fu
anch’egli volontario nelle Waffen-SS. Tutta la famiglia Scano era animata da
forti sentimenti fascisti, ed il volontario racconta: «per la stagione d’odio che seguì
la guerra la mia famiglia pagò a caro prezzo il suo credo fascista, pagammo un
prezzo di sangue altissimo dato che vennero assassinati oltre a mio padre anche
tre zii, le sorelle di mia madre hanno avuto i rispettivi mariti trucidati nei giorni
seguenti il 25 aprile ed il marito della sorella di mio padre ha subito la stessa
morte367».
Anche il padre di Giuliano Bortolotti «aveva partecipato alla prima guerra
mondiale e era un fascista della prima ora che aveva trasmesso questo senso di
appartenenza politica in famiglia», ma il volontario parlando della sua decisione
di arruolarsi nelle Waffen-SS specifica: «quando ho deciso di arruolarmi l’ho fatto
però di nascosto dai miei genitori perché certo non sarebbero stati contenti368».
Il volontario Francesco Scio, che descrive la sua famiglia come di «fervente
fede mussoliniana» e se stesso e il fratello caduto in Grecia come «sempre pronti
a rischiare la vita per l’Italia e per il Duce», racconta, invece, di aver informato
la madre della sua scelta di volontariato e descrive come questa, «anche se
turbata perché aveva già perso un figlio in Grecia, non si oppose perché era una
mamma di tipo spartano369». Il volontario Rutilio Sermonti, figlio di Alfonso,
avvocato ed esperto di diritto sindacale e socializzazione370, è cresciuto all’interno
di quello che viene definito il «fascismo rosso o fascismo sociale371» e condividerà
365
Esemplare in proposito è ciò che avvenne con gli arditi al termine della prima guerra
mondiale. La fine degli arditi come specialità dell’esercito fu praticamente decisa dagli alti
comandi all’indomani stesso dell’armistizio. L’emarginazione militare ed anche sociale patita
dagli arditi favorì il loro ingresso nella lotta politica del primo dopoguerra avvenuto attraverso
la mediazione di due gruppi diversi, ma vicini e presto alleati: i futuristi e il Popolo d’Italia di
Mussolini. Estromessi dalla scena nazionale gli arditi si avvicinarono a Mussolini perché, dopo
aver combattuto eroicamente in guerra, desideravano combattere nuove battaglie, questa volta
politiche e civili, col medesimo fine di quando erano soldati: la grandezza della patria (Rochat
2006: 115-131)
366
Intervista del 6 giugno 2008 con Agostino Taffon, nipote del volontario Antonio Taffon.
367
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
368
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
369
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
370
Sermonti 1929 e 1934.
371
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti. Per quanto concerne il
concetto di fascismo sociale si vedano, tra gli altri, i seguenti testi relativamente alla nascita
dell’ideologia fascista in Italia e alla fase della RSI: De Felice 1965; Accame 1990; Sternhell 1993;
De Felice 1998: 343-554.
69
il concetto espresso dal padre, che «è meglio, cento volte meglio essere sconfitti,
perdere Fiume, Trieste e la Dalmazia ... ma cadere in campo, innalzando sulle
macerie la fiamma della nostra fede372».
Anche Mauro Vivi ebbe un padre di fervente fede fascista, e la moglie del
volontario racconta: «suo papà era fascista e ci credeva molto, mio marito si
arruolò quando salì a Nord a cercare il padre che era nei Carabinieri, gli diedero
un passaggio i tedeschi, che erano amici, e sfruttò la possibilità di stare con
loro373».
Il volontario Ireneo Orlando descrive così il retroterra fascista della sua
famiglia: «mio padre era un funzionario del Ministero della Giustizia, con forte
senso dello Stato, ed i miei quando hanno saputo che mi arruolavo lo hanno
accettato, anche mia mamma era fervente fascista, si dava per scontato che si
poteva morire e si era pronti a tutto, perciò sono andato da solo a Cremona dritto
dritto ad arruolarmi374». Il figlio del volontario Mario Mullon fa presente come in
famiglia non sia stato solo suo padre a vestire la divisa delle Waffen-SS, ma che
anche il fratello di sua nonna è stato un ufficiale delle Waffen-SS375.
Dalle interviste effettuate sinora citate emerge, dunque, come una parte dei
volontari crebbe in un ambiente famigliare caratterizzato in alcuni casi dalla
sentita adesione al fascismo ed in altri dalla presenza di sentimenti nazionalistici, talvolta correlati ad una sfiducia nella politica. È ovviamente difficile, a tanti
anni di distanza, riuscire a ricostruire in dettaglio le sfumature politiche proprie
di quegli ambienti famigliari che si caratterizzano per la loro adesione al
fascismo, ma è questo un aspetto interessante, considerando che il fascismo non
fu un movimento monolitico, ma venne attraversato da una eterogeneità di
posizioni politiche che divennero, talvolta, anche conflittuali376.
La profondità tematica e narrativa delle interviste effettuate ha reso quantomeno possibile, relativamente ai casi in cui emerge un retroterra famigliare di
stampo fascista, una ricostruzione di dettaglio che consente di evidenziare la
presenza di una adesione articolata. Emergono posizioni che vanno da un
fascismo citato in senso generale al mussolinismo377, al fascismo sociale ed al
372
Della Rossa 2007: V.
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 a Bruna Vivi, moglie del volontario Mauro Vivi.
374
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
375
Intervista telefonica del 2 settembre 2009 a Lorenzo Mullon, figlio del volontario Mario
Mullon.
376
È De Felice a mettere in evidenza, ad esempio, come l’adesione al fascismo dei conservatori
si concretizzò in una vasta area di “fiancheggiatori” del fascismo che polemizzarono costantemente con la componente rivoluzionaria delle origini sin dai primi passi della strutturazione dello
Stato fascista. Si delinea e perdura una situazione che porta De Felice a descrivere un Mussolini
stretto tra l’incudine del compromesso con le forze politiche e economiche tradizionali, che gli
permetteva di mantenere il potere, e il martello dello squadrismo. Un equilibrio destinato a
rompersi alla prima grande crisi e a liberare tutte le grandi forze centrifughe più o meno latenti,
sopite e compresse, fatto che avvenne appunto il 25 luglio 1943, quando, di fronte alla sconfitta
militare, il regime fascista crollò d’un colpo e con esso il fascismo. Sopravvisse, invece, il vecchio
fascismo rivoluzionario e intransigente che, riallacciandosi al programma sociale del 1919, animò
la RSI (De Felice 1995: 5-10).
377
Si intende per mussolinismo quella componente di adesione al fascismo fondata sul mito
di Mussolini che, adoperato dalla “fabbrica del consenso” fascista (Passerini 1991; Gentile 1994;
Gentile 1998; Petacco 2004), ma collegato anche al mito socialista del rivoluzionario, contribuì
a determinare in alcuni strati della popolazione una adesione al fascismo mediata dalla figura
373
70
desiderio di tornare al fascismo rivoluzionario della prima ora.
Vi è, però, una parte dei volontari che denota, invece, situazioni famigliari
differenti da quelle prese precedentemente in esame. Si tratta di volontari che
sono cresciuti in ambienti non dichiaratamente fascisti, nei quali la politica non
ha rivestito un peso determinante, o che hanno vissuto situazioni famigliari
complesse con famiglie composte sia da fascisti che da antifascisti.
Il volontario Wainer Novellini, che era solito firmarsi Wagner, crebbe, ad
esempio, in un ambiente famigliare composito nel quale la sua scelta di volontariato «fu per una parte della famiglia una scelta naturale e per l’altra motivo di
vergogna, tanto che anche dopo la guerra di lui si sarebbero potute sapere più
cose, ma per una parte della famiglia egli rimase una vergogna e per l’altra una
persona da ricordare378».
Il volontario Ferdinando Gandini ricorda come al momento del suo arruolamento fosse orfano di padre e la vita della famiglia fosse incentrata sul lavoro più
che sulla partecipazione alla politica. Egli afferma: «il problema di mia madre,
che era una sarta, era quello di garantirci sostentamento e anche io la aiutavo
col lavoro; la politica non era presente in famiglia».
Il volontario, in proposito, ricorda come la scelta di arruolamento fosse
maturata dentro di sé e descrive così la sua sofferta partenza: «quando sono
partito volontario ho avuto una guerra interna, se avevo fatto bene ad arruolarmi
e lasciare la mamma o se dovevo stare con lei, quando mia mamma mi ha salutato
non ce l’ha fatta a guardarmi negli occhi, aveva gli occhi lucidi ed è stato
bellissimo e tristissimo insieme379».
Anche il volontario Cirillo Covallero, che militò nella 4ª SS-PolizeiPanzergrenadier-Division e nella 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, riferisce di essere cresciuto in un «clima famigliare non fascista380». Ma ancor più netta
è la testimonianza del volontario Mario Lucchesini che afferma: «nella mia
famiglia non c’era nessun fascista, mio padre che era militare di carriera in
marina, si considerava un militare di professione e nessuno in famiglia si
dichiarava fascista ed io non ho mai partecipato a organizzazioni giovanili
fasciste381».
Interessante, relativamente alla testimonianza di questo volontario, è notare come la condizione di militare nell’esercito del padre venga considerata in
famiglia incompatibile con la militanza fascista. Il rapporto tra fascismo e forze
armate va, infatti, esaminato in parallelo ed in riflesso a quello tra Vittorio
Emanuele III e Mussolini. Il sovrano e le forze armate, soprattutto esercito e
marina, furono legati, infatti, da una sorta di filo rosso che va dall’ottobre del
1922 al luglio 1943. Con Vittorio Emanuele III impegnato a mantenere il
controllo sulle forze armate come unico elemento su cui contare per salvaguardare il suo potere eroso dal fascismo e con le forze armate interessate a tale
del duce (Gentile 2008: 113-124).
378
Intervista telefonica del 21 settembre 2009 e corrispondenza del 30 novembre 2009 con
Walter Oggioni, nipote del volontario Wainer “Wagner” Novellini. Per quanto concerne le vicende
del volontario e di altri italiani arruolati nel SS-Wehrgeologen-Bataillon 500 si veda lo studio di
Luca Valente (2007).
379
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
380
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
381
Intervista telefonica del 10 settembre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
71
protezione perché preoccupate di trovarsi esposte, senza copertura, all’invadenza del fascismo382.
Il volontario Paolo Cavalletti, che si arruolò insieme al fratello e ad un amico
mentre si trovavano in Germania come lavoratori, racconta di come il padre fosse
capitano della contraerea ed afferma di non essere cresciuto in un ambiente
fascista, ma anzi in un ambiente nel quale «gli ideali politici erano pochi». In una
sua missiva, dopo aver descritto la situazione famigliare in cui è cresciuto,
specifica poi senza reticenze: «oggi comunque sono di destra383». Il volontario
Adolfo Simonini, puntualizzando anch’egli la differenza tra appartenenza all’esercito e adesione al fascismo, racconta la sua condizione di orfano di padre sin
dalla giovane età e il suo ingresso nel mondo del lavoro all’età di sedici anni: «io
non avevo studiato a scuola, avevo fatto la quinta elementare malamente, ero
andato a lavorare presto quando rimasi orfano di padre, ma ero un professore
nell’esercito, conoscevo bene le armi, ma io non ero nella Milizia, ero un soldato,
ero nell’esercito, io ero un combattente, in guerra stavo bene384». Il volontario
Giorgio Bernagozzi puntualizza: «quello fascista era il mio ideale, posso dire di
aver vissuto in una famiglia che non fu per nulla devota al fascismo, che non fu
mai fedele al fascismo, mentre condivisi questo ideale con mio cugino che anche
lui fu volontario nelle Waffen-SS385».
Se il dato anagrafico, l’estrazione sociale e l’istruzione maturata386 appaiono
distribuiti, e quindi non possono essere considerati come fattori determinanti
all’interno delle dinamiche che portarono alla scelta di volontariato, anche per
quanto riguarda il clima politico respirato in famiglia, la situazione appare,
dunque, assai composita. Vi sono certamente famiglie a prevalente cultura
fascista, ma ve ne sono altre semplicemente nazionaliste, altre indifferenti alla
situazione politica e concentrate, anche per motivi contingenti di lutto, sul lavoro
e sul mantenimento del nucleo famigliare, altre nelle quali sono presenti
sentimenti di avversione e ostilità al fascismo, tanto da ritenere la scelta di
volontariato una vergogna, altre ancora che palesano una presa di distanza dal
fascismo che si esercita non mandando il proprio figlio alle organizzazioni
giovanili fasciste ed altre ancora nelle quali la professione militare viene
contrapposta e talvolta ritenuta incompatibile con l’adesione al fascismo.
È possibile pertanto concludere che neppure il vissuto politico dell’ambiente
famigliare denota, dalle testimonianze raccolte, uno scenario di uniformità
situazionale. Non è pertanto possibile collegare univocamente la presenza di un
determinato credo politico-famigliare alla scelta di volontariato nelle Waffen-SS
dei volontari oggetto del presente studio.
Emerge piuttosto nei volontari la maturazione di una scelta di tipo personale
382
Goglia e Moro 2002: 303.
Interviste telefoniche, del 11 giugno e del 20 agosto 2008, e corrispondenze, del 23 maggio
e 19 agosto 2008, col volontario Paolo Cavalletti.
384
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
385
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
386
Anche l’istruzione maturata dai volontari al momento dell’arruolamento varia in modo
sensibile, in correlazione con l’età, l’estrazione sociale o con eventi occasionali, come i lutti che
hanno costretto alcuni degli intervistati ad un prematuro ingresso nel mondo del lavoro, e non
si evidenzia, pertanto, tra i volontari oggetto del presente studio, alcuna particolare caratterizzazione imputabile al livello di istruzione.
383
72
che segna una presa di distanza dalla famiglia che, anche se talvolta dolorosa, è
ritenuta necessaria. Si assiste ad un superamento della famiglia avvertito come
indispensabile secondo dinamiche complesse all’interno delle quali la dimensione personale e quella politica si intrecciano.
I volontari più giovani vivono indubbiamente il distacco dal contesto famigliare come necessario per dar corpo ad un forte vitalismo eroico e ad un concetto
della vita come avventura che potrebbe essere visto come tipico dell’età, ma che
si correla anche a dinamiche politiche e culturali che saranno approfondite tra
breve. Lasciare la propria casa, il proprio paese, la propria città è un qualcosa che
si lega certamente, in alcuni casi, ad uno spirito giovanile d’avventura all’interno
del quale la guerra in corso diviene un’opportunità. È questa una dinamica che
Leleu riconduce anche ai giovani volontari tedeschi nelle Waffen-SS per i quali
l’arruolamento diviene occasione per un ingresso anticipato nel mondo degli
adulti387 e che ricorre in diverse storie di volontari di differente nazionalità388. Ma
nel complesso, tenendo conto che i volontari oggetto della ricerca appartengono
a diverse fasce d’età, e che anche persone non più giovani e con anni di guerra alle
spalle sacrificano le proprie responsabilità famigliari, si evidenzia da subito una
comune adesione ad una morale fascista che si costituisce anche dell’essere
capaci di osare e di passare all’azione, in opposizione con quella che è ritenuta la
morale borghese dell’uomo dedito al proprio interesse389. Si tratta di un comune
vitalismo eroico che accomuna i volontari di diversa provenienza sociale, famigliare, geografica, anagrafica e li spinge a prendere parte agli eventi, secondo
l’adozione di un modello comportamentale che appare fondato sulla mistica
dell’azione e l’etica dell’eroismo.
Fascinazioni letterarie
Per una prima comprensione della mistica dell’azione e dell’etica dell’eroismo
che animò i volontari italiani nelle Waffen-SS è necessario prendere in esame le
letture che maggiormente hanno interessato i volontari stessi nella loro giovane
età o in prossimità della scelta di volontariato. Ma lo studio delle fascinazioni
letterarie precedenti e coeve all’esperienza di volontariato è, soprattutto, importante per determinare e analizzare l’apparato culturale proprio dei volontari.
Come è altrettanto utile tenere in considerazione le fascinazioni letterarie
successive che i volontari hanno spontaneamente citato parlando della propria
esperienza di volontariato.
Nel primo caso, che sarà preso in esame all’interno di questo paragrafo, è
possibile rinvenire un’insieme di influenze formative o di fascinazioni che
possono aver contribuito, assieme ad altre variabili, alla scelta di volontariato.
Nel secondo caso, quello della citazione all’interno del narrato della propria
esperienza di volontariato di letture affrontate successivamente a tale esperien-
387
Leleu 2007: 232-241.
Il volontario finlandese Lasse Järvelin fa presente, ad esempio, come all’epoca i giovani
non avessero le opportunità di viaggiare che ci sono oggi e come il volontariato fosse anche
occasione di recarsi in Germania (Porvali 2008: 61-64).
389
Gentile 2008: 236.
388
73
za, è innanzitutto interessante conoscere chi furono tali autori e valutare, poi, se
essi abbiano influito sull’autopercezione e sulla valutazione delle scelte effettuate390. È questa un’analisi che attraverserà il presente studio nel susseguirsi dei
suoi argomenti d’indagine.
L’eterogeneità dei volontari, che presentano differenti livelli formativi e
culturali, rende l’analisi delle fascinazioni letterarie antecedenti e coeve all’esperienza di volontariato ancor più importante, al fine di valutare la presenza di
eventuali elementi di coerenza ed omogeneità tematica tra le letture effettuate.
Tenendo conto che la scolarità maturata, come precedentemente fatto presente,
all’interno delle Waffen-SS era secondaria rispetto all’eroismo dimostrato in
battaglia per il conseguimento di gradi anche elevati, e che all’interno delle
Waffen-SS erano tenuti corsi di formazione culturale391, appare ancor più
importante conoscere le letture spontaneamente effettuate dai volontari stessi
per determinare un quadro di dettaglio di quelle dinamiche culturali e letterarie
che, affascinandoli ed ispirandone i comportamenti, possono aver giocato un
ruolo all’interno del fenomeno di volontariato.
Tra le letture effettuate antecedentemente alla scelta di volontariato, che i
volontari citano spontaneamente nel narrato senza stimolo alcuno, emergono
soprattutto scritti a carattere avventuroso. Si evidenzia, infatti, l’ammirazione
per i romanzi di Salgari, la passione per le gesta del Cid Campeador e il fascino
di fumetti come l’Uomo mascherato, Gordon, Cino e Franco e, soprattutto, Dick
Fulmine. L’avventura è ciò che più appassiona gli intervistati negli anni giovanili
precedenti la loro scelta di volontariato nelle Waffen-SS.
Nel citare queste letture il narrato dei volontari si arricchisce, ancora oggi a
tanti anni di distanza dall’avvenuta lettura, di una forte espressività emozionale
che, all’interno di una narrazione coerente ed articolata, evidenzia un entusiasmo vitalistico prorompente che si traduce in affermazioni come le seguenti:
«quello di Salgari era lo spirito di avventura che ci aveva cresciuti!392» e «il
nutrimento della mia anima erano le gesta del Cid Campeador, che corrispondevano in tutto e per tutto all’insegnamento silenzioso di mio padre: io sentivo di
dovermi comportare come un caballero393».
Il volontario Ireneo Orlando identifica in Dick Fulmine non soltanto il suo
eroe preferito, ma anche l’esempio in termini di condotta di vita. Egli dichiara in
proposito: «Dick Fulmine era avventuroso e al tempo stesso giusto, perché
390
Si tratta, in questo caso delle letture successive all’esperienza di volontariato, principalmente di testi storici o ricostruzioni giornalistiche sulla seconda guerra mondiale e la guerra
civile italiana.
391
Tra i volontari intervistati diversi fanno presente di aver partecipato a corsi di formazione
culturale interni alle Waffen-SS e le tematiche emerse con maggior ricorrenza sono il concetto
di Europa, in un caso viene citata l’Eurasia, la giustizia sociale e la socializzazione. Sin dalle
prime fasi dell’organizzazione delle Waffen-SS furono tenuti corsi su tematiche di interesse
politico e ideologico per la formazione delle reclute (Stein 1984: 9-15; Ailsby 2004: 31-39). La
formazione di un soldato delle Waffen-SS era ritenuta molto importante, e le Waffen-SS
svilupparono il più efficiente tra tutti i sistemi di addestramento della seconda guerra mondiale,
anche se con l’aumentare delle difficoltà militari dovute alla guerra non poté mantenere gli
standard iniziali (Stein 1984: 12). Alla partecipazione italiana a corsi tenuti nelle scuole delle SS
aveva accennato Lazzero (1982: 167) nella sua ricostruzione sul fenomeno dei volontari italiani.
392
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
393
Marconi 2003.
74
difendeva i deboli. Io avevo l’avventura nel sangue! E sentivo, come Dick
Fulmine, che la forza va messa al servizio dei più deboli394». Si verifica una
trasposizione narrativa delle caratteristiche attribuite a Dick Fulmine al proprio
vissuto e alla propria missione di volontariato.
L’esempio di questi eroi popolari, che animano i romanzi salgariani o i
fumetti d’avventura in voga all’epoca, viene spesso citato dai volontari stessi
come modello di quell’eroismo e spirito d’avventura che li ispirarono nella loro
condotta di vita. Non vi è dubbio, per quanto emerge dal narrato, che questi miti
eroici mutuati dalle letture giovanili divennero e funsero da modelli comportamentali per i volontari intervistati anche in età adulta. I contenuti dei romanzi
e dei fumetti di avventura offrono ai volontari un intreccio di spirito di avventura
ed eroismo al servizio dei deboli che si arricchisce, però, anche di alcune valenze
di carattere politico. Ripercorrere tale intreccio, facendo riferimento al narrato
dei volontari stessi, è utile, dunque, per comprendere a pieno il ruolo educativo
e formativo che le sopracitate fascinazioni letterarie rivestono.
Il volontario Pietro Ciabattini, ad esempio, fa notare come col fratello, già nel
1942, facessero propositi di arruolarsi e come avessero intenzione di prestare il
loro volontariato militare in Africa perché, asserisce il volontario, «furono
fascismo e nazismo che rivalutarono le identità nazionali e gli indipendentismi,
del resto lo avevamo sempre letto, anche in Salgari, che erano gli inglesi ad
opprimere i popoli395». La volontà di partecipare alla guerra in corso in Africa non
riflette in alcun modo un intento colonialistico, il volontario è infatti critico anche
verso l’avventura coloniale italiana, ma rimanda, piuttosto, a propositi di
«aiutare i più deboli a liberarsi del giogo inglese e a raggiungere la propria
indipendenza»396.
L’Africa per molti volontari rappresenta una terra misteriosa ed il ricordo che
il volontario Walter Morini tramanda al figlio Diego, relativamente alla sua
esperienza africana precedente l’arruolamento nelle Waffen-SS, si tinge di toni
salgariani ricchi di note avventurose: «mio padre mi raccontava di quando teneva
un leoncino nella tenda ed una scimmia per togliere i pidocchi, diceva di aver
mangiato il coccodrillo che è molto buono, mentre la carne di scimmia era
dura397».
Ma i personaggi, tratti dalle letture d’avventura, che affascinano i futuri
volontari nelle Waffen-SS non incarnano soltanto la figura dell’avventuriero, ma
anche e contemporaneamente quella del “giusto” pronto a difendere i più deboli,
siano essi rappresentati dai popoli soggiogati dagli inglesi o dalle persone
bisognose in aiuto delle quali interviene Dick Fulmine. Si tratta di eroi itineranti
che viaggiano e scoprono il mondo; avventurieri dall’animo nobile che non esitano
a ricorrere all’uso della forza e delle armi per difendere la causa dei più deboli alla
quale si appassionano. Eroi, come afferma Ireneo Orlando, che «non sono quelli
del Corriere dei Piccoli398, destinati a ragazzini per bene, ma eroi per chi ha
394
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
396
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
397
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
398
“Il Corriere dei Piccoli”, noto anche come “Corrierino”, è la prima rivista settimanale di
fumetti dell’editoria italiana. Il primo numero uscì in edicola il 27 dicembre 1908 come
395
75
l’avventura nel sangue399».
Gli eroi salgariani sono animati da un eroismo scanzonato e ribelle, sono
caratterizzati dal fisico giovanile, lo spirito mai domo, la risata beffarda, le
proverbiali cento sigarette e la fedeltà assoluta all’amicizia e alla parola data400.
Non sono immuni alla sconfitta, e piuttosto vengono spesso descritti sull’orlo
della disfatta, se ne assapora la malinconia della caduta401, ma gli eroi salgariani
non si arrendono mai, preferiscono morire ma non si arrendono mai. L’ardimento
è una virtù immancabile dell’eroe salgariano che è anche uno spargitore di
sangue, ma non è un sanguinario, non è un crudele, il suo ardimento è illuminato
dalla generosità e dalla bontà in nome della lotta del bene contro il male, che è
il principale motore dell’azione in molti dei romanzi più famosi ed amati di
Salgari402.
L’avversione dello scrittore, e conseguentemente dei suoi eroi, è verso il
materialismo anglosassone403, verso il potere coloniale anglosassone che è
identificato come il potere dell’oppressione, e quindi immorale, non giustificabile
e non accettabile404. Salgari, attraverso i suoi eroi, fu politicamente dalla parte
delle vittime del colonialismo, e quindi irrinunciabilmente avverso agli inglesi405,
come fatto presente dal volontario Pietro Ciabattini durante la sopracitata
intervista. Dalla lettura dei romanzi salgariani si evince, inoltre, che lo scrittore
scelse come personaggi eroici i vinti ansiosi di legittime vendette e non i
trionfatori e anche questo aspetto di eroismo tragico affascinò numerosi giovani
che divorano questi testi avventurosi invisi ai dotti amanti del bello scrivere406.
Dal 1928 il fascismo avvia una campagna di valorizzazione e rilancio dello
scrittore, presentandolo come il precursore della Gioventù Italiana del Littorio
(GIL), e diffondendo l’idea di un Salgari, morto nel 1911, prefascista e anticipatore dell’ideologia fascista407. Le sue opere vengono, inoltre, adoperate dal
fascismo in chiave anti-inglese408. Ciò valse a Salgari l’avversione di Gaetano
Salvemini che criticò aspramente le sue opere asserendo che la generazione
fascista aveva poppato dai suoi libri, dove, a suo avviso, l’azione è celebrata per
se stessa, così come lo sono l’ardimento, il gusto del pericolo, la forza fisica409.
Meno critico, e più centrato storicamente, appare invece il giudizio espresso
recentemente dal giornalista Filippo Rossi, sull’influenza formativa di Salgari,
quando sostiene che vi sarebbe un poco del romanziere veronese nella marcia su
Roma, tra i ragazzi di Salò e tra quelli della Resistenza, dato che l’immaginario
salgariano rappresentò, per tutto il Novecento, la seconda vita di milioni di
supplemento del “Corriere della Sera” e il pubblico al quale si rivolgeva era dichiaratamente
quello dei figli della nascente borghesia, fedele lettrice del “Corriere” (Carabba 1997; Gadducci
e Stefanelli 2008).
399
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
400
Capanelli s.d.: 173-177.
401
Traversetti 1989: 28-29.
402
Bargellini 1954: 76-79.
403
Capanelli s.d. 198-206
404
Lawson Lucas 2000: 50
405
Arpino e Antonetto 1982: 112
406
Arpino e Antonetto 1982: 132.
407
Sarti 1990: 14.
408
Lawson Lucas 2000: 52-58.
409
Arpino e Antonetto 1982: 22.
76
persone che hanno sognato vite alternative in nome di Sandokan e del Corsaro
Nero410.
In una recente intervista lo scrittore messicano, ma spagnolo di nascita, Paco
Ignacio Taibo ha, inoltre, fatto notare come Che Guevara stesso, che teneva un
registro preciso e accurato delle sue letture, avesse letto sessantadue libri di
Salgari411. Se dunque nel 1927 Alberto De Stefani, squadrista della prima ora e
futuro vicepresidente dell’Accademia d’Italia, sostenne che il primo, tacito e
sicuro alleato di Benito Mussolini fu proprio Salgari, perché a suo avviso nessuno
degli scrittori del secolo in corso aveva lasciato un solco così profondo nell’anima
nazionale che aveva dimenticato le glorie passate, sepolto le speranze e i sogni
di grandezza in un clima sempre più affaristico nel quale a farla da padroni erano
le posizioni agiate del borghese e le idee socialiste umanitarie prive di ogni afflato
di eroismo412, appare improprio attribuire unilateralità politica alle influenze
salgariane.
Se non vi è dubbio, inoltre, che alla lettura dei romanzi di Salgari si possa
attribuire un’influenza a livello di formazione dei modelli eroici adottati dagli
intervistati, e che certamente tali modelli si arricchiscono anche di implicazioni
politiche e sociali, come l’anticolonialismo e il perseguimento della giustizia a
favore dei deboli contri i forti, appare però eccessivo ricondurre a tali fascinazioni
letterarie l’adesione dei volontari al fascismo. Tale operazione risulterebbe
indubbiamente approssimativa e preclusiva di una approfondita analisi del
pensiero politico che caratterizza i volontari italiani nelle Waffen-SS, identificato
il quale, sarà interessante comprendere se esso evidenzi o meno aree di sovrapposizione coi messaggi politici e sociali rinvenibili nei romanzi salgariani.
I modelli eroici dei volontari italiani non sono, inoltre, mutuati in modo
esclusivo dai romanzi di Salgari, come emerge, ad esempio, nel caso del volontario Filippani Ronconi. Il Poema de Mio Cid, la cui lettura affascina molto il futuro
volontario, non può stilisticamente essere comparato ai romanzi salgariani o alla
fumettistica della prima parte del Novecento, essendo esso un’opera che occupa
nella letteratura spagnola il posto che in quella inglese, francese e tedesca hanno
Beowulf, La Chanson de Roland e Nibelungenlied413. Ma la figura di Rodrigo Díaz
de Vivar è pur sempre quella dell’eroe che non esita a mettere a repentaglio la
propria vita anche se solo contro quindici cavalieri nemici. Un combattente
realmente vissuto il cui gusto per le imprese, come afferma Richard Fletcher
nella sua ricostruzione della storia di El Cid, risale probabilmente all’infanzia e
alla suggestione su di lui esercitata allora dalle leggende dei santi, dalle vicende
del passato spagnolo e dall’orgoglio per le gesta degli antenati414. Non è azzardato
affermare, dunque, che l’influenza delle gesta di Rodrigo sia riconducibile
nell’alveo di quelle dinamiche di costituzione del modello eroico precedentemente
analizzate relativamente alle fascinazioni salgariane.
Prima di trarre una definitiva conclusione sulle influenze salgariane emerse
dal narrato dei volontari è, inoltre, da notare che se certamente il fascismo
410
411
412
413
414
Rossi 2007.
Beretta 2011.
Arpino e Antonetto 1982: 126-128
Fletcher 2006: 15.
Fletcher 2006: 121.
77
alimentò il culto dell’eroismo salgariano, il successo dell’autore veronese precedette il fascismo e trovò la sua ragione in un’Italia non ancora compiutamente
Italia che, alla scarsa eroicità del suo stentato vivere quotidiano, reagiva con il
bisogno di sogni eroici tradotti sulla carta con linguaggio semplice415.
Tornando al contenuto delle interviste, ed inquadrando il narrato dei
volontari all’interno delle considerazioni precedentemente esposte, è possibile
asserire che indubbiamente i romanzi salgariani, e in genere quelli d’avventura,
abbiano influenzato la formazione e l’adozione di determinati modelli eroici da
parte dei volontari italiani nelle Waffen-SS. È pertanto possibile asserire che vi
sia un po’ di Salgari nelle scelte dei volontari intervistati seguendo la perentoria
affermazione di Pietro Ciabattini: «quello di Salgari era lo spirito di avventura
che ci aveva cresciuti e che ci siamo portati sempre con noi!416». Tenendo, però,
presente che la lettura di Salgari e del romanzo d’avventura accomunò molti
giovani dell’epoca che effettuarono poi scelte di vita differenti e talvolta politicamente opposte. Ciò che assume qui rilievo è che i volontari stessi attribuiscano
ai romanzi di Salgari un ruolo formativo e di ispirazione per l’adozione di modelli
eroici.
Relativamente agli eroi dei fumetti citati dai volontari, alcune considerazioni
si rendono necessarie sugli intensi rapporti tra fascismo e fumetto417. Sin dal
febbraio del 1923, a pochi mesi di distanza dalla marcia su Roma, appare nelle
edicole Il Balilla, un nuovo giornalino a fumetti accesamente propagandistico che
si pone in diretta concorrenza con il tradizionale Corriere dei Piccoli. Non tarda
ad arrivare nelle edicole, pochi mesi più tardi, un terzo concorrente, Il Giornalino,
di ispirazione cattolica che evidenzia il desiderio del Vaticano di non abdicare su
un terreno così importante come quello della costruzione di modelli di ispirazione
per i più giovani. Viene così a cadere il monopolio del Corriere dei Piccoli, che
perdurava dal 1908, in un quadro di cultura perbenista, fatta di poesia e di buoni
sentimenti espressi all’interno di un’ordinaria cultura borghese.
Il Balilla, invece, traccia da subito il nuovo indirizzo del fumetto fascista
costituito da un misto di tematiche a carattere storico-politico, di eroismo
vitalistico e di pura evasione418. L’eroe dei fumetti più citato dai volontari, come
modello di ispirazione comportamentale, è Dick Fulmine. Nato nel 1938, alcuni
mesi prima dell’ancora oggi celebre Superman, il fumetto prende il nome
dall’eroe che ne anima le avventure. Dick Fulmine nasce dalla matita di Carlo
Cossio, che per la sua figura si ispirò al pugile campione del mondo Primo
Carnera419, e dalla sceneggiatura di Vincenzo Baggioli. Inizialmente, prima che
durante la guerra gli vengano fatti indossare i panni del soldato invincibile, è un
poliziotto italo-americano in perenne lotta contro delinquenti e criminali e
415
Leonardi 1992: 11.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
417
Carabba 1973; Favari 1996; Bozzi Sentieri s.d..
418
Bozzi Sentieri s.d..
419
Nel ventennio fascista è forte nell’immaginario collettivo italiano la presenza del mito
dell’eroe. La società fascista ha bisogno di eroi, di persone comuni che si trasformano in veri e
propri miti e leggende viventi da emulare, ed anche lo sport diviene un veicolatore di miti (Canella
e Giuntini 2009). Tra questi figura il pugile Primo Carnera, friulano di Sequals, nato il 26 ottobre
1906 ed emigrato prima in Francia e poi negli Stati Uniti, diverrà il primo campione mondiale
italiano dei pesi massimi (Santini 1984; Toffolo 2001).
416
78
sempre pronto a difendere connazionali in difficoltà. È un gigante buono,
altissimo e dotato di una possente muscolatura, ma al tempo stesso intelligente
e scanzonato, che con i suoi pugni, nelle innumerevoli scazzottate nelle quali è
coinvolto, riesce a raddrizzare i torti subiti dai più deboli420. Ritenuto a posteriori
una visibile conferma della violenza fascista, in realtà la risolutezza e il menar
le mani di Dick Fulmine non hanno alcun aspetto sanguinolento e truce, e le sue
strisce possono essere paragonate e considerate anticipatorie, piuttosto, delle
esibizioni cinematografiche di Bud Spencer nelle quali la forza è posta sempre al
servizio di una buona causa421.
Il fumetto diviene in quegli anni terreno di una battaglia culturale che vede
impegnati, dunque, Il Corriere dei Piccoli, in un quadro di cultura borghese e
perbenista, Il Giornalino, di ispirazione cattolica, e le strisce più intimamente
fasciste. La pubblicazione di Il Giornalino può essere considerata un elemento,
tra i tanti, della rivendicazione di ruolo della Chiesa cattolica nell’educazione dei
giovani ed un segno del suo ricorso ad un cattolicesimo di massa che, sviluppatosi
in parallelo al totalitarismo fascista, ad esso si oppone nel campo dell’educazione422 non rinunciando, in questo caso, alla produzione di modelli di riferimento
per le giovani generazioni. Ma come visto nelle parole del volontario Ireneo
Orlando, agli intervistati non piacevano gli eroi «destinati a ragazzini per bene»,
ma quelli che andavano oltre l’ordinarietà borghese e il moralismo cattolico, e che
essi ritenevano appropriati per «chi [come loro] ha l’avventura nel sangue».
Anche il volontario Mario Lucchesini afferma: «leggevo i fumetti e soprattutto
Cino e Franco e Dick Fulmine, lui si che mi scaldava il cuore, perché non ci
pensava due volte a farsi avanti menando le mani per difendere i deboli e non
come quei fumetti per ragazzi borghesi dove sembrava di sentir parlare i genitori
che ti dicevano di fare il bravo ragazzo423».
Ciò che affascina i volontari è un fumetto che mescola lo spirito d’avventura,
l’eroismo al servizio dei deboli e anche «la faccia tosta di fare ciò che va fatto424».
Fu senza dubbio il cosiddetto fumetto fascista ad affascinare questi giovani, e non
quello di matrice cattolica o borghese, e a far presa nel loro immaginario fu un
eroismo che non fosse da ragazzi per bene, che non ricordasse le raccomandazioni
e le prediche dei genitori, ma si arricchisse di toni scanzonati, avventurosi,
ardimentosi, insomma di tutte quelle caratteristiche che fecero di Dick Fulmine
un vendicatore popolare ed un ammirato raddrizzatore di torti.
È evidente che l’ammirazione per questi protagonisti dei fumetti non fu
tratto esclusivo dei futuri volontari nelle Waffen-SS, accomunando molti coetanei i cui percorsi di vita diverranno eterogenei, ma è importante tener presente
che sono gli intervistati stessi a considerare questi eroi a fumetti una fonte
d’ispirazione giovanile e a riconoscere loro un ruolo formativo.
Oltre al romanzo e al fumetto d’avventura, che sono stati menzionati da più
intervistati, il narrato dei volontari è interessato da una serie di citazioni che non
sono però riconducibili ad un cluster tematico omogeneo sia a livello individuale
420
421
422
423
424
Bono e Gori 1997.
Carabba 1973; Bozzi Sentieri s.d..
De Giorgi 2003; 2005; 2009; 2009b; 2010; 2012.
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
79
sia generale. Se si esclude il Faust di Goethe che appassiona due volontari425, uno
dei quali porta con sé al fronte una copia dell’opera in cui il dramma diviene
compendio non solo del sapere filosofico ma anche degli ideali morali, politici ed
estetici, non emergono ulteriori letture o tematiche letterarie comuni, se non
quelle successive all’esperienza di volontariato che rimandano a Platone426.
Le altre citazioni spontanee all’interno del narrato, che spaziano dai testi di
diritto sindacale a quelli di scienze politiche o alla poesia di Marinetti, pur
essendo interessanti a livello di singolo volontario, denotando una poliedricità di
interessi, e utili per un successivo approfondimento relativamente al pensiero
politico degli intervistati, non possono, però, essere ricondotte a comuni fascinazioni
letterarie.
Un unico ulteriore elemento di omogeneità tematica è rintracciabile, a livello
di singolo volontario, nei memoriali e nelle interviste di Pio Filippani Ronconi. Se
alcuni degli intervistati, come già fatto presente, evidenziano una poliedricità di
letture non riconducibili neppure individualmente a una tematica omogenea,
diverso è il caso di questo volontario. Il futuro orientalista427, in età giovanile, si
nutre dell’Edda poetica e in prosa, che definisce «il portato delle varie tradizioni
indoeuropee», e si appassiona allo studio del sanscrito grazie ad una grammatica
donatagli da una zia428.
Filippani Ronconi in un suo dattiloscritto inedito racconta anche della sua
esperienza di guerra in Africa, precedente all’arruolamento nelle Waffen-SS, ed
afferma: «il capitano mi aveva prestato un commento di Unamuno al Don
Quijote, ma io preferivo le gioie spirituali dei Purana e delle Upanishad finché il
sonno non mi vinceva429». Gli studi e le passioni letterarie del giovane volontario,
che come detto diverrà uno dei più importanti orientalisti italiani, lasciano
intravedere una personalità che va ben oltre la descrizione che egli stesso
tratteggia del capitano Barenzi, «raro esemplare di guerriero-letterato come solo
l’era dannunziana sapeva produrre430», agli ordini del quale milita in Africa.
Emerge, piuttosto, oltre ad un precoce interesse per lo studio dei testi sacri
indoeuropei che lo accompagnerà nel corso della vita, anche e soprattutto una
passione per le dottrine esoteriche che, aldilà dell’esame delle fascinazioni
425
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti e intervista del 15 ottobre
2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl Nicolussi-Leck.
426
A citare Platone sono due volontari che ricostruiscono due insegnamenti colti nel pensiero
del filosofo greco. Il volontario Alessandro Scano afferma, come riporta anche nella sua
autobiografia (Scano 2005: 87), di aver dedicato tutta la vita a sostenere le ragioni e la causa per
la quale molti camerati e suo padre morirono, e dichiara di volerlo fare finché avrà vita
dedicandovi «tutti gli anni della mia giovinezza, perché la giovinezza, come insegna Platone, sono
gli anni che mi restano da vivere». Il volontario Ferdinando Gandini, mostrando un suo quadro
che rappresenta due strade, afferma: «in questo quadro si vedono due strade, le nostre vite
corrono parallele verso la vita e verso la morte, quale sia meglio non si può dire come ci insegna
Platone» (Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini).
427
Il volontario Pio Filippani Ronconi, che sin dalla giovane età si dedicò allo studio delle
lingue e dei testi sacri indoeuropei, nel dopoguerra diverrà professore ordinario all’Istituto
Universitario Orientale di Napoli e apprezzato storico delle religioni ed orientalista. Pubblicherà
come autore e curatore numerosi studi sul pensiero e le religioni orientali.
428
Marconi 2003.
429
Pio Filippani Ronconi, Le confessioni di Pio detto “Maometto”.
430
Pio Filippani Ronconi, Le confessioni di Pio detto “Maometto”.
80
letterarie in corso, sarà necessario indagare come tematica indipendente per
comprendere se condivisa da altri che militarono all’interno della medesima
divisione nella quale prestò servizio Filippani Ronconi, la 29ª Waffen-GrenadierDivision der SS. Utile sin d’ora, sia per comprendere l’unicità tematica delle
letture effettuate sia per esaminare i riflessi che esse certamente ebbero sul
percorso formativo del volontario, è invece prendere brevemente in esame i testi
indicati da Pio Filippani Ronconi.
L’Edda poetica, nota anche come Edda in poesia o Edda maggiore, è una
raccolta di poemi che rappresenta la più importante fonte di informazioni sulla
mitologia norrena e sulle leggende degli eroi germanici. La datazione dell’Edda
poetica è ancora dibattuta e si conviene che debba essere effettuata in modo
indipendente per ciascuna composizione in essa raccolta, non essendoci alcuna
garanzia che i versi dei quali si compone risalgano tutti allo stesso periodo. Per
quanto riguarda l’identificazione del suo luogo di origine, gli studiosi hanno
cercato di risolvere il problema esaminando i riferimenti alla flora e alla fauna
citati nel testo. Pur non addivenendo a risultati certi, l’ipotesi più condivisa è che
essa attinga alla cultura norvegese. Composta di ventinove canti, di differente
antichità e provenienza, può essere scomposta in due sezioni tematiche: i primi
dieci canti di argomento sapienziale e sulle imprese degli dèi, i restanti diciannove di argomento eroico prevalentemente sulle gesta dei Völsunghi.
L’Edda in prosa o Edda recente, che Pio Filippani Ronconi, come quella
poetica, leggeva in giovane età, è un testo di poetica norrena contenente storie a
carattere mitologico che vuole aiutare il lettore ad afferrare i significati celati nei
versi. Nonostante abbia composto l’opera in epoca cristiana, attorno al 1220, il
suo autore, il dotto storico islandese Snorri Sturluson, attinge con scrupolo
filologico a fonti pagane e si ritiene possibile che egli abbia fatto ricorso a fonti più
antiche di quelle arrivate ai giorni nostri attraverso l’Edda poetica431.
L’influenza della mitologia e della cultura sapienziale nordica è rintracciabile in numerosi passi dei memoriali e delle interviste pubbliche del volontario
Pio Filippani Ronconi. In una sua intervista sull’esperienza all’interno delle
Waffen-SS egli afferma: «Ero un Berserkr, sono quelli che accompagnavano i
Vikingar [Vichinghi], sono quelli che accompagnano i re normanni, stanno
accanto al re, i re vichinghi morivano molto spesso, e accompagnavano il loro re
in tutte le birbonate che osavano fare e per loro il culto era il culto della morte432».
I Berserkir, descritti anche da Snorri Sturluson nella Ynglinga saga, sono i
guerrieri di Odino, che si battevano ferocemente in uno stato mentale di furia che
li rendeva poco sensibili al dolore. Lo spirito del Berserkr, un furore paragonabile
ad uno stato di trance combattentistico, coglie il guerriero nel combattimento ed
egli quando muore in battaglia si congiunge alla Valchiria, il suo doppio astrale.
L’esperienza della guerra, avvicinando l’uomo alla dimensione della morte, lo
avvicina anche al trascendente e, pertanto, nel narrato e nel vissuto del
volontario, la guerra assume un valore iniziatico.
Pio Filippani Ronconi riconduce una delle ragioni che lo spinse ad arruolarsi
nelle Waffen-SS ad un «elemento mistico» che permeava, a suo avviso, quell’or431
Acker e Larrington 2002, Dal Zotto 2003; Bellows 2004.
Dolcetta 2005: “Intervista a Pio Filippani Ronconi” in Il volto oscuro della liberazione,
DVD supplemento a “L’Unità”, n. 3 / I tabù della storia.
432
81
ganizzazione: «quella primordiale “terribilità” nell’azione unita ad un’arcaicità
di concezioni gerarchiche, per cui al centro di queste Unità combattenti esisteva
un Ordine, come quello dei Cavalieri Teutonici o dei Portaspada, attirava
irresistibilmente chi aspirasse alla dedizione totale di sé nel combattimento433».
Sono, inoltre, altre parole dello stesso volontario ad evidenziare ancora più
marcatamente un ponte narrativo ed esperienziale tra gli studi giovanili e
l’esperienza nelle Waffen-SS. Egli ritiene, infatti, di aver mutuato proprio da
Odino, al quale avevano fatto giuramento i Berserkir, le proprie capacità
combattentistiche: «le divinità che mi assistevano nel conflitto erano soprattutto
Odino e Hermès. Uno mi dava la potenza distruttiva, l’altro invece mi insegnava
a strisciare sotto il fuoco nemico per raggiungere le mie prede434».
Le letture che fanno compagnia a Pio Filippani Ronconi durante la guerra in
Africa, precedente all’esperienza nelle Waffen-SS, rivelano, anch’esse, interessi
di storia delle religioni e di sapere esoterico. Le Upanishad, citate dal volontario,
appartengono, infatti, al grande corpus della letteratura culturale e spirituale
indiana, composto nella sua prima fase tra il XV e il V secolo a.c. Esse accentuano
il processo di interiorizzazione e di svalutazione di ogni azione esteriore, anche
di quelle culturali, in quanto solidali con il mondo sensibile e quindi coinvolte, loro
malgrado, nel ciclo doloroso delle reincarnazioni435. I Purana sono un insieme di
importanti testi sacri induisti che contengono insegnamenti su rituali, festività,
elementi storici e mitologici. In ciascuno è presente una particolare divinità della
quale vengono presentate vita, culto, mitologia, le manifestazioni degli avatar e
i relativi insegnamenti spirituali436.
Relativamente a tali argomenti di letteratura spirituale indiana, alcune
dichiarazioni del volontario evidenziano un ulteriore ponte tra l’esperienza nelle
Waffen-SS e questi studi nella concezione della vicinanza della morte come
iniziazione. Egli afferma parlando della sua militanza: «c’era il culto di Kali, che
era una rappresentazione della vergine delle battaglie e infatti era un essere
femminile e poteva rappresentare per noi la morte437».
Nel corso del medesimo contesto narrativo, mentre descrive il percorso di
avvicinamento al fronte indossando la divisa delle Waffen-SS, Pio Filippani
Ronconi racconta: «il treno impiegò una settimana per arrivare a Littoria, i vetri
del treno non si aprirono, ma poi si aprirono, e mi ritrovai con la faccia fuori e mi
ricordai della mia patria natia438 e mi ricordai di Millán Astray, il capo della
Legione spagnola, e gridai: viva la muerte!. Mi presi i primi arresti della mia vita
perché avevo portato disordine e tutti quanti hanno sparato, seicentocinquantatre
uomini spararono con un eccesso di follia, scintille da tutte le parti. Viva la
muerte! È come una iniziazione439».
433
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, p. 3, Reg. 171.
434
Buttafuoco 2007.
435
Filippani Ronconi 2007.
436
Pruthi 2009.
437
Dolcetta 2005: “Intervista a Pio Filippani Ronconi” in Il volto oscuro della liberazione,
DVD supplemento a “L’Unità”, n. 3 / I tabù della storia.
438
Il volontario è nato a Madrid il 10 marzo 1920.
439
Dolcetta 2005: “Intervista a Pio Filippani Ronconi” in Il volto oscuro della liberazione,
DVD supplemento a “L’Unità”, n. 3 / I tabù della storia.
82
Si evidenzia ulteriormente in questi passaggi, sia nel riferimento a Kali,
signora della vita e della morte, mistica sposa del guerriero iniziato, sia in quello
a Millàn Astray, che rimanda al concetto di fidanzato della morte440, come le
affermazioni del volontario assumano un accentuato carattere esoterico. Il
teschio col pugnale stretto tra i denti, tanto caro al fascismo, è tutt’altro che
nichilistico e lontano dalla religione della morte, ma gli studi effettuati hanno
accompagnato il volontario a maturare una concezione del combattere che si
collega al preciso impegno di morire, una concezione lontana da una dimensione
da caserma, e contraddistinta, invece, dal motivo della morte-sposalizio441 che,
inquadrato nel vasto sapere tradizionale maturato dal volontario già in giovane
età, assume carattere iniziatico.
Per quanto concerne i libri di testo scolastici, nessuno degli intervistati
menziona tali pubblicazioni all’interno del flusso narrativo. L’unica eccezione è
quella del volontario Pio Filippani Ronconi. Egli, oltre ai testi precedentemente
presi in esame, cita come importante la lettura dei libri di testo scolastici nel
quadro delle sue future decisioni di volontariato. Si tratta di un caso isolato, ma
che necessita un’analisi di approfondimento, anche alla luce del fatto che nessun
altro volontario citi tali testi, e che ad essi la storiografia attribuisca, invece, un
forte potere all’interno della fascistizzazione delle masse e della gioventù442.
La citazione del volontario Pio Filippani Ronconi assume, però, dei tratti
intimamente personali che si ricollegano al vissuto giovanile di italiano all’estero
ed, infatti, egli scrive: «quando mia madre parlava a me bimbo dell’Italia, i suoi
grandi occhi verdi illuminavano la mia anima e attraverso Lei vedevo la
maestosa donna turrita a cui avrei dedicato la mia anima e la mia inquieta
adolescenza, quell’ITALIA raffigurata con fattezze classiche nei libri di testo
delle Scuole Italiane all’Estero443». Si tratta, dunque, dei libri di testo scolastici
per italiani all’estero, e nelle memorie del volontario le raffigurazioni dell’Italia
in essi contenute contribuisco a rendere visibili, tangibili, le narrazioni materne
che emozionano e accrescono il potere evocativo della patria in un giovane
«italiano “marginale”».
È qui la lontananza dalla propria patria che, saldandosi sui racconti materni
e sulle raffigurazioni dei testi, matura ed accresce nel giovane Pio Filippani
Ronconi il desiderio del sacrificio di sé in nome di essa. Dal narrato del volontario
non emerge tanto l’influenza pedagogica del testo, che certo raffigurando l’Italia
nella sua bellezza classica la rende più affascinante, come entità culturale, per
un giovane come Filippani Ronconi, quanto un concetto di patria vissuto come
retaggio famigliare e dell’anima da parte di chi, adolescente e romantico, vive
lontano da essa. È pertanto possibile riscontrare, senza peraltro poter escludere
influenze formative acquisite inconsapevolmente dai libri di testo scolastici del
regime, che i volontari non attribuiscono, all’interno del loro narrato, alcun ruolo
e alcuna fascinazione alle pubblicazioni scolastiche dell’epoca.
La tematica delle influenze letterarie, che sinora non era stata affrontata
440
Jesi 1993: 32-35.
Jesi 1993: 30-50.
442
Ostenc 1981; Charnitzky 1996; Montino 2001; La Rovere 2002; La Rovere 2003; La Rovere
2004.
443
Pio Filippani Ronconi, Le confessioni di Pio detto “Maometto”.
441
83
negli studi sul volontariato italiano nelle Waffen-SS, evidenzia in conclusione,
aldilà del caso esaminato del volontario Pio Filippani Ronconi, per il quale le
letture effettuate denotano un percorso di coerenza e omogeneità personale
all’interno del filone tradizionale esoterico, un terreno comune che appassiona gli
intervistati e che si colloca nel romanzo e nel fumetto d’avventura.
Nel panorama della fiaba italiana tra fine secolo e primi anni del Novecento
la nuova letteratura giovanile comprendeva soprattutto storie educative, solidamente impiantate sulla realtà famigliare italiana, fiabe di fate e di animali alle
quali si aggiungevano i racconti d’avventura di Salgari, opere del tutto diverse
dalle altre le cui narrazioni presentano scenari, personalità ed avvenimenti
quanto più distanti dall’esperienza comune444. Non vi è dubbio che proprio queste
ultime attirarono l’interesse di buona parte dei futuri volontari nelle Waffen-SS
intervistati che, all’interno del loro narrato, non fanno, invece, menzione alcuna
dei testi e delle fiabe di altro argomento.
Si può affermare, senza dubbio, che la caratterizzazione degli eroi salgariani,
che combattevano battaglie di vendetta, di amore, di odio e di ribellione, e la
scelta del narratore veronese di rendere protagonisti i vinti ansiosi di giustizia
e vendetta445, abbiano avuto larga presa sull’immaginazione degli intervistati.
Quel pericoloso Salgari, i cui libri le famiglie e le parrocchie sconsigliano perché
eccitano i nervi446, ammalia, assieme alla fumettistica citata che è coerente con
il suo modello eroico, molti giovani italiani tra i quali i futuri volontari delle
Waffen-SS.
Appare poco credibile, invece, asserire che tale fascinazione dipenda dalla
riabilitazione che di Salgari fece il fascismo, o soltanto da essa, dato che i
volontari intervistati non fanno, ad esempio, riferimento a letture di romanzi o
fumetti a carattere risorgimentale e ad un garibaldinismo eroico, anch’esso
promosso dal regime fascista447, che evidentemente non riuscì ad affascinarli
come fecero gli eroi salgariani e dei fumetti d’avventura. Neppure vengono citate
dai volontari letture sulla marcia su Roma, spesso eroicizzata nei testi scolastici
e al centro di qualche avventura fumettistica come quella di Lucio l’avanguardista448, e si può, dunque, asserire che se l’accessibilità agli eroi d’avventura fu
444
Lawson Lucas 2000: 158-159.
Arpino e Antonetto 1982: 113 e 129.
446
Arpino e Antonetto 1982: 20-21 e 132.
447
Durante il fascismo l’immagine del Risorgimento, che permea anche la letteratura
scolastica, è atta a creare un collegamento tra le camicie rosse garibaldine e le camicie nere
fasciste all’insegna del comune patriottismo. Il fascismo viene presentato quale continuazione ed
integrazione del Risorgimento anche in alcuni fumetti come, ad esempio, ne I ragazzi di Portoria.
Interessante in proposito la mostra tenutasi nel 2011 al Museo Italiano del Fumetto e
dell’Immagine di Lucca dal titolo: 150 anni d’Italia – Il Risorgimento a fumetti. Si vedano, tra gli
altri, sulla tematica della retorica risorgimentale durante il fascismo: Ascenzi e Sani 2005; Baioni
2006. In una autobiografia di un volontario italiano nella RSI viene citato, ad esempio, un gruppo
di giovani volontari che «avevano letto il libro Cuore, quei racconti, “La piccola vedetta lombarda”
– Vieni giù che ti colgono! -, “Il tamburino sardo”, eccetera» (Mazzantini 2005: 62). Letture queste
che non emergono nel narrato dei volontari italiani nelle Waffen-SS oggetto di questa ricerca.
448
Il 17 dicembre 1932 arriva in edicola Jumbo, settimanale illustrato per ragazzi dai 7 ai
15 anni, edito a Milano da Lotario Vecchi, che per primo rinuncia alle didascalie in versi
pubblicando i fumetti con i balloon originali. La rivista presenta produzioni dell’agenzia inglese
Amalgamated Press, pur con qualche adattamento dettato dal momento politico italiano. Infatti
445
84
certamente agevolata dal fascismo, il gradimento per essi non può essere visto
come diretto frutto della propaganda fascista, ma piuttosto, come scrive Rossi,
esso è insito nel cuore di chi legge e di chi scrive, è insito nella figura di eroe
salgariano che trasporta il giovane lettore in luoghi esotici, allora inaccessibili,
e in un eroismo che latita nella vita quotidiana, un eroismo che ebbe probabilmente un fascino anche per coloro che si arruoleranno volontari nelle formazioni
partigiane449.
Ciò che è interessante notare nel contesto del presente studio è come le letture
salgariane e quelle dei fumetti d’avventura abbiano «scaldato i cuori» dei futuri
volontari italiani nelle Waffen-SS, siano ricordate a tanti anni di distanza, ed
abbiano indubbiamente contribuito alla formazione di un concetto di eroismo che
si correla alla decisione di volontariato militare.
Spirito d’avventura
Tematica intimamente correlata alle fascinazioni letterarie, che rimandano
principalmente a figure salgariane e ad eroi popolari del mondo del fumetto, è
quella dello spirito d’avventura. Essendo i membri delle Waffen-SS intervistati
dei volontari, si potrebbe essere tentati di attribuire un generico spirito d’avventura alla loro scelta di volontariato, ma è importante comprendere, invece, come
i volontari stessi si pongano rispetto a tale tematica. Se lo spirito d’avventura sia
riconosciuto come motivazione all’arruolamento dai volontari stessi, se assuma
sfumature differenti legate al variare del background sociale e culturale, se vari
di importanza e intensità nel corso dell’esperienza di volontariato, dal momento
dell’arruolamento a quello del combattimento, e con quali altre tematiche esso si
correli all’interno del flusso narrativo.
La tematica dello spirito d’avventura non può essere trascurata, inoltre,
anche per una motivazione storiografica, dato che in alcune delle pubblicazioni
sul fenomeno dei volontari italiani nelle Waffen-SS, che nei loro limiti complessivi sono state in precedenza esaminate, si tende a dare grande importanza a
questa caratteristica secondo due differenti prospettive. La prima attribuisce
allo spirito d’avventura una accezione negativa, ponendolo all’interno di un
quadro di ricostruzione altamente ideologizzato e politicizzato che identifica
questi volontari come criminali pronti a qualsiasi efferatezza450, a qualsiasi
azione, al soldo dello straniero tedesco451.
Si tratta di una prospettiva che, come esaminato, pur apparendo inaccettabile dal punto di vista del metodo storico adottato, ha finito, in quanto prevalente,
per creare un’immagine di tutti i volontari italiani nelle Waffen-SS appiattita
un personaggio di William Booth diventa, grazie a qualche ritocco, Lucio l’avanguardista e
partecipa ai festeggiamenti per l’anniversario della marcia su Roma (Bona s.d.). La mancanza
di riferimenti alla marcia su Roma è ancor più interessante e caratterizzante se si considera che
uno dei volontari nelle Waffen-SS sarà proprio quel Asvero Gravelli, che ricoprirà il grado di
Sturmbannführer del Reparto Propaganda, autore di Marcia su Roma (Gravelli 1934).
449
Rossi 2007.
450
Lazzero 1982: 11: de Lazzari 2002: 10; Caniatti 2010: 201 e 205.
451
Lazzero 1982: 9-11; de Lazzari 2002: 16-18.
85
sullo stereotipo dell’avventuriero sadico452 animato da un non ben definito spirito
d’avventura asservito ad una ideologia maligna453.
La seconda prospettiva è mutuata soprattutto dall’interpretazione di memoriali e dichiarazioni pubbliche di ex appartenenti alla RSI454, senza che venga
tenuto in alcun conto che questo volontariato rappresentò un fenomeno distinto
da quello nelle Waffen-SS. Essa tende a correlare genericamente lo spirito
d’avventura con la giovane età e con la cultura fascista che questi giovani aveva
cresciuto455. Uno spirito d’avventura che viene letto, in questo caso, nella
prevalente accezione di giovanile, scellerata e ingiustificabile scarsa consapevolezza di aver scelto la parte sbagliata456.
Se certamente furono molti i giovani, anche delle classi 1928/1929, che
chiesero di arruolarsi nelle Waffen-SS457 ed anche tra coloro che vestirono questa
uniforme figurano persone che avevano compiuto l’intero ciclo della formazione
personale nel Ventennio, ridurre lo spirito d’avventura a mero slancio giovanile
o ai frutti dell’educazione fascista appare quantomeno sbrigativo se non erroneo.
Non fosse altro per il fatto che, come risulta anche tra i volontari oggetto di questa
ricerca, nelle Waffen-SS si arruolarono anche persone non più giovani e la cui
formazione risaliva agli anni antecedenti la presa del potere del fascismo. È,
dunque, necessario esaminare attentamente il ruolo e il peso narrativo che lo
spirito d’avventura assume nelle memorie degli intervistati per poterne valutare
l’impatto nella maturazione della decisione di volontariato, ed anche per comprendere a quali altre tematiche esso si correli più intimamente.
Il primo aspetto che emerge dai colloqui coi volontari è come la grande
maggioranza degli intervistati citi lo spirito d’avventura in modo spontaneo
all’interno del narrato, senza che si renda necessario lo stimolo dell’intervistatore. La ricchezza di significato del narrato dei volontari riguardo a questa
tematica si è rivelata amplia e specifica permettendo, grazie all’elevato numero
di informazioni e alla ricchezza di dettagli condivisi, una migliore comprensione
di questa tematica.
Lo spirito d’avventura emerge nel narrato e nelle memorie della gran parte
dei volontari legato a sentimenti di orgoglio e viene citato come elemento
distintivo, correlato alla percezione degli intervistati di appartenere «a quei tipi
umani che vivono la vita pienamente458», che «preferiscono affrontare gli eventi
facendosi avanti459», e che sono «ben diversi da quelli che per paura, interesse o
viltà attendono che le cose succedano senza prenderci parte460». Nei volontari
452
Lazzero 1982: 56; Caniatti 2010: 158-159.
Boldrini 2002: 7-8.
454
Nella maggior parte degli studi italiani sulle Waffen-SS (Lazzero 1982; de Lazzari 2002;
Caniatti 2010), come preso in esame nella prima parte del presente studio, vengono adoperate
fonti relative alla RSI per formulare considerazioni sul volontariato italiano nelle Waffen-SS.
455
Caniatti 2010: 35.
456
de Lazzari 2002: 9-11; Sebastiani 2006: 19 e 89. Pietro Sebastiani nel suo testo
autobiografico descrive come dopo la guerra, tra gli ex militari della RSI, «la tesi più comune fu
quella di ammettere il loro torto minimale, quello di poveri ragazzi finiti nelle schiere fasciste per
ingenuità e ignoranza più che per consapevole scelta» (Sebastiani 2006: 89).
457
Corbatti e Nava 2001: 68.
458
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
459
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
460
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
453
86
italiani nelle Waffen-SS è presente, dunque, la consapevolezza, maturata a
livello di riflessione intima sulla propria esistenza e sull’esperienza bellica, di far
parte di un tipo umano costituito da coloro che ritengono che «non si può restare
estranei agli eventi461» e si debba, invece, «partecipare alla storia462» e «vivere la
propria vita di italiani negli eventi e non sopravvivendo agli eventi463».
Approfondendo alcune ulteriori citazioni dei volontari è, inoltre, possibile
comprendere meglio a quali tematiche si correli, e quindi di quali elementi si
componga, questo spirito d’avventura che, come emerso, diviene motore di azione
individuale e storica. Il volontario Paolo Cavalletti, descrivendo la sua scelta di
volontariato e quella del fratello, afferma: «le SS, le Waffen, erano truppe speciali
di assalto dove la mortalità era elevata, ma noi ci presentammo con l’incoscienza
tipica del giovane464». Cirillo Covallero, mentre parla dello spirito d’avventura
che lo animò, descrive se stesso con queste parole: «ero tutto nervi e facevo sempre
di testa mia465». Anche il volontario Ireneo Orlando, descrivendo la propria
persona, associa ad essa lo spirito d’avventura che estende anche al fratello e ad
altri camerati: «avevo tanto spirito d’avventura, ce l’avevano anche altri camerati e soprattutto mio fratello Antonino che si arruolò che era anche più piccolo
di me, quattordici anni, e gli fecero un’intervista su “Signal”466».
Pietro Ciabattini, durante una delle interviste, asserisce: «lo slancio di noi
volontari era quello di non tradire gli alleati, ma c’era anche voglia di rivalsa e
spirito d’avventura467».
Anche i famigliari dei volontari citano spontaneamente lo spirito d’avventura nella descrizione dei loro cari e Diego Morini, figlio del volontario Walter,
parlando del padre dice: «aveva un forte spirito d’avventura che lo portò a fare
dieci anni di guerra, la guerra d’Africa la raccontava piena di note avventurose,
quella civile, sebbene anche in quel caso una buona dose di coraggio fosse
richiesta, soprattutto come durissima468». Albarosa Tosi Malossi, sorella del
volontario Vittorio Tosi, tracciando un profilo dettagliato del fratello, lo descrive
così: «è sempre stato un tipo avventuroso che riusciva a trascinare gli altri nei
giochi, e a questo spirito d’avventura legava un carattere fantasioso e umoristico,
trovava il lato umoristico a tutti i membri della famiglia469».
Nelle citazioni sinora riportate, emerge come lo spirito d’avventura sia
considerato come un aspetto del carattere, della personalità, e conferma la
concezione dei volontari che esista una fattispecie umana particolare costituita
da persone che lo spirito d’avventura lo considerano «un compagno di viaggio
inseparabile470». Ma dopo aver descritto il proprio carattere come avventuroso i
volontari intervistati, all’interno del flusso narrativo, ricollegano lo spirito
461
462
463
464
465
466
467
468
469
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Bernagozzi Giorgio.
telefonica del 11 giugno 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
del 16 giugno 2008 ad Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio
Tosi.
470
Intervista 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
87
d’avventura ad una serie di tematiche e situazioni che è importante considerare.
Se si esclude il volontario Cirillo Covallero, che asserisce, relativamente ad
una sua precedente esperienza di volontariato legata alla GIL, di averla intrapresa «per uscire un po’ dal paese, per sparire un po’ dai soliti luoghi471», i
volontari intervistati ricollegano, per quanto concerne l’esperienza di volontariato, il proprio spirito d’avventura a catalizzatori storico-politici che sono principalmente i seguenti: la volontà di difendere la patria invasa, la necessità di non
tradire gli alleati, il sostegno al fascismo, la scelta di servire la patria in
battaglioni d’assalto e il desiderio di mostrare un eroismo italiano che lavasse
l’onta del tradimento.
All’interno del narrato, dunque, lo spirito d’avventura, citato inizialmente
come caratteristica della personalità, diviene poi fattore identificativo di partecipazione agli eventi politici e militari della seconda guerra mondiale. Sebbene
citata spontaneamente dal solo Covallero, la volontà di uscire dalla propria
realtà famigliare e locale viene comunque riconosciuta come propria dalla
maggior parte dei volontari che si arruolarono in giovane età e che non avevano
maturato precedenti esperienze di guerra.
L’abbandono della famiglia viene descritto da questi volontari più giovani e
inesperti al momento del volontariato sia come volontà di «mettersi alla prova e
vivere gli eventi per conto proprio472» sia come necessità, «perché restando in
famiglia non si diventa davvero volontari che rischiano la vita473». Questo
sottogruppo di volontari identifica nella fuoriuscita dal proprio nucleo famigliare
uno dei momenti cardine della decisione di volontariato asserendo che «certamente, assieme al desiderio di fare il proprio dovere per l’idea e la patria, c’era
anche la voglia di camminare e scoprire il mondo per conto proprio474».
Se tra i più giovani, dunque, anche il desiderio di uscire da una realtà
famigliare vissuta come castrante del proprio spirito d’avventura ebbe un ruolo
nella decisione di volontariato, un peso certamente maggiore, come attivatrici
dello spirito d’avventura che animava i volontari nel loro complesso, lo ebbero le
vicende della patria e la situazione politica determinatasi. Si può pertanto
asserire che lo spirito d’avventura ebbe effettivamente un ruolo nella maturazione della scelta di volontariato, ma anche che esso si correli alle vicende storiche
in atto in modo significativo e determinante, poiché proprio tali accadimenti
sollecitarono uno spirito d’avventura caratterialmente e culturalmente presente
nei futuri volontari.
Un aspetto di ulteriore interesse, che emerge dalle interviste effettuate, è
come lo spirito d’avventura correlato al desiderio di volontariato militare sia
presente nella vita dei volontari già prima dell’arruolamento nelle Waffen-SS. In
alcuni casi, infatti, la scelta di volontariato nelle Waffen-SS è un evento
successivo a precedenti tentativi di arruolamento, avvenuti durante il periodo di
guerra, in altre formazioni militari. Interessante in proposito la vicenda, tra gli
altri, di Giuliano Bortolotti, che narra come nell’inverno del 1943, ancora
diciassettenne, preparò la valigia ed uscì di casa dicendo che sarebbe andato dallo
471
472
473
474
88
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
25 ottobre 2010 al volontario Ferdinando Gandini.
15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
zio a Genova, ma in realtà si diresse a La Spezia deciso ad arruolarsi nella Milizia
Artiglieria Marittima ed avvertì i genitori soltanto dopo aver indossato la
divisa475.
Simili, ma effettuati in età ancor più giovanile, sono i tentativi di volontariato
andati falliti di Adolfo Simonini: «quando ero giovanissimo, verso i tredici o
quattordici anni, avevo provato ad andare volontario nella guerra di Spagna. Ero
il capobanda, anche se gli altri che volevano arruolarsi erano un po’ più grandi
di me, e mi ero portato anche il pugnale che avevo da quando ho fatto il corso di
caposquadra al Foro Mussolini. Avevamo preso il treno per andare in Spagna, ma
ci hanno scoperti e riportati a casa e mia mamma ha dovuto anche pagare il
biglietto, perché eravamo senza. Poi ci ho riprovato una seconda volta, ma mi
hanno scoperto nuovamente e non ho potuto combattere in Spagna476». Vittorio
Tosi tentò più volte, fuggendo da casa, di arruolarsi nelle Waffen-SS e lo stesso
fece Pietro Ciabattini, che prima nel 1942 aveva già «fatto domanda per
volontario paracadutisti e poi nella Milizia, senza successo477».
Per pressoché tutti i volontari intervistati che si arruolarono nelle WaffenSS in giovane età, e che in quel corpo vissero la prima esperienza bellica, è aspetto
comune aver tentato precedenti arruolamenti, seppur impossibilitati per motivi
anagrafici, dal momento dell’entrata in guerra dell’Italia. Diversa e più articolata è invece la situazione di coloro che vestono la divisa delle Waffen-SS dopo
aver già operato per anni sul fronte di guerra. Essi, pur non negando un giovanile
spirito d’avventura che li spinse ad arruolarsi anni prima, vivono la scelta in
modo più ragionato data la consapevolezza delle difficoltà che la guerra comporta.
Tra questi Rutilio Sermonti asserisce: «nelle SS c’erano anche molti giovani,
animati da fede, eroismo e spirito d’avventura, ma il mio gruppo quella fase
l’aveva già vissuta in passato e dopo quattro anni di battaglie non avevo proprio
voglia di avventure, ma l’infamia e il disonore dell’8 settembre non potevamo
accettarlo478». Nel caso del volontario settantenne Carlo Manfredo di Robilant, il
figlio racconta come egli «non voleva fare l’imboscato e volesse fare il suo dovere
per la patria pur non essendo più in età per i comandi militari479».
È, pertanto, possibile affermare che la presenza di un forte spirito d’avventura ebbe un ruolo certamente maggiore, come fattore correlato alla scelta di
volontariato nelle Waffen-SS, per i volontari più giovani ed alla prima esperienza
di guerra, rispetto a coloro che vestirono quell’uniforme dopo aver già combattuto
al fronte. Ma certamente lo spirito d’avventura fu, seppur con un impatto minore
sulla scelta di volontariato nelle Waffen-SS, assai presente anche in questi ultimi
volontari, come aiutano a comprendere le parole che Walter Morini, volontario
dopo anni di guerra combattuta anche in Africa, pronunciava sovente al figlio:
475
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti. La vicenda viene
ricostruita in dettaglio dal volontario stesso nelle sue memorie edite (Bortolotti 2007: 12-13).
476
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
477
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini e intervista del 16 giugno
2008 ad Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio Tosi.
478
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
479
Intervista telefonica del 10 giugno 2008 a Enrico di Robilant, figlio del volontario Carlo
Manfredo di Robilant.
89
«certo che per fare la guerra un po’ di spirito d’avventura ci vuole sempre, ma
quello ci vuole anche nella vita di tutti i giorni, a me lo spirito d’avventura lo dava
il fascismo che era uno slancio verso un mondo migliore480».
Lo spirito d’avventura, all’interno dell’esperienza degli intervistati nelle
Waffen-SS, non si correla soltanto alle motivazioni dell’arruolamento, ma anche
all’esperienza di guerra vissuta vestendo quell’uniforme. In tutti i volontari, in
questo caso indipendentemente dall’età, lo spirito d’avventura appare quasi
come una norma di comportamento all’interno dell’esperienza di guerra.
Quanto si evince dal narrato dei volontari è un comportamento all’interno del
teatro di guerra che sembra andare oltre il senso del dovere che ogni militare deve
avere. Si denota all’interno del flusso narrativo come il volontariato nelle WaffenSS sia stato vissuto con animo avventuroso481. Si denota all’interno dei racconti
una «impazienza per le azioni di guerra482», che sono preferite dai volontari a
qualsiasi altro incarico di tipo logistico o comunque non direttamente combattentistico affidato loro dai superiori. Il volontario Giuliano Bortolotti che viveva, ad
esempio, il suo ruolo di attendente come una limitazione al suo desiderio di
combattimento, risolverà la questione con un escamotage che lo porterà in prima
linea483. Anche il volontario Giorgio Bernagozzi racconta: «inizialmente mi ero
arruolato nelle Brigate Nere, ma facevano servizio pubblico, e per noi, per come
eravamo non andavano bene, volevamo combattere, volevamo andare al fronte
e allora abbiamo deciso di passare alle SS484».
Il volontario sudtirolese Luis Innenhofer racconta di essere stato assegnato
a mansioni di fureria, perché ferito gravemente dallo scoppio di una bomba
nemica, e di aver vissuto con tristezza quell’incarico: «io in fureria non ci volevo
andare, anche se poi ora che sono vivo posso anche pensare che sia stato meglio,
allora fu una cosa che proprio non volevo485».
Non vi è dubbio, dunque, che per questi volontari non sia sufficiente vestire
la divisa delle Waffen-SS; essi vivevano il loro ruolo di soldati pienamente, con
un forte desiderio di combattere in prima linea. Due volontari come Sermonti e
Scano, appartenenti a differenti divisioni delle Waffen-SS e che maturano questa
esperienza in età differenti e con differente esperienza militare pregressa,
narrano come fosse facile trovare, nel gruppo al quale appartenevano, volontari
per le operazioni più complesse e rischiose. «Bastava che l’ufficiale descrivesse
l’operazione che avremmo dovuto fare e tutti scattavano in piedi per compier480
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini. Emerge
dal narrato come effettivamente fascismo e nazionalsocialismo fossero ideologie giovanili che
offrivano la prospettiva di un nuovo mondo vissuto come più giusto e nel quale l’eroismo e il mito
avevano ancora un ruolo. Ciò portò molti a sacrificare la propria individualità per obiettivi vissuti
come superiori (Ailsby 2004: 26).
481
Lo spirito d’avventura e l’assunzione del rischio in battaglia sono, peraltro, delle
caratteristiche che erano richieste ai soldati delle Waffen-SS che avevano il compito di non
arrendersi mai e che, anche in virtù di queste caratteristiche, ottennero successi militari notevoli
che comportarono un elevato numero di perdite imputabili ad un coraggio fanatico (Stein 1984:
131 e 289). Ciò porta alcuni storici a parlare di un “entusiasmo fatalistico per il combattimento”
come caratteristica delle Waffen-SS (Lumsden 2006: 221).
482
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
483
Bortolotti 2007: 30-31
484
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
485
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
90
la486», afferma Scano, e Sermonti dichiara: «nel mio gruppo anche dopo tanti anni
di combattimento eravamo sempre tutti pronti per compiere le missioni più
rischiose, anche chi aveva la croce di ferro si offriva di andare in missione, perché
delle decorazioni non ci fregava niente, eravamo buoni soldati ogni giorno e poi
comunque le decorazioni non te le davano per un singolo atto di eroismo, dovevi
essere un buon soldato e aver dato prova di coraggio e capacità più volte487».
Emerge, dunque, uno spirito d’avventura che contraddistingue i volontari,
senza distinzione anagrafica, nel vissuto quotidiano di guerra. Heiner NicolussiLeck nipote del volontario pluridecorato Karl Nicolussi-Leck afferma: «la loro
figura di riferimento era quella dell’avventuriero, dell’eroe, può lo spirito d’avventura mancare ad un avventuriero, ad un eroe?488».
Dalle testimonianze raccolte, nelle quali mai i volontari si sono soffermati a
descrivere i propri atti di eroismo, relativamente ai quali evidenziano una forte
riservatezza, preferendo spesso descrivere le proprie paure e argomentare sul
significato che la vita e la morte assumono durante la guerra, emerge, quasi
incidentalmente perché attribuito a propri camerati più che alla propria persona,
un desiderio per l’azione che non si può non ricollegare alla presenza di uno spirito
d’avventura vissuto nella quotidianità del proprio volontariato militare.
È importante specificare come tra i volontari intervistati ne figurino due che
asseriscono non essere stati animati da spirito d’avventura. Il volontario Alessandro Scano afferma in proposito: «la mia scelta non fu condizionata da nessun
fattore romantico o avventuroso, ma semplicemente e consapevolmente dalla
mia fede politica489». Ma le affermazioni di questi due volontari, se collocate
all’interno del loro narrato complessivo, restano però isolate in un quadro che
evidenzia, invece, uno spirito d’avventura marcato. Lo stesso volontario Scano
afferma nel corso della sua intervista come egli stesso, ogni qual volta vi fosse una
missione, fosse il primo ad alzare la mano per parteciparvi e come il padre,
anch’egli volontario nella stessa formazione, vivesse questo suo atteggiamento
con partecipazione e timore per la sua vita al tempo stesso490.
La negazione della presenza di uno spirito d’avventura formulata e rivendicata, sin dalle prime fasi dell’intervista, dal volontario Alessandro Scano merita
una analisi di maggior dettaglio utile a comprendere proprio le ragioni di quella
iniziale perentoria affermazione, poi contraddetta dalla descrizione degli eventi
vissuti.
Focalizzando l’attenzione sul lessico adoperato dal volontario nell’affermazione, si nota come egli rivendichi una scelta maturata «consapevolmente» con
la propria fede politica. È proprio l’uso dell’avverbio che evidenzia come egli miri
sin da subito a fugare proprio quelle ricostruzioni storiche che, come preso in
esame, mirano a qualificare lo spirito d’avventura come scelleratezza e violenza
486
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
488
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
489
Corrispondenza del 5 ottobre 2009 col volontario Alessandro Scano. L’altro volontario che
produce una affermazione simile è Mario Lucchesini: «lo spirito d’avventura non c’entra granché
con la mia esperienza» (Intervista telefonica del 10 settembre 2006 al volontario Mario
Lucchesini).
490
Corrispondenza del 16 giugno 2008 col volontario Alessandro Scano.
487
91
giovanile. Ed il volontario tende infatti a inquadrare più volte, nel corso del
narrato, la propria esperienza di volontariato anche rispetto e in contrapposizione alle ricostruzioni storiche da lui lette e avvertite come «irrealistiche e
politicizzate491». Più che una negazione dello spirito d’avventura nel suo narrato
emerge, come per il volontario Mario Lucchesini, una ragionata presa di distanza
dalle ricostruzioni giornalistiche e storiche che allo spirito d’avventura stesso
hanno conferito connotazioni negative.
Lo spirito d’avventura, all’interno del narrato degli intervistati, si correla
anche a tematiche che esulano l’esperienza di volontariato militare nelle WaffenSS ed assume una connotazione temporale estesa che spazia dall’infanzia al
dopoguerra. Le vicende dell’infanzia, narrate con ricca emotività espressiva,
rimandano ad uno spirito d’avventura che assume i connotati della ribellione alle
consuetudini famigliari e sociali e quella della ricerca del pericolo in un ambiente
circostante reinterpretato in chiave avventurosa. Se, come visto, nel correlare lo
spirito d’avventura alla scelta di volontariato militare nelle Waffen-SS, gli
intervistati inquadrano questo elemento all’interno di fatti storici e di informazioni sul proprio credo politico, relativamente alla propria infanzia il quadro
contestuale è rappresentato dagli usi famigliari e sociali.
Il volontario Cirillo Covallero, ad esempio, racconta come, piuttosto che
andare in chiesa ad ascoltare la dottrina cristiana, preferisse esplorare un
torrente ghiacciato nella campagna circostante, «arrampicarsi sugli alberi di fico
alla maniera di Tarzan» o partecipare alle avventure e ai piccoli furti della banda
costituita con una decina di coetanei492. Lo stesso volontario descrive, inoltre,
come fosse per lui insopportabile «fare il burattino alle adunate fasciste» e
preferisse «cercare un po’ di avventura nei campi o corteggiare qualche coetanea493».
Per quanto concerne le adunate fasciste il giudizio di gran parte dei volontari
è molto critico e la frequentazione di esse ridotta. Pietro Ciabattini le descrive
così: «erano occasione di noia e niente più, tu eri giovane e sognavi l’avventura,
e ti toccava stare li ad annoiarti, quelle marcette mi davano un gran fastidio, altro
che l’avventura di Salgari che sognavo, per fortuna le ho evitate spesso494». Anche
per i volontari Alessandro Scano, Mario Lucchesini e Vittorio Tosi «le adunate
fasciste erano una noia mortale, erano da evitare se non volevi finire a fare il
bravo bambino con le famiglie e i loro buoni sentimenti tutte in prima fila, erano
noiose più che andare in chiesa e allora appena si poteva si scappava nei campi
a giocare agli eroi e agli esploratori495». Dunque per tanti giovani, certamente non
solo per quelli che poi si arruoleranno nelle Waffen-SS, i rituali previsti per la
gioventù fascista che, come fa notare Gentile, avrebbero dovuto contribuire alla
rivoluzione antropologica agognata dal fascismo e alla realizzazione dell’ideale
del cittadino soldato all’interno di una società guerriera animata dal mito della
491
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero. Il volontario inserisce una
narrazione di queste vicende giovanili anche in apertura del suo memoriale (Covallero 2007: 58).
493
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
494
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
495
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
492
92
giovinezza496, rappresentano un noioso esercizio al quale sottoporsi controvoglia.
Ciò che appare rilevante è notare come tale percezione animi la maggiore
parte dei volontari intervistati e come essi traducano il proprio giovanile spirito
d’avventura, mutuato soprattutto dalle influenze letterarie precedentemente
prese in esame, in un rifiuto dei rituali fascisti e in una ricerca del rischio e
dell’avventura in spazi e momenti autogestiti. La ritualità delle organizzazioni
fasciste è vissuta, talvolta, con lo stesso fastidio che viene provato nel dover
assistere alla messa e lo spirito d’avventura, mutuato dalle letture salgariane,
sembra tradursi in un ribellismo giovanile verso gli obblighi imposti dalla
famiglia e dallo Stato.
La presenza dello spirito d’avventura tra le ragioni di arruolamento nelle
Waffen-SS è, del resto, riconducibile ai volontari di tutte le nazionalità497, anche
perché rappresenta una costante dei fenomeni di volontariato militare498. Ma la
tematica dello spirito d’avventura interessa il narrato dei volontari italiani
anche per quanto concerne il vissuto postbellico.
La sconfitta patita e la conseguente estromissione dal tessuto sociale italiano
non sembrano, infatti, scoraggiare i volontari. Se è vero che un’associazione
d’armi di reduci delle Waffen-SS avrebbe certamente incontrato grandi difficoltà
all’interno di un Paese che celebrava nuovi culti e nuovi eroi e che additava i vinti
al pubblico disprezzo499, è anche interessante notare che tra i volontari intervistati nessuno avvertì la necessità di provare ad organizzare una tale associazione. Ciò perché l’attenzione dei volontari, dopo la sconfitta patita, sembra
concentrarsi prevalentemente sulla comprensione della nuova società uscita
dalla seconda guerra mondiale e sulla costruzione, all’interno di essa, del proprio
futuro senza il quale «si rischierebbe di diventare degli sradicati senza arte né
parte500».
496
Gentile 2008: 14-15, 235, 239, 252-253.
Si tenga presente, ad esempio, tra i volontari di tante nazionalità che si arruolarono nelle
Waffen-SS, il riferimento allo spirito d’avventura che, tra le molteplici dinamiche, animò
volontari danesi, nei quali le motivazioni politiche, prime fra tutte l’anticomunismo e l’adesione
a partiti nazionalsocialisti danesi, si saldarono alla ricerca delle emozioni forti del combattimento
e dell’avventura (Bishop 2005: 49). Anche per i volontari finlandesi, che si impegnarono a
combattere esclusivamente contro l’Unione Sovietica, non contro l’Inghilterra e la Grecia (nazioni
occidentali che combattevano contro i tedeschi al momento dell’accordo tra Finlandia e Germania), e che erano animati da forti sentimenti anticomunisti (Bishop 2005: 57, 169), lo spirito
d’avventura giocò un ruolo importante nella scelta di arruolamento (Cleverley 2008: 54).
498
Per quanto concerne lo spirito d’avventura come elemento comune delle esperienze di
volontariato militare sono molti i testi, inerenti a differenti contesti di guerra, che si riferiscono
a tale elemento. Basti citare, tra gli altri, i seguenti riferiti alla guerra civile spagnola, alla guerra
sudafricana (1899-1902) e al vissuto dei veterani americani: Baxell 2004: 9, 27, 163; Miller 2007:
9, 75, 94, 240; Pencak 2009: 59, 123, 286. Nel caso italiano interessante, in proposito, è il fenomeno
degli arditi, nei quali lo spirito d’avventura diviene elemento distintivo a livello di profilo
caratteriale, di concezione del coraggio, di un certo ribellismo e del desiderio non solo di fare la
guerra, ma di farla in un certo modo (Rochat: 2006: 19-22; 75-81, 196-202). Anche riconducendo
lo spirito d’avventura all’analisi del vissuto di singoli volontari, esso diviene un tratto immancabile come, ad esempio, nei casi del finlandese Lauri Törni (Cleverley 2008: 3-5, 14, 19, 31, 54;
105 ) e dell’italiano Ettore Muti (Petacco 2003: 9, 15-19), nei quali esso gioca un ruolo importante
fondendosi al forte peso che assume la presenza di un credo politico anticomunista, nel caso del
primo, e fascista, nel caso del secondo.
499
Tarchi 1995: 27-28.
500
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
497
93
In proposito, il volontario Pietro Ciabattini afferma: «un grande spirito
d’avventura e anche un po’ di faccia tosta mi ci è voluto dopo la guerra, quando
mi sono trovato vinto, senza lavoro e a dover nascondere il mio passato, lì si che
serviva avere l’avventura nel sangue per ricominciare501». Il volontario racconta
tutte le sue peripezie alla ricerca di un lavoro e, come lui, altri intervistati si
soffermano nel narrare le proprie vicende proprio sull’aspetto della ricerca del
lavoro o sulla ripresa degli studi per la costruzione di un futuro che «non può
diventare rimpianto per il passato, ma un’occasione nuova alla quale andare
incontro con un po’ di coraggio502».
In proposito sono interessanti le parole del volontario Ireneo Orlando che
afferma: «ovviamente dopo la guerra il mondo era cambiato, si intuiva subito che
ci sarebbe stata la guerra fredda, che bisognava comprendere come era cambiata
la politica, non in Italia ma nel mondo, e quindi mi dedicai a qualche goliardata
coi FAR503, ma ripresi gli studi, perché, se vuoi essere davvero coerente con le idee
che hai, devi vivere la vita come un’avventura e non puoi stare a rimpiangere il
passato, devi vivere il presente e il futuro, e farlo in modo partecipe non come uno
senza arte né parte504».
I volontari rivendicano la presenza di una coerenza ideale con la propria
esperienza di volontariato nelle Waffen-SS che permane nel dopoguerra, ma
respingono e lamentano l’eccessivo nostalgismo dei movimenti e dei partiti sorti
nel dopoguerra che si richiamavano alle diverse fasi dell’esperienza fascista.
Anche i pochi, tra gli intervistati, che si impegneranno all’interno del
Movimento Sociale Italiano, riferimento politico di coloro che si richiamano
all’esperienza del fascismo, lo faranno da posizioni critiche che tendono ad
evidenziare sia un «eccessivo reducismo e nostalgismo505» sia la «incapacità di
formulare proposte politiche coraggiose e al passo coi tempi506».
La vita del dopoguerra richiede, dunque, come fanno presente i volontari
stessi, di ricorrere ancora a quello spirito d’avventura, inteso questa volta come
slancio verso il futuro e capacità di mettersi in gioco in una società totalmente
cambiata rispetto a quella all’interno della quale maturarono la loro scelta di
volontariato, che essi stessi tratteggiano, più o meno consapevolmente all’interno del narrato, come tratto caratteristico della propria personalità.
501
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
503
I FAR, Fasci di Azione Rivoluzionaria, sono un movimento politico, attivo tra il 1945 e il
1947, composto soprattutto da giovani reduci della RSI. Il movimento, come fanno notare sia
Tarchi sia Caprara e Semprini, si contraddistingue soprattutto per alcune goliardate, come
l’irruzione in una emittente radiofonica per trasmettere le note di Giovinezza o l’affissione di
gagliardetti fascisti in luoghi pubblici come avvenuto a Firenze sul David di Michelangelo (Tarchi
1995: 31-32; Rao 2007: 23-28; Caprara e Semprini 20011: 93-98).
504
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
505
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano. Nelle corrispondenze del 5
ottobre 2009 e del 5 settembre 2010 col volontario Alessandro Scano e nell’intervista del 19
settembre 2009 col volontario Rutilio Sermonti, la semplicistica adesione ad un pensiero politico
nostalgico da parte di larghi strati del MSI viene messa in correlazione con la successiva «facilità
di sbarazzarsi del proprio passato politico» attuata con la trasformazione del movimento in
Alleanza Nazionale, con la cosiddetta “svolta di Fiuggi” del 1995, promossa da Gianfranco Fini.
Tale giudizio politico è riscontrabile anche nella ricostruzione del Tarchi sul tragitto politico dei
fascisti e dei neofascisti nell’Italia repubblicana (Tarchi 1995).
506
Intervista del 8 giugno 2006 al volontario Rutilio Sermonti.
502
94
Il concetto di spirito d’avventura si arricchisce, dunque, nel narrato degli
intervistati, di differenti dinamiche costitutive e rappresentative che paiono
correlarsi con le realtà storiche e sociali nelle quale operano i volontari. Si declina,
infatti, inquadrando le diverse fasi storiche e anagrafiche che accompagnano la
vita degli intervistati, in quattro principali dinamiche e fasi: un ribellismo
giovanile insofferente agli obblighi sociali; un desiderio di volontariato militare;
un arditismo combattentistico con l’uniforme delle Waffen-SS; e una volontà di
essere uomini contemporanei nella società del dopoguerra.
Lo spirito d’avventura assume nel narrato degli intervistati un significato
esteso, incarna un vitalismo partecipativo alle vicende storiche che non si
estrinseca nella sola esperienza di volontariato nelle Waffen-SS, ma più in
generale nella partecipazione alle dinamiche storiche. Esso diviene così elemento
distintivo per l’identificazione di due fattispecie umane: quella composta da
coloro che sono pronti a rischiare in nome di un ideale vissuto come superiore o
della volontà di essere «partecipi del proprio tempo507» e quella di coloro che,
invece, «seguono il corso della storia subendolo e tentando di sopravvivere agli
eventi508». Nella prima fattispecie rientra, seppur con rilevanti distinguo, anche
il «fratello partigiano509», incluso nella comunità di coloro che partecipano alla
storia.
A partire da quest’ottica lo spirito d’avventura viene ricondotto al vivere
quotidiano, anche ai piccoli eventi, e diviene modalità esistenziale all’interno
della concezione della vita dei volontari, che ne percepiscono e valutano la
presenza non solo in occasione di situazioni straordinarie come quella bellica.
Tenendo presente ciò e facendo riferimento allo spirito d’avventura che, in parte,
contribuì alla scelta di volontariato nelle Waffen-SS, esso, a differenza di quanto
fino ad oggi ricostruito dalla storiografia italiana, non appare come inconsapevole, ma piuttosto come ben integrato nel quadro storico e politico, e quindi
tutt’altro che vissuto come fine a se stesso. È proprio l’intima correlazione tra lo
spirito d’avventura e i valori sociali, culturali e politici, vissuti come mobilitanti
nel quadro della propria scelta di volontariato e combattimento, che consente sin
d’ora di distinguere la figura di questi volontari da quella del mercenario510 al
quale, sostenendo il loro asservimento allo straniero tedesco, certa storiografia
sembra fare riferimento511.
507
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
509
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
510
I mercenari sono militari che combattono a scopo di lucro in base ad un contratto con un
committente, sia esso un privato, una società o uno Stato. Si differenziano dai soldati di leva, che
sono vincolati da un obbligo verso lo Stato, e dai volontari, che combattono per i propri ideali. Per
quanto concerne la figura del mercenario si vedano, tra i tanti, i seguenti studi: Guy 1999; Parker
2000; Adamo 2003; Pagliani 2004.
511
Sono soprattutto i testi di Lazzero (1982) e de Lazzari (2002) a presentare i volontari
italiani nelle Waffen-SS come asserviti ai tedeschi ai quali, all’interno di questo quadro
ricostruttivo, sono attribuiti comportamenti “da padroni cinici come avevano fatto i loro antenati
durante le invasioni barbariche” (Lazzero 1982: 11). Lo studio del Lazzero, in proposito, tende ad
attribuire ai volontari italiani nelle Waffen-SS non solo una subordinata obbedienza ai militari
tedeschi, ma anche un personale interesse per la retribuzione spettante (Lazzero 1982: 62). Ma
sembra contraddirsi chiaramente quando ricostruisce la situazione retributiva delle Waffen-SS
italiane al 1944: “le paghe delle SS sono a questo punto nettamente migliorate rispetto a quelle
508
95
Inserimento sociale, interazione con la popolazione e sentimenti
amorosi
Uno degli aspetti maggiormente posti in risalto dalle ricostruzioni storiche
italiane che trattano il fenomeno dei volontari nelle Waffen-SS è quello della
terrificità dei militi arruolati in queste truppe. Da più parti si evidenzia, infatti,
come essi fossero invisi alla popolazione proprio in conseguenza di tale terrificità
e il quadro prevalente che emerge dalle ricostruzioni è quello di soldati temuti e
odiati dalla popolazione civile512.
Tale univocità delle ricostruzioni, basata su fonti d’archivio o sulla memoria
di ex partigiani513, sembra però confligere col quadro storico generale ricostruito
da De Felice514 e Pavone515 e con alcune ricerche di storia locale516. Oltre a ciò tali
dei primi mesi dopo l’8 settembre 1943, ma tuttavia risultano inferiori a quanto disposto dal
governo di Salò per coloro che si arruolano nell’esercito repubblicano (Lazzero 1982: 62). Non si
capirebbe, infatti, seguendo il ragionamento del Lazzero, perché una persona fortemente
interessata alla retribuzione spettante per il suo arruolamento avrebbe dovuto preferire un
esercito che, non solo lo relegava in ruolo subordinato, ma lo pagava anche meno di quello della
RSI. È evidente che la motivazione economica all’arruolamento nelle Waffen-SS non solo non
regge la prova dei fatti, ma neppure trova riscontro nelle testimonianze dei volontari intervistati
in questa ricerca. Documenti d’archivio redatti nel giugno 1944 rivelano, inoltre, come per i
volontari italiani nella 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS fosse difficoltoso, se non impossibile, riscuotere e disporre delle proprie paghe poiché il libretto militare in loro possesso, unico
documento disponibile, non era riconosciuto dagli uffici postali (ACS, Ministero dell’Interno,
Gabinetto RSI (1943 – 1945), b. 1).
512
Particolarmente caratterizzati da tale indirizzo di fondo sono i seguenti studi: Lazzero
1982; de Lazzari 2002; Caniatti 2010. L’unico studio italiano specifico sulla 29ª WaffenGrenadier-Division der SS, composta da italiani, si concentra principalmente sulla ricostruzione
delle operazioni militari, che di tanto in tanto si caratterizza per qualche nota apologetica, senza
indugiare in giudizi che coinvolgano la tematica della terrificità dell’azione (Corbatti e Nava
2001). Interessante è lo studio sulla 24ª Waffen-Gebirgs-Karstjäger-Division der SS, nella quale
militarono numerosi volontari italiani, che all’interno di una ben documentata ricostruzione
affronta, seppur brevemente, il tema del “trattamento della popolazione, dei fiancheggiatori e dei
banditi” (Corbatti e Nava 2005). Le modalità operative sul suolo italiano di due divisioni
all’interno delle quali militarono anche volontari italiani, alcuni dei quali intervistati per la
presente ricerca, ossia della 1ª SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler e della 16ª SSPanzergrenadier-Division Reichsführer SS, sono ben ricostruite da Carlo Gentile (1995, 2003).
La non prevalente presenza di militi italiani in quelle divisioni non consente, però, di estendere
tali ricostruzioni né alla generalità dei volontari al centro della presente analisi né all’universo
dei volontari italiani nelle Waffen-SS. Lo stesso dicasi per la pubblicazione che investiga le
operazioni del SS-Wehrgeologen-Bataillon 500 in Italia, che pur essendo la più dettagliata per
quanto concerne lo studio delle modalità operative dei militi e della loro interazione con la
popolazione, si riferisce esclusivamente a tale battaglione (Valente 2007). Se si escludono le
ricostruzioni a carattere prettamente operativo di Corbatti e Nava (2001, 2005), quest’ultimo
studio è l’unico, tra quelli citati precedentemente, all’interno del quale la terrificità dell’azione
solitamente attribuita ai volontari italiani o alle divisioni in cui essi militarono non appare così
marcata e il rapporto con la popolazione, nella spirale delle imboscate, rappresaglie e controrappresaglie, viene descritto nella sua complessità e talvolta appare animato da sentimenti di
simpatia (Valente 2007).
513
Lazzero 1982; Gentile 1995, de Lazzari 2002; Gentile 2003.
514
È De Felice (1998: 103-104) a ricostruire come la popolazione civile fosse animata da
sentimenti di estraneità, timore e ostilità sia nei confronti sia dei tedeschi sia degli angloamericani, sentimenti dovuti al non comprendere come ancora qualcuno volesse continuare a
combattere. Considerando che i tedeschi stessi valutavano la guerra civile in atto come una
96
ricostruzioni sembrano rientrare in due intenti tipici del processo di politicizzazione della storiografia italiana: sostenere che il fascismo non avrebbe trovato
nessuna rispondenza nella coscienza popolare e attribuire ai fascisti la qualifica
di servi dello straniero e, pertanto, di estranei al tessuto nazionale517.
È oggettivamente difficile, a tanti anni di distanza, tentare di comprendere
le relazioni sociali in atto all’epoca del volontariato italiano nelle Waffen-SS, ma
si tratta di un aspetto che è importante tentare di comprendere per ovviare alle
lacune e ai difetti delle ricostruzioni storiografiche presenti. Volendo valutare
l’inserimento sociale dei volontari italiani nelle Waffen-SS è importante comprendere la qualità delle relazioni che gli intervistati tennero con la popolazione
civile.
Ciò che, a riguardo, può essere affrontato in questa sede, consiste nell’analisi
delle testimonianze dei volontari sulle relazioni intercorse coi civili, partendo da
quelle relazioni sentimentali che possono essere considerate come un termometro, un indicatore privilegiato, delle più vaste relazioni sociali. Un corpo di
soldati, descritto prevalentemente come terrifico e composto di uomini ipnotizzati e animati da una ideologia maligna operanti nell’ostilità generale della
popolazione civile, si dovrebbe presumere che non possa lasciare traccia di
relazioni sentimentali. Si è ritenuto, dunque, di approfondire questa tematica
come parziale ma utile verifica delle ricostruzioni che presentano i volontari
italiani come persone isolate dal tessuto sociale nazionale, temute ed evitate
dalla popolazione.
Si farà riferimento, pertanto, ai racconti spontanei degli intervistati sul
vissuto sentimentale e alle risposte che essi, quando la tematica non è stata
trattata in modo autonomo, hanno fornito ad una specifica domanda su eventuali
sentimenti amorosi vissuti vestendo l’uniforme delle Waffen-SS. Si terrà, inoltre,
conto del narrato di donne che con i volontari oggetto della ricerca ebbero una
relazione all’epoca, mentre essi vestivano la divisa della Waffen-SS518. Non
saranno considerate, invece, le testimonianze di quelle donne che si legarono
“jungla” (De Felice 1998: 415), appare piuttosto improbabile un odio unilaterale nei confronti dei
militi delle Waffen-SS.
515
Claudio Pavone evidenzia come in alcuni casi la memoria locale attribuisca la colpa delle
rappresaglie tedesche alle iniziative precedentemente assunte dai partigiani (Pavone 2009,
Prefazione all’edizione 1994: XV-XVI). È lo stesso storico a ricostruire lo scivolamento della
Resistenza in comportamenti di cruda violenza e a ricostruire la teorizzazione politica della
controrappresaglie partigiane (Pavone 2009: 427, 488-489).
516
Alcune ricerche evidenziano, come fatto presente nella prima parte del presente studio,
come le azioni partigiane talvolta causino nelle popolazioni locali avversione al movimento
resistenziale stesso (Trupiano 2008: 10) e lo stesso effetto abbiano i furti commessi ai danni della
popolazione civile (Valente 2007: 144). Ciò appare confliggere con ricostruzioni nelle quali i soli
volontari delle Waffen-SS o della RSI sono presentati come invisi alla popolazione civile. Lo studio
di Valente, del resto, evidenzia anche aree di simpatia della popolazione nei confronti dei soldati
del SS-Wehrgeologen-Bataillon 500, tanto che qualcuno arriva ad appellarli come “le bonarie SS
di Folgaria” (Valente 2007: 80, 87, 122, 141).
517
Pavone 2009: 221-223.
518
La tematica delle relazioni sentimentali tra donne di diverse nazioni e soldati tedeschi
è stata recentemente oggetto di alcuni studi sul trattamento che a tali donne e ai loro figli venne
riservato dopo la guerra. Trattate come “sexual traitors” molte subirono punizioni umilianti e un
forte ostracismo sociale. Si vedano in proposito: Warring 1994; Virgili 2000; Borgersrud 2004;
Borgersrud 2005; Diedrichs 2005.
97
sentimentalmente ai volontari soltanto dopo che essi conclusero l’esperienza di
volontariato.
Nel narrato spontaneo dei volontari non sono rari i riferimenti a relazioni
sentimentali più o meno durature con ragazze delle zone nelle quali le WaffenSS operarono. Queste relazioni emergono incidentalmente all’interno del narrato relativo ad altre tematiche e sono descritte facendo ricorso alle seguenti
espressioni: «avevo una simpatica amicizia con una ragazza del luogo, la mia
fidanzatina519»; «frequentavo un’amica con la quale ci vedevamo in paese520»;
«avevo una bellissima ragazza a Mariano Comense521»; «con Franca, davvero una
bella ragazza, ci eravamo persi di vista a causa della guerra, poi mi sposai e dopo
quando ci ritrovammo mi venne anche a trovare a Roma522»; «avevo una
fidanzata, si stava bene insieme, ma con attenzione a non combinare pasticci,
insomma stavo attento che non rimanesse incinta, è difficile quando sai che puoi
morire per la guerra523»; «avevo la fidanzata bellissima, bionda, occhi azzurri e
la lasciai per una stupidaggine524».
Un volontario afferma: «la storia che le donne non ci volevano più bene525 non
è vera, ci volevano bene eccome, io ho sempre avuto la ragazza, mia moglie l’ho
conosciuta dopo526».
Dal narrato si evidenzia, dunque, un fitto intreccio di relazioni sentimentali
tra i volontari nelle Waffen-SS e ragazze dei luoghi in cui essi prestarono servizio
che è utile approfondire. Interessanti, in proposito, sono le vicende del volontario
Ireneo Orlando che racconta come, in fuga dal Nord dopo la fine della guerra e
col rischio di essere passato per le armi dai partigiani, sia riuscito a sfuggire ai
primi posti di blocco grazie alla ragazza di un suo camerata che li aveva ospitati
a casa della famiglia527.
Il volontario Francesco Scio racconta come una ragazza che frequentava a
Cermenate, venuta a sapere che si trovava prigioniero in un campo di concentramento a Monza528, si recasse a portargli cibo e sigarette ogni settimana529.
519
Intervista del 2 agosto 2008 col volontario Alessandro Scano. Le relazioni sentimentali,
in un quadro in cui la popolazione è descritta come stanca della guerra nella stragrande
maggioranza, sono descritte dal volontario anche nella sua autobiografia (Scano 2005: 39-40).
520
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
521
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
522
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
523
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
524
Intervista del 2 ottobre 2010 al volontario Adolfo Simonini.
525
Il riferimento è alla canzone scritta da Mario Castellacci, cantata dai soldati della RSI,
dal titolo “Le donne non ci vogliono più bene”. Alla stessa canzone, smentendo che il suo contenuto
risponda a realtà, accenna anche il volontario Scano (2005: 40).
526
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
527
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
528
Sul finire della seconda guerra mondiale gli angloamericani crearono diversi campi di
prigionia dove vennero internati i fascisti che avevano militato nella Repubblica Sociale Italiana
e i collaborazionisti dell’esercito tedesco. Il più noto di questi campi fu quello di Coltano, vicino
Pisa, dove venne recluso anche Ezra Pound. Il campo era provvisto di gabbie illuminate da luci
elettriche durante la notte, esposte alla pioggia o al sole, e sprovviste di sedie o brande per giacere,
nelle quali venivano reclusi e puniti i prigionieri (Sanavio 1986: 46, 160). Uno dei volontari
intervistati sarà recluso proprio nel campo di Coltano e su di esso scriverà un dettagliato studio
anni dopo (Ciabattini 1995).
529
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
98
Alessandro Scano racconta così della sua fidanzatina: «fu lei la prima a dirmi
che a breve sarebbero entrati in azione i partigiani e che la guerra era ormai
persa, offrendomi di nascondermi a casa sua con la protezione della sua famiglia.
Ma io avevo giurato a mio padre che saremmo rimasti al nostro posto fino alla fine
e la mia fede mi impedì di accettare quell’aiuto. Ricordo ancora quell’abbraccio
col quale ci siamo salutati, piangeva silenziosamente e tremava, purtroppo non
l’ho mai più vista, ma anche se sono passati tanti anni e il contorno del suo viso
è sfumato, io la ricordo ancora con tanta tenerezza530».
È evidente dal narrato, sia per il suo contenuto sia per la presenza di calore
umano e di elementi emotivi che accompagnano il ricordo, che queste storie
furono caratterizzate spesso da sentimenti intensi e profondi tipici degli amori
giovanili. Le ragazze non esitarono, infatti, ad offrire il loro aiuto ai volontari in
momenti difficili e pericolosi all’interno della guerra civile italiana. L’esposto
degli intervistati, inoltre, evidenzia spesso, a tanti anni di distanza, un forte
coinvolgimento emotivo che si palesa anche nell’uso di un linguaggio romantico
e sentimentale.
In alcuni casi, come visto, il volontario lascia intuire come questi amori si
caratterizzassero sia per una componente affettiva sia per una sessuale e come
ciò rendesse necessaria l’attuazione di comportamenti sessualmente responsabili. Ma ciò che appare rilevante, all’interno della tematica trattata, è che gli
incontri tra questi giovani avvenissero spesso non di sotterfugio, ma nella piazza
del paese e con l’assenso della famiglia della ragazza.
Alcune delle storie d’amore ricostruite, nate durante la guerra, proseguono
anche nel dopoguerra e sfociano nel matrimonio. Altre, invece, si interrompono
perché i volontari sono costretti alla fuga, perché le famiglie delle ragazze
cambiano residenza al termine della guerra, rendendo difficoltoso il ritrovarsi,
perché all’interno delle tormentate vicende della guerra civile si esaurisce il
sentimento amoroso531 o per la morte del volontario.
È quest’ultimo un caso che riguarda i volontari Vittorio Tosi e Antonio Taffon.
Il volontario Tosi era fidanzato con una ragazza alla quale era legato «da un
grande amore, da un profondo sentimento e da grande tenerezza», ma non potrà
più rivederla perché, catturato dai partigiani, verrà giustiziato. Nel dopoguerra
la giovane, che ancora oggi è legata da una profondissima amicizia con la sorella
di Vittorio, lo aspetterà a lungo prima di ricostruirsi una famiglia. Ma il corpo del
volontario sarà restituito alla famiglia, dopo il pagamento di un riscatto agli ex
partigiani, soltanto undici anni dopo la morte532. Anche Antonio Taffon «aveva
una fidanzata bellissima che non abbracciò più e che si occupò in prima persona
della sua sepoltura e portò sempre dei fiori sulla sua tomba anche dopo la
guerra533».
Alcune delle relazioni sentimentali nate mentre l’uomo vestiva la divisa delle
530
Intervista del 2 agosto 2008 col volontario Alessandro Scano.
In uno dei casi ricostruiti il volontario Cirillo Covallero asserisce: «dopo la guerra non sono
stato più voluto perché ero un fascista e il clima contro i fascisti era teso, era difficile trovare un
lavoro, eri segnato dalla tua scelta, e lei e la sua famiglia avevano paura di un futuro così
complicato». Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
532
Interviste del 16 giugno 2006 a Albarosa Tosi Malossi e Fulvio Tosi, rispettivamente
sorella e cugino del volontario Vittorio Tosi.
533
Intervista del 6 giugno 2008 a Agostino Taffon, nipote del volontario Antonio Taffon.
531
99
Waffen-SS, come anticipato, sopravvivono però sia alla guerra sia al turbine di
sentimenti che interessa tutte le relazioni amorose. Interessante, in questo caso,
è porre attenzione alla memoria al femminile. La moglie del volontario Ferdinando Salutin racconta ancora con commozione e gioia il loro incontro: «ci siamo
conosciuti quando lui era già una SS, in treno al buio per evitare i bombardamenti, lui tornava a casa perché era morto uno zio, era l’ultimo giorno del 1944, ci
siamo conosciuti parlandoci al buio, poi ci siamo rivisti ed innamorati di un amore
che è durato tutta la vita534».
Anche la moglie del volontario sudtirolese Josef Tappeiner conosce il futuro
marito mentre veste l’uniforme delle Waffen-SS e si lega a lui in «un amore durato
tutta la vita». La donna racconta: «era un eroe535, un soldato che è stato decorato
per aver combattuto a lungo contro i russi ed un bellissimo uomo»536. Il figlio Hans
descrive così l’atteggiamento della mamma verso suo padre: «lo eroizzava
sempre, lo ha conosciuto all’epoca che era un SS, e lo ha sposato e lo ha sempre
amato537». Simile è la storia che racconta Renata Gionzer, figlia del volontario
Carlo: «mio padre era considerato un bell’uomo e quando partì per la guerra era
fidanzato, ho ancora le foto di quando è venuto in licenza con la divisa ed erano
abbracciati, poi si sono sposati nel 1946538».
La ricostruzione dei sentimenti amorosi dei volontari e delle dinamiche
sociali che li contraddistinsero, con particolare riferimento all’identificazione
dell’assenso delle famiglie alle unioni e della pratica delle coppie di incontrarsi
anche in luoghi pubblici come la piazza del paese, unite al perdurare di legami
sia sentimentali sia di amichevole aiuto nei difficili momenti del dopo guerra,
consente di gettare uno sguardo retrospettivo sull’inserimento sociale dei volontari che appare ben più radicato di quanto sino ad oggi ricostruito.
Dall’analisi critica delle memorie dei volontari e delle loro fidanzate non si
riscontra, dunque, un quadro di isolamento sociale, che peraltro, se realmente
fosse stato così profondo come quello sino ad oggi presentato da gran parte della
pubblicistica, difficilmente apparirebbe compatibile con le situazioni ricostruite.
Tenendo in considerazione quanto ricostruito relativamente alle relazioni
sentimentali, è utile prendere in esame anche quanto narrato dai volontari
riguardo il loro rapporto con le popolazioni delle zone in cui si trovarono ad
operare. Quanto emerso nel corso delle interviste circa l’interazione con la
popolazione locale presenta, infatti, aspetti di grande rilevanza. I volontari si
collocano su un piano narrativo che, pur a tanti anni di distanza e pur nella sua
unilateralità, appare coerente non soltanto con la ricostruzione del tessuto
sociale evidenziatasi all’interno delle loro vicende sentimentali, ma anche con le
ricostruzioni di De Felice sull’atteggiamento della popolazione, a cui si è fatto
riferimento in precedenza.
Nessuno degli intervistati ha tentato di accreditare un gradimento collettivo
534
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 alla moglie del volontario Ferdinando Salutin.
Lo SS-Oberscharführer Josef Tappeiner, sudtirolese della classe 1920, combatté nella 8ª
SS-Kavallerie-Division Florian Geyer è fu decorato anche con la Deutsche Kreuz in Gold, che
spettava a coloro che si erano distinti per 6-8 atti di eccezionale coraggio.
536
Intervista telefonica del 29 settembre 2009 alla moglie del volontario Josef Tappeiner.
537
Intervista del 17 ottobre 2009 a volontario Josef Tappeiner e al figlio Hans.
538
Corrispondenza del 15 settembre 2009 con Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo
Gionzer.
535
100
e condiviso da tutta la popolazione nei confronti delle Waffen-SS, descrivendo,
piuttosto, una situazione a macchia di leopardo, con aree geografiche in cui i
rapporti con i civili erano molto sereni ed altre nelle quali, invece, il clima era
ostile. All’interno del narrato del medesimo volontario si riscontrano, infatti,
descrizioni che ricostruiscono atteggiamenti differenti da parte della popolazione
al mutare delle zone di operazione. I volontari intervistati non nascondono in
alcun modo, all’interno del flusso narrativo, i momenti ed i luoghi in cui si
sentirono oggetto di sentimenti ostili o in cui l’interazione con i civili fu caratterizzata da scarsa serenità.
Il volontario Giuliano Bortolotti, ad esempio, racconta di rapporti sereni con
i civili in diverse località attraversate durante l’esperienza con le Waffen-SS, ma
descrivendo la situazione in Piemonte afferma: «gli abitanti del luogo nutrivano
avversione verso di noi, tanto che da loro non ci si poteva aspettare un aiuto ed
anche i preti erano ostili e offesero diverse volte il frate che era nostro cappellano
militare539». Il volontario sudtirolese Luis Innenhofer, che è stato coinvolto in
operazioni al confine orientale contro i partigiani di Tito, afferma: «la popolazione
delle nostre zone di operazione ha sofferto moltissimo la guerra, i rapporti con noi
SS erano ottimi, ci accoglievano molto meglio dei partigiani che quando non
avevano da mangiare rubavano nelle case540».
Sono diverse le località citate in cui i rapporti con la popolazione vengono
descritti come buoni ed improntati al rispetto reciproco e ciascuno serba ancora
vivo il ricordo dei paesi, delle città e delle zone nelle quali si trovò ad operare senza
riscontrare ostilità alcuna da parte della popolazione locale. Sia quando vengono
citati atteggiamenti ostili da parte della popolazione sia quando di simpatia o
collaborazione, ancora oggi i volontari ricordano e nominano le località con
precisione. Sono diversi i volontari, come Covallero, Ciabattini, Innenhofer,
Bortolotti e Scano, che nel corso del loro narrato tentano di dare e di darsi una
spiegazione degli atteggiamenti della popolazione e del loro variare da una
località all’altra. Cirillo Covallero, ad esempio, racconta relativamente ai due
mesi trascorsi a Pinerolo: «i paesani parlavano con noi, ci trovavamo bene, anche
lì avevo un’amica, non ero io che sceglievo la ragazza, erano loro che ti sceglievano, e tutto andava bene e partigiani non ce n’erano541».
Ciò che emerge, in questo caso, ma anche nel narrato di altri volontari, è come
i rapporti amichevoli con la popolazione siano correlati anche all’assenza di
formazioni partigiane operanti in zona. In altri casi, invece, è la precedente
presenza partigiana a divenire, secondo i volontari, motivo di amichevole
accoglienza delle Waffen-SS.
Pietro Ciabattini afferma in proposito: «ci accolsero bene nei paesi in cui i
partigiani erano passati prima di noi, perché la gente era stanca dei furti e non
ne poteva più che i partigiani gli rubassero il cibo542». Anche le considerazioni del
volontario Luis Innenhofer ricalcano le precedenti: «in Friuli la gente era stanca
539
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti. Il volontario descrive
dettagliatamente tali situazioni anche all’interno delle sue memorie (Bortolotti 2007: 46-47).
540
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
541
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
542
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
101
dei continui furti nelle stalle e nelle case da parte dei titini543 e nei paesi ci
accolsero molto bene544». Il volontario Giuliano Bortolotti ricorda, invece, le
simpatie e la collaborazione tra la popolazione e i partigiani durante la sua
permanenza in Piemonte e, in questo caso, la presenza di forze resistenziali in
quell’area viene interpretata, al contrario dei casi precedenti, come motivo di
avversione dei civili nei confronti delle Waffen-SS.
Data l’eterogeneità del movimento resistenziale, composto da gruppi che
operavano ispirati da differenti motivazioni ideologiche e secondo modalità
operative non sempre uniformi545, e considerata anche l’eterogeneità delle truppe
della RSI, anch’esse operanti in un contesto ideologico e operativo spesso
eterogeneo546, è evidente, tenendo conto anche della presenza tedesca e di quella
dell’esercito alleato con le sue attività di bombardamento e di infiltrazione nei
territori del Nord547, che il quadro delle relazioni tra la popolazione e i belligeranti
nel quale si trovarono ad operare i volontari si caratterizzava per una elevata
complessità.
Appare perciò comprensibile che vi sia una apparente eterogeneità di
valutazione da parte dei volontari nell’attribuire atteggiamenti amichevoli o
ostili ai civili correlandoli, talvolta i primi e talvolta i secondi, alla precedente
presenza partigiana in loco. Anche la generale accoglienza amichevole descritta
dai volontari in assenza di truppe partigiane nelle zone di operazione, può essere
letta sia come una effettiva simpatia delle popolazioni locali nei confronti dei
militi, all’interno della quale trovano inquadramento anche i sentimenti amorosi
ricostruiti, sia come una collaborazione di soggetti che, ormai stanchi della
guerra, miravano ad evitare e ridurre ogni possibile attrito coi belligeranti548.
543
Col termine “titini” si identificano i partigiani che operarono nell’Armata Popolare di
Liberazione della Jugoslavia o comunque agli ordini di Josip Broz, meglio noto come Tito. Nella
Venezia Giulia e nel Veneto fu sempre forte il timore dei partigiani di Tito e dopo la notizia
dell’armistizio, ad esempio, la ricostruzione del partito fascista avvenne immediatamente nel
timore che i titini potessero cogliere l’occasione per penetrare in profondità in territorio italiano
(De Felice 1998: 106).
544
Intervista del 17 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
545
Le differenti componenti della Resistenza sono spesso classificate, con un esercizio di
semplificazione, in partigiani “rossi” di ispirazione comunista; partigiani “bianchi” di ispirazione
cattolica e partigiani “azzurri” di idee liberal-conservatrici e legati alla monarchia. Ma la
composizione fu assai più articolata e può essere così riepilogata a livello schematico: le Brigate
Garibaldi, i Gruppi di Azione Patriottica e le Squadre di Azione Patriottica facevano prevalente
riferimento al Partito Comunista Italiano; le formazioni di Giustizia e Libertà erano legate al
Partito d’Azione; le formazioni Giacomo Matteotti al Partito Socialista Italiano; le Brigate
Fiamme Verdi, le Brigate Osoppo e le Brigate del popolo facevano riferimento alla Democrazia
Cristiana; le formazioni azzurre erano nate da reparti del regio esercito e ispirate da idee liberali
o conservatrici; l’Organizzazione Franchi rappresentava il Partito Liberale Italiano e i monarchici; la formazione Bandiera Rossa Roma era animata da idee trotzkiste; le Brigate Bruzzi-Malatesta
erano, invece di tendenza anarchica (Longo 1947; Battaglia 1964; Bianco 1979). Non sempre i
rapporti tra queste formazioni furono improntati alla collaborazione in funzione antifascista, ma
si tramutarono talvolta in scontro aperto. L’eccidio di Porzûs, ad esempio, con l’uccisione, nel
febbraio 1945, di partigiani della Brigata Osoppo, formazione di orientamento politico cattolico
e laico - socialista, da parte di un gruppo di partigiani gappisti, che facevano riferimento al Partito
Comunista Italiano, è ancora oggi uno degli episodi più tragici e controversi della storia della
Resistenza italiana (Cesselli 1975; Kersevan 1995; Gervasutti 1997; Lenoci 1998). Si tenga,
inoltre, conto che al confine orientale operarono, come già fatto presente, anche i partigiani agli
ordini di Tito.
546
La Repubblica Sociale Italiana ebbe un esercito variegato e composto da differenti
102
Se, dunque, le motivazioni di questi diversi atteggiamenti della popolazione
nei confronti dei soldati delle Waffen-SS risultano di complicata interpretazione,
ciò che emerge come dato di fatto, all’interno del narrato complessivo e di quello
di ciascun singolo volontario, è che l’atteggiamento dei civili variava in modo
sensibile, dalla simpatia all’ostilità, nel giro di pochi chilometri, da un paese
all’altro della medesima area operativa.
Si delinea, dunque, per quanto concerne i rapporti vissuti dai volontari
nell’interazione con i civili, quella che si può definire a tutti gli effetti una
situazione a macchia di leopardo, ben diversa quindi dalle generalizzazioni che
ad oggi attraversano i principali studi sul volontariato italiano nelle Waffen-SS.
Il narrato dei volontari italiani appare, dunque, anche affidabile, oltre che
compatibile con l’effettiva situazione politica italiana, e libero da quegli atteggiamenti che caratterizzano le testimonianze di volontari di altre nazionalità che
hanno spesso descritto i propri rapporti con la popolazione civile come ottimali,
imputando tensioni e violenze principalmente all’azione dei tedeschi549.
Interessanti e ulteriormente confirmatorie, in proposito, sono le parole del
volontario Alessandro Scano nella descrizione del comportamento delle ragazze
nei confronti dei militi delle Waffen-SS: «nel comportamento dei giovani non ci
sono mezze misure, c’è irruenza, si è molto spregiudicati e quindi era facile capire
come venivi percepito da come si comportano con te le ragazze. Da una parte c’era
il rifiuto di ogni contatto e dall’altra simpatia e disponibilità a stare insieme in
paese senza vergogna di farsi vedere in compagnia550».
La ricostruzione di una situazione a macchia di leopardo, con un’alternanza
di simpatia e ostilità nei rapporti coi civili, che risulta compatibile con la presenza
di due minoranze attive contrapposte ed anche con gli atteggiamenti di quella
zona grigia maggioritaria della popolazione che non prese parte al conflitto e si
comportò rispetto ai contendenti in modo di volta in volta funzionale all’obiettivo
di sopravvivere alla guerra, è rilevante all’interno dell’analisi sull’inserimento
formazioni: l’Esercito Nazionale Repubblicano, la Guardia Nazionale Repubblicana, le Brigate
Nere e la Legione Autonoma Mobile Ettore Muti, alle quali si deve aggiungere la Xª MAS, esercito
agli ordini del comandante Junio Valerio Borghese (Pisanò 1967; Pansa 1969; Pansa 1970; Arena
1999; Arena 2000; Arena 2002; Caputo e Avanzi 2005). Il De Felice ricostruisce in dettaglio le
ragioni di tale frammentazione che sono imputabili ad un intreccio di motivazioni politiche,
personalismi e rapporti con l’alleato tedesco (De Felice 1998: 437-467).
547
Con le incursioni aeree, sempre più massicce e frequenti, che seminavano la morte anche
tra i civili italiani, non era facile per la propaganda angloamericana far comprendere che gli
Alleati, pur recando lutti e distruzioni, combattevano per la “liberazione dal fascismo” e per la
democrazia (Mercuri 1975: 30-31). Lo stesso De Felice ricostruisce i sentimenti d’odio e
avversione per gli angloamericani determinati dai bombardamenti (De Felice 1998: 103). In
proposito ai bombardamenti americani Ungaretti, colpito dalla loro violenza, compose nell’agosto
del 1943 i versi di Poeti d’oltreoceano, vi dico: “Nello sterminio folle / orridi appariste / del suggello
umano, dimentichi”.
548
È De Felice a ricostruire e mettere in risalto la presenza di larghe fasce di popolazione
estranea allo scontro in atto e di rifiuto sia della RSI sia della Resistenza: molti civili si impegnano
a sopravvivere tra gli uni e gli altri contendenti. L’egoismo e la paura, popolarmente definiti come
“buon senso”, suggerivano spesso di non compromettersi e di pensare a salvarsi la vita (De Felice
1998: 103, 275, 294-296, 317).
549
Si veda, ad esempio, in questo senso il caso dei volontari spagnoli della División Azul:
Núñez Seixas 2006: 712-721.
550
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
103
dei volontari nel tessuto sociale nazionale. Essa dimostra che gli intervistati non
furono degli sradicati, invisi alla totalità e generalità della popolazione, prigionieri della terrificità delle loro azioni, ma piuttosto parteciparono alle intricate
dinamiche sociali di quell’epoca di guerra e, all’interno di esse, furono anche in
grado di vivere la propria vita sentimentale vestendo l’uniforme delle Waffen-SS
e costruendo dei legami amorosi che, in alcuni casi, sopravvissero agli eventi
bellici stessi.
Figure di riferimento ed eroi
Una tematica mai analizzata per quanto concerne i volontari italiani nelle
Waffen-SS è quella dei modelli eroici di comportamento adottati. Dopo aver preso
in esame le fascinazioni letterarie che contribuirono, nelle loro preminenti
influenze salgariane, all’adozione di un modello eroico incentrato sullo spirito
d’avventura inteso come vero e proprio stile di vita, si tratta ora di identificare
e comprendere quali siano le figure prese a riferimento dell’agire dagli intervistati.
Interessante è valutare se, oltre alle fascinazioni letterarie, si evidenzino
ulteriori meccanismi di costruzione dei modelli eroici e se questi affondino le loro
radici in esempi contemporanei all’esperienza di volontariato, del passato recente o remoto. Tracciare i limiti cronologici dei modelli eroici adottati dagli
intervistati diviene, inoltre, interessante se si considera che questi volontari
sono, fino ad oggi, stati ritratti con esclusivo riferimento alla loro adesione al
fascismo e, come tali, considerati un prodotto delle influenze culturali fasciste551.
Solitamente si ritiene utile valutare se si verifichi l’adozione di modelli eroici
concreti e prossimi la cui sequela può essere interpretata come garanzia di
coesione interna alla comunità e crescita di prestigio. In questo caso, le figure di
riferimento che i volontari citano all’interno del flusso narrativo risultano spesso
circoscritte all’esperienza nelle Waffen-SS, ma ciò appare imputabile alla consapevolezza degli intervistati degli obiettivi della ricerca e dell’interesse prevalente
dell’intervistatore su quella specifica fase della loro vita. Ciò consente però
l’identificazione di eventuali figure guida interne ad un mondo fino ad oggi
pressoché inesplorato dal punto di vista delle relazioni umane tra volontari e dei
meccanismi di costruzione dei modelli di riferimento.
Se è vero che gli uomini hanno sempre sentito la necessità degli eroi, è
altrettanto vero che vi sono vari modi di concepire l’eroe. Uno dei più comuni è
quello di vedere l’eroe come persona straordinaria, che per la sua forza e la sua
volontà sembra oltrepassare i limiti della natura umana, ed è questo il caso di
figure come Achille, Alessandro Magno, Giulio Cesare e Napoleone. Eroi che
551
Generalmente qualificati come ammiratori del nazionalsocialismo e del fascismo (Lazzero
1982; de Lazzari 2002; Caniatti 2010), i volontari non sono mai descritti con riferimento ai modelli
eroici adottati. Soltanto nello studio di Corbatti e Nava, nella prefazione redatta dal volontario
Pio Filippani Ronconi (Corbatti e Nava 2001: 5-6) si accenna a modelli eroici quali gli arditi, gli
Sturmbataillonen, i Frei Korps e i Kamikaze. Si tratta di esempi che non vengono, però,
approfonditi relativamente ad altri volontari e che sono proposti da una sola persona che si
caratterizza, peraltro, per l’elevato livello culturale maturato sin dalla giovane età.
104
manifestano la vastità delle capacità umane e perciò diventano concreti modelli
di vita ed oggetti di emulazione. La breve lista citata è, infatti, anche una lista
di emulatori: Achille fu modello per Alessandro Magno che, a sua volta, lo fu per
Cesare e così via. Ma l’adozione dei modelli eroici si muove tra la cosiddetta
mentalità epica, con gli esempi precedentemente esposti, e quella civica e
politica, caratterizzata sia dallo spostamento dell’attenzione dal singolo combattente verso il gruppo sia da una diversa valutazione della felicità del caduto.
Nella testimonianza epica l’eroe che muore in battaglia è considerato comunque
un infelice, perché ha perso qualcosa.
Nella mentalità civica, invece, se l’eroe muore per una comunità o per una
causa comune vissuta come superiore non perde nulla. Quest’ultima è una
distinzione importante perché consente, ad esempio, di tracciare un distinguo tra
la figura del mercenario, del soldato professionista, e quella del cittadino soldato
o del soldato politico552.
L’identificazione e lo studio dei modelli eroici adottati dai volontari può
inoltre aiutare a comprendere in maggior profondità sia le motivazioni di
arruolamento sia l’eventuale adozione di norme comportamentali condivise
all’interno dello scenario di guerra. Ovviamente, poiché le interviste sono state
realizzate a distanza di molti anni dalla decisione di volontariato e dall’esperienza militare, si cercherà, per quanto possibile, di operare un discrimine tra gli
esempi che i volontari descrivono come importanti all’epoca in cui maturarono la
loro scelta, sui quali si concentrerà l’analisi, e quelli che divennero esempi di vita
solo successivamente. Non si farà riferimento, all’interno di questa analisi, alla
figura di Benito Mussolini che sarà, invece, studiata ed inquadrata nel pensiero
politico dei volontari che verrà preso in esame più avanti.
La scelta di affrontare in seguito le tematiche più intimamente politiche si
lega alla struttura del presente studio che mira ad analizzare prima, in modo il
più possibile esaustivo, la dimensione sociale e culturale che ha influito sulla
scelta di volontariato. Non che sia possibile scindere completamente la dimensione culturale da quella politica, ma tale approccio è funzionale sia ad una
maggiore focalizzazione sul profilo sociale e culturale degli intervistati sia ad una
più centrata analisi del pensiero politico in senso stretto e a quella del vissuto
degli eventi storici all’interno dei quali i volontari si trovarono ad agire.
Qualora implicazioni politiche si correlino in modo determinante all’adozione
di particolari modelli eroici esse verranno però prese in considerazione. Si tratta
di guardare inizialmente ai volontari come “uomini qualsiasi”, analizzando il loro
sistema culturale, come in parte già affrontato con gli approfondimenti sull’inquadramento sociale, le fascinazioni letterarie, lo spirito d’avventura, il vissuto
amoroso, e poi, alla luce di questa approfondita conoscenza, porre la sfera più
intimamente politica in un quadro che ne agevoli la comprensione. Ciò può
contribuire, inoltre, ad evitare uno dei principali difetti delle analisi sinora
prodotte sui volontari italiani nelle Waffen-SS, che, incentrandosi esclusivamente sulla dimensione politica, offrono non solo un quadro ricostruttivo parziale, ma
rendono anche la comprensione delle stesse dinamiche ideologiche difficile,
affidandola ad un giudizio politico e morale sulla più generale esperienza fascista
552
Barzanò 2003: 100, 107, 415. Sulla tematica dei modelli eroici e del mito: Colaiacomo 1989;
Bates 1996; Brockmann e Steackley 2001; Carandini 2002; Bodei 2003.
105
slegato dall’analisi del sistema culturale e del vissuto dei volontari.
La figura eroica più citata in modo spontaneo dai volontari è quella di Ettore
Muti. L’aviatore pluridecorato che non mancò a nessuno degli appuntamenti con
la guerra e la cui personalità è tratteggiata come quella di un uomo coraggioso
e spavaldo, ribelle ma animato da lealtà, onesto e insofferente agli aspetti
esteriori del regime, bello di aspetto e amante impareggiabile, incarnazione
pressoché completa dell’eroe romantico553.
Se il volontario Pietro Ciabattini afferma che «era impossibile dimenticare
l’esempio di persone come Ettore Muti554», Alessandro Scano inserisce un’immagine dell’eroe romagnolo nell’appendice fotografica della sua autobiografia
accompagnata dalla didascalia: «un eroe vittima dell’8 settembre555». Lo stesso
Scano racconta di aver sempre apprezzato Muti perché «non c’è altro pluridecorato come lui che ha rischiato sempre la vita per la patria e per l’ideale, come
fanno i grandi eroi556». Un altro dei volontari, Pasquale Scarpellino, racconta con
orgoglio di aver parlato con Muti e lo descrive come «un superdecorato di tutte le
guerre, un eroe, una testa calda, che hanno assassinato perché avevano paura
di lui, perché era popolare e considerato dai giovani un fascista perfetto, dato che
aveva sempre servito l’ideale senza mai diventare un trombone del regime e
vivendo sempre onestamente557».
Un interessante aspetto da notare a livello iconografico è come, nella sua foto
in divisa da Waffen-SS558, il volontario Adolfo Simonini, che parla di Muti come
di un «grande combattente559», porti il berretto inclinato su un lato alla maniera
dell’eroe romagnolo560. Nella sua narrazione degli anni immediatamente successivi alla guerra, parlando della sua militanza nei FAR, il volontario Pasquale
Scarpellino racconta di essersi fatto carico di realizzare alcuni gagliardetti e di
aver scritto su uno di questi il motto “Usque ad Finem”, ispirandosi a “Usque ad
inferos”, motto di una squadriglia di aerosiluranti comandata da Muti561.
È dunque Ettore Muti, «eroe generoso, spavaldo, di temperamento, vero
fascista fedele al fascismo delle origini562», a costituire un esempio per i volontari
italiani nelle Waffen-SS. Ciò che affascina della sua figura è l’ardimento,
l’eroismo, la vitalità ribellistica e la capacità di combattimento che vengono messi
al servizio di un ideale. Al servizio del fascismo delle origini, quello rivoluzionario
che gran parte degli intervistati distingue dal fascismo del regime all’ombra del
quale essi collocano, come contraltare dell’eroe romagnolo, la figura del «trombone del regime» il cui agire è giudicato come non disinteressato.
Muti viene considerato dai volontari «un uomo vero, un esempio di come
553
Carafòli e Bocchini Padiglione 2002; Petacco 2003.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
555
Scano 2005: 92.
556
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
557
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
558
Per la suddetta immagine del volontario Adolfo Simonini si veda l’appendice fotografica.
559
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
560
Si vedano in proposito sia la copertina dello studio di Carafòli e Bocchini Padiglione (2002)
sia l’apparato fotografico incluso nello studio di Petacco (2003: 114-115).
561
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino. Il motto citato dal
volontario è stato effettivamente adottato da Muti mentre era al comando del 41° gruppo
aerosiluranti con base nel campo Condurrà di Rodi (Petacco 2003: 137).
562
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
554
106
dovrebbero essere gli italiani, un eroe fascista563», ed è apprezzato per le sue doti
caratteriali, per i suoi comportamenti eroici e per la sua coerenza ideale, ma
anche il fatto che egli sia divenuto un eroe tragico, che sia caduto «vittima di una
congiura di vili e di traditori564», sembra contribuire all’adozione della sua figura
come modello eroico. Lo stile narrativo dei volontari si caratterizza per la
descrizione empatica dell’eroismo di Ettore Muti, essi lo considerano un eroe per
il suo valore e tendono ad immedesimarsi nelle sue sofferenze di uomo pronto a
morire per una causa superiore. Ciò però all’interno di un quadro di autenticità
in cui gli intervistati, restando se stessi e comprendendo i diversi contesti storici,
fanno presente come la storia dell’eroe romagnolo generi in loro, ancora a tanti
anni di distanza, sentimenti ed emozioni profonde.
Emerge con chiarezza dal narrato come l’adozione di questo modello eroico,
considerato che ogni individuo è influenzato nella scelta dei propri riferimenti da
pulsioni e istinti interni ma anche da pressioni ambientali e culturali esterne,
affondi le sue radici prevalentemente nei primi. Il narrato si arricchisce, inoltre,
di una gestualità che testimonia una forte partecipazione dei volontari alle
vicende di Muti ed emerge, non un’ammirazione gerarchica, ma una stima molto
profonda che ha le sue radici non solo nel Muti pubblico, eroe pluridecorato, ma
soprattutto nel pensiero politico e nel modo di agire del fascista romagnolo.
Ciò permette di asserire che, a tutti gli effetti, la figura e l’esempio di Ettore
Muti ebbero un ruolo all’interno del sistema culturale che caratterizza alcuni
intervistati e che si correla alla scelta di volontariato. Ettore Muti è considerato,
da tutti coloro che lo citano, parte integrante ed esempio di una idealizzata
comunità di uomini che sanno rischiare la propria vita per un ideale vissuto come
superiore. La sua figura, all’interno del narrato, diviene quella di un eroe tra gli
uomini, di un eroe popolare, amato anche perché «rimase sempre se stesso,
coerente e non divenne mai un gerarca con troppi chili di troppo565».
Guardando alla figura di Ettore Muti sotto il profilo storico è utile notare che
egli, come effettivamente descritto dai volontari intervistati, pur raggiungendo
le più alte cariche all’interno del fascismo, rimase sempre fedele alle origini del
movimento e venne considerato da molti un gerarca scomodo566, la cui irruenza
e la cui intenzione di ripulire il partito era temuta da tanti gerarchi che all’ombra
del regime si erano arricchiti567.
563
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
565
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
566
Carafòli e Bocchini Padiglione (2002) lo definiscono così sin dal titolo della loro
ricostruzione storica: Ettore Muti. Il gerarca scomodo.
567
La scomodità di Ettore Muti risiede sia nei tratti della sua personalità poco incline al
compromesso sia nel suo agire integerrimo, che lo portò a impegnarsi nell’operazione di pulizia
interna del partito fascista quando ne fu a capo per breve tempo. Egli manifesta la sua
rivoluzionarietà sin da ragazzo, a scuola e nell’avventura fiumana intrapresa a quattordici anni.
È da subito ostile e insofferente verso gli aspetti esteriori e i rituali del regime, celebre la sua
polemica contro un pugnale d’oro che gli viene regalato per meriti in battaglia. Rimarrà sempre
fedele al fascismo della prima ora, un fascismo sociale che lo avvicina ad Arpinati, e ostile alle
banche. Celebri erano le sue considerazioni esternate durante la guerra di Spagna, tra le quali:
«un po’ di ritorno alle origini non guasterebbe» e «se continua così, torneranno a comandare quelli
che hanno sempre comandato: i panciafichisti e le mezze seghe. Mussolini lo sa. Ma deve liberarsi
di tutti quei cicisbei che ha intorno. Certo ci vogliono anche le teste. I Bottai, i Gentile, i Ciano,
564
107
Analizzando in dettaglio alcune biografie di Ettore Muti emergono, inoltre,
ulteriori elementi che sembrano lasciar intravedere dei parallelismi tra questo
eroe del fascismo e i volontari oggetto del presente studio, o comunque che
aiutano a comprendere ulteriormente le ragioni di tanta ammirazione da parte
degli intervistati. L’eroe romagnolo si distingue, infatti, per un forte spirito
d’avventura che ancora ragazzo lo porta ad infrangere il perbenismo borghese568
e a prendere parte come volontario, all’età di quattordici anni, all’avventura
fiumana, durante la quale si guadagna la stima di D’Annunzio569.
Come esaminato in precedenza, lo spirito d’avventura era forte anche per i
volontari italiani nelle Waffen-SS, ma ciò che è interessante notare è come anche
Muti nutrisse una grande ammirazione per Salgari, di cui fu così appassionato
lettore da cimentarsi egli stesso nella scrittura di novelle rimaste purtroppo
inedite570. L’eroe romagnolo era, inoltre, un avido lettore di fumetti d’avventura
dai quali deriva anche il suo primo soprannome: Gim, dal popolare eroe al centro
di episodi avventurosi del settimanale L’Esploratore571. Emerge, dunque, una
vera e propria vicinanza, a livello di letture giovanili, di culto dell’avventura e di
temperamento, tra l’eroe Ettore Muti e i suoi ammiratori volontari nelle WaffenSS.
Una vicinanza che, volendo riassumere quanto sinora esposto, fa del romagnolo quello che potremmo definire l’eroe naturale degli intervistati. Una figura
che rientra all’interno di una prospettiva di eroismo civico, che incarna cioè un
modello eroico nel quale è principalmente il sacrificio in nome di comuni cause
ideali, la patria e il fascismo delle origini, a divenire meccanismo chiave della
costruzione stessa e dell’adozione del modello eroico.
All’interno del narrato relativo alle figure prese a riferimento, accade che
alcuni commilitoni vengano citati dai volontari come esempio o innalzati al ruolo
di eroe. Tra questi spiccano soprattutto, per frequenza di citazione, il sudtirolese
SS-Sturmbannführer Alois Thaler e il senese Standartenführer Carlo Federico
degli Oddi. Emerge l’adozione di modelli eroici concreti e prossimi che conferiscono prestigio alla comunità della quale gli intervistati fanno parte. Durante le
interviste nessun volontario narra enfaticamente il proprio operato, le proprie
azioni, neppure coloro che sono stati decorati con alte onorificenze militari, ed è
presente piuttosto la tendenza e la disponibilità a riconoscere e descrivere
l’eroismo di altri camerati. Sebbene tali descrizioni conferiscano certamente
prestigio all’esperienza di volontariato nelle Waffen-SS, lo stile narrativo appare
libero da tentazioni e ricerca di auto protagonismo.
ma non occorrono le banche. I ricchi non andranno mai verso i poveri se non per far loro
l’elemosina». Il pluridecorato romagnolo non amava neanche Roma capitale, non vi si era mai
trovato bene, e secondo lui si sarebbe dovuta spostare la capitale a Milano (Petacco 2003: 105,
111, 107-108, 117, 123-125).
568
Dovendo scrivere un tema sullo studente ideale, Muti descrive diligentemente tutte le
virtù che tale ragazzo avrebbe dovuto avere. Ma conclude poi lo scritto, facendo arrabbiare il
professore di italiano, con questa frase: «questo però non è un ragazzo, è un aborto» (Carafòli e
Bocchini Padiglione 2002: 19).
569
In un biglietto D’Annunzio si rivolge ad Ettore Muti usando il suo soprannome: «Gim dagli
occhi verdi». Gim era il popolare eroe che animava le pagine del settimanale L’Esploratore con
i suoi episodi avventurosi (Carafòli e Bocchini Padiglione 2002: 26-36).
570
Sull’ammirazione di Ettore Muti per Salgari per il romanzo d’avventura si veda: Carafòli
e Bocchini Padiglione 2002: 68; Petacco 2003: 12, 40, 114.
108
L’identificazione di alcuni commilitoni come modelli eroici non si collega ad
alcuna malcelata vanità e mai, all’interno della narrazione degli eventi vissuti,
la propria persona assume posizione primaria, in un esposto che anche a livello
linguistico si dimostra libero da ogni smania di primeggiare o di conferire spicco
alle proprie azioni. L’eroe per i volontari resta su un piano che, pur adottando essi
in questo caso modelli cronologicamente contemporanei ed interni all’esperienza
nelle Waffen-SS, è di straordinarietà e, in quanto tale, da emulare oltre il
contesto di guerra anche nel presente. Si presentano, dunque, dei modelli eroici
che si sono formati nel quadro dell’esperienza di volontariato e che hanno esteso
la loro funzione di esempio oltre la guerra.
Il nome di Thaler viene citato dal volontario Nino Colombari in una intervista
filmata all’interno della quale egli ne offre la seguente descrizione: «i nostri capi
erano tedeschi, italiani, veterani insieme. Io ricordo il Maggiore Thaler che era
un guerriero nato, aveva combattuto in Norvegia, Olanda, in Polonia, aveva
perso una gamba in combattimento ed era il principale addestratore572». Anche
il volontario Alamiro Lottici, detto Miro, che ha una storia complessa di volontariato, che lo porterà a disertare, in seguito ad un fatto disciplinare, per divenire
staffetta partigiana e fuggire successivamente anche da lì, raccontava spesso al
figlio degli addestramenti di Thaler: «Prima di partire in missione fece un corso
di addestramento con un sudtirolese che aveva perso una gamba nella guerra
contro i russi, forse in Finlandia, ed un corso al panzerfaust, mi sembra dalle parti
di Novara, e lui se lo ricordava benissimo e con grande entusiasmo573».
Il volontario Pio Filippani Ronconi, nel suo memoriale inedito, ricorda con
queste parole Alois Thaler: «altoatesino già capitano del R. Esercito, reduce dalla
571
Con gli altri amici del quartiere il giovane Ettore aveva formato una piccola banda di tipo
militare che si ispirava alle azioni ed alle gesta di Gim (Petacco 2003: 12).
572
Dolcetta 2005: “Intervista a Nino Colombari” in Il volto oscuro della liberazione, DVD
supplemento a “L’Unità”, n. 3 / I tabù della storia.
573
Intervista del 5 giugno 2008 a Mauro Lottici, figlio del volontario Alamiro Lottici. Mauro
racconta a proposito del padre Alamiro: «Era giovane e ci credeva al fascismo, faceva il portiere
a calcio e col pallone sotto il braccio da una parte faceva il saluto a braccio teso dall’altra, aveva
diciassette anni e da buon ragazzetto ci credeva, era fanatichello, il Duce, i tedeschi, la divisa,
voleva subito il meglio, le SS. [...] Mio padre raccontava di essersi arruolato a diciotto anni e di
aver trascorso due anni nelle SS, dove per aver commesso un fatto disciplinare lo mandarono alla
lotta antipartigiana dove era stato anche ferito in azione. Ma poi viene arrestato dai tedeschi e
picchiato, mi ha raccontato questo ma non è mai voluto entrare nei dettagli. Io penso che avesse
fatto la ghirba a qualcuno. Mentre era in ospedale, per le percosse dei tedeschi, mia nonna, che
economicamente stava bene, era tabacchiera e macellaia, corruppe le infermiere e lui scappò
nudo dall’ospedale. Si rifugiò a Brescia dove passò ai partigiani, ma non poteva farlo a Cremona
dove sapevano che era stato nelle SS. Nel febbraio-marzo 1945 faceva la staffetta partigiana e
ricordava sempre che avevano dei prigionieri russi con gli occhi a mandorla, si convinse dopo la
guerra che erano dei russi del generale Vlasov. [...] Un’altra cosa che raccontava spesso è che
aveva preso un panzerfaust e delle bombe ai tedeschi per darle ai partigiani, ma queste erano
piene di segatura e quelli si arrabbiarono molto con lui. Alla fine della guerra i partigiani di
Cremona lo cercavano perché era stato nelle SS ed anche gli ex camerati lo cercavano, insomma
diceva che era tutto un caos e più volte mio padre disse di aver capito cosa era successo soltanto
dopo la guerra ed ebbe una forte crisi di coscienza, aveva i suoi confessori, e andò anche in Puglia
da Padre Pio. A mia mamma, che aveva conosciuto nel 1948, diceva di aver vissuto una follia
giovanile e si dichiarava pentito della scelta. Era riuscito a far archiviare, grazie alle regalie della
madre, il fatto penale, e non militare, per il quale le SS lo avevano picchiato e per il quale era
fuggito dall’ospedale, ma non mi ha mai raccontato di cosa si trattasse».
109
Russia, grande invalido574». Ma sono le parole narratemi da Ireneo Orlando che
lo descrivono più in dettaglio: «io ero con Thaler, un grande combattente e un
grande uomo, aveva chiesto un uomo di fiducia per portaordini, un compito
delicato e riservato che talvolta svolgevo assieme ad un camerata tedesco. Io ero
una persona fidata, seguivo tre principi: onore, fedeltà e coraggio, che una Waffen
deve avere. Thaler era severo, ma mai arrogante, mai approfittava del grado, noi
lo rispettavamo come grande combattente. Sapeva cosa voleva dire combattere
e faceva anche le serate di cameratismo, durante queste serate bevevamo,
chiacchieravamo e scherzavamo aldilà del grado, ma finita la serata ognuno poi
tornava al suo ruolo575».
È interessante notare che i meccanismi di costruzione del modello eroico che
intervengono in questo caso si caratterizzano anche per il superamento dei
sentimenti di ostilità e di sfiducia che l’italianizzazione del Sudtirolo attuata dal
fascismo aveva ingenerato tra sudtirolesi e italiani di altra provenienza regionale576.
I fattori che contribuiscono ad elevare il combattente sudtirolese a figura di
riferimento sono principalmente i seguenti: il fatto che Thaler avesse combattuto
su svariati fronti di guerra; la capacità di addestrare gli altri mettendo a
disposizione la propria esperienza; la «coerenza con i propri ideali che lo spingeva
a continuare a lottare per la causa anche se aveva perso una gamba in guerra577»;
e lo spirito cameratesco identificato con l’organizzazione di «serate di cameratismo che rafforzavano i legami di gruppo ed il senso di responsabilità reciproco578».
È quest’ultimo aspetto, del combattente di tante battaglie, ferito e decorato,
che vive all’interno del corpo militare e condivide il tempo libero in un rapporto
informale atto a rafforzare il cameratismo, che sembra rivestire un importante
ruolo nelle dinamiche di costruzione del modello eroico. Non appare come
sufficiente la dimensione epica affinché una figura divenga esempio e modello per
i volontari italiani nelle Waffen-SS. Certo l’aver dimostrato eroismo in battaglia,
o nella lotta politica al servizio di una causa vissuta come superiore, è elemento
indispensabile affinché un soggetto possa divenire esempio e fonte di emulazione
per gli intervistati, ma occorre anche che esso si muova all’interno di dinamiche
di condivisione con la comunità, sia essa quella nazionale, come nel caso di Muti,
gerarca scomodo dai modi spicci e fautore di un ritorno al fascismo delle origini,
o quella militare, come nel caso di Thaler, «eroe di guerra, superiore autorevole
e camerata impareggiabile579».
Eroe, agli occhi dei volontari, diviene colui che si connota come persona
capace di atti di generoso coraggio in nome di un ideale, ma che dimostra anche
di saper vivere in comunione con i suoi simili e non persegue un distacco dalla
comunità, agognando una solitudine e privilegi semidivini, ma al contrario agisce
in essa e con essa.
574
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, p. 9, Reg. 177.
575
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
576
Per quanto riguarda il processo di italianizzazione del Sudtirolo e le conseguenti tensioni
si faccia riferimento a Corsini e Lill 1988.
577
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
578
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
579
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
110
Un atteggiamento che si ritrova espresso nell’autobiografia romanzata del
Hauptsturmführer Lino Masserie, cittadino tedesco figlio di emigranti italiani,
pluridecorato noto per il suo coraggio in battaglia, che a proposito dei suoi soldati
afferma: «non temevo la morte fisica, ma quella dell’animo. Sono sempre stato
uno di loro. Il mio grado non è stato mai reso [non mi ha mai reso] qualcosa di
diverso, di separato580».
Se la figura di Thaler costituisce un esempio contemporaneo per i volontari
e l’ammirazione nutrita nei suoi confronti deriva certamente dalla condivisione
dell’esperienza bellica, non si può escludere che al rafforzamento del suo mito
abbia contribuito anche la sua fine, che lo ha reso noto anche ad altri volontari
che non combatterono al suo fianco. Il combattente sudtirolese, dopo aver
rifiutato di arrendersi, in data 28 aprile, seppur circondato assieme ad altri
camerati dai partigiani e dopo aver tentato invano di ricongiungersi ad una
colonna tedesca in ripiegamento, si consegnò di sua iniziativa, in data 30 aprile,
al Comitato di Liberazione Nazionale (CLN) di Adro. Processato sommariamente
venne fucilato il 2 maggio del 1945 e dopo la fucilazione, che lo vide gridare «Viva
la Germania! Viva Adolf Hitler!», il suo corpo venne appeso ad un traliccio ed
esposto al pubblico ludibrio, mentre l’arto artificiale della gamba sinistra venne
mostrato come trofeo nei paesi della zona581.
L’altra figura che ricorre con toni di ammirazione nel ricordo dei volontari
intervistati è quella di Carlo Federico degli Oddi. Anche in questo caso, come in
quello di Thaler, emerge, all’interno del narrato, il ricorso a meccanismi di
costruzione di modelli eroici concreti e prossimi. Relativamente a degli Oddi, il
volontario Pietro Ciabattini, che operò a stretto contatto con lui, afferma: «noi
non potevamo dimenticare l’esempio di persone come Ettore Muti o quello di
persone che conoscevo come degli Oddi, che dalla Croazia era rientrato in Italia
come SS582».
Il volontario Pio Filippani Ronconi ricorda in più interviste l’operato eroico
ed ardimentoso di quello che chiama «il battaglione degli Oddi» e descrive così
Carlo Federico degli Oddi: «un vecchio ufficiale della Milizia, che portava con sé
la bandiera della Repubblica di Siena che un suo antenato nel 1584-85 aveva
difeso contro gli Spagnoli e contro i Medici583». Il riferimento alla bandiera della
Repubblica di Siena trova conferma, pur trattandosi di un frammento, nelle
parole di Pietro Ciabattini che racconta: «nella bandiera del Reggimento SS era
stata inserita una striscia di stoffa della bandiera della Repubblica di Siena che
degli Oddi conservava perché i suoi antenati, senesi come me, avevano difeso la
repubblica584». L’antico lignaggio guerriero diviene qui un rafforzativo, quasi
580
Masserie 2005: 121.
Per le vicende della morte di Alois Thaler si veda in particolare Corbatti e Nava 2001: 324338. La ricostruzione molto dettagliata si giova anche di un reportage fotografico sull’eccidio.
Altre informazioni in proposito, meno dettagliate e con alcuni vuoti a livello di ricostruzione dei
fatti, sono rinvenibili in: Lazzero 1982: 254-260.
582
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini. Per quanto concerne la
figura di Carlo Federico degli Oddi si vedano: Lazzero 1982: 109, 117, 174, 191, 220; Corbatti e
Nava 2001: 28, 85.
583
Coli 2001.
584
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini. L’aneddoto del frammento
della bandiera della Repubblica di Siena è riportato anche in Corbatti e Nava 2001: 28.
581
111
mitico e leggendario, delle capacità combattentistiche e di guida di degli Oddi.
Il volontario Alessandro Scano, che fa presente come degli Oddi fosse un
amico di lunga data di suo padre, riferisce: «era una persona dalle grandi doti
morali, sapeva vivere assieme a noi ed era un capo giusto che si comportava in
modo uniforme con tutti i soldati; una volta non esitò a comminare una punizione
a mio padre, del quale era amico, per non aver eseguito un ordine585». Anche in
questo caso ricorre nel narrato come l’attribuzione di senso del cameratismo,
capacità di condivisione con la truppa e equanimità di giudizio divengano, con la
presenza di doti combattentistiche, fattori determinanti per i quali un graduato
sia preso ad esempio e riferimento dai volontari.
Alessandro Scano, inoltre, descrivendo Carlo Federico degli Oddi, riferisce un
aspetto riportato anche dal volontario Pietro Ciabattini: «degli Oddi sapeva
parlare tedesco e interagiva con i camerati tedeschi nel coordinamento delle
azioni, spesso dopo la guerra hanno parlato di una sudditanza di noi italiani verso
i tedeschi, ma bastava vedere come degli Oddi interagiva coi tedeschi, da pari a
pari, e certe cose non si sarebbero scritte, certo eravamo all’interno di una
disciplina tedesca, eravamo SS, ma ho sempre visto una forte collaborazione
reciproca586». Certamente questa autorevolezza del graduato senese nell’interazione con l’alleato tedesco contribuì ad accrescerne il mito negli intervistati, ma
la sua capacità di parlare tedesco va correlata anche al fatto che egli fosse
considerato dai volontari «allo stesso tempo un uomo di vasta cultura e un grande
combattente587».
È il volontario Pio Filippani Ronconi che, parlando di degli Oddi, lascia
intuire che egli fosse in possesso di una formazione antroposofica: «degli Oddi che,
fra l’altro era un vecchio amico – addirittura dall’infanzia – di Rudolf Hess ... era
proprio il suo caro cordiale amico (per inciso, io ho sempre avuto il sospetto che
Rudolf Hess fosse un antroposofo)588».
All’interno delle dinamiche di costruzione e adozione del modello eroico, oltre
a quelle esaminate che accomunano la figura di Thaler a quella di degli Oddi,
entra qui in gioco un fattore nuovo: il saldarsi di una riconosciuta formazione
culturale alle capacità militari dimostrate sul campo. Emerge il forte apprezzamento dei volontari per la figura del guerriero-letterato, che si evidenzia in tutta
la sua forza nel ritratto fornito da Pio Filippani Ronconi del capitano Barenzi,
nella cui compagnia egli militò in Africa prima di arruolarsi nelle Waffen-SS: «un
raro esemplare di guerriero-letterato come solo l’era dannunziana sapeva produrre589».
Non appare casuale che il volontario faccia riferimento proprio a D’Annunzio
e alla sua epoca, interpretata come momento storico in cui la figura dell’intellettuale seppe legarsi inscindibilmente alle responsabilità politiche e morali del
periodo, tra le quali figura la guerra. La cultura di queste figure di riferimento
585
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano. Anche il volontario Pietro
Ciabattini, nella sua intervista del 15 maggio 2006, riferisce di questa collaborazione coi tedeschi
e del fatto che degli Oddi si interfacciasse con essi in tedesco.
587
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
588
Capano 2001.
589
Pio Filippani Ronconi, Le confessioni di Pio detto “Maometto”.
586
112
non sottrae allo sguardo le passioni primordiali insite nell’uomo che si liberano
anche nella guerra.
Per i volontari l’amore per la patria o per l’ideale non è sufficiente nella sua
consapevolezza derivata dalla formazione culturale, ma occorre anche l’ardimento che trascini al combattimento in nome di esso. La cultura non deve fuggire dal
mondo e rinchiudersi nel regno della fantasia, perché il pensiero, da solo, edifica
soltanto costruzioni chimeriche che non resistono alla prova dei fatti, all’esperienza. La figura del guerriero-letterato diviene l’esempio di un tipo d’uomo che
fa sì che la cultura non resti un vagabondaggio intellettuale, ma si concentri sugli
sforzi oggettivi e sui fatti che sono di immediata attualità.
Il volontario Rutilio Sermonti, descrivendo il suo superiore tedesco Rotter,
afferma: «era un grande combattente e un amante della letteratura, nella vita
civile era un professore di lettere ed aveva studiato latino e ricordo bene che mi
chiese: latine loqueris? Abbiamo parlato in latino ed anche i rapporti li facevo in
latino e ricordo che mi segnava gli errori, era difficile esprimersi in latino perché
come puoi esprimere parole come aereo, bomba, mitragliatrice e così dopo un
mese me la cavavo col tedesco e casomai ricorrevo al latino. Era un letterato e un
combattente al tempo stesso, di quelli che sanno che la cultura non può diventare
un rifugio, non può diventare un pretesto per negare il presente, ma deve darti
una direzione590». Le figure di guerriero-letterato sono ammirate dai volontari
soprattutto perché in esse la cultura trova compimento in un realismo eroico.
Oltre ai già citati riferimenti culturali dannunziani, è possibile trovare
ragione dell’ammirazione dei volontari per queste figure di guerriero-letterato
nella stessa natura e organizzazione delle Waffen-SS. Come scrive il volontario
italiano Leale Martelli, all’origine delle Waffen-SS vi è la volontà di «creazione
di un ordine militare-politico i cui componenti sono i migliori rappresentanti della
razza591 e i più fervidi assertori dell’idea592».
Il soldato delle Waffen-SS, sin dalle origini di questa formazione, doveva
rappresentare, secondo i disegni di Himmler, un nuovo tipo umano: guerriero,
studioso e leader al tempo stesso593. Per questo motivo vennero disegnati dei corsi
di addestramento e formazione che miravano non solo alla formazione militare,
ma anche a quella politica e culturale594. Il volontario Francesco Scio, ad esempio,
ricorda i «corsi di formazione sulla comune cultura europea e sulla nuova
Europa595» ed Ireneo Orlando quelli sulla socializzazione, che descrive così: «a me
590
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
È utile far qui presente che il Martelli usa il termine razza al singolare, ma nel corso del
testo si riferisce, invece, alla sua accezione plurale. All’interno delle Waffen-SS riconosce, infatti,
la collaborazione di più etnie come elemento fondante della nuova Europa. Egli scrive: «Mentre
i croati musulmani, con la testa di morto sul fez, spalla a spalla con i volontari di razza germanica,
combatterono sui monti e nei boschi dei Balcani [...] Sotto la stessa disciplina, per la stessa fede
che non rinnega la Patria ma l’esalta, fedeli allo stesso giuramento combattono oggi nelle file delle
SS cittadini di ben 24 paesi d’Europa. E i patimenti della lunga lotta insieme combattuta e il
sangue insieme versato sono arra sicura della nuova Europa di domani, in cui tutti i popoli si
sentiranno fratelli » (Martelli 1945: 30).
592
Martelli 1945: 12.
593
Bishop 2005: 10.
594
Stein 1984: 9-19. I cadetti erano impegnati in attività non solo fisiche ma anche culturali,
come i corsi di musica, ai quali fa riferimento Landwehr (1981).
595
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
591
113
rimase impresso che il tenente Coggi ci faceva lezioni sulla socializzazione, la
partecipazione agli utili dei lavoratori e questo era molto sentito da noi volontari596».
Anche il volontario Luis Innenhofer descrive come l’addestramento nelle
Waffen-SS non fosse solo militare e ricorda «i corsi sulla storia e la cultura
europea» ed in particolare: «alcune lezioni sulla musica europea e sulle rune che
erano i simboli che portavamo sulla divisa597». È dunque possibile asserire che dal
narrato complessivo dei volontari emerga una figura presa a riferimento come
quella del guerriero-letterato e che questa fosse vissuta, da alcuni volontari,
anche come caratteristica interna delle Waffen-SS.
All’interno dei meccanismi di adozione dei modelli eroici propri dei volontari
intervistati, come dimostra ulteriormente il caso del guerriero-letterato, si
conferma come non sia sufficiente la sola presenza delle capacità combattentistiche affinché un soggetto divenga degno di stima e ammirazione. Quest’ultimo
aspetto diviene ancor più evidente quando il volontario Pietro Ciabattini cita,
come termine di paragone con la propria esperienza, la Legione straniera. Egli
racconta come sia lui sia il fratello, che nel 1942 tentò di arruolarsi per
combattere in Africa, fossero affascinati dal «mito della Legione straniera e del
legionario» in quanto incarnazione dell’«avventuriero che lascia casa per arruolarsi ed andare a combattere lontano598». Ma all’interno di questo paragone
avverte la necessità di introdurre un importante distinguo ed afferma: «della
Legione straniera e dei suoi membri ammiro lo spirito d’avventura, ma ancor di
più ammiro gli arditi che quello misero al servizio della propria patria e di un
ideale. È questo fatto che ci [i volontari nelle Waffen-SS] rende più vicini agli
arditi che alla Legione straniera599».
Sono proprio gli arditi ad essere presi a riferimento anche da altri volontari
come Pio Filippani Ronconi600 e Alessandro Scano. Quest’ultimo, in proposito,
cita l’esempio del padre Davide, ardito nel 1918 e volontario nelle Waffen-SS col
grado di Obersturmführer, «sempre pronto a rischiare la vita per la patria e
l’ideale601».
Se finora tra le figure di riferimento dei volontari sono emerse persone note,
come Ettore Muti, reparti d’assalto come gli arditi, o superiori gerarchici
all’interno delle Waffen-SS, è interessante, però, notare come le dinamiche di
costruzione dei modelli eroici, che portano gli intervistati ad ammirare e scegliere
come esempio camerati delle Waffen-SS, non si riferiscano ai soli superiori
gerarchici.
Il volontario Rutilio Sermonti descrive così un camerata: «uno degli svizzeri
che era nel mio battaglione, se non ricordo male si chiamava Gorino Tosana, era
un combattente eccezionale, dell’antica tradizione guerriera e mi ricordava
Cavallo Pazzo. Oltre ad essere un grande combattente, infatti, era anche molto
saggio, e i deboli, i vinti come gli indiani d’America sono la saggezza del mondo,
596
597
598
599
600
601
114
Intervista del
Intervista del
Intervista del
Intervista del
Capano 2001;
Intervista del
12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Corbatti e Nava 2001: 5.
2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
e lui per questo mi ricordava Cavallo Pazzo602». Descrivendo a quale tipo di
saggezze faccia riferimento, il volontario specifica: «ovviamente parlo di una
saggezza che ha a che fare col senso della vita, una saggezza che è lontana da
quella che troppo spesso attribuiamo ai nostri cattedratici, a quelli che per capire
l’uomo pretendono di smembrarne il nostro corpo per studiare ogni parte e non
si rendono conto che rimettendo insieme tutti i pezzi non formano un uomo ma
un cadavere, perché la differenza tra un uomo e un cadavere è la prima che
bisogna cercare di capire per comprendere chi siamo603».
Il mito di Cavallo Pazzo, al quale viene paragonato il volontario svizzero, si
inquadra nel narrato di Sermonti all’interno di un modello eroico in cui si
uniscono la conoscenza del senso della vita, il guerriero Sioux era figlio di uno
sciamano e considerato una specie di creatura ultraterrena, e l’eroismo civico.
Cavallo Pazzo fu un guerriero determinato, uno dei più accaniti nella volontà di
resistere all’uomo bianco e nel rifiuto di scendere a patti e piegarsi a trattative,
che non si preoccupò mai d’altro che della sua gente, tanto che ancora oggi il
ricordo della sua generosità è un balsamo per la sua gente, i Sioux oppressi nelle
riserve e ridotti per la maggior parte in povertà604. Gorino Tosana – Cavallo Pazzo
assume i tratti del mistico combattente, un uomo in cui il sapere sposa la
generosità, il coraggio e la determinazione nel combattimento. Il volontario
Rutilio Sermonti all’interno del flusso narrativo, indugiando nella descrizione
della figura del volontario svizzero, precisa: «quel combattente eccezionale non
si sacrificava per la vittoria, ma perché come uomo saggio aveva un ideale che era
divenuto una spinta intima alla quale obbedire605».
Legandosi a questo esempio eroico, le riflessioni dell’intervistato muovono
poi sui volontari nelle Waffen-SS ed egli afferma: «non ci sacrifichiamo perché
certi della vittoria, ma perché è nostro dovere farlo, questo è il significato delle
Termopili e di noi Waffen-SS italiane, tedesche, francesi, spagnole, russe,
svizzere, ucraine. Una vocazione di coloro che hanno sentito di appartenere a una
comune grande patria spirituale che doveva essere difesa606».
Queste parole tendono a collocare i volontari nelle Waffen-SS in una comune
patria spirituale, che attraversa le epoche, composta di combattenti che trovarono nell’adesione ad un ideale l’intima spinta alla quale obbedire. È l’unica volta
in cui un intervistato cita espressamente non un singolo volontario, ma l’organizzazione, come esempio di eroismo. Anche se ovviamente il ricordo delle sofferenze
impedisce di per sé ai combattenti di giudicare la guerra da un punto di vista
morale, le figure interne alle Waffen-SS prese a riferimento dagli intervistati
divengono eroiche anche in virtù del fatto che in loro non vi fosse un’indifferenza
al rischio ma, piuttosto, una condanna del rischio fine a se stesso.
Nella descrizione dei modelli eroici adottati, che si riferiscono a combattenti,
il narrato si caratterizza per l’assenza di ogni quadro adulatorio della guerra e
l’eroe non vive il combattimento come un lavoro a cottimo, ma come risultato del
sacrificio individuale in nome di ideali vissuti come superiori.
602
603
604
605
606
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
McMurtry 2003: 8, 18-19, 26.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
115
L’ammirazione non si colloca mai, ad esempio, su un esclusivo piano di stima
per chi maneggia le armi con capacità e sicurezza, ma per chi quelle caratteristiche ha messo, insieme alle altre virtù ricostruite, al servizio dell’ideale e della
comunità di riferimento. Il fatto che le figure di riferimento citate dai volontari
spontaneamente all’interno del narrato risultino spesso circoscritte all’esperienza nelle Waffen-SS è da ricondurre, come accennato in precedenza, principalmente alla consapevolezza degli intervistati che la ricerca in corso fosse interessata
a quel periodo della loro vita. Certo potrebbe aver influito anche il fatto che dopo
la guerra i successi militari delle Waffen-SS siano stati taciuti dagli storici607 o che
l’esercito abbia poi attribuito pressoché tutte le colpe di azioni cruente alle SS608,
ma appare più credibile, nel quadro complessivo del narrato dei volontari, che la
limitazione temporale nell’identificazione delle figure di riferimento sia prevalentemente correlata alla natura stessa della ricerca.
Del resto, pur facendo i volontari prevalentemente riferimento a modelli
eroici concreti e prossimi, è emerso un quadro nel quale tali figure sono state poi
correlate ad un concetto di eroismo che spazia dalle Termopili e dalle battaglie
dei Sioux all’era dannunziana e degli arditi, per arrivare poi all’eroe fascista
Ettore Muti e, in successione temporale, ad esempi mutuati dalla propria
esperienza nelle Waffen-SS. All’interno dei modelli eroici emersi, che si rifanno
come visto a figure come quella dell’eroe fascista fedele alle origini del movimento, del valoroso e fraterno camerata, del guerriero-letterato e del mistico combattente, è però possibile intravedere, oltre al già evidenziato comune sostrato di
eroismo civico, un ulteriore fattore unificante.
Emerge una concezione di eroismo attraversata da un senso del tragico.
L’eroe non è colui che vince su un piano esteriore, non è colui al quale arride la
fortuna, ma colui che mantiene salda la propria anima. Il cuore dei volontari
batte per eroi che cadono, ma che tuttavia rimangono fedeli al proprio animo e
al proprio ideale, e non è la vittoria esterna a fare di un uomo un eroe, bensì il suo
coraggio nel dolore e nella rovina, il suo spirito indomito. Sono figure che
ricordano più Sigfrido e Orlando che gli eroi trionfanti cari ai popoli greco e
romano. Non appare infatti casuale che i volontari intervistati, aldilà degli arditi
celebrati anche dal fascismo tra i miti delle trincee609, non citino mai nel loro
narrato gli eroi propagandati dal regime, né quelli risorgimentali celebrati come
padri della patria né quelli attinenti al mito di Roma610.
Il mito del soldato tedesco e delle SS
La descrizione del vissuto che precedette l’arruolamento nelle Waffen-SS si
anima di una tematica di importanza primaria nel quadro degli obiettivi di
questo studio. I volontari italiani citano, infatti, spontaneamente la loro ammirazione sia per il soldato tedesco in generale sia per le SS in particolare. Il mito
607
Stein 1984: 215-216.
Duprat 2009: 267-272.
609
Gentile 2008: 215.
610
Pollini 1932; Gentile 1990; Falasca Zamponi 1992; Visser 1992; Gentile 1994: 149-150;
Vauchez e Giardina 2000; Baioni 2006; Nelis 2007; Nelis 2007b.
608
116
del soldato tedesco e l’ammirazione per le SS emergono come tratto del vissuto
che anima i volontari prima della scelta di volontariato, come fanno essi stessi
presente descrivendo le ragioni per le quali preferirono le Waffen-SS all’esercito
della RSI. È pertanto importante prendere in esame la presenza e la nascita di
questi miti ed anche comprendere se essi trovarono conferma o meno nel corso
dell’esperienza di volontariato.
Il soldato tedesco e la tradizione militare germanica affascinano il volontario
Pietro Ciabattini, che afferma: «di militare vero nella storia ce n’è stato uno solo:
il tedesco. Il popolo soldato d’Europa è quello tedesco, come ci insegna la storia,
basti pensare a Carlo Magno. Il loro esercito ci appariva diverso, avevano molti
accorgimenti tecnici e sembravano molto più organizzati, poi come vidi di
persona, effettivamente nelle Waffen-SS tutto era diverso, compresa la mensa
che era uguale per tutti!611».
Anche nelle memorie di Pio Filippani Ronconi si delinea l’ammirazione per
l’esercito tedesco e la tradizione militare e combattentistica germanica e nordica
in generale. Egli annovera, infatti, tra i motivi che lo spinsero volontario nelle
Waffen-SS, «la possibilità di sperimentare in prima persona il livello addestrativo e combattivo delle forze armate germaniche612».
Anche i volontari Alessandro Scano e Ireneo Orlando dichiarano di aver
vissuto una giovanile ammirazione per il soldato tedesco e collocano le ragioni di
tale ammirazione sia in motivazioni storiche sia in valutazioni contingenti e
contemporanee. Il primo afferma: «i militari tedeschi li ho sempre considerati
ottimi soldati sotto ogni aspetto, erano i figli di una lunga tradizione militare613».
Il secondo: «avevo ammirazione per il militare tedesco, sia per il coraggio che per
il senso del dovere che vedevo in loro, li vidi che quando vennero in aiuto dell’Italia
dopo il caos del 25 luglio erano capaci di presidiare un quartiere o un paese in due
soli uomini, e questo secondo me derivava dalla loro tradizione militare614».
Prima dell’esperienza di volontariato, dunque, l’ammirazione di alcuni intervistati per il soldato tedesco spazia e si articola in due orizzonti temporali: il
passato, con riferimento alla tradizione militare germanica, e il presente, con
l’osservazione dell’operato dei soldati del Terzo Reich.
Per quanto concerne la diffusione del mito delle capacità combattentistiche
del soldato tedesco, oltre ai successi bellici iniziali che certamente contribuiscono
a rafforzarlo, si deve notare che, sebbene il fascismo fosse impegnato nella
costruzione della figura ideale del cittadino soldato e nella pianificazione di un
popolo organizzato in una società guerriera all’interno di una religione della
nazione615, facendo dunque ricorso a leve propagandistiche nazionali, il mito del
soldato tedesco riuscì comunque a ritagliarsi qualche spazio attraverso il periodico illustrato “Signal”616 o in riviste come La Svastica, concepita per rafforzare
611
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, p. 3, Reg. 171.
613
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
614
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
615
Gentile 2008: 225-228, 252-253.
616
Nella rivista appare un articolo, ad esempio, sui principi informatori dello spirito militare
tedesco e ancora una volta si avanza il parallelo storico tra le armate che difesero Stalingrado
dall’attacco sovietico e gli spartani alle Termopili (Ehmer 1943: 2-9).
612
117
il legame italo-tedesco.
Su quest’ultima, ad esempio, nel 1942 viene pubblicato un articolo sulla
fanteria tedesca che ne ripercorre la storia a partire dagli archibugieri della
Guerra dei Trent’anni sino ai soldati del Führer, creando un parallelo evocativo
con il coraggio degli opliti alle Termopili e con la potenza militare di Roma617.
Ma all’interno dell’ammirazione per la tradizione militare germanica, che
anima i volontari e che deriva principalmente da nozioni storiche e dall’osservazione dei soldati tedeschi sul territorio italiano, è utile valutare come gli
intervistati percepissero le SS e le Waffen-SS prima dell’esperienza di volontariato. Questa percezione potrebbe, infatti, rivestire un ruolo non secondario
all’interno del processo decisionale che li portò ad arruolarsi in quelle truppe
piuttosto che nell’esercito della RSI. Il volontario Francesco Scio afferma: «io non
volevo fare il gagà, con l’esercito italiano non si andava al fronte, io volevo
combattere e allora scelsi le SS che erano note per essere una truppa combattente, la migliore, con una mortalità elevata e con grande spirito di combattimento618». Il volontario Giorgio Bernagozzi racconta il suo passaggio da un corpo
paramilitare della RSI alle Waffen-SS: «io ero nelle Brigate Nere, ma volevo
combattere sul serio, non fare servizio pubblico e allora non c’era di meglio delle
SS che erano i migliori combattenti619».
Anche il volontario Ireneo Orlando, pur non negando il ruolo del caso nel suo
arruolamento, racconta: «combattere nelle SS significava essere un ottimo
soldato, che sapesse lottare, lo sapevamo e andare nelle SS era il massimo al
quale potevi aspirare, anche se nel mio caso poi fu il caso a portarmi lì, ma lo
sapevi che quello era il nostro esercito migliore620».
Nel narrato dei volontari si evidenzia, dunque, un’ammirazione per l’esercito
tedesco e le sue tradizioni militari all’interno della quale va collocata la loro
percezione che le Waffen-SS ne rappresentassero «la punta di diamante621», «il
fiore all’occhiello622», e quindi «il meglio in cui si potesse essere soldati623». È
dunque certo che questi due piani di stima e ammirazione, per l’esercito tedesco
e per le Waffen-SS in particolare, abbiano giocato un ruolo importante nella
determinazione dei volontari intervistati ad arruolarsi in quelle truppe.
Quale fu la reazione dei volontari dopo essere stati accettati nelle Waffen-SS?
Rispondere a questo interrogativo è utile per comprendere quanto fosse forte e
radicato il mito di quelle truppe in chi maturò la scelta di volontariato. Il
volontario Giuliano Bortolotti scrive: «l’entusiasmo col passaggio alle Waffen-SS
è stato immenso e motivo di cocente orgoglio624».
617
La fanteria tedesca 1942: 9-11. Nello stesso numero è riportato anche un discorso di Hitler,
9 novembre 1941, in cui viene lodato con toni enfatici il fante tedesco per la sua avanzata in
Russia.
618
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
619
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
620
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
621
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
622
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
623
Intervista del 5 giugno 2008 a Mauro Lottici, figlio del volontario Alamiro Lottici.
624
Corrispondenza del 23 giugno 2008 col volontario Giuliano Bortolotti. Il volontario scrive:
«In Germania, dopo aver aderito alla RSI, non siamo stati inquadrati nelle Waffen SS ma bensì
nel 1° Regg.to Milizia Armata Italiana. L’entusiasmo in seguito, col passaggio alle Waffen SS è
118
In cosa consista l’orgoglio di questa appartenenza lo spiega in dettaglio il
volontario stesso: «è un po’ come descrivere l’orgoglio di ogni militare, all’appartenenza del suo corpo, il Parà che si sente superiore all’alpino, o il bersagliere
superiore al fante e così via, mentre invece solo noi Waffen SS, ci sentiamo nel
modo più assoluto superiori di gran lunga a qualsiasi altro reparto combattente625». Il volontario Francesco Scio spiega: «ero orgoglioso, erano truppe speciali
d’assalto, sapevo che il rischio di morire era alto, ma ancora ricordo l’orgoglio
provato a far parte di quell’esercito626».
La ricostruzione e la descrizione del momento dell’arruolamento effettuate
dagli intervistati si caratterizzano per il comune denominatore dell’entusiasmo
narrativo. Il lemma più adoperato in questo contesto narrativo è rappresentato
dal sostantivo “orgoglio”, che estende la sua valenza anche al presente. Successivamente e in correlazione con la descrizione del momento dell’arruolamento, i
volontari affrontano spesso, in un quadro di sequenza narrativa, il tema
dell’addestramento all’interno delle Waffen-SS. Tale descrizione viene effettuata
sia da coloro che si trovavano alla loro prima esperienza militare sia dai volontari
che avevano già prestato servizio in altri corpi. Proprio questi ultimi fanno
presente come dalle pratiche addestrative si siano resi conto da subito di essere
«davvero entrati a far parte di un mondo in cui il soldato e la guerra erano
concepiti diversamente627». Sin dall’addestramento, anche per coloro che già
hanno combattuto al fronte, tutto appare «fatto in modo molto più organizzato,
studiato e sentito628» rispetto alle esperienze precedentemente maturate. Il
primo periodo trascorso dagli intervistati nelle Waffen-SS, che coincide con le
visite mediche e l’addestramento, viene ricostruito con uno stile descrittivo
dettagliato ed entusiasta. I volontari descrivono esercitazioni che li vedono
impegnati in rischiose simulazioni di guerra e nell’uso di nuovi strumenti bellici
«che fanno sentire il soldato pronto e ben equipaggiato per la battaglia629».
Interessante, tra le tante testimonianze, è quella di Cirillo Covallero,
volontario nella 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division, che descrivendo le
visite mediche che seguono il suo arruolamento dichiara: «le visite mediche le ho
fatte in degli ambulatori con delle macchine mai viste in Italia, mi hanno
controllato tutto, cuore, polmoni, malattie veneree e poi mi hanno fatto idoneo,
era tutto più avanti, più moderno e organizzato630».
La fase dell’addestramento contribuisce, dunque, in tutti i volontari, a
rafforzare l’orgoglio di far parte delle Waffen-SS e a dare certezza di essere
entrati a far parte di quella élite militare che agognavano. Le prove di addestramento vengono descritte dagli intervistati non tanto con l’intento di mostrarne
le difficoltà, quanto soprattutto di evidenziare come esse fossero realmente
preparatorie alla battaglia. La preparazione alle varie situazioni di guerra e la
dedizione che i graduati mettono nell’attività di addestramento divengono per i
stato immenso e motivo di cocente orgoglio».
625
Corrispondenza del 7 luglio 2008 col volontario Giuliano Bortolotti.
626
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
627
Intervista del 2 ottobre 2010 al volontario Adolfo Simonini.
628
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
629
Intervista del 18 ottobre 2008 al volontario Luis Innenhofer.
630
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
119
volontari testimonianza di quanto sia importante il singolo soldato all’interno
delle Waffen-SS.
Lo stile narrativo con il quale gli intervistati affrontano la descrizione
dell’addestramento diviene talvolta divertito e autoironico, evidenziando l’iniziale difficoltà nell’affrontare le prove previste, e le esercitazioni più frequentemente
citate sono quelle dello scoppio ravvicinato di una bomba, dell’assalto al carro
armato e dell’uso del panzerfaust. Il volontario Adolfo Simonini, ad esempio,
racconta: «nelle Waffen era un modo diverso di combattere, io l’avevo sentito
raccontare e poi ho avuto modo di viverlo in prima persona, Noweck era una
potenza nell’addestramento, ci addestrava in modo nuovo, e qualcuno in addestramento risultava anche un po’ impedito all’inizio, ma poi ci si rideva sopra e
ci si impegnava più di prima. Per esempio dovevamo passare sotto il carro
armato, saltarci sopra e bloccare la torretta, eravamo pronti a combattere in
modo diverso, come soldato eri più completo, era proprio un altro modo di
affrontare la battaglia631».
Nel narrato dei volontari trova, dunque, conferma quella particolare attenzione all’addestramento che caratterizzò le Waffen-SS, tanto che il loro addestramento è stato reputato il migliore e più completo tra gli eserciti della seconda
guerra mondiale632 e motivo di stupore anche per i graduati della Wehrmacht633.
Per quanto concerne l’esperienza di guerra, il narrato dei volontari si
caratterizza per un salto a livello di tono e stile narrativo col passaggio dalla
narrazione entusiasta, che descrive l’addestramento, ad una in cui il tono di voce
diviene più flebile, la struttura delle frasi più sofferta e complessa con una minor
fluidità espositiva, e il narrato accompagnato da un’espressività emozionale che
sostituisce l’autocontrollo e la concretezza al sorriso e all’entusiasmo. In questo
quadro narrativo, in cui la guerra è ricordata con sofferenza e senza alcun
entusiasmo, emerge comunque che anche quell’esperienza venne vissuta dai
volontari come confermatoria dell’iniziale mito delle Waffen-SS. È soprattutto il
cameratismo vissuto in battaglia a contribuire maggiormente alla conferma e al
rafforzamento del mito delle Waffen-SS vissuto prima dell’arruolamento. La
fratellanza d’armi vissuta in quelle truppe, alla quale si unisce, in alcuni
volontari, l’orgoglio per aver combattuto battaglie importanti sul fronte orientale, nelle Ardenne e in Italia634, divenne indubbiamente motivo per sentirsi parte
di una élite militare forte e coesa.
Un altro aspetto che diviene indicativo del mito delle Waffen-SS, e sul quale
giova soffermarsi, è quello della particolare attenzione dedicata dai volontari
631
Intervista del 2 ottobre 2010 al volontario Adolfo Simonini.
Stein 1984: 12.
633
Jesi 1993: 72.
634
Tra i volontari intervistati figurano combattenti che operarono, ad esempio, nella
battaglia di Kovel, in quella di Budapest, sul fronte di Anzio, nell’offensiva delle Ardenne. Il
volontario Giuliano Bortolotti asserisce, ad esempio, relativamente alla 29ª Waffen-GrenadierDivision der SS: «ci sentiamo nel modo più assoluto superiori di gran lunga a qualsiasi altro
reparto combattente, o meno, essendo stati i primi a prendere contatto con gli anglo Americani
al fronte, e con le brigate partigiane nella guerriglia» (Corrispondenza del 7 luglio 2008 col
volontario Giuliano Bortolotti). Per quanto riguarda le battaglie citate si faccia riferimento a:
Tidyman 1968; Ailsby 1998; Bishop e Williams 2003; Fey 2003; Lagomarsino e Lombardi 2004.
In particolare per la battaglia di Kovel e il ruolo di Karl Nicolussi-Leck si veda: Kurowski 2004:
273-420.
632
120
all’uniforme indossata e alle mostrine poste su essa. È indubbio che gli intervistati, come evidenziato precedentemente, provino un forte orgoglio di appartenenza alle Waffen-SS. Si tratta di un atteggiamento che viene attribuito ai
volontari di tutte le nazionalità che, in virtù del loro arruolamento, dei severi
criteri di ammissione e dell’addestramento intenso, si considerano parte di un
corpo di élite superiore a tutti gli altri. Un corpo fiero delle proprie uniformi
speciali, di canti particolari ed anche dell’abitudine di non salutare i superiori in
grado che non fossero membri delle Waffen-SS635.
Interessante, in proposito, è la testimonianza di Ugo Costa, volontario
italiano nella Wehrmacht, che scrive: «le SS si consideravano come un corpo di
élite che non riceveva ordini dai vertici della Wehrmacht e non mancava una
certa invidia per l’incredibile “strapotere” che consentiva talvolta ad un elemento
delle SS di scavalcare i superiori della Wehrmacht e di prendere ordini direttamente dai vertici delle SS636». Tra i segni distintivi dei membri delle Waffen-SS
vi era persino il particolare taglio di capelli adottato637, ma certamente l’uniforme
rappresentò l’incarnazione principale di questa volontà di distinzione.
Uniformi che, come scrive il belga Léon Degrelle, uno dei più noti e decorati
volontari delle Waffen-SS, «seppero catturare la pubblica immaginazione [...]
attraendo più e più giovani638». Anche i genitori di Heinrich Himmler scriveranno
al figlio del loro orgoglio per la sua opera di creazione delle «magnificenti colonne
nere» di SS schierate in parata639.
Ciò che contraddistingue l’esperienza dei volontari italiani intervistati è
l’aver militato in differenti divisioni delle Waffen-SS e di aver, quindi, vestito
uniformi e mostrine differenti a seconda della divisione di appartenenza.
Un caso particolare, relativo alla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, può
aiutare a comprendere meglio quanto fosse vissuto come importante dai volontari lo sfoggiare l’uniforme delle Waffen-SS. Alla divisione italiana non vennero
attribuite da subito le mostrine e i gradi chiodati di color nero tipici delle WaffenSS, ma vennero assegnati nel colore rosso640. Ciò perché agli occhi dei vertici delle
SS, dopo il tradimento italiano dell’8 settembre 1943, la divisione composta
pressoché interamente da italiani avrebbe dovuto dimostrare sul campo di
battaglia di meritare le mostrine ufficiali641. Tale dimostrazione non tardò ad
arrivare durante la battaglia di Anzio642 e Himmler conferì alla divisione italiana
il permesso di vestire le mostrine nere643. Questo evento è ancora oggi ricordato
635
Duprat 2009: 251-252.
Corrispondenza del 6 settembre 2009 con Ugo Costa, volontario italiano nella Wehrmacht.
637
Butler 1979: 168.
638
Degrelle 1982-83.
639
Himmler 2008: 163.
640
Per quanto concerne l’uso delle mostrine rosse della 29ª Waffen-Grenadier-Division der
SS si veda: Littlejohn 1987: 240; Corbatti e Nava 2001: 133-135; Jowett e Andrew 2001: 22. I
volontari italiani che militarono in altre divisioni ottennero, invece, subito le mostrine caratteristiche della divisione. All’interno della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, lo SS-Bataillon
Debica, addestrato nell’omonima città polacca e composto da italiani, vestì, invece, da subito
l’uniforme tedesca e le mostrine con la doppia runa Sieg in campo nero in quanto considerato il
reparto d’élite della divisione (Corbatti e Nava 2001: 35; Bishop 2005: 177; Caniatti 2010: 61).
641
Corbatti e Nava 2001: 133-135.
642
Corbatti e Nava 2001: 79-129.
643
Corbatti e Nava 2001: 133-135.
636
121
spontaneamente all’interno del narrato di quei volontari che inizialmente
indossarono le mostrine rosse.
Emerge come il passaggio alle mostrine nere sia stato vissuto da questi come
un momento liberatorio, come l’esatto istante in cui veniva loro riconosciuta
l’effettiva possibilità di far parte delle Waffen-SS. Il volontario Pasquale Scarpellino
afferma: «a Nettuno avevamo le mostrine rosse e dopo aver combattuto con
valore e aver dimostrato tutto il nostro valore di italiani nelle SS, ci dettero le
mostrine nere come le SS tedesche, questo ci rese felici, eravamo come loro,
eravamo un passo avanti rispetto a quando portavamo le mostrine rosse. Lo
ricordo come una cosa positiva, anche se devo dire che le SS rosse sulla divisa
estiva spiccavano di più, poter indossare le mostrine nere fu motivo di gioia come
lo fu a livello personale quando a Mariano Comense, poi, per merito di guerra mi
promossero sergente, anzi, Unterscharführer che suona anche meglio, e poi
Scharführer, con i gradi neri, ero molto felice644».
La soddisfazione del passaggio alle mostrine nere provata dagli intervistati
è, dunque, paragonabile a quella avvertita al momento dell’arruolamento nelle
Waffen-SS, ma si tinge anche di motivazioni più profonde, storiche e militari.
Il volontario Pietro Ciabattini riferisce, infatti, che molti camerati, che
avevano iniziato il proprio percorso di volontari vestendo le mostrine rosse,
«dicevano che erano orgogliosi perché in quel momento avevano lavato la
vergogna del tradimento dell’alleato tedesco facendogli capire che anche gli
italiani erano capaci di coraggio e spirito di sacrificio645». Se, dunque, il passaggio
alle mostrine nere coincide per i volontari con l’esatto momento in cui viene
riscattato il tradimento militare, è certo che «indossare le vere rune delle WaffenSS646» diviene motivo di orgoglio e vanto per la certa appartenenza a quella élite
militare.
Del resto gli intervistati che da subito portarono le mostrine classiche delle
Waffen-SS e vestirono anche l’uniforme tedesca647 non nascondono ancora oggi
l’orgoglio provato. Tra questi Adolfo Simonini, del SS-Bataillon Debica, afferma:
«io vestii l’uniforme tedesca, mostrine e tutto, sul braccio avevamo l’aquila
tedesca, avevo i gradi veri, quelli tedeschi delle SS, quando siamo arrivati a
Nettuno ho visto che c’erano degli italiani con le mostrine rosse e un’aquila
diversa e quando ci trasferimmo nel Piacentino per fronteggiare gli americani ci
venne anche chiesto di mettere le mostrine italiane che erano diventate nere ma
erano diverse, noi avevamo quelle tedesche, ci eravamo addestrati con loro,
combattuto con loro e allora ci siamo tenuti l’uniforme tedesca648».
I volontari italiani del SS-Bataillon Debica chiamavano “pomodori” i loro
644
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
646
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
647
Per quanto riguarda le uniformi, le insegne e gli elmetti della divisione italiana, la 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS, prevalse l’uso di materiali italiani. Solo lo SS-Bataillon
Debica vestì materiale tedesco sin dalla sua formazione (Littlejohn 1987: 237-249; Corbatti e
Nava 2001: 345-358).
648
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini. Il volontario fa qui
riferimento al fatto che nel SS-Bataillon Debica, in cui militò, lo stemma portato sul braccio non
era quello adottato dalla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS che riproduceva l’aquila fascista
con fascio littorio (Littlejohn 1987: 239-240), ma quello classico con aquila tedesca e svastica.
645
122
connazionali della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, proprio perché questi
avevano indossato le mostrine rosse mai portate dal Debica649. Tutti gli intervistati che indossarono da subito l’uniforme tedesca descrivono con franchezza
l’orgoglio provato allora, ed ancora oggi non nascondono una certa fierezza per
essere stati all’altezza di vestire «la vera uniforme delle Waffen650». Il volontario
Cirillo Covallero, che militò nella 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division, durante l’intervista mostra alcune sue foto in uniforme e racconta: «quando mi sono
arruolato mi hanno assegnato l’uniforme tedesca, quella bellissima delle SS, poi
più avanti mi hanno trasferito nelle SS italiane perché c’era bisogno di forze lì,
ma io ho sempre portato la mia divisa e questo effettivamente colpiva gli italiani
che vestivano uniformi italiane e avevano anche l’aquila fascista e non quella
tedesca sul braccio 651».
In proposito il volontario Pietro Ciabattini afferma: «nelle SS italiane
avevamo un materiale misto italiano e tedesco, ma giacca e pantaloni erano
quelli dell’esercito italiano e noi ci impegnavamo a rendere l’uniforme il più
possibile simile a quella tedesca che vestivano anche alcuni nostri connazionali
volontari in altre divisioni652».
Il mito delle Waffen-SS nel narrato degli intervistati assume, dunque, non
solo connotati combattentistici, che si traducono nell’orgoglio di militare nelle
truppe di élite del Terzo Reich, ma anche estetici. Non c’è dubbio che la
particolarità e l’esclusività653 delle uniformi adottate dalle Waffen-SS esercitarono una forte attrazione sui volontari. Il nipote del volontario Benito Scarazzini,
che militò nella 1ª SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler, racconta:
«era filotedesco e diceva di essere rimasto affascinato dalle SS, tanto che per
arruolarsi dette l’anno di nascita falso, quando veniva in licenza aveva le rune
delle SS che raccontava incutevano ammirazione, rispetto e timore654».
Sovrapponibili alle precedenti sono le parole della sorella del volontario
Vittorio Tosi che descrive così le reazioni della popolazione davanti all’uniforme
delle Waffen-SS: «ricordo una volta in licenza che venne al bar ed entrammo
insieme, lui era in divisa e tutti si girarono a guardarlo, ci fu silenzio e lo
guardarono tutti, era alto e vestito con quell’uniforme attirava gli sguardi di
tutti655». È però la testimonianza del volontario Ireneo Orlando ad assumere un
particolare rilievo in quanto egli ricostruisce il fascino da lui stesso provato
davanti a quell’uniforme prima dell’arruolamento.
Egli racconta: «quella divisa, quelle rune incutevano ammirazione e rispetto,
tutti sapevano che per vestire quell’uniforme dovevi essere un soldato vero, io
649
Corbatti e Nava 2001: 349.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
651
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
652
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
653
Ancora oggi, del resto, il fascino di quelle uniformi è al centro dell’attenzione dei media
e dei ricercatori che hanno ricostruito la collaborazione del noto stilista Hugo Boss alla loro
realizzazione (Köster 2011; Tarquini 2011). I manifesti di arruolamento affissi in Italia furono
disegnati dal più noto e capace disegnatore pubblicitario dell’epoca, Gino Bocassile, che collaborò
anche con Avanguardia, il periodico della Legione SS italiana (Biribanti 2009: 191-244).
654
Intervista del 4 giugno 2009 a Stefano Monti, nipote del volontario Benito Scarazzini.
655
Intervista del 16 giugno 2008 ad Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio
Tosi.
650
123
ricordo quando ero a Barlassina che vidi uno di questi soldati solo che faceva la
guardia con la mitragliatrice, talvolta li vedevo che agivano anche solo in due, se
ne parlava prima di arruolarmi e poi l’ho sperimentato, quell’uniforme che era
bellissima rappresentava veramente il valore delle SS e di un esercito che poi ha
tenuto testa a tutto il mondo656». È ancora oggi forte, nella maggior parte dei
volontari, l’orgoglio per aver militato nelle Waffen-SS e molti degli intervistati si
rammaricano di aver dovuto distruggere le proprie fotografie in uniforme
nell’immediato dopoguerra, «quando venirne trovati in possesso poteva significare essere condannati a morte657».
Anche per quanto concerne il tatuaggio del gruppo sanguigno che veniva
effettuato ai soldati delle Waffen-SS nella parte interna del braccio sinistro a
livello dell’ascella, al fine di agevolare e velocizzare le procedure in caso di
trasfusione sanguigna, assistenza medica o di riconoscimento per decesso, nelle
memoria di alcuni volontari italiani esso diviene motivo di rammarico, quando
non fu possibile realizzarlo, o di orgoglio, quando presente. Esso è vissuto oggi con
la stessa valenza attribuita al momento del volontariato all’uniforme, ossia come
una rappresentazione del fatto che le Waffen-SS fossero truppe speciali, una élite
militare superiore sia ad ogni specialità delle truppe nemiche sia ad ognuna di
quelle che combattevano al suo stesso fianco. Interessanti, in proposito, sono il
rammarico del volontario Luis Innenhofer e l’orgoglio di Cirillo Covallero.
Afferma il primo: «A me, ostia, non me lo hanno fatto il tatuaggio, non c’era
tempo, col tatuaggio si donava il sangue per i camerati feriti ed avevi diritto a vino
e frutta e ovviamente era buono anche per quello averlo, ne toglievano anche
mezzo litro, ma eravamo giovani, e io volevo che me lo facessero il tatuaggio, ma
non ci sono riuscito, anche se a fine guerra è stato meglio così, avrei rischiato la
vita, ci andò bene mentre eravamo prigionieri che non ci avevano fatto il
tatuaggio altrimenti avremmo rischiato molto, ma oggi avrei piacere a averlo658».
Il volontario Cirillo Covallero dichiara, invece, come oggi si senta orgoglioso
di avere quel tatuaggio, come simbolo di appartenenza, mentre allora esso era
una cosa normale alla quale neppure fece caso: «ancora oggi tutti parlano del
tatuaggio che come SS abbiamo sotto il braccio, ma non dicono cosa sia questo
tatuaggio, così le persone pensano che abbiamo tatuato la testa di morto, ed
invece è il gruppo sanguigno. A me hanno tatuato una A, come il mio gruppo
sanguigno, perché se c’era bisogno di una trasfusione lo sapevano, l’esercito
tedesco è stato il primo a tatuare i suoi soldati e quando mi fecero il tatuaggio non
provai niente, ma oggi ne sono fiero659».
È possibile dunque concludere che il mito della tradizione militare tedesca e
soprattutto del soldato delle Waffen-SS, le cui capacità combattentistiche erano
rappresentate anche dal fascino della sua uniforme, giocò per i volontari
intervistati un ruolo certo nella scelta di volontariato intrapresa a vantaggio di
quelle formazioni piuttosto che di quelle della RSI.
656
657
658
659
124
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Spiritualità, religiosità e culto della natura
Molto intenso, negli ultimi anni, è stato il confronto tra storici, giornalisti e
persino politici circa il rapporto tra nazionalsocialismo e chiesa cattolica660.
L’occasione nella quale il dibattito si è intensificato, coinvolgendo anche l’opinione pubblica661, è stata la causa di beatificazione di Papa Pio XII, sulla cui azione
nel rapportarsi al nazionalsocialismo la ricerca storica non evidenzia una
posizione univoca662.
Una crescente attenzione si è registrata, inoltre, verso i rapporti tra il
nazionalsocialismo e le religioni663 e verso la religiosità, intesa come sentimento
del sacro, e la spiritualità, che non implica necessariamente l’adesione ad una
specifica religione, interne al nazionalsocialismo stesso sin dalle origini664. Se il
rapporto tra fascismo e chiesa cattolica costituisce da tempo una tematica
centrale della ricerca storica italiana, che si è arricchita anche di recente di
interessanti interpretazioni storiografiche665, l’interrogativo sull’eventuale presenza di una spiritualità e di un esoterismo interni non solo al nazionalsocialismo, ma anche al fascismo, è rimasto inaffrontato.
Recentemente un primo approccio a tale tematica è stato affrontato con una
raccolta di contributi che ha il pregio di aver aperto sì delle prospettive, ma che,
rimanendo su un piano di disarticolazione dei singoli contributi stessi, non ha
consentito di offrire una risposta definitiva sulla presenza o meno di un esoterismo fascista che vada oltre le singole esperienze personali dei casi trattati666.
Queste prospettive di ricerca, sia quelle più avanzate inerenti il nazionalsocialismo sia quelle recenti sul fascismo, hanno l’indubbio pregio di prendere in
esame una tematica importante, ma il loro piano di indagine si sofferma sempre
in modo esclusivo sui vertici dei movimenti nazionalsocialista e fascista o su
personalità di spicco ad essi vicine. Essendo stati sia il nazionalsocialismo sia il
fascismo movimenti caratterizzati da una forte adesione popolare, il pregio di
investigare la religiosità e la spiritualità interne ad essi, nei rimandi ad una
cultura che ad oggi è per il primo spesso classificata come di matrice esoterica o
pagana, può vedersi se non compromesso sicuramente limitato dal circoscrivere
l’analisi ai vertici dei due movimenti.
Proiettare le religiosità e le spiritualità attribuibili alle gerarchie nazionalsocialiste e fasciste, che indubbiamente ebbero riflessi sui rapporti diplomatici,
culturali e sociali tra i due movimenti e le religioni, sugli interi movimenti
nazionalsocialista e fascista, trascurando le dinamiche complesse che compongo-
660
Rhodes 1973; Lewy 2000; Krieg 2004; Sale 2004; Spicer 2004; Pollard 2005; Spicer 2008;
Hastings 2010.
661
Augias 2009; La Rocca e Tarquini 2009; Vecchi 2009; Ansaldo 2010.
662
Marchione 2000; McInerny 2001; Sánchez 2002; Sale 2004; Dalin 2005; Cornwell 2008;
Noel 2008.
663
Schechtman 1965; Goodrick-Clarke 2000; Fabei 2002; Hale 2003; Kuhlmann 2003;
Mallmann e Cüppers 2006; Engelhardt 2007.
664
Pauwels e Bergier 1960; Goodrick-Clarke 1985; Alleau 1996; Goodrick-Clarke 2003; Zagni
2004; Tombetti 2005; Galli 2007; Neugebauer-Wölk 2006.
665
Interessanti sono, ad esempio, le considerazioni storiografiche di De Giorgi sul cattolicesimo italiano come concorrente totalitario del fascismo (De Giorgi 2003; 2005; 2009; 2009b, 2010).
666
de Turris 2006.
125
no l’adesione popolare ad un partito, potrebbe inoltre condurre a conclusioni
approssimative o distorte.
Le interviste condotte all’interno di questo studio rappresentano, nel quadro
della sopracitata prospettiva di ricerca, un’importante opportunità per comprendere quale spiritualità e religiosità animò un sottogruppo di aderenti al fascismo
che militarono nelle truppe di élite del nazionalsocialismo. Quella della spiritualità e della religiosità che animò i volontari italiani nelle Waffen-SS è una
tematica mai affrontata sinora all’interno delle pubblicazioni inerenti questo
fenomeno.
Tra gli intervistati vi è un solo volontario, Alessandro Scano, ad asserire che
tra i camerati italiani delle Waffen-SS fosse presente un sentimento religioso
qualificabile come cristiano667. Gli altri volontari, invece, in relazione al proprio
rapporto col cristianesimo e/o col cattolicesimo dichiarano posizioni che si
articolano in tre modalità: un distacco che si correla alla presenza di una
comunione intima tra i soggetti e la natura vissuta come divinità immanente;
una forte avversione imputabile anche al ruolo attribuito ai sacerdoti e alla
chiesa all’interno del conflitto; e una vera e propria ostilità che fonda le sue radici
in una «critica al senso stesso del cristianesimo668» che si accompagna ad una
adesione ad altre forme di spiritualità.
Nel narrato dei volontari emerge un continuo rapportarsi e riferirsi alla
natura come portatrice di sacro e all’uomo come parte di essa. Anche all’interno
di narrazioni che riguardano azioni di guerra, gli intervistati si soffermano su
dettagli inerenti il quadro ambientale e la natura diviene spesso il quadro
narrativo all’interno del quale si muovono gli uomini e le truppe. Le descrizioni
della natura divengono, inoltre, occasione frequente di riflessioni spontanee sui
temi del sacro e della religione, sebbene il rapporto dei volontari con queste
tematiche non avvenga esclusivamente in tali occasioni e ricorra più volte
all’interno del narrato collegato ad una complessità di argomenti. Proprio per
questo è utile iniziare l’analisi sulla religiosità degli intervistati prendendo a
riferimento una serie di affermazioni che il volontario Cirillo Covallero formula
in differenti momenti all’interno della sua esposizione. Egli racconta che, mentre
lui e i suoi fratelli si trovavano in guerra, la sorella pregava a lungo affinché
tornassero a casa sani e salvi, cosa che poi effettivamente accadde. Ma descrivendo queste preghiere, afferma con un sorriso: «io proprio non ci credo a queste
cose669».
Il volontario si sofferma poi nella ricostruzione delle ragioni che salvarono la
vita al fratello e le ricostruisce così: «lo avevano fatto prigioniero durante un
rastrellamento tedesco, lui era invalido dalla guerra di Grecia, ma non lo hanno
davvero salvato le preghiere di mia sorella, ma il cameratismo dei tedeschi,
perché i tedeschi avevano un forte senso di cameratismo, che lo lasciarono libero
quando gli ha fatto vedere la mia foto di volontario nelle Waffen670».
667
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano: «per quanto concerne
l’impostazione religiosa dei miei camerati e dei miei ufficiali posso dire che il sentimento religioso
era quello cristiano, per quanto riguarda i camerati tedeschi non saprei dire perché non ho mai
affrontato simile argomento».
668
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
669
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
670
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
126
Il volontario Covallero descrivendo il suo rapporto col cattolicesimo fa
presente come «non sia mai stato forte» e nell’affrontare la tematica afferma: «sin
da piccolo, spesso, invece che andare a sentire la dottrina cristiana me ne andavo
a nuotare al torrente Leogra671». Mentre ricostruisce le sue operazioni in Grecia
con la 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division il volontario si sofferma a descrivere il profumo, il sapore e la consistenza delle mele greche ed afferma: «anche
se intorno c’era la guerra, la natura e il sole della Grecia ci donavano il
necessario672».
Ma ancor più indicative, per quanto concerne la continua presenza della
natura nel narrato di eventi bellici e il legame intimo del volontario con essa, sono
le parole che Cirillo Covallero condivide mentre ricostruisce lo stazionamento
delle truppe in una caserma di Volos: «qualche volta riuscivamo ad andare al
mare, un mare bellissimo il mare Egeo, e lì nelle finestre della caserma abbiamo
messo delle retine, c’erano le zanzare e quello era l’unico modo per proteggerci,
ma alla porta principale venne un grande problema. Una rondine aveva fatto il
nido all’interno e non potevamo chiudere il passaggio e allora abbiamo fatto un
buco nella rete perché potesse passare673».
Anche nelle difficoltà della guerra, dunque, non viene mai a mancare l’amore
e l’attenzione per la natura e la mancata possibilità di accesso di una rondine al
suo nido diviene, nel narrato del volontario, «un grande problema» che è giusto
e necessario risolvere. Lasciando brevemente in secondo piano il giudizio esplicito degli intervistati sul cattolicesimo, è utile analizzare in maggior dettaglio il
rapporto tra i volontari e la natura, facendo riferimento non soltanto a quanto
esposto dal Covallero.
Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo Gionzer, descrive il grande amore
del padre per gli animali, che lo portò a ricoprire nelle Waffen-SS l’incarico di
addetto all’infermeria quadrupedi, e afferma: «mio padre amava molto gli
animali, aveva un animo sensibile alla natura e agli animali, non era un violento,
amava così tanto gli animali che faceva di tutto per non sopprimerli anche
quando stavano molto male, ha dedicato tutta la sua vita a curare gli animali674».
671
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero. Partendo dalle preghiere della
sorella il volontario si sofferma a descrivere le sue fughe al torrente Leogra con un narrato che
diviene divertito e dettagliato: «Al torrente Leogra c’è un punto che si chiama Baioletto dove
l’acqua era alta più di due metri, era un’acqua fresca e trasparente dove era bellissimo fare il
bagno. Ma ricordo una volta che era inverno, l’acqua era tutta ghiacciata e per primo, con gli amici,
sono scivolato nel ghiaccio che però si è rotto e così sono sprofondato nell’acqua ghiacciata e i miei
amici se la sono data a gambe, dicono per chiedere aiuto. Io provavo a uscire, mi aggrappavo al
ghiaccio che si rompeva e cadevo nuovamente nell’acqua gelata, così per tante volte finché il
ghiaccio ha resistito e sono riuscito ad aggrapparmi e a venire fuori. Poi ho attraversato la valle
e mi sono messo al sole che c’era ancora per riscaldarmi, ma è arrivato il tramonto e dopo i
soccorritori». L’evento della caduta nel torrente ghiacciato è inserito dal volontario anche
nell’autobiografia (Covallero 2007: 5-6).
672
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero. Anche il volontario Rutilio
Sermonti che operò in Grecia e nei Balcani descrivendo le sue operazioni ricorda le mele dolci della
Grecia e come «la natura se ne infischiava delle bombe e ci regalava i suoi dolci frutti maturati
ai raggi di quel sole che animava tanti miti dell’antica Grecia» (Intervista del 8 giugno 2008 al
volontario Rutilio Sermonti).
673
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero. Questo evento viene riportato
anche all’interno dell’autobiografia del volontario (Covallero 2007: 45).
674
Intervista telefonica del 1° settembre 2009 a Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo
Gionzer.
127
Anche il figlio del volontario Walter Morini racconta della passione del padre
per la natura in generale ed in particolare per la montagna come luogo della
«serenità dello spirito». Descrivendo il padre afferma: «aveva tre passioni innate,
che erano la montagna, leggere e la politica. Mio padre era un grande amante
della montagna, un amore immenso per la natura e per quelle sensazioni che la
montagna regala, una cosa che mi ha trasmesso, anch’io con mio figlio faccio
alpinismo, roccia, ghiaccio e penso, come diceva mio padre, che la montagna
insegna la vita675». Ma è proprio a questo punto, parlando della montagna che la
descrizione del padre si allarga in modo esplicito al rapporto con la religiosità in
generale e col cattolicesimo: «mio padre diceva spesso che per lui il sacro era nella
montagna, nella natura, nella quale si immergeva con le sue lunghe passeggiate
anche in compagnia di mia mamma, con la quale dopo le nozze sono saliti in
montagna. Col cattolicesimo raccontava di non aver mai avuto un buon rapporto
e descriveva le sue risse di giovane fascista con i giovani cattolici676».
Anche in questo caso la natura si ammanta di sacro e di trascendenza,
mentre il rapporto col cattolicesimo è descritto come difficile e si arricchisce di
risvolti di carattere politico con la contrapposizione, vissuta anche nello scontro
fisico, tra fascisti e cattolici. La montagna con la sua dimensione sacra e
spirituale, inoltre, attraversa in modo caratterizzante il narrato dei volontari
sudtirolesi.
Il volontario Josef Tappeiner e il figlio Hans descrivono il rapporto dei
sudtirolesi con le vette come qualcosa che assume una sua specificità locale e
diviene «un modo di sentirsi l’anima677». Alla montagna, ponendola in correlazione alla divisione in cui militò, la 24ª Waffen-Gebirgs-Division der SS, fa riferimento anche il volontario Luis Innenhofer: «la stella alpina era il simbolo della
divisione, la portavamo sul braccio e sul cappello678, la stessa stella che si
raccoglie quando si va sulle montagne del Sudtirolo, si sa dove sono, si raccolgono
e si intrecciano secondo la tradizione679». L’intervistato, mentre racconta questo
aspetto, apre il suo album fotografico e condivide una fotografia dell’epoca che lo
ritrae mentre tiene tra le mani una corona intrecciata di stelle alpine delle sue
montagne.
Il volontario sudtirolese Karl Nicolussi-Leck nel dopoguerra traduce la sua
passione per la natura in un lavoro. Si reca inizialmente in Sudamerica, dove
lavora nel campo agroalimentare, e successivamente in Africa dove svolge
l’attività di consulente di diversi Stati africani per lo studio e la realizzazione di
uno sviluppo agricolo sostenibile. Il nipote Heiner descrive così il volontario: «era
uomo della natura, proveniva dall’agricoltura e è rimasto legato all’agricoltura,
diceva sempre che per avere il progresso si stava distruggendo il mondo, era verde
prima ancora che i verdi nascessero 680».
675
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
677
Intervista del 17 ottobre 2009 al volontario Josef Tappeiner e al figlio Hans Tappeiner.
678
Interessante dal punto di vista iconografico è notare come tra gli stemmi delle varie
divisioni delle Waffen-SS sia presente una vasta gamma di simboli derivati dalla natura, sia dal
mondo animale sia da quello vegetale.
679
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
680
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
676
128
Molto interessante è, inoltre, un documento che Albarosa Tosi Malossi,
sorella del volontario Vittorio Tosi, condivide durante la nostra intervista. Si
tratta di un tema scritto dal fratello in età giovanile precedente il volontariato
che, nella descrizione di un temporale, evidenzia non solo un grande amore per
la natura, anche nelle sue manifestazioni furiose, ma soprattutto una concezione
di essa come presenza viva, animata e come manifestazione e tramite del sacro,
del «Re dell’Universo681».
Il volontario Adolfo Simonini racconta come sia per lui importante vivere
tutt’oggi in stretta relazione con la natura, ama lavorare la terra e raccoglierne
i frutti nonostante l’età avanzata, e ritiene che il suo sia un vero e proprio «stile
di vita». Nel tentativo di descriverlo, affronta spontaneamente l’argomento della
religione e afferma: «io la domenica me ne vado nella natura, a lavorare la terra,
a raccogliere le pesche, non vado alla messa, io per la religione non sono niente,
io sono onesto, che devo andare a raccontare al prete? Non rubi, non ammazzi,
se non in guerra, non dici bugie, che ci vai a fare in chiesa? 682».
Ma tornando alla descrizione del mare, dopo l’ammirazione citata del
volontario Cirillo Covallero per quello dell’Egeo ammirato durante la guerra,
emerge la forte passione per esso nel volontario Rutilio Sermonti, che sin da
ragazzo amava passeggiare lungo le coste toscane per ammirare la burrasca
invernale. Egli fa presente, poi, anche la sua passione per le profondità marine,
dove sin da ragazzo amava immergersi «in cerca di solitudine e di creature del
mare», e condivide il suo ricordo di «un polipo dai grandi occhi languidi» che non
osò colpire e sul quale scrisse una novella683.
Rutilio Sermonti ha «la natura nel sangue», è uno zoologo contrario alla
teoria evoluzionistica684, che ama dipingere quadri con prevalenza di soggetti
naturali e animali e scrivere novelle sugli animali e sulla relazione tra uomo e
animale685. All’interno del narrato nel quale l’intervistato descrive in dettaglio la
sua passione per la natura, egli pronuncia un’affermazione dalle forti implicazioni politiche ergendo la natura a modello organizzativo dello Stato: «lo Stato non
deve essere contro natura, deve essere organico, nel senso che sono tutte le sue
parti a collaborare per il bene comune, come l’uomo deve imparare dalla natura,
così lo Stato deve guardare ad essa come modello, non può l’uomo porsi contro la
natura686».
Emerge, dunque, dal narrato dei volontari una comunione intima con la
natura vissuta come divinità immanente, la montagna o il mare divengono
luoghi dell’anima, del sacro. Si tratta di un amore che non è meramente
contemplativo, all’interno del quale la natura si erge a compagna e maestra di
vita ed anche a modello per l’organizzazione dello Stato. L’uomo è nella natura
e la natura si compone anche dell’uomo, pertanto l’individuo non può violare le
681
“Tema, Dopo la tempesta il sereno. 15 dicembre - ore 21-15. 1939 - XVII E. F.”. Svolgimento
di Vittorio Tosi all’età di 12 anni. Documento presente in Archivio Famigliare Albarosa Tosi
Malossi – Volontario Vittorio Tosi: Scritti Giovanili e corrispondenza.
682
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
683
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
684
Sermonti 2009.
685
Per quanto riguarda i quadri con soggetti naturali dipinti da Rutilio Sermonti si veda
l’appendice fotografica.
686
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
129
sue regole, ma vivere all’interno e in comunione con esse. Per questo motivo la
natura è sempre presente nella vita dell’uomo, anche in guerra, perché egli è
natura e parte dei suoi ingranaggi sacri687. Dunque la natura, vissuta individualmente come luogo dell’anima e percorso verso il sacro, si arricchisce anche di una
dinamica collettiva, si potrebbe dire politica. Essa dovrebbe cioè essere presa a
modello dalla collettività per l’organizzazione dello Stato e per offrire una
risposta al progresso giudicato come incontrollato e distruttore del mondo.
I volontari, pur evidenziando una profondità filosofica e un piano narrativo
differente da quello presente ne Il Cuore avventuroso di Jünger, rimandano nel
loro narrato all’impostazione del filosofo e scrittore tedesco, che, per fuggire alle
sollecitazioni della città e alle tentazioni dei piaceri artificiali, concentra lo
sguardo sulle fonti e sui simboli della vita scoprendoli nella natura688. Gli
intervistati, nel loro rifiuto di un progresso incontrollato e di «una società sempre
più egoistica689», pongono il loro sguardo sulla natura identificandovi il senso
stesso della vita e scoprendo nell’ordine cosmico, come fa lo stesso Jünger, la
prefigurazione dell’ordine sociale690.
È indubbio che tali concezioni della natura e della vita, che animano i
volontari intervistati, riflettano e rispecchino concezioni di matrice jüngeriana e
si inquadrino anche nel più vasto movimento di riforma della vita che attraversa
la cultura europea, influenzando anche il Terzo Reich, a partire da movimenti
culturali e popolari dei quali il più noto è quello dei Wandervögel691.
Nel suo messaggio di ritorno alla terra e nell’appassionata adesione al mondo
naturale, opposti alla degenerazione rappresentata dal capitalismo, dall’utilitarismo, dal consumismo e dall’ideologia di progresso, il movimento dei Wandervögel
sosteneva inizialmente che i cambiamenti da apportare alla società non potessero essere realizzati attraverso la politica, ma soltanto attraverso il miglioramento dell’individuo, in seguito però migliaia di aderenti passarono nelle fila del
nazionalsocialismo692. Un filone di pensiero, questo del rinnovamento dell’uomo
col ritorno alla natura, che ebbe echi anche in Italia col Movimento dei Gruppi
Naturisti Futuristi693.
Ma è indubbiamente nella cultura tedesca, nella quale maturò e si radicò in
profondità la sintesi tra naturalismo e nazionalismo694, che le parole dei volontari
sembrano trovare il loro retroterra culturale più prossimo. È del resto la
687
La presenza della natura, vissuta come immanentismo del sacro, trova spazio anche nel
narrato di guerra di altri volontari, come nel caso dell’autobiografia romanzata del volontario
Lino Masserie, nella quale un pesante bombardamento russo viene paragonato all’Etna nella sua
massima potenza (Masserie 2005: 74-76) e una giornata soleggiata al fronte diviene occasione per
ricordare il caldo sole della Sicilia, terra natale dei suoi genitori, e il profumo delle sue arance
(Masserie 2005: 129). Anche Jünger, del resto, nel suo narrare la guerra non manca di descrivere
l’emozione provata in trincea con l’inizio della primavera e il risveglio della natura alla quale è
assegnato l’annuncio del rinnovamento e della quale bisogna ritrovare la possibilità rinunciando
alle pretese conquiste della civiltà (Decombis 1981: 49-52).
688
Decombis 1981: 69.
689
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
690
Decombis 1981: 70.
691
Giesecke 1981; Cospito 1999; Gruber-Wiedemann 2007; Mosse 2008a: 253-278.
692
Staudenmaier 1995: 10-14.
693
Härmänmaa 2000: 28-44.
694
Staudenmaier 1995: 6-10.
130
Germania il luogo di nascita delle scienze ecologiche, lì nel 1867 lo zoologo Ernst
Haeckel coniò il termine “ecologia” e cominciò a studiare le interazioni tra
organismo ed ambiente in modo scientifico695. Il terreno che favorì tali studi era
stato preparato da un ambiente culturale nel quale spiccano due figure come
quelle di Ernst Moritz Arndt e Wilhelm Heinrich Riehl, riconosciuti ancor oggi
dagli ambientalisti come anticipatori del pensiero ecologico in senso moderno.
Entrambi nazionalisti ed antisemiti, asserivano che fosse necessario guardare
alla natura nelle sue interrelazioni e connessioni per comprendere che tutti i suoi
elementi sono ugualmente importanti, tutti insieme in una singola unione696.
La Germania degli anni Venti è, peraltro, la patria del Völkische Bewegung,
che attaccando il materialismo contemporaneo, il consumismo, la cultura commerciale e l’industrialismo senz’anima, è fautore di un nazionalismo ecologico
che si connota talvolta di toni mistici697.
Riferimenti alla cultura dell’epoca che si possono rintracciare nell’esposto
degli intervistati sono, inoltre, quelli che rimandano allo scrittore francese
Alphonse de Châteaubriant che, affascinato dalla Germania hitleriana, avrà
occasione di parlare davanti a novemila membri della Hitlerjugend698. Oltre ai
toni entusiastici sulla comunione del popolo tedesco con la natura intesa come
custode del sacro699, che permeano il diario di viaggio dello scrittore francese nella
Germania del 1936, è soprattutto la figura di quello che viene definito come
“uomo della terra” a consentire un parallelo con quanto esposto dai volontari
italiani.
È l’uomo della terra, che vive a contatto con la natura, unica cosa che non
inganna, a divenire “il prezioso uomo della verità che non s’inganna”, capace di
vincere le influenze nefaste del razionalismo e del liberalismo economico700. Le
parole di alcuni volontari sembrano, inoltre, echeggiare le teorie del botanico
Ernst Lehmann, fervente nazionalsocialista, che nel 1934 sosteneva che separare l’uomo dalla natura porti l’umanità all’autodistruzione e alla morte delle
nazioni e che soltanto la reintegrazione dell’uomo nel complesso della natura può
renderlo migliore e più forte701.
Collocando il pensiero dei volontari, relativamente alla natura concepita
come custode del senso della vita e modello per l’individuo e per lo Stato,
all’interno della cultura dell’epoca e valutando, in base a ciò, l’impatto che tali
695
Lo studioso ormai anziano aderirà alla Thule-Gesellschaft, una società segreta esoterica
che avrà un ruolo chiave nella nascita e nell’affermazione del nazionalsocialismo. Per questi
aspetti si vedano: Goodrick-Clarke 1985; Sebottendorff 1987; Alleau 1996: 239-261; Dolcetta
2003: 34-43; Tombetti 2005: 83-106; Galli 2007.
696
Staudenmaier 1995: 4.
697
Biehl 1995: 31-36; Puschner 2001; Breuer 2008; Freis 2008. È utile notare, come spiega
Mosse (1964: 4), che il significato della parola tedesca Volk va letto come comunione di un gruppo
di persone con la propria essenza trascendente, che può essere chiamata anche natura, cosmo o
mito. Il termine è frequentemente tradotto in italiano come popolo o razza, ma ciò non riproduce
il profondo significato che esso assume nella lingua tedesca, significato che va oltre quello di
popolo, giungendo ad unire l’intera comunità di individui che condividono la medesima essenza
trascendente (Tombetti 2005: 22).
698
de Châteaubriant 1991.
699
de Châteaubriant 1991: 54-56; 62-63.
700
de Châteaubriant 1991: 68-69.
701
Staudenmaier 1995: 4.
131
concezioni ebbero sullo stile di vita degli intervistati, è pertanto possibile asserire
che alcuni di essi si collocano a tutti gli effetti all’interno di quel filone di pensiero
che, attraversando la cultura tedesca, sfocia nel cosiddetto ecofascismo702.
L’ambientalismo e le sue declinazioni ecologiche ebbero un ruolo importante
all’interno dell’impianto ideologico nazionalsocialista e si declinarono spesso in
implementazioni pratiche all’interno del Terzo Reich. Ciò secondo un principio
che è stato esposto anche da alcuni degli intervistati all’interno di questa ricerca:
la vita delle nazioni e l’organizzazione della società deve essere modulata dalle
stesse leggi della natura e della vita organica, perché l’uomo è un anello della
catena naturale al pari degli altri organismi e non può porsi in antagonismo con
le leggi eterne della natura703.
Alcuni principi dell’ecofascismo nazionalsocialista riecheggiano nelle parole
del volontario Rutilio Sermonti, in particolare con riferimento al principio che
animò l’Agenzia per la Protezione della Natura del Terzo Reich, ossia che tutti
i cittadini, sin dalla gioventù, devono sviluppare e comprendere l’importanza e
la valenza civica dell’organismo, rappresentata dal coordinamento e dalla
cooperazione di tutte le sue parti per il bene complessivo e per il superiore compito
della vita704.
Un altro punto di contatto tra il pensiero ecofascista e le testimonianze dei
volontari è rappresentato dal fatto che le tematiche ecologiche del nazionalsocialismo si permearono anche di un romanticismo agricolo inserito anch’esso in un
percorso culturale e politico che mirava al recupero di una sintonia con la natura.
Sintonia che veniva considerata compromessa da un progresso giudicato come
utilitarista e senz’anima.
Questa ricerca di una connessione perduta con la natura fu molto pronunciata nei leader neopagani del nazionalsocialismo come Alfred Rosenberg, Rudolf
Hess, Walter Darré e Heinrich Himmler, e venne implementato un piano di
introduzione su larga scala dell’agricoltura biologica e biodinamica correlato alla
limitazione della spoliazione del territorio imputabile alle attività estrattive e
all’industria pesante705. Progetti che seguivano e si correlavano con la legge di
protezione della natura del 1935, Reichsnaturschutzgesetz, che stabiliva linee
guida per la salvaguardia della flora, della fauna e dei monumenti naturali del
Reich e per la preservazione delle aree selvagge706.
Le aziende agricole biodinamiche trovarono inizialmente tra i loro promotori
e sostenitori molti membri delle SS e in Germania venne fondata anche
l’Associazione del Reich per l’agricoltura biodinamica. L’ambiente culturale nel
quale tali concetti proliferarono era di tipo antroposofico707, e quando Heinrich
702
Bramwell 1985; Staudenmaier 1995; Uekötter e Radkau 2003; Staudenmaier 2007.
L’ecofascismo, talvolta qualificato come “green wing” o “green party” del nazionalsocialismo, è
stato studiato soprattutto da ricercatori tedeschi ed inglesi e resta, però, poco analizzato rispetto
all’importanza che gli elementi ecologici o correlati al culto della natura assumono all’interno
dell’ideologia nazionalsocialista e della sua implementazione pratica nel Terzo Reich (Staudenmaier
1995: 4).
703
Pois 1985: 40; Staudenmaier 1995: 14; Weikart 2009: 3-5.
704
Staudenmaier 1995: 14.
705
Staudenmaier 1995: 16-24; Staudenmaier 2007: 12.
706
Dominick 1987: 536.
707
Leschinsky 1983; Wuttke-Groneberg 1983: 27-50; Werner e Lindenberg 1999.
132
Himmler, che vedeva nell’antroposofia un’organizzazione in competizione con i
suoi piani di sviluppo delle SS, nel 1935 mise al bando la Società Antroposofica,
le aziende di agricoltura biodinamica continuarono ad operare sotto il suo
controllo e delle SS, tanto che alcune piantagioni biodinamiche vennero posizionate presso vari campi di concentramento708.
La realizzazione di uno sviluppo agricolo sostenibile è un obiettivo per il
quale il volontario Karl Nicolussi-Leck, come visto, si impegnerà professionalmente nel dopoguerra, ma è il concetto di natura, ambiente ed agricoltura che
emerge dal narrato complessivo degli intervistati ad avvicinare indubbiamente
i volontari a tutte quelle tematiche che compongono il filone di pensiero
dell’ecofascismo.
Proprio in virtù di tale pensiero, che si costituisce di una articolata concezione
della natura come divinità immanente e come modello sociale, emerge nei
volontari una presa di distanza, un distacco, dal cristianesimo e dal cattolicesimo
descritti come inutili rispetto alla concezione di vita adottata. Non emerge, in
questo caso, un sentimento di ostilità verso il cristianesimo, ma piuttosto la
dichiarazione della propria alterità.
All’interno di alcune interviste si evidenzia, invece, una forte avversione nei
confronti del cattolicesimo imputabile al ruolo attribuito dai volontari ai sacerdoti e alla chiesa all’interno della seconda guerra mondiale. La moglie del
volontario Ferdinando Salutin racconta come il marito fosse solito ripetere «che
in Italia era stato tutto un tradimento e che i cattolici, con le radio clandestine,
aiutavano gli americani, li guidavano con le loro radio nei bombardamenti, e
aiutavano anche i comunisti che prendevano ordini dalla Russia709».
La testimonianza prosegue toccando ancora più in profondità la questione
del rapporto col cattolicesimo, non solo per quanto riguarda il marito, ma per la
coppia: «eravamo cattolici entrambi, molto fedeli, ma la rovina della chiesa è
stato don Sturzo che ha messo la politica insieme alla religione. Don Sturzo e quei
cattolici che hanno tramato contro Mussolini, prima la religione era dello Stato
e poi la hanno mescolata con la politica. Con mio marito ci ha legato molto la fede
nella patria, mio marito credeva nella patria, l’amava molto710».
Anche nel ricordo di Giuliano Bortolotti i preti sono dipinti come «ostili e
impegnati a fomentare nella popolazione la paura e l’odio verso le SS», e il
volontario ricostruisce in dettaglio un evento, riportato anche nella sua autobiografia711, in occasione del quale un sacerdote dal pulpito «accusava ingiustamente le SS di essere assassini e stupratori e spaventava le donne dicendo che
sarebbero arrivate le SS e che dovevano stare attente alle loro figlie». L’intervistato fa presente nel narrato quanto quell’accusa lo avesse ferito profondamente
all’epoca, tanto che ritenne doveroso intervenire durante la funzione. Egli
puntualizza: «noi eravamo lì per riorganizzare il battaglione e per tornare presto
al fronte, non per dare la caccia a quattro gonnelle che giravano nel paese, noi
708
Georg 1963: 62-66; Wuttke-Groneberg 1983: 43-44; Jacobeit e Kopke 1999; Kaienburg
2003: 771-855; Staudenmaier 2007: 9-13.
709
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 alla moglie del volontario Ferdinando Salutin.
710
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 alla moglie del volontario Ferdinando Salutin.
711
Bortolotti 2007: 51-53.
133
pensavamo a combattere e ancora penso che era ingiusto tirarci addosso quel
fango712».
È possibile constatare in queste testimonianze che all’origine dell’ostilità
verso il cattolicesimo si colloca un comportamento dei sacerdoti considerato come
ostile o collaborativo col nemico.
Per quanto riguarda l’ostilità attribuibile ai singoli sacerdoti nei confronti
delle Waffen-SS, essa deve essere inquadrata innanzitutto nella complessità che
gli anni dal 1943 al 1945 rappresentarono per i religiosi stessi. Casi di religiosi
schierati su fronti opposti non mancarono ed è interessante citare, ad esempio,
quello di due sacerdoti, Berto Ferrari e Gino Marchesini, il primo cappellano di
una divisione garibaldina e il secondo della RSI713. Complessivamente però, pur
non essendo generalmente favorevole ai comunisti, l’atteggiamento del clero a
contatto con la popolazione fu, salvo casi sporadici, tutt’altro che favorevole alla
RSI714. Per quanto concerne invece alcune considerazioni che citano la figura di
don Luigi Sturzo715, aldilà della sua avversione nei confronti del fascismo e delle
sue azioni politiche, è utile, più che focalizzarsi sulla sua sola figura, prendere
brevemente in esame il rapporto tra fascismo e chiesa cattolica nelle sue
dinamiche politiche e di conquista e gestione del consenso.
Parallelamente allo Stato fascista anche la chiesa cattolica era attraversata,
col disegno di conquista della mobilitazione delle masse, da un’età totalitaria.
Dopo la prima guerra mondiale, parole come “eroe”, “disciplina”, “azione”, “capo”,
“crociata”, “conquista” e “soldato”, che animavano le ideologie politiche in
evoluzione, cominciarono a trovare spazio anche nel mondo cattolico italiano,
strutturando un cattolicesimo di conquista, di azione, di crociata, dei soldati di
Cristo che si rivolgeva alle masse.
Questo cattolicesimo che trovò il suo riferimento, ma si potrebbe forse dire il
suo capo, in Pio XI e poi, con qualche differenza, in Pio XII, portò ad una “chiesa
totalitaria” che si impegnò in una santa battaglia per la restaurazione del regno
di Cristo e la realizzazione di quella che era riconosciuta come unica vera pace:
Pax Christi in regno Christi. La forma educativa fondamentale divenne, dunque,
quella del soldato di Cristo e l’enfasi sulla militia Christi si accrebbe, mirando al
rafforzamento di un laicato militante e alla miglior strutturazione di organizzazioni di massa come l’Azione Cattolica.
L’obiettivo era quello di una sacralità militante che permeasse un cattolicesimo di massa e dopo la stipula dei Patti Lateranensi, nel 1929, le direttive di Pio
XI raggiunsero il loro organamento pieno e maturo con una trilogia di encicliche
all’interno delle quali, in particolare con la Divini Illius Magistri, si rivendicava
alla Chiesa il diritto all’educazione, si criticava il monopolio educativo statale e
712
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
Per una raccolta di racconti di sacerdoti nel fascismo e nella Resistenza, tra i quali Berto
Ferrari e Gino Marchesini, si veda: Munzi 2005.
714
De Felice 1998: 198-199.
715
Don Luigi Sturzo fu fervente sostenitore dell’incompatibilità tra la concezione dello Stato
del Partito Popolare e il fascismo e ritenuto il fautore dell’uscita dei ministri cattolici dal governo
Mussolini nell’aprile del 1923. Lasciato il paese nel 1924, don Sturzo animò numerosi movimenti
di fuoriusciti antifascisti, tra i quali il People and Freedom Group (Farrell-Vinay 2003). Tornato
in Italia nel 1946 non svolse un ruolo di primo piano nella politica nazionale e nel 1952 venne
nominato senatore a vita (Torrisi 1994; Rivoire 2009).
713
134
si affermava che l’educazione cristiana si rivolgeva all’uomo nel suo intero di
anima e corpo716.
Il fascismo d’altro canto era impegnato nella costruzione di una nuova civiltà
che si doveva fondare sull’ideale del cittadino soldato, dell’uomo organizzato
collettivamente, educato secondo i principi della morale fascista, di una moralità
bellicosa e antiborghese. I fascisti si consideravano costruttori dell’avvenire ed
erano impegnati nella costruzione dell’uomo nuovo, un uomo collettivo organizzato, educato a identificare normalmente e spontaneamente la propria persona
con la comunità di massa integrata nello Stato. Il tutto all’interno di un processo
di sacralizzazione della politica che, a livello esteriore, prevedeva anche l’uso del
rituale, di una liturgia mutuata dall’idea che un credo politico si basa sulla fede
e che questa, senza riti e simboli, non può consolidarsi717.
È evidente che né al fascismo né alla Chiesa poteva sfuggire il fatto di trovarsi
in una situazione di concorrenziale antagonismo totalitario. All’interno del
fascismo e nell’ambito del mito dell’italiano nuovo, era inoltre presente il mito di
una nuova femminilità e di una donna nuova che coinvolgesse soprattutto le
giovani fasciste, un modello estraneo a quello tradizionalista718.
Soprattutto il contributo futurista per la riforma della donna, non più vista
come mera “piovra del focolare”, ma come partecipatrice e creatrice dell’atmosfera spirituale e politica della nazione, si inseriva in un quadro valoriale che
considerava il matrimonio uno stato completamente formale da abolire, identificava nella patria il superamento della famiglia, sosteneva la necessità di
sostituire alla morale cristiana quella futurista e proponeva uno stile di vita,
funzionale alla creazione dell’uomo nuovo e della donna nuova, ispirato al
naturismo futurista719.
Ciò non poteva non allarmare la Chiesa, ed è anche in rapporto a tale progetto
che bisogna inquadrare l’enciclica Casti Connubii, del 31 dicembre 1930, sulla
sacralità del matrimonio cristiano, con la quale Pio XI espresse il suo dissenso
verso gli errori che riguardano la fede coniugale, l’immoralità sessuale, e verso
chi metteva in discussione la santità e l’indissolubilità del connubio matrimoniale. Il Pontefice ribadiva, inoltre, che tra i doveri dei coniugi vi era quello
dell’educazione cristiana della prole720.
Da un lato, per il fascismo, la Chiesa, quella che secondo Giuseppe Bottai
aveva rammollito, svirilizzato e disarmato gli italiani721, rappresenta un nemico
per la creazione dell’uomo nuovo. Dall’altro, per la Chiesa, il fascismo non
accettando i limiti del proprio totalitarismo, che andrebbe considerato inferiore
in virtù del fatto che l’uomo, creato da dio, appartiene di conseguenza alla Chiesa,
rappresenta allo stesso modo un nemico. La situazione che si delinea è, dunque,
quella di un antagonismo totalitario tra Stato fascista e chiesa cattolica722. Ciò
716
De Giorgi 2003; 2005; 2009; 2009b, 2010, 2012.
Gentile 2008: 209-211; 224-230; 239-240; 254-259.
718
Detragiache 1983; Mondello 1987; Fraddosio 1989; De Grazia 1993; Fraddosio 1993;
Gentile 2008: 240-241.
719
Härmänmaa 2000: 44-50; 64; 69-99.
720
Per il testo integrale dell’enciclica si veda: http://www.vatican.va/holy_father/pius_xi/
encyclicals/documents/hf_p-xi_enc_19301231_casti-connubii_it.html
721
Gentile 2008: 259.
722
De Giorgi 2003; 2005; 2009; 2009b, 2010, 2012.
717
135
ebbe chiare ripercussioni in ambito nazionale con il fascismo che, considerandosi
una religione laica della nazione e dello Stato legittimata a domandare ai
cittadini una dedizione totale, limitò, ad esempio, l’influenza dell’Azione Cattolica e con la Chiesa che accusò sovente il fascismo di predicare una religiosità
statolatrica e pagana ed operò costantemente per competere con esso nella
mobilitazione delle masse e nell’educazione giovanile723. A livello di gestione delle
situazioni internazionali i due totalitarismi ebbero un momento di convergenza,
dovuto al comune anticomunismo, durante la guerra civile spagnola, ma si
trovarono definitivamente su fronti contrapposti quando il fascismo si alleò col
nazionalsocialismo e durante la guerra civile724.
La percepita ostilità dei religiosi e della Chiesa, emersa da alcune interviste
ai volontari, appare dunque ampliamente compatibile con lo scenario storico e
con le dinamiche sopra ricostruite. È del resto la Santa Sede ad ospitare nel 1943,
presso il palazzo extraterritoriale di San Giovanni in Laterano, i componenti del
Comitato di Liberazione Nazionale di Roma, tra i quali c’era anche il socialista
Pietro Nenni, ed anche negli anni precedenti a offrire ospitalità a uomini politici
antifascisti, come nel caso di Alcide De Gasperi, futuro presidente del Consiglio
dei Ministri nel 1945 e fondatore della Democrazia Cristiana, dimorante dentro
le mura vaticane come bibliotecario nella Biblioteca Apostolica Vaticana725.
Ma poiché i volontari vestirono uniformi del corpo militare di élite del Terzo
Reich, ciò potrebbe aver comportato un’ostilità ancor più marcata da parte dei
membri del clero. Se infatti la Chiesa mirò a indebolire e colpire tutti i totalitarismi, particolarmente marcate furono le sue posizioni contro il nazionalsocialismo che si concretizzarono nella lettera enciclica sulle condizioni della chiesa
cattolica nel Reich, Mit brennender Sorge del 1937, che invocava l’ira divina
contro i predicatori di dottrine qualificate come aberranti726.
Le preoccupazioni della Santa Sede per quanto riguarda il nazionalsocialismo sono databili sin dalle origini del movimento stesso, per il fatto che esso si
professasse ufficialmente nemico del cristianesimo e perché considerato a tutti
gli effetti un movimento neopagano727.
In occasione della visita di Hitler a Roma del 1938, per la quale il Führer non
chiese un incontro col papa, si verificò un susseguirsi intenso di contatti
diplomatici e personali tra la Santa Sede e alcuni gerarchi fascisti che videro non
solo Guido Buffarini Guidi lamentare col nunzio apostolico per l’Italia monsignor
Borgongini Duca la cattiva impressione che avrebbe fatto la mancata visita di
Hitler al papa, ma anche Galeazzo Ciano, all’epoca ministro degli Esteri, riferire
allo stesso nunzio che lui, come cattolico praticante, riteneva che “con le autorità
del Reich non c’era nulla da fare, perché sono dei veri pagani”728.
In questo quadro vanno inserite, tenendo conto che la qualifica di paganesimo può essere appropriata, e comunque non distorcente, per qualificare la
spiritualità ricostruita come propria dei volontari intervistati, le dichiarazioni
723
724
725
726
727
728
136
Gentile 2008: 26.
De Giorgi 2010.
Sale 2004: 197.
Sale 2004: 129-132.
Sale 2004: 133, 156.
Sale 2004: 156, 170, 172.
del volontario Adolfo Simonini: «i tedeschi non volevano che andassi in chiesa,
non i tedeschi in genere, erano le Waffen-SS che non volevano, ma tanto io non
ci andavo di mio729». Tale ostilità verso il cattolicesimo, che il volontario descrive
come interna alla Waffen-SS, trova riscontro anche nel rapporto intercorso tra
Julius Evola e i vertici delle SS.
Il poliedrico pensatore italiano, che godette di una certa stima da parte dei
vertici delle SS730 e che tenne alcune conferenze in Germania, tra le quali una
presso la SS-Junkerschule di Braunschweig731, era però criticato dalle SS stesse,
che assistettero ai suoi interventi con la presenza di alcuni membri
dell’Ahnenerbe732, per alcuni elementi del suo pensiero. In particolare gli vennero
rimproverate, pur ritenendolo rappresentante di un fenomeno spirituale degno
di nota733, le seguenti posizioni: un pensiero improntato ad una feudalità
aristocratica di vecchia maniera; una misconoscenza del passato popolare
tedesco; una se pur tenue difesa dei contenuti religiosi cristiani; una valutazione
positiva del principio ecclesiastico della gerarchia come strumento di lotta contro
ogni socialismo collettivista; l’adozione di un idolo di supremazia come quello del
re-sacerdote in cui si uniscono autorità temporale e spirituale che deriva dai miti
cristiani; l’assenza di risalto alla collaborazione della spiritualità femminile e la
mancata comprensione dell’importanza di evitare il dissidio tra la guida maschile e quella femminile; il parlare di una demonìa dell’elemento femminile dimenticando che l’unità divina non può che essere costituita da elementi complementari allo scopo dell’eterna generazione734.
Evola mostrava un particolare apprezzamento nei confronti della tradizione
prussiana dell’antica nobiltà e desiderava un accantonamento dell’elemento
729
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
Cospito e Neulen 1986: 7; Dolcetta 2003: 151; Galli 2007: 24.
731
Zoratto 1997: 13. La conferenza tenuta presso la SS-Junkerschule di Braunschweig ebbe
il seguente titolo: Il significato di Roma per lo spirito olimpico germanico.
732
La Forschungsgemeinschaft Deutsches Ahnenerbe e. V., nota come Ahnenerbe, è una
società fondata nel 1935 da Heinrich Himmler, Hermann Wirth e Walter Darré per gli studi
dell’eredità ancestrale (Cook e Russel 1999; Zagni 2004; Tombetti 2005; Kater 2006). Alcuni
autori sostengono o ritengono probabile la presenza di Evola, e in alcuni casi di Leale Martelli,
presso la SS-Schule Haus Wewelsburg, uno dei principali centri dell’Ahnenerbe (Dolcetta 2003:
151; Tombetti 2005: 180). Più scettico sulla presenza del pensatore italiano è Zagni (2004: 181).
733
Si veda in proposito la relazione sulle conferenze di Evola di un SS- Hauptsturmführer
inviata a Himmler in data 13 luglio 1938 (Zoratto 1997: 33-34). I “documenti custoditi nel museo”
citati da Dolcetta (2003: 151) come prova della presenza di Evola e Martelli, non sono stati
rintracciati e il Kreismuseum Wewelsburg fa presente come sia certa l’assenza di documentazione inerente Evola e Martelli presso il museo e improbabile che essi possano essere stati ospiti,
in quanto Wewelsburg non è mai stato deputato all’accoglienza di ospiti dell’Ahnenerbe, ma luogo
di ricerca scientifica e punto d’incontro auratico per gli SS- Gruppenführer (Corrispondenza del
10 settembre 2008 con Markus Moors, Dipl.-Pol. / Dipl.-Archivar (FH) del Kreismuseum
Wewelsburg).
734
Si vedano in proposito le relazioni inviate ad Himmler da parte di membri delle SS, una
delle quali di Reinhard Heydrich, riportate in: Zoratto 1997: 35-43; de Turris e Zoratto 2000: 1113; 31-33. Nel quadro di tali punti di disallineamento è bene tener presente che per quanto
concerne, invece, il concetto di razza, fondato su base biologica in larghi strati del nazionalsocialismo, il concetto di razza proposto da Evola (Evola 1978; Germinario 2001; Evola 2001; Rota
2008) appare più prossimo a quello di Himmler e dei suoi uomini più vicini, che si mostravano
soprattutto interessati a una definizione spirituale del razzismo ariano (Dolcetta 2003: 138).
730
137
völkisch che criticava anche attraverso una strenua polemica contro il romanticismo, da lui accusato di promuovere un misticismo naturalistico nemico di ogni
autentica trascendenza735. Così facendo il pensatore italiano non solo rigettava
un elemento connaturato all’anima tedesca, ma anche una dinamica culturale
centrale, con implicazioni politiche, sociali e legislative, all’interno del nazionalsocialismo.
Prendendo in esame le parole di due volontari, Pio Filippani Ronconi e Rutilio
Sermonti, la critica al cattolicesimo ed al cristianesimo tutto, si caratterizza per
un maggior radicalismo e si slega dalle sole vicende belliche e dal ruolo dei
sacerdoti e della Chiesa all’interno di esse. Il primo, che nel proprio soldbuch alla
voce religione figura come pagano, attribuisce all’avvento del cristianesimo, con
la chiusura degli antichi templi e il venire a mancare dell’antico retaggio
culturale, la caduta dell’Impero Romano e descrive così la decadenza: «Papa
Gregorio che s’infuriava coi giovani che di notte avevano cercato di riaprire il
tempio di Giano per tener lontano il nemico e ingiungeva loro di smetterla di
ispirarsi alle storie di Tito Livio – che poi dannò al fuoco – ma legger piuttosto i
Salmi penitenziali e piangere sui propri peccati. Allora Roma morì, perché
vennero spente le idee ed i ricordi, sui quali si sarebbe potuta ricostruire un
consenso popolare e un’aristocrazia senatoria736».
È all’interno di questa prospettiva culturale e nel quadro delle origini
famigliari, il volontario è nato da famiglia aristocratica di patrizi romani e conti
del Sacro Romano Impero, che matura in Pio Filippani Ronconi la scelta di
volontariato nelle Waffen-SS737.
Ancor più radicali appaiono le parole del volontario Rutilio Sermonti che,
affrontando la tematica della religiosità e parlando del cristianesimo, afferma:
«terribili i cristiani, che odiando la carne, hanno concepito un paradiso dove si
cantano inni, insomma sai che palle!738». Il giudizio negativo del volontario sul
cristianesimo si approfondisce a livello tematico quando egli dichiara: «il giudaismo, con la sua concezione di popolo eletto da Dio che dovrebbe avere al servizio
gli altri, ha esercitato un suo influsso sull’Europa proprio attraverso il cristianesimo, che inizialmente era una setta ebraica739». Rutilio Sermonti, mentre cerca
di spiegare la propria religiosità e spiritualità, puntualizza come egli non si senta
né cristiano né cattolico e definisce così la Bibbia: «un libro estraneo alla nostra
tradizione, intriso di sciovinismo ebraico, e che esalta personaggi come Davide,
facendo di un infame un eroe, Davide sarebbe stato considerato un infame da
qualsiasi romano740».
Emerge nuovamente una critica al cristianesimo attraverso la rivendicazione di una paganità romana vissuta come propria, si potrebbe dire anche
caratteristica italiana, e quindi in opposizione al cristianesimo vissuto come
corpo estraneo. Ma la critica del volontario si spinge oltre e interessa tutti i
monoteismi che, a suo avviso, «spingono gli uomini al sentirsi autorizzati a
735
Zoratto 1997: 12.
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, p. 1, Reg. 169.
737
Capano 2001.
738
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
739
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
740
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
736
138
discriminare o uccidere altri uomini solo per il fatto che questi non riconoscono
la loro divinità741».
Per l’intervistato «il sacro è ordine cosmico, armonia della vita, bellezza del
creato e lo Stato deve essere organico, deve prendere come naturale paradigma
un organismo biologico, e come negli organismi naturali tutte le parti devono
collaborare al bene comune, senza che vi sia spazio per caste parassitarie742». Ma
ciò che è ancor più interessante è come all’interno del suo esposto a tali concezioni
si ricolleghi la definizione stessa di fascismo: «tra le tante definizioni che sono
state date di fascismo, quella più appropriata è quella di fascismo come modo di
essere dello spirito, come senso del sacro, perché un fascista non è in polemica con
l’ordine cosmico, con l’armonia della vita, non può opporsi ad essa, ma la vuole
riconoscere in sé743».
Si tratta della natura che diviene modello dal quale la concezione di Stato e
l’ideologia fascista stessa devono trarre ispirazione: un paganesimo, dunque, che
permea la concezione della politica e dell’ordinamento dello Stato. L’identificazione delle responsabilità del cristianesimo nella caduta dell’Impero Romano
rimandano ad una ricostruzione storica che era cara al nazionalsocialismo e a
Hitler stesso, che riteneva che senza l’influsso del cristianesimo l’Impero Romano
non si sarebbe estinto, ma avrebbe proseguito la propria missione grazie
all’innesto dell’influenza pagana germanica 744. Sempre coerente con l’ideologia
nazionalsocialista appare, inoltre, il considerare il cristianesimo una dottrina
giudaica e quindi non solo estranea alla cultura europea, ma anche complice del
giudaismo stesso e dei piani per il dominio del mondo che ad esso venivano
attribuiti745.
Il concetto di cristianesimo come branca del giudaismo e suo complice è
rintracciabile anche nel testo di Rudolf von Sebottendorff, Bevor Hitler kam del
1933, nel quale l’importante membro della Thule-Gesellschaft, società segreta
che ebbe un ruolo centrale nella nascita e affermazione del movimento nazionalsocialista, scrive come l’ebreo avrebbe trovato protezione specialmente presso la
Chiesa, che, pur essendo riuscita a mascherare come cristiano l’antisemitismo
del Medio Evo, sarebbe sempre stata “la difesa e lo scudo di Giuda”746.
È proprio il volontario Pio Filippani Ronconi, nel suo memoriale, ad attribuire anche alle «esperienze delle varie Thule-Gesellschaften», da lui poste in
relazione con le Waffen-SS, quell’elemento mistico che egli trovò nelle truppe di
élite del Terzo Reich747. Non vi è dubbio che i casi di Pio Filippani Ronconi e Rutilio
Sermonti, per i quali si riscontra una pressoché completa sovrapposizione delle
matrici culturali e delle dinamiche del loro sentire anticristiano con quelle
nazionalsocialiste, assumano, all’interno del narrato complessivo dei volontari,
carattere di specificità personale. Ma è altrettanto indubbio che essi si collochino
in un quadro complessivo dal quale emerge che, per pressoché tutti gli intervistati, si sia in presenza di una ostilità o di una dichiarata alterità dal cristianesimo
derivate da una concezione del sacro come presenza immanente nella natura, che
741
742
743
744
745
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Gonen 2003: 182; Winkler e Sager 2007: 100; Nolte 2008: 286.
Sale 2004: 127; Poewe 2006: 24.
139
evidenzia un comune sentire classificabile come pagano. Un sentire che assume
carattere di compatibilità e integrabilità all’interno dell’ideologia nazionalsocialista e, in particolare, del pensiero e del sentire attribuibile alle SS ed ai suoi
vertici.
La cerchia esoterica
Nel 1939 Ernst Jünger scrive in Sulle scogliere di marmo: “chi ben conosce
la storia degli Ordini segreti sa che difficilmente se ne può determinare la
estensione, ed è nota la loro feracità, per cui formano rami e colonie; e qualora
vogliasi seguirne le tracce, ci si perde in un labirinto748”. Dal materiale riguardante il volontario Pio Filippani Ronconi, sia quello edito sia i memoriali dattiloscritti
reperiti, emerge la presenza di una profonda cultura tradizionale ed esoterica. È
perciò importante analizzare tale substrato culturale e cercare di comprendere
se esso sia questione meramente personale o, invece, riconducibile ad un più
vasto ambiente esoterico interno o collaterale alla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, e in tal caso, tentare di comprendere e identificare le figure di
riferimento. Non si tratta di dipanare il labirinto del quale scrive Jünger, ma di
tracciare un quadro che, pur non potendo essere esaustivo, data l’impossibilità
di determinare l’estensione e l’intreccio di certi legami, potrebbe gettare luce su
una tematica sinora trascurata749. Si è già fatto presente come già in giovane età
il volontario Pio Filippani Ronconi si dedicasse alla lettura di testi tradizionali
come, ad esempio, l’Edda ed al fatto che nel suo soldbuch nelle Waffen-SS egli
avesse indicato con il termine “pagano” la propria religione. Nell’analisi delle
fascinazioni letterarie è emerso, inoltre, come nella descrizione del combattimento egli citi come esempio il Berserkr, che morto in battaglia si congiunge, secondo
la tradizione, al suo doppio astrale rappresentato dalla Valchiria, e come
narrando la sua esperienza nelle Waffen-SS il volontario faccia riferimento
anche a Kali, mistica sposa del guerriero iniziato. Pio Filippani Ronconi scrive
inoltre di come durante la guerra, oltre a trovare la concentrazione per la lettura
dei testi tradizionali, fosse solito praticare lo yoga750.
Aldilà di questi riferimenti testuali a forte connotazione esoterica, il volontario fa riferimento, nelle sue pubbliche interviste e nei suoi scritti, a persone che,
attive in ambienti esoterici, rivestirono per lui importanza elevata. Tra queste
persone egli cita Giovanni Colazza751, relativamente al quale afferma: «con lui
746
Sebottendorff 1987: 29.
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP Sez. 30/6.
748
Jünger 2007: 12.
749
Accenni alla tematica sono presenti in: Corbatti e Nava 2001: 356; Beraldo 2006: 97;
Piscitelli 2006: 369-374. Generalmente, prima di tali accenni, le ricostruzioni di tali legami per
quanto concerne l’Italia facevano prevalente riferimento ai rapporti tra Julius Evola e il Terzo
Reich (Cospito e Neulen 1986; Zoratto 1997; de Turris e Zoratto 2000; Zagni 2004; Tombetti 2005;
de Turris 2006; Galli 2007).
750
Filippani Ronconi, Le confessioni di Pio detto “Maometto”.
751
Per quanto concerne la figura dell’antroposofo Giovanni Colazza, amico e discepolo del
fondatore dell’antroposofia Rudolf Steiner (Beraldo 2006: 77-79; Hakl 2006: 246-247), e il suo
ruolo nell’ambiente esoterico italiano si veda: de Turris 2006.
747
140
avevo un rapporto molto diverso [rispetto a quello con Evola] perché Colazza era
un uomo segreto ... ero diventato suo amico e suo discepolo. Colazza era una
pietra di fondamento ... era stato discepolo di Rudolf Steiner752: era il suo vero
discepolo753». Prima di approfondire le implicazioni di tale rapporto giova però
ricostruire anche le altre relazioni tenute e citate dal volontario. Tra queste
quella con Evola, che secondo alcuni conobbe nel 1936, del quale racconta: «l’ho
conosciuto soprattutto sul piano occulto, segreto, non certamente sul piano
politico di cui né a lui né a me c’importava un fico secco. Il piano politico è già nel
divenire, è già stato causato da altri fatti ... di ordine occulto: i tedeschi hanno
fatto strane mescolanze754».
Ma parlando di Evola, Pio Filippani Ronconi cita incidentalmente il suo
legame con Massimo Scaligero755, che afferma di aver conosciuto nel 1946 e del
quale divenne molto amico, e afferma: «Julius Evola e Massimo Scaligero
esercitavano due aspetti opposti dei Tantra. Secondo me il vero trasmettitore è
Massimo756».
Tra le conoscenze del volontario figura anche Giuseppe Tucci757, suo maestro
di dottrina tibetana, del quale fu giovane assistente758. Ma vi è un legame del
752
Rudolf Steiner è il fondatore dell’antroposofia. Gli studi sulle implicazioni e condizionamenti politici della sua figura e del suo pensiero si caratterizzano per alcune tendenze
interpretative contrastanti, sebbene maggiormente orientate a dare enfasi alla purga nazionalsocialista del 1941 nei confronti degli antroposofi che portò all’arresto di alcuni di loro, alla
chiusura delle scuole Waldorf e alla perdita di supporto pubblico per le aziende di agricoltura
biodinamica di matrice antroposofica. Di come alcune di queste aziende fossero rientrate però
nella sfera di influenza delle SS ho avuto modo di scrivere in precedenza. Ciò che appare
comunque rilevante è come, prima del 1941, col volo di Hess, che fu simpatizzante antroposofo,
in Gran Bretagna, i contatti tra alti esponenti nazionalsocialisti e gli antroposofi tedeschi si
tradussero in effettive collaborazioni. Anche dopo il 1941 sono comunque state ricostruite
simpatie steineriane all’interno delle SS e dell’area dell’ecofascismo nazionalsocialista, legami
che nel caso di Darré sono proseguiti sino al 1953 e si sono tradotti nella scelta di quest’ultimo
di dare un’educazione antroposofica ai propri figli. Nel 1931, del resto, il principale giornale
antroposofico aveva pubblicato una recensione entusiastica del libro di Darré, Neuadel aus Blut
und Boden (Bramwell 1985; Biehl 1995; Staudenmaier 2007). Appare, dunque, più probabile che
alcuni principi steineriani siano effettivamente stati recepiti all’interno delle SS, e che la purga
del 1941 sia stata voluta piuttosto all’interno del disegno himmleriano di fare delle SS l’unico
motore ideologico e religioso interno al nazionalsocialismo che non poteva accettare, dunque,
organizzazioni che potessero divenire concorrenziali a livello organizzativo e filosofico con il
neopaganesimo delle SS e gli studi dell’Ahnenerbe (Staudenmaier 2007: 11). Per quanto riguarda
il pensiero steineriano si può far riferimento alla sua produzione, ma all’interno dell’arco
temporale che sarà oggetto di questo approfondimento è interessante considerare alcuni testi
divulgativi dello Steiner ripresi dalla lezioni che egli tenne a Berlino nel 1904 presso la Scuola
di cultura operaia, che aiutano a comprendere i concetti da lui diffusi su tematiche come la storia,
la religione, il destino dell’individuo, la natura, l’eroismo, le tematiche del sacro (Roggero 1998).
753
Capano 2001; Piscitelli 2006: 371.
754
Capano 2001.
755
La figura di Massimo Scaligero, il suo sentire antroposofico e il suo ruolo all’interno del
fascismo saranno presi in esame a breve. Per alcuni riferimenti in proposito si vedano: de Turris
2006; Hakl 2006; Sarfatti 2008a.
756
Capano 2001.
757
Giuseppe Tucci, orientalista e storico delle religioni, cofondatore dell’Istituto Italiano per
il Medio ed Estremo Oriente - Is.M.E.O. Sulla sua figura tornerò a breve per i suoi legami con
ambienti interni e contigui al nazionalsocialismo e alle SS e per quelli con l’ambiente esoterico
italiano. Per quanto riguarda tali rapporti si vedano: de Turris 2006; Hakl 2006.
758
Buttafuoco 2001. Il percorso universitario che intraprenderà il Filippani Ronconi, e che
141
volontario che, nel quadro dei precedenti, si dimostra utile per allargare lo
sguardo dal solo Filippani Ronconi a altri membri delle Waffen-SS italiane. Pio
Filippani Ronconi, infatti, militò in questa formazione a stretto contatto con
Carlo Federico degli Oddi, figura citata precedentemente come modello di
eroismo da alcuni volontari759. Carlo Federico degli Oddi è un volontario e un alto
graduato che assume rilevanza anche all’interno dello studio sulle fascinazioni
esoteriche all’interno della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS in quanto Pio
Filippani Ronconi sostiene: «era un vecchio amico — addirittura dall’infanzia —
di Rudolf Hess ... era proprio il suo caro cordiale amico (per inciso, io ho sempre
avuto il sospetto che Rudolf Hess fosse un antroposofo)760».
Approfondendo la ricerca sull’enigmatica figura di Carlo Federico degli Oddi,
risulta che egli fosse figlio di quel Ferdinando Francesco degli Oddi, che ricopre
la carica di International Grand Master dell’Antico e Primitivo Rito di Memphis
e Misraïm dal 30 marzo del 1900 al 1902, quando viene sostituito dall’inglese
John Yarker761. È nel 1902 che Theodor Kellner e Franz Hartmann, che ha strette
lo porterà ad essere uno dei più noti orientalisti italiani, comincia nel dopoguerra con la laurea
in filosofia indiana conseguita sotto la guida di Giuseppe Tucci (Coli 2001).
759
Si veda la fotografia riportata all’interno dell’appendice fotografica che ritrae Pio
Filippani Ronconi assieme a Carlo Federico degli Oddi.
760
Capano 2001.
761
Dal sito ufficiale dell’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraïm: http://www.iss-icmemphis-misraim.com; http://www.memphismisraim.fr/; http://www.memphismisraim.it/. La
storia di questo Rito, ma sarebbe forse più opportuno parlare di due Riti, è soggetta a scissioni
e riunificazioni, per i tentativi di creazione di un Rito unificato, che rendono difficile e densa di
polemiche una ricomposizione univoca delle sue vicende. Secondo alcune fonti dello stesso Antico
Rito Orientale di Memphis e Misraïm, Ferdinando Francesco degli Oddi risulterebbe essere stato
nominato Grande Jerofante sin dal 1883, ma per il riconoscimento da parte di tutti si dovette
attendere il 1900 (http://www.memphismisraim.fr/). La data di nomina del 1883 trova conferma
relativamente al Rito Orientale di Memphis (Gabirro 2002: 37, 138, 149). La presenza del degli
Oddi in Egitto è collegata, in base ad un atto del 17 aprile 1881, al conferimento della Patente
di Costituzione del Santuario dei Patriarchi Gran Conservatori e Amministratori dell’Ordine,
sotto il titolo di Grande Oriente Nazionale di Egitto, Santuario di Memphis, con poteri di
riunificare i sei Patriarchi già esistenti (Gabirro 2002: 137). Il degli Oddi avrebbe precedentemente ricoperto la carica di Gran Cancelliere dell’Ordine e del Rito di Memphis dal 1873 (Gabirro
2002: 138). Per quanto riguarda il clima delle scissioni e anche delle ricostruzioni storiche di esse,
accompagnate da feroci polemiche, si veda: Sestito 2003 e 2006. Tali ricostruzioni non sono,
comunque, considerate accettabili da tutte le parti che al Rito di Memphis e/o Misraïm si rifanno
e le accuse reciproche di manomissioni dei dati, ai quali gli estranei agli Ordini non hanno accesso,
rendono le sopracitate pubblicazioni esclusivamente indicative della complessità delle dinamiche in atto e dello scontro interno agli Ordini di tale ispirazione. Secondo alcuni, a conferma di
quanto precedentemente accennato (Gabirro 2002: 137-139), Ferdinando Francesco degli Oddi
fu ad Alessandria d’Egitto Gran Hierophante dell’Ordine Antico e Primitivo Orientale di
Memphis, o più semplicemente Rito Orientale di Memphis, e non del Memphis e Misraïm, la cui
dizione non sarebbe mai stata usata in Egitto, che risulterebbe una formazione diversa e dai
memphitici giudicata spuria (Corrispondenza del 18-22 settembre 2008 con Clemente Bonaventura, col quale sono stato messo in contatto da Marina Sagramora de L’Archetipo – Mensile di
ispirazione antroposofica, al quale collaborò anche Pio Filippani Ronconi). Sempre secondo tali
informazioni Francesco Ferdinando degli Oddi fu, dunque, ovviamente in contatto con esponenti
del Memphis in vari paesi, tra i quali lo Yarker in Inghilterra. È utile specificare che, dato che
non è possibile l’accesso ai documenti degli Ordini e le vicende del Memphis e Misraïm sono
complesse e dense di polemiche, si è deciso di far riferimento all’ambiente in senso più generale,
inteso cioè come misraïmita e memphitico, sebbene i collegamenti ricostruiti con altri Ordini
sembrino far propendere per un ruolo principale da attribuire al ramo memphitico.
142
relazioni con Guido von List (1884-1919) e del quale sostiene la Guido-von-ListGesellschaft, alla quale aderirà anche Jörg Lanz von Liebenfels, fondano la
sezione tedesca del Rito di Memphis e Misraïm762.
Secondo alcune fonti Rudolf Steiner, il fondatore dell’antroposofia che ricorre
più volte nell’esposto di Pio Filippani Ronconi, ottiene nel 1906 il permesso di
Theodor Reuss763 ad aprire a Berlino una loggia del Rito di Memphis e Misraïm
che chiama Mystica Aeterna764. Altre fonti citano come Steiner diede la propria
adesione ad una società che apparteneva alla corrente rappresentata da Yarker
ed aveva le forme massoniche dei cosiddetti Gradi Superiori e ricevette da costui
una patente del Rito Riunificato di Memphis e Misraïm e la richiesta di tenere
alcune conferenze a beneficio dei fratelli del Rito765.
È dunque possibile asserire che Rudolf Steiner fece parte del Rito di Memphis
e Misraïm e operò all’interno di esso in posizione elevata, tenendo corsi e
conferenze per gli adepti. Un’altra informazione importante, nel quadro di
quanto sinora ricostruito, è che anche Rudolf von Sebottendorff aderì nei primi
anni del Novecento ad una loggia dell’Ordine di Memphis e Misraïm766. Il Rito di
Memphis e Misraïm riceve dunque sia l’adesione di Rudolf Steiner sia quella di
figure che sono generalmente ritenute protagoniste delle cosiddette radici occulte
del nazionalsocialismo, come i citati Franz Hartmann e Rudolf von Sebottendorff.
Su queste figure è opportuno soffermarci al fine di valutare come l’ambiente
762
Dal sito ufficiale dell’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraúm: http://www.iss-icmemphis-misraim.com. L’incarico per la Germania, anche nel testo di King e Ordo Templi
Orientis (1981), da prendere in considerazione con cautela, viene datato al 24 settembre 1902 e
sarebbe stato conferito a Hartmann, Reuss e Kellner dallo Yarker.
763
Reuss avrebbe ottenuto dallo Yarker, nel 1902, la patente per aprire l’Antico e Primitivo
Rito di Memphis e Misraúm in Germania (Dal sito ufficiale dell’Antico e Primitivo Rito di
Memphis e Misraúm: http://www.memphismisraim.it/). Sarebbe poi Reuss, alla morte di Yarker,
a divenire International Grand Master dell’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraúm,
ricoprendo il ruolo fino al 1924 (Dal sito ufficiale dell’Antico Rito di Memphis-Misraúm. http://
www.iss-ic-memphis-misraim.com) sebbene tale passaggio non trovi uniformità di valutazione.
Secondo alcuni l’antroposofo Rudolf Steiner diede la propria adesione ad una società che
apparteneva alla corrente rappresentata da Yarker ed aveva le forme massoniche dei cosiddetti
Gradi Superiori e ricevette da costui una patente del Rito Riunificato di Memphis e Misraïm e
la richiesta di tenere alcune conferenze a beneficio dei fratelli del Rito (Apis 2001: 14-15). Da
ricostruzioni interne all’ambiente antroposofico italiano (Corrispondenza del 18-22 settembre
2008 con Clemente Bonaventura) Rudolf Steiner sarebbe entrato direttamente in contatto con la
cerchia di John Yarker, a partire dall’anno 1905, tramite Theodor Reuss, che Steiner non avrebbe
stimato, ma che funzionò unicamente da tramite, tanto che lo avrebbe incontrato solo due volte,
per la trasmissione delle necessarie patenti, e poi non volle mai più incontrarlo. Rudolf Steiner,
sempre secondo le suddette testimonianze, avrebbe ricevuto nell’Istituzione di Yarker il grado
di 33.’.90.’.96.’., il più alto dopo quello di Gran Hierophante dello stesso Yarker, e il riconoscimento come Gran Maestro del Rito Egiziano di Misraïm e non del Memphis per la Germania.
764
Dal sito ufficiale dell’Antico e Primitivo Rito di Memphis e Misraúm: http://www.iss-icmemphis-misraim.com. Si trova conferma di ciò anche nel testo di King e Ordo Templi Orientis
(1981) che fissa la data di ingresso di Rudolf Steiner nell’Antico e Primitivo Rito di Memphis e
Misraúm al 1906. Secondo fonti interne all’ambiente antroposofico italiano si asserisce che
Rudolf Steiner, allo scopo di rivivificare il rito massonico di Misraïm e Memphis, richiesto in tal
senso da esponenti di quella Loggia, diede loro il “Rituale della Mistica Eterna” (Corrispondenza
del 27 agosto 2008 con Marco Allasia, col quale sono stato messo in contatto da Marina Sagramora
de L’Archetipo – Mensile di ispirazione antroposofica).
765
Apis 2001: 14-15.
766
Bardanzellu 2000: 75; Bronchud 2007: 217.
143
misraïmita e memphitico, con l’intreccio di conoscenze e collaborazioni dei suoi
aderenti, possa aver rappresentato l’anello di congiunzione tra diversi, ma
contigui, saperi iniziatici e speculazioni esoteriche. Franz Hartmann (18381912), uno dei più instancabili divulgatori del pensiero teosofico, era stato sin
dalla fine dell’Ottocento, assieme al giovane Rudolf Steiner, un habitué di un
circolo di teosofi di Vienna767.
Propugnatore di un culto solare che contribuì a dare slancio al naturismo
come passaggio di energia di livello superiore tra il sole e il corpo e sostenitore di
un passato ricco di razze superiori, è anche tra i primi a mostrare sulla copertina
di una pubblicazione tedesca il simbolo dello svastica768. Hartmann fece, inoltre,
parte, come accennato, della Guido-von-List-Gesellschaft a partire dal 2 marzo
del 1908, e paragonava l’importanza dell’opera di List sui geroglifici a quella di
Iside Svelata della Blavatsky, lodandolo per aver scoperto la congruenza delle
dottrine germaniche e indù769. Animatore e divulgatore del pensiero esoterico
dell’epoca, Hartmann risulta inoltre essere stato iniziato all’ariosofia di Lanz von
Liebenfels770. Gli ariosofi, ovvero i seguaci di Guido von List e di Jörg Lanz von
Liebenfels (1874-1954) combinavano, all’interno del loro sistema di pensiero,
nazionalismo völkisch tedesco e razzismo con nozioni occulte ed erano soliti
scagliarsi contro gli ebrei771.
Guido von List, pangermanista e antisemita, rimane a tutt’oggi una delle
figure più complesse di mistico e germanista völkisch, è stato il primo scrittore
popolare a combinare l’ideologia con l’occultismo, la teosofia e il culto di Wotan,
e il suo pensiero, che indicava nella cristianizzazione dei germani la ragione della
loro decadenza, godette di amplia stima all’interno del nazionalsocialismo772.
Occultista tra i più influenti della sua epoca, operava una commistione tra
natura e storia dove la prima era intesa come guida divina e guida al divino,
secondo il principio che tanto più una cosa è vicina alla natura, tanto più è vicina
alla verità. Si dedicò inoltre approfonditamente allo studio delle rune per il
recupero dell’antica sapienza germanica773.
Quando la loggia berlinese della Guido-von-List-Gesellschaft si sciolse, nel
1912 i suoi membri, tutti esperti praticanti di divinazione runica, yoga runico ed
esoterismo in genere, entrarono a far parte del Germanenorden da cui originò la
Thule-Gesellschaft, nella quale ebbe ruolo centrale Rudolf von Sebottendorff e
della quale il Deutsche Arbeiterpartei (DAP), primo nucleo del partito nazionalsocialista (NDAP), rappresentava il braccio politico774. Jörg Lanz von Liebenfels
si dedicò come monaco cistercense ad approfondite ricerche sui testi apocrifi e
gnostici e nel 1899, rinunciando ai voti, divenne uno dei più noti ariosofi
antisemiti e nemici del cristianesimo, includendo però Gesù, manifestazione
della forza spirituale primigenia, tra gli appartenenti alla razza ariana775.
767
768
769
770
771
772
773
774
775
144
Goodrick-Clarke 1985:
Tombetti 2005: 48-49.
Goodrick-Clarke 1985:
Goodrick-Clarke 1985:
Goodrick-Clarke 1985:
Goodrick-Clarke 1985:
Mosse 2008: 108-110.
Tombetti 2005: 61.
Tombetti 2005: 64-69.
50.
53, 70-73, 86; Tombetti 2005: 54.
300.
300.
57, 65-89; Tombetti 2005: 53-64).
Pubblicò il periodico Ostara, del quale Hitler possedeva cinquanta numeri, e
fondò, attorno al 1907, il razzista Ordo Novi Templi, di cui fece parte anche Guido
von List e sulla cui frequentazione da parte di Hitler, che verrebbe confermata
dallo stesso Lanz in una intervista del maggio 1951, il dibattito è ancora aperto,
pur riconoscendosi da parte di tutti l’influenza del mistico ariosofo sul futuro capo
della Germania nazionalsocialista776.
Una delle figure legate all’Ordo Novi Templi è, inoltre, Karl Maria Wiligut
che nel 1933 si unirà alle SS, con lo pseudonimo di Karl Maria Weisthor,
partecipando accanto ad Himmler al disegno di rituali e cerimonie, tanto da
essere definito da alcuni il mago personale del Reichsführer prima delle sue
dimissioni del 28 agosto del 1939 per motivi di salute777. L’influenza degli scritti
di Jörg Lanz von Liebenfels assunse dimensioni rilevanti e anche all’interno del
movimento dei Wandervögel venne consigliata, dalla frazione più apertamente
antisemita, la lettura dei suoi testi778. Rudolf von Sebottendorff fu un ammiratore
dell’ariosofia e figura di riferimento della Thule-Gesellschaft della quale fece
parte non solo Jörg Lanz von Liebenfels, ma anche i futuri nazionalsocialisti
Gottfried Feder, Dietrich Eckart, Alfred Rosenberg e Rudolf Hess779. Quest’ultimo noto per le sue simpatie antroposofiche e sostenitore, come precedentemente
esposto, delle attività antroposofiche all’interno del nazionalsocialismo780.
Da un’indagine in ambienti antroposofici italiani, che hanno contatti con il
lascito di Rudolf Steiner in Svizzera, Rudolf Hess non risulterebbe aver posseduto la tessera della Società Antroposofica, ma sua moglie era certamente legata
agli ambienti antroposofici della Christengemeinschaft, e i sentimenti antroposofici di Hess appaiono più che probabili, come aveva fatto presente il volontario
Pio Filippani Ronconi.
In conclusione di queste ricostruzioni è possibile asserire che l’ambiente
misraïmita e memphitico abbia rappresentato il terreno culturale e esoterico che
è stato al centro e ha contribuito ad uno scambio di sapere tra il pensiero
steineriano, quello ariosofico e quello di Sebottendorff, questi ultimi due generalmente considerati come precursori del cosiddetto nazismo esoterico.
Interessante è, all’interno di questo quadro ricostruttivo, tenere presente
come in tale ambiente esoterico misraïmita e soprattutto memphitico Ferdinando Francesco degli Oddi, padre del volontario Carlo Federico citato come amico
di Rudolf Hess, rivestì un importantissimo ruolo. Tanto che egli venne ringraziato per la sua costante abnegazione nella fondazione, consolidamento e riorganizzazione del rito e la sua opera considerata la miglior garanzia per il futuro
dell’Ordine781. Ma poiché, come fa notare Jünger, il rischio di perdersi nel
labirinto degli Ordini è elevato, è bene puntualizzare che, in base agli intrecci in
parte ricostruiti che hanno consentito di gettare luce sull’ambiente famigliare di
Carlo Federico degli Oddi e alle parole di Pio Filippani Ronconi, il legame di alcuni
776
Goodrick-Clarke 1985: 96, 167; Tombetti 2005: 69-74; Mosse 2008a: 111-113; 438.
Goodrick-Clarke 1985: 259, 263, 273; Tombetti 2005: 176-180. Sarà proprio Wiligut a
muovere le principali critiche a Julius Evola nel 1939 (Goodrick-Clarke 1985: 272).
778
Mosse 2008a: 268.
779
Goodrick-Clarke 1985: 218, 307. Si veda in proposito anche il testo del 1933 dello stesso
Sebottendorff (1987).
780
Staudenmaier 2007: 11.
781
Gabirro 2002: 138.
777
145
membri italiani delle Waffen-SS con un ambiente esoterico connesso alla dottrina steineriana appare assai probabile. Nel caso del primo volontario attraverso
la frequentazione di Colazza e nel caso del secondo attraverso la frequentazione
e conoscenza dell’ambiente paterno dal quale originò la conoscenza di Rudolf
Hess ad Alessandria d’Egitto782.
Come visto, percorrendo e tentando di districare certi legami, essi sembrano
rimandare anche ad ambienti esoterici dell’ariosofia e direttamente alla ThuleGesellschaft. Ad un collegamento a livello di conoscenze esoteriche con la ThuleGesellschaft fanno riferimento, del resto, anche alcuni scritti dello stesso Filippani Ronconi783, ma il legame che appare più marcato sembra proprio quello con
la dottrina antroposofica.
Al fine di gettare maggiore luce non solo sui legami emersi a livello
famigliare, ma anche e soprattutto direttamente su quelli personali del volontario Carlo Federico degli Oddi, si è deciso di ricorrere a ricerche in ambiente
antroposofico italiano. Da queste risulta che il volontario Carlo Federico degli
Oddi fosse in stretto contatto sia con Ettore Martinoli sia con Giovanni Colazza,
come risulterebbe nell’archivio della corrispondenza del Gruppo Antroposofico
diretto dal Colazza stesso784.
Emerge, dunque, un legame personale tra il volontario degli Oddi e Colazza,
discepolo di Steiner, che consente di asserire che il volontario degli Oddi, anche
alla luce dell’ambiente famigliare in cui crebbe, possa considerarsi a tutti gli
effetti un membro dell’ambiente antroposofico nazionale e internazionale. Inoltre, Ettore Martinoli, al quale Carlo Federico degli Oddi fu legato, era un fascista,
notoriamente antroposofo785, che lavorò presso gli uffici dell’Ispettorato generale
della Razza e fu direttore del Centro per lo studio del problema ebraico di Trieste,
uno dei più attivi centri alle dipendenze dell’Ufficio razza del Ministero della
Cultura popolare786. Posizione che conservò, anche in qualità di capo della
Divisione studi e propaganda, sino al marzo del 1945787.
Martinoli collaborò, inoltre, agli ultimi numeri de La Vita italiana assieme
782
La conoscenza giovanile tra Rudolf Hess e Carlo Federico degli Oddi sarebbe avvenuta ad
Alessandria d’Egitto, frutto di frequentazioni tra le due famiglie. Rudolf Hess è effettivamente
nato ad Alessandria d’Egitto nel 1894 da famiglia benestante. Il padre bavarese, lavorava
nell’import/export, e la madre apparteneva a una nota famiglia di Alessandria di discendenza
greca. Francesco Ferdinando degli Oddi, emigrato in Egitto nel 1865, era tra gli animatori della
vita culturale e politica di Alessandria d’Egitto, dove insegnò anche inglese e francese alla Scuola
Italiana, e fondò due riviste: “Idotea”, rivista letteraria e artistica sorta nel 1870, e “La Fama”,
periodico pubblicato in italiano, greco e arabo, tra il 1868 e il 1883 (Marchi 2010: 96). Appare,
dunque, altamente probabile che i due giovani si siano conosciuti all’interno del ristretto
ambiente internazionale dell’Alessandria d’Egitto di fine Ottocento – primi Novecento.
783
Il volontario Pio Filippani Ronconi menziona la Thule-Gesellschaft, come già fatto
presente, all’interno del suo memoriale. Ma è in un suo articolo su Román Fiodórovic von UngernSternberg, pubblicato su L’Archetipo – Mensile di ispirazione antroposofica, che egli nomina
ancora la società segreta: «in un angolo della lontanissima Europa, nelle Germania sconquassata
del primo dopoguerra, il mito del Re del Mondo giungeva per vie misteriose a gruppi di giovani
intellettuali, corroborando con il suo simbolo solare i nuovi mediatori del “Vril” e le assisi della
Thule-Gesellschaft».
784
Corrispondenza del 18-22 settembre 2008 con Clemente Bonaventura.
785
Beraldo 2006: 95.
786
Germinario 2008: 104; Raspanti 2008: 114.
787
Raspanti 2008: 115.
146
a Giulio Cogni, Telesio Interlandi, Lidio Cipriani ed a quel Massimo Scaligero788,
anch’egli studioso di Steiner, col quale, come visto, ebbe un rapporto di amicizia
anche il volontario Pio Filippani Ronconi. Allo stesso Scaligero sarebbe stato
legato, inoltre, lo stesso Carlo Federico degli Oddi789. La presenza di una
componente antroposofica all’interno della 29ª Waffen-Grenadier-Division der
SS, sinora lasciata solo intuire da alcune pubblicazioni, trova, inoltre, la sua
conferma anche a livello iconografico nel simbolo adottato dalla divisione
italiana790.
Oltre alla suddetta presenza di una componente antroposofica emergono,
inoltre, influenze che, pur ricollegandosi al medesimo ambiente, appaiono più
articolate. Carlo Federico degli Oddi era legato anche ad Aniceto del Massa791,
scrittore, poeta, critico d’arte, cultore di scienze esoteriche, amico di Ezra Pound
e agente del controspionaggio della RSI, che partecipò alla campagna antisemita
del fascismo su posizioni che rifiutavano il concetto biologico di razza792.
Riprendendo le dichiarazioni di Pio Filippani Ronconi, è utile focalizzare
l’attenzione sulla figura di Giuseppe Tucci che egli cita tra i suoi riferimenti e le
sue conoscenze. Come precedentemente citato, il volontario rivela un precoce
talento per le lingue classiche e viventi, e negli anni di apprendistato spirituale
con Colazza lavora come lettore dei radiogiornali E.I.A.R.793 in lingua straniera
a contatto con Giuseppe Tucci794. Quest’ultimo, cofondatore dell’Is.M.E.O., risulta legato al tedesco Karl Haushofer, esperto di geopolitica e studioso di esoterismo, che invita due volte a Roma, nel 1937 e nel 1941, per tenere un ciclo di
conferenze795.
Haushofer è indubbiamente una persona chiave all’interno dell’ambiente
esoterico nazionalsocialista796 e non è trascurabile il fatto che tra questi e Tucci
fosse nata una amicizia ed una solida intesa sulle comuni teorie eurasiatiche797.
L’Ahnenerbe, istituto delle SS per lo studio dell’eredità ancestrale, rifiuterà un
saggio di Tucci sul Tibet in quanto esso avrebbe anticipato parte dei risultati
788
Raspanti 2008: 129.
Corrispondenza del 18-22 settembre 2008 con Clemente Bonaventura. Proprio secondo
tale fonte, che Scaligero ha conosciuto a lungo e bene, quest’ultimo parlava in termini altamente
elogiativi del pensiero e degli scritti di quel Franz Hartmann al quale si è fatto riferimento nella
ricostruzione degli intrecci esoterici.
790
Piscitelli 2006: 372-374.
791
Corrispondenza del 18-22 settembre 2008 con Clemente Bonaventura.
792
Iacovella 2006: 163-167.
793
Ente Italiano per le Audizioni Radiofoniche.
794
Piscitelli 2006: 371. Si tenga presente che Tucci sin da giovane, allievo dell’orientalista
Carlo Formichi, frequenta gli ambienti esoterici italiani e conosce presto il neopagano e dirigente
massone Arturo Reghini, anch’egli iniziato del Rito Orientale di Memphis e amico personale del
già citato Del Massa (Iacovella 2006: 163-167), il poeta antroposofo Arturo Onofri, Julius Evola
e il teosofo e iniziato del Rito Filosofico Italiano Roberto Assagioli (Rossi M. 2006: 54-55). Reghini,
che conobbe personalmente René Guénon, è una figura centrale della scena esoterica e massonica
italiana, fu il fondatore del Gruppo di Ur, operante tra il 1927 e il 1929, che studiava e proponeva
diverse tecniche di realizzazione spirituale e al quale parteciparono, insieme ad altri, anche
Julius Evola, Aniceto Del Massa e Giovanni Colazza (Santangelo 2006: 259-263).
795
Zagni 2004: 122-125; Grossato 2006: 276. Hakl 2006: 234, 239
796
Sulla figura di Karl Haushofer si vedano tra gli altri: Jacobsen 1979; Zagni 2004; Tombetti
2005; de Turris 2006.
797
Grossato 2006: 48-51; Hakl 2006: 239.
789
147
della spedizione tedesca voluta da Himmler798.
Tali contatti, personali e istituzionali, evidenziano il profondo livello di
relazioni che si era stabilito tra l’ambiente esoterico e di studio delle religioni
italiano e quello nazionalsocialista delle SS, contatti che Tucci intrattenne anche
con un’altra influente personalità legata all’Ahnenerbe, Theodor Illion799. Sarà
Tucci che per la pubblicazione del primo numero di East and West, rivista di
scienza delle religioni fondata nel 1950, chiamerà per il posto di redattore proprio
l’antroposofo Massimo Scaligero, amico di Carlo Federico degli Oddi e anch’egli
discepolo di Colazza. È inoltre utile notare come anche il segretario di Giuseppe
Tucci, l’orientalista Mario Bussagli, sia stato legato alle idee antroposofiche di
Massimo Scaligero800.
In questo percorso all’interno di quelle che Jünger definisce “le vie segrete e
le arcate a volta, la cui direzione e l’avvio nessuno storico può indovinare801”, è
emersa inequivocabilmente la presenza non solo di una componente antroposofica interna alle Waffen-SS italiane, ma anche una serie di legami, ad essa
correlati, che pongono in diretto contatto l’ambiente esoterico italiano con quello
tedesco e con l’Ahnenerbe. Karl Haushofer è, infatti, una figura ancora oggi
enigmatica all’interno del Terzo Reich che si ricollega alle stesse origini e ascesa
al potere del nazionalsocialismo. Egli infatti, che come visto era legato da un
rapporto di amicizia e stima con Giuseppe Tucci, rese visita a Rudolf Hess, amico
d’infanzia del volontario degli Oddi, mentre questi si trovava in carcere con Hitler
nella prigione di Landsberg in seguito al tentato colpo di Stato del 1923802.
La guerra e la morte: il destino
È importante comprendere quale peso narrativo all’interno dell’esposto e
quale importanza all’interno del pensiero dei volontari assumano tematiche
come quelle della morte, della vita e del destino. Si tratta, infatti, di concetti
cardine sia per valutare in maggior dettaglio il vissuto dell’esperienza militare
nelle Waffen-SS sia per comprendere il sistema valoriale che all’interno di quella
militanza animò i volontari.
Per quanto concerne il destino giova riportare testualmente una frase del
volontario Pietro Ciabattini: «io credo fermamente nel destino di un uomo, è il
destino che governa la tua vita e lo devi saper vedere nelle cose che ti accadono,
anche nelle più piccole, se vuoi interagire con lui803». Il volontario Alessandro
Scano ritiene che nella vita di un uomo «tutto è scritto nel libro del destino che
798
Hakl 2006: 240.
Hakl 2006: 248.
800
Hakl 2006: 246. Mario Bussagli, caratterizzato da un profondo interesse per l’esoterismo
e la geopolitica dell’Eurasia, è autore di un libro – testamento, Arte e magia a Siena, che, uscito
postumo, ha suscitato non poche meraviglie e polemiche fra i suoi colleghi che lo hanno accusato
di irrazionalismo, nella sua profonda adesione all’aspetto iniziatico esoterico (Grossato 2006:
276-277). È utile rilevare che Bussagli è di origini senesi, come Carlo Federico degli Oddi e come
il volontario Pietro Ciabattini che del degli Oddi era amico di famiglia.
801
Jünger 2007: 24.
802
Gray e Sloan 1999: 225; Dolcetta 2003: 109; Hakl 2006: 239.
803
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
799
148
ciascuno ha, ma l’uomo partecipa con le sua azioni in ciascuna pagina804».
Emblematico di come l’individuo possa partecipare al destino è il caso del
volontario sudtirolese Karl Nicolussi-Leck, che viene così descritto dal nipote:
«era un uomo di grande responsabilità e personalità e quando ruppe il famoso
accerchiamento805 aveva ricevuto l’ordine di interrompere l’attacco, ma lui con
dieci carri continuò e aprì un varco che permise all’esercito di arrivare e salvare
molti soldati. Si prese la responsabilità di disobbedire e compì un’azione eroica,
lo avrebbero forse fucilato per aver disobbedito, ma sapeva assumersi le responsabilità e aveva un forte senso dell’eroismo che lo portò a quell’azione rimasta
nella storia militare, lui con il suo carro fu il primo a rompere l’accerchiamento806».
Secondo i volontari vi sono, dunque, accadimenti che oltrepassano la volontà
e la ragione umana e i cui scopi sono prefissati dalla forza del destino, ma l’uomo
deve saper riconoscere questa forza, deve comprendere il cammino nel quale essa
lo spinge, perché comprendendo ciò l’uomo saprà vedere ciò che è già stato
compiuto e ciò che tocca, invece, a lui compiere. È compito dell’individuo
interagire col destino che governa il mondo, trovare il modo giusto per partecipare con la propria personalità, con la propria soggettività, al lavoro del mondo.
La certezza della presenza del destino non si traduce negli intervistati in un
atteggiamento di passività, ma piuttosto in uno di partecipazione. Se vi è un
destino che governa i fenomeni della storia umana, i volontari sentono di
concorrervi attraverso il loro atteggiamento e le loro azioni, assecondandolo o
modificandolo dall’interno. Le vicende storiche pongono, dunque, l’uomo a
confronto con se stesso e rappresentano il quadro del proprio destino che si
inserisce e interagisce, attraverso la traduzione in azioni dei propri sentimenti
e del proprio sentire, con le leggi dell’ordine universale. La legge universale, il
destino, assume la stessa forma del divenire organico e delle leggi della natura
delle quali è bene riconoscere l’evidenza se vi si vuole partecipare con consapevolezza ed assolvere al proprio ruolo facendo ricorso alla propria spinta ideale.
I volontari non usano pressoché mai o molto raramente termini come “buona
sorte” o “fortuna”, ma quasi sempre “destino”. Le prove del destino individuale
si fondono con quelle della storia nazionale, impegnando la vita dell’individuo in
dinamiche che si potrebbero definire organicamente funzionali alle leggi dell’ordine universale. Pertanto anche di fronte al pericolo della battaglia, al fischiare
delle pallottole e alla terrificità dei bombardamenti, i volontari non parlano di
buona sorte, di fortuna, che li ha fatti sfuggire alla morte, ma di destino.
Gli intervistati rifiutano l’idea che sia il caso a governare la sorte del singolo,
le cui vicende, e dunque anche i propri fatti narrati, assumono un significato
all’interno delle dinamiche superiori di un più ampio destino che governa la storia
delle nazioni. Emerge una concezione organicistica della storia, all’interno della
quale il destino del singolo concorre al destino delle nazioni e dell’umanità, una
concezione che sembra ricalcare quella emersa all’interno dell’analisi della
spiritualità dei volontari, che ha permesso di identificare il ruolo attribuito
804
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Si tratta della già citata battaglia di Kovel.
806
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
805
149
all’uomo come parte di una più vasta natura vissuta come eterna rappresentazione del sacro che anima il mondo.
Le leggi che governano la storia, sia quella più vasta sia quella del singolo,
e che i volontari identificano col termine “destino”, ricordano dunque le leggi
attribuite alla natura.
Nel quadro concettuale dei volontari intervistati si può dunque asserire che
l’individuo, attraverso l’interazione attiva col proprio destino, eserciti la propria
consapevolezza di avere una storia della quale egli è il soggetto, e la viva così,
conscio che essa è parte organica di una storia più vasta, assecondando le regole
della natura.
La natura, intesa come sacro, diviene pertanto portatrice di storia, non più
umana ma cosmica, perché il destino del singolo si inserisce in quello delle nazioni
e questo in quello universale, e le dinamiche del destino seguono le regole della
natura che hanno nella vita e nella morte i loro principi cardine. Il volontario
Ferdinando Gandini, mostrandomi alcuni suoi quadri e disegni, afferma: «io
disegno per natura, è una passione che mi porto dietro da quando ero bambino,
e disegnavo anche in guerra quando era possibile ... il mio quadro preferito è
quello in cui ho dipinto due strade, le nostre vite corrono parallele verso la vita
e verso la morte, all’inizio le due strade sembrano distanti, ma più osservi in
lontananza più si avvicinano in un punto che non vedi, quale strada sia meglio
e quando non si può dire, perché siamo parte delle leggi del creato e nostro
compito è percorre la nostra strada con quella consapevolezza del vivere che ti fa
agire con serenità, con gioia807».
Diviene importante comprendere come, all’interno di questa concezione del
destino, i volontari italiani nelle Waffen-SS vissero la propria esperienza militare
rispetto alle tematiche della guerra e della morte. Come precedentemente
accennato, lo stile narrativo che accompagna la descrizione della propria esperienza di guerra si caratterizza per la mancanza di scorrevolezza delle testimonianze che, nella loro frammentarietà e disorganizzazione caratterizzata da salti
temporali, evidenziano stati emotivi, ancora presenti, indicativi della drammaticità e traumaticità di quell’esperienza.
Se condividere un’esperienza traumatica diviene un modo di volgere al
positivo l’esperienza stessa808, nel caso dei volontari intervistati il processo di
ricostruzione dei propri pensieri e sentimenti correlati alla guerra è evidentemente rimasto un fatto prevalentemente personale, interiore, che non si è
tramutato nella costruzione organizzata di un narrato da offrire a terzi. È infatti
rilevante ribadire che tra le persone contattate per la concessione di un’intervista, molte non avevano raccontato neppure ai propri figli di essere stati membri
delle Waffen-SS, e ciò in diversi casi ha rappresentato un impedimento alla
realizzazione dell’intervista stessa.
Nel caso degli intervistati, molti non avevano mai rivelato, se non alla
moglie, tale adesione e comunque la tematica della guerra era stata affrontata
solo genericamente coi figli, senza mai affrontare dettagliate ricostruzioni del
proprio operato. Il processo di attribuzione di un senso, di un significato, alla
guerra è stato vissuto e organizzato in modo interiore dai volontari e dunque esso,
807
808
150
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
Pennebacker 1990; De Salvo 1999; Lepore e Smyth 2002.
in questa che è stata per molti la prima ricostruzione pubblica, si caratterizza per
un elevato contenuto emozionale.
Il volontario Rutilio Sermonti, nel corso della descrizione del proprio addestramento, afferma: «la guerra è diversa dall’addestramento, il fischio delle
pallottole e il botto delle esplosioni fanno una paura paralizzante, ma come
graduato dovevo fingere coraggio e sprezzo del pericolo e dopo qualche mese
diventai davvero coraggioso809». Anche le parole di un altro volontario, Cirillo
Covallero, non lasciano spazio a quei ritratti che, come evidenziato nell’inquadramento storiografico, descrivono questi volontari come sanguinari innamorati
della guerra o inflessibili soldati politici che risposero al solo credo ideologico. Egli
offre questa descrizione della guerra: «sotto le bombe, con i proiettili delle
mitragliatrici che ti fischiano vicino, la vita non conta nulla, io dovevo andare in
Russia ma siccome mi ammalai, mandarono un altro italiano e ancora ricordo che
piangeva, la guerra fa paura810».
Anche il pluridecorato sudtirolese Josef Tappeiner racconta che «la guerra
era stata un gran casino» ed il figlio Hans descrive un duplice atteggiamento del
padre: «quando beveva qualche bicchiere ci teneva molto alle medaglie, ma se era
sobrio no, ma certo non ha mai nascosto che sapeva che la guerra era perduta e
quando essa finì per lui fu una gioia, perché come dice sempre mio padre chi ha
combattuto davvero è comunque felice della fine, chi ha fatto il cuoco meno811».
Dunque chi ha combattuto davvero, chi ha convissuto con la paura della
morte che la guerra comporta, non evidenzia alcun rimpianto di quell’esperienza,
ma piuttosto ne mette in luce la terrificità. Attraversa il narrato la consapevolezza di aver fatto il proprio dovere di soldato, nonostante la paura della guerra, ma
non emerge alcuna esaltazione della guerra stessa e il coraggio diviene un
percorso che comporta la convivenza con la paura.
Il volontario Scio dichiara: «io non credo che l’uomo sia nato per uccidere, ma
spesso sono le circostanze a far in modo che succeda, io in un certo senso posso dire
che volevo essere sempre il primo, sempre avanti, all’assalto, ed in questo si può
anche dire che la guerra può essere anche bella, nel senso che combatti per
qualcosa di giusto e di superiore a te stesso, combatti per la patria e per l’idea,
ma non c’è nulla di bello nella guerra nel senso dell’uccidere812». Anche il
volontario sudtirolese Luis Innenhofer ribadisce il concetto con parole molto
chiare: «in quel momento quando uno diventa nemico è nemico, se non spari tu
ti sparano loro, sparare a qualcuno che non hai mai visto e non ti ha fatto nulla
è brutto, ma la guerra è così, è brutta813».
La guerra nelle memorie e nel sentito dei volontari è, dunque, qualcosa non
solo di brutto, ma anche di contrario alla natura stessa dell’uomo. Essa diviene
un evento storico che, pur nella sua bruttezza e disumanità, si incrocia col destino
dell’uomo e come tale viene vissuto ponendo la propria persona al servizio di una
ragione superiore all’individuo stesso, sia questa la patria o l’ideale. La cosa bella
può divenire, pertanto, il servire il proprio ideale prendendo parte alle vicende
809
810
811
812
813
Intervista del 8 giugno 2008 col volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Intervista del 13 ottobre 2009 col volontario Josef Tappeiner e col figlio Hans Tappeiner.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
151
storiche e alle dinamiche del destino, ma non è possibile amare la guerra per la
sua stessa natura disumanizzante.
La maggior parte dei volontari nel corso dell’intervista non mira in alcun
modo ad attribuirsi caratteristiche proprie del guerriero senza paura e l’esposto
relativo all’esperienza di guerra si fonda sulla consapevolezza che «la guerra fa
paura e è sempre un male, da una parte e dall’altra814». Ciò che aiuta a superare
la paura della guerra e della morte è indicato dai volontari o «in qualcosa di
superiore che in quel momento ti porta a mettere la tua persona al servizio di
quell’idea815» o in un non meglio definito «sentire che è giusto prendere parte alle
cose schierandosi da una parte piuttosto che dall’altra, perché non sei fatto per
stare con le mani in mano816». Racconta Enrico di Robilant, figlio del volontario
Carlo Manfredo di Robilant, che si arruola volontario nelle Waffen-SS all’età di
settanta anni: «aveva deciso di prendere parte attiva alla difesa della patria,
seguendo i valori che lui riteneva doverosi per un ufficiale, come ufficiale non
voleva fare l’imboscato, era un uomo di settanta anni, ma l’imboscato non si
addiceva a lui e richiese di essere preso in servizio, servizio che aveva lasciato col
grado di generale di brigata817».
Il volontario Pio Filippani Ronconi, che come visto, per alcuni tratti riconducibili alle sue conoscenze tradizionali e iniziatiche, rappresenta una figura
particolare all’interno dei volontari oggetto della ricerca, intervistato sulle
ragioni del suo volontariato, risponde con naturalezza: «ad arruolarmi mi ha
spinto il dovere, è tanto semplice. Il Paese è in guerra, io sono giovane e uomo,
quindi è mio dovere di italiano andare a combattere818».
Pietro Ciabattini afferma di aver fatto sempre domanda di volontario perché
è «giusto e doveroso partecipare alla vita della patria, non si può infischiarsene,
anche se la guerra fa paura e ancora di più lo faceva mentre le mitragliatrici degli
angloamericani ti sparavano addosso819». Dello stesso avviso è il volontario
Giuliano Bortolotti che, raccontando le sue peripezie e le sue pressioni per farsi
arruolare, dichiara: «ero giovane, non potevo restare indifferente davanti a
quello che stava avvenendo820».
Ma sono le parole del volontario Rutilio Sermonti che descrivono in dettaglio
quello che si potrebbe definire il vitalismo partecipativo dei volontari: «non si può
stare imboscati con le mani in mano, bisogna sempre fare il proprio dovere con
la consapevolezza di farlo a qualsiasi costo, serenamente, e non con l’aria di fare
chissà che cosa821».
814
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
816
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
817
Intervista telefonica del 10 giugno 2008 ad Enrico di Robilant, figlio del volontario Carlo
Manfredo di Robilant. Questa scelta di volontariato e di partecipazione ai destini della nazione
non è una novità per Carlo Manfredo di Robilant. Racconta, infatti, il figlio relativamente alla
prima guerra mondiale: «mio padre era ufficiale durante la prima guerra mondiale ed era
diventato tenente colonnello e poi generale di brigata. Era nella cavalleria che però non veniva
impiegata e allora chiese ed ottenne di passare in fanteria dove ebbe il comando di un battaglione.
La cavalleria non veniva adoperata e lui non voleva stare imboscato con le mani in mano».
818
Capano 2001.
819
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
820
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
821
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
815
152
Un vitalismo che senza dubbio è spesso anche riconducibile ad una missione
vissuta come superiore, sia essa la patria o l’ideale, ma che si delinea soprattutto
come conseguenza di quel concetto di destino individuale precedentemente
esaminato che richiama il volontario a prendere parte, in modo naturale, al
destino nazionale e a quello universale.
Questa concezione si riflette in modo evidente nel narrato del volontario
Cirillo Covallero che racconta come l’8 settembre 1943, sentito il comunicato
radio e avendolo interpretato come una resa, egli avesse gridato di gioia per la
fine della guerra, per riflettere solo successivamente che la guerra, quella più
dura, sarebbe cominciata solo allora. Lo stesso volontario, infatti, racconta come
a poca distanza di tempo, fatto prigioniero dei tedeschi e ritrovatosi in un campo
di prigionia, avesse deciso di arruolarsi volontario: «nel campo di prigionia ci
chiesero se volevamo andare nelle SS, alcuni mormoravano che erano battaglioni
d’assalto e che era pericoloso, e io pensavo subito che volevo andarci, sono stato
il secondo a farmi avanti, perché non volevo fare come quegli ufficiali che
prigionieri come noi stavano lì a lamentarsi del cibo mentre la guerra invece
continuava, non potevo stare lì nel campo ad aspettare, certo avrei avuto i miei
pasti, ma io non volevo stare a guardare e l’idea di farlo nelle SS mi dava
entusiasmo822».
Se gli ideali e l’amore per la patria rappresentarono, per la maggior parte
degli intervistati, motivazioni importanti per vincere la paura della guerra, per
tutti giocò però indubbiamente un ruolo chiave un senso del dovere inteso come
partecipazione attiva al proprio destino e ad un destino storico superiore nel
quale far confluire il proprio. Non vi è dubbio, dall’analisi del narrato, che se la
paura della guerra e il considerarla nella sua disumanità caratterizza tutti gli
intervistati, tale paura e disapprovazione della guerra furono superate proprio
in virtù di un concetto di destino individuale e collettivo che si tramutò in «dovere
dell’azione823» inteso come vitalistica partecipazione al corso della storia.
Ma è la tematica della morte che merita un ulteriore approfondimento sia in
correlazione al tema della guerra precedentemente trattato sia per il ruolo che
alla concezione della morte viene da più parti attribuito, sia dalla saggistica sia
della memorialistica, all’interno dell’ideologia e del sentire fascista824. Innanzitutto bisogna specificare che la tematica della morte, all’interno del narrato
connotato da frammentarietà e forte emotività che riguarda l’esperienza di
guerra degli intervistati, si arricchisce di una duplice complessità sottotematica.
Emerge, infatti, il tema del ricevere la morte per mano nemica e quello di dare
la morte al nemico. Ovviamente le due sottotematiche si intrecciano e compongono insieme la tematica generale della morte, ma entrambe necessitano
un’analisi sia specifica sia reciproca. Il volontario Adolfo Simonini, che per le sue
doti combattentistiche era soprannominato “cento pistole”, afferma di aver
sparato molto in combattimento e di aver ucciso il nemico, ma specifica: «non ho
mai ucciso nessuno da vicino825». È il volontario Cirillo Covallero a legare
822
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
824
Griffin 1991: 141-143; Jesi 1993: 11-66; Mazzantini 1995. In particolare si faccia
riferimento all’analisi dello Jesi (1993) che prende in esame la tematica della morte all’interno
dei fascismi italiano, rumeno, spagnolo e tedesco.
825
Intervista del 2 ottobre 2010 al volontario Adolfo Simonini.
823
153
espressamente la bruttezza della guerra alle due sottotematiche che la morte
genera all’interno del narrato dei volontari affermando: «la guerra è una brutta
bestia e non andrebbe mai fatta, ci si trova sotto le bombe con la paura di morire
e ci si trova in postazione per ammazzare826».
Sul tema della morte inflitta al nemico appaiono, inoltre, rilevanti le parole
pronunciate dal volontario Rutilio Sermonti che dichiara: «un vero combattente,
un guerriero, deve essere duro, spietato finché il nemico ha l’arma in pugno, ma
quando è disarmato basta, ti vergogneresti per tutta la vita a colpire una persona
disarmata, io ho partecipato a circa quaranta combattimenti, ma giuro che non
ho mai odiato quelli che mi sparavano addosso, facevano quello che facevo io, il
loro dovere vero o presunto. È per questo che non ho mai potuto sopportare il greco
Achille, non ho mai potuto sopportare il suo odio e la sua ferocia contro il nemico
Ettore, per avere questi ucciso il suo amico Patroclo, ma il Pelide non si chiese
quali intenzioni avesse Patroclo quando affrontava Ettore? Voleva forse offrirgli
un caffè, una colazione?827».
Sulle modalità di combattimento e di gestione dei prigionieri, specie di quelli
appartenenti alle forze partigiane, vi sarà modo di approfondire il narrato dei
volontari più avanti all’interno della tematica della guerra civile, ma giova sin
d’ora far presente come la memoria degli intervistati presenti, in quel caso,
situazioni eterogenee e non sempre sovrapponibili alle modalità di combattimento riportate dal volontario Sermonti. In questo caso, in cui il nemico dei volontari
è costituito da altri italiani che militano nella Resistenza, il narrato degli
intervistati si arricchisce di toni di disapprovazione per le modalità combattentistiche adottate dai partigiani. Secondo gli intervistati, infatti, non vestendo
questi ultimi un’uniforme, essi avrebbero violato uno dei principi cardine della
guerra che è collocato nella «riconoscibilità del nemico828» e nella conseguente
possibilità di «combattere tutti nelle stesse condizioni829».
I volontari italiani nelle Waffen-SS identificano nella mancata adozione
dell’uniforme da parte partigiana non soltanto una violazione del codice di
guerra830, ma anche e soprattutto di quello spirito cavalleresco che a loro avviso
dovrebbe animare la guerra come ultimo baluardo di umanità in un contesto
disumanizzato. Ma pur emergendo disapprovazione per il mancato uso dell’uniforme da parte dei partigiani, non si evidenzia nel narrato alcun sentimento di
odio verso il nemico e questi scontri vengono descritti come: «guerra fratricida831»;
«guerra tra fratelli832»; «la peggior disgrazia che la guerra può dare in sorte a un
popolo833».
826
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
828
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
829
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
830
Sulla problematica della mancata adozione di un’uniforme da parte partigiana vi sarà
modo di tornare nel corso dell’analisi sulla guerra civile. Per il momento si tenga presente che
la condizione dei belligeranti che prendono parte ad una guerra senza vestire un’uniforme è
ancora oggi assai dibattuta e al centro di svariati studi e interpretazioni. Si vedano in proposito:
Dörmann 2003; Watkin 2003; Watkin 2005.
831
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
832
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
833
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
827
154
Ciò che assume rilievo all’interno della presente analisi è che all’interno del
narrato complessivo dei volontari non si ravvedono mai atteggiamenti compiaciuti nell’aver ucciso il nemico e neppure nell’aver condotto azioni militari di
successo. Lo scontro col nemico rimane sullo sfondo del narrato e richiede uno
stimolo dell’intervistatore affinché venga affrontato dai volontari nel corso
dell’intervista.
Alla miglior comprensione di questo atteggiamento, che inizialmente potrebbe essere interpretato esclusivamente come reticenza, contribuiscono le dichiarazioni dei volontari stessi. Adolfo Simonini dichiara: «io non capisco quelli che
dopo la guerra hanno voluto far vedere quanto erano bravi a combattere, io ho
combattuto e basta, ho fatto il mio e non ho bisogno di vedermi con nessuno per
parlare ancora della guerra o che qualcuno mi dica “bravo” per la guerra, la
guerra non è una bella cosa, io ho fatto il mio dovere e basta, non voglio altro834».
Il volontario Giorgio Bernagozzi afferma: «c’è stata la guerra e io, come altri,
ho deciso di combatterla, tutto qui, non capisco quei reduci che passano ore a
parlare della guerra, non c’è niente di bello nella guerra né da una parte né
dall’altra, io penso che uccidere il nemico sia brutto sia per chi vince che per chi
perde, tutta la retorica della guerra non l’ho mai capita835».
Ma sono le parole di Ireneo Orlando a fare definitiva chiarezza sulla
tematica: «in guerra si uccide e si rischia di essere uccisi, la guerra è una cosa
brutta e primitiva, io ho sempre guardato con fastidio a quelli che hanno
trasformato i vincitori in eroi dal volto buono, come se la guerra loro l’avessero
fatta con le caramelle, ma non ho mai potuto sopportare neanche tutta quella
retorica del reduce che portava avanti il neofascismo, io ho combattuto e sono
stato sconfitto, basta, si ricomincia non è che si guarda con nostalgia alla guerra,
che cosa c’è di così bello nell’uccidere o nel vedere morire un tuo camerata? Niente,
ho sentito mio dovere combattere e difendere l’Italia, ma non ho niente da
chiedere o da rivendicare, è stata una mia scelta836».
L’uccidere il nemico è dunque considerato dai volontari un evento traumatico
che contribuisce alla maturazione di un giudizio negativo sulla guerra e l’aver
deciso di combattere, e quindi di uccidere, non è mai rivendicato come tratto
eroico della propria personalità. È inoltre evidente che la retorica della guerra,
sia quella adottata e propugnata dai vincitori sia quella dei vinti, abbia determinato nei volontari una situazione di disagio rispetto alla tematica della guerra
stessa e un blocco alla condivisione della propria esperienza operativa che
consiste, come è ovvio che sia durante la battaglia, nell’uccidere il nemico.
I volontari italiani nelle Waffen-SS, è utile farlo ancora presente, non sono
rappresentati da alcuna organizzazione ufficiale, come avviene invece per le
formazioni della RSI, e pertanto gli intervistati hanno nella loro grande maggioranza elaborato singolarmente, individualmente, l’evento traumatico del dare la
morte e ancora oggi, a tanti anni di distanza, dal loro narrato è evidente come non
affrontino volentieri la rievocazione delle operazioni di guerra compiute che ad
esso si correlano. E piuttosto prendano le distanze dalle rievocazioni propagandistiche della guerra che, a loro avviso, rischiano di trasformarsi in ostentata
834
835
836
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
155
rivendicazione di un presunto eroismo di chi ad esse si presta e in una banalizzazione della terrificità delle guerra.
Per quanto concerne la sottotematica del ricevere la morte per mano nemica,
essa viene narrata dai volontari con franchezza e non emergono tratti superomistici
nell’esposto. La paura della morte all’interno dello scenario di guerra attraversa
il narrato della pressoché totalità degli intervistati, con l’eccezione del volontario
Pio Filippani Ronconi che, coerentemente col quadro ricostruito che lo identifica
come membro della cerchia esoterica interna alla 29ª Waffen-Grenadier-Division
der SS, attribuisce al proprio rapporto con la morte un significato denso di
connotazioni esoteriche837.
Il volontario Cirillo Covallero racconta: «a quelli che dicono di non aver avuto
paura in guerra non bisogna credere, in guerra la paura della morte ti accompagna sempre, anche quando sotto un bombardamento ti trovi con le lacrime agli
occhi ad invocare la mamma, senza accorgertene, perché lo scoppio delle bombe
a poca distanza ti fa vedere la morte da vicino838». Ogni volontario correla la paura
della morte ad un determinato strumento di guerra o a determinate situazioni,
è una paura che talvolta assume sembianze irrazionali, ma che accompagna il
narrato di ciascun intervistato. Adolfo Simonini, ad esempio, non ha paura delle
mitragliatrici nemiche ma i cannoni lo fanno temere per il peggio: «io avevo paura
dei cannoni, i cannoni mi facevano paura, ma le mitragliatrici no ... triiim triiim
triiim ... tanto ero fortunato839».
Il volontario Ireneo Orlando racconta come sia naturale avere paura di
morire in guerra e come questa paura sia sempre in agguato: «la paura della
morte è una compagna di viaggio inseparabile di chi ha scelto di combattere per
un ideale, sai che quella paura va e viene, come sai che la morte può arrivare in
ogni momento perché nel tuo destino c’era e hai scelto la guerra840». Rutilio
Sermonti afferma: «non mi sono sacrificato alla guerra perché certo della vittoria,
ma perché era mio dovere farlo, ho sentito come una vocazione verso la patria
spirituale dell’Europa e ho trascurato la mia incolumità, ora sono qui perché così
ha voluto il destino, ma potevo essere morto io e tanti altri che sono caduti essere
vivi, ma è vero anche che chi è fedele a qualcosa di superiore è immortale, perché
capace di andare oltre la propria pelle, sopra la propria individualità rientrando
837
All’interno del narrato del volontario l’esperienza della guerra assume valore iniziatico
in quanto avvicinandosi alla dimensione della morte ci si avvicina al trascendente. Tutta la
lettura tenuta nel 1997 dal volontario sulle radici storiche e culturali dell’arditismo, nella quale
accenna alla sua militanza durante la seconda guerra mondiale accanto a Carlo Federico degli
Oddi, ma la colloca nella RSI invece che nelle Waffen-SS, traspira di contenuti esoterici nei quali
la morte diviene compagna del guerriero e affiora la tematica della morte-sposalizio. Ma oltre a
ciò, la morte, inflitta e ricevuta, diviene in alcuni passi vero e proprio rito di fondazione: «La morte
e il dolore che infligge al nemico, specie nel corpo a corpo, hanno ragione d’essere quando dànno
esistenza e vita a ciò che li trascende, alla Nazione, alla civiltà, al nuovo ordine, a tutto ciò per
cui i nostri Antichi stimavano doversi sacrificare la propria vita e quella altrui e quanto si avesse
di più caro. Dal sangue versato nasce la rosa spirituale che vivifica noi e le generazioni che
verranno (Filippani Ronconi 1997: 8)». Per un primo inquadramento di tali tematiche in
correlazione con le culture fasciste italiana, spagnola, rumena e tedesca si veda: Jesi 1993: 1166.
838
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
839
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
840
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
156
nel tutto di cui fa parte841».
È dunque ancora la tematica del destino a saldarsi a quella della morte in
modo inscindibile. Il destino personale all’interno del quale è maturata la
decisione di volontariato, che si può tradurre nel morire in battaglia o nel
sopravvivere ad essa, rientra e si diluisce in un più vasto destino, quello del
mondo sconvolto dalla guerra, col quale si fonde in quel dovere dell’azione
precedentemente ricostruito e avvertito come irrinunciabile dai volontari.
Si evidenzia ancora un meccanismo di comunione tra il proprio destino
personale e quello della patria, dell’Europa, dell’ideologia, a seconda dell’intervistato, che comporta il sacrificarsi alla guerra e il convivere con la paura della
morte. Nel narrato complessivo non emerge mai autocelebrazione, ostentato
eroismo, esaltazione della battaglia, ma piuttosto l’accettazione che la propria
morte faccia parte della vita stessa e ancor più all’interno dell’esperienza di
guerra.
Quando viene richiesto ai volontari di descrivere una particolare azione di
guerra alla quale hanno partecipato, la ricostruzione è solitamente priva di
enfasi combattentistica e si pone in un piano narrativo di descrizione operativa.
Ciò anche per coloro che hanno ricevuto decorazioni militari per il loro eroismo
in battaglia. Anche quando alcuni volontari raccontano del proprio ferimento,
non si evidenzia la presenza di toni enfatici nel narrato e tutto è descritto
all’interno di un quadro di normalità, si potrebbe dire di ordinarietà, dello
scenario di guerra: «chi va in guerra mette in conto che ti possano uccidere, se ti
feriscono soltanto vuol dire che nel libro del destino era scritto così e che sei ancora
vivo842».
Il rifiuto della retorica di guerra, precedentemente emerso come caratteristico del pensiero dei volontari, non è dunque limitato al solo giudizio sulla guerra
in generale, ma trova applicazione e riscontro anche nello stile narrativo che
accompagna l’esposizione delle propria esperienza combattentistica.
È indubbio, dalle decorazioni assegnate, che alcuni degli intervistati abbiano
dimostrato sul campo di battaglia un elevato grado di eroismo, ma ciò che anima
i loro racconti è un realismo narrativo delle operazioni di guerra, volutamente
contenute nell’opera di condivisione delle proprie esperienze, che si tramuta,
invece, in un racconto sentito e carico di emotività nella descrizione del rapporto
che la guerra comporta con la morte, tema al quale è invece dato ampio spazio
narrativo.
Si può asserire che le fascinazioni letterarie e le figure eroiche prese a
riferimento dai volontari, analizzate in precedenza, siano state interiorizzate a
tal punto che gli intervistati considerano in un quadro di normalità le proprie
azioni che i vertici militari tedeschi decisero, invece, di riconoscere come eroiche
col conferimento di decorazioni militari. Ma ciò che, invece, non diviene mai
normalità all’interno del flusso narrativo, anche a tanti anni di distanza dagli
eventi, è il rapporto con la morte che la guerra comporta.
Se certamente si trattò di soldati capaci di compiere il proprio dovere, alcuni
dei quali inquadrati nelle divisioni di élite delle Waffen-SS, è proprio la tematica
della morte che colloca il profilo dei volontari intervistati su un piano distinto e
841
842
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
157
differente da quello sinora loro attribuito dalle ricostruzioni della storiografia
resistenziale e di quella di destra. Dall’analisi critica delle memorie raccolte non
appare credibile né il profilo di “fanatici”, “profittatori”, “psicopatici”, “bestie
assetate di sangue” e galvanizzati da una cultura di morte843, di matrice
resistenziale, né quello di freddi esecutori del proprio dovere di dare la morte in
nome di un ideale844, di matrice neofascista.
Cameratismo e comunitarismo
La descrizione dell’esperienza di guerra dei volontari avviene attraverso uno
stile narrativo che non mira a porre in evidenza la propria individualità e
personalità, e si contraddistingue per l’uso generalizzato del “noi” come soggetto
della narrazione.
La pratica del narratore di includere se stesso nel “noi” potrebbe essere
interpretata come rivendicazione di autorità da parte del narratore stesso, che
mirerebbe a porre in risalto come le sue azioni fossero condivise da altri,
assumessero una valenza collettiva845. È però un obiettivo, quest’ultimo, che non
anima pressoché mai il narrato degli intervistati, come dimostra anche la
tematica precedentemente presa in esame dei rapporti con la popolazione non
belligerante. I volontari in quel caso hanno descritto con franchezza i rapporti
intercorsi coi civili, non risparmiando descrizioni di situazioni nelle quali si
sentirono circondati da un clima ostile.
L’uso del noi narrante all’interno della descrizione delle vicende combattentistiche diviene piuttosto rappresentativo di un elemento cardine dell’esperienza
di volontariato militare vissuta: il cameratismo. Tematica che, in modo esplicito
o implicito, anima tutto il narrato che si riferisce alla militanza nelle Waffen-SS.
Per comprendere la valenza di tale tematica è utile prendere in esame le parole
del volontario Cirillo Covallero che, durante la seconda guerra mondiale, militò
in quattro diverse formazioni: gli alpini, prima dell’8 settembre, e successivamente, la 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division, la 29ª Waffen-GrenadierDivision der SS e la Xª MAS846.
All’interno del narrato del volontario trova spontaneamente e frequentemente spazio un confronto tra le varie formazioni nelle quali egli militò. Cirillo
Covallero esprime giudizi durissimi sul corpo degli alpini che confronta ripetutamente e relativamente a diversi aspetti con la 4ª SS-Polizei-PanzergrenadierDivision. Il primo piano all’interno del quale l’intervistato attua un confronto tra
le due formazioni è quello della collaborazione tra soldati, dello «aiuto reciproco
che in guerra è necessario per trasformare tanti singoli individui in una unità
militare847».
843
844
Lazzero 1982: 11; de Lazzari 2002: 10, 33; Caniatti 2010: 159, 201, 205.
Zucconi 1999; Afiero 2001; Afiero 2001b; Afiero 2004; Afiero 2008; Afiero 2009; Afiero
2009a.
845
Tonkin 2000: 64-65.
La Xª Flottiglia MAS era un corpo militare indipendente, ufficialmente parte della Marina
Nazionale Repubblicana della Repubblica Sociale Italiana attivo dal 1943 al 1945, fondato in
seguito all’armistizio da Junio Valerio Borghese che mantenne il nome dalla precedente unità
della Regia Marina della quale era a capo (Greene e Massignani 2008).
847
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
846
158
Il volontario Covallero afferma: «non c’era cameratismo negli alpini, nessuno
voleva portare il fucile, toccava sempre a me, gli abruzzesi facevano gruppo e
dicevano sempre di non farcela, un giorno rimasi molto indietro perché portavo
ancora una volta il fucile mitragliatore e nessuno mi aiutava, nessuno si fermava,
e allora lo buttai nella neve. Il sergente mi disse di riprenderlo o mi avrebbe
sparato, scrollai la testa e gli dissi di prenderlo lui. Non c’era il minimo
cameratismo, neanche nei graduati, era il contrario di ciò che avveniva nelle
SS848».
Si evidenzia, dunque, come la mancanza di collaborazione tra soldati sia
vissuta in modo negativo, vessatorio, e nella critica alla mancanza di solidarietà
tra soldati vengano coinvolti anche i graduati, incapaci di promuovere lo spirito
di corpo. Da queste stesse parole emerge, inoltre, la presenza di un regionalismo,
all’interno del quale gli abruzzesi vengono percepiti dal volontario veneto come
il clan dei pigri che rifiutano i compiti più faticosi, che compromette necessariamente lo spirito di corpo.
Un altro aspetto che interessa il confronto tra gli alpini e la 4ª SS-PolizeiPanzergrenadier-Division è quello del nonnismo. Cirillo Covallero racconta:
«negli alpini gli anziani facevano tanti scherzi antipatici, rubavano la coperta, il
mantello e persino le scarpe, mentre tutto questo nelle Waffen non c’era per
niente, eravamo uniti, casomai quelli più esperti ti aiutavano849». È indubbio che
le pratiche vessatorie perpetrate ai danni delle reclute più giovani descritte dal
volontario mal si sposino con un forte spirito di corpo e soprattutto con «il
cameratismo tra soldati che non dovrebbe mai mancare in guerra850».
Ma ciò che assume qui rilievo è il fatto che non solo l’intervistato faccia notare
come nella 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division tali atteggiamenti non fossero presenti, ma descriva la presenza di una disponibilità dei più esperti ad aiutare
i nuovi arrivati. A tutti gli effetti, nel narrato del volontario, la 4ª SS-PolizeiPanzergrenadier-Division si comincia a delineare come il contraltare positivo del
corpo degli alpini. Ma il giudizio espresso da Cirillo Covallero diviene ancora più
netto nella descrizione dell’equipaggiamento distribuito nei due corpi: «mentre
nelle Waffen-SS l’equipaggiamento che ci davano era uguale per tutti e era anche
funzionale, gli alpini, con i quali sono stato, erano ladri, ci davano gli scarponi di
cartone, tanto che il titolo delle mie memorie poteva essere anche “una pezza da
piedi nella bufera”851, ma se guardavi i graduati, loro avevano le scarpe migliori852».
I fattori di discriminazione citati come presenti negli alpini appaiono piuttosto rilevanti ed eterogenei: il soldato si sente discriminato da una organizzazione
per clan regionali; da supeririori giudicati incapaci di promuovere uno spirito di
corpo; dai più anziani che compiono atti vessatori nei confronti dei più giovani;
da una iniqua distribuzione dei materiali che privilegia graduati ed anziani; ed
anche dal fatto di essere dotato di materiale inadeguato al compito affidatogli.
Per contro, attraverso la descrizione della 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-
848
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Intervista del 2
Intervista del 2
Intervista del 2
Covallero 2007.
Intervista del 2
agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
159
Division come contraltare degli alpini, emergono tematiche che aiutano a stilare
una prima lista di elementi costitutivi del cameratismo: un’unità di intenti e di
comportamenti indipendente dalla provenienza geografica dei soldati; la promozione dello spirito di corpo da parte dei «graduati che vivono assieme alle
truppe853»; la disponibilità dei più anziani ad aiutare le reclute; la fornitura da
parte delle gerarchie militari di materiali consoni al compito affidato. Si tratta
di elementi costitutivi della dinamica del cameratismo che coinvolgono i rapporti
tra soldati, tra soldati e graduati e tra soldati e gerarchie militari responsabili
della progettazione e fornitura del materiale bellico.
Lo stesso volontario Cirillo Covallero condivide un raffronto tra le WaffenSS854 e la formazione militare della Xª MAS, nella quale militò durante la sua
movimentata esperienza di volontariato militare. Egli dichiara: «nella Xª c’era la
prepotenza di certi graduati che arrivavano a usare violenza sui soldati e anche
a usare le armi, mentre nelle SS facevamo la festa del camerata dove bevevamo
e stavamo insieme agli ufficiali855».
Sempre descrivendo la Xª MAS il volontario ricorda: «gli anziani davano
fastidio alle reclute e di notte svegliavano sempre il mio compagno napoletano,
ma a me queste cose non piacevano, coi tedeschi non succedevano, e ho perso la
pazienza, ho preso il fucile e gli ho detto che se non se ne andavano sparavo, tutto
finì». Anche in questo caso emerge come il rapporto coi graduati e con gli anziani
distingua le due esperienze, con una descrizione della 4ª SS-PolizeiPanzergrenadier-Division come formazione nella quale il rapporto tra soldati ed
ufficiali è improntato anche alla condivisione del tempo libero gestito in modo
sereno e comunitario con la pratica della festa del camerata.
Ma la testimonianza del volontario Cirillo Covallero diviene ancora più
esplicita quando egli afferma: «io a partire dal 1942 ho fatto parte di più gruppi,
gli alpini, le SS tedesche, le SS italiane e la Xª MAS, ma il corpo che mi è rimasto
più nel cuore sono le SS tedesche, erano bravi, sinceri, potevi lasciare i soldi in
vista e nessuno li toccava, c’era vera fratellanza e se era successo qualcosa di
sbagliato e i comandanti chiedevano chi era stato o facevi un passo avanti tu o
lo faceva un tuo amico. Eravamo un corpo di persone sincere, oneste e eravamo
tutti molto uniti856».
853
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Il volontario Cirillo Covallero racconta come il cameratismo fosse presente anche nella 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS, composta prevalentemente da italiani, ma che l’esperienza
nella 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division lo segnò profondamente e rappresentò per lui un
fatto unico. Tanto che, quando si trovò per ragioni operative a militare nella formazione italiana,
sentì la mancanza della precedente esperienza e decise di tentare la fuga in Svizzera. Oggi
dichiara: «dopo tutti questi anni posso dire che forse fu un errore lasciare le SS italiane, perché
poi mi ritrovai nella Xª MAS dove proprio non mi trovai bene per niente, ma l’esperienza della
Polizei mi aveva segnato, lì ero stato bene, e non mi andava di stare con gli italiani anche se erano
sempre SS, ma erano una cosa diversa. Non mi trovai male, ma insomma ero stato nelle SS
tedesche che erano il meglio e decisi di provare l’avventura di passare il confine svizzero, e quando
andò male sono finito nelle Xª. Io sono fiero ancora oggi di essere stato nelle SS Polizei, eravamo
soldati veri» (Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero). L’intera esperienza di
guerra del volontario, dettagliatamente ricostruita nel suo memoriale (Covallero 2007), denota
la presenza di uno spirito d’avventura elevato e di un livello contenuto di politicizzazione.
855
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
856
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
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160
I rapporti interni alla 4ª SS-Polizei-Panzergrenadier-Division sono descritti
dall’intervistato con l’uso di aggettivi e sostantivi che descrivono le doti morali
attribuite ai volontari e la profondità del legame instauratosi tra soldati. Se
precedentemente, grazie alla testimonianza del volontario, era emersa una
prima definizione di cameratismo a carattere prevalentemente operativo, costituita da elementi come l’unità di intenti e comportamenti; la promozione dello
spirito di corpo da parte dei graduati; la disponibilità dei più anziani ad aiutare
le reclute e la fornitura da parte delle gerarchie militari di materiali consoni ai
compiti di guerra, queste ultime dichiarazioni estendono e arricchiscono la
definizione di connotati relazionali attinenti il valore umano e morale dei
camerati. Il proprio camerata diviene una persona brava, sincera e onesta, con
la quale si instaura un rapporto di complicità e fratellanza.
Questa prima determinazione delle dinamiche valoriali che compongono la
tematica del cameratismo consente di prendere in esame le dichiarazioni di altri
volontari per valutarne il vissuto e determinare con maggior dettaglio in cosa
consistette il cameratismo e quale ruolo giocò all’interno dell’esperienza nelle
Waffen-SS. Il volontario Giuliano Bortolotti ha maturato, oltre a quella nelle
Waffen-SS, esperienze militari nell’esercito italiano prima dell’8 settembre 1943
e dopo la seconda guerra mondiale. Anch’egli effettua dei confronti tra le diverse
esperienze che assumono rilevanza all’interno della tematica del cameratismo.
Giuliano Bortolotti racconta: «nelle Waffen-SS c’era un cameratismo molto
forte che non avevo visto nell’esercito italiano, ricordo che dopo l’8 settembre,
quando fummo fatti prigionieri dai tedeschi, ci portarono da sfamarci e ci dissero
di gestire tra noi la distribuzione del cibo, ma avvenne qualcosa che dimostrò ai
tedeschi la maleducazione dei soldati italiani e una mancanza di solidarietà con
chi condivideva la stessa sorte. Alcuni soldati italiani si lanciarono sul pane per
impadronirsi della maggior quantità possibile a discapito degli altri che rimasero
senza neanche un boccone, e io ero tra questi ultimi. Una cosa del genere non
sarebbe mai successa nelle Waffen-SS, ma non per ordini superiori o sola
disciplina, ma perché tra soldati delle SS c’era un forte cameratismo, una grande
solidarietà, si divideva il cibo anche tra soldati semplici e ufficiali, era il
cameratismo che ci univa e rendeva solidali857».
Le parole del volontario Bortolotti identificano nel cameratismo un elemento
centrale della propria esperienza nelle Waffen-SS e un importante fattore di
differenziazione con i comportamenti dei militari italiani, stigmatizzati dall’intervistato e identificati come testimonianza e rappresentazione della «assenza di
una solidarietà nazionale tra italiani858».
La testimonianza del volontario presenta, inoltre, una vicenda che, pur nella
sua valenza personale, ben si inserisce nelle ricostruzioni di quegli storici che
descrivono l’atteggiamento degli italiani dopo l’8 settembre 1943, sia quello dei
857
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti. La testimonianza del
volontario Bortolotti relativamente alla distribuzione del cibo e all’accaparramento da parte di
alcuni soldati italiani a danno di altri prosegue così: «visto come erano andate le cose, i tedeschi
requisirono il pane appena consegnato e provvidero loro stessi a distribuirlo in modo equo. Provai
una vergogna grandissima, profonda, per il comportamento dei miei connazionali e per la loro
mancanza di solidarietà con chi condivideva la loro stessa sorte, un egoismo incredibile, un
inganno a danni di altre persone in difficoltà che mi ha fatto vergognare».
858
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
161
civili sia della maggioranza dei militari allo sbando, come improntato al salvare
la pelle e al perseguimento del proprio interesse particolare a danno degli altri,
con un egoismo diffuso ammantato sotto le vesti del buon senso859. Un atteggiamento complessivo di perseguimento egoistico dell’interesse personale o famigliare che, evidenziando le carenze morali degli italiani e una debolezza eticopolitica collettiva, comporta quella che alcuni hanno definito “la morte della
patria”860.
È proprio anche rispetto a tali atteggiamenti che, nel narrato di Giuliano
Bortolotti, le Waffen-SS divengono contraltare dell’individualismo italiano e, in
quanto portatrici di un comunitarismo solidale che non trova riscontro nel
tessuto nazionale, assurgono al ruolo di comunità ideale. Nel 1950 Giuliano
Bortolotti, presso la caserma Piave di Orvieto, decide di presentare domanda di
ferma prolungata nell’esercito italiano. Ma l’esperienza lo segna in modo negativo e racconta: «coloro che avevano militato nella Repubblica Sociale Italiana
venivano trattati con disprezzo e arroganza dai caporali istruttori, c’era la
precisa volontà di umiliarci per farci pagare una scelta che noi facemmo in piena
coscienza e che ritenevamo sacrosanta. Neanche mettendo al corrente l’ufficiale
dei soprusi quotidiani ai quali eravamo sottoposti vedevamo le cose cambiare861».
Bortolotti ricorda che nel corso dell’ultimo incontro col padre morente decise
di comunicargli la sua intenzione di abbandonare l’esercito italiano alla scadenza
dei tre anni di ferma, cosa che effettivamente fece, e condivide durante l’intervista le motivazioni delle sua decisione: «l’esercito italiano era troppo diverso dalle
Waffen-SS nelle quali avevo militato durante la guerra, vi erano atteggiamenti
discriminatori, ruberie, poca attenzione alla formazione del soldato, poco spirito
di corpo, e nessuna traccia di solidarietà e di quel cameratismo che animava
l’esercito in cui avevo militato prima862».
Ancora una volta nel narrato dei volontari l’esperienza nelle Waffen-SS
diviene termine di paragone con le altre maturate, e in queste vengono ravvisate
lacune di cameratismo e di quelle doti morali di onestà attribuite ai camerati
delle Waffen-SS. Dopo l’esperienza nell’élite militare del Terzo Reich gli intervistati non rintracciano nelle esperienze pregresse e in quelle successive qualcosa
che si possa neppure accostare a quella «comunità di uomini uniti dal cameratismo863», «sempre disponibili all’aiuto reciproco864», che furono per loro le WaffenSS.
Un aspetto questo, che trova riscontro anche nelle parole del volontario
Adolfo Simonini che dopo la seconda guerra mondiale decide di arruolarsi nel
corpo della Polizia di Stato, senza però far valere i gradi precedentemente
maturati nell’esercito e ricominciando così dal basso la sua carriera: «una storia
859
De Felice 1998: 86-88; 294-317. Sullo sbandamento dell’esercito italiano, oltre al De
Felice: Galbiati 1950: 243-250; Musco 1976; Aga Rossi 1993.
860
De Felice 1998: 74-79; 86-88; Galli delle Loggia 2003.
861
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti. Il volontario riporta
l’esperienza nell’esercito italiano repubblicano anche nelle sue memorie edite (Bortolotti 2007:
109-112).
862
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
863
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
864
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
162
si era chiusa con la mia esperienza di guerra e una nuova se ne apriva865». La sua
testimonianza è permeata di toni amari sovrapponibili a quelli precedentemente
riscontrati nell’intervista al volontario Giuliano Bortolotti.
Racconta, infatti, il volontario Adolfo Simonini: «a Roma, mentre ero in
Polizia, era successo che un mio collega non era intervenuto per un’emergenza
anche se era di pattuglia e, per un gioco di amicizie che aveva, mi aveva dato la
colpa. Io non ero neppure in servizio, ma per le sue amicizie mi diedero la colpa
e mi trasferirono per salvare uno di loro, non c’era nessun spirito di corpo, nessun
principio di giustizia, contavano le raccomandazioni e le amicizie, e ho capito
definitivamente che gli italiani sono una massa di zozzi, pronti a fare qualsiasi
cosa per salvare loro stessi866».
È possibile asserire da queste prime testimonianze che sia senza dubbio
l’assenza di quel cameratismo vissuto all’interno delle Waffen-SS a gettare una
luce negativa sulle esperienze maturate in altri corpi. Il cameratismo diviene a
tutti gli effetti metro di valutazione dell’ambiente militare in cui i volontari
prestano il loro servizio e, nella sua duplice componente operativa e di valutazione morale dei camerati e colleghi, si palesa come dinamica centrale nel vissuto
degli intervistati. Giocando talvolta un ruolo fondamentale anche nell’attribuzione di un marcato individualismo e di una scarsa onestà, non solo agli altri corpi
in cui i volontari operarono, ma agli italiani tutti, le cui carenze morali vengono
identificate a confronto con l’esperienza comunitaria vissuta nelle Waffen-SS.
Come precedentemente accennato, il cameratismo si esplica in una triplice
complessità relazionale: quella interna tra soldati, quella tra questi e gli ufficiali
e quella con le gerarchie militari più alte, responsabili dell’approvvigionamento
alimentare e bellico delle truppe.
Nel narrato dei volontari assume un ruolo determinante il rapporto vissuto
tra ufficiali e truppa all’interno delle Waffen-SS. È la testimonianza del volontario Cirillo Covallero che affronta esplicitamente la questione e la correla al
momento stesso della sua scelta di volontariato: «appena dopo essere andati
volontari avevamo il permesso di andare da soli a prendere il rancio e vidi gli
ufficiali italiani che mangiavano come i poveri soldati e mi venne da sorridere,
loro che nell’esercito italiano avevano la cucina tutta per loro, durante la
prigionia dovevano mangiare come tutti gli altri, nelle SS invece mangiavamo
tutti insieme, italiani e tedeschi e quelli di altre nazioni, e tutti insieme fino al
capitano, tutti con la stessa mensa e lo stesso cibo867».
Il volontario prosegue il suo racconto affermando: «gli ufficiali italiani,
quando ero negli alpini, mangiavano pasti da ufficiali e facevano i pavoni nelle
loro belle divise. Quando ci hanno fatto prigionieri i tedeschi non nego che mi ha
fatto piacere vederli in gabbia. Un ufficiale si prese addirittura la briga di venirci
a dire che avevamo sbagliato ad andare volontari nelle SS, tipico degli italiani che
quando la Germania avanzava erano tutti per Mussolini e poi per vantaggio
865
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
867
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero. Il volontario fa qui riferimento
alle sue modalità di arruolamento. Egli maturò la scelta di volontariato all’interno di un campo
di prigionia nel quale erano stati condotti i soldati italiani dopo le vicende dell’8 settembre 1943
e il cambio di fronte attuato.
866
163
hanno cambiato bandiera, ed allora lo abbiamo detto ai tedeschi e loro lo hanno
portato via. Dopo, quando ho vissuto da vera SS, ho capito come si deve
comportare un ufficiale che vive insieme ai soldati, condivide con loro il cibo, la
vita di ogni giorno, il fronte, ma non fa il pavone come gli ufficiali italiani868». Per
il volontario Covallero il fatto che nelle Waffen-SS si mangiasse lo stesso rancio
fino al grado di capitano, «per tutti un piatto caldo alle dodici e il secco per la sera»,
diviene uno dei simboli «della grande fratellanza che c’era tra compagni nelle
SS»869.
Gli ufficiali delle Waffen-SS sono visti come fratelli d’armi che condividono
con i propri sottoposti tutta l’esperienza di guerra, dalla partecipazione alle
operazioni in prima linea, all’adozione della medesima divisa e, non ultimo, alla
condivisione del medesimo cibo. Se gli ufficiali italiani, coi quali il volontario ha
maturato un’esperienza di guerra negli alpini, sono giudicati con disprezzo e si
ravvede nel narrato una forte ostilità nei loro confronti dovuta al fatto che fossero
percepiti come un corpo estraneo privilegiato, nei confronti dei superiori delle
Waffen-SS emerge invece una forte stima, tanto che essi divengono modello di
quelli che dovrebbero essere i comportamenti di un graduato.
Questo rapporto tra soldati ed ufficiali, che ha portato alcuni autori a parlare
non solo di mutuo rispetto, ma di una forma di democrazia interna alle WaffenSS sconosciuta nell’esercito870 o di un socialismo interno a queste truppe di
élite871, gioca indubbiamente un ruolo chiave nella concezione di cameratismo dei
volontari intervistati. In proposito emerge come nel narrato dei volontari alla
parola “cameratismo” si sostituisca talvolta, come sinonimo, quella di “fratellanza”, che trasmette un’idea ancor più forte della solidarietà interna che animava
questo corpo.
Anche nel vissuto di Benito Scarazzini, volontario nella 1ª SS-PanzerDivision Leibstandarte-SS Adolf Hitler, emerge la tematica della fratellanza
legata alla questione alimentare. Egli narrava spesso al nipote un evento
accaduto durante i combattimenti sul fronte dell’Est: «in Russia combattevamo
allo stremo, certe volte eravamo senza rifornimenti, ma combattevamo con
grande tenacia ed un giorno, durante uno spostamento, ero seduto sul carro
armato che facendo una curva con i cingoli ha fatto uscire dalla neve una carcassa
di maiale, così abbiamo potuto mangiare, abbiamo fatto un banchetto al quale
come sempre si sono uniti ufficiali e soldati semplici, e abbiamo diviso tutti il cibo
come fratelli872».
Il volontario sudtirolese Luis Innenhofer racconta a proposito dello spirito di
corpo: «è normale che a diciotto o diciannove anni quando si è tutti insieme si è
sempre pronti a fare casino, e noi giovani di casino ne facevamo, ma nelle SS
c’erano regole da rispettare ma c’era anche tanto cameratismo, vivevamo in
fratellanza, bisognava fare quello che c’era da fare, ma poi si stava tutti insieme
e basta, neppure c’era tutta sta differenza tra ufficiali e sottufficiali e con i soldati
semplici nello stare insieme e nel combattere, eravamo molto uniti873».
868
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
870
Butler 1979: 13.
871
Duprat 2009: 256.
872
Intervista del 29 settembre 2009 a Stefano Monti, nipote del volontario Benito Scarazzini.
873
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
869
164
A tutti gli effetti dall’analisi del rapporto tra graduati e soldati semplici
emerge come il termine cameratismo possa essere considerato, all’interno del
narrato e del vissuto dei volontari italiani nelle Waffen-SS, sinonimo di vera e
propria fratellanza. Tale clima cameratesco, questa fratellanza che permea il
narrato degli intervistati, assume anche una sua ritualità in quella che i
volontari appartenenti alle differenti divisioni delle Waffen-SS descrivono come
la “festa del camerata”.
Il volontario Ireneo Orlando che militò agli ordini di quel Thaler che, come
preso in esame precedentemente, rappresenta per alcuni volontari una figura
eroica, racconta: «Thaler era una persona severa, rigorosa, ma sapeva anche
stare in gruppo coi camerati e organizzava le serate di cameratismo, bevevamo,
chiacchieravamo, si stava bene insieme e poi, finita la serata, ciascuno tornava
al suo ruolo all’interno del gruppo ancor più motivato e unito ai suoi camerati874».
Anche il volontario Cirillo Covallero racconta di come all’interno della 4ª SSPolizei-Panzergrenadier-Division venisse organizzata la “festa del camerata” e
la descrive così: «era molto divertente, dopo la consegna delle medaglie e dei gradi
si mangiava e si beveva fino ad ubriacarsi, i tedeschi erano divertentissimi
perché riuscivano a imitare il nostro capitano, e facevano anche imitazioni di
Hitler e di Goebbels, con battute ridicole e tutti ridevano, compreso il capitano al
quale avevano fatto l’imitazione e il tenente, me le ricordo come delle gran belle
giornate875».
Nella memoria dei volontari questa possibilità di trascorrere momenti felici
coi superiori e il poter ridere di loro e delle più alte gerarchie del Terzo Reich
diventa testimonianza del cameratismo presente all’interno delle Waffen-SS. Il
volontario Luis Innenhofer puntualizza: «si può stare insieme e ridere uno
dell’altro durante le bevute e le occasioni di libertà dalla guerra, si può ridere
anche di Hitler, ma poi quando arrivano i momenti difficili della missione, della
battaglia, si è uniti e pronti a darsi una mano, anche perché gli ufficiali sono al
tuo fianco. Anche il fatto di fare tutti insieme la guerra rendeva possibile che poi
nel momento di svago eravamo uniti e come fratelli potevamo ridere l’uno
dell’altro876».
La “festa del camerata” diviene un rituale comunitario che va, dunque,
inquadrato all’interno delle dinamiche combattentistiche interne alle WaffenSS. Si tratta cioè di un evento che non deve essere considerato a se stante, ma che
rientra nelle dinamiche della fratellanza d’armi. Gli ufficiali di queste divisioni,
infatti, non appaiono all’interno del narrato degli intervistati come meri impartitori
di ordini, ma come «camerati presenti fianco a fianco nel combattimento877».
Questa descrizione, che trova riscontro negli studi sinora condotti sulle WaffenSS878, dimostra le ragioni per le quali la “festa del camerata” non sia mai descritta
dai volontari italiani come un rituale noioso o obbligatorio, ma come un vero e
proprio momento di svago e di fratellanza. Essa assume infatti le sembianze
ludiche di un cameratismo vissuto anche con gli ufficiali che attraversa tutta
874
875
876
877
878
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Butler 1979: 62; Stein 1984: 289; Ailsby 2004: 182; Lumsden 2006: 220-221.
165
l’esperienza interna alle Waffen-SS, dalla condivisione dei pericoli al fronte, a
quella del materiale in dotazione, all’accesso al medesimo cibo. Un cameratismo
che diviene il tratto principale e distintivo del narrato inerente le vicende di
guerra.
Interessante è valutare come in questo quadro di fratellanza e cameratismo
fossero gestite la disciplina e il rapporto gerarchico. All’interno del narrato degli
intervistati il cameratismo sembra fondersi con la disciplina stessa nel quadro di
quelle doti morali che i volontari raccontano di aver rinvenuto nei soldati delle
Waffen-SS. Racconta, ad esempio, il volontario Giuliano Bortolotti: «c’era un
forte legame tra camerati che si sposava con la nostra disciplina di corpo che ci
consentiva di essere spontanei e di scherzare anche con gli ufficiali, ma non di
infrangere le regole e di danneggiare gli altri camerati, nessuno per come
eravamo avrebbe fregato un proprio camerata, c’era una disciplina che era
affidata al senso di cameratismo e proprio per questo non era difficile da
rispettare, chi mancava di rispetto verso un altro volontario lo faceva verso
tutti879».
Anche Rutilio Sermonti fa notare: «quella che in modo classico si intende
disciplina, quasi non serviva, faceva parte del cameratismo e del senso di
appartenenza, e nessuno di noi avrebbe mai fatto nulla di sbagliato verso un
camerata o verso quello che noi tutti insieme rappresentavamo880».
È il volontario Pio Filippani Ronconi che asserisce essere stata presente una
«disciplina sommaria» e rievoca per le Waffen-SS il modello delle «antiche
phratríe di guerrieri881». Trova ulteriore conferma e assume valenza generale il
modello organizzativo democratico precedentemente emerso nell’analisi del
rapporto tra soldati e ufficiali.
Si può pertanto asserire che il cameratismo divenga nelle Waffen-SS il
fondamento dell’organizzazione stessa e della gestione dei rapporti interni tra
soldati, regolati principalmente dal «senso di responsabilità reciproca882».
Poiché una parte della letteratura sull’esperienza dei volontari italiani nelle
Waffen-SS asserisce la presenza di un rapporto di subordinazione e di cieca
obbedienza di questi ultimi ai “padroni” tedeschi883, e tale rapporto sembra
confligere col quadro di cameratismo sinora ricostruito, si è ritenuto opportuno
approfondire la tematica del cameratismo relativamente ai rapporti italotedeschi. Il volontario Adolfo Simonini racconta di come all’epoca della sua
precedente esperienza nei bersaglieri ci fosse «un po’ di competizione» tra italiani
e tedeschi nonostante l’alleanza, ma come questa fosse caduta all’interno delle
Waffen-SS: «noi vedevamo che loro andavano sempre avanti e loro che anche noi
andavamo sempre avanti in prima linea884».
879
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
881
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, pp. 3 e 5, Reg. 171 e 173. Nello scritto del
volontario si fa riferimento, come avvenuto precedentemente ad opera di alcuni intervistati, ad
una fratellanza d’armi, fraternité d’armes, che evoca, in questo caso, l’antico spirito dei cavalieri
legati tra loro da un vincolo sacro in una comunità di sentimenti, ideali e di perseguimento della
gloria intesa come virtù cavalleresca.
882
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
883
Lazzero 1982: 9-11; de Lazzari 2002: 16-18.
884
Intervista del 2 ottobre 2010 al volontario Adolfo Simonini.
880
166
Cirillo Covallero, che militò in una divisione nella quale gli italiani erano una
minoranza, afferma: «i rapporti coi tedeschi erano buoni e io mi sono trovato bene
con loro, mi trattavano come uno di loro885». Il volontario prosegue in dettaglio
nella descrizione dei rapporti tra italiani e tedeschi e specifica: «talvolta ridevamo insieme quando il capitano chiedeva volontari per sbucciare le patate e noi
italiani stavamo zitti e poi chiedeva chi voleva andare al cinema e noi subito ci
facevamo avanti, e tutti ridevamo insieme italiani e tedeschi. Ricordo anche un
giorno che un italiano aveva perso i sensi ed era stato immediatamente soccorso
da un camerata tedesco che lo ha fatto rinvenire con la respirazione bocca a bocca.
Stavamo bene insieme, eravamo soldati dello stesso esercito886».
Anche Francesco Scio afferma: «si stava bene con i tedeschi, c’era un forte
cameratismo e nelle SS fui promosso sottotenente, eravamo uniti, ricordo che la
mia promozione avvenne nell’anniversario della nascita di Hitler, lui era il nostro
capo, e lui è sempre stato un ammiratore di Mussolini che considerava suo
maestro, era normale che ci fosse un forte cameratismo tra noi 887».
Da queste testimonianze emerge come nel vissuto dei volontari la relazione
con i tedeschi sia ricostruita positivamente come improntata ad un forte cameratismo reciproco, la ragione del quale è collocata nella fratellanza d’armi e nella
visione del fascismo e del nazionalsocialismo come «movimenti fratelli888».
Anche il volontario Alessandro Scano, oltre a collocare la nascita del cameratismo italo-tedesco nell’esperienza di guerra, offre una spiegazione politica e
ideale di esso: «la mia opinione sul nazionalsocialismo era positiva in quanto
emanazione diretta del fascismo, i rapporti tra le nostre nazioni sono stati buoni
fino al 1943, certo dopo i tedeschi avevano una certa diffidenza per il tradimento
subito, ma il cameratismo ha permesso di superare tutto, vedevano e apprezzavano che combattevamo al loro fianco per senso dell’onore889».
Sono dunque due le dinamiche dalle quali originerebbe, secondo i volontari,
il cameratismo italo-tedesco: la prima mutuata dal cameratismo interno alle
Waffen-SS che, come visto, assume il ruolo di norma organizzativa di una
fratellanza d’armi democratica e la seconda come derivazione dell’affinità ideologica tra fascismo e nazionalsocialismo. Specifica il volontario Giuliano Bortolotti:
«il cameratismo era tipico delle Waffen-SS e non c’era solo tra italiani e tedeschi
ma anche coi volontari di altre nazioni, per me era normale sentire un forte
cameratismo coi tedeschi, io volevo combattere al fianco della Germania, per il
mio paese e per me stesso e con loro ho potuto fare tutto questo890».
Se il pensiero politico dei volontari sarà analizzato in dettaglio a breve,
emerge qui un primo interessante elemento che evidenzia come da alcuni dei
volontari intervistati il fascismo e il nazionalsocialismo vengano considerati e
dichiarati «naturali alleati891» e ai loro occhi divenga pertanto scontato che i
volontari delle due nazionalità combattano fianco a fianco. Il volontario Alessan-
885
886
887
888
889
890
891
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
del
del
del
2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
167
dro Scano avverte la necessità di introdurre alcune precisazioni rispetto alla
presunta sudditanza attribuita agli italiani nei confronti dei tedeschi ed afferma:
«dopo la guerra hanno detto e scritto che eravamo al servizio dei tedeschi, ma non
vi fu nessuna sudditanza, c’erano ottimi rapporti tra camerati, c’era un sentimento di amicizia che anche i tedeschi mostravano nei nostri confronti dopo
l’iniziale diffidenza verso gli italiani successiva al tradimento patito892».
È interessante notare come nel narrato raccolto il termine “camerata” sia
effettivamente connotativo di volontari di diversa nazionalità e quasi mai gli
intervistati avvertano la necessità di specificare la provenienza nazionale del
volontario, che emerge spesso solo in seguito ad una apposita domanda. Anche
questa modalità di riferirsi ai propri commilitoni, di nazionalità tedesca o di
altra, senza avvertire la necessità di specificarne la provenienza nazionale
sembra confermare l’effettiva presenza di un cameratismo unificante che si
rafforza anche nell’uso del noi narrante al quale si è fatto riferimento all’inizio del
presente capitolo.
Un dato operativo interessante riguardo ai rapporti italo-tedeschi interni
alle Waffen-SS è rappresentato, inoltre, dal fatto che all’interno della descrizione
di alcune operazioni di guerra emerga, anche in questo caso a seguito di apposita
domanda, come agli ordini di alcuni graduati italiani vi siano stati anche soldati
tedeschi.
Non è possibile asserire in modo definitivo se tale situazione rappresentasse
la normalità o se essa sia stata contingente a determinate azioni, nelle quali gli
italiani conoscendo la lingua e il territorio potevano meglio coordinare le
operazioni, ma appare interessante notarne la presenza. Stein, del resto, mette
in risalto come alla fine della guerra delle trentotto divisioni delle Waffen-SS
nessuna fosse composta interamente da nativi tedeschi e come nel 1942,
nonostante lo scetticismo di Hitler nei confronti del programma di arruolamento
di volontari stranieri, Himmler avesse non solo emanato una serie di direttive per
aumentare il numero di ufficiali nativi nelle divisioni composte da non tedeschi,
ma avesse ordinato un programma per la selezione di giovani e qualificati
volontari stranieri da ammettere all’accademia degli ufficiali SS di Bad Tölz893.
Oltre ciò, tenendo conto della presenza di volontari non tedeschi che hanno
raggiunto gradi elevati e ricoperto ruoli importanti all’interno delle Waffen-SS,
come ad esempio il belga Léon Degrelle o lo svizzero Johann Eugen Corrodi von
Elfenau, del fatto che la difesa finale stessa di Berlino e del bunker di Hitler fu
attuata da volontari stranieri che combatterono fianco a fianco con i tedeschi894
e che risultano casi in cui soldati tedeschi furono guidati da ufficiali di altra
nazionalità895, l’assegnazione del comando a volontari italiani in operazioni
congiunte italo-tedesche, che nelle memorie raccolte riguardano azioni nel Nord
Italia, appare plausibile. Del resto anche la ricostruzione degli organigrammi
della divisione italiana sembrano confermare tale possibilità con italiani chiamati a ricoprire gradi elevati e posti a capo di reggimenti nei quali militari tedeschi
892
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Stein 1984: 137, 161.
894
Hitler 1986; Mabire 2001; Le Tissier 2010. Autobiografie romanzate di volontari che
presero parte alla battaglia di Berlino: Saint-Paulien 2002; Ezquerra 2004.
895
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 6.
893
168
fungono da ufficiali di collegamento896.
Considerando, infine, la presenza di due volontari oggetto della presente
ricerca nella divisione di élite delle Waffen-SS, la 1ª SS-Panzer-Division
Leibstandarte-SS Adolf Hitler, che ebbe un ruolo centrale nella nascita delle
Waffen-SS e ne rappresentò la punta di diamante897, non appare esservi ragione
di dubitare dei rapporti di cameratismo tra italiani e tedeschi ricostruiti dagli
intervistati.
Ma vi è un ulteriore elemento che induce a ritenere come realistica e credibile
la descrizione dei rapporti tra italiani e tedeschi effettuata dagli intervistati. Si
tratta della testimonianza di Erich Priebke898, SS-Hauptsturmführer di nazionalità tedesca, che ha così descritto il rapporto con gli italiani: «tra le Waffen-SS ho
conosciuto degli Oddi e Massimo Flick, una persona molto simpatica, molto più
del ministro Flick, suo parente, che mi ha fatto condannare. I rapporti con gli
italiani che erano rimasti amici erano molto buoni e ricordo sempre come fu
difficile anche per loro quello che accadde l’8 settembre, difficile e triste per coloro
che portavano la divisa italiana e volevano continuare a combattere899».
L’ufficiale tedesco, che sia nel narrato sia nel suo memoriale non esita a
definire le vicende dell’8 settembre 1943 come una «pugnalata alle spalle900» che
rese la situazione «difficile non solo dal punto di vista militare, ma anche
umano901», descrive non solo come simpatici e camerateschi i rapporti coi
volontari italiani, ma si immedesima anche negli stessi volontari e nella difficile
situazione nella quale si trovarono. È del resto lo stesso De Felice a far notare
come all’interno del concentramento di truppe tedesche in Italia, successivo alla
deposizione di Mussolini, numerosi soldati delle SS portassero sui loro elmetti la
scritta “Viva il Duce”902. Alla luce delle testimonianze raccolte, sia di parte
italiana sia tedesca, appare dunque possibile asserire che all’interno delle
Waffen-SS il rapporto tra italiani e tedeschi fosse improntato da un grande
cameratismo e che i soldati tedeschi fossero animati da «stima e rispetto per gli
italiani che continuarono a combattere nel destino comune delle due nazioni
896
Corbatti e Nava 2001: 381-404. Ciò trova peraltro riscontro nella testimonianza del
volontario Pasquale Scarpellino che relativamente alla propria compagnia afferma: «si respirava
un clima di autonomia, dato che i rapporti militari della compagnia coi tedeschi erano gestiti da
un senese, il tenente Minnucci, che svolgeva il ruolo di ufficiale di collegamento coi tedeschi, ma
era ovvio che ci fosse unità d’intenti e che durante le operazioni ci si aiutasse a vicenda e si
combattesse strenuamente uno al fianco dell’altro» (Intervista del 26 settembre 2009 al
volontario Pasquale Scarpellino)
897
Stein 1984; Butler 2001; Fischer 2004. Le parole del volontario Ferdinando Gandini, che
ha militato nella LSSAH, testimoniano la presenza di questo forte cameratismo italo-tedesco: «io
ho saputo che era la Leibstandarte quando siamo arrivati in Russia, sapevo che ero nelle WaffenSS, ma non che era la Leibstandarte, anzi prima non sapevo neanche cosa fosse quella divisione,
l’ho scoperto stando con loro, ma non ci sono mai stati problemi, io ero con loro, vivevo con loro
e c’era un fortissimo cameratismo e uno spirito di corpo, nel senso che quando vestivi quella divisa
vivevi con loro e insieme a loro, loro sono il tuo futuro e tu il loro» (Intervista del 25 ottobre 2009
al volontario Ferdinando Gandini).
898
Priebke 2003.
899
Intervista del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke.
900
Priebke 2003: 82.
901
Intervista del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke.
902
De Felice 1998: 48-49.
169
sorelle903».
Il cameratismo assume però un respiro più ampio nel narrato dei volontari
e va oltre il rapporto italo-tedesco connotandosi di sfumature internazionali. Ciò
emerge con forza nelle dichiarazioni del volontario Rutilio Sermonti che descrivendo i suoi camerati afferma: «venivano da varie nazioni e combattevano uniti
come in un unico organismo che rappresentava i fascismi904».
Anche il volontario Pietro Ciabattini ricorda di aver incontrato camerati di
altre nazioni che erano nelle Waffen-SS e li descrive così: «tutti erano uniti senza
distinzione di nazionalità905». Il volontario Pio Filippani Ronconi nel suo memoriale ricorda di aver ricevuto in dono da un volontario russo, conosciuto sul fronte
di Anzio, la papakha, il cappello cosacco, e di averlo indossato con fierezza
durante le missioni notturne906. Ireneo Orlando racconta divertito: «alcuni
volontari italiani, di quelli che portavano la mostrina col cerchio e le tre frecce,
venivano scambiati per spagnoli, perché sembrava lo stemma della Falange, e
anche a degli spagnoli era capitato di essere scambiati per italiani, ma era una
cosa bella, eravamo uniti, e ci ridevamo sopra con un certo compiacimento907». Il
cameratismo, che come accennato diviene tratto organizzativo delle Waffen-SS,
riesce dunque ad unire volontari di differenti nazionalità e gli intervistati
mostrano una certa fierezza per quella che di volta in volta definiscono: «fratellanza militare908» o «comunità dei camerati909».
Dalle testimonianze dei volontari italiani sembrerebbe proprio doversi
ricercare nel cameratismo uno dei principali fattori che consentì la fusione di
differenti specificità nazionali in un esercito come quello delle Waffen-SS. Si
tratta di un cameratismo che si compone di due principali dinamiche costitutive,
una di tipo operativo, che sembra derivare dall’esperienza comune dell’addestramento e del fronte, e l’altra di tipo politico, dove il cameratismo assume i tratti
di alleanza tra fascismi.
È lo stesso volontario Sermonti che con le sue parole evidenzia questa
seconda dinamica: «è un cameratismo che ha unito un’infinità di tedeschi,
italiani, europei e asiatici in un’unica comunità, uomini che si sono sacrificati fino
all’ultimo per ritardare l’avanzata del nemico, come alle Termopili, in un legame
di solidarietà e di affetto che ha unito tutti coloro che si sono schierati nella stessa
trincea ideale, senza distinzione di età, classe sociale, sesso, perché vi erano
anche le ausiliarie delle Waffen-SS, e nemmeno di nazionalità e razza910».
Nella testimonianza di quest’ultimo volontario il cameratismo si arricchisce
di una dimensione magica, sacra, quando racconta: «c’era un grande cameratismo nelle SS, fortissimo. Quando il soldato Ferri fu ferito venne portato
all’ospedale SS perché aveva il braccio squartato e rotto da una bomba. Quando
903
Intervista del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
905
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
906
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, p. 8, Reg. 176.
907
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
908
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
909
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
910
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
904
170
l’ho rivisto era in perfette condizioni e mi ha detto che quando ha ringraziato il
nostro medico all’ospedale per il miracolo che aveva compiuto, guarendolo a quel
modo, si era sentito rispondere: il miracolo non l’ho fatto io, è tutto merito del
cameratismo911».
Prendendo spunto dal fatto che, anche a livello linguistico nel narrato dei
volontari, il termine cameratismo diviene sinonimo di comunitarismo, è interessante notare come Marco Tarchi proponga di riconoscere proprio nel comunitarismo uno dei caratteri fondamentali dell’ideologia e della prassi fascista e di
considerarlo un elemento centrale nella definizione generale di fascismo912.
Il politologo fiorentino, constatando l’incapacità sia degli studi recenti sia di
quelli classici di produrre un auspicabile consenso fra gli specialisti sulla
definizione di fascismo913, nel suo tentativo di formulare una definizione del
fenomeno politico e sociale fascista, sviluppa la sua analisi partendo da una serie
di interessanti interrogativi. Questi possono essere considerati in parte sovrapponibili, inerentemente ai volontari italiani nelle Waffen-SS, a quelli a cui vuole
rispondere il presente studio. Perché in quasi tutti i paesi d’Europa si sono creati
movimenti accomunati sotto l’etichetta di fascisti? E per quali motivi in alcuni
contesti essi hanno riscosso forti consensi popolari? Quali gruppi o ambienti sono
stati promotori e quali hanno dimostrato maggiore attenzione verso il loro
messaggio? Insomma, chi è stato fascista, e perché ha deciso di esserlo?914
Se Tarchi, a partire dai succitati interrogativi, giunge ad evidenziare la
centralità del comunitarismo all’interno del pensare e sentire fascista, è senza
dubbio possibile asserire che il cameratismo e il comunitarismo giochino un ruolo
chiave anche all’interno dell’esperienza e del pensiero dei volontari italiani nelle
Waffen-SS. Certamente, all’interno del gruppo di volontari intervistati, il cameratismo e una fratellanza d’armi e di vita, che possiamo definire sinteticamente
come comunitarismo, giocò un ruolo centrale che si arricchì anche di un respiro
internazionale.
Lo stile comunitario all’interno delle Waffen-SS prende il sopravvento sulle
regole e le consuetudini militari tipiche di altri corpi e, per quanto concerne i
volontari italiani, diviene collante di una comunità concepita e vissuta travalicando la provenienza nazionale, l’etnia e la lingua. La radicale contrapposizione
sia degli intellettuali sia dei militanti fascisti all’individualismo e all’egoismo
sociale e la loro propensione psicologica verso un’appartenenza totale alla
collettività nazionale915, che caratterizza l’ideologia fascista sin dalle origini nel
suo connubio di eroismo ed altruismo all’interno della comunità vivente916, trova
dunque un’eco nel comunitarismo dei volontari intervistati che però, come
evidenziato, allargano i confini della propria comunità ben oltre quelli della
provenienza nazionale.
911
912
913
914
915
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Tarchi 2003: 136-137.
Tarchi 2003: 135.
Tarchi 2003: 17.
Tarchi 2003: 136
171
172
4
IL PENSIERO POLITICO
Fascisti, nazisti, nazifascisti?
Come precedentemente fatto presente, il pensiero politico dei volontari
italiani nelle Waffen-SS non è mai stato studiato facendo ricorso a fonti primarie
e definito genericamente, si potrebbe dire con un meccanismo automatico, di
volta in volta come fascista, nazista o nazifascista. Ciò sia negli studi che offrono
un ritratto demonologico di questa esperienza di volontariato militare sia in
quelli a prevalente intento apologetico. Su un aspetto i due opposti approcci
concordano: la descrizione dei volontari come militanti contro il bolscevismo.
Antibolscevismo che viene considerato motivo di merito nelle pubblicazioni
apologetiche917 e di demerito, in quanto ricondotto all’assenza di un qualsiasi
senso di giustizia sociale e all’esercizio di una prepotenza al servizio del nazifascismo, in quelle demonologiche918.
Le due impostazioni differiscono, invece in modo netto, ad esempio, sull’attribuzione di un sentire europeista ai volontari delle Waffen-SS. Se gli apologeti
attribuiscono ai volontari tale componente ideologica, coloro che adottano l’approccio demonologico non solo la negano, ma descrivono i volontari come asserviti
all’alleato tedesco919. Poiché da più parti ci si interroga sulla natura del fascismo
come ideologia senza alcun consenso nell’individuare un’essenza generale del
fascismo920, viene da sé che riferirsi ai volontari italiani nelle Waffen-SS come
fascisti, nazisti, o nazifascisti lasci pressoché insondata la tematica della strut-
916
Sternhell 1993: 247-248; Sternhell 1997: 346-348, 459-462.
Zucconi 1999; Afiero 2001b; Afiero 2004; Zucconi 2005. I principi ideologici attribuiti ai
volontari dalle pubblicazioni apologetiche sono due: l’antibolscevismo e l’europeismo. L’intero
sviluppo di queste pubblicazioni si basa sul presupposto della presenza di tali componenti
ideologiche.
918
Lazzero 1982; de Lazzari 2002; Caniatti 2010. Fondandosi tali pubblicazioni su quel
meccanismo che De Felice qualifica come “delle spiegazioni generali, più o meno moralistiche o
più o meno meccanicistiche” ed anche su quello del “ridurre il fascismo ai suoi aspetti più
grotteschi” (De Felice 2005: 228, 230), tutto l’esposto è attraversato da una descrizione dei
volontari come esecutori della violenza nazifascista privi di scrupoli e principi di giustizia sociale
e come tali nemici della Resistenza, descritta come depositaria di ideali di libertà e giustizia
sociale.
919
Per quanto concerne l’europeismo lo studio di Corbatti e Nava (2001: 25), che pur con
qualche accenno apologetico si concentra principalmente su ricostruzioni operative, propende
invece per non riconoscere ai volontari italiani una adesione all’idea di un esercito europeista
sovranazionale, fissando la ragione di ciò nel fatto che i volontari italiani non avrebbero
combattuto contro il bolscevismo sul fronte orientale.
920
Tarchi 2003: 135.
917
173
tura del loro pensiero politico, precludendo ogni comprensione degli elementi
ideologici che li contraddistinsero.
Gran parte delle ricerche sinora pubblicate sui volontari italiani nelle
Waffen-SS hanno inoltre ricondotto in automatico il sentire politico dei volontari
ai contenuti della propaganda fascista e nazionalsocialista, trasponendo le
tematiche presenti in Avanguardia, periodico settimanale ufficiale della 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS921, al pensiero dei volontari. È emerso, però,
nel corso delle interviste che nessuno dei volontari era solito leggere quel
periodico negli anni della propria militanza nelle Waffen-SS e ancora oggi tutti
gli intervistati, tranne due, ne ingnorano l’esistenza. I volontari intervistati che
fecero parte della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, venuti a conoscenza
dell’esistenza del settimanale, ritengono probabile che esso fosse rivolto più
all’esterno, come mezzo di propaganda ai civili, che all’interno della loro divisione
di appartenenza. Coloro che militarono in altre divisioni delle Waffen-SS lo
ritengono pressoché inutile, dato che esso era redatto in lingua italiana, mentre
le loro divisioni di appartenenza erano composte da volontari di differenti
provenienze nazionali e quindi linguistiche.
Nel presente studio, pur avendo esaminato i contenuti di tutti i numeri editi,
si è pertanto ritenuto di ricostruire il pensiero politico dei volontari facendo
ricorso all’analisi critica del contenuto delle interviste, delle autobiografie e dei
diari inediti. Si è tenuto presente come quadro della formazione ideologica dei
volontari piuttosto quanto emerso in sede di analisi delle fascinazioni letterarie
e dei modelli eroici. Così facendo si eviterà l’attribuzione incerta, se non erronea,
di tematiche politiche generiche e propagandistiche non chiaramente riferibili ai
volontari e si provvederà, invece, ad inquadrare quelle emerse dal narrato nel
contesto storico e culturale dell’epoca.
Alcune tematiche emergono spontaneamente dal narrato dei volontari,
altre, invece, hanno richiesto apposite e specifiche domande al fine di valutare e
comprendere la presenza di esse all’interno della struttura del pensiero politico.
Tali domande hanno sondato quei temi che sono stati rinvenuti all’interno del
periodico Avanguardia o che sono solitamente attribuiti ai volontari dagli studi
precedenti. È utile fare presente che la scelta di tale approccio è maturata nella
convinzione che evitando errori di attribuzione tematica inerenti l’ideologia dei
volontari e affrontando l’analisi critica delle testimonianze, con la loro collocazione nel quadro culturale dell’epoca, si addiverrà ad una ricostruzione del pensiero
politico che animò gli intervistati che sia la più oggettiva possibile. Si potrà così
rispondere, nel modo più accurato possibile, ad una domanda chiave: quale
pensiero politico animò i volontari italiani nelle Waffen-SS?
921
Il primo numero del settimanale, che si apre con un articolo di Giovanni Preziosi, aveva
il nome di Avanguardia Europea, dal secondo numero viene mutato in Avanguardia. Le rune
delle SS appariranno nel settimanale, accompagnate dal motto “Il nostro onore si chiama
fedeltà”, a partire dal numero 10 del 20 maggio 1944. Un articolo dedicato a Himmler, dal titolo
“Un grande europeo”, appare nel numero 30 del 7 ottobre 1944 (Avanguardia, Anno I – 1944, N.
1-40; Avanguardia, Anno II - 1945, NN. 1-16).
174
Giustizia sociale
Nel corso delle interviste ai volontari italiani nelle diverse divisioni delle
Waffen-SS emerge un largo uso dell’espressione «giustizia sociale». I volontari si
soffermano nella declinazione degli elementi che dovrebbero, a loro avviso,
costituire la giustizia sociale e nella declinazione del ruolo che essa dovrebbe
avere all’interno dei compiti attribuiti allo Stato. È inoltre legata anche al
concetto di giustizia sociale l’identificazione di alcuni nemici. I volontari attribuiscono, infatti, la valenza di nemico a coloro che ritengono opporsi alla realizzazione della giustizia sociale.
Il primo concetto cardine che emerge in correlazione con la tematica della
giustizia sociale è chiaramente esposto dal narrato del volontario Pietro Ciabattini: «non può esistere lo Stato e la comunità nazionale senza la giustizia sociale,
perché nessuna nazione che si voglia considerare tale può fare gli interessi di una
parte, può tollerare lo sfruttamento e la prepotenza di alcuni sui deboli senza
intervenire922». Anche il volontario Rutilio Sermonti esprime un concetto sovrapponibile affermando: «in uno Stato non c’è diritto se non c’è un diritto sindacale
e una giustizia sociale923».
Il volontario Francesco Scio dichiara: «non esiste la nazione senza la giustizia
sociale, perché una nazione c’è solo quando gli interessi delle diverse classi sociali
vengono fatti convergere dalla giustizia sociale nell’interesse della nazione,
senza la giustizia sociale c’è conflitto e non collaborazione tra lavoratori e
imprenditori e proprietari terrieri924». Quest’ultima definizione assume particolare interesse perché, oltre a ribadire la presenza della giustizia sociale come
cardine immancabile della nazione, offre una declinazione di che cosa essa
rappresenti, ossia lo strumento per contemperare gli interessi delle varie classi
sociali e promuovere la collaborazione tra le forze produttive della nazione.
Lo Stato è indicato dai volontari come soggetto che non solo deve operare per
il conseguimento della giustizia sociale, ma che ha ragione di esistere proprio nel
perseguimento di questo obiettivo. Lo Stato trova, dunque, legittimazione nel
perseguimento della giustizia sociale, nella promozione della collaborazione tra
le diverse classi sociali e nel contemperamento dei differenti interessi, senza il
quale la nazione non esisterebbe.
La giustizia sociale è identificata come strumento di trasformazione di una
somma di individui, che perseguirebbero altrimenti interessi personali e di
classe, in una collettività nazionale. È evidente nelle testimonianze dei volontari
l’eco di quei principi che portarono alla nascita stessa dell’ideologia fascista:
l’integrazione delle diverse classi sociali nella solidarietà nazionale; la visione
organicistica della nazione; lo Stato come categoria centrale che assume carattere unificante e unitario; il concetto di giustizia nazionale in cui la nazione è
frutto e mezzo del raggiungimento della giustizia sociale925. Ma anche di quella
riscoperta del fascismo rivoluzionario che animò gli anni della RSI926.
922
923
924
925
926
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Sternhell 1993: 244-245, 257-258, 314-318, 344.
De Felice 1998: 399-408, 540-542.
175
Il volontario Ferdinando Gandini afferma: «il nazionalsocialismo, il socialismo, la giustizia sociale era il nostro obiettivo, ne parlavamo spesso tra soldati,
volevamo un futuro senza soprusi dove il capitale non sfrutta il lavoro, non come
ora che ti versano un bicchiere d’acqua e lo devi comprare e i lavoratori vengono
sfruttati e devono ringraziare i proprietari di avere un lavoro927». Questa
testimonianza identifica chiaramente gli attori del conflitto sociale, da un lato il
lavoro e dall’altro il capitale che è qualificato come sfruttatore, e identifica nel
nazionalsocialismo il promotore della giustizia sociale. È proprio il termine
nazionalsocialismo, adoperato nel narrato da una minoranza di volontari,
mentre in genere gli intervistati ricorrono piuttosto al sostantivo «fascismo» o al
plurale «fascismi», ad essere qui usato dal volontario come sinonimo sia di
socialismo sia di giustizia sociale. Le parole di Gandini evidenziano, inoltre, come
il tema della giustizia sociale fosse dibattuto tra volontari durante l’esperienza
nelle Waffen-SS, fatto questo che si ritrova anche nel narrato di altri volontari.
Ma interessante è anche un’ulteriore dichiarazione di Ferdinando Gandini:
«eravamo i soldati di un futuro più bello e più giusto, senza soprusi, e ricordo che
noi vivevamo così nelle Waffen-SS, ricordo due camerati svedesi che erano capaci
a preparare il maiale e lo facevano per tutti noi, dividevamo tutto perché insieme
volevamo lo stesso obiettivo928».
È evidente da queste parole come il perseguimento della giustizia sociale non
sia soltanto alla base del sentire politico dei volontari e della loro conseguente
scelta di volontariato, ma sia anche identificato e vissuto come norma interna alle
Waffen-SS. Il cameratismo precedentemente preso in esame, e al suo interno il
rapporto con gli ufficiali che caratterizza questo corpo militare, viene identificato
da alcuni volontari come l’applicazione pratica all’interno delle Waffen-SS dei
principi di giustizia sociale che dovrebbero appartenere alla società tutta. Si
potrebbe asserire che, per alcuni degli intervistati, le Waffen-SS divengano un
modello in scala di come dovrebbe essere la società ideale, con il dissolvimento
dell’individualismo egoistico nel comunitarismo.
Che il perseguimento della giustizia sociale sia anche motivo di arruolamento e combattimento con le Waffen-SS viene confermato dalle testimonianze del
volontario Rutilio Sermonti e del nipote del sudtirolese Karl Nicolussi-Leck.
Afferma il primo: «le tematiche sociali, la socializzazione, furono certamente tra
i motivi per i quali decisi di battermi929». Heiner Nicolussi-Leck asserisce: «erano
convinti che col nazionalsocialismo si andasse incontro a un futuro migliore e più
giusto930». Anche la moglie del volontario Mauro Vivi ricorda, a proposito del
marito: «diceva sempre di non essersi mai pentito della scelta fatta e anzi diceva
che era stata una scelta basata sull’onore, il rispetto della parola data, gli ideali
di giustizia sociale e anche l’amore per la patria931».
Si può dunque asserire che l’anelito di giustizia sociale assuma un ruolo
centrale nel pensiero politico dei volontari intervistati e divenga fattore di
927
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
929
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
930
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
931
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 a Bruna Vivi, moglie del volontario Mauro Vivi.
928
176
mobilitazione e spinta all’arruolamento nelle Waffen-SS. Non è possibile attribuire a tutti gli intervistati la medesima tensione politica ed emotiva verso la
tematica, essa ricorre con diversi gradi di intensità narrativa, ma il perseguimento della giustizia sociale è presente, come compito attribuito allo Stato e come
modello di condotta individuale, nella quasi totalità dei volontari.
Il volontario Ireneo Orlando fa riferimento più volte al proprio desiderio di
giustizia sociale e a come il perseguimento di essa fosse a suo avviso al centro delle
politiche del fascismo. Alla domanda che lo invita a spiegare in dettaglio in cosa
consista l’opera di perseguimento della giustizia sociale attuata a suo avviso dal
fascismo, risponde citando una serie di provvedimenti adottati da esso e invitandomi a «prendere visione della Carta del Lavoro del 1927 per capire di quanta
giustizia ci fosse bisogno in Italia e di quanti strumenti di giustizia sociale
mancassero in precedenza932». Dopodiché il volontario, che nel dopoguerra è
diventato un noto avvocato, cita un lungo elenco di provvedimenti che a suo
avviso testimoniano quella che un altro intervistato definisce «la vocazione
sociale del fascismo933». L’elenco comprende alcuni provvedimenti contenuti
proprio nella Carta del Lavoro del 1927 e l’intervistato afferma: «si tratta di tante
cose che tutte insieme contribuivano a dare pari dignità al lavoro, come l’assicurazione per gli infortuni; la paga maggiorata per il lavoro notturno; la malattia
retribuita, il riposo feriale pagato e previsto; le pensioni per la vecchiaia; il limite
di otto ore lavorative giornaliere e i contratti collettivi di lavoro. Non è poco, anzi
direi che è molto per limitare lo sfruttamento del capitale sul lavoro, poi certo
avrebbero dovuto essere integrate con ulteriori provvedimenti934».
Tutti i volontari concordano nell’identificare nei lavoratori la parte debole da
tutelare nei confronti dell’industria e del capitale, affinché sia resa possibile
quella collaborazione tra classi sociali che è considerata elemento imprescindibile per l’esistenza stessa della nazione. Afferma, con parole semplici ma chiare, il
volontario Cirillo Covallero: «non si tratta di rendere tutti uguali come nel
comunismo, anche se poi abbiamo scoperto che erano tutti poveri nei paesi
comunisti, ma di dare a tutti importanza per il lavoro che fanno perché tutti
questi lavori insieme facciano il bene comune935». Anche il volontario Alessandro
Scano sintetizza efficacemente quanto esposto in precedenza dagli altri intervistati: «è stato il fascismo col corporativismo che ci ha insegnato che i mestieri e
le classi sociali devono collaborare per il bene della patria, ma senza giustizia
sociale non ci può essere nessuna collaborazione, nessun corporativismo e
932
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
934
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando. Per quanto concerne il testo
della Carta del Lavoro e le implicazioni politiche, sociali e economiche del provvedimento: De
Felice 1995: 222-296; 525-547. De Felice ricostruisce in dettaglio come il tentativo fascista di
superare la lotta di classe in un progetto corporativo e anche in progetti pratici, come quello di
istituzione della magistratura del lavoro, fossero osteggiati dai “fiancheggiatori” del fascismo e
da coloro che rientravano nella figura del “fascista di adattamento” o degli “antifascisti
mascherati”, soggetti appartenenti prevalentemente al mondo della finanza e dell’industria che
temevano la rivoluzione sindacale fascista da un lato e miravano dall’altro, attraverso Confindustria, a difendere la propria autonomia e a tutelare gli interessi industriali anche contro gli
indirizzi del governo (De Felice 1995: 260-282).
935
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
933
177
nemmeno nessuna patria936».
Il pensiero degli intervistati necessita di essere inquadrato nella fase politica
e nel dibattito interno al fascismo al momento della loro decisione di volontariato
affinché se ne possa comprendere la coerenza o meno con gli sviluppi ideologici
in corso. Gli studi di De Felice, in proposito, evidenziano come il perseguimento
della giustizia sociale, con le sue declinazioni a livello di dottrina politica nel
corporativismo e nella socializzazione delle imprese, animò gli ultimi fuochi di
Salò.
È proprio all’interno dell’ultimo fascismo repubblicano che la tematica si
accompagnerà anche ad una forte passione dialettica e programmatica all’interno della quale si palesano alcune tendenze definite come “comunistoidi”. Fatto
messo in evidenza da De Felice che descrive il dibattito interno alla RSI sulla
tematica del socialismo nazionale come animato dalla volontà di un ritorno al
programma sociale del 1919, mirante ad un’azione politica volta, col cosiddetto
Manifesto di Verona, a cancellare l’influsso che sul fascismo avevano esercitato
i cosiddetti “fiancheggiatori” o “fascisti di adattamento”, legati ad ambienti
conservatori dell’industria e della finanza, che osteggiarono il riformismo sociale
fascista e l’attuazione delle riforme corporative937.
Ma oltre all’inquadramento della tematica nelle contingenze politiche e
programmatiche è utile rilevare anche come il principio della giustizia sociale sia
parte integrante dell’ideologia fascista e venga considerato centrale nella sua
stessa nascita. Zeev Sternhell pone il concetto di giustizia sociale al centro
dell’ideologia fascista come revisione antimaterialista e antirazionalista del
marxismo, in un rifiuto dell’alternativa destra / sinistra che prevede l’integrazione delle differenti classi sociali in una solidarietà nazionale capace di distinguere
i parassiti dai produttori938.
Non deve pertanto sorprendere che i volontari italiani nelle Waffen-SS
pongano al centro del proprio pensiero ideologico il perseguimento della giustizia
sociale che, all’interno del narrato, rimane talvolta vago, potremmo dire orientato in modo pratico alla rimozione di alcune ingiustizie sociali specifiche, e più
spesso si declina in una concettualizzazione coerente coi principi del corporativismo e della socializzazione.
Se Gentile definisce come “equivoco” il socialismo come fondamento dell’ideologia fascista in quanto non egualitario, non anticlassista, non internazionalista
e non indirizzato all’emancipazione degli esseri umani in un mondo di libertà
totale939, si può certamente notare che nei volontari intervistati emerge effettivamente non tanto il desiderio di cancellazione delle classi sociali, quanto quello
di una loro collaborazione all’interno dell’interesse superiore della collettività
nazionale, ma a tutti gli effetti il perseguimento della giustizia sociale assume
per i volontari una missione di emancipazione e liberazione dalla prepotenza del
capitale, senza la quale non esisterebbe neppure la nazione. È quest’ultimo un
aspetto sfuggito sino ad oggi alle pubblicazioni inerenti i volontari italiani nelle
Waffen-SS che deve essere tenuto presente nel proseguo dell’analisi del loro
936
937
938
939
178
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
De Felice 1995: 10, 23, 249, 274; De Felice 1998: 399-408, 540-542, 610-613.
Sternhell 1993: 13-14, 347.
Gentile 2008: 58.
pensiero politico. Perché il concetto di giustizia sociale non solo ne costituisce,
come visto, uno dei cardini, ma anche la tematica a partire dalla quale maturano
prese di distanza da altre ideologie e importanti correlazioni con ulteriori
elementi del sentire politico degli intervistati.
Anticapitalismo
All’interno del flusso narrativo dei volontari emerge una tematica che si lega
in un rapporto di stretta correlazione a quella della giustizia sociale, si tratta
dell’anticapitalismo. Tale argomento emerge nel narrato come vera e propria
declinazione del tema della giustizia sociale, ma assume i tratti di una tematica
a sé stante, anche alla luce del rilevante peso che occupa all’interno del pensiero
politico degli intervistati.
Il volontario Rutilio Sermonti, che come visto si distingue per l’articolazione
del concetto di giustizia sociale in correlazione alle tematiche della socializzazione e del corporativismo, vissute come missioni dell’ideologia fascista, dichiara: «i
fini dell’uomo sono molteplici o comunque possono essere molteplici, ma il fine del
capitale è per natura uno solo e questo fine è il profitto, che diventa misura di
tutte le cose e anche delle persone, il capitale finanziario e apolide diviene
arbitrariamente ciò che detta l’intero modello di sviluppo940».
L’intervistato, con uno stile narrativo fortemente partecipato, aggiunge
alcune specificazioni: «il capitalismo di Stato o di mercato sono facce della stessa
medaglia, della stessa mentalità economicistica e materialistica che umilia
l’uomo mettendolo al servizio delle cose e chi si asservì a ciò e ancora è schiavo
di questa mentalità diventa servo degli onnipotenti dell’usura941».
Nelle parole del volontario il capitale diviene nemico del genere umano, e
prende campo la descrizione di un mondo nel quale sarebbe in atto uno scontro
tra l’uomo, la cui natura è concepita come spirituale, e la prepotenza del capitale,
che rappresenta la materialità castratrice. Dalla vittoria degli elementi spirituali su quelli materiali dipenderebbe la liberazione dell’uomo dal materialismo e
dall’economicismo, che sono considerati apportatori di umiliazione e di una
schiavitù che pone l’essere umano, contro la sua stessa natura, al servizio del
capitale, del denaro e del possesso delle cose. Il volontario afferma infatti: «è
penoso l’uomo che si affanna per tutta la vita in una direzione che non è da lui
voluta e che non rappresenta il suo bene, l’uomo che si affanna a rincorrere
obiettivi materiali mi ricorda il cane da cinodromo che insegue la lepre di pezza
senza mai raggiungerla per il lucro degli organizzatori942».
Dunque nella concezione dell’intervistato l’uomo che si assoggetta al solo
perseguimento del benessere materiale agisce contro il suo stesso interesse e
contro la sua stessa natura, e da ciò esce declassato come animale da circo, da
spettacolo, inconsapevolmente funzionale al lucro altrui. Dalla parole di Rutilio
940
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti. L’intervistato declina questo
concetto del capitale anche all’interno di un suo libro scritto in omaggio alla RSI (Sermonti 2006:
77-80).
941
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
942
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
179
Sermonti si evince una forte adesione a quella battaglia contro il materialismo
marxista e l’edonismo individualista occidentale che caratterizzò il fascismo e
che trovò una progettualità nel tentativo di creare una nuova tradizione, una
nuova civiltà e un uomo nuovo connotati in senso fortemente anticapitalista943.
Non tutti i volontari mostrano lo stesso livello di elaborazione e articolazione
del pensiero anticapitalista, ma l’ostilità nei confronti del capitalismo anima
molti intervistati e viene citata sia come fattore decisionale di arruolamento nelle
Waffen-SS sia come elemento della propria concezione della vita. È il volontario
Ferdinando Gandini a imputare al capitalismo la colpa di impedire all’uomo il
raggiungimento della felicità: «il capitalismo ha invertito le prospettive dell’uomo sulla felicità, lo ha portato fuori strada e ho conosciuto persone ricchissime che
hanno un cono d’ombra, questo perché non riescono a crearsi la felicità che non
viene mai dal denaro, la felicità viene da dentro, dall’anima e se non la cerchi
nell’anima non basta il denaro di tutto il mondo a darti la felicità944».
Dunque anche questo volontario concepisce il denaro come ingannatore e
capace di sviare l’uomo dalla sua natura conducendolo in un terreno infido che
lo allontana dal raggiungimento della felicità. Interessante è notare come, non
solo dalla condivisione del proprio sentire politico, ma anche dalla descrizione
delle vicende personali non emerga mai nel narrato dei volontari un’avversione
al lavoro come ricerca di sostentamento e di miglioramento delle proprie condizioni di vita; ma piuttosto si delinei un’avversione al lavoro quando esso diviene
unica ragione di vita o strumento per l’accumulo di una ricchezza percepita
erroneamente come apportatrice di felicità.
Ferdinando Gandini racconta «ho perso mio papà a nove anni e morto mio
padre io volevo aiutare la mamma che cuciva per l’opera, che tra l’altro mi piaceva
andare a vedere, e così ho lasciato la scuola e ho iniziato a lavorare e lavoravo più
ore io dell’orologio andando poi a scuola di sera, ma non ho mai pensato che se
accumulavamo tanti soldi saremmo stati felici, non ho mai pensato che nei soldi
c’era la nostra felicità, certo attraverso il lavoro potevo aiutare la mamma per
avere i mezzi materiali di sostentamento, ma la felicità veniva quando andavo
a vedere l’opera o dai sentimenti che ti trasmettono quella scossa interiore che
lo capisci subito che è felicità, per questo non ho mai capito coloro che credono di
realizzarsi accumulando denaro, ma poi non hanno mai tempo per le cose che
danno la felicità e quando smarrisci la strada della felicità è difficile da
recuperare945».
Ricorre la tematica della natura ingannatrice della mentalità capitalistica e
della logica di fondo ad essa attribuita di accumulo della ricchezza. Il capitalismo
è ancora una volta concepito come responsabile di sviare l’uomo dal perseguimento della vera felicità, che i volontari descrivono come fatto interiore accessibile
soltanto a patto che non si sia soggiogati dal desiderio irrefrenabile di denaro. Il
volontario Pietro Ciabattini afferma: «il denaro è un mezzo di scambio che l’uomo
ha finito per confondere con l’obiettivo della sua vita perché il capitalismo gli ha
fatto smarrire il senso delle cose946». Dunque non sarebbe il denaro in sé il nemico
943
944
945
946
180
Gentile 2008:
Intervista del
Intervista del
Intervista del
255-257.
25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
dell’uomo, in quanto mezzo di scambio o di sostentamento, ma la mentalità
capitalistica che «lo ha trasformato in un obiettivo di vita947».
La tematica dell’eroismo altruistico che caratterizza la nascita dell’ideologia
fascista come rinnovamento etico contro il materialismo marxista e capitalista948
trova dunque eco nel narrato di alcuni volontari e assume i toni della battaglia
ideologica ed etica contro il capitalismo, identificato come nemico della felicità
umana. Se già nel 1919, all’interno del nascente fascismo, si propone la confisca
della ricchezza accumulata in maniera illecita durante la prima guerra mondiale
e a livello ideologico si concepisce una lotta contro l’ipercapitalismo, l’alta finanza
e i signori del denaro949, si può certamente asserire che, data la presenza di queste
componenti ideologiche nel narrato raccolto, i volontari si pongano su un piano
di continuità col fascismo delle origini.
Anche il volontario Ireneo Orlando è molto esplicito parlando del rapporto
che a suo avviso sussiste tra denaro e capitalismo e colloca il suo sentire
all’interno del quadro storico in cui maturò la sua scelta di volontariato e in quello
contemporaneo: «il nemico che allora combattevamo erano le plutocrazie, quegli
Stati che avevano fatto del capitalismo la loro ragione e che questa ragione la
volevano esportare in tutto il mondo, il nemico non è il denaro, che è un mezzo
pratico di scambio e l’uomo ha sempre avuto dei mezzi di scambio come il sale o
le conchiglie, ma è la finanza perché è stato il capitalismo che cambiando la
concezione del denaro ha creato la finanza che è diventata qualcosa di ancor
peggiore del solo accaparrare denaro e che oggi travolge interi paesi e mette in
pericolo le radici stesse della vita dell’uomo950».
Ancora una volta il denaro è definito come mero mezzo di scambio, e non
rappresenta pertanto il nemico, che è invece identificato, allora come oggi, nel
capitalismo e nella finanza che del denaro stesso ha traviato il modo d’uso. Oggi
il capitalismo, nella sua versione finanziaria, è ritenuto più pericoloso di quello
adottato da quelle plutocrazie che il volontario volle combattere arruolandosi
nelle Waffen-SS.
Ireneo Orlando attribuisce al fascismo il merito di aver compreso il pericolo
rappresentato dal capitalismo e di aver combattuto le plutocrazie, che egli
descrive come responsabili del disegno di diffondere la mentalità capitalistica nel
mondo. La decisione di volontariato in alcuni degli intervistati si lega in modo
diretto alla «necessità di fermare coloro che volevano piegare i popoli alle leggi
della finanza951».
Il tema della pericolosità della finanza, concepita come esercizio di un potere
sovranazionale del capitalismo e delle sue concentrazioni di capitale, è condiviso
da molti intervistati. Ma è il volontario Rutilio Sermonti che parlando di
«finanziarizzazione dell’economia», afferma: «prima l’imprenditore produceva
beni, mentre oggi predomina il concetto finanziario e si parla di produrre
ricchezza, ricchezza che è data da un numero su uno schermo della borsa, il
denaro stesso non esiste più, da mezzo di scambio è diventato fine della vita
947
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951
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Sternhell 1993: 246-247.
Sternhell 1993: 308, 340-344.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
181
dell’uomo e poi si è trasformato in un concetto finanziario, qualcosa che non esiste
ma che domina la vita dell’uomo952».
Un ulteriore aspetto che attraversa la tematica dell’anticapitalismo consiste
nel fatto che gli intervistati traccino complessivamente un ponte di continuità tra
la battaglia anticapitalistica alla quale sentono di aver partecipato col loro
volontariato nelle Waffen-SS e l’attuale contesto economico. La mentalità
capitalistica che vollero combattere continua, infatti, a loro avviso a sviare
ancora oggi, con strumenti sempre più efficaci identificati nella finanziarizzazione
dell’economia, l’uomo dalla propria natura spirituale, incamminandolo in un
percorso che lo allontana dal conseguimento della felicità.
Il nipote del volontario Karl Nicolussi-Leck dichiara: «sin dalla sua adesione
al nazionalsocialismo era convinto che la fonte del male fosse l’uso della finanza
in modo smodato e provava avversione verso un certo uso della finanza che
distruggeva il mondo, lui rimase coerente tutta la vita a ciò e nel dopoguerra
emigrò in Sudamerica dove è diventato manager dell’agroalimentare e poi
consulente di Stati africani per lo sviluppo agricolo perché diceva sempre che il
progresso e la finanza stavano distruggendo il mondo953». Il volontario Alessandro Scano afferma: «la volontà di combattere le plutocrazie angloamericane era
forte nelle Waffen-SS, ma anche nel fascismo che ne fece sempre un suo obiettivo
per la costruzione di una società più giusta. Oggi chi si batte contro la finanza che
affama i popoli? Nessuno954».
Dello stesso avviso è il volontario Francesco Scio che ricostruisce il quadro
storico vissuto e lo proietta nel presente: «con la presa dell’Etiopia ci sono saltati
tutti addosso, gli inglesi che avevano centinaia di colonie per primi, attraverso la
Società delle Nazioni che allora era a Ginevra e che ora gli americani per
giostrarla meglio se la sono portata a New York, inglesi, americani e francesi ci
hanno messo le sanzioni, ma mica solo per non farci espandere in Africa,
soprattutto perché temevano il modello di economia che il fascismo stava
costruendo, è stata una guerra tra due modi opposti di guardare al mondo e oggi
vediamo le conseguenze della guerra persa nel dominio della finanza sul
mondo955».
La moglie del volontario Ferdinando Salutin afferma parlando del marito:
«per lui americani e inglesi erano delinquenti che avevano vari interessi a fare
la guerra, ma soprattutto avevano un’avversione al modello sociale fascista, loro
che erano capitalisti e anche a causa del fatto che la loro economia capitalista
aveva prodotto tante armi avevano bisogno di bombardare e bombardare per
motivi economici; mio marito diceva sempre che la guerra per gli angloamericani
aveva motivi ideologici e economici sempre legati alla loro visione capitalista
della società e dell’uomo e dopo la guerra diceva che stavano costruendo il
dominio del mondo basato sul capitalismo della finanza956».
Tra le motivazioni principali alla base della seconda guerra mondiale i
volontari identificano, dunque, lo scontro tra due diverse ed opposte visioni del
952
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
954
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
955
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
956
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 alla moglie del volontario Ferdinando Salutin.
953
182
mondo che divergono sulla concezione stessa dell’uomo e sul concetto di giustizia
sociale. Il fascismo e il nazionalsocialismo sono agli occhi dei volontari movimenti
politici che pongono al centro del proprio impianto ideologico l’uomo e la giustizia
sociale, mentre il capitalismo è accusato di porvi il denaro e la sua accumulazione.
La seconda guerra mondiale si combatté dunque, secondo gli intervistati,
«tra i fascismi che perseguivano la giustizia sociale e il capitalismo che attraverso
le plutocrazie inseguiva il dominio della finanza sul mondo e sugli uomini957».
Un ulteriore aspetto che emerge da queste ultime dichiarazioni è il rammarico espresso da molti volontari per quella che essi descrivono come l’assenza di
una proposta politica contemporanea che sappia fronteggiare l’attuale situazione internazionale valutata come quella di attuazione del dominio della finanza
sull’uomo. Gli intervistati continuano a sentire ad oggi come propria la battaglia
anticapitalista e, non identificando alcun soggetto politico che dopo la sconfitta
dei fascismi sia considerabile come portatore di queste istanze, manifestano un
certo «scetticismo sulla possibilità di costruire un mondo più giusto958».
In alcuni dei volontari intervistati l’avversione nei confronti del capitalismo
non solo perdura sino ad oggi, ma si traduce nell’adozione di comportamenti reali
e di un particolare stile di vita. Diego Morini, figlio del volontario Walter, afferma:
«a mio padre non gliene fregava nulla dei soldi, tra i soldi e il tempo libero ha
sempre scelto, parlo del dopoguerra, il tempo da dedicare alla montagna che
viveva come il luogo dell’anima, ma ricordo che tra le ragioni per cui diceva di aver
combattuto c’era l’avversione al capitalismo finanziario e alla dittatura del
potere economico, si la chiamava proprio dittatura, e chiamava libertà il tempo
libero che dedicava alla montagna959».
Diversi tra i volontari intervistati fanno presente questo atteggiamento che
consiste nel privilegiare il tempo libero rispetto al tempo dedicato al lavoro,
quando questo produce un reddito considerato sufficiente al proprio sostentamento. Si tratta di un codice di condotta personale che assume i tratti della
prosecuzione a livello individuale della battaglia anticapitalista intrapresa con
l’adesione al fascismo e la militanza nelle Waffen-SS. I volontari privilegiano, a
seconda delle attitudini personali, il contatto con la natura, le attività sportive
e artistiche, che considerano più importanti dell’accumulo della ricchezza.
Se nessun soggetto politico attuale è ritenuto all’altezza di condurre una
battaglia contro il capitalismo, gli intervistati scelgono comunque di ribellarsi a
quella che considerano una vera e propria dittatura dello stile di vita capitalistico
e i propri comportamenti divengono il mezzo e l’incarnazione di questa ribellione.
È pertanto possibile asserire che l’anticapitalismo sia stato non solo motivo di
adesione all’ideologia fascista e di arruolamento nelle Waffen-SS, ma anche
elemento cardine del pensiero politico dei volontari sino ai giorni nostri.
In due degli intervistati la vocazione anticapitalistica attribuita al fascismo
e al nazionalsocialismo è valutata, inoltre, come elemento determinante della
valenza internazionale dell’ideologia fascista stessa. Rutilio Sermonti afferma:
«il fascismo accomunò italiani, tedeschi, romeni, spagnoli, francesi, portoghesi,
belgi, finlandesi, svedesi, slavi, magiari e persino britannici, ce lo sentimmo
957
958
959
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
183
sbocciare nel cuore il fascismo, come impeto di ribellione dello spirito alla
degradazione che stava imponendo la plutocrazia impadronitasi del potere, fu un
fenomeno non solo europeo, perché non dobbiamo dimenticare gli arabi, come la
figura di Amin al-Husseini, e nemmeno possiamo dimenticare l’indiano Pandit
Nehru che lottarono contro le plutocrazie e la dittatura del denaro sull’uomo960».
Il volontario Pietro Ciabattini racconta: «con le Waffen-SS e la nascita della
RSI finalmente potevamo lottare contro i capitalisti della Società delle Nazioni,
tutti insieme europei, asiatici e africani che trovarono nel fascismo e nel nazismo
ideologie che rivalutavano le identità nazionali e gli indipendentismi, mentre gli
inglesi come scriveva anche Salgari opprimevano i popoli, e ci battemmo contro
quelle che si chiamavano allora plutocrazie e oggi si chiama alta finanza e che ora
come allora ha ridotto l’uomo a strumento e controlla i popoli con la chimera del
denaro961».
Dunque per due dei volontari intervistati la battaglia politica contro le forze
capitaliste diviene un fattore di adesione internazionale all’ideologia fascista e di
vicinanza tra i fascismi e i popoli oppressi. Quest’ultimo aspetto, quello della
collaborazione con i popoli oppressi dal colonialismo, sarà al centro dell’autocritica di Hitler del 1945, nella quale egli si rammaricò non solo di non aver spazzato
via una borghesia atrofizzata, ma anche di non aver stretto più forti legami coi
popoli oppressi, specie gli islamici, aiutandoli a liberarsi dal giogo capitalista e
colonialista962. Queste affermazioni dei due volontari, Sermonti e Ciabattini, che
identificano nell’anticapitalismo un fattore di diffusione del fascismo come
ideologia politica internazionale e di coesione tra i popoli con un superamento
delle distinzioni di nazionalità e di etnia, offre ulteriormente la misura di quanta
importanza assuma il sentire anticapitalista all’interno del pensiero politico dei
volontari italiani nelle Waffen-SS.
Un aspetto, quello della centralità dell’anticapitalismo, che rappresenta un
elemento di novità rispetto a quanto sino ad oggi ricostruito sia dalle pubblicazioni di impostazione denigratoria sia da quelle apologetiche. Queste ultime
fanno, infatti, riferimento a una generica “lotta del sangue contro l’oro”, presentando o lasciando intravedere il concetto di sangue come equivalente di quello di
razza963, elemento questo che non solo non trova riscontro in quanto ricostruito,
ma neppure, come avrò modo di approfondire a breve, nel sentire dei volontari
intervistati sulla tematica della razza.
Le ricostruzioni denigratorie precedentemente citate offrono, invece, una
descrizione del volontariato italiano nelle Waffen-SS che sembra derivata da una
960
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
962
Nolte 2008: 548. I rammarichi di Hitler per quanto concerne un appoggio alle cause dei
popoli oppressi che egli ritenne avrebbe potuto essere maggiore deve essere inquadrato nelle
relazioni tra islam, fascismo e nazionalsocialismo. Stefano Fabei nei suoi studi analizza in
dettaglio i rapporti tra fascismo e resistenza palestinese (Fabei 2005) e tra fascismo, nazionalsocialismo e islam (Fabei 2002) sia dal punto di vista delle relazioni diplomatiche sia di quelli che
identifica come punti di contatto tra i principi dell’islam e quelli del nazionalsocialismo (Fabei
2002: 167-168). Egli, pur attribuendo a tutta la Germania una concezione internazionalista
(Fabei 2002: 15-16) che se fosse stata effettivamente di tale larga portata non avrebbe
determinato l’autocritica di Hitler, ben ricostruisce l’avvicinamento dei fascismi alle cause
indipendentiste dei popoli oppressi dal colonialismo e quello di questi all’Italia e alla Germania.
963
Zucconi 1999; Afiero 2001; Afiero 2001b.
961
184
traslazione in automatico ai volontari di quelle interpretazioni marxiste del
fascismo che lo considerano come prodotto della società capitalistica e reazione
antiproletaria avversa ai principi di giustizia sociale964. Si tratta di una descrizione, quest’ultima, che è possibile considerare come altamente distorcente dato
che, non solo non coglie l’anima anticapitalista emersa come cardine del sentire
dei volontari, ma ne offre, senza far riferimento alcuno a fonti primarie,
un’immagine addirittura opposta e contraria. A tutti gli effetti, invece, l’anticapitalismo dei volontari come declinazione del concetto di giustizia sociale, data
la sua trasversalità e ricorrenza all’interno delle testimonianza raccolte e data
la sua coerenza ideologica con le stesse origini del fascismo e con il sentire politico
dell’ultimo fascismo repubblicano, appare plausibilmente estendibile all’esperienza di volontariato italiano nelle Waffen-SS come fenomeno generale.
Antisemitismo, antigiudaismo, antiebraismo
Nel narrato di alcuni degli intervistati alle tematiche del perseguimento
della giustizia sociale e del forte sentire anticapitalista si collega e correla, quasi
a livello di unità tematica, il tema dell’antigiudaismo965. È una tematica questa,
che evidenzia posizioni difformi e discordanti tra i volontari.
Mentre alcuni intervistati, la parte maggioritaria, affrontano spontaneamente la tematica all’interno della descrizione del proprio sentire politico e si
attribuiscono un’ostilità nei confronti degli ebrei che è utile approfondire in
dettaglio, altri negano di essere stati animati da alcun sentimento di avversione.
Nelle attuali ricostruzioni sul fenomeno del volontariato italiano nelle
Waffen-SS vengono attribuiti ai volontari una generica adesione al pensiero
antisemita e il coinvolgimento nella gestione dei campi di concentramento e di
sterminio nazista, ma senza far riferimento a fonti primarie e incappando in
grossolani errori evidenziati nella prima parte di questo studio966. Molto detta964
Sternhell 1993: 10; De Felice 2005: 51-80.
Tenendo presente che secondo la Working Definition of Antisemitism dell’European
Union Agency for Fundamental Rights è definita come antisemitismo qualsiasi percezione degli
ebrei che possa originare odio e ostilità nei loro confronti (EUMC, http://fra.europa.eu/fraWebsite/
material/pub/AS/AS-WorkingDefinition-draft.pdf), e che all’interno dell’Italia fascista la tematica antisemita fu influenzata dal dibattito acceso tra sostenitori del razzismo biologico e del
razzismo spirituale (Germinario 2001; Rossi 2003; Pisanty 2006; Sarfatti 2008a; Germinario
2009), è utile far riferimento alle categorie concettuali che i volontari adottano per descrivere la
propria e altrui ostilità verso l’ebreo. Esse, oltre a riflettere in parte lo stesso dibattito all’interno
del fascismo tra sostenitori della razza del sangue e della razza dello spirito, aiutano a
comprendere meglio i sentimenti che animano i volontari stessi. Nel pensiero dei volontari viene
considerato come antisemitismo ogni atteggiamento di ostilità nei confronti degli ebrei basato su
fondamenti riferibili al razzismo biologico. I concetti di antigiudaismo e antiebraismo, entrambi
adoperati dagli intervistati, divengono talvolta sinonimi, ma si può considerare come antigiudaismo l’ostilità verso gli ebrei che trae origine da motivazioni socioeconomiche non legate al concetto
di razza biologica. Nell’antiebraismo l’ostilità verso gli ebrei, che è mutuata sempre da ragioni
di pregiudizio sociale e economico, si allarga dagli ebrei a tutti coloro ai quali sono imputabili
comportamenti ritenuti tipici dell’ebreo.
966
Alcuni fiancheggiatori del movimento partigiano, arrestati dai tedeschi e costretti a
svolgere il ruolo di guardie presso San Sabba, vengono erroneamente qualificati come SS dalla
maggior parte degli studi dedicati al volontariato italiano (Lazzero 1982: 77-80; de Lazzari 2002:
12; Caniatti 2010: 209).
965
185
gliatamente sono invece ricostruite da Carlo Gentile le operazioni in territorio
italiano della 16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS e della 1ª SSPanzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler967, delle quali fecero parte anche
alcuni dei volontari le cui storie sono ricostruite nella ricerca, quest’ultima
coinvolta nella cattura di ebrei nella seconda metà di settembre del 1943 nei
pressi del Lago Maggiore968.
Ad oggi però nessun approfondimento sull’antisemitismo generalmente e
genericamente attribuito ai volontari italiani nelle Waffen-SS è stato condotto.
I volontari intervistati possono essere divisi in due gruppi rispetto a questa
tematica: coloro che confermano e rivendicano la loro adesione all’antigiudaismo
e coloro che, invece, negano di essere stati animati da alcuna ostilità nei confronti
degli ebrei. In quest’ultimo caso è pressoché impossibile trovare conferma
generale all’effettiva assenza di ostilità e odio verso gli ebrei all’epoca del
volontariato, e non si può escludere che l’attuale rifiuto di attribuzione di
qualsiasi forma di antisemitismo al proprio sentire politico possa essere legato
anche allo stigma sociale nei confronti dell’antisemitismo, ai rischi penali che
comporta l’aver compiuto atti persecutori nei confronti degli ebrei o ad un
successivo ravvedimento. In alcuni casi è stato possibile ricostruire azioni di
guerra che sembrano poter avvalorare effettivamente, all’interno del quadro
ideologico dei singoli intervistati, tale assenza di un sentire antisemita anche
all’epoca del volontariato nelle Waffen-SS e in un caso, in particolare, si è trovato
riscontro del comportamento di un volontario che determinò la salvezza dalla
persecuzione di persone di religione ebraica969.
Dalle testimonianze di coloro che ammettono e rivendicano la propria ostilità
nei confronti degli ebrei è, invece, possibile, data la franchezza dell’esposto,
ricostruire tutte le dinamiche sociali, storiche e politiche che portarono parte dei
volontari intervistati ad aderire al pensiero antisemita. Le interviste si sono
dimostrate, dunque, un’occasione unica e importante per redigere una mappa
delle dinamiche culturali che determinarono nei volontari l’adesione all’antisemitismo. Ma è proprio sul termine “antisemitismo” che gli intervistati sentono la
necessità di introdurre alcuni distinguo.
Il volontario Pietro Ciabattini afferma: «io non sono mai stato antisemita,
l’antisemitismo non mi ha mai convinto, piuttosto mi sento vicino all’antigiudaismo970». La distinzione appare rilevante per comprendere appieno il pensiero dei
volontari ed è utile analizzarla proprio attraverso il narrato degli intervistati.
L’antigiudaismo, facendo proprio il lessico e le concettualizzazioni adottate da
quei volontari che adoperano il termine per caratterizzare e definire la propria
ostilità verso gli ebrei, appare spontaneamente nel narrato, spesso in un
rapporto di diretta correlazione con le tematiche della giustizia sociale e dell’anticapitalismo. L’antigiudaismo come tematica non gode, dunque, di natura
autonoma all’interno del flusso narrativo.
Il volontario Ferdinando Gandini, ad esempio, mentre descrive l’importanza
della giustizia sociale all’interno del proprio pensiero politico, afferma: «noi
967
968
969
970
186
Gentile 1995; Gentile 2003.
Toscano 1993; Gentile 1995: 75-130; Parachini s.d..
Brunetta 2003.
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
eravamo i soldati di un futuro più giusto e più bello, contro quella mentalità
capitalistica che hanno gli ebrei che soggiogano la gente e pretendono di essere
pagati anche per un bicchier d’acqua971». La frase, nella sua semplicità, è
rilevante in quanto evidenzia l’identificazione dell’ebreo con la mentalità capitalistica e, quindi, con il disegno attribuito a questa di soggiogare il mondo.
Il volontario formula una equazione che lo porta a considerare l’ebreo non
solo come promotore, ma come vera e propria incarnazione della mentalità
capitalistica e commerciale. Per enfatizzare l’attribuzione di tale mentalità
l’intervistato descrive l’ebreo come capace di lucrare anche sulla vendita di un
bene collettivo come l’acqua. Il figlio del volontario Walter Morini riporta un
concetto molto simile: «mio padre l’antisemitismo non lo sentiva, ma certo era
contrario al capitalismo finanziario e alla dittatura del pensiero economico e in
ciò lo portava su posizioni di antigiudaismo972».
Appare dunque evidente che l’ostilità di alcuni volontari nei confronti degli
ebrei, citata da essi stessi come antigiudaismo, si ricolleghi, ma si potrebbe dire
quasi derivi, dall’avversione nei confronti del capitalismo finanziario e dell’economicismo precedentemente esaminata, fino a divenirne una vera e propria
declinazione tematica.
Il volontario Pietro Ciabattini asserisce: «col cervello di ora sono contro gli
ebrei più di prima, ma non dell’ebreo vicino di casa, ma di quelli col capitale, i
capitalisti per eccellenza, perché sono gli ebrei che hanno portato e portano il
capitale agli Stati Uniti973». La frase dell’intervistato presenta diversi aspetti di
rilievo. Innanzitutto ancora una volta l’ebreo viene identificato con la mentalità
capitalistica e l’accumulazione del capitale. E proprio in virtù di ciò il nemico
viene identificato non tanto nella persona fisica, ma nella logica e nei comportamenti attribuiti alla collettività degli ebrei. Un nemico che, appare con forza nella
testimonianza del volontario, sarebbe ancora presente e operante all’interno di
una società che, come visto in precedenza, è giudicata succube della mentalità
capitalistica.
La società contemporanea secondo il volontario risulterebbe quindi dominata dagli Stati Uniti proprio in virtù di un apporto di capitale che gli ebrei
garantirebbero al fine di diffondere il dominio del modello capitalistico sul
mondo. È interessante confrontare le dichiarazioni del volontario Pietro Ciabattini col pensiero di Karl Nicolussi-Leck, che il nipote riporta così: «lui sosteneva
che bisogna fare attenzione alle parole, perché loro erano convinti che la fonte del
male fosse l’uso della finanza, il capitalismo finanziario, e che quindi si doveva
parlare di antigiudaismo politico, non razziale, non personale, ma politico in
senso di avversione verso una finanza che distrugge il mondo974». Da queste
parole emerge con ulteriore chiarezza la ragione che anima i volontari nell’uso del
termine “antigiudaismo”, piuttosto che “antisemitismo”.
L’antigiudaismo è concepito in una dimensione politica e sociale, non razziale, e il giudaismo viene definito come: «il supercapitalismo dei supercapitalisti
971
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
973
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
974
Intervista del 13 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
972
187
che vogliono asservire gli uomini al dio denaro usando la finanza e il consumismo
come mezzi di una battaglia ideologica che è contraria alla giustizia sociale975».
L’ebreo diviene nemico in quanto accusato di essere portatore della mentalità
capitalistico finanziaria, reputata il principale ostacolo alla realizzazione della
giustizia sociale, e non si evidenzia alcun riferimento ai principi del razzismo
biologico.
I volontari che dichiarano il proprio antigiudaismo ripudiano l’uso del
termine “antisemitismo” perché rimanda a concezioni del razzismo biologico che
ritengono inaccettabili. Ciò trova conferma nella parole del volontario Rutilio
Sermonti: «il nostro era antiebraismo, il nostro presunto razzismo italiano e
tedesco non sfociò mai nell’odio razziale perché conservò sempre il carattere di
antiebraismo, anche perché gli ebrei non sono più una razza in senso biologico da
molti secoli, come del resto gli italiani, e le nostre motivazioni erano soprattutto
economiche, sociali e politiche, poi per altri c’erano anche motivazioni religiose,
ma non si parli di antisemitismo perché l’antiebraismo per noi non ha mai avuto
motivazione razziale976». Anche il volontario Ireneo Orlando specifica: «non era
questione di singoli ebrei, o di razzismo biologico come oggi vogliono far credere,
il nemico era il giudaismo, il nemico era la finanza e le plutocrazie977».
Il rifiuto dei volontari a qualificare la propria ostilità verso gli ebrei o
l’ebraismo come antisemitismo e la rivendicazione di un antigiudaismo o antiebraismo, che intesi in senso socioeconomico e politico rappresenterebbero
meglio a livello terminologico la battaglia avvertita come propria, sono certamente degni di essere approfonditi.
Il volontariato italiano nelle Waffen-SS avviene in un periodo storico che,
anche a livello politologico, è soggetto ad analisi e dibattiti sulle traiettorie
assunte dall’ideologia fascista. Alcuni fanno notare come il fascismo italiano non
sia nato come movimento politico antisemita e cercano pertanto di individuare
le dinamiche che portarono successivamente a quello “scarto di ideologia” che
introdusse l’antisemitismo nel sistema ideologico fascista, con modifiche che nel
1938 si concretizzarono in quell’insieme di provvedimenti legislativi e amministrativi noto col termine di “leggi razziali”978. Si tratta di dinamiche ideologiche,
ricondotte talvolta alla necessità attribuita ai vertici del fascismo di imprimere
un’accelerazione al processo di totalitarizzazione del regime adeguandolo al
modello tedesco979, che portarono a quella che viene definita “germanizzazione
del fascismo” o “nazificazione del fascismo”980.
Tali traiettorie politiche consentono di asserire che indubbiamente l’espe975
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
977
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
978
Germinario 2001: 112-154; Germinario 2009: XII-XIII. Zeev Sternhell fa notare nella sua
ricostruzione della nascita dell’ideologia fascista italiana come il razzismo non sia una delle
condizioni necessarie per l’esistenza di un fascismo, pur contribuendo all’eclettismo fascista
(Sternhell 1993: 12).
979
De Bernardi 2001: 270-271. Il dibattito sul carattere totalitario del regime fascista è
ancora aperto e lungi dall’addivenire a interpretazioni concordi (Sauer 1967; De Felice 2005: 90112; Gentile 2008: VI-VII, 38). Sul totalitarismo nazionalsocialista Nolte (2008: 385) afferma:
“Nel 1939 la Germania appariva tanto totalitaria accanto all’Inghilterra e alla Francia quanto
doveva mostrarsi liberale a chiunque fosse in grado di fare un confronto reale con l’Unione
Sovietica”.
976
188
rienza di volontariato degli intervistati avvenne in una fase storica complessa
nella quale i diversi fascismi europei si fondevano non solo militarmente nelle
Waffen-SS, ma anche dal punto di vista ideologico, con l’Italia interessata da
quella “nazificazione del fascismo” sopracitata e da tendenze di “antisemitismo
collaborazionista981”.
Analizzare il pensiero politico dei volontari, e in particolare quell’antisemitismo citato come fattore di nazificazione del fascismo, assume quindi ancora
maggiore rilevanza. Dei legami, anche strettamente personali, tra ufficiali della
cerchia esoterica interna alla 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS e gli uffici
dell’Ispettorato generale della Razza e il Centro per lo studio del problema
ebraico di Trieste è stato scritto in precedenza. Fatto al quale bisogna aggiungere
che Giovanni Preziosi considerasse proprio i giovani ufficiali delle SS italiane i
più validi alleati per la crociata contro l’ebreo-massoneria982.
Fatto presente questo, ciò che appare importante in questa sede è comprendere a fondo in cosa consista l’antigiudaismo/antiebraismo, dichiarato da alcuni
volontari, in termini di ideologia politica e di dinamiche culturali che lo sottendono. Come emerge dalle parole dei volontari precedentemente citate non vi è
traccia di quell’antisemitismo sotto forma di polemica teologica che aveva
anticipato il razzismo di diversi secoli983.
Per tutta la seconda metà dell’Ottocento l’Italia aveva conosciuto una sola
forma di antisemitismo, quello cattolico, che fu però lontano dal raggiungere
dimensioni consistenti, tanto che alcuni per descriverlo adoperano la definizione
di istanze antisemite di “bassa intensità”. Una certa intensificazione degli
attacchi della stampa cattolica contro gli ebrei si era verificata nell’ultimo
ventennio dell’Ottocento, sotto il pontificato di Leone XIII, e si caratterizzò per
il fatto che in essi apparivano congiunti ebrei e massoneria, con quest’ultima
identificata come strumento attraverso il quale gli ebrei erano riusciti a conquistare posizioni di potere nella società europea984. Ma i volontari del resto, come
visto in precedenza, si caratterizzano per una religiosità paganeggiante e ostile
al cristianesimo e al cattolicesimo e, pertanto, appare coerente che non manifestino alcuna adesione all’antigiudaismo cattolico. La concezione dell’ebreo come
fondatore e promotore della mentalità capitalistica, che caratterizza il narrato di
alcuni volontari, si ricollega piuttosto ad un socialfascismo che interpreta
l’antisemitismo, definito in questo caso come antigiudaismo dagli intervistati,
come anticapitalismo985.
L’avversione dei volontari nei confronti degli ebrei rientra, dunque, in quella
980
De Bernardi 2001: 270-271; Germinario 2001: 112-154; Germinario 2009: XII-XII, 58.
Klinkhammer 2009: 271.
982
Canosa 2007: 308-356; Germinario 2008: 104; Raspanti 2008: 114, 135-137.
983
Mosse 2008: 124-162; Germinario 2009: 5; Klinkhammer 2009: 269-270. Proprio a tale
antisemitismo di matrice religiosa viene riferito solitamente il termine antigiudaismo, che però
i volontari intervistati adoperano in una accezione connotata su tematiche economiche e sociali.
All’interno della società italiana è certamente rintracciabile un antisemitismo di matrice
cattolica che identifica nell’ebreo il deicida e che si diffonde nella popolazione attraverso la
diffusione di miti come quello della profanazione dell’ostia, dell’avvelenamento dei pozzi e degli
infanticidi rituali. In particolare l’accusa di omicidio rituale è stata per secoli un luogo comune
diffuso in Italia dall’antigiudaismo cristiano (Pisanty 2006: 270-272).
984
De Felice 1993: 5-27; Canosa 2007: 45.
981
189
tradizione di antisemitismo sociale che ritrae l’ebreo come avido dedito al profitto
e che nel pensiero politico degli intervistati si ricollega e si inserisce sia all’interno
di quel programma di lotta ai ceti parassitari che il fascismo propugnava sin dalle
origini sia in quel pensiero antiutilitarista che caratterizza l’ideologia fascista986.
L’anima sociale del fascismo delle origini e di quello della RSI sembrano poter
rappresentare il terreno ideologico e culturale nel quale si innesta il sentire
antisemita di alcuni degli intervistati. La classificazione e scomposizione del
tessuto sociale in produttori e parassiti; la nazione vissuta come mezzo di
raggiungimento della giustizia sociale che diviene giustizia nazionale; la lotta ai
ceti parassitari attraverso politiche redistributive; la privazione del diritto alla
proprietà acquisita illegalmente e l’identificazione del borghese come soggetto
senza patria, tutte tematiche che segnano la nascita dell’ideologia fascista e ne
costituiscono la struttura987, sono i temi ai quali non solo i volontari intervistati
dichiarano la propria adesione, ma rappresentano anche le strutture ideologiche
su cui si salda il loro sentire antigiudaico.
Intorno agli anni Venti del Novecento la cultura italiana viene, infatti,
attraversata da una forma di antisemitismo di matrice sociale che mettendo in
discussione il sistema finanziario-industriale del paese comincia a far uso di
espressioni quali “finanza ebraica”; ad indicare l’ebreo come elemento corruttore
all’interno del sistema bancario, industriale e sociale; a diffondere l’immagine
dell’ebreo strangolatore della Germania durante il primo conflitto mondiale e a
auspicare che il governo fascista debba essere antisemita e il compito del
fascismo quello di epurare l’Italia988.
Con l’ascesa al potere del fascismo, le tematiche antisemite di derivazione
sociale non cessarono di animare il dibattito politico nazionale e attraversarono,
con una presenza certamente non centrale ma neppure trascurabile, l’esperienza
fascista, apportando l’attenzione su tematiche quali: l’Internazionale ebraica, la
plutocrazia e il bolscevismo giudaico, la resurrezione della Germania in seguito
alla lotta all’ebraismo, l’autenticità e veridicità dei Protocolli dei Savi Anziani di
Sion, il potere crescente della finanza giudaica e massonica, l’ebraismo come
corruttore della società e del fascismo, la trasformazione della figura del trafficante d’oro ebreo nel finanziere989. Nonostante fosse tollerata la presenza di una
propaganda antisemita ricca di toni antiborghesi, che aveva in Giovanni Preziosi
il suo animatore principale, sembrò poter prevalere all’interno del fascismo l’idea
che un “problema ebraico italiano” non esistesse, per il fatto che agli ebrei non
venissero imputate operazioni di resistenza all’ascesa al potere e alla gestione di
esso del fascismo e che ad essi venisse riconosciuto di aver dato prove di
patriottismo. È in questo quadro che l’Italia degli anni Trenta rappresentò il
“rifugio precario” per gli ebrei stranieri in fuga dai loro paesi di origine990.
985
Nolte 2008: 220-221.
Sternhell 1993: 254, 345.
987
Sternhell 1993.
988
Canosa 2007: 80-90.
989
Canosa 2007: 104-145.
990
Voigt 1993 e 2008. Un atteggiamento non ostile nei confronti degli ebrei, presente in una
parte della popolazione italiana, si tradurrà più tardi, nell’ultima fase del fascismo repubblicano,
in un aiuto passivo e attivo, come avvenuto a Roma nel 1943 contro la polizia tedesca pronta ad
arrestare gli ebrei (Klinkhammer 2007: 403; Riccardi 2008: 244; Klinkhammer 2009: 273-274).
986
190
Ma ormai l’antisemitismo era a tutti gli effetti un tratto caratteristico di
alcuni determinati ambienti politici fascisti e nel 1937 l’invettiva antisemita
riprese slancio, specie con la pubblicazione del libro di Paolo Orano dal titolo Gli
ebrei in Italia991. A breve, nel 1938, verranno varate le cosiddette “Leggi razziali”,
l’antisemitismo prenderà forma istituzionale e la figura di Giovanni Preziosi
assumerà un ruolo più centrale nel fascismo sino alla fine con l’esperienza della
RSI. Se dunque si può parlare certamente di una “nazificazione del fascismo”, è
però al contempo utile tenere presente che le tematiche antisemite di matrice
sociale attraversano l’intera esperienza fascista, seppur non in posizione predominante, e trovano accoglienza nella matrice antiutilitaristica e sociale dell’ideologia fascista.
Certamente l’alleanza con la Germania contribuì a quella che è definita la
“nazificazione del fascismo”, ma l’antisemitismo attraversò indubbiamente lo
sviluppo ideologico del fascismo stesso ben prima che tale alleanza si delineasse.
Certamente un contrappeso a tali tendenze antisemite fu rappresentato dalla
partecipazione di persone di origine ebraica alla nascita del fascismo, alla Marcia
su Roma e alla vita politica fascista; con gli ebrei fascisti fedelissimi del Duce de
La nostra bandiera e con ebrei che ricoprirono importanti cariche istituzionali,
come ad esempio: Adolfo Finzi, sottosegretario agli Interni e membro del Gran
Consiglio; Guido Jung, ministro delle Finanze, e Maurizio Rava, tra i fondatori
del fascio di Roma e governatore della Somalia992.
Ma l’onda lunga dell’antisemitismo, specie nella sua connotazione socioeconomica, sembra aver giocato un ruolo non secondario nella legislazione antisemita del 1938 assieme al progressivo avvicinamento dell’Italia fascista alla
Germania nazionalsocialista.
La direzione della campagna razziale italiana venne affidata dal fascismo
principalmente a Telesio Interlandi, direttore dal 1938 al 1943 del quindicinale
La difesa della razza, che nel suo antisemitismo era maggiormente legato a
visioni tipiche del razzismo biologico. Un’impostazione, questa, che non si
rintraccia nel pensiero politico dei volontari che appaiono, invece, più vicini al
razzismo spirituale e sociale di Preziosi che, pur avendo disegnato un censimento
su base biologica degli ebrei italiani come primo passo nella lotta contro
l’ebraismo, sosteneva che l’antisemitismo strettamente biologico e scientifico
non potesse individuare l’ebreicità ontologica della modernità borghese e liberale, prospettiva questa che si tradusse in accese polemiche con lo stesso Interlandi993.
Il mondo borghese, pervaso dalla logica capitalista, diviene secondo alcuni
degli intervistati un mondo ebreizzato che deve essere sconfitto e superato.
Anche la solidarietà che i volontari esprimono ai popoli oppressi dal colonialismo,
collegata all’antigiudaismo, trova riscontro nella tradizione antisemita europea
e riecheggia il pensiero di Édouard Drumont, che manifestava la sua ostilità al
colonialismo interpretato come un’articolazione del piano ebraico di conquista
del mondo994.
991
Murialdi 1986: 167; De Felice 1993: 138-148; Canosa 2007: 181-192.
Sternhell 1993: 11; Cecini 2008; De Ianni 2009.
993
Canosa 2007: 340-341; Germinario 2009: 82-92.
994
Germinario 2009: 6. Per quanto concerne il contributo ideologico di Édouard Drumont alla
992
191
L’antigiudaismo dei volontari, così definito per distinguerlo dall’antisemitismo al quale è attribuita una matrice biologica e razziale, in un distinguo che
ricorda dunque le polemiche tra Preziosi e Interlandi, si inserisce nel quadro del
pensiero anticapitalista e diviene un elemento di rivolta e di lotta contro il
liberalismo economico e la società borghese e capitalista. Queste ultime ritenute,
conformemente alle dinamiche culturali che condurranno alla nascita della
stessa ideologia fascista, colpevoli di ridurre i ceti produttivi a schiavi degli ebrei,
imprigionandoli nel giogo delle banche e della finanza internazionale995.
Appare dunque possibile, al fine della piena comprensione del pensiero
politico degli intervistati, accettare il distinguo terminologico da essi proposto,
quando, rifiutando l’adesione e la partecipazione ad un antisemitismo a carattere
razziale, rivendicano un antisemitismo sociale che qualificano col termine di
antigiudaismo. In questo quadro, giova riportare e analizzare ulteriori citazioni
relative all’antigiudaismo dal narrato dei volontari, in modo da approfondire la
comprensione di quanto l’avversione verso l’ebreo di una parte degli intervistati
ricalchi il filone culturale dell’antisemitismo-antigiudaismo come questione
economica e sociale, piuttosto che razziale.
Nel pensiero del volontario sudtirolese Karl Nicolussi-Leck la mentalità
capitalistica, considerata caratterizzante dell’ebreo, viene correlata alla negazione delle specificità locali imputata sia al fascismo sia al comunismo. Il nipote
riferisce come il pluridecorato ufficiale delle Waffen-SS fosse solito affermare:
«c’era un grande rispetto delle identità nelle Waffen-SS e nel nazionalsocialismo
e per noi i giudei potevano essere anche quegli italiani che non rispettavano la
nostra identità, perché vi era una certa uguaglianza tra fascismo e comunismo
come regimi che negavano le identità, che appiattivano tutto e non accettavano
le differenze culturali, fatto che gli ebrei perseguivano con la loro politica
capitalista e finanziaria a livello internazionale996».
Nelle parole del volontario Rutilio Sermonti riecheggia la medesima condanna: «la cupola usuraia apolide con sede a New York si è servita e si serve di
succursali in ogni luogo del pianeta che vorrebbero cancellare ogni identità dei
popoli per instaurare la plutocrazia, ossia il dominio di chi possiede la ricchezza
materiale, è la loro pretesa di ignorare le razze per ridurre tutti a servi delle cose,
del denaro, e ciò è causa della degradazione di ogni convivenza civile, della
libertà, mentre nelle Waffen-SS eravamo uniti ma ciascuno col suo bagaglio,
senza distinzioni di età, di classe sociale e nemmeno di nazionalità e di razza.
L’ebraismo voleva e vuole che i diversi popoli rinuncino alla loro anima per
trasformarsi in un gregge al servizio della casta mercantile e cosmopolita, un
gregge di lavoratori e consumatori997».
Dal pensiero dei due volontari emergono tratti di un antigiudaismo di
matrice sociale ed economica che si arricchisce di nuove dimensioni. Il termine
“giudeo” non è più riferito, infatti, esclusivamente all’ebreo, ma a tutti coloro ai
quali sono attribuite una mentalità, un comportamento e un pensiero considerati
nascita dell’ideologia fascista: Sternhell 1997.
995
Sternhell 1997: 193-201, 213-224.
996
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
997
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
192
come tipici dell’ebreo.
È evidente un’eco della polemica contro la borghesia avviata dal regime
fascista che subì poi progressivamente una sensibile declinazione in senso
antisemita, tanto che la critica alla borghesia e al capitalismo, inizialmente
formulata in termini economico-politici, si identificò poi spesso col paradigma
antiborghese e antimaterialistico dell’universo ideologico antisemita998.
Il giudeo nel pensiero di Karl Nicolussi-Leck viene identificato anche nel
fascista che, negando le specificità culturali ed identitarie del Sudtirolo, è
considerato portatore, su scala locale, di quello spirito ebraico al quale è
attribuito il disegno e la realizzazione di un progetto di mondialismo indifferenziato. L’appellare come “giudeo” chiunque sia ritenuto portatore di una logica
capitalistica atta a negare le identità, come emerso nel narrato precedentemente
condiviso, rimanda alle concezioni di Alphonse Toussenel, che possono considerarsi come l’atto di nascita di un antisemitismo che, tendendo a mantenere
distinte le ragioni del sangue da quelle dello spirito, distingueva fra gli “ebrei”
della borghesia finanziaria accusata di seguire ormai un codice di comportamento economico tipicamente ebraico e i “giudei”, ossia gli ebrei di sangue, arrivando
dunque a classificare come “ebrei” tutti coloro ai quali erano attribuibili comportamenti tipici dei “giudei”999.
Tale estensione dell’attribuzione della qualifica di ebreo teorizzata da
Toussenel appare ancora più radicale nel pensiero di alcuni dei volontari
intervistati, secondo i quali tutti coloro che sono accusati di atteggiamenti
ricondotti allo spirito ebraico devono essere considerati a tutti gli effetti giudei o
ebrei, con i due termini usati come sinonimi. Cade la necessità di distinguere tra
ebrei in senso spirituale e giudei in senso razziale e la qualifica di ebreo/giudeo
viene attribuita attraverso una classificazione di tipo comportamentale. A tutti
gli effetti appare ancor più comprensibile che gli intervistati rifiutino di vedersi
attribuita l’appartenenza ad un antisemitismo che essi considerano di derivazione razziale.
Il pensiero dei volontari Sermonti e Nicolussi-Leck evidenzia la presenza di
una tematica sinora rimasta in secondo piano: la convinzione dell’esistenza di un
disegno e di un piano ebraico per dominare il mondo. Vi è la convinzione che le
forze del capitalismo e della finanza internazionale abbiano operato ed operino
per sovvertire i principi del rispetto delle identità locali e nazionali e della
giustizia sociale, e ciò col fine di creare una società asservita al denaro e composta
non di uomini ma di consumatori.
Nell’ottica degli intervistati questo piano diventa ebraico non perché attribuibile esclusivamente ad appartenenti al popolo ebraico, ma in quanto ordito in
obbedienza ai poteri dell’ipercapitalismo e della finanza internazionale e in
coerenza con quella mentalità capitalistica della quale l’ebreo è considerato
incarnazione. I volontari all’interno del narrato non nominano mai i Protocolli
degli Antichi Savi di Sion e quando vengono invitati da apposite domande a
commentare quel falso non esitano a prenderne le distanze, come in questo caso:
«dei presunti testi non mi importa un fico secco, io mi soffermo a osservare la
998
Germinario 2009: 74.
Germinario 2009: 82. Sul contributo ideologico di Alphonse Toussenel alla nascita
dell’ideologia fascista: Sternhell 1997.
999
193
realtà sociale e economica e dove sta andando il mondo, cosa importa un vecchio
testo rispetto a ciò che si può osservare? Nulla1000». Sergio Romano fa notare che
le basi della fortuna dei Protocolli sono da rintracciare non tanto nei singoli
contenuti, quanto nella loro proposta generale della presenza di una aristocrazia
metanazionale a cui imputare le sventure del popolo e nella tenace convinzione
che gli affari del mondo siano governati da qualche centinaio di persone1001. Tra
i volontari che dichiarano il proprio antigiudaismo alcuni accennano alla presenza di una cupola usuraia apolide e dunque, pur dichiarando gli intervistati di non
aver letto o provato interesse per i Protocolli, sembra in alcuni casi trovare
riscontro il meccanismo identificato da Romano come elemento cardine della
fortuna di quella pubblicazione.
Ciò che è importante notare è come per la generalità degli intervistati lo
scontro che avvenne durante la seconda guerra mondiale più che interessare le
nazioni interessi due opposte concezioni dell’uomo, della vita e del mondo. Da un
lato i fascismi che incarnarono il principio della giustizia sociale e del riconoscimento delle identità dei popoli, dall’altro gli Stati capitalisti, le plutocrazie, che
incarnarono, invece, il principio dell’egoismo individualista e delle riduzione dei
popoli ad una massa indifferenziata di consumatori e sfruttati. In questa visione
del conflitto i termini “ebreo” e “capitalista” divengono sinonimi.
Si assiste, dunque, ad una estensione di significato del termine “ebreo”, o di
quello di “giudeo” adoperato indistintamente come sinonimo, che diviene connotativo, in senso dispregiativo e di identificazione del nemico, di tutti coloro che
aderiscono alla logica capitalista. Non vi è dubbio alcuno che i volontari che
dichiarano la propria adesione all’antigiudaismo si caratterizzino per un pensiero che deve essere ricondotto principalmente, se non esclusivamente, all’interno
di quel filone culturale definito come antisemitismo di matrice economica e
sociale, i cui teorici esprimono un giudizio sulla società liberale quale epoca
dell’avvenuta ebreizzazione del mondo1002.
L’avversione nei confronti dell’ebreo e di coloro che sono considerati ebreizzati
non resta su un piano esclusivamente culturale e, nel narrato di alcuni volontari,
assume un ruolo contingente all’interno del secondo conflitto mondiale. L’analisi
di tale aspetto è necessaria per tentare di comprendere quali implicazioni
pratiche possa aver assunto, all’interno dell’esperienza di volontariato, il sentire
antisemita di matrice economica e sociale proprio di alcuni volontari.
Il volontario Alessandro Scano, ad esempio, stimolato sull’eventuale coinvolgimento della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS in azioni contro gli ebrei,
afferma: «tutto il discorso sugli ebrei nasce dopo la guerra, con la scoperta di
quello che è successo nei campi di sterminio, ma all’epoca non lo sapeva nessuno
e noi vedevamo le fortezze volanti americane che bombardavano continuamente
e lanciavano anche giocattoli bomba, non abbiamo mai pensato di fare e mai
abbiamo fatto azioni contro gli ebrei». Ma subito dopo specifica: «non si può
comunque dire che gli ebrei come potere economico siano buoni, davvero no, tutte
le guerre le hanno scatenate loro»1003. Se dunque a livello operativo e militare il
1000
1001
1002
1003
194
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
Romano 2008: 141.
Germinario 2009: 56.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
volontario nega l’attuazione di azioni contro gli ebrei ad opera della divisione
italiana delle Waffen-SS1004, appare chiaro come egli attribuisca agli ebrei la
responsabilità di aver scatenato il conflitto. Il volontario Pietro Ciabattini crea
un collegamento ancora più esplicito asserendo che «l’ebraismo era il finanziatore
della potenza americana1005».
Una correlazione diretta tra gli Stati Uniti e l’ebraismo durante il secondo
conflitto mondiale, che si estenderebbe sino al presente, viene proposta anche da
Rutilio Sermonti: «gli Stati Uniti erano il nemico allora e lo sono ancora perché
la setta che negli Usa detiene il potere era e è la peggior degenerazione
dell’Occidente che non ha scrupoli nell’usare la prepotenza aggressiva per
realizzare il disegno del Consiglio Mondiale dell’usura e è innegabile che tra Stati
Uniti e sionismo ancora oggi c’è un legame strettissimo e ancora è controverso
quale sia la succursale e quale sia la casa madre1006». Il volontario Francesco Scio
afferma: «l’iniziale ammirazione delle democrazie occidentali per il fascismo si è
trasformata in ostilità a causa delle trame dell’internazionale ebraica e questo
prima che il fascismo varasse qualsiasi provvedimento antiebraico, perché
temevano il modello sociale e economico del fascismo1007».
La prima informazione che emerge da queste dichiarazioni, aldilà della
negazione di un coinvolgimento in eventuali azioni contro gli ebrei, che nessuno
dei volontari intervistati potrebbe comunque mai ammettere alla luce dei
processi che negli anni recenti si sono svolti in Italia contro militari tedeschi
accusati di azioni violente e persecutorie, è che l’ebraismo viene chiamato in
causa come belligerante e in alcuni casi come responsabile delle ostilità. Affermazioni che rimandano ad un altro filone culturale dell’antisemitismo, intimamente
correlato a quello di matrice economica e sociale, atto a identificare nell’ebreo
colui che finanzia, fomenta o scatena guerre e rivoluzioni per agevolare il dominio
della finanza sul mondo.
Sebbene, come fatto presente, i volontari prendano le distanze dai falsi
Protocolli e non citino specifiche letture sulle teorie cospirazioniste e del complotto giudaico, condividendo un’interpretazione che definiscono propria e derivata
da un’autonoma analisi delle dinamiche socioeconomiche del passato e del
presente, si evidenzia una sovrapposizione con quella cultura popolare antisemita che affonda le sue radici nella diffusione di testi come La guerra occulta di
Emmanuel Malynski.
Il saggista polacco sostiene, infatti, che di pari passo alle rivoluzioni del 1848
cominci anche la grande ascesa politica, sociale e economica del popolo ebraico.
Egli afferma che dopo il 1848 “gli ebrei divennero in tutta l’Europa quel che essi
già erano in Francia dopo la Rivoluzione francese: dei cittadini delle nazioni in
cui essi avevano piantate le loro tende da Beduini dell’oro”1008. Malynski imputa
agli ebrei e alle loro macchinazioni la Rivoluzione russa e tutte le guerre tra
nazionalismi che diverrebbero funzionali a fare delle Borse e delle banche i templi
1004
Azioni in territorio italiano contro gli ebrei sono state ricostruite per quanto concerne la
1ª SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler (Gentile 1995; Parachini s.d.).
1005
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1006
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
1007
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
1008
Malynski 1978: 41.
195
futuri dell’Occidente1009. È impossibile non ravvisare una coerenza tra tali tesi e
quelle di alcuni volontari intervistati, secondo i quali l’alleanza tra ebraismo e
Stati Uniti combatté la seconda guerra mondiale col fine di «favorire il trionfo del
capitalismo globale e la dittatura della finanza internazionale che affama i
popoli1010».
Un’immagine dell’ebreo come soggetto che trama nell’ombra era diffusa
dalla cultura popolare dell’epoca anche a livello cinematografico, come ricorda il
volontario Ireneo Orlando: «c’erano anche film sull’ebreo che era l’immagine
dell’avidità, dell’accaparrare denaro tramando nell’ombra e pronto ad ogni
sotterfugio1011».
Il volontario Francesco Scio condivide un evento recentemente accadutogli:
«ricordo un giorno che sentii un ebreo che nel negozio parlava di Priebke dicendo
che gli avrebbe sparato lui con un fucile di precisione, io non resistetti e gli dissi
che come ebreo non si smentiva, sempre intenti a combattere alle spalle o di
nascosto, chiesi anche al venditore di non vendergli più la merce e che gli avrei
dato io i soldi che spendeva quell’ebreo1012». L’immagine dell’ebreo che trama
nell’ombra e combatte in modo sleale è, dunque, ancora presente nel sentire di
alcuni volontari. Le caratteristiche di combattenti nell’ombra e nel sotterfugio
attribuite agli ebrei determinano, inoltre, un’ostilità da parte degli intervistati
che si ricollega ai modelli eroici da questi adottati.
L’eroe, come ricostruito, è per i volontari colui che si batte a viso aperto e con
coraggio per difendere i più deboli e per assicurare al mondo un futuro di
giustizia. L’agire nell’ombra, attribuito agli ebrei o agli ebreizzati, per egoismo
personale frutto della mentalità capitalista o per assicurare il trionfo del
capitalismo finanziario sul mondo, determina nei volontari un rafforzamento dei
sentimenti di avversione, in quanto comportamento opposto ai modelli eroici fatti
propri.
La tematica dell’eroismo si incrocia con la cultura antisemita anche nel
pensiero di Édouard Drumont, nazionalista antisemita il cui pensiero Sternhell
correla alle origini dell’ideologia fascista nella Francia di fine Ottocento primi
Novecento, che riconduce le dinamiche storiche al conflitto tra l’ebreo, mercante
cupido e perfido, e l’ariano eroico, cavalleresco e disinteressato1013. Le distinzioni
fondate sull’attribuzione di un modello di lotta opposto tra ebrei e fascisti,
evidenti in alcuni volontari, non considerano in alcun modo rilevante che
all’antisemitismo militante praticato da certi fascisti, corrispose un’ampia diffusione del fascismo tra gli ebrei, la cui percentuale in seno al movimento fu di gran
lunga superiore a quella degli ebrei nella popolazione della penisola1014.
Il contesto culturale nel quale gran parte degli intervistati maturò le
convinzioni politiche che portarono all’arruolamento nelle Waffen-SS è però
quello che, a partire dal 1938 e con lo scoppio della guerra, segna una sempre
maggior consuetudine negli attacchi della stampa nei confronti degli ebrei1015. La
1009
1010
1011
1012
1013
1014
1015
196
Malynski 1978: 58, 156.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Sternhell 1997: 163-164.
Sternhell 1993: 11.
De Felice 1993: 379-387.
formazione politica giovanile di buona parte degli intervistati avviene, dunque,
in un quadro di fervente antisemitismo all’interno del quale, ad esempio, anche
il futurismo ha dato la propria adesione avvertendola come coerente con le
proprie radici patriottiche e antimaterialiste1016. De Felice mette in proposito in
risalto come tra gli aderenti all’antisemitismo fascista fossero numerosi, ed
anche i più sinceri rispetto a certi uomini di cultura il cui sostegno può essere letto
come strumentale alla conservazione dei ruoli di potere e prestigio detenuti,
proprio i giovani1017.
Gli intervistati che palesano la propria adesione ad un pensiero dichiarato
come antigiudaico hanno, dunque, maturato le proprie convinzioni in età
giovanile e sviluppato il proprio sentire antisemita anche nel dopoguerra,
soprattutto attraverso un’analisi descritta come autonoma, che sui fondamenti
culturali e politici esaminati trova le sue radici, degli sviluppi economici e sociali
intervenuti dopo la caduta dei fascismi.
Sempre per quanto concerne l’immagine dell’ebreo come persona che trama
nell’ombra appare interessante una vicenda narrata dal volontario Francesco
Scio: «dopo la guerra mi trovai per ragioni di lavoro a redigere una pratica per un
ebreo e dopo aver fatto tutto il lavoro questo non mi ha pagato, questo giudeo era
abituato all’inganno e infatti poi è scappato in America dove voleva fingersi
polacco1018». Nel narrato complessivo del volontario l’immagine dell’ebreo dedito
all’inganno si articola dunque su due piani, uno politico e l’altro personale,
derivato da una negativa esperienza di vita che viene poi proiettata su un piano
più generale a conferma del proprio sentire politico. In un numero ristretto di
volontari si assiste a questo meccanismo per il quale un ebreo conosciuto
personalmente diviene specchio di tutti i difetti attribuiti al popolo ebraico in
generale e agli ebreizzati al servizio della mentalità capitalistica e finanziaria.
Parlando del ruolo degli ebrei all’interno del contesto bellico il volontario
Rutilio Sermonti afferma: «la dichiarazione di guerra alla Germania da parte del
Consiglio Mondiale Ebraico risale al 1933 e all’Italia al 1935, con un uso
massiccio dei media controllati dagli ebrei contro le due nazioni, io mi chiedo
perché quelle dichiarazioni di guerra non siano mai citate e perché invece si parli
sempre delle contromisure1019».
Queste dichiarazioni si inquadrano sicuramente all’interno delle precedenti,
espresse anche da altri volontari, che attribuivano all’ebraismo internazionale la
partecipazione al secondo conflitto mondiale e una responsabilità, potremmo dire
occulta, nell’inizio delle ostilità. Ma il volontario Sermonti è l’unico tra gli
intervistati ad asserire l’esistenza di una dichiarazione di guerra dell’ebraismo
contro i fascismi e a identificare come legittima l’attuazione di contromisure da
parte di questi.
Le presunte responsabilità ebraiche relativamente alla seconda guerra
mondiale erano state sinora ricondotte alle trame oscure dell’ebraismo internazionale e principalmente alla sua capacità di mobilitare gli Stati Uniti all’interno
del conflitto. La questione sollevata dal volontario Rutilio Sermonti sembra
1016
1017
1018
1019
Härmänmaa 2000: 268-278.
De Felice 1993: 387-393.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
197
potersi ricondurre al recente dibattito storiografico e inquadrarsi all’interno di
alcune considerazioni avanzate da Ernst Nolte. Ma lo storico tedesco, pur
asserendo che non è frutto di fantasia parlare di una “dichiarazione di guerra
ebraica contro Hitler”, puntualizza come quest’ultimo avesse ben prima dichiarato guerra agli ebrei, e non più in veste di solo uomo di partito ma anche di uomo
di Stato, al più tardi il 30 gennaio 1939.
Tra le parole del volontario e le ricostruzioni di Nolte avviene dunque
un’inversione di primogenitura. La dichiarazione di guerra ebraica che lo storico
tedesco identifica con la lettera aperta di Chaim Weizmann, presidente della
Jewish Agency for Palestine, indirizzata al primo ministro britannico e pubblicata da The Times il 5 settembre 1939, secondo la quale gli ebrei si sarebbero
schierati dalla parte della Gran Bretagna e avrebbero combattuto assieme alle
democrazie, non può comunque essere passata sotto silenzio secondo Nolte1020.
Ciò che è però qui maggiormente importante tener presente, aldilà della pur
rilevante questione della primogenitura della dichiarazione di guerra, è come
quest’ultime parole del volontario Sermonti rappresentino una conferma ulteriore del fatto che alcuni dei volontari, quelli che dichiarano la propria adesione
all’antigiudaismo, si sentirono in guerra contro l’ebraismo, considerato a tutti gli
effetti nemico dei fascismi.
Gli atteggiamenti registrati consentono di attribuire ad una larga parte degli
intervistati un sentire antisemita che si esprime su un piano principalmente
politico, gli ebrei e gli ebreizzati sono considerati portatori di una visione del
mondo antitetica a quella fascista, e ad un gruppo ristretto la traduzione di tale
pensiero in un’avversione verso il singolo ebreo o ebreizzato. È questo il caso di
uno degli intervistati che, affermando in precedenza che nelle Waffen-SS la
questione ebraica non era all’ordine del giorno, dichiara poi relativamente alla
sua attività di libero professionista nel dopoguerra: «agli ebrei pratico una tariffa
più alta, visto che vogliono dominare da sempre il mondo, quando hanno bisogno
che almeno paghino e rendano in parte quanto accaparrato a spese degli altri1021».
Per quanto concerne il fatto che l’antigiudaismo di matrice cattolica, pure
essendo presente da secoli in Italia, non animi in alcun modo il pensiero
antisemita dei volontari, occorre tenere presente, oltre alla prevalente religiosità
pagana dei volontari, che si traduce in indifferenza o ostilità verso il cristianesimo e il cattolicesimo, alcune ulteriori dichiarazioni raccolte durante le interviste.
Francesco Germinario mette in evidenza come un utilizzo fascista della
tradizione antigiudaica cristiana fosse ormai storicamente impraticabile dopo
che, da almeno un cinquantennio, l’antisemitismo aveva provveduto a emanciparsi definitivamente da esso. Lo storico pugliese fa notare come per un’ideologia
secolarizzata e incline al paganesimo, maggiormente quella nazionalsocialista
ma anche la fascista, l’adozione di tematiche mutuate dall’antigiudaismo cristiano avrebbe rappresentato lo smarrimento di un’autonomia politica e ideologica
rivendicata con orgoglio1022.
Ma dall’esposto di due volontari emerge come, nel prevalente antisemitismo
di matrice economica e sociale che contraddistingue gli intervistati, trovi spazio
1020
1021
1022
198
Nolte 2008: 326-327.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Germinario 2009: 28-30.
un antisemitismo che è di matrice religiosa, ma non cristiana o cattolica, bensì
pagana.
Il volontario Rutilio Sermonti afferma: «il giudaismo si basa sulla concezione
di un popolo eletto, l’unico popolo eletto dall’unico dio e questo popolo vorrebbe,
anzi dovrebbe, avere al proprio servizio gli altri, i gentili, trattati come animali
e destinati a servire, e tutto ciò è entrato a far parte della cultura europea perché
il giudaismo ha esercitato un influsso sull’Europa attraverso il cristianesimo che
inizialmente era una setta ebraica, e troppo spesso ci dimentichiamo che anche
il mito della superiorità della razza bianca trova il suo fondamento in elementi
materiali come il progresso tecnologico e nell’esclusivismo cristiano di origine
ebraica che portava a privare di dignità gli altri culti e da questo nasce l’alibi per
una schiera di affaristi di portare la civiltà ad altri popoli1023».
Come analizzato precedentemente anche il volontario Pio Filippani Ronconi
sostiene nel suo memoriale la tesi che il cristianesimo, concepito come elemento
nocivo di origine asiatica, abbia contribuito a determinare la caduta dell’Impero
Romano e la perdita delle antiche radici sacre ai popoli europei.
Se il generale sentire pagano attribuibile ai volontari e la presenza di
un’ostilità verso il cristianesimo e il cattolicesimo sarebbe di per sé sufficiente a
spiegare la mancata adesione all’antigiudaismo cattolico, queste ultime prese di
posizione evidenziano piuttosto che in alcuni volontari non solo non vi fosse
conciliabilità tra le proprie posizioni di antisemitismo sociale e l’antigiudaismo
cattolico, ma che il cristianesimo e il cattolicesimo venissero equiparati come
mentalità di fondo all’ebraismo dal quale originano. La storia del cristianesimo
viene infatti interpretata come dominazione affaristica su altri popoli ammantata da un pretesto religioso ed il cristianesimo è indicato come complice del
giudaismo del quale adotterebbe la medesima logica e i medesimi mezzi.
Tra gli intervistati oltre a coloro che condividono la propria adesione ad un
pensiero che qualificano coi termini “antigiudaismo” o “antiebraismo” vi è una
parte minoritaria che respinge però con fermezza l’attribuzione di un qualsiasi
sentimento di odio o ostilità nei confronti degli ebrei. Tre volontari negano la
propria adesione a qualsiasi forma di antisemitismo ed un terzo si rese protagonista di una storia che avvalora l’assenza di odio verso gli ebrei nel suo
comportamento e nel suo pensiero politico.
I volontari Mario Lucchesini e Paolo Cavalletti affermano che sulla propria
scelta di volontariato nelle Waffen-SS non pesò il desiderio di combattere gli ebrei
o il giudaismo, un desiderio che non riconoscono come parte del proprio sentire
politico1024. Anche il volontario Adolfo Simonini, che nel narrato non palesa
alcuna avversione nei confronti degli ebrei, alla domanda se vi fosse in lui
desiderio di combattere il giudaismo, risponde di non essere stato animato da
alcun antisemitismo e racconta: «un giorno in un’operazione mi hanno consegnato un ebreo da portare a valle, e io ho risposto che a me che fosse ebreo non fregava
1023
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti. Il volontario nel corso
dell’intervista aggiunge: «il papa polacco, Wojtyla, aveva concezioni politiche a livello di terza
media e serviva il vangelo ebraico, il vangelo-bis antihitleriano rivelato nel 1933 dal consiglio
mondiale ebraico di New York».
1024
Interviste telefoniche del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini e del 20 agosto
2008 al volontario Paolo Cavalletti.
199
nulla, io politicamente me ne frego, io sono un militare e quando accompagnavo
giù il prigioniero gli ho detto di andare e lui non ci credeva, mi chiedeva se davvero
poteva andare e io gli dicevo di sì, che poteva, e finalmente mi ha creduto e se ne
è andato. Comunque quando poi mi ha visto il maresciallo della Polizei mica mi
ha detto nulla, lo sapeva che lo avevo mandato via1025».
Una storia che ha avuto un discreto rilievo mediatico è quella del volontario
Carlo Manfredo di Robilant che intervenne l’11 febbraio 1944 per sottrarre Carlo
Angela, padre del noto giornalista Piero, alla fucilazione alla quale era stato
condannato per il suo operato antifascista e per aver offerto rifugio a diversi ebrei
all’interno della clinica psichiatrica Villa Turina di San Maurizio Canavese1026.
Aldilà di questa minoranza di volontari che dichiara in modo credibile di non
aver nutrito sentimenti ostili verso gli ebrei, è comunque possibile asserire che
la maggior parte degli intervistati rinvenisse e rinvenga a tutti gli effetti
nell’ebraismo, e in parte nell’ebreo, un nemico; in conseguenza di una sentita
adesione ad un antisemitismo di matrice economica e sociale che, qualificando
come ebrei o giudei tutti coloro che sono ritenuti portatori di comportamenti
considerati tipici dell’ebreo, non assume mai tratti di razzismo biologico o di
antigiudaismo cattolico.
In stretta correlazione con la tematica dell’antigiudaismo è quella dell’eventuale contatto dei volontari con l’universo concentrazionario nazionalsocialista.
Fatto questo che è difficile ricostruire attraverso le memorie dei volontari stessi,
ma che si riscontra in alcune testimonianze. È inoltre interessante, all’interno del
quadro ideologico sinora ricostruito, conoscere la valutazione storica che gli
intervistati offrono relativamente all’esistenza e alla funzione dei campi di
concentramento e di sterminio1027.
A parte alcune eccezioni, che verranno esaminate, i volontari negano in gran
parte di essere entrati in contatto con l’universo concentrazionario nazionalsocialista e dichiarano una generale avversione verso il fatto che le Waffen-SS siano
generalmente collegate dai media ai campi di sterminio. I volontari italiani
ribadiscono il loro ruolo di soldati, che rivendicano come antitetico a quello di
guardia di un campo di concentramento o di sterminio.
1025
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini. Il volontario non è in grado
di ricostruire con certezza, dato che non effettuò in prima persona l’arresto, se il giovane ebreo
fosse stato arrestato in quanto tale o perché membro della Resistenza. Il suo comportamento fa
presupporre che all’epoca abbia valutato come probabile la prima ipotesi, ma oggi, a distanza di
tanti anni, l’intervistato non è sicuro di poter asserire ciò. Per quanto riguarda il ruolo degli ebrei
nell’antifascismo e nella Resistenza: Luzzato 1962; Sarfatti 1986; Artom 2008; Sarfatti 2008;
Sajeva 2009; Cavallarin s.d..
1026
Brunetta 2003.
1027
Giova fare brevemente accenno alla distinzione tra campo di sterminio e campo di
concentramento facendo riferimento al destino degli ebrei romani deportati in Germania. La
destinazione degli ebrei dell’Europa occidentale nel settembre 1943 era il campo di sterminio di
Auschwitz-Birkenau in Alta Slesia (Polonia annessa). Nei campi di concentramento l’intento non
era quello di sterminio, bensì di un regime di concentramento e di lavoro duro. Gli ebrei romani
furono inizialmente destinati a Mauthausen, che era un campo di concentramento, forse per
evitare un gesto che, data la vicinanza del quartiere ebraico al Vaticano, poteva apparire
provocatorio nei confronti della Santa Sede. Il convoglio partito dalla stazione Tiburtina però,
vista la mancanza di reazioni vaticane, ma anche internazionali, anziché essere avviato verso
Mauthausen venne destinato ad Auschwitz (Picciotto 2008: 21-22).
200
Dei fraintendimenti presenti nelle pubblicazioni italiane sul volontariato
militare nelle Waffen-SS, che hanno portato ad attribuire la qualifica di SS a
partigiani costretti ad assumere il ruolo di guardia presso la Risiera di San
Sabba, ma anche a soldati di altre formazioni della RSI che mai vestirono
quell’uniforme, è stato scritto nella prima parte del presente studio. Ma è proprio
il sensazionalismo mediatico e pubblicistico che ancora oggi accompagna i
processi a carico di membri delle SS, come nel caso di Erich Priebke più volte
citato dagli intervistati, e che tende a creare un filo diretto tra chiunque vestì
l’uniforme delle Waffen-SS e comportamenti violenti o complici nell’opera di
sterminio del popolo ebraico, ad aver contribuito alla creazione di una barriera
narrativa sulla tematica dell’esperienza italiana nelle Waffen-SS.
Non pochi volontari, sebbene siano stati rintracciati con le modalità illustrate precedentemente e sia stato loro chiarito il fine del presente studio, hanno
rifiutato di partecipare per il timore di «vedersi ingiustamente messi in correlazione con i campi di sterminio1028»; di «subire ingiusti processi senza aver
commesso alcunché e diventare come Priebke, da sbattere in prima pagina che
tanto serve ai soliti noti1029»; e di «essere triturati dai professionisti della
memoria, dalla lobby della memoria che trasformano tutti in criminali nazisti1030». Talvolta l’iniziale disponibilità si è tramutata in diniego per l’intervento
dei famigliari sui volontari. Uno di questi, spiegando l’intenzione di ritirare il suo
iniziale assenso, dichiara: «anche mia moglie e mio figlio dicono che certamente
la ricerca sarebbe interessante per andare oltre la mia storia e capire di più, ma
poi ci sono i soliti giornalisti e magari qualche magistrato che comincia un
processo e così divento il mostro di turno che massacrava gli ebrei, mentre io ho
solo combattuto al fronte, poi vaglielo a spiegare che eri nelle SS ma eri un
soldato1031».
Si è precedentemente ricostruito come il coinvolgimento dei soldati delle
Waffen-SS nelle operazioni concentrazionarie e sterminazioniste appaia limitato, sebbene non assente, ma a livello mediatico e pubblicistico la realtà è
presentata diversamente e ciò contribuisce ad erigere quella barriera narrativa
alla quale si è accennato.
Tra gli intervistati soltanto due dichiarano di aver avuto contatti con i campi
di concentramento tedeschi, mentre gli altri negano e respingono ogni coinvolgimento. Non si può escludere che possano esservi state tra gli intervistati
reticenze ingenerate dai recenti processi e dallo stigma sociale e che alcuni
possano aver deliberatamente taciuto un eventuale contatto con l’universo
concentrazionario, ma ciò non ha comunque impedito la ricostruzione del punto
di vista dei volontari intervistati sulla persecuzione e lo sterminio degli ebrei.
È opportuno analizzare da subito le dichiarazioni di coloro che con l’universo
concentrazionario ebbero un contatto diretto del quale hanno deciso di parlare
nel corso dell’intervista.
1028
Intervista telefonica del 1° novembre 2009 al volontario A che rifiuta di partecipare allo
studio.
1029
1030
Intervista telefonica del 7 luglio 2006 al volontario B che rifiuta di partecipare allo studio.
Intervista telefonica del 19 febbraio 2007 al volontario C che rifiuta di partecipare allo
studio.
1031
Intervista telefonica del 22 febbraio 2007 al volontario D che rifiuta di partecipare allo
studio.
201
Il volontario Cirillo Covallero, durante il suo volontariato nella 4ª SS-PolizeiPanzergrenadier-Division, operò presso il campo di concentramento di Buchenwald. L’intervistato racconta: «con la Polizei Division sono stato due volte a
Buchenwald. Prima nel ‘43, verso novembre, e poi nel settembre del ’44 quando
ricordo i bombardamenti delle fortezze volanti e i fuochi che erano accesi
dappertutto. Eravamo appena entrati in camera, dopo aver fatto la doccia e
messo i vestiti e la roba in una stanza a disinfettare tutto con i gas, e poi sono
arrivati i bombardamenti e siamo dovuti scappare assieme ai prigionieri nel
bosco. Io c’ero, ero lì con le SS, e poi mia figlia mi ha regalato una videocassetta
su Buchenwald perché le avevo raccontato com’era, ma nel filmato era tutto
diverso, facevano vedere sempre lo stesso mucchio di ossa, ma nel campo di
concentramento capitava che la gente morisse di fame e di malattia. Poi non è
neanche come fanno vedere alla tv che erano tutti a strisce i prigionieri, qualcuno
sì, ma non era tutto come fanno vedere ora. I bombardamenti avevano distrutto
le caserme e i capannoni del campo, me lo ricordo bene, e c’erano stati molti morti
tra soldati e prigionieri e quando bombardavano si scappava tutti, militari e
prigionieri, e i prigionieri erano inquadrati in cento con una guardia. Le fortezze
volanti erano migliaia e si fuggiva sempre a ripararsi. Sotto il campo di
concentramento c’era campagna, e i prigionieri lavoravano, raccoglievano le
verdure e li ho accompagnati anch’io a raccogliere e una volta sono andato in un
altro campo di concentramento a prendere dei prigionieri per raccogliere verdure.
Ma si lavorava e basta, ricordo un deputato francese che era prigioniero e faceva
il barbiere, e io mi sono fatto fare i capelli1032».
Ciò che emerge è un racconto che, con la descrizione anche di particolari di
dettaglio, mira a smentire le riprese cinematografiche diffuse nel dopoguerra.
Una ricostruzione, questa, che avviene inizialmente all’interno del contesto
famigliare, dei rapporti tra padre e figlia, e che solo successivamente viene
condivisa nell’intervista. Stimolato ad esprimere le sue impressioni sull’universo
concentrazionario in generale il volontario asserisce di poter offrire la sua
testimonianza solo su Buchenwald e di non poter parlare dell’altro campo nel
quale prelevò dei prigionieri da impiegare nella raccolta di verdure perché non
ebbe modo di visitarlo in dettaglio1033. Relativamente a Buchenwald l’intervistato afferma: «quello l’ho visto coi miei occhi e sono certo che i filmati americani del
dopoguerra non raccontano la realtà delle cose, di quello che non ho visto non
posso testimoniare, ma in quel caso i filmati sono diversi da quello che ho visto
io, poi è normale che quando vedo i filmati su altri campi mi viene il dubbio se le
cose siano effettivamente quelle che fanno vedere, perché a Buchenwald le cose
andavano diversamente da quel che c’era nelle immagini che mi ha fatto vedere
mia figlia1034».
Il narrato del volontario presenta argomentazioni, come l’uso del gas per la
disinfezione delle uniformi, il basso rapporto guardie-prigionieri e l’attività
lavorativa come principale scopo del campo, che sembrano coincidere con alcune
tematiche adoperate all’interno degli studi del revisionismo e del negazionismo
1032
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Di questo campo di concentramento il volontario non ricorda il nome e sembra trattarsi
di uno dei diversi campi succursali di Buchenwald.
1034
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
1033
202
storico della Shoah1035. Ma l’intervistato non ha letto e non conosce gli studi
revisionisti e negazionisti e nel suo esposto non si rintraccia alcun tentativo di
questa portata. Le affermazioni si limitano, infatti, al piano della valutazione
personale su Buchenwald e del dubbio che da essa deriva per quanto ricostruito
relativamente ad altre strutture concentrazionarie. Argomentazioni queste che
egli condivide per la prima volta al di fuori del nucleo famigliare.
Cirillo Covallero è un volontario che nel corso dell’intervista non ha mostrato
sentimenti di ostilità verso gli ebrei ed è risultato mosso nelle sua decisione di
volontariato da un forte spirito d’avventura, piuttosto che da forti convincimenti
ideologici, se si esclude un anticomunismo che però è maturato e cresciuto dopo
la guerra, in virtù di quelle che il volontario descrive come «menzogne storiche
sulla guerra civile diffuse dai vincitori1036». All’interno del presente studio la
testimonianza del volontario assume un certo rilievo sia per il contenuto delle
ricostruzioni inerenti Buchenwald sia, soprattutto, per l’emergere di una marcata avversione nei confronti delle ricostruzioni storiche sull’universo concentrazionario nazionalsocialista attribuite ai vincitori della seconda guerra mondiale
e di conseguenza, anche alla luce della propria esperienza, considerate poco
attendibili.
Rutilio Sermonti è, invece, un volontario che tra gli intervistati si caratterizza per l’articolazione e la profondità del proprio pensiero politico sin dal momento
del volontariato nelle Waffen-SS. Un volontario che dopo la guerra partecipa alle
vicende del neofascismo italiano e ancora oggi scrive saggi e partecipa a
conferenze. Egli muove una critica alle ricostruzioni storiche classiche sui campi
di concentramento e sterminio nazionalsocialisti sia a partire dall’esperienza
personale sia facendo riferimento alla lettura di testi del revisionismo storico
della Shoah e del negazionismo.
Il volontario Sermonti afferma di aver visto un solo campo di concentramento, a Duisburg in Germania1037, e descrive così la struttura: «era normalissimo
dato che i prigionieri, fossero inglesi, francesi o tedeschi, venivano trattati bene
e quanto messo a disposizione dalla Croce rossa veniva distribuito regolarmente1038». Nella descrizione del campo di concentramento il volontario non menziona
esplicitamente il trattamento degli internati ebrei, ma in un rapporto di consequenzialità narrativa ricollega questa a letture successive alla sua militanza e
si pone alcuni interrogativi: «io mi chiedo spesso come gli ebrei si siano salvati
tutti miracolosamente, perché ogni giorno vediamo un sopravvissuto, ma allora
questi tedeschi non sapevano neanche ammazzare? È che si trattò di campi di
prigionia e di lavoro, non di sterminio. Lasciamo perdere poi il discorso dell’olocausto con le vittime ufficiali che nel corso degli anni sono sempre aumentate,
aumentano le vittime e aumentano i sopravvissuti, ma ci sono studi su questo
argomento che cominciano a far luce sulle cose, in Italia ad esempio c’è uno
studioso serio come Mattogno1039».
1035
Weber 1986-87; Weber e Raven 1993; O’Keefe 1995; Mattogno 2009.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
1037
Il campo di concentramento di Duisburg è uno dei diversi campi succursali di Buchenwald. Il volontario lo visita non durante la propria militanza nelle Waffen-SS, ma durante la
successiva nel Polizei-Freiwilligen-Bataillon Italien II.
1038
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
1039
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti. Carlo Mattogno è considerato
1036
203
Alcune considerazioni e calcoli personali sul computo delle vittime dell’olocausto si innestano sulla lettura di testi negazionisti e le testimonianze dei
sopravvissuti all’universo concentrazionario nazionalsocialista divengono motivo per smentire l’efficienza delle attività di sterminio. Secondo il volontario,
dunque, non si trattò di campi di sterminio, ma di lavoro.
Oltre alle testimonianze di questi due volontari, che ebbero esperienze
all’interno del campo di concentramento di Buchenwald e nei campi succursali,
è utile prendere in considerazione il narrato degli altri volontari sul medesimo
argomento. Pietro Ciabattini asserisce di aver ignorato l’esistenza dei campi di
concentramento durante il suo volontariato nelle Waffen-SS e afferma: «poi dopo
è stato dimostrato che gli ebrei sono stati catturati, ma i forni erano in un certo
senso un’invenzione, nel senso che erano campi di lavoro e morivano per il lavoro,
per malattie come il tifo petecchiale1040». Anche nell’esposto di questo intervistato
ricorre, dunque, la citazione delle tesi revisioniste e negazioniste ed emerge la
medesima convinzione, precedentemente riscontrata, che espone anche un altro
volontario: «si trattava di campi di lavoro e non di sterminio1041».
Se in generale i volontari mostrano scetticismo nei confronti delle ricostruzioni sull’olocausto, che considerano influenzate dalla propaganda dei vincitori
del secondo conflitto mondiale, essi fanno però notare come ritengano oggi
inaccettabile internare gli uomini in campi di concentramento che «attraverso
angherie fisiche e morali annientano l’uomo1042». Il giudizio a posteriori sull’universo concentrazionario nazionalsocialista è sicuramente negativo, come pratica
che «annichilisce l’uomo e lo priva di dignità1043», ma ad esso si accompagna
sempre la convinzione che si trattò di campi di concentramento, il cui fine era il
lavoro, e non di campi di sterminio.
Sebbene nessuno dei volontari lo faccia presente in modo esplicito, quest’ultima distinzione appare inserirsi coerentemente all’interno del pensiero antiseil principale studioso negazionista italiano: Mattogno 1986; 1996; 1998; 2009.
1040
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini. Il ruolo del tifo come causa
delle morti all’interno dei campi di concentramento è sostenuto da diversi storici revisionisti, tra
i quali lo stesso Mattogno che scrive: “i crematori di Birkenau furono progettati nell’agosto 1942,
dopo che Himmler, nel corso della sua ispezione del 17 e 18 luglio, aveva ordinato di aumentare
la forza effettiva prevista per il campo di Birkenau da 125.000 a 200.000 detenuti, e durante una
terribile epidemia di tifo che fece strage tra i detenuti (ma morirono anche alcune SS) (Mattogno
1996: 20)”.
1041
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti. Anche la testimonianza
di Erich Priebke sull’argomento si muove nella medesima direzione. Egli afferma infatti: «Zundel
condannato perché non crede nell’olocausto. Nel processo non si poteva discutere dell’olocausto,
l’olocausto è diventato una religione. Ma il suo avvocato non si è fatta chiudere la bocca e così ha
avuto tre anni di carcere e interdetta da avvocato. Anche Germar Rudolf è andato a Auschwitz
a fare le prove e ha dimostrato che non hanno usato gas e anche lui è stato condannato e non può
ritornare in Nord America e deve vivere in Inghilterra. Io parlai col capo di Mauthausen e mi disse
che il lager funzionava alla perfezione, davano da mangiare ai prigionieri perché lavoravano e per
loro c’era anche un bordello. I lager funzionavano bene finché c’erano risorse, ma poi con i
bombardamenti mancavano i medicinali e i viveri. Molte delle fotografie mostrate dopo la guerra
sono delle messe in scena. Non difendo il campo, non è giusto mettere le persone nei campi, ma
ciò che hanno creato dopo è falso» (Intervista del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke). Per riferimenti
a quanto esposto da Priebke: Weber 1986; Faurisson 1988-89; Costas 2000.
1042
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1043
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
204
mita di matrice economica e sociale che anima gran parte degli intervistati, e il
campo di concentramento, inteso come campo di lavoro, sembra diventare lo
strumento risarcitorio di quelle pratiche speculative e finanziarie considerate
tipiche dell’ebreo. Dunque se il campo di sterminio rappresenta una pratica
criminale inaccettabile, che gli intervistati ritengono però non sia stata realmente attuata dal nazionalsocialismo, il campo di lavoro, invece, sarebbe stato
all’epoca accettabile come strumento risarcitorio dei comportamenti sociali e
economici attribuiti agli ebrei.
Ad ulteriore conferma di ciò è utile riportare le dichiarazioni di uno tra i
volontari intervistati che afferma: «c’era scritto sin sul cancello che era un campo
di lavoro e che il lavoro doveva renderli liberi, Arbeit macht frei, liberarli per
quello che avevano fatto ai danni della popolazione con il loro commercio nero e
la speculazione finanziaria, io non ci credo che li volessero sterminare, certo ne
sono morti molti, ma il fine era quello di farli lavorare1044».
Se fino ad oggi era stato attribuito un generico antisemitismo ai volontari
italiani nelle Waffen-SS, è ora possibile asserire che le interviste effettuate fanno
presupporre che si trattò generalmente di una forma specifica di antisemitismo.
Definito dai volontari come antigiudaismo, per distinguerlo da quell’antisemitismo legato al razzismo biologico al quale rifiutano la propria adesione, si tratta
di un antisemitismo che si inserisce nella tradizione antisemita europea di
carattere sociale e economico.
Un antisemitismo che, come dimostrato, è riconducibile ad un più vasto
quadro ideologico all’interno del quale diviene declinazione dell’anticapitalismo
e del perseguimento di un’idea di giustizia sociale. Tale sentire è attribuibile
senza dubbio alla maggioranza degli intervistati, ma è anche necessario tener
presente che l’attribuzione di atteggiamenti ostili e persecutori nei confronti
degli ebrei a specifiche persone, in funzione di tale sentire antisemita diffuso,
potrebbe indurre in errori. Come ad esempio nei casi dei volontari Adolfo
Simonini e Carlo Manfredo di Robilant che si resero protagonisti di ben altri
comportamenti.
Certo è che dal complesso del narrato emerge indubbiamente l’adesione,
all’epoca del volontariato, ma spesso ancora nel presente, ad un sentire che è
definito dai volontari stessi come antigiudaismo o antiebraismo e che, distinguendosi sia dall’antisemitismo “chiassoso”1045 sia da quello di stampo cattolico,
trova la sua collocazione all’interno di un pensiero politico caratterizzato da una
forte attenzione a tematiche sociali. Non sembra neppure potersi attribuire agli
intervistati un “antisemitismo collaborazionista”1046, ma emerge piuttosto un
sentire antisemita che si inserisce a pieno titolo, come elemento partecipato e
caratterizzante, nell’articolazione del pensiero politico dei volontari, col ruolo di
sentita declinazione di un’adesione all’anticapitalismo e di un perseguimento
della giustizia sociale.
1044
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Per antisemitismo “chiassoso” si intende quello dei pogrom che, facendo leva su
l’avversione popolare verso l’ebreo, anima soprattutto le realtà dell’Europa orientale (Klinkhammer
2009: 267-275).
1046
L’antisemitismo è così definito quando frutto del processo di nazificazione dei paesi
occupati (Klinkhammer 2009: 271).
1045
205
Concezione razziale
«Il presunto razzismo italiano e tedesco non sfociò nell’odio razziale perché
conservò sempre il carattere di antiebraismo, non aveva alcuna motivazione
razziale, anche perché gli ebrei da secoli non sono più una razza in senso biologico,
più di quanto non lo siano gli italiani1047». Sono queste parole del volontario
Rutilio Sermonti a inquadrare la complessità tematica che la questione della
razza assume nel pensiero politico dei volontari. Il fatto che i volontari italiani
militassero all’interno nelle Waffen-SS al fianco di volontari delle più svariate
provenienze rende, inoltre, ancor più necessario comprendere quale concezione
razziale animasse il loro pensiero. Come si sposerebbero eventuali concezioni
derivate dal razzismo biologico col cameratismo ricostruito precedentemente che
li unì ad altri volontari di nazionalità, etnia e credo religioso eterogenei?
La ricostruzione delle concezioni razziali dei volontari italiani nelle WaffenSS assume ulteriore interesse all’interno di un quadro del razzismo fascista che
evidenzia posizioni quantomeno disarticolate se non, talvolta, in aperta contraddizione. Valentina Pisanty riconduce le dottrine fasciste della razza a tre correnti
che, pur condividendo le premesse generali circa l’esistenza e la gerarchia delle
razze, divergono spesso in modo radicale. La prima corrente è identificata col
razzismo biologico che aggancia la razza ad un substrato organico (razza del
sangue), la seconda è il nazional-razzismo che si ricollega ai concetti di nazione
e di civiltà (razza come stirpe) e la terza è la concezione esoterica per la quale la
razza assume sembianze di uno spirito atavico1048.
Altri studiosi, pur riconoscendo tale tripartizione del razzismo fascista,
offrono una chiave di lettura e di schematizzazione delle dottrine fasciste della
razza come riconducibili a due principali declinazioni: il razzismo biologico (razza
del sangue) e il razzismo spirituale (razza dello spirito), quest’ultimo sovrapponibile con la precedente definizione di razzismo di concezione esoterica1049.
Il fascismo all’interno della sua traiettoria politica e ideologica giunge più
tardi, rispetto al nazionalsocialismo, allo sviluppo di una dottrina della razza, in
quanto il suo scopo principale si focalizza nel completamento di una nazionalizzazione delle masse ritenuta ancora insufficiente per le carenze di una classe
dirigente liberale che aveva favorito e permesso che consistenti masse subalterne, quasi sempre egemonizzate dal socialismo, si mostrassero indifferenti, se non
ostili, al senso di appartenenza nazionale. Ciò implica la necessità per il fascismo
di non introdurre o valorizzare ulteriori differenziazioni che avrebbero indebolito
il processo di nazionalizzazione del quale il movimento fascista e il regime si
facevano portatori1050.
All’interno delle differenti correnti di pensiero del razzismo fascista, Francesco Germinario sostiene che le accese polemiche tra razzisti biologici e spirituali
si ricompattarono, specie dopo il 25 luglio 1943, in un fronte comune che reputava
prioritaria una politica razziale contro gli ebrei e che vide una successiva
prevalenza della componente spirituale1051. Anche secondo Pisanty si verificò una
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1049
1050
1051
206
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Pisanty 2006: 102-103; Germinario 2009: 77-81.
Germinario 2001; Germinario 2009: 77-98.
Germinario 2009: 22-23.
Germinario 2008: 80-81; Germinario 2009: 77.
preminenza della corrente del razzismo spirituale su quello biologico1052. Proprio
all’interno di tali dinamiche che accompagnano l’ascesa e l’affermazione del
razzismo fascista è importante valutare la posizione dei volontari italiani nelle
Waffen-SS che, specie gli ufficiali e i sottoufficiali, frequentarono le scuole delle
Waffen-SS esistenti in Germania e in Europa1053 e possono, dunque, essere
considerati come un esempio di quella nazificazione del fascismo alla quale si è
fatto precedente riferimento.
Un interessante spunto per affrontare la tematica viene dalle parole del
volontario Pietro Ciabattini che, asserendo essere stati il fascismo ed il nazionalsocialismo a rivalutare le identità nazionali e gli indipendentismi che le potenze
coloniali avevano negato, muove una critica all’avventura coloniale fascista:
«quando sei giovane ti puoi anche entusiasmare per la costruzione dell’impero
voluta dal fascismo, ma i miei entusiasmi non durarono granché perché quello fu
un errore del fascismo che rinunciò alla sua vocazione anticoloniale, mancò in
quell’occasione alla missione di difendere i deboli e gli oppressi e si fece potenza
occupante per inseguire il mito dell’Impero Romano o forse nella speranza di
combattere a livello mondiale Francia e Inghilterra, mentre avrebbe dovuto
aiutare i popoli oppressi dalle plutocrazie e dal colonialismo a liberarsi1054».
Le parole del volontario non rappresentano un punto di vista esclusivamente
personale. Un altro volontario, Ireneo Orlando, esprime concetti sovrapponibili
a quelli di Ciabattini e puntualizza: «all’interno delle Waffen-SS eravamo contro
il colonialismo, e anch’io mi chiesi perché il fascismo avesse iniziato a conquistare
dei popoli in Africa quando consideravamo le plutocrazie e i colonialismi come
nemici. Nelle Waffen-SS ho trovato tante persone che la pensavano così, che
erano contro il colonialismo e simpatizzavano per i popoli che lottavano per la
propria indipendenza1055».
In effetti le affermazioni dei due volontari trovano riscontro nelle forti
critiche che molto tempo prima le SS avevano avanzato nel loro giornale, Das
Schwarze Korps, all’impresa coloniale italiana in Abissinia. Il settimanale, che
in nome della libertà dei popoli a disporre di se stessi aveva difeso il diritto degli
indù all’indipendenza, bollò come imperialista la guerra condotta dagli italiani
e non si limitò a parteggiare per il negus, ma ironizzò sulla crociata cattolica del
Duce facendo pronostici velenosi sulle aleatorie possibilità degli italiani di
sconfiggere rapidamente la resistenza degli etiopi1056.
Facendo notare agli intervistati come si trattasse di popoli di colore dell’Africa e come essi stessero difendendo, con le loro parole, diritti di etnie all’epoca
generalmente ritenute inferiori alla civiltà occidentale e all’uomo bianco, sono
state ottenute risposte che offrono interessanti spunti storiografici. Il volontario
Pietro Ciabattini, facendo riferimento alla propria militanza nelle Waffen-SS,
risponde con una domanda retorica che rappresenta il rifiuto di vedersi attribuito
ogni sentire razzista: «io nelle Waffen ho incontrato europei di tutte le nazioni e
etnie, ma anche mongoli e kirghisi, questi ultimi soprattutto con la divisa della
1052
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1056
Pisanty 2006: 55.
Lazzero 1982: 167.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Fabei 2002: 78-79.
207
Wehrmacht, e sapevamo bene che in Friuli c’erano i cosacchi con le loro famiglie
che avevano con sé i cammelli e che portavano il distintivo delle SS sul colbacco,
potevo essere razzista? Se ero razzista avrei dovuto essere razzista con tutti
no?1057». Pressoché tutti i volontari fanno presente di aver combattuto fianco a
fianco a volontari delle più disparate etnie ed un concetto ricorrente nel narrato
è quello espresso dalle parole di Adolfo Simonini: «eravamo combattenti di tutte
le razze1058».
Emerge un fermo respingimento da parte dei volontari di ogni presunta
adesione, passata e presente, a valori e sentimenti mutuati dal razzismo
biologico. Nessuna ostilità si riscontra nei confronti di persone di colore o di
provenienza genericamente definita come slava o asiatica.
Anche quando vengono messe in dubbio le capacità combattentistiche dei
volontari di alcune etnie, come nel caso dei volontari albanesi, ciò avviene non
facendo ricorso a motivazioni razziali, ma spiegando le ragioni del loro volontariato. Racconta in proposito il volontario Luis Innenhofer: «molti dei volontari
albanesi si erano arruolati perché non avevano cibo, volevano mangiare, e
appena sentivano gli spari scappavano spaventati, ma gli altri volontari che
erano con me nel Karstjäger, olandesi, rumeni, spagnoli, francesi, serbi, croati e
ucraini erano volontari veri e siamo sempre stati molto uniti1059». Il fatto che
venga espresso un apprezzamento per volontari appartenenti a gruppi etnici
slavi, generalmente ricondotti alla figura dell’Untermensch nelle ricostruzioni
sulla dottrina della razza nazionalsocialista, non può che rappresentare una
conferma di come il vissuto dei volontari appaia distante da sentimenti di odio
razziale. Certo è che tale atteggiamento potrebbe non assumere esclusiva
valenza per i soli volontari italiani e collocarsi all’interno dello sviluppo del
pensiero politico e razziale interno alle SS.
Indubbiamente nelle prime fasi dell’internazionalizzazione delle Waffen-SS
il considerare gli slavi come razza inferiore ebbe un peso sul loro mancato
arruolamento e, secondo Stein, nel 1941 Himmler non era ancora preparato a
mettere da parte la filosofia dell’Untermensch, fatto che impedì l’arruolamento
dei volontari ucraini. Due anni dopo ai volontari di etnie slave verrà però
acconsentito di vestire l’uniforme delle SS1060.
Il pensiero politico interno alle SS non fu certamente statico e comportò
l’abbandono dell’idea iniziale di Grande Reich Tedesco, secondo alcuni a favore
di una unione di Stati europei liberi, autogovernati e dotati di un esercito comune,
secondo altri più probabilmente a favore di un aggregato imperiale più vicino al
pensiero geopolitico di Himmler1061.
Quanto emerge dal presente studio è che i volontari italiani non soltanto
rifiutano di essere considerati come razzisti, ma manifestano all’interno del
narrato sentimenti di fraterna amicizia e cameratismo con volontari di altre
etnie e nazionalità, siano esse europee o non europee. Il narrato dei volontari si
1057
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1061
studio.
208
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
Stein 1984: 150-151.
Stein 1984: 155-148. L’argomento è stato trattato in dettaglio nella prima parte dello
anima, inoltre, di dichiarazioni di simpatia per i popoli africani, per gli indiani,
per i palestinesi e per coloro che hanno lottato e lottano per la propria indipendenza, e ciò a prescindere dal colore della pelle.
Diviene dunque importante analizzare in dettaglio quale sia il concetto di
razza o di etnia che caratterizza il pensiero dei volontari e come essi lo
ricolleghino alla propria esperienza di volontariato, in modo da poter ricostruire
in termini di autorappresentazione quale sia la concezione dichiarata come
propria, aldilà di una presa di distanza che appare credibile dal filone del
razzismo biologico. Afferma il volontario Pietro Ciabattini: «oggi ci troviamo
davanti a notizie di cronaca che raccontano di giovani neonazisti che inneggiano
alla razza bianca e alle SS, ma che non hanno capito nulla, e lo posso dire io come
persona che quell’uniforme l’ha vestita, che quei giovani farebbero meglio a
chiedersi perché ancora oggi l’Africa è ridotta in schiavitù dalle multinazionali,
anche da quelle che risiedono nelle loro nazioni1062».
Alcuni volontari spiegano come non neghino l’esistenza delle razze, ma il
tentativo di ordinarle gerarchicamente. Il volontario Ferdinando Gandini fa
notare: «le razze esistono eccome, certo non sono più quelle di duecento anni fa,
cambiano anche esse, ma ciò che è sbagliato è metterle in ordine di importanza1063». Ireneo Orlando sostiene: «le razze o meglio le etnie devono avere e hanno
pari dignità per il fatto che esistono in natura, l’uomo non può porsi contro la
natura1064». Il volontario Rutilio Sermonti offre una spiegazione correlata alla
tematica dell’antisemitismo: «è stata la pretesa di ignorare le razze che ha
generato negli Stati Uniti e nel mondo il razzismo feroce e odioso del Ku Klux
Klan, il razzismo lo hanno inventato inglesi e americani, e non mi si tiri fuori
l’antisemitismo, o meglio l’antiebraismo che non ha mai avuto motivazione
razziale1065».
Aldilà dell’attribuzione dell’invenzione del razzismo alla cultura anglosassone, ciò che emerge con forza dalle parole del volontario è il considerare il razzismo
biologico come odioso, il ribadire che l’antiebraismo non ha alcun fondamento
razziale ma prettamente sociale, e il sostenere come inaccettabile la pretesa di
ignorare le razze. È su quest’ultimo aspetto che il volontario offre precisazioni di
rilievo, alcune delle quali già esposte nel narrato inerente il proprio sentire
religioso, che in questo contesto assumono però una ulteriore valenza nel
tentativo di ripercorrere una storia del razzismo: «il mito della superiorità della
razza bianca trova fondamento in elementi materiali come il progresso tecnologico e anche nell’esclusivismo cristiano di origine ebraica che si nascondeva
dietro il pretesto di portare la civiltà ma ciò che portava era il commercio e gli
affari ai danni dei popoli che pretendeva di civilizzare. Poi si è considerato la
razza bianca superiore alle altre, sempre facendo riferimento alla stessa cultura
materialista e oggi succede qualcosa che è ancora peggiore che considerare la
propria razza superiore, oggi c’è un vangelo antirazzista che pretenderebbe che
i popoli rinunciassero alla propria anima col fine di creare un gregge di consuma-
1062
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1065
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
209
tori al servizio della casta mercantile, un gregge di lavoratori e consumatori1066».
Le parole di Sermonti offrono una spiegazione di quello che egli ritiene il
fraintendimento del concetto di razza che attraversa le epoche e così facendo si
ricollega a tematiche e problematiche attuali come quelle della globalizzazione
e del suo impatto sulle identità dei popoli. Ma soprattutto assume rilievo il fatto
che egli riconduca sia il razzismo biologico sia l’antirazzismo che non riconosce le
specificità ad una fenomenologia materialistica in contrasto con l’ideologia
fascista che egli ritiene caratterizzasse i volontari nelle Waffen-SS.
Dunque il razzismo biologico viene considerato un pensiero materialistico
alla stregua del capitalismo, e in quanto tale ricondotto ad una matrice ebraica
e di conseguenza cristiana. Il volontario, all’interno di questo contesto tematico,
giunge anche a considerare la concezione della vita propria di alcuni popoli
africani ritenuti primitivi come superiore rispetto a quella dell’uomo bianco, e
citando gli indiani d’America afferma: «avevano colto nel segno quando osservando la febbre dell’oro che aveva colpito i bianchi parlavano di metallo giallo che li
rende pazzi1067». Rutilio Sermonti riconduce l’esistenza delle razze «all’ordine
cosmico e all’armonia della vita» e pertanto «impossibile da negare da qualsivoglia dottrina livellatrice o impossibile da gerarchizzare da concezioni insensate
di razzismo biologico1068».
È dunque rilevato nell’ordine naturale il vincolo che l’uomo non può infrangere, a non tentare di gerarchizzare o uniformare le razze, che in quanto esistenti
in natura hanno pari dignità. Il tentativo di ricondurre l’umanità ad una massa
indifferenziata senza riconoscere le specificità delle razze, mirato secondo i
volontari a ricondurre gli uomini ad un’unica tipologia esistenziale identificata
nel consumatore, è considerato inaccettabile quanto quello di identificare la
razza bianca come superiore. Tendenza quest’ultima che alcuni volontari attribuiscono ad un filone di pensiero anglosassone, che si è tradotto nel fenomeno del
colonialismo, e ad una concezione di esclusivismo ebraico, mirato secondo i
volontari a sancire la superiorità dell’ebreo, che trasmesso al cristianesimo ha
portato a pratiche di conversione violenta basate su un mancato riconoscimento
di dignità agli altri culti che nasconderebbe, in realtà, una mentalità o fini
mercantili.
In proposito, proprio argomentando sul razzismo, il volontario Sermonti
formula e condivide la sua definizione di fascismo: «del fascismo sono state date
tante definizioni, ma secondo me esso è un modo di essere dello spirito, il fascismo
è senso del sacro, e un fascista non può essere in polemica con l’ordine cosmico,
con l’armonia della vita, non può opporsi a essa, ma deve cercare di riconoscerla
in sé e perciò a differenza del marxismo e della liberaldemocrazia il fascismo non
può livellare i popoli e nemmeno discriminarli, ma deve rispettarli come sono, noi
nelle SS scavalcammo le differenze di nazionalità e anche di razza per intraprendere la lotta del sangue, delle identità, contro l’oro1069».
Se le parole dei volontari fanno chiarezza sull’impossibilità di considerare il
razzismo biologico come connotazione e parte del loro sentire politico, è bene
1066
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Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
notare come essi tendano a collocare la discriminazione razziale, sia quella di tipo
gerarchico sia quella derivante dall’ignorare le specificità etniche, nel fronte
nemico rappresentato dal capitalismo e dall’ebraismo.
È utile notare come sia l’aspetto proletario del nazionalsocialismo, considerato negativamente da Julius Evola1070 e giudicato in modo sprezzante “evidente
nella stessa figura di Hitler, che non ebbe nessuno dei tratti di un signore, di un
tipo aristocratico e di razza”1071, sia la nobiltà del lavoro propugnata dal nazionalsocialismo e dal fascismo rivoluzionario, bollata dal pensatore di origini siciliane
come “slogan insipido”1072, rappresentarono un richiamo maggiore per i volontari
italiani, che le correlarono alle tematiche della giustizia sociale e del primato del
lavoro sui ceti parassitari declinate in senso antiebraico, di qualsivoglia dottrina
della razza.
Certamente sembra aver contribuito al rifiuto del razzismo da parte dei
volontari intervistati anche il cameratismo vissuto con soldati di nazionalità,
etnia, lingua e religione diverse dalla propria. Un vissuto che scavalca il razzismo
e si tramuta in un vero e proprio culto del cameratismo e dello spirito di gruppo
legati alla concezione che l’individuo venga al mondo per essere utile alla
comunità in una lotta al servizio di valori non materiali. Elemento questo che sia
Tarchi sia Sternhell considerano uno dei cardini dell’ideologia fascista1073.
È lo stesso Sternhell, del resto, a far notare come il razzismo non sia una delle
condizioni necessarie per l’esistenza del fascismo, pur contribuendo all’eclettismo che ne segna la nascita1074. Furio Jesi, studioso della cultura tedesca, fa
notare, inoltre, come l’apertura ai “primitivi”, come ammirazione delle loro forme
di cultura, se da un lato si direbbe un ottimo antidoto contro il razzismo, dall’altro
si è accompagnata molto bene a ideologie esplicitamente fasciste e antisemite.
Tanto che in pieno Terzo Reich illustri etnologi e specialisti di storia e scienza
delle religioni, legati a ideologie nazionalsocialiste o fasciste, conciliavano l’antisemitismo con l’apprezzamento e l’ammirazione per i popoli primitivi1075.
Non appare pertanto contraddittoria all’interno del pensiero dei volontari
intervistati la coesistenza di un antisemitismo di matrice sociale con un rifiuto
del razzismo che discrimina i popoli “primitivi” e le etnie diverse dalla propria.
Vi è piuttosto una coerenza tra quanto qui ricostruito sul concetto di razza e un
antiebraismo che non accetta l’identificazione dell’ebreo come razza, rifacendosi
piuttosto al concetto di cittadino ebreizzato visto come portatore, aldilà dell’etnia
di appartenenza, di una mentalità materialista e capitalista. Ecco, dunque, che
la citazione con la quale si è aperta questa sezione dedicata al concetto di razza
assume un suo significato, e non stupisce che per i volontari gli ebrei da secoli non
siano più una razza in senso biologico, più di quanto non lo siano gli italiani.
Il concetto di razza nel pensiero politico dei volontari viene vissuto come
inadeguato per rispondere alle sfide che la politica e l’economia presentano. Le
1070
Julius Evola, il principale teorico del razzismo spirituale, vedeva proprio nel razzismo
l’occasione per una nuova marcia su Roma (Germinario 2009: 105).
1071
Evola 2001: 196-197.
1072
Evola 2001: 196
1073
Sternhell 1993: 346-347; Tarchi 2003: 136-137.
1074
Sternhell 1993: 12.
1075
Jesi 1993: 17.
211
differenti etnie esistono in natura e l’uomo, non potendo vivere in disarmonia con
questa e con le sue leggi, non può né discriminare né negare le diversità che essa
offre. Appare evidente che negli intervistati ciò che sostituisce, in un certo senso,
la razza è la comunità politica della quale il cameratismo diviene dinamica
costitutiva. È la comunità umana capace di saldarsi e lottare in nome degli ideali
comuni che cancella il concetto di razza sostituendolo con quello di comunità
politica.
Non possono, dunque, meravigliare alcune dichiarazioni dei volontari intervistati come quelle di Pietro Ciabattini e di Rutilio Sermonti. Afferma il primo:
«io considero oggi un mio camerata il combattente palestinese, quello basco o
quello africano che lottano per la propria identità più di tanti italiani, del resto
era così anche nelle Waffen, i miei fratelli erano spagnoli, ucraini, kirghisi,
svedesi, eravamo uniti dagli ideali e dal cameratismo1076». Rutilio Sermonti
esprime un concetto sovrapponibile al precedente: «è più mio camerata un
combattente del delta del Niger che lotta contro le multinazionali di tanti italiani
rimbambiti dal capitalismo e dal mercatismo1077».
Anticomunismo
Il desiderio di combattere il bolscevismo è una motivazione solitamente
attribuita a pressoché tutti i volontari di differenti nazionalità ed è messa in
relazione con un incremento del fenomeno del volontariato che segue l’operazione
Barbarossa1078. L’oppressione patita sotto il regime sovietico viene identificata
come una delle principali ragioni che spinsero al volontariato baltici, ucraini,
bielorussi, bessarabi, cosacchi, galiziani, nazionalisti russi e volontari di altre
etnie assoggettate alla dittatura di Stalin1079. Anche tra i volontari scandinavi il
movente antibolscevico è ricostruito come molto sentito1080. Nel caso dei volontari
finlandesi l’anticomunismo si saldava, inoltre, con rivendicazioni territoriali
sulla Carelia1081. I sentimenti anticomunisti sembrano aver recitato un ruolo
importante anche nelle motivazioni all’arruolamento dei volontari spagnoli,
memori della guerra civile che aveva sconvolto la loro nazione1082.
Per quanto concerne gli studi italiani sul fenomeno del volontariato internazionale e di quello nazionale, grande enfasi è attribuita alla motivazione
antibolscevica, specie dalle pubblicazioni riconducibili all’ambiente politico della
destra che parlano sovente di “crociata contro il bolscevismo”1083. Ma come fanno
notare Stein e Estes, l’adesione all’antibolscevismo, come battaglia per la difesa
dell’Europa e della propria nazione, è usata frequentemente dai volontari,
1076
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
1078
Stein 1984: 139; Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 4; Ailsby 2004:
17; Bishop 2005: 48, 51.
1079
Stein 1984: 138; Ailsby 2004: 117-149; Bishop 2005: 68-89, 92-94, 109-113
1080
Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 6; Ailsby 2004: 27; Bishop 2005:
47-54, 64.
1081
Ailsby 2004: 77; Bishop 2005: 55-57.
1082
Núñez Seixas 2006: 705.
1083
Afiero 2004; Zucconi 2005.
1077
212
talvolta con intento retorico, non solo per spiegare, ma anche per giustificare il
proprio volontariato1084. È dunque importante ricostruire quale peso possa aver
rivestito l’eventuale adesione all’anticomunismo nella scelta di volontariato
degli intervistati.
L’adesione alla battaglia contro il bolscevismo raccoglie tra i volontari
italiani intervistati un’articolazione di vedute e l’anticomunismo si accentua più
nel dopoguerra che prima e durante l’esperienza di volontariato. I volontari
intervistati possono essere, infatti, classificati come appartenenti a due gruppi
distinti relativamente alla tematica dell’anticomunismo come motivo di arruolamento e militanza nelle Waffen-SS.
Un primo gruppo, che risulta maggioritario, dichiara di non essere stato
animato da una particolare avversione verso il comunismo e non identifica nel
desiderio di combattere il bolscevismo un motivo del proprio arruolamento. Un
secondo gruppo, minoritario, dichiara invece di aver identificato anche nel
comunismo uno dei nemici da combattere. In entrambi i casi l’anticomunismo
non assume comunque un ruolo centrale e preponderante all’interno dell’impianto ideologico dei volontari e delle ragioni di arruolamento.
Anche per coloro che dichiarano che il bolscevismo rappresentò un nemico da
combattere, esso rimane sempre un nemico meno temuto, e di conseguenza meno
avversato, del capitalismo e del giudaismo. È dopo la fine della seconda guerra
mondiale che, per una serie di motivazioni che verranno ricostruite, l’anticomunismo può essere considerato un tratto comune del sentire politico di coloro che
militarono nelle Waffen-SS. Sono le dinamiche storiche, politiche e culturali che
seguono la conclusione delle ostilità a determinare uno slittamento delle precedenti posizioni politiche dei volontari verso un più sentito anticomunismo. Ma
procedendo nell’analisi per ordine temporale è importante esaminare inizialmente quanto i volontari asseriscano relativamente alla propria percezione del
comunismo al momento dell’arruolamento e dell’esperienza militare nelle Waffen-SS.
Un gruppo maggioritario di intervistati non evidenzia forti sentimenti di
ostilità nei confronti del bolscevismo al momento del volontariato, ed infatti
quest’ultimo non viene citato tra le motivazioni di arruolamento. È il volontario
Pietro Ciabattini che specifica: «l’anticomunismo non era granché sentito, perché
avendo gli invasori inglesi e americani alle porte ci saremmo dovuti preoccupare
dei comunisti?1085». Il volontario Mario Lucchesini in proposito afferma: «così di
getto potrei anche dire che l’anticomunismo giocò un ruolo, ma pensando bene a
quei momenti devo dire che l’anticomunismo era cresciuto dopo la guerra, dopo
le vendette partigiane e all’epoca della decisione di andare volontari con le SS non
è che si pensasse molto al comunismo, ma piuttosto al fatto che avevamo tradito
gli alleati tedeschi e che le fortezze volanti ci bombardavano da mattina a
sera1086».
Altri volontari affrontano il medesimo ragionamento e negano che si possa
considerare l’anticomunismo tra i tratti determinanti del loro pensiero all’epoca
dell’arruolamento. Ciò sia per motivi ricollegati alla contingenza bellica sia
1084
1085
1086
Stein 1984: 139; Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 1.
Intervista del 10 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
213
ideologici. Nel primo caso sono indicative le parole del volontario Giorgio
Bernagozzi: «il comunismo non ce l’avevamo per la testa, le forze che avevano
invaso l’Italia erano quelle delle plutocrazie, erano gli angloamericani che
avevano invaso e bombardavano le città, e quelli erano i nemici che volevamo
respingere1087». Nel secondo caso giova citare un’affermazione del volontario
Alessandro Scano: «per noi il fascismo aveva sconfitto il comunismo già nel 1919,
ma ancora di più con la sua azione sociale, un pericolo comunista dal punto di
vista politico e militare in Italia all’epoca non lo vedevamo proprio1088». Ma lo
scarso peso dell’anticomunismo all’interno dell’impianto ideologico degli intervistati al momento del loro arruolamento emerge ancor più chiaramente quando
i volontari pongono la tematica in una prospettiva storica. Il volontario Adolfo
Simonini è molto chiaro in proposito: «il discorso sul comunismo è venuto dopo,
soprattutto dopo la guerra1089».
È utile comprendere se alle radici di questa sopravvenuta ostilità nei
confronti del comunismo abbia contribuito un mutamento all’interno della
coscienza politica dei volontari imputabile a un’analisi delle vicende belliche
vissute, a un’influenza del nuovo contesto storico e politico scaturito dal secondo
conflitto mondiale, o ad entrambi gli aspetti.
Uno dei volontari afferma: «dopo la guerra l’antifascismo dei partigiani
comunisti divenne assassino, vennero uccisi i fascisti, violentate e denigrate le
donne fasciste, è ovvio in quel contesto, a guerra finita, l’anticomunismo se non
ce l’avevi ti veniva e se già ce l’avevi aumentava1090». Pietro Ciabattini avanza
alcune interessanti considerazioni sulle dinamiche che le violenze partigiane
potrebbero aver determinato nei volontari: «io penso che dopo la guerra molti di
noi siano diventati fortemente anticomunisti proprio per le violenze dei partigiani comunisti, una cosa è darsele di santa ragione in guerra, un’altra è andare a
prendere casa per casa i fascisti per fargli la pelle quando la guerra è finita,
questo ha trasformato il comunismo in un nemico che dopo la guerra era per
alcuni forse più sentito che l’odiato capitalismo1091».
Anche le ricostruzioni storiche su tali violenze, alla quali si è fatto riferimento
nella prima parte di questo studio, sembrano aver contribuito all’insorgere e al
rafforzarsi di un sentire anticomunista nei volontari. Afferma in proposito la
moglie del volontario Mauro Vivi: «mio marito non si dava pace per come
ricostruivano la storia, nel dopoguerra se la prendeva spesso coi comunisti
dicendo che dopo aver assassinato i fascisti erano anche riusciti a far credere che
non era successo nulla. Ricordo che spesso citava un esempio e diceva che la
situazione era impossibile da sopportare perché se è giusto ricordare i fratelli
Cervi sarebbe giusto ricordare anche i sette Govoni1092». L’assassinio dei sette
fratelli Govoni, due dei quali volontari nella RSI, avviene tra l’11 e il 12 maggio
del 1945 in una casa colonica tra Pieve di Cento ed Argelato nella quale vengono
seviziate e uccise diciassette persone sospettate di simpatie politiche per il
1087
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Bernagozzi Giorgio.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1089
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
1090
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1091
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
1092
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 a Bruna Vivi, moglie del volontario Mauro Vivi.
1088
214
fascismo1093. In questo caso il volontario lamenta come le ricostruzioni storiografiche tacessero le violenze, anche quelle più eclatanti, perpetrate a guerra finita.
Questa critica alle ricostruzioni storiografiche emerge anche nel narrato del
volontario Pietro Ciabattini che racconta due accadimenti vissuti in prima
persona: «io sono toscano e dopo la guerra ho vissuto in una regione rossa, non
era possibile neppure ricostruire ciò che avvenne nel campo di concentramento
di Coltano dove eravamo stati rinchiusi dagli americani e dove molti morirono di
stenti lasciati tutto il giorno sotto il sole cocente e nelle gabbie dove ci rinchiudevano, c’era anche Ezra Pound, ma parlarne o scriverne era quasi un reato.
Recentemente per il mio libro sul 25 luglio1094 mi è stato riconosciuto il fiorino
d’argento del Premio Firenze, ma il comune ha revocato il patrocinio perché più
di sessant’anni fa ero dalla parte dei vinti, queste cose certo hanno contribuito a
creare l’anticomunismo1095».
Dunque le violenze dei partigiani comunisti e la politicizzazione della
storiografia, con la creazione del mito resistenziale, contribuirono certamente nel
dopoguerra a determinare sentimenti anticomunisti nei volontari. Ma all’interno
di queste dinamiche un ruolo centrale, per alcuni degli intervistati, lo ebbero le
vicende famigliari e personali vissute.
In particolare il volontario Alessandro Scano racconta con tono di commozione: «dopo la guerra i partigiani comunisti si scatenarono in una caccia al fascista
e in uccisioni sommarie che colpirono anche la mia famiglia. Ho perso mio padre
e tre zii nei giorni successivi al 25 aprile, per molti la liberazione sarà indubbiamente stata una cosa positiva, ma per la mia famiglia è stata una stagione di odio
e di sangue che abbiamo pagato a caro prezzo per mano dei partigiani comunisti1096».
Cirillo Covallero parla dell’eccidio di Schio commesso dai partigiani garibaldini: «io sono di Schio e conosco bene cosa è successo, io mi ero nascosto sotto un
finto pavimento e mi sono salvato, ma i partigiani qui hanno assassinato più di
cinquanta persone accusate di essere state fasciste, e tra queste anche donne che
erano fidanzate di fascisti. I responsabili di quel massacro sono stati poi aiutati
dal partito comunista che li ha fatti fuggire negli Stati comunisti dell’Est e con
l’amnistia, che tutti dicono servì ai fascisti, ma secondo me Togliatti la voleva
anche per i suoi, poi si è voluto dimenticare tutto. Ma io quest’anno sono andato
alla commemorazione dell’eccidio e mi sono anche messo la camicia nera, è ora
di dire la verità sulla guerra civile1097».
Il volontario Francesco Scio racconta come anche sua madre fosse stata
portata in carcere: «A Bresso mi sono fatto il campo di concentramento con quegli
imbecillotti di partigiani che ci puntavano il fucile e si divertivano a tenerci sotto
tiro, lo facevano anche quando stavi male, io avevo la colite ulcerosa e mi volevano
punire per quello. Poi io ho fatto tredici mesi di carcere, a San Vittore quarto
1093
Pisanò e Pisanò 1992: 390-398; Pansa 2009a: 277-284.
Ciabattini 2006.
1095
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini. Per le polemiche sul premio:
Carioti 2006; Rifondazione Comunista 2006.
1096
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1097
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero. Sull’eccidio di Schio: Villani
1994; Morgan 2002.
1094
215
raggio e cella novantanove, mio padre sette e mia mamma, perché hanno
arrestato anche mia mamma, due mesi. E li ci pisciavano nel cibo e abbiamo
patito la fame1098».
Anche le vicende personali hanno, dunque, un ruolo nella maturazione di
sentimenti anticomunisti nel dopoguerra e si può asserire che le matrici di tale
anticomunismo postbellico siano principalmente tre: la conoscenza delle violenze
partigiane avvenute nel dopoguerra; l’aver vissuto tali violenze in prima persona
o da vicino; e la repulsione per le ricostruzioni storiografiche politicizzate di tali
eventi.
Vi è poi un aspetto, che appare più tattico che di vera e propria adesione
all’anticomunismo, che viene messo in risalto dal volontario Pietro Ciabattini:
«nel dopoguerra era difficile trovare un lavoro se eri stato nella RSI, figurarsi
nelle SS, e allora dichiararsi anticomunisti visto che c’era la guerra fredda poteva
aiutare, in alcuni casi, a superare la diffidenza e a inserirti un pochino nella
società1099».
Anche il nipote del volontario Benito Scarazzini afferma: «raccontava che
dopo la guerra quando era in carcere non poteva nemmeno affacciarsi alla
finestra della cella che i partigiani gli sparavano, poi dopo lo volevano sempre
umiliare quando andava al bar e farlo sputare sulla testa del Duce, lo seguivano
e raccontava che erano andati a prenderlo anche a casa per processarlo, era
difficile vivere in quelle condizioni, e allora diceva che gli americani divennero il
male minore. Raccontava di essere anticomunista quanto anticapitalista, ma
dovette scegliere il male minore mentre cominciava la guerra fredda, trovò un
lavoro come capitano sulle navi commerciali e se ne andò1100».
L’anticomunismo del dopoguerra diviene, dunque, in alcuni casi, più dichiarato che sentito e funzionale a vincere quello stigma sociale caduto sui volontari
che rende difficile il loro reinserimento nella società e nel mondo del lavoro.
Dopo aver identificato tali dinamiche che effettivamente hanno contribuito
alla maturazione di un sentire anticomunista nel secondo dopoguerra, e la
valenza tattica che il dichiararsi anticomunisti può aver assunto in taluni casi,
è utile tornare alle considerazioni che i volontari condividono cercando di
ricostruire il proprio rapporto col comunismo durante il periodo di volontariato
nelle Waffen-SS.
Il volontario Francesco Scio dichiara: «quando c’era il Duce non è che si
parlasse di comunismo e anticomunismo, io non andai volontario per combattere
contro di loro, la storia del comunismo è venuta dopo, per quello che è successo
dopo la guerra, ma io all’epoca non mi sarei definito anticomunista, io ero fascista
e basta1101».
Le parole del volontario Giorgio Bernagozzi sono anch’esse molto esplicite:
«durante il fascismo non serviva essere anticomunisti, ma neppure essere
comunisti, perché il fascismo era giustizia sociale e quindi io non ci pensavo
proprio a combattere il comunismo quando sono andato volontario, le plutocrazie
sì, quelle ci avevano invaso1102». Alcune dichiarazioni aiutano a comprendere più
1098
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1100
Intervista del 9 settembre 2008 a Stefano Monti, nipote del volontario Benito Scarazzini.
1101
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
1102
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
1099
216
in profondità perché l’anticomunismo fosse così poco sentito da molti degli
intervistati al momento del volontariato. Pietro Ciabattini afferma: «il comunismo diceva di voler perseguire la giustizia sociale, ma lo faceva nel modo
sbagliato, annichiliva la persona. I comunisti consideravano e considerano la
felicità dell’uomo solo dal punto di vista materiale. Ma è una sciocchezza, perché
allora si dovrebbe pensare che due persone a parità di condizioni economiche
abbiano la stessa felicità, e non è così1103».
Anche il volontario Luis Innenhofer condivide tematiche sovrapponibili alle
precedenti: «i comunisti volevano la giustizia sociale ma nel modo sbagliato,
perché avevano la pretesa di rendere tutti uguali, ma uguali in ciò che possiedono, e alla fine così rendi le persone serve del denaro come fanno i capitalisti, ma
che idea è quella dei proletari di tutto il mondo tutti uguali, è un errore, perché
gli uomini hanno una spiritualità, delle tradizioni e la giustizia sociale ne deve
tenere conto, la vita umana non è tutta materia e calcolo1104».
È però un’argomentazione del volontario Francesco Scio a riportare tali
critiche anche nel contesto storico dell’ultimo fascismo: «poveri comunisti, quelli
erano come i capitalisti, ragionavano, e lo fanno ancora, per il denaro, ragionano
e vivono per il denaro, ma dell’uomo non capiscono nulla, certo vogliono la
giustizia sociale e il progresso, ma se non comprendi l’uomo e la sua natura tutto
perde senso, e questo la aveva capito Nicola Bombacci che dopo aver fondato il
partito comunista divenne fascista per morire affianco a Mussolini1105».
Le critiche che alcuni volontari muovono al comunismo, al quale è riconosciuto il desiderio di perseguire la giustizia sociale ma è rimproverato di farlo in modo
errato, si muovono all’interno di quella che Sternhell definisce come revisione
antimaterialista e antirazionalista del marxismo1106.
Si assiste, infatti, nel narrato degli intervistati ad un rifiuto del materialismo
marxista che viene posto sullo stesso piano di quello capitalista. Ad esso si
contrappone l’ideale fascista che, cogliendo la natura umana nelle sue molteplici
componenti, persegue secondo i volontari una giustizia sociale rispettosa della
componente spirituale dell’essere umano. Si tratta di un quadro ideologico che
tende ad identificare il fascismo come idealismo socialista conformemente ad
alcune concezioni di Sergio Panunzio che lo stesso Sternhell pone alle origini della
nascita dell’ideologia fascista italiana1107.
Non è casuale che uno dei volontari citi la figura di Nicola Bombacci,
l’apostolo della socializzazione che riportò le folle attorno alla RSI1108, e dopo
essere stato tra i fondatori del partito comunista italiano affermò durante
l’esperienza di Salò: “ero accanto a Lenin nei giorni radiosi della rivoluzione,
credevo che il bolscevismo fosse all’avanguardia del trionfo operaio, ma poi mi
sono accorto dell’inganno [...] Il socialismo non lo realizzerà Stalin, ma Mussolini
che è socialista anche se per vent’anni è stato ostacolato dalla borghesia che poi
lo ha tradito. Ma ora il Duce si è liberato di tutti i traditori e ha bisogno di voi
1103
1104
1105
1106
1107
1108
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Sternhell 1993: 12-14.
Sternhell 1993: 291.
Petacco 1996: 162.
217
lavoratori per creare il nuovo Stato proletario”1109. I volontari intervistati
appaiono a tutti gli effetti i portatori di quella che Gentile definisce la battaglia
fascista al materialismo comunista e all’edonismo individualista1110.
È proprio il fatto che il fascismo degli intervistati possa essere interpretato
come una revisione antimaterialista del marxismo a rendere comprensibile come
la loro ostilità verso il bolscevismo appaia attenuata all’epoca del volontariato
militare nelle Waffen-SS. Il fascismo che anima i volontari è vicino, nella sua
revisione antimaterialista e antirazionalista del marxismo, a quello delle origini
che sarebbe stato, secondo De Felice, incompatibile col regime, ma che è coerente
con l’ultima esperienza di Salò1111.
I volontari, nel riconoscere al marxismo l’intento di perseguire la giustizia
sociale, maturano nei confronti di esso una critica che è meno forte rispetto a
quella che è alla base della decisa avversione ricostruita nei confronti del
capitalismo. Si evidenzia negli intervistati una valutazione a livello ideologico
del capitalismo e del comunismo che ricalca, in parte, quella che Nolte attribuisce
al nazionalsocialismo, ossia che le due ideologie nemiche rappresentassero gli
estremi lontani dal principio di giustizia sociale vissuto come cardine dell’ideologia fascista1112.
È indubbio che i volontari, ricostruendo il proprio passato politico al momento
del volontariato, prendano ideologicamente le distanze sia dal bolscevismo sia
dal capitalismo, ma è anche evidente che essi furono, e in parte sono ancora oggi,
animati da una maggior indulgenza nei confronti di coloro «che si fanno
abbagliare dalle promesse infondate del comunismo1113» rispetto a coloro che sono
portatori dei principi e dello stile di vita capitalista. Tale impostazione emerge
anche a livello linguistico, dato che nella descrizione del comunismo il termine
maggiormente associato è quello di “avversario”, mentre nel caso del capitalismo
la correlazione è col termine “nemico”.
Nel corso delle interviste, oltre a questa posizione maggioritaria, sono
emerse altre due differenti valutazioni del comunismo. Pur essendo queste
minoritarie, è utile prenderle in esame sia per avere una panoramica completa
delle valutazioni politiche attuate dai volontari sia per la loro rilevanza dal punto
di vista storico e ideologico.
Il volontario Rutilio Sermonti esprime valutazioni sul comunismo che, pur
manifestando alcuni punti di contatto con quanto sinora ricostruito per la
maggioranza degli intervistati, non sono presenti, nei loro elementi centrali,
all’interno del pensiero di altri volontari. Se tali valutazioni manifestano una
certa originalità all’interno del narrato complessivo, esse si ricollegano comunque ad una valutazione del bolscevismo che era effettivamente diffusa all’epoca
del fenomeno del volontariato ed è pertanto importante esaminarle alla luce di
tale quadro storico.
Inizialmente il volontario afferma: «all’epoca non si parlava molto di comunismo, piuttosto parlavamo di come si potesse continuare a essere fascisti dopo
1109
1110
1111
1112
1113
218
Petacco 1996: 7.
Gentile 2008: 255.
De Felice 2005: 266-268.
Nolte 2008: 506.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
il 25 aprile e l’8 settembre; poi ovviamente in questa ricerca di una definizione
di fascismo che fosse valida dopo quelle disfatte si parlava di conseguenza di
essere avversari anche del comunismo, ma non perché si è anticomunisti, ma in
virtù del pensiero fascista, io ero fascista e quindi più che anticomunista direi
altro dal comunismo1114».
Da questo punto di partenza l’intervistato attua poi un distinguo tra il
vissuto politico dei volontari e quello di coloro che combattevano contro il
fascismo: «Noi abbiamo dibattuto, ma sapevamo chi eravamo e camminavamo
uniti in una direzione precisa. Gli antifascisti nella loro eterogeneità non avevano
niente che li tenesse uniti se non l’antifascismo, noi combattevamo in nome dei
fascismi, del fascismo e del nazionalsocialismo, e non avevamo bisogno di essere
anticomunisti per farlo, eravamo fascisti e quindi altro dai comunisti e dai
capitalisti1115». Questo non appare un semplice atteggiamento retorico o un
espediente narrativo per conferire valore alla propria parte politica, emerge
piuttosto la convinzione, presente peraltro anche negli altri intervistati, che il
fascismo sia un sistema ideologicamente completo, a sé stante.
Le parole di Sermonti, pur puntualizzando in modo più chiaro ed esplicito la
convinzione che il fascismo sia un’ideologia completa e distinta, si allineano in
questo aspetto con le valutazioni degli altri intervistati in un quadro ideologico
all’interno del quale il fascismo dei volontari non appare riconducibile al dilemma
destra-sinistra, ma si connota come terza via a sé stante.
La definizione del fascismo come “regime reazionario di massa1116” formulata
da Palmiro Togliatti si dimostra a tutti gli effetti incompatibile con la concezione
di fascismo dei volontari, che si sentivano altro sia rispetto al marxismo sia e
ancor più rispetto al liberal-capitalismo. Il fascismo per gli intervistati era, ed è,
un sistema ideologico distinto e distante dal capitalismo e dal comunismo, pur
condividendo con quest’ultimo, nella profonda diversità delle concezioni dell’uomo e della vita, il ruolo centrale del perseguimento della giustizia sociale che non
è invece mai attribuito al primo.
Ciò che distingue il volontario Rutilio Sermonti dagli altri intervistati è la
spiegazione che egli fornisce circa le origini del bolscevismo: «è stata la lobby
finanziaria ebraica che col suo denaro ha permesso ai dirigenti bolscevichi, che
erano quasi tutti ebrei, di prendere il potere in Russia e di distruggere l’Impero
russo che era ancora tradizionale, è stata la cupola usuraia apolide che ha ancora
sede a New York e succursali in ogni luogo del pianeta che si è servita del
bolscevismo per cancellare i fascismi, lo hanno creato e lo hanno usato, il
capitalismo di Stato o di mercato sono la stessa cosa, sono due facce del
materialismo che mortifica l’uomo e coloro che guardano e guardarono al
comunismo non sono altro che capitalisti con le pezze al culo controllati ora come
allora dagli onnipotenti dell’usura1117».
Quella di un bolscevismo di origine ebraica disegnato e usato per fronteggiare le ideologie fasciste è un’interpretazione politica e storica che caratterizza
l’ultimo fascismo italiano, e ancor più il nazionalsocialismo, nell’attribuzione al
1114
1115
1116
1117
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Gentile 2008: 44.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
219
giudaismo, nella sua duplice matrice giudaico-liberale e giudaico-bolscevica, di
strategie internazionali atte ad annientare non solo la Germania militarmente,
quanto il concetto nazionalsocialista di società e di giustizia sociale per preparare
così il trionfo del capitalismo1118. Una tematica questa che echeggia con forza
anche nel settimanale ufficiale della 29ª Waffen-Grenadier-Division der SS, in
un cui articolo del 1944 si legge: “Fascismo e Nazionalsocialismo sono, insieme
con il nazionalismo religioso dei Giapponesi, le uniche forze politiche, spirituali
e sociali che si contrappongono alle tendenze livellatrici plutocratico-bolsceviche
ed ai loro scopi di colonizzazione schiavista1119”.
Nel 1945 nello stesso periodico la tematica è espressa in modo ancor più
esplicito: “La rivoluzione mondiale bandita nel 1917 da Lenin, è ancora oggi una
realtà che ha per obbiettivo la conquista del nostro continente e del mondo;
obbiettivo che s’identifica con il sogno d’Israele per la cui realizzazione combattono anche i popoli americano e inglese [...] L’esistenza di questa identità, che è
all’origine di tutti gli sviluppi della guerra e della politica, è confermata e ribadita
da molteplici prove già documentate, alle quali possiamo aggiungere la creazione
di una speciale commissione sovietica che ha il compito di studiare i problemi
politici ed economici per il dopoguerra. A capo di questa commissione è l’ebreo
Maisky, già ambasciatore dell’U.R.S.S. in Inghilterra e con lui collabora l’altrettanto famoso giudeo Litvinoff-Finkelstein, ex ambasciatore a Washington. [...]
Mutano i simboli, mutano le etichette, mutano i metodi ma la realtà rimane:
bolscevismo è uguale a comunismo internazionale, è uguale a giudaismo1120”.
Sebbene i volontari, come già fatto presente, non fossero soliti leggere il
periodico sopracitato, questa interpretazione del bolscevismo come arma del
giudaismo era diffusa dai giornali d’epoca fascista e attraversava da tempo la
cultura antisemita europea. Come ad esempio negli scritti di Malynski, nei quali
la rivoluzione russa viene descritta come un vero e proprio disegno del giudaismo
e viene citata a prova di ciò l’elevata presenza di ebrei tra i rivoluzionari1121.
Anche Ernst Nolte fa notare come l’interpretazione nazionalsocialista di un
bolscevismo che fosse strumento del giudaismo internazionale cercasse e trovasse legittimazione nel fatto che alla rivoluzione russa avesse partecipato un
numero sorprendentemente alto di ebrei1122. Del resto lo storico tedesco fa notare
come fosse altrettanto comprensibile che Hitler, anche dietro a Roosevelt,
vedesse all’opera la potenza della stampa ebraica, maturando la convinzione che
le due principali potenze nemiche, Stati Uniti e Unione Sovietica, si fossero tra
loro alleate tramite l’ebraismo internazionale1123.
È proprio all’interno di questa ricostruzione storica e politica, propria del
nazionalsocialismo, che si inquadra la valutazione del bolscevismo e degli eventi
di guerra del volontario Rutilio Sermonti. Se tale ricostruzione è effettivamente
isolata all’interno del narrato complessivo, sono però coerenti col pensiero degli
1118
Nolte 2008: 37, 220.
“Nessuno è caduto invano” in Avanguardia – Settimanale della Legione SS Italiana, Anno
I, sabato 4 novembre 1944 - n. 23, p.1.
1120
“L’inno di Stalin”, in “Avanguardia – Settimanale della Legione SS Italiana”, Anno II, s.d.
1945 – s.n., p. 1.
1121
Malynski 1978: 147-196.
1122
Nolte 2008: 566.
1123
Nolte 2008: 492.
1119
220
altri intervistati le conclusioni alle quali, partendo da essa, giunge il volontario:
«il comunismo è inaccettabile e distinto dai fascismi in quanto riduce l’essenza
dell’uomo e dei rapporti tra le persone alla sola sfera economica e materiale, ai
soli bisogni dell’avere e non comprende quelli dell’essere1124».
È questa prospettiva che porta Rutilio Sermonti a giudicare il militante
comunista come una vittima di quelle che egli definisce le macchinazioni
ebraiche. Se per gli altri intervistati il comunista è prigioniero della propria
incapacità di cogliere la natura spirituale dell’uomo, e quindi le radici stesse della
felicità, per Sermonti tale limitazione deriva dall’adesione dei comunisti ad un
pensiero materialista indotto e propagandato dall’ebraismo internazionale per
giungere al dominio dell’economia e del mondo.
Un’altra posizione minoritaria tra gli intervistati, oltre a quella del giudeobolscevismo del Sermonti, è rappresentata da coloro che asseriscono essere stato
l’antibolscevismo il motivo cardine del loro volontariato. Il volontario Ireneo
Orlando afferma: «il comunismo era il nemico numero uno! I nemici più acerrimi
erano i comunisti, la crociata contro il bolscevismo era la nostra battaglia1125». Il
figlio del volontario Walter Morini afferma: «era contrario al capitalismo finanziario e alla dittatura del potere economico, ma era soprattutto anticomunista,
tutto purché non il comunismo e così nel 1948 anche se era nei FAR votò
Democrazia Cristiana pur di scampare il pericolo comunista1126».
La figlia del volontario Carlo Gionzer, ricordando i colloqui col padre,
racconta: «era anticomunista, ma questo sentimento crebbe dopo la guerra
perché riteneva che il comunismo non fosse un regime di libertà, era un liberale
e questo lo dico perché ne parlava spesso quando ero adolescente1127». La sorella
del volontario Vittorio Tosi espone una sua valutazione sulle motivazioni
anticomuniste presenti al momento del volontariato: «certo l’anticomunismo
c’era in lui, ma aveva un maestro a scuola che era comunista e diceva sempre che
pur essendo egli comunista era una brava persona e con lui si trovava bene. Certo
anticomunismo c’è stato anche durante la guerra, ma credo che crebbe molto
quando la guerra era finita per le cose terribili che accaddero ai volontari e anche
ai loro familiari o a persone conosciute1128». Quest’ultima osservazione sulla
1124
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1126
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
1127
Intervista telefonica del 1° settembre 2009 a Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo
Gionzer.
1128
Intervista del 16 giugno 2008 a Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio Tosi.
Durante l’intervista Albarosa ricostruisce alcune violenze vissute in prima persona: «Mia
mamma, perché iscritta al fascio, fu incarcerata per un mese nelle prigioni allestite presso le
scuole medie. E affissero dei manifesti con scritto “Perla Tosi assassina” e lei allora cercava di
stracciarli con le spille da capelli. Arrestarono anche mio padre. Il clima era terribile, si vide un
certo Tillone, un ubriacone che era iscritto al fascio accusato di aver picchiato una persona in
cambio di un fiasco di vino, che fu catturato e assassinato in modo orrendo. Fu trascinato per tutto
il paese e la folla lo picchiava, specie le donne, e mentre lo trascinavano per i piedi una grossa
scia di sangue macchiava le strade del paese, poi lo buttarono in un angolo quando era cadavere.
La cosa grave fu che inizialmente Tillone era stato consegnato ai Carabinieri che però lo
riconsegnarono alla folla. Un altro evento terribile ci toccò da vicino. Mia mamma ospitava un
capitano dell’esercito nella stanza di Vittorio, era una persona che giocava anche con me e mi
faceva cantare “e quando muore il Duce facciamo il cinema” ed io ricantavo “e quando muore il
1125
221
maturazione di un più sentito anticomunismo dopo la guerra appare coerente con
quanto precedentemente esposto. Inoltre l’attribuzione di una volontà di combattere il comunismo ai volontari, se si esclude il caso citato di Ireneo Orlando,
avviene soprattutto nelle memorie dei famigliari. Ciò sembra dipendere da una
molteplicità di fattori: l’effettiva maggior adesione dei volontari stessi all’anticomunismo nel dopoguerra; l’uso tattico della tematica anticomunista, nel quadro
della guerra fredda, finalizzato a favorire un reinserimento sociale; e, non ultimo,
il fatto che i famigliari hanno condiviso coi volontari soprattutto gli anni del
dopoguerra, piuttosto che quelli della militanza nelle Waffen-SS.
Quest’ultimo elemento comporta, indubbiamente, che nel narrato dei famigliari la valutazione del pensiero politico dei propri cari, derivata da colloqui
avvenuti in famiglia, si concentri prevalentemente su un periodo successivo al
volontariato. Il volontario Josef Tappeiner, pluridecorato per i suoi combattimenti sul fronte russo, nel suo esposto asserisce sempre di aver «combattuto
contri i russi» e non fa mai riferimento ad una guerra contro il comunismo1129. Il
figlio del volontario, in una missiva inviatami successivamente all’incontro col
padre avvenuto in sua presenza, scrive: «effettivamente al momento della
decisione probabilmente non sapeva neanche che cosa fosse il comunismo, è una
cosa che è poi saltata fuori con la guerra fredda, allora è maturato l’anticomunismo, anche se al corso delle Waffen lo avevano appreso, ma l’anticomunismo è
maturato con la guerra fredda1130».
A tutti gli effetti l’adesione all’anticomunismo riveste nel pensiero politico dei
volontari al momento del volontariato un peso di gran lunga inferiore a quello
attribuibile a tematiche quali il perseguimento della giustizia sociale, l’anticapitalismo e l’antigiudaismo.
Patriottismo, europeismo, internazionalismo
Come si è fatto presente precedentemente le pubblicazioni italiane disponibili, a seconda dell’impostazione ideologica che le contraddistingue, descrivono i
volontari o come soldati al servizio dell’invasore tedesco o come ferventi difensori
della patria e dell’Europa. È indubbio, dunque, che comprendere il pensiero dei
volontari su tematiche quali il nazionalismo, l’europeismo e l’internazionalismo
assuma rilievo per poter ricostruirne il vissuto politico. Alcune ricostruzioni
apologetiche mirano, ad esempio, a presentare di volta in volta il fenomeno di
volontariato europeo nelle Waffen-SS o come precursore della NATO in funzione
anticomunista o come anticipatore dell’Unione Europea1131.
Duce facciamo il funemà” ... una sera vennero i partigiani e minacciarono tutti noi se non fosse
sceso il capitano. Egli scese, lo presero e lo portarono via. Lo riportarono in condizioni disumane,
sporco di sangue, sdentato, in condizioni che non stava più in piedi e lo obbligarono a partire per
il suo paese. I partigiani passavano di notte armati, con le torce accese e cantavano canti di
intimidazione e illuminavano le case con le torce, io mi stringevo sotto lo coperte spaventata».
1129
Intervista del 17 ottobre 2009 al volontario Josef Tappeiner e al figlio Hans Tappeiner.
1130
Corrispondenza del 26 ottobre 2009 con Hans Tappeiner, figlio del volontario Josef
Tappeiner.
1131
Stein 1984: 137-148; Estes 2003, Introduction - The Volunteer Phenomenon: 1. Gli studi
apologetici italiani tendono soprattutto ad avvalorare la tesi delle Waffen-SS come precorritrici
222
Come esposto nella prima parte dello studio, storici e politologi, ma anche
giornalisti, si interrogano ancora oggi sulla natura del progetto nazionalsocialista di Nuova Europa e sul ruolo che all’interno di esso ebbero le SS e le WaffenSS. Facendo notare come l’idea di un continente completamente integrato a
livello economico animò alcuni membri della gerarchia nazionalsocialista, tanto
che Albert Speer riteneva che l’industria pesante dovesse essere organizzata a
livello europeo e le barriere doganali eliminate, alcuni ritengono però che, pur
non essendo negabile un sentire europeista interno ad alcune componenti del
nazionalsocialismo, le Waffen-SS furono più un “esercito di europei” che un
“esercito europeo”1132.
A Gottlob Berger, infaticabile organizzatore delle Waffen-SS, viene attribuita la seguente frase, solitamente adoperata per confermare la presenza di un
forte sentire europeista: «come soldato simpatizzo con tutti i soldati d’Europa. I
volontari francesi portano la croce di ferro accanto alla Legion d’Onore, anche
quando se la sono guadagnata contro i tedeschi. Due splendide decorazioni di due
nazioni diverse sullo stesso petto: ecco la nuova Europa». Furio Jesi analizzando
queste parole identifica in esse, più che un significato europeista, la testimonianza del forte cameratismo interno alle Waffen-SS, che egli definisce come “casta
militare internazionale” 1133.
Dell’importanza del cameratismo all’interno dell’esperienza di volontariato
italiana si è trattato precedentemente, ciò che invece si può trarre come spunto
dalle considerazioni del germanista torinese è il fatto, o meglio l’interrogativo, se
le Waffen-SS costituissero un’armata internazionale piuttosto che un esercito
europeo. Considerando anche che tra i volontari nelle Waffen-SS figurarono
persone di etnie non europee e che a Heinrich Himmler viene attribuita una
concezione geopolitica più imperiale, in senso eurasiatico, che europeista. Ma se,
come visto, alcune ipotesi vengono formulate sul rapporto tra nazionalismo,
europeismo e imperialismo, esse si riferiscono principalmente ai vertici del
nazionalsocialismo.
La presente ricerca, con le sue interviste ai volontari, rappresenta un’occasione per affrontare questa tematica, relativamente agli italiani, dal basso, cioè
a partire da coloro che in quell’esercito decisero di arruolarsi e combatterono.
Prima di analizzare il narrato degli intervistati, e cercare di comprendere se
valutazioni sull’assetto futuro dell’Europa e del mondo interessassero i volontari
italiani al momento della loro esperienza, è però necessario condividere alcuni
concetti. Nel corso dell’analisi verrà inteso come patriottismo il sentimento di
devozione, amore e fedeltà alla propria patria, concepito come orgoglio di
appartenere ad una cultura ben chiara e distinta e come senso di partecipazione
ad una storia comune creatrice di un popolo che si è dato confini e una bandiera
nella quale identificarsi. Tutto ciò all’interno di un’ottica e di una prospettiva
inclusive. Per nazionalismo si intenderà, invece, l’idea di superiorità della
propria terra e della propria cultura rispetto alle altre, ossia l’esaltazione della
nazione che si accompagna alla legittimazione di guerre di conquista e alla
concezione dei confini come sbarramento verso gli altri. Rispetto al patriottismo,
dell’Unione Europea.
1132
Wieland 2001: 31-33.
1133
Jesi 1993: 75.
223
che identifica la patria come la terra dei padri e denota appartenenza a quella
terra e alle sue genti, si intenderà, dunque, il nazionalismo come quella tendenza
ideologica atta ad esaltare ed esasperare il comune attaccamento alla propria
terra in termini di superiorità che sfocia nel diritto di conquista e nel rifiuto di
inclusione di altri popoli.
La tematica sovranazionale sarà declinata in tre tipi concettuali: transnazionalismo, europeismo e internazionalismo. Si intenderà per transnazionalismo il
sentimento di appartenenza ad una comunità di intenti, vissuta come alleanza
tra nazioni votate ad una comune missione ritenuta come superiore, alla quale
non corrisponde però una specifica declinazione unificante a livello istituzionale
o statutario. Ad essere comune è la missione alla base dell’alleanza e degli accordi
tra nazioni, che mantengono però una distinta identità e non si fondono in
sovrastrutture.
L’europeismo è, invece, un sentimento sovranazionale che guarda all’Europa
come realtà geopolitica unificata, ossia come unica nazione europea che comprende le differenti patrie e nazioni in un unico Stato, l’adesione al quale comporta
una cessione o delega di sovranità nazionali che si contemperano all’interno dei
comuni interessi europei vissuti come superiori.
Per internazionalismo si intenderà una concezione del fascismo, ma sarebbe
più opportuno dire dei fascismi, come ideologia globale capace di unire i popoli
aldilà dei confini nazionali esistenti e delle differenze etniche, religiose e culturali
in generale. Tale prospettiva concepisce il fascismo come ideologia politica
globale che, come tale, può essere fatta propria dalle più svariate popolazioni,
siano esse connotate a livello regionale, nazionale o sovranazionale, all’interno
di una nuova visione del mondo alternativa a quelle marxista e capitalista.
Una prima informazione che emerge dalle interviste ai volontari italiani
nelle Waffen-SS è di tipo linguistico e consiste nello scarso uso dei termini
“nazione” e “nazionalismo”. Di contro è assai frequente l’uso dei termini “patria”
e “patriottismo” sia all’interno del narrato inerente le vicende storiche vissute sia
in quello riferito al proprio pensiero politico. Ciò non è casuale e trova riscontro
anche nelle tematiche geopolitiche condivise.
I volontari appaiono complessivamente più legati ad un concetto di patriottismo che ad uno di nazionalismo. Gli interessi superiori della patria vengono
spesso citati come prima motivazione di arruolamento, soprattutto all’interno di
una missione che è descritta come «votata a riscattare l’onore della patria
macchiato dal tradimento dell’8 settembre1134». Molto chiare, in proposito, sono
anche le parole espresse dal volontario Rutilio Sermonti che citando il «disonore
del tradimento» asserisce: «il male non è la morte, quella è secondaria, ma noi non
1134
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano. Pressoché tutti i volontari
fanno riferimento al dovere di salvare l’onore della patria che sarebbe stato compromesso dal
tradimento dell’8 settembre, perché, come asserisce il volontario Scio: «una guerra si può anche
perdere e a una sconfitta si può sempre porre rimedio, ma quello che è avvenuto in Italia, cambiare
in corsa il fronte di combattimento venendo meno a tutti i patti e chiedendo ai soldati italiani di
combattere contro coloro con i quali fino ad un giorno prima hai diviso il cibo, la trincea, le armi,
è una cosa che getta la patria nel fango, che ne compromette la storia e che la umilia davanti agli
altri popoli macchiandola per sempre» (Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco
Scio).
224
volevamo il disonore della patria1135».
Ma sono le parole del volontario Giorgio Bernagozzi a far luce su due
dinamiche che compongono il patriottismo dei volontari italiani nelle Waffen-SS:
«l’amore per la patria ti spinge a difenderla sia militarmente che dal disonore nel
quale gli eventi la precipitano1136». Sono due le dinamiche patriottiche dei
volontari che portano alla scelta di volontariato: una che li spinge a «reagire al
tradimento per riscattare l’onore della patria1137» ed una seconda che li chiama
ad intervenire «per difendere la propria terra invasa da molti nemici1138».
Un elemento materiale come quello dei confini si fonde con un elemento
spirituale come l’onore attribuito alla patria stessa. E sebbene i due elementi si
integrino e intreccino, sembra proprio l’onore attribuito alla patria ad avere il
sopravvento sull’elemento territoriale. Dichiara, infatti, il volontario Ferdinando Gandini: «la sconfitta militare è grave ma sempre rimediabile nel corso della
storia, i territori nei quali si materializza la patria vanno e vengono come ci
insegna la storia, ma l’onore della patria che ci avevano strappato col tradimento
è indelebile, perdere l’onore per un popolo è più grave di essere sconfitti e di
perdere una parte di territorio1139». La vedova del volontario Ferdinando Salutin
racconta come il marito ripetesse spesso con rammarico: «io amavo la patria,
provavo un forte dolore nel vedere morire la patria1140».
Sono queste parole, proprie del vissuto dei volontari, che rimandano al
concetto di “morte della patria” che, come visto nella prima parte del presente
studio, viene preso in esame anni dopo da Galli della Loggia e De Felice. Un
concetto che si basa su una dimostrata carenza morale degli italiani, intesa come
debolezza etico-politica collettiva, che vede la maggior parte dei cittadini assumere un atteggiamento disinteressato sia nei confronti della RSI sia della
Resistenza al fine di perseguire come uomini guicciardiniani il proprio interesse
particolare1141.
Queste debolezze appaiono nel narrato della sorella del volontario Vittorio
Tosi: «era pronto a morire per la patria che vedeva bombardata dal nemico e
umiliata dal tradimento, era pronto a non tornare mai più, e anche se in tanti gli
dissero di non fare il bischero, lui partì da solo e disse a mia mamma che doveva
farlo per la patria1142».
I volontari, dunque, avvertono il dovere di combattere o di continuare a farlo
come slancio partecipativo ai destini della patria, per difenderne il territorio e
riscattarne l’onore, anche per conto di coloro che preferiscono «non fare il
bischero» e antepongono l’interesse personale ai destini della nazione.
Esemplare il caso del volontario settantenne Carlo Manfredo di Robilant,
1135
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
1137
Intervista telefonica del 10 settembre 2006 al volontario Mario Lucchesini. Nella
corrispondenza successiva all’intervista il volontario scrive: «me lo ricordo ancora oggi l’8
settembre, il giorno del tradimento, ricordo che ho pianto per la patria» (Corrispondenza del 20
ottobre 2006 col volontario Mario Lucchesini).
1138
Intervista telefonica del 19 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
1139
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
1140
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 alla moglie del volontario Ferdinando Salutin.
1141
De Felice 1998: 74-79, 86-88.
1142
Intervista del 16 giugno 2008 a Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio Tosi.
1136
225
che, come racconta il figlio: «con gli eventi dell’8 settembre aveva deciso di
prendere parte alla difesa della patria invasa dallo straniero, ma soprattutto
colpita nell’onore da un tradimento che non poteva essere accettato e che andava
riscattato1143».
Vi è un solo volontario che usa prevalentemente il termine “nazione”,
piuttosto che quello di “patria”, all’interno del suo memoriale, ma lo fa in un
contesto e in un modo che aiuta a comprendere, se non a definire, il patriottismo
motivato dal senso dell’onore. Il volontario Filippani Ronconi scrive di aver
vissuto il «dramma della nostra Nazione in quel momento storico, dramma che
tuttora non si è esaurito, almeno per coloro che considerano la Nazione come un
concreto Ente spirituale – quasi un arcangelo – che trascende i singoli individui
che ad essa si identificano1144».
Si assiste al conferimento di una dimensione spirituale alla patria che
trascende l’elemento fisico dei singoli individui che la dovrebbero comporre per
divenire un arcangelo provvisto di un proprio onore che attraversa le epoche. In
tale impostazione si assiste, più che ad una vera e propria deterritorializzazione
del concetto di patria, al conferimento di maggior importanza agli elementi
costitutivi spirituali piuttosto che a quelli materiali.
Il conferimento di una dimensione spirituale e ideologica predominante, in
questo caso pressoché completamente deterritorializzata, al concetto di patria
trova definitivo spazio nelle parole del volontario Pietro Ciabattini: «io pensavo
allora come ora che la patria non è un confine, ma dove si combatte per l’ideale,
per me la patria era dove si combatteva per le mie idee, e della mia patria
facevano parte quelli che combattevano al mio fianco, e con noi c’erano i mongoli,
i kirghisi, i cosacchi, i francesi, gli spagnoli, gli ucraini, insomma eravamo una
patria che andava oltre i confini delle nazioni1145».
È proprio la concezione prevalentemente spirituale ed ideologica della patria
che allontana dal pensiero dei volontari il nazionalismo come fattore di esclusione
di altri popoli, e si assiste, invece, alla declinazione di un patriottismo che, pur
nella necessità di difendere anche territorialmente la patria, diviene inclusivo
verso gli altri.
La prima tematica che emerge in correlazione col patriottismo è certamente
quella di un generico sovranazionalismo, mutuato certamente dal cameratismo
e dalla consapevolezza di combattere a fianco di volontari delle più disparate
provenienze. Uno dei primi aspetti che gli intervistati citano come connotativo
della propria esperienza di volontariato è, infatti, quello di aver «combattuto
fianco a fianco con volontari di tutte le nazioni europee e non solo1146».
Non vi è dubbio che i volontari non poterono decidere in prima persona quale
compagno d’armi avere al proprio fianco al fronte, ma è rilevante notare come la
partecipazione di volontari di differenti nazionalità all’esperienza nelle WaffenSS divenga motivo di orgoglio e di fierezza per gli intervistati. Interessante è a
1143
Intervista telefonica del 10 giugno 2008 a Enrico di Robilant, figlio del volontario Carlo
Manfredo di Robilant.
1144
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme.
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, p. 2, Reg. 170.
1145
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1146
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
226
questo punto comprendere se questo entusiastico sovranazionalismo resti declinato in un transnazionalismo, cioè nella consapevolezza e nell’apprezzamento di
una «alleanza tra differenti nazioni sorelle1147», o evolva in concezioni più vicine
all’europeismo o all’internazionalismo.
È bene puntualizzare sin d’ora che la tematica europeistica, che come fatto
presente viene enfatizzata dalle ricostruzioni apologetiche di certa letteratura
collegata alla destra radicale, risulta effettivamente presente nel narrato di
alcuni volontari. Ma occorre analizzarla in dettaglio, nel contesto storico del
volontariato e nelle declinazioni che essa assume all’interno delle interviste, per
comprenderne le dinamiche costitutive. Nell’aprile 1945 viene pubblicato un
opuscolo, il cui autore è il volontario Leale Martelli, dal titolo di per sé eloquente:
La SS formazione politico-militare della nuova Europa1148. Il contenuto è indubbiamente importante da analizzare per comprendere quale ruolo assunse l’europeismo in un momento in cui la disfatta era ormai certa e non sembra pertanto
possibile attribuire al testo valenza esclusivamente propagandistica, quanto
piuttosto natura di testamento politico.
Leale Martelli affronta la tematica europeistica in più punti presentando
l’Europa come baluardo contro il materialismo capitalista e marxista, un’Europa
in cui: «i patimenti della lunga lotta insieme combattuta e il sangue insieme
versato sono arra sicura della nuova Europa di domani, in cui tutti i popoli si
sentiranno fratelli1149».
Oltre all’adesione al fronte anticapitalista e antimarxista, che come analizzato permea anche il sentire politico dei volontari intervistati, si assiste all’attribuzione di una funzione forgiatrice della nuova Europa alla guerra. È cioè sul
fronte, scrive Martelli, con il cameratismo tra croati musulmani con la testa di
morto sul fez, volontari germanici e di tanti paesi dell’Europa, che «i più ardenti
e i più attivi elementi di tutta l’Europa, combattono oggi sotto le mostrine delle
SS per la loro Patria e per la nuova Europa1150».
La finalità attribuita alle dinamiche europeiste è quella di evitare «che il
mondo cada nel caos1151». Si tratta senza dubbio di un europeismo sentito al
quale, nel momento della sconfitta, viene addirittura affidato il ruolo di testimone e di prosecutore della battaglia intrapresa dai fascismi contro il materialismo
di stampo capitalista e marxista.
Se Jesi riferendosi alle Waffen-SS aveva parlato di una “casta militare
internazionale”, bisogna notare che il Martelli, facendo invece riferimento ad un
«ordine politico-militare di uomini e di famiglie1152», affidi proprio agli uomini
delle Waffen-SS l’opera di costruzione europea attraverso il cameratismo del
fronte e la guerra. È a quest’ultima che viene riservato il ruolo di apportatrice del
necessario tributo di sangue e di morte funzionale alla fondazione di un’Europa
dei popoli il cui ruolo è quello di preservare il mondo dal caos.
La fratellanza d’armi tra volontari di diversa nazionalità, che nasce e si
1147
1148
1149
1150
1151
1152
Intervista telefonica del 10 settembre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
Martelli 1945.
Martelli 1945: 29-30.
Martelli 1945: 30.
Martelli 1945: 29.
Martelli 1945: 8.
227
forgia sul campo di battaglia, diviene così preparatrice di quella fratellanza che
dovrà unire i popoli europei e la guerra diventa il contesto di un sacrificio umano
di fondazione nel quale il sangue versato dai più ardenti contribuisce alla nascita
dell’Europa. Quest’ultima rappresenta, dunque, un nuovo Stato superiore e la
morte in nome di essa dei volontari assume le sembianze di uno stato di
iniziazione, di un’introduzione a un mondo nuovo1153.
Nel narrato dei volontari l’europeismo è talvolta rappresentato proprio dal
cameratismo del fronte, il sovranazionalismo si declina in senso europeista in
virtù di quell’esperienza militare che Leale Martelli riteneva cruciale per la
nascita dell’Europa, e si evidenziano diversi livelli di consapevolezza politica di
tali dinamiche nel pensiero politico degli intervistati. Il volontario Cirillo Covallero
asserisce: «eravamo consapevoli di essere un esercito europeo, io avevo amici di
tante nazioni, un caro amico polacco, ed eravamo molto uniti1154». Se in queste
dichiarazioni emerge un europeismo che non è ancora completamente libero da
accenti transnazionalistici, sono invece le parole del volontario Ireneo Orlando a
riflettere l’adesione sentita ad un europeismo che appare vissuto come centrale
all’interno della propria esperienza e del proprio sentire politico: «noi ci sentivamo italiani e a Cremona c’erano di tutti, spagnoli, francesi, russi, cecoslovacchi
e noi sapevamo che eravamo tutti orgogliosi della nostra patria e orgogliosi di
essere i soldati della nuova Europa, e talvolta dalle nostre mostrine con le frecce
ci scambiavano per spagnoli, e a noi importava poco perché eravamo l’esercito
dell’Europa e in questo esercito c’era anche amicizia con i tirolesi1155, e ricordo
ancora i camerati di Bolzano, era un esercito europeo davvero. A proposito dei
sudtirolesi ricordo anche che una volta ebbi uno sciocco litigio con uno di loro e
un sottufficiale tedesco diede ragione a me, eravamo uniti, c’era uno spirito
fraterno, europeo, e non importava da dove venivi, eravamo un tutt’uno1156».
Non c’è dubbio che in queste parole si evidenzi un forte sentimento europeista
che non solo è proprio del pensiero politico dell’intervistato, ma che sembra
maturare all’interno e in concomitanza dell’esperienza di volontariato. Un
europeismo che comporta anche il superamento delle difficoltà di relazione che
intercorrevano tra gli italiani e i sudtirolesi oggetto negli anni precedenti di un
duro tentativo di italianizzazione da parte del fascismo. Certamente l’esperienza
del fronte, la condivisione delle difficoltà e quel cameratismo interno che, come
preso in esame, caratterizzava le Waffen-SS divennero fattori di promozione
dell’europeismo.
Dalle testimonianze di altri intervistati è possibile affermare che la cultura
europeista fosse certamente incentivata anche a livello teorico e culturale. I
volontari Pietro Ciabattini, Francesco Scio e Luis Innenhofer raccontano, infatti,
di aver partecipato a lezioni interne alle Waffen-SS sulla cultura europea1157.
1153
Eliade 1982: 41; Jesi 1993: 41.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
1155
Non è casuale che il volontario adoperi i termini “tirolesi” e “sudtirolesi” riferendosi ai
volontari della provincia di Bolzano e non quello di “altoatesini”, dimostrando anche a tanti anni
di distanza dalla comune militanza nelle Waffen-SS un rispetto per la minoranza sudtirolese
inclusa in Italia.
1156
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1157
Interviste del 15 maggio 2006, 10 settembre 2008 e 18 ottobre 2009 rispettivamente ai
volontari Pietro Ciabattini, Francesco Scio e Luis Innenhofer.
1154
228
Riferendosi a tale formazione il volontario Pietro Ciabattini dichiara: «ricordo
che anche il fascismo parlava un po’ dell’Europa, ma ci sono volute le Waffen-SS
e la Germania per creare un vero europeismo nel quale ci sentivamo uniti1158».
Il figlio del volontario Walter Morini racconta a proposito del padre: «lui
diceva sempre che era stato un errore non accettare prima tutti volontari, e che
le Waffen erano diventate un fenomeno europeo, ma che se lo fossero diventate
prima sarebbe stato molto meglio per la guerra e per l’Europa1159».
In alcuni volontari si assiste alla forte consapevolezza e rivendicazione di un
europeismo che viene realizzato, a loro avviso, per merito della Germania e degli
sviluppi ideologici del nazionalsocialismo. Pio Filippani Ronconi dichiara, ad
esempio, in una sua intervista: «le Waffen SS furono la legione straniera di chi
aveva eletto la Germania anima dell’Europa1160». Il volontario Rutilio Sermonti
a proposito dell’europeismo delle Waffen-SS afferma: «lo spirito europeo era
molto presente tra gli italiani, era da sempre presente e si chiama Roma, ma non
Roma come potenza egemone, ma quella romanità che nel medioevo si integrò
con la cultura germanica1161». Il sentimento europeista, come si denota dalle
parole del volontario, porta ad una rilettura della storia nazionale e anche ad una
presa di distanza implicita dalla retorica del regime fascista imperniata sul mito
dell’Impero Romano come potenza egemone1162. La prima realizzazione dell’europeismo è attribuita, infatti, a dinamiche sincretiche derivanti dall’apporto
culturale delle tribù germaniche alla cultura romana.
Se consideriamo che neanche il mito risorgimentale viene mai citato dai
volontari italiani nelle Waffen-SS, mentre esso fu adoperato dal fascismo per
rafforzare lo spirito nazionale, con il principale studioso dell’epoca, Gioacchino
Volpe, che indicò proprio nel fascismo il completamento del Risorgimento1163,
appare coerente coi riferimenti culturali adottati dai volontari il fatto che nel loro
vissuto politico si rintracci la tematica europeista e non emerga, invece, un
esclusivismo nazionalista.
Anche la mancata adesione al razzismo biologico precedentemente ricostruita può indubbiamente aver contribuito, unita ad una concezione del fascismo
come promotore di giustizia sociale, a favorire nei volontari la nascita di un
sentire europeista. Ma sono questi stessi riferimenti culturali a spingere alcuni
intervistati oltre il sentire europeista e verso concezioni che assumono tratti
internazionalisti. Non che l’europeismo e l’internazionalismo siano dinamiche in
completa opposizione e contraddizione, tanto che nell’esposto del medesimo
intervistato si rilevano tracce di entrambi, ma certamente in alcuni volontari la
1158
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini. Effettivamente anche il
fascismo, soprattutto grazie all’impegno di Asvero Gravelli, poi volontario nella 29ª WaffenGrenadier-Division der SS, si era arricchito di tematiche europeistiche con pubblicazioni e
convegni che miravano a promuovere, ad esempio, un’organizzazione giovanile fascista sovranazionale ed europea (Sabatini s.d.: 114-125, 167).
1159
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini. Sulle
dinamiche interne alle SS inerenti l’adesione ad un sentire europeista si è scritto nella prima
parte dello studio.
1160
Buttafuoco 2001.
1161
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
1162
Si è precedentemente fatto riferimento a come alcuni volontari muovano anche critiche
anche all’impresa coloniale fascista legata al culto dell’impero.
1163
Gentile 2008: 24.
229
tematica internazionalista appare prevalente.
Il volontario Adolfo Simonini afferma: «eravamo combattenti di tutte le
razze1164». Le parole del volontario Rutilio Sermonti aiutano a far luce sulle
dinamiche politiche che a questo internazionalismo possono aver condotto alcuni
volontari: «le SS, delle quali ho avuto l’onore di far parte, avevano carattere
sopranazionale e soprarazziale, furono l’espressione della più autentica vocazione nazionalsocialista, capace di cancellare del tutto ogni paratia tra fascismi1165».
All’elemento sovranazionale si unisce quello soprarazziale e da questa unione
sembra scaturire lo spazio di possibilità e di realizzazione dell’internazionalismo
fascista.
È all’interno di queste dinamiche ideologiche che al nazionalsocialismo, con
le sue capacità militari e politiche, viene attribuita funzione unificatrice dei
diversi fascismi. Afferma il volontario Giuliano Bortolotti: «è il nazionalsocialismo che riesce ad amalgamare i diversi fascismi1166». Un amalgama che unisce
volontari di nazionalità, etnia, cultura e religione diverse all’interno di un
comune sentire definito come fascista e descritto come «votato alla giustizia
sociale1167» e «capace di non livellare e non discriminare i popoli, ma di rispettarli
come sono1168».
In proposito Emilio Gentile afferma di non credere che il fascismo, anche se
ebbe seguaci e imitatori in tutte le parti del mondo e anche se aspirò a trascendere
il nazionalismo tradizionale nelle comunità imperiale della Nuova Civiltà
fascista o nel Nuovo Ordine nazionalsocialista, si possa considerare un fenomeno
con vocazione universale1169. Una vocazione che, invece, emerge come presente
nel narrato di una parte consistente degli intervistati e che affonda le sue radici
in una concezione socialfascista all’interno della quale il nazionalismo cede il
passo sia all’europeismo sia all’internazionalismo, entrambi liberi dai pregiudizi
del razzismo biologico.
Il fatto che spinge Gentile a negare vocazione universale al fascismo risiede
con ogni probabilità nella sua interpretazione storiografica che lo porta a
considerare il fascismo una “ideologia dello Stato” in antitesi con il marxismo,
considerato una “ideologia della Società”, e a rigettare a tal punto l’interpretazione del fascismo come revisione del marxismo da asserire che geneticamente,
storicamente e culturalmente l’antitesi fra fascismo, socialismo o comunismo
sarebbe totale1170.
Per descrivere il pensiero politico dei volontari italiani nelle Waffen-SS,
aldilà di considerazioni sull’esperienza fascista in senso vasto, appare certamente più calzante la definizione di ideologia fascista come revisione antimaterialista
e antirazionalista del marxismo e del socialismo proposta da Sternhell1171. Del
resto, come fa notare lo storico israeliano, una spinta internazionalista, che
conviveva con il crescente peso della componente ideologica nazionalista, era
1164
1165
1166
1167
1168
1169
1170
1171
230
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
Intervista del 25 ottobre 2010 al volontario Ferdinando Gandini.
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Gentile 2008: 57.
Gentile 2008: 57, 84.
Sternhell 1993: 12-14.
presente sin dalle origini stesse dell’ideologia fascista e trovò concretizzazione nel
Fascio rivoluzionario di azione internazionalista1172.
È Ernst Nolte ad individuare nella capacità dei fascismi di mobilitare le
masse dal basso, mentre Stalin è costretto a ridurre sempre più la rivoluzione a
mera retorica, un tratto dell’internazionalismo nazionalsocialista che si concretizza, a suo avviso, anche nell’amplio numero di volontari di differenti etnie che
parteciparono all’esperienza delle Waffen-SS1173. Lo stesso Nolte, tra l’altro,
all’interno di tali considerazioni ricostruisce un aspetto che è stato riscontrato
anche nelle dinamiche ideologiche dei volontari italiani nelle Waffen-SS: il
ridotto ruolo dell’antibolscevismo e un determinante peso dei valori sociali che
portano alla rivendicazione di un ruolo di terza via al fascismo rispetto al
capitalismo americano e al comunismo sovietico1174.
Anche Renzo De Felice ricostruisce come presente nell’ultimo fascismo
repubblicano la componente ideologica rappresentata da coloro che consideravano sostanzialmente superato il principio di nazionalità e lo Stato nazionale e
vedevano nella Nuova Europa la realizzazione del vero fascismo e nella guerra
in corso uno scontro di civiltà1175.
Tornando al narrato degli intervistati è utile notare come alcuni volontari
dichiarino limitativo per connotare il proprio sentire politico il concetto europeista e rivendichino piuttosto la missione internazionale dei fascismi guidati dal
nazionalsocialismo, al quale sono riconosciuti i meriti di «aver costruito la cultura
del rispetto delle differenti identità e di aver realizzato una terza via rispetto ai
materialismi comunista e capitalista1176». Il volontario Rutilio Sermonti afferma:
«il fascismo non fu un fenomeno soltanto europeo, fu una risposta più vasta,
internazionale, al degrado sociale causato dalle plutocrazie, dal capitalismo e
dalla sua declinazione coloniale, e non si possono dimenticare figure come quella
del nazionalista arabo Amin al-Husseini o dell’indiano Pandit Nehru1177».
Si può certamente asserire che il fascismo di una parte dei volontari si animi
di un respiro internazionalista e che la battaglia del fascismo, ma sarebbe meglio
dire dei fascismi, non si identifichi più con quella della nazione, o quantomeno
non solo con essa, e lo scontro in corso sia vissuto come scontro di civiltà tra i
fascismi e l’alleanza dei materialismi capitalista e comunista. Nel complesso
delle interviste realizzate appare prevalente questa componente internazionalista, alla quale i volontari europeisti si avvicinano spesso allargando le proprie
prospettive dall’europeismo ad una visione eurasiatica che include come fratelli
i popoli asiatici, e concependo il fascismo come visione del mondo e come ideologia
capace di riunire in un unico corpo, in lotta per un mondo migliore, differenti
patrie e popoli variegati per storia, cultura, origine etnica e religiosità.
1172
Sternhell 1993: 242.
Nolte 2008: 514-518, 676.
1174
Nolte 2008: 512.
1175
De Felice 1998: 483.
1176
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
1177
Intervista del 19 settembre 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
1173
231
Quale fascismo?
Dalle tematiche emerse nel narrato dei volontari e sinora prese in esame si
evincono i tratti principali dell’ideologia fascista che animò i volontari italiani
nelle Waffen-SS. Un fascismo che si potrebbe definire sincretico, perché concepito
come unione consapevole di elementi mutuati sia dal fascismo italiano sia dal
nazionalsocialismo, ed anche universale, perché pronto ad includere nella
medesima famiglia politica tutte le differenti esperienze fasciste internazionali.
Non dunque più un fascismo prettamente italiano, ma frutto piuttosto di
un’opera di amalgama che nasce a livello ideologico e si realizza e rafforza in
guerra con l’uniforme delle Waffen-SS.
Un fascismo che ricorda quello delle origini per la prevalente componente
sociale, ma che se ne differenzia per la maggior consapevolezza politica che lo
porta ad acquisire un forte respiro internazionalista e a maturare il rifiuto di una
prospettiva meramente nazionalista e di ogni tentazione razzista di tipo biologico. Si potrebbe dire che il fascismo diventi per i volontari una visione del mondo
e della vita opposta al materialismo marxista, al quale è riconosciuto un erroneo
perseguimento della giustizia sociale, e a quello capitalista.
È il perseguimento della giustizia sociale, che si declina spesso in quello che
i volontari definiscono come antigiudaismo, il cardine del loro pensiero politico ed
anche una delle motivazioni ad un volontariato vissuto come partecipazione non
ad una semplice guerra, ma ad uno scontro di civiltà che vede il fascismo,
definibile come socialismo delle patrie, combattere per salvare l’uomo dagli
inganni del capitalismo e del bolscevismo che lo allontanano dalla sua stessa
natura e dal conseguimento della felicità. Ma anche un’ideologia politica in cui
l’uomo è e vuole essere parte attiva della storia e in cui lo spirito d’avventura si
traduce in un impeto all’azione.
Per comprendere più a fondo la natura di tale pensiero politico è però utile
esaminare anche le valutazioni che i volontari stessi danno dell’esperienza
fascista italiana. Identificare le aree di apprezzamento e quelle di critica è
importante per disegnare il retroterra ideologico dei volontari e determinare le
origini delle successive traiettorie politiche che portarono al volontariato o
maturarono vestendo l’uniforme delle Waffen-SS.
Echi futuristi e modernizzazione del Paese
Un merito che i volontari riconoscono al fascismo è quello di aver modernizzato il Paese. Afferma Adolfo Simonini: «il fascismo aveva fatto tante cose buone
per modernizzare l’Italia, allora lo vedevamo già, poi certo ce ne siamo resi conto
ancor più dopo la guerra rispetto a quello che si faceva dopo, ma lo vedevi subito
che col fascismo il Paese cresceva1178». Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo,
racconta del padre: «dopo la guerra non faceva una critica netta del fascismo,
anche se reputava uno sbaglio essere entrati in guerra impreparati, ma diceva
che aveva fatto molte cose positive a livello di riforme e strutture per rendere il
1178
232
Intervista del 2 ottobre 2010 al volontario Adolfo Simonini.
paese più moderno1179». I volontari concordano pressoché unanimemente nell’asserire che «il fascismo aveva fatto dell’Italia una patria più moderna1180».
L’attribuzione dell’aggettivo “moderna” all’Italia diviene connotativo del
giudizio espresso sull’operato del fascismo. Le opere e le azioni che vengono
ricordate con maggior ricorrenza, come esempio dell’opera di modernizzazione
del paese attribuita al fascismo, sono: il potenziamento e la razionalizzazione
dell’agricoltura, le bonifiche e la lotta contro la malaria, il debellamento della
tubercolosi, la dotazione di un sistema ferroviario e stradale, l’istruzione della
popolazione con la costruzione di scuole in tutto il paese e il processo di
industrializzazione.
Anche Erich Priebke, SS-Hauptsturmführer, cita il processo di modernizzazione dell’Italia percepito durante la sua prima visita e attribuisce in parte ad
esso il consenso che il fascismo ricevette: «nel ’33 quando sono venuto a Rapallo
come nazi, mi interessavo a capire l’Italia e tutti erano felici di Mussolini, che
aveva fatto le strade e modernizzato l’Italia, eravamo due nazioni sulla medesima strada1181».
Il volontario Ferdinando Salutin era solito affermare: «la modernizzazione è
un dovere che un governo dovrebbe avere sempre verso la patria e i cittadini che
la compongono1182». Se da un lato l’opera di modernizzazione è considerata dai
volontari una necessaria azione di governo senza la quale l’utilità stessa
dell’esistenza di un governo risulterebbe quantomeno dubbia, la tematica della
modernizzazione assume nel narrato anche carattere ideologico.
È, ad esempio, il volontario Ireneo Orlando che, paragonando i risultati della
modernizzazione fascista con la situazione del dopoguerra, introduce la tematica
futurista: «abbiamo lasciato una patria moderna e ci siamo ritrovati un macello,
noi lo vedevamo che il fascismo modernizzava e io ero per la modernità, ero per
Marinetti, mi piaceva l’azione e l’innovazione1183». Dello stesso tenore è il punto
di vista del volontario Pietro Ciabattini che afferma: «noi vedevamo che lo Stato
funzionava, che era stata debellata la tubercolosi, un ragazzo che usciva dalla
scuola vedeva chiaramente che ciò che c’era di bello era fascista, che ciò che era
moderno era fascista e noi come giovani volevamo un paese che guardasse al
futuro, possiamo dire che ci sentivamo futuristi e avevamo il cuore aperto al
fascismo come bellezza e modernità1184».
È evidente che la modernizzazione non solo viene apprezzata perché costituisce un bene per la patria, ma diviene elemento della stessa ideologia politica
fascista, mutuato dal movimento futurista al quale alcuni intervistati dichiarano
la propria adesione.
Emilio Gentile fa notare come il mito della “conquista della modernità” fosse
parte integrante della politica e dell’ideologia fascista che poco aveva di tradizionalista a partire dal suo tentativo di creazione del “italiano nuovo”1185. Anche le
1179
Intervista telefonica del 24 ottobre 2009 a Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo
Gionzer.
1180
Intervista telefonica del 11 giugno 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
1181
Intervista del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke.
1182
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 alla moglie del volontario Ferdinando Salutin.
1183
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1184
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1185
Gentile 2008: 242.
233
prime riviste ascrivibili all’alveo della nascente ideologia fascista italiana si
caratterizzano per l’incontro di soreliani, nazionalisti e futuristi e sin dal 1917 la
modernizzazione del Paese diventa la principale preoccupazione di Mussolini1186.
Zeev Sternhell inoltre, nella sua ricostruzione della nascita dell’ideologia fascista, attribuisce proprio a Marinetti il ruolo di anello di congiunzione tra i vari
movimenti rivoluzionari che confluiranno in quello fascista e identifica una “fase
futurista del fascismo” che si conclude con la conquista del potere1187.
Ma sono Ernst Nolte e François Furet a far presente come il fascismo sia
dotato di una forte “magia del futuro” che lo rende affascinante, per non pochi
intellettuali e per le masse, come ideologia in grado di dare un senso alla vita degli
individui1188. Un aspetto questo che anche Sternhell pone in parte in risalto
identificando due correnti principali del fascismo, un fascismo mistico e romantico ed uno tecnico e pianificatore, che ambiscono comunque a disegnare una
nuova civiltà per mezzo di una rivolta fascista concepita come rivolta di gioventù,
come reazione alla decadenza attuata da un movimento giovane1189.
Il fatto che i volontari manifestino non solo un apprezzamento dell’opera di
modernizzazione dell’Italia attuata dal fascismo, ma siano animati da un culto
della modernità che diviene componente del loro stesso sistema ideologico, non
può dunque stupire. Alcuni degli intervistati indicano il futurismo, e in particolare Marinetti, come rappresentante dello slancio modernizzatore del fascismo e
ciò appare interessante non solo all’interno delle considerazioni sul ruolo assunto
dalla modernità all’interno dell’ideologia fascista dei volontari, ma anche di
quello che essa riveste nell’adozione di un particolare stile di vita.
Marinetti polemizzò a lungo con l’ala conservatrice del fascismo, attaccò più
volte la chiesa cattolica, aderì al naturismo, propose il superamento del concetto
di famiglia, fu volontario in Russia a sessantacinque anni e aderì alla RSI1190,
divenendo simbolo per gli intervistati di come il mito della modernità si coniughi
con un vitalismo intellettuale ed un vitalismo eroico che spinge l’uomo a rendersi
interprete del proprio destino vincendo la mediocrità. Il culto della modernità
viene, dunque, vissuto dagli intervistati sia come motore di condotta individuale
sia come elemento del proprio sentire politico. È del resto Gentile a mettere in
risalto come la modernità fascista si leghi alla concezione dell’uomo nuovo il cui
compito è quello di combattere una modernità “cattiva” identificata col materialismo comunista e l’individualismo capitalista1191.
È interessante notare, inoltre, come nei volontari l’adesione alla modernità
si traduca nella capacità di coniugare la tecnica con quell’amore profondo per la
natura precedentemente ricostruito. Ciò perché la tecnica è considerata come un
mezzo utile alla modernizzazione, ma se ne rifiuta la natura di guida del
progresso. Non le vengono attribuite proprie regole immutabili, e l’uomo non
deve divenire vittima di essa, ma adoperare la tecnica per un’opera di moderniz-
1186
Sternhell 1993: 46-47, 302.
Sternhell 1993: 328.
1188
Furet 1995: 209; Nolte 2008: 678-679. Sul fascino esercitato dall’ideologia fascista sugli
intellettuali europei: Kunnas 1982.
1189
Sternhell 1997: 452-454.
1190
Härmänmaa 2000: 14, 39-40, 64, 214-215, 286, 295.
1191
Gentile 2008: 255.
1187
234
zazione che, guidata dal pensiero politico, rimanga rispettosa delle regole sacre
della natura.
Il volontario Ireneo Orlando afferma: «io ero, sono futurista, ma bisogna
essere capaci di esserlo, bisogna capire che la modernità è un dato di fatto che uno
Stato deve promuovere e che come persona devi vivere, ma che non bisogna
diventare schiavi delle sue regole. Oggi vediamo adulti e giovani che sono vittime
della tecnologia, la tecnologia è diventata una religione della materia e i giovani
hanno perso contatto col loro corpo, sono come i polli in batteria davanti ai loro
computer, e gli adulti sono servi di una tecnica che ormai governa il mondo del
lavoro1192».
Pietro Ciabattini dichiara: «la tecnologia è importante, noi ci siamo scritti via
mail prima di incontrarci e io scrivo anche alla mia amica americana, ma è
importante e non è tutto. È un mezzo non un fine, una società che sposa la
modernità è consapevole di farlo, non vittima inconsapevole della tecnologia1193».
Interessanti sono le considerazioni del volontario Rutilio Sermonti che correla la
modernità anche alla guerra, e approfondisce poi il rapporto di essa con la politica
e il fascismo: «la tecnologia è importante, i tedeschi lo sapevano bene e avevano
armi migliori di quelle italiane, ma è indispensabile sempre aver consapevolezza
del perché fai le cose, non devi mai dimenticare cosa cerchi nella vita e quali sono
i tuoi ideali, così la modernità diventa importante per l’uomo e per la vita senza
schiacciarlo sotto il peso di un progresso che non offre nessuna risposta. Se l’uomo
comprende le regole della natura, del vivere, allora la modernità diventa una
splendida opportunità che la politica non deve e non può trascurare. In questo
senso il fascismo è e deve essere modernità1194».
ll culto della modernità che anima gli intervistati diviene dunque slancio di
una rivoluzione fascista alla quale è affidato il compito di creare un nuovo ordine
sociale. La modernità è concepita come parte integrante dell’ideologia fascista,
il fascismo diviene modernità e modernizzazione consapevole. Ponendo cioè
sempre la massima attenzione al fatto che la rivoluzione è fascista e la tecnica
ne diviene affascinante strumento per il miglioramento della società e dell’uomo:
il primato della politica sulla tecnica consente di promuovere e gestire una
modernizzazione che diviene a tutti gli effetti fascista. Si delinea dunque nei
volontari una concezione politica che, risentendo di forti influenze futuriste, si
caratterizza per la presenza di un forte anelito alla modernità intesa sia come
opportunità sia come natura stessa dell’ideologia fascista.
Riformismo sociale
Pressoché tutti i volontari manifestano il proprio apprezzamento per le
riforme sociali attuate dal fascismo. Come precedentemente esposto trattando la
tematica della giustizia sociale tale gradimento si evidenzia nel narrato con
un’elencazione delle azioni concrete attribuite al riformismo fascista. Gli intervistati citano inizialmente una generale attenzione prestata dal fascismo ai
1192
1193
1194
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
235
diritti del lavoratore che poi declinano in una elencazione di interventi tra i quali
i più frequentemente citati sono: l’assicurazione per gli infortuni sul lavoro, la
paga maggiorata per il lavoro notturno, la malattia retribuita e, soprattutto, il
limite di otto ore lavorative giornaliere1195.
Vengono inoltre ricordate le colonie climatiche marine, montane ed
elioterapiche che, come fa notare il volontario Pietro Ciabattini, «assicuravano
una vacanza e un’assistenza anche sanitaria a tutti i bambini, senza discriminazione sociale, anche a quelli che non si sarebbero mai potuti permettere di andare
in vacanza1196». Alcuni intervistati citano anche «la battaglia del fascismo per
l’alfabetizzazione e la scolarizzazione che garantisce anche ai più poveri e a coloro
che vivono in zone arretrate la possibilità di un’istruzione1197».
Come precedentemente preso in esame l’ideologia fascista dei volontari si
caratterizza per la sua determinante matrice sociale e appare dunque con ciò
coerente il fatto che gli intervistati manifestino il proprio apprezzamento per gli
interventi del fascismo in favore dei lavoratori, della gioventù e dell’alfabetizzazione. In precedenza è stato rilevato come il volontario Ireneo Orlando ricordi i
corsi sulla partecipazione dei lavoratori agli utili d’impresa e sulla socializzazione ai quali assistette durante l’esperienza di volontariato nelle Waffen-SS1198. Ma
pressoché tutti i volontari evidenziano un apprezzamento per l’indirizzo politico
assunto dall’ultimo fascismo repubblicano.
Si tratta di una traiettoria ideologica che segna il ritorno alle origini del
movimento e all’interno della quale si comincia a guardare alla patria oltre la
grettezza delle frontiere, il capitalismo viene considerato anti-italiano, antipolitico e antifascista, si rafforza la prospettiva di un fascismo alternativo sia al
marxismo sia al capitalismo che si sono uniti per cancellarlo dalla storia, e
l’anima sociale del fascismo si accende di nuova passionalità e programmaticità,
tanto che alcuni parlano di “tendenze comunistoidi” o della figura del “fascista
comunista”1199. Dunque, oltre al riformismo sociale del regime fascista, i volontari
sentono una vicinanza anche alle traiettorie ideologiche dell’ultimo fascismo;
vicinanza che trova ragione proprio nella centralità che la tematica della
giustizia sociale assume nella struttura ideologica degli intervistati.
In alcuni casi, come quello del volontario Rutilio Sermonti, «il credo della
socializzazione» attraversa il nucleo famigliare e l’intervistato racconta: «ero
figlio, confidente e fervido collaboratore di un uomo che fu uno dei maggiori
teorizzatori di corporativismo e un artefice delle leggi sulla socializzazione,
insieme a Tarchi, Conforto, Cassiano e a altri giuristi e sindacalisti della RSI. La
partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa è un elemento cardine del
fascismo, era prevista in prospettiva già nel programma del 1921, certo ci voleva
tempo e maturazione perché si realizzasse, ma era per noi importante che essa
restasse viva come elemento della politica fascista e come principio di giustizia
sociale1200».
1195
Confederazione fascista dei lavoratori dell’industria 1937; De Felice 1995: 222-296; 525547; Filomena 2000.
1196
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini. Sulle colonie del fascismo:
Franchilli 2009; Mucelli 2009.
1197
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
1198
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1199
De Felice 1998: 105, 382, 400-407, 483, 540.
1200
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti. Il padre del volontario è
236
Il riformismo sociale fascista è, dunque, apprezzato dai volontari sia quando
si realizza in modo pratico con provvedimenti legislativi, riconosciuti all’esperienza di governo fascista, sia quando assume la natura di componente ideologica
e programmatica, come nell’ultima fase della RSI.
Deriva conservatrice e critiche
Se all’esperienza fascista di governo i volontari riconoscono merito per
l’azione sociale e la modernizzazione del Paese, vi sono aspetti di tale esperienza
che vengono criticati con fermezza. Si è accennato a come alcuni intervistati
muovano critiche alle «velleità coloniali1201» fasciste, ritenute incompatibili con
l’ideologia fascista che avrebbe, invece dovuto essere «a favore dei popoli oppressi
dal colonialismo per dare la possibilità ai popoli dell’Africa e degli altri continenti
di darsi una patria e porre fine allo sfruttamento coloniale1202».
La critica, oltre ad inquadrarsi all’interno delle precedenti tematiche della
giustizia sociale, dell’anticapitalismo e del rifiuto del razzismo biologico, evidenzia un’accusa di conservatorismo mossa nei confronti del fascismo, che «scimmiottando il colonialismo inglese1203» avrebbe rinunciato alla sua missione
imprescindibile: «la difesa dei deboli dagli interessi del capitale per costruire un
mondo più giusto1204».
Sebbene la tematica anticoloniale sia stata approfondita precedentemente in
correlazione alle dinamiche ideologiche che caratterizzano gli intervistati, assume in questa sede rilievo il fatto che essa venga declinata in un’accusa di
conservatorismo al fascismo che si arricchisce successivamente di altri elementi.
Gran parte di volontari, infatti, muove critiche al fascismo per il suo culto
delle adunate alle quali i giovani sono tenuti a partecipare. Agli occhi degli
intervistati queste pratiche rappresentano «un aspetto retorico del regime che
non ha nulla di fascista1205». Proprio questa pratica secondo alcuni degli intervistati diviene il simbolo della deriva conservatrice del regime fascista. Un
tentativo malriuscito di fascistizzazione della gioventù che «rende impossibile
distinguere chi aveva l’animo fascista per davvero da chi aderiva per conformismo, per prestigio personale o per far piacere alla mamma e al babbo1206».
Se come fa notare Gentile le adunate rituali erano state adottate per
promuovere la figura del cittadino-soldato1207, per i volontari esse rappresentarono invece un «rito borghese1208» che non solo non rientrava nella loro idea di stile
di vita fascista, ma che rappresentava tendenze conservatrici che il fascismo
andava assumendo.
Alfonso Sermonti (1929 e 1934), giurista che partecipò alla legislazione fascista in materia di
lavoro.
1201
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1202
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1203
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1204
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
1205
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1206
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1207
Gentile 2008: 252-253.
1208
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
237
Giova riportare integralmente le dichiarazioni del volontario Alessandro
Scano che testimoniano bene tale punto di vista: «il regime fascista aveva
formato delle organizzazioni nelle quali erano inquadrati i giovani, a partire dai
giovanissimi fino ai Giovani Fascisti, detti anche “preliminari”, ma devo confessare che partecipavo alle adunate con poco entusiasmo, avevo quattordici,
quindici anni, un’età nella quale si iniziano ad assaporare i primi piaceri della
vita, gli amici, le ragazzine e in quel contesto le adunate del sabato pomeriggio
le vivevo con fastidio, inoltre molti vi partecipavano solo per mettersi in evidenza
con la famiglia e nella società e poi quando la partecipazione al fascismo dovette
essere concreta, quando la fedeltà agli ideali era da manifestare realmente e in
modo tangibile io partii volontario e molti decorati per merito avanguardistico
rimasero a casa imboscati. La mia scelta di volontariato nelle SS non si può dire
davvero che sia stata condizionata dalla partecipazione alle organizzazioni
fasciste che portai avanti con scarso profitto e con noia per quella retorica vuota
della quale tutti i regimi autoritari finiscono per aver bisogno, ma quel fascismo
forse autoritario lo fu troppo poco, fu incapace di valorizzare il pensiero fascista
e si limitò a distribuire patacche e croci al merito per gli avanguardisti in base
alla presenza alle adunate e così quei promossi per la loro presenza e dedizione
sono diventati poi degli imboscati1209».
Il volontario attribuisce, dunque, al rituale delle adunate una caratterizzazione retorica adoperata per raccogliere consensi con la distribuzione di onorificenze di facile conquista. Un tratto che viene considerato proprio di tutti quei
regimi autoritari che, incapaci di valorizzare il proprio pensiero politico, preferiscono ricorrere alla retorica e ad un facile coinvolgimento che viene vissuto come
routine famigliare e di Stato. Il volontario Mario Lucchesini afferma: «le adunate
fasciste erano solo retorica di coloro che del fascismo avevano fatto un mezzo di
carrierismo e io non ho mai partecipato a organizzazioni giovanili fasciste sia
perché non avevo nessun fascista in famiglia sia perché erano noiosissime e senza
significato1210».
Anche Ferdinando Gandini critica aspramente le adunate fasciste dando una
forte connotazione politica alle sue affermazioni: «nel 1940 mi è arrivata una
cartolina dalla casa del fascio dove mi criticavano perché non andavo alle
adunate, ma a me la divisa delle adunate non piaceva, io la patria l’ho servita al
fronte, non alle adunate dove andavano a far bella mostra delle loro divise i figli
della borghesia, di coloro che erano fascisti perché l’Italia era fascista, ma in
realtà avrebbero messo qualsiasi divisa come si addice a chi sta sempre con i
vincitori del momento1211».
Emerge complessivamente non solo un vero e proprio fastidio nei confronti
dei sabati fascisti, ma anche un certo disprezzo per quei coetanei «noiosi e già
vecchi che volevano far felici le famiglie con una camicetta e due passi di
marcia1212». Al giudizio sui rituali del fascismo si collega quello negativo su quei
coetanei considerati troppo inclini al conformismo e all’obbedienza famigliare
1209
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista telefonica del 10 settembre 2006 e corrispondenza del 15 dicembre 2006 col
volontario Mario Lucchesini.
1211
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
1212
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
1210
238
nell’accettare uno stile di vita reputato noioso e poco avventuroso. Le adunate
sono giudicate un evento borghese, o comunque per giovani borghesi, e come tali
considerate antitetiche a quello che gli intervistati considerano lo stile di vita
fascista. Il fascista è identificato col ribelle, col rivoluzionario, in un certo qual
modo con l’eroe salgariano, e non con chi sfoggia uniformi e medaglie, definite
come «patacche».
Partendo dalle adunate i volontari muovono una forte critica all’imborghesimento del regime fascista e alla sua burocratizzazione della gioventù. Se le
organizzazioni avrebbero dovuto essere il “vivaio dei credenti”1213, per gran parte
dei futuri volontari italiani nelle Waffen-SS esse furono, invece, noiosissimi
rituali che testimoniano l’imborghesimento del regime fascista. Un giudizio
questo che si ritrova anche nel pensiero di una delle figure di riferimento dei
volontari: Ettore Muti. Volontario quindicenne a Fiume con D’Annunzio il
fascista romagnolo mostrò una forte insofferenza per gli aspetti esteriori del
regime e quando i fascisti di Ravenna organizzarono una sottoscrizione per
offrirgli un pugnale d’oro, al suo ritorno dalla guerra civile spagnola, egli scrisse
ad un amico: “è ora di farla finita con queste buffonate: io non voglio diventare
ridicolo a tutti i costi”1214.
Il regime fascista è dunque criticato dagli intervistati per non essere stato
capace di creare non solo un ambiente giovanile che riflettesse la rivoluzionarietà
dell’ideale, ma soprattutto per aver acconsentito, con la sua vuota ritualità,
all’infiltrazione degli opportunisti e dei conformisti. Prestando così il fianco, in
nome del perseguimento di un facile consenso momentaneo «calcolato come
numero di tessere1215», ad infiltrazioni borghesi che rallentarono lo slancio
rivoluzionario del movimento e ne condizionarono l’azione in senso conservatore.
Mussolini e il mussolinismo
Emilio Gentile fa notare come il mito di Mussolini e le sue funzioni di duce del
fascismo e capo del governo costituissero l’elemento più decisivo nella caratterizzazione del sistema politico fascista. Lo storico colloca nelle lotte interne al
fascismo la principale ragione del sorgere e dell’affermarsi del mito di Mussolini;
poiché nello scontro tra le fazioni tutti finivano per far appello alla sua autorità,
contribuendo così ad accrescerne il prestigio e la forza1216. Il mito di Mussolini si
arricchisce anche di ampi risvolti popolari, poiché molti italiani gli attribuiscono
qualità straordinarie e nella sua vita politica lo circondano e sostengono con
ammirazione, entusiasmo e fiducia1217. Indubbio è anche il ruolo centrale di
Mussolini nella nascita dell’ideologia fascista in Italia. Sternhell parla in propo1213
Gentile 2008: 195.
Petacco 2003: 111, 117.
1215
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini. Emilio Gentile (2008: 197202) nelle sue considerazioni sul consenso parla di un fenomeno che definisce come “la mania della
tessera”. De Felice (1995) nella sua ricostruzione dell’organizzazione dello Stato fascista fa più
volte riferimento a quelli che di volta in volta vengono definiti come fiancheggiatori del fascismo,
fascisti di adattamento o antifascisti mascherati.
1216
Gentile 2008: 162-163.
1217
Gentile 2008: 113. Sul culto del duce: Imbriani 1992; Fraddosio 1996; Gentile 1998.
1214
239
sito di mussolinismo come aggregato ideologico di elementi diversi che, fusi
insieme grazie all’impronta decisiva e personale di Mussolini, contribuiscono, in
un processo evolutivo che passa attraverso la formazione del pensiero socialista
nazionale, alla nascita dell’ideologia fascista1218.
Quale peso assuma, dunque, la figura di Mussolini nel narrato dei volontari
è un aspetto che necessita di essere preso in considerazione per comprendere la
valutazione stessa degli intervistati sull’esperienza fascista e la natura della loro
adesione all’ideologia fascista. Rilevante è comprendere se essi fossero animati
dal mito dell’infallibilità del Duce e se alla loro adesione politica contribuì anche
questo mito.
La figura di Mussolini si presenta nel flusso narrativo di gran parte degli
intervistati all’interno di una comune tematica trattata. Si tratta della descrizione di un evento storico particolare e dell’impatto sulle proprie scelte che ad esso
viene attribuito: la liberazione del Duce, prigioniero sul Gran Sasso, del 12
settembre 1943 ad opera dei militari tedeschi. Il volontario Alessandro Scano
afferma: «la liberazione di Mussolini è stata importante, non si può dire cosa
sarebbe successo se non fosse stato liberato, non si può dire in chi avremmo avuto
fiducia, ma io avevo sentito il suo discorso quando è stato liberato ed allora, di
nascosto da mia mamma, sono andato a Torino e mi sono arruolato1219». Il peso
che la liberazione di Mussolini assume all’interno della propria scelta di volontariato viene fatto presente anche da altri volontari, tra i quali Mario Lucchesini
che descrive la liberazione del Duce come «uno degli elementi che determinò la
scelta di volontariato, una delle spinte all’arruolamento e al combattimento1220».
Il discorso che Benito Mussolini pronuncia da Monaco, il 18 settembre 1943,
contribuisce certamente a rafforzare il desiderio di arruolamento in quelli, i più
giovani, che ancora non hanno compiuto il passo di volontariato e ad incrementare la determinazione al combattimento in coloro che già operano sul teatro di
guerra.
Nel racconto delle proprie reazioni al discorso radiofonico del Duce, i volontari
italiani nelle Waffen-SS ricordano esattamente dove si trovassero e cosa stessero
facendo in quel momento. Emblematico è il caso del volontario Rutilio Sermonti
che ricostruisce dettagliatamente gli eventi nei quali si trovò coinvolto in Grecia
al momento dell’armistizio e le sue reazioni al successivo discorso del Duce.
Il volontario racconta come, in seguito all’armistizio dell’8 settembre 1843,
i soldati si fossero sentiti «abbandonati come cani» ed avessero deciso di fondare
«una repubblica autonoma con uno statuto che al primo punto prevedeva la
dichiarazione di guerra a Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia», ma l’aver
ascoltato il discorso del Duce abbia, invece, corroborato la volontà combattentistica spingendoli ad unirsi alle Waffen-SS che operavano in zona e alle quali
precedentemente avevano rifiutato di consegnare le armi: «dopo cinque giorni di
repubblica autonoma vedo arrivare Zardini Lacedelli [sudtirolese arruolato nelle
Waffen-SS] per conto di Meyer [ufficiale delle Waffen-SS] e lo seguo con cinque
dei miei uomini migliori al comando tedesco. La radio è accesa, sentiamo che il
Duce è stato liberato e assieme ai tedeschi cantiamo Giovinezza, loro non
1218
1219
1220
240
Sternhell 1993: 298-299.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Corrispondenza del 15 dicembre 2006 col volontario Mario Lucchesini.
conoscono le parole ma cantano con noi, e piangiamo tutti insieme, a quel punto
mi metto a disposizione del comandante Rotter, erano SS tedesche e mi ritrovai
nelle SS»1221. Per alcuni volontari la liberazione del Duce per mano tedesca
contribuì ad indirizzare la scelta di volontariato verso le Waffen-SS, rafforzando
quel mito dell’esercito tedesco precedentemente analizzato.
Erich Priebke fa notare come al desiderio di arruolarsi nelle Waffen-SS
potrebbe aver contribuito in parte anche l’attribuzione della liberazione di
Mussolini a Otto Skorzeny e alle SS: «non c’è dubbio che il mito delle SS aumentò
ancora di più perché Skorzeny divenne l’eroe della liberazione del Duce. Ma non
fu solo lui a liberare Mussolini. Il 7 settembre sono stato ai piedi del Gran Sasso
che c’era Mussolini e l’8 è venuto Skorzeny, ma non aveva connessione con
nessuno. [Herbert] Kappler invece era in connessione col Ministero degli Interni,
1221
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti. È utile in questo caso
riportare integralmente le parole del volontario che descrivono i giorni intercorsi tra l’armistizio
e il discorso radiofonico del duce: «L’8 settembre mi colse in Grecia. Eravamo organizzati in
Controbande che funzionavano come le bande partigiane, io ero a capo della Controbanda Arditi,
e stavamo tornando da una operazione vicino al passo delle Termopili, le SS davanti e noi dietro.
Quando siamo rientrati mancavano poche ore al fare del giorno e decidemmo di aspettare per
evitare imboscate. Ci mettemmo sdraiati a terra a riposarci, mischiati italiani e tedeschi. Ma ad
un certo momento sentiamo un gran casino a fondovalle, musica e grida. A quel punto invio uno
dei miei a vedere cosa è successo e di ritorno mi dice che festeggiano perché la guerra è finita.
Alcuni dei miei festeggiano e io mi arrabbio, prendo dei rovi e inizio a menarli in aria, “coglioni
allora vuol dire che abbiamo perso!”. Tra i tedeschi che erano con noi c’era il sottotenente Meyer
e neanche lui da parte tedesca sapeva nulla. Allora decido di rientrare al Comando e trovo la
mensa ufficiali illuminata ed un Colonnello, io ero sottotenente, mi dice che c’è stato l’armistizio
invitandomi a rientrare dai miei uomini in attesa di nuovi ordini. Dopo non molto arriva una moto
con un sottufficiale che, mentre stavo parlando con Meyer, mi chiama in disparte per degli ordini
riservati e mi comunica: “l’ordine è disarmare i tedeschi”. Io reagisco in malo modo: “siete matti!
Sono nostri alleati, guardali, sono sdraiati mescolati ai miei, è assurdo!”. Il sottufficiale si
allontana e i tedeschi decidono di rientrare al loro Comando. Passa un altro po’ di tempo ed arriva
un nuovo emissario, un capitano che domanda chi sia il comandante. Mi faccio avanti e lui mi
intima di consegnargli la pistola perché ho opposto rifiuto a disarmare il nemico. Avevo ventidue
anni e mi giravano le palle e perciò gli grido: “ma quale nemico! Se un uomo dei vostri passa di
qui senza la bandiera bianca giuro che gli faccio sparare!”. Raduno i miei uomini, comunico loro
la situazione e dico loro che non posso imporre loro la mia volontà e che ciascuno sia libero di
decidere secondo la propria coscienza. Tutti furono solidali e decidemmo di restare in attesa su
quell’altura. Aspetta, aspetta e non si vede nessuno, avevo anche chiesto a Meyer di farmi sapere,
ma nulla, ormai è giorno. Sulla strada vedo arrivare un tipo con una giacca normale e pantaloni
da bersagliere ed allora lo mando a prendere. Gli chiedo che faccia vestito a quel modo e ottengo
in risposta che si sta recando da amici greci dato che il colonnello ha consegnato le armi ai
tedeschi. Allora gli ho parlato e lo ho preso in forza al mio gruppo. Eravamo a tremila chilometri
dall’Italia, soli ed abbandonati come cani. Battemmo la zona limitrofa e trovammo un’enorme
quantità di armi abbandonate, ce ne erano da armare una divisione. Finalmente ci raggiunge
Meyer assieme ad un interprete di Cortina d’Ampezzo, un certo Zardini Lacedelli, che essendo
sudtirolese aveva scelto di servire con i tedeschi, e ci dice che dobbiamo consegnare le armi.
Ovviamente mi rifiuto e gli dico che a noi le armi servono e di non cercare nemici dove non ci sono.
A quel punto Meyer se ne va e noi restiamo in attesa e nel frattempo facciamo un nostro statuto
che al primo punto prevede la dichiarazione di guerra a Gran Bretagna, Stati Uniti e Russia. Dopo
cinque giorni di repubblica autonoma vedo arrivare Zardini Lacedelli per conto di Meyer e lo seguo
con cinque dei miei uomini migliori al comando tedesco. La radio è accesa, sentiamo che il Duce
è stato liberato ed assieme ai tedeschi cantiamo Giovinezza, loro non conoscono le parole ma
cantano con noi, e piangiamo tutti insieme, a quel punto mi metto a disposizione del comandante
Rotter, erano SS tedesche e mi ritrovai nelle SS».
241
perché dopo la deposizione di Mussolini avevano cambiato le persone, ma c’erano
sempre dei fascisti e collaboravano, e sapeva sempre dov’era Mussolini. Io ho
accompagnato Skorzeny e ricordo ancora che quando siamo in Via Nazionale [a
Roma] sentiamo gridare “pace!”, era l’8 settembre. Ma la liberazione del Duce
non è stato solo Skorzeny, sono stati anche i paracadutisti, che poi hanno cercato
anche dopo la guerra di dimostrare la verità, ma ormai era entrato nel mito dei
soldati della Waffen-SS1222». Con la notizia della liberazione del Duce per mano
delle SS si rafforza negli intervistati sia l’ammirazione per le SS stesse sia la
convinzione che il fascismo e il nazionalsocialismo siano due movimenti politici
uniti ideologicamente e militarmente.
Ma perché la liberazione di Mussolini contribuisce a rafforzare la motivazione al combattimento? Cosa rappresentava agli occhi dei volontari la figura del
Duce in quel momento storico? È interessante notare che Mussolini viene citato,
nel narrato degli intervistati, prevalentemente all’interno delle ricostruzioni
storiche dei fatti successivi al 25 luglio 1943, data della sua deposizione, e
all’armistizio dell’8 settembre 1943.
La disgregazione del fascismo e l’armistizio lasciano una forte amarezza nei
futuri volontari nelle Waffen-SS. Il sentimento prevalente è quello della vergogna per «l’incapacità italiana di terminare la guerra con una dolorosa sconfitta
piuttosto che ricorrere al sotterfugio e all’inganno dell’alleato tedesco1223». L’intervento radio del Duce, che «nonostante la sua voce stanca e provata non accetta
l’onta del tradimento1224», diviene motivo di rasserenamento, e nei volontari
«rafforza la consapevolezza di non essere soli nella battaglia per la patria e per
il fascismo1225».
Non viene attribuita a Mussolini alcuna possibilità di invertire il corso degli
eventi, ma la sua scelta contribuisce a «riscattare l’immagine dell’italiano
opportunista e traditore1226». Il volontario Francesco Scio fa notare: «mentre i capi
del tradimento, Badoglio e il re nano, era scappati a Sud, c’era il Duce che si
metteva in gioco in prima persona, era un esempio che gli italiani non erano tutti
vili e preoccupati di salvare la pelle1227».
La figura del Duce assume, dunque, un valore prevalentemente simbolico, di
testimonianza che l’indole italiana non è esclusivamente quella di un popolo
dedito all’opportunismo e alla salvaguardia degli interessi personali. Nei volontari non vi è alcun convincimento che la scelta e l’impegno di Mussolini possano
rovesciare le sorti della guerra, non vengono attribuite al Duce capacità di guida
militare da uomo della provvidenza, ma la sua partecipazione agli eventi
«simboleggia un’Italia fascista per la quale la coerenza e la parola data all’alleato
hanno ancora un valore1228».
Per quanto concerne invece la valutazione dell’operato di Mussolini come
fondatore dell’ideologia fascista e capo del fascismo, i volontari si caratterizzano,
come era prevedibile, per una generale stima che non è, però, immune da critiche.
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Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke.
telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
telefonica del 10 settembre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
Tale stima si manifesta con diversi livelli di articolazione a livello di valutazione
storica e politica. Per alcuni intervistati il Duce è colui che «ha fatto grandi cose
per l’Italia1229», per altri la valutazione del suo operato comporta considerazioni
più profonde di tipo politico, correlate a quel riformismo sociale fascista che, come
visto, risulta molto apprezzato.
Il volontario Alessandro Scano dichiara: «ero consapevole quando andai
volontario di cosa mi apprestavo a fare per la mia patria e per il mio Duce. La mia
adesione di volontario fu supportata dalla mia fede nel fascismo e in Mussolini.
Per me il Duce rappresentava il trittico Italia – repubblica – socializzazione1230».
Il Duce diviene il simbolo del «ritorno alla vera natura del fascismo1231» e i
volontari citano in particolare un passaggio del suo discorso radiofonico da
Monaco: “lo Stato che noi vogliamo instaurare sarà nazionale e sociale nel senso
più alto della parola, sarà cioè fascista risalendo così alle nostre origini”1232.
La figura di Mussolini assume valenza ancora una volta simbolica, egli
diviene testimone in carne ed ossa di un fascismo rivoluzionario delle origini che
riecheggia nell’ultimo fascismo. Il fondatore dell’idea, colui che ha saputo
portarla al governo del Paese, diviene anche la figura che incarna il ritorno ai
valori sociali del fascismo come ideologia.
Il volontario Francesco Scio afferma infatti: «Mussolini era stato il fondatore
del fascismo, del fascismo come ideale, e anche colui che aveva tentato di
applicarlo con le riforme sociali, nell’ultima fase per me era il simbolo del fascismo
rigenerato che metteva al centro la missione sociale e si liberava di tutti quegli
approfittatori che erano saliti sulla carrozza per abbandonarla poi nella difficoltà. Il Duce anche nella sconfitta militare capiva quanto importante era il
fascismo non tanto come governo a quel punto, ma come idea politica e questo per
me fu l’esempio di generosità di un grande uomo, il più grande che l’Italia abbia
mai avuto1233».
Il volontario Rutilio Sermonti: «Mussolini è stato l’uomo più grande, nobile
e geniale che l’Italia moderna abbia espresso, fu uomo di pensiero e azione senza
avere le pecche né dell’uno né dell’altro1234». Nella stima che i volontari dimostrano per Benito Mussolini interviene il riconoscimento di più meriti: l’aver contribuito alla nascita dell’ideologia fascista e al suo reindirizzo finale; l’aver dato
all’Italia una legislazione sociale ritenuta più giusta; ed aver modernizzato il
Paese. Dunque valutazioni che riguardano sia il contributo ideologico sia quello
di governo e che concorrono a formare l’immagine di un uomo capace di unire
pensiero e azione e come tale divenire riferimento e simbolo del fascismo. Ma non
emerge nel narrato dei volontari quello che potremmo definire il culto dell’infallibilità del capo.
Le case dei volontari non ospitano immagini o busti del Duce che possano
testimoniare un culto della personalità e del leader. Il culto delle reliquie del Duce
tipico del neofascismo italiano viene considerato «macabro1235» e «inutile1236».
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Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
De Felice 1998: 347.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
243
Anche nel narrato Mussolini non è citato con la frequenza che ci si sarebbe potuti
immaginare e i volontari, nelle loro ricostruzioni storiche, fanno riferimento
largamente prevalente al termine “fascismo” nella doppia accezione di ideologia
politica e di esperienza di governo.
Se il mito di Mussolini non coinvolse solo gli italiani, ma anche parte
dell’opinione pubblica occidentale attratta dalla sua opera e dalla sua personalità carismatica1237, nella formazione del sentimento di stima dei volontari per il
Duce appaiono maggiormente importanti valutazioni sull’ideologia politica e
l’azione di governo che sulla figura personale del politico romagnolo.
A Mussolini i volontari non risparmiano alcune critiche, la prima delle quali
si correla a quella deriva conservatrice del fascismo precedentemente presa in
esame. Il figlio del volontario Walter Morini afferma: «mio padre disprezzava
gerarchie e gerarchi, perché erano tronfi e non erano per lui fascisti, il suo era un
fascismo attivo, secondo lui ci sarebbe voluto Hitler che avrebbe fatto pulizia di
quel carrozzone che era diventato il fascismo1238». Anche il volontario Pasquale
Scarpellino formula alcune considerazioni critiche: «un errore fu quello di
accettare tutti all’interno del fascismo, militari infidi, industriali che si erano
fatti fascisti per opportunismo e nel caso meno peggiore nazionalisti che erano
però privi di uno spirito e di un credo fascista, ciò portò danni al fascismo stesso
non solo col tradimento dell’8 settembre ma anche prima1239».
Dunque a Mussolini è imputato l’errore di aver acconsentito l’ingresso di
persone e forze considerate non fasciste all’interno del fascismo, e in conseguenza
di ciò aver subito un condizionamento in senso conservatore. Un condizionamento che, come visto, si tradusse secondo i volontari in un eccesso di manifestazioni
retoriche piuttosto che in azioni rivoluzionarie. È un aspetto questo al quale fa
riferimento anche De Felice descrivendo un Mussolini che giunto al potere si
trova tra l’incudine del compromesso con i fascisti tiepidi, i fascisti di adattamento, i fiancheggiatori legati agli interessi capitalistici e il martello dello squadrismo1240. Un equilibrio politico che avrà conseguenze sulla stessa organizzazione
dello Stato fascista e che vedrà in più occasioni i cosiddetti fiancheggiatori del
fascismo ostacolare le manovre e le riforme più prettamente sociali1241.
Una seconda critica, che appare però minoritaria, è quella che alcuni
volontari muovono al Duce per «aver attuato una scelta che si dimostrò poco
riuscita di collaboratori e persone fidate1242». In un’occasione tale critica viene
declinata, è il caso del volontario Francesco Scio, l’unico tra gli intervistati che si
avvicini maggiormente ad un fascismo che diventa quasi mussolinismo1243, ad
una «eccessiva fiducia di Mussolini nei confronti degli altri e alla bontà del
Duce1244».
1236
Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Paolo Cavalletti; Intervista del 25
ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
1237
Gentile 2008: 113.
1238
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
1239
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
1240
De Felice 1995: 6-7.
1241
De Felice 1995.
1242
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
1243
Gentile 2008: 113-146.
1244
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio. Sulla generosità e bontà
244
Se la critica avanzata mette in certo qual modo in dubbio la fiducia di alcuni
volontari nelle capacità del Mussolini di Stato di scegliere le persone fidate, essa
sembra rientrare però principalmente all’interno dell’appunto fatto al Duce di
aver acconsentito ad un eccessivo coinvolgimento nella vita politica fascista di
persone che fasciste non erano e che non solo ostacolarono l’anima sociale del
fascismo, ma lo tradirono nel momento della difficoltà militare. Una parte degli
intervistati non nasconde di identificare, dunque, un certo grado di responsabilità del Duce, derivato dalla citata inclusione nel fascismo di persone di dubbia
fede politica, in quel processo che portò all’esplodere delle contraddizioni tra
conservatori e fascisti sociali che si verificò di fronte alla sconfitta militare.
Da parte di uno degli intervistati, il volontario Walter Morini, viene mossa
una critica anche all’ultimo Mussolini, quello della RSI. Racconta il figlio:
«ammirava Mussolini, ma non gli ha mai perdonato di aver graziato molti
partigiani che poi tornavano in montagna e gli sparavano addosso e allora diceva
che quando li prendevano non li facevano arrivare al processo, anche perché non
vestivano una divisa e combattevano slealmente. Mussolini, diceva mio padre,
continuava a parlare di pacificazione nazionale ma intanto gli altri gli sparavano
addosso1245».
È De Felice a ricostruire lo stato d’animo di un Mussolini preoccupato del
fatto che la guerra civile italiana si stesse trasformando in una “jungla” nella
quale vigeva la legge delle belve e alla quale non voleva partecipassero anche i
fascisti repubblicani, perché riteneva che seguendo la Resistenza sul terreno
dell’omicidio politico si sarebbe fatto il suo gioco. Mussolini cerca, dunque, di
contenere gli impeti e gli impulsi dei più intransigenti, come Pavolini, e di evitare
la logica dell’occhio per occhio, dente per dente, sostenendo che senza un “basta”,
da una parte e dall’altra, la guerra civile diverrà terribile. Un atteggiamento
questo, auspicato dal Duce, che però non può essere attuato uniformemente sul
territorio della RSI, all’interno del quale il controllo delle province sfugge in gran
parte all’azione del Governo1246. Tale atteggiamento di Mussolini trova, inoltre,
riscontro nelle avances da lui promosse verso gli ambienti dell’antifascismo
rivoluzionario che, pur riscuotendo modesti risultati, evidenziano un’apertura
fascista verso i comunisti, motivata dalle convinzioni che i due movimenti fossero
sorti in Italia con affini affermazioni programmatiche di antagonismo alla
reazione capitalistico-borghese e che il fascismo repubblicano superasse ormai il
concetto nazionalistico della Patria affermando la vitalità di essa oltre e al di
che il volontario attribuisce al duce è utile citare un brano dell’intervista: «sono stato ricevuto dal
Duce il 18 novembre 1942 alle 18, appena tornato dalla campagna di Grecia con il battaglione di
camicie nere nel quale mio fratello a diciotto anni morì a fianco a me. Non si ritrovava la sua salma
e allora mia mamma scrisse al Duce. Io all’epoca ero iscritto al secondo anno di scienze politiche.
Il Duce la ricevette. Mia mamma entrò e disse al Duce che fuori c’ero anch’io. In quella sala c’era
Galbiati, mio generale, e quel mascalzone di Ciano. Il moschettiere di guardia esce e dice: “il
fascista Francesco Scio dal Duce”. In seguito hanno riportato la cassetta dei resti a casa ma dubito
fosse mio fratello. Quando sono entrato il Duce mi ha abbracciato e mi ha chiesto di dirgli cosa
facevo nella vita. Gli spiegai dei miei studi e incarichi e gli dissi: “Duce vorrei servirvi da vicino”.
Lui mi disse: “dove siete mi servite”. Dopo ci fece andare dal segretario particolare che ci avrebbe
dato qualcosa di suo e ci diede un assegno di cinquantamila lire. Fu in quella occasione che mi
fece una dedica sulla foto che poi mi distrussero i partigiani. Gli italiani sono un popolo ingrato».
1245
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
1246
De Felice 1998: 415.
245
sopra della grettezza delle frontiere1247.
Se dunque nel complesso la figura di Mussolini riceve attestati di forte stima,
sia per il contributo ideologico sia per l’opera di governo, che accompagnano il
narrato di tutti i volontari, si evidenziano anche alcune critiche, soprattutto per
quanto concerne un’eccessiva permeabilità del fascismo da parte di ambienti
conservatori.
Nel complesso la figura del Duce è comunque molto apprezzata, ma con toni
che non lasciano però trasparire la presenza di un culto dell’infallibilità del capo
del fascismo. Tale apprezzamento è, inoltre, espresso all’interno della fase storica
in cui Mussolini operò e non si rilevano pressoché mai fenomeni di nostalgismo.
Ciò in virtù del fatto che è il fascismo come ideologia sociale a ricevere l’adesione
dei volontari, che ne intravedono la validità propositiva anche nel presente e nel
futuro «a patto che ci si sappia calare l’idea nella modernità, capire che il fascismo
di allora non può e non deve tornare più, e comprendere i cambiamenti in atto
senza diventare vuota nostalgia1248». In proposito il volontario Pietro Ciabattini
afferma: «certo che Mussolini fu un grande italiano, che il fascismo lo ha ideato
e messo in pratica, ma guardare al passato col torcicollo è non solo stupido, ma
anche inutile, considerando che il capitalismo di oggi ha cambiato tutto, la
moneta, il lavoro e il concetto stesso di felicità1249».
Fascismo, patria e Sudtirolo
La questione sudtirolese è stata affrontata parzialmente in relazione ad
alcune tematiche precedentemente esaminate. È però necessario analizzare in
maggior dettaglio l’argomento, tenendo in considerazione sia l’esposto dei volontari sudtirolesi sia quello degli italiani di altra provenienza regionale, rispetto
alla natura del fascismo e del nazionalismo da esso promosso. Per far ciò occorre
tenere presenti alcune dinamiche storiche, sociali e politiche che interessarono
il Sudtirolo e la sua annessione all’Italia successiva al primo conflitto mondiale.
In Sudtirolo mancarono, oggettivamente e soggettivamente, tutte le ragioni
per le quali il fascismo trovò consensi nel resto d’Italia. Non vi era, infatti,
un’industrializzazione con i connessi conflitti tra capitale e lavoro; non una
situazione di proprietà agraria paragonabile a quella della pianura padana; non
un sindacalismo rosso o bianco che attaccasse la proprietà e le rendite; non un
partito marxista rivoluzionario; e neppure un partito cattolico che attentasse alla
laicità dello Stato1250.
Dunque il fascismo come movimento rivoluzionario non fece parte dell’esperienza e della storia politica sudtirolese. Ciò che si verificò, invece, in Sudtirolo
fu una italianizzazione che cominciò ben prima dell’avvento al potere del
fascismo e con esso si acuì. Questa italianizzazione mirava, col concorso di
molteplici misure, alla rimozione del carattere tedesco della regione. Il fascismo
disegnò una strategia che venne definita di assimilazione, termine che indiche1247
1248
1249
1250
246
De Felice 1998: 381-387.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Corsini e Lill 1988: 82-83.
rebbe un processo lento e in generale accettato da gran parte della popolazione
interessata, ma che in realtà si tradusse in una premeditata nazionalizzazione.
Tutta l’era fascista si può definire come il periodo dell’oppressione linguistica e
identitaria, la cui esperienza ha poi condizionato l’immagine che due generazioni
di sudtirolesi si fecero dell’Italia1251.
Importanza in questo contesto storico e sociale assunse l’anno 1939, noto
come l’anno delle “opzioni”. Il 23 giugno del 1939, infatti, a Berlino, nella sede del
Comando generale delle SS, fu raggiunto un accordo, fra le delegazioni tedesca
e italiana, secondo il quale i cittadini del Reich, germanici ed ex austriaci,
residenti in Sudtirolo sarebbero stati coattivamente richiamati oltre Brennero,
e ai cittadini italiani di lingua ed etnia tedesca delle Province di Bolzano, Trento,
Belluno e Udine sarebbe stata offerta la possibilità di optare tra la conservazione
della cittadinanza italiana, col diritto di restare nelle loro sedi storiche, o
l’acquisizione della cittadinanza tedesca, con l’obbligo di trasferirsi nel Reich1252.
Il progetto si inserì però, dopo un primo esodo dal Sudtirolo al Reich del 1940,
nella tempesta della seconda guerra mondiale e da questa fu rallentato e
impedito, ferma restando l’intangibilità dei confini fra l’Italia e il Reich1253. Dopo
l’8 settembre 1943 le autorità tedesche favorirono il rientro in Sudtirolo degli
optanti trasferiti in Germania riammettendoli nel possesso delle loro vecchie
proprietà legalmente cedute in base agli accordi del 1939 e che vennero espropriate agli italiani che le avevano acquistate1254.
Ma in Sudtirolo ben prima del 1939 erano nati diversi gruppi di resistenza
all’italianizzazione perpetrata favorendo anche l’immigrazione di cittadini di
lingua italiana e attuando l’italianizzazione delle scuole e della pubblica amministrazione. All’interno di tale processo anche i toponimi erano stati italianizzati
per conferire un volto italiano alla geografia sudtirolese. Tra i gruppi di resistenza sudtirolese il principale è il Völkischer Kampfring Südtirols (VKS), sorto nei
primi anni Trenta, tra i cui promotori e attivisti figura Karl Nicolussi-Leck1255,
volontario nelle Waffen-SS le cui vicende sono parte del presente studio.
Una delle principali attività che impegnarono il futuro volontario fu la
costituzione di scuole segrete in lingua tedesca1256. Dal 1936 il VKS, che si
ispirava all’ideologia nazionalsocialista, divenne in tutta l’area di Bolzano un
movimento impegnato nel consolidamento del carattere tedesco, fatto che fece
presa anche su molti non nazionalsocialisti, e influenzò considerevolmente
l’ambiente culturale e politico sudtirolese registrando un elevato numero di
1251
Corsini e Lill 1988: 94-96.
Corsini e Lill 1988: 290.
1253
Toscano 1968: 145-146. Sui 266.985 chiamati al voto il 69,32% aveva optato per il Reich.
Alcune rielaborazioni del dato fanno salire la percentuale all’85-90% (Toscano 1968: 198;
Messner 1989).
1254
De Felice 1998: 432. La situazione derivata da tali politiche e accordi non si è mai
completamente risolta anche nel dopoguerra, periodo in cui continuò l’italianizzazione del
Sudtirolo ad opera della Repubblica italiana, e ancora oggi all’interno della stessa famiglia vi sono
casi di diversa cittadinanza che si ricollegano alle vicende politiche ricostruite. Racconta Hans
Tappeiner, figlio del volontario Josef Tappeiner: «c’è ancora oggi una gran confusione e abbiamo
due fratelli gemelli, e uno è italiano e l’altro tedesco».
1255
Mittermair 1995; Verdorfer 1990.
1256
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
1252
247
seguaci e simpatizzanti.
È in questo quadro storico e politico che diviene rilevante analizzare non solo
i rapporti interni alle Waffen-SS tra sudtirolesi e italiani di altra provenienza
regionale, che come in parte visto furono ispirati da un forte cameratismo, ma
anche valutare se tale convivenza produsse delle influenze sul sentire politico. Il
giudizio espresso dai volontari sudtirolesi sul fascismo è molto critico in relazione
al processo di italianizzazione attuato dal regime.
Il volontario Luis Innenhofer afferma: «nel ’39 si doveva optare per la
Germania o per l’Italia, il 96% scelse di andare in Germania perché sotto il
fascismo ci avevano trattato male, gli italiani non si può dire che ci hanno trattati
male, ma il fascismo lo ha fatto, perché quando hanno occupato il Sudtirolo tutti
i posti statali li davano agli italiani e così dal 1919 che gli italiani erano il 3% della
popolazione sono arrivati a essere il 35%, e poi studiare una seconda lingua è
sempre un vantaggio e anche agli italiani sarebbe stato utile il tedesco e invece
non si poteva parlare in pubblico e a scuola, così un terzo dei miei compagni fu
bocciato e io tra quelli perché non ci capivamo con gli insegnanti. Ma devo dire
che non solo il fascismo come si vuol far credere ci trattò male, anche la
Repubblica italiana nel dopoguerra non riconobbe niente ai nostri mutilati di
guerra fino al 1957 e col piano INA-casa il 93% delle case sono andate agli italiani,
così quando nel 1960 è iniziata la guerra dei tralicci nessuno ha spiegato le
ragioni di quella lotta e cosa accadeva ai sudtirolesi1257».
Interessanti sono anche le parole del nipote di Karl Nicolussi-Leck: «raccontava come l’annessione all’Italia non fosse gradita e come ci si sentisse all’estero
già prima della salita al potere di Mussolini che quando avvenne segnò il divieto
di parlare tedesco in pubblico, le scuole furono riempite di maestri italiani che non
si capivano con gli alunni e vennero italianizzati i nomi e anche i toponimi, e così
lui sentì come necessario un movimento di resistenza, di cui divenne potremmo
dire “capo di stato maggiore”, che organizzasse corsi segreti in lingua tedesca e
di cultura sudtirolese. Ricordo come mio zio ci disse che anche l’identità sudtirolese cambiò in quegli anni da asburgica a pangermanica con forti speranze
suscitate dall’annessione di Austria e altri territori alla Germania; speravano
che Hitler ci strappasse all’Italia. Mio zio all’epoca delle opzioni soffrì molto
perché pensava che era importante salvare le radici, non perderle, e non voleva
abbandonare la resistenza e andarsene, era un periodo di grandi punti interrogativi e raccontava come il 90% dei sudtirolesi scelsero la Germania che aveva
promesso loro latte e miele, ma poi scoppiò la guerra e alla fine si sono trasferiti
in 70.000, ma furono sparpagliati soprattutto in Baviera e Austria, tra questi
anche mio nonno che era funzionario pubblico e non lo vollero più al lavoro1258».
Le dichiarazioni dei volontari sudtirolesi sono pressoché sovrapponibili e
Josef Tappeiner racconta: «a scuola prendevo botte perché ero in classe col figlio
del podestà e mi sentiva parlare tedesco, l’odio contro l’italianità è ancora
1257
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer. La “guerra dei tralicci” è una
definizione degli attentati dinamitardi contro i tralicci che caratterizzarono il Sudtirolo nel
secondo dopoguerra col fine di perseguire una maggior autonomia e/o rivendicare l’indipendenza
del Sudtirolo (Bianco 1963).
1258
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
248
presente a causa di questa italianizzazione violenta, ma non è un odio contro le
persone ma contro il voler italianizzare il Sudtirolo negandogli la sua identità, è
un odio verso una italianità che non appartiene ai sudtirolesi che hanno una
identità propria1259».
Emerge come non sia presente un’avversione nei confronti degli italiani, ma
piuttosto dello Stato italiano, non solo durante il periodo fascista ma anche in
quello precedente e successivo, e delle sue politiche di italianizzazione del
Sudtirolo. I volontari reclamarono e reclamano il diritto a preservare la propria
cultura, la propria lingua e identità. È nel quadro di tali aspirazioni che nasce e
si fortifica un legame con la Germania nazionalsocialista, nella quale vengono
riposte le speranze di un Sudtirolo rispettato nella sua cultura. Il giudizio storico
che i volontari sudtirolesi danno del fascismo è quello di un movimento che
conculca la loro identità e vuole italianizzare con la forza la popolazione locale.
È difficile ottenere da questi volontari valutazioni in profondità sull’ideologia
fascista, perché per loro il fascismo rappresentò soprattutto dominazione e
mancato rispetto dell’identità sudtirolese e come tale non poteva in alcun modo
essere accettato. Il fatto che essi percepissero nella Germania nazionalsocialista,
alleata dell’Italia fascista che li soggiogava, una speranza di veder riconosciuta
la propria autonomia territoriale e culturale fu solo un fatto di affinità linguistica, di pragmatismo politico, di reale pangermanismo o di adesione al pensiero
politico nazionalsocialista?
È una domanda difficile alla quale i colloqui coi volontari hanno però
acconsentito di dare una risposta piuttosto chiara. La dominazione italiana ha
certamente contribuito ad avvicinare ulteriormente, a livello di progettualità
politica, la popolazione sudtirolese al Reich tedesco, che si stava espandendo
verso territori con minoranze germanofone, sebbene l’identità sudtirolese venga
sempre considerata dai volontari come a sé stante, come una identità specifica.
La politica di italianizzazione adottata dal fascismo, imperniata su un forte
nazionalismo e sulla negazione delle specificità linguistiche e culturali locali,
impedì dunque ai volontari sudtirolesi di prendere in alcuna considerazione
l’ideologia fascista per una valutazione ideologica o su tematiche sociali e di
politica internazionale. Questo aspetto ebbe ripercussioni anche sul servizio
militare e sul volontariato dei sudtirolesi, il nipote del volontario Karl NicolussiLeck racconta: «la moglie, con la quale hanno avuto due figli, lo ha conosciuto
durante la guerra, le Waffen-SS erano benviste, erano quelli che hanno scelto di
combattere con l’esercito italiano ad essere malguardati1260».
Anche Josef Tappeiner racconta: «con quello che aveva fatto il fascismo se
avessi scelto l’Italia non sarei neppure potuto tornare a casa senza ricevere due
bastonate, e quindi quando ci fu l’accordo per scegliere dove fare il militare, la
scelta fu facile, Germania1261». Il sudtirolese Hermann Maringgele combatté con
l’esercito italiano in Abissinia ma nel 1940 non esitò nella sua scelta e si arruolò
nelle Waffen-SS, nelle quali si dimostrò uno dei più valorosi combattenti venendo
insignito da Hitler in persona della Ritterkreuz des Eisernen Kreuzes e della
1259
Intervista del 17 ottobre 2009 al volontario Josef Tappeiner.
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
1261
Intervista del 17 ottobre 2009 al volontario Josef Tappeiner.
1260
249
Nahkampfspange in Gold per il combattimento corpo a corpo col nemico1262.
Non vi è dubbio che se da parte dei volontari sudtirolesi vi è un giudizio
negativo nei confronti del fascismo come esperienza politica, essi identifichino
invece nel nazionalsocialismo un’ideologia capace non solo di tutelare la loro
identità, in base ad affinità linguistiche, etniche e culturali, ma anche le identità
locali in senso lato1263.
Se tra gli intervistati i volontari sudtirolesi evidenziano una critica radicale
al fascismo per il suo nazionalismo conculcatore dell’identità sudtirolese e
riconoscono, invece, il rispetto delle identità come componente caratteristica
dell’ideologia nazionalsocialista, è interessante analizzare quale sia, in proposito, il pensiero dei volontari italiani di altra provenienza regionale.
Come preso in esame in precedenza, la scarsa attenzione alle identità e agli
indipendentismi è una critica che una parte dei volontari italiani non sudtirolesi
muove al fascismo. Esprimendo la propria opinione sulle guerre coloniali in
Africa, alcuni volontari fanno notare come esse sarebbero originate più dal
desiderio di emulare o contrastare l’imperialismo britannico che dall’ideologia
fascista. Tanto che alcuni degli intervistati non esitano ad esprimere la propria
contrarietà al colonialismo italiano, vissuto come contrario alla matrice politica
dell’ideologia fascista che avrebbe dovuto, invece, tradursi in un’azione politica
e militare a fianco dei popoli più deboli che lottavano per la propria identità e
indipendenza.
La critica espressa dai volontari sudtirolesi è assai più accesa e partecipata
anche a livello emotivo e linguistico, come è facile comprendere in quanto
espressa da persone che subirono in prima persona il processo di italianizzazione,
ma il fatto che alla tematica del riconoscimento delle identità locali sia attribuita
grande importanza sia da parte dei volontari sudtirolesi sia di quelli italiani di
altra provenienza, tanto che in alcuni di questi ultimi si traduce in una critica
aperta del fascismo, non può non rappresentare un aspetto degno di nota.
Non vi è dubbio che ciò si correli al processo di internazionalizzazione
dell’ideologia fascista precedentemente analizzato, che porta al superamento
dell’esclusivismo di matrice nazionalista per abbracciare tutti i fascismi in
un’unica alleanza e nel rispetto delle patrie. Un altro contributo alla maturazione
di un sentire maggiormente rispettoso delle identità locali è certamente correlabile
al cameratismo maturato al fronte e vissuto come valore centrale interno alle
Waffen-SS. Come visto, infatti, alcuni volontari italiani identificano un modello
eroico nel sudtirolese Alois Thaler.
Come si è avuto modo di anticipare all’interno della tematica del cameratismo, i rapporti tra italiani e sudtirolesi all’interno delle Waffen-SS furono
improntati ad una fratellanza d’armi in grado di mitigare e annullare le
1262
Mitcham 2007: 254-255; Berger 2011: 331-332. Corrispondenza del 3 ottobre 2009 con
Hilde Maringgele, nipote di Hermann Maringgele.
1263
Si è fatto precedentemente riferimento al pensiero del volontario Karl Nicolussi-Leck:
«c’era un grande rispetto delle identità nelle Waffen-SS e nel nazionalsocialismo e per noi i giudei
potevano essere anche quegli italiani che non rispettavano la nostra identità, perché vi era una
certa uguaglianza tra fascismo e comunismo come regimi che negavano le identità, che
appiattivano tutto e non accettavano le differenze culturali, fatto che gli ebrei perseguivano con
la loro politica capitalista e finanziaria a livello internazionale» (Intervista del 15 ottobre 2009
a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl Nicolussi-Leck).
250
precedenti tensioni. Entrambi i gruppi di volontari fanno presente come fosse
piacevole svolgere il proprio compito assieme, specie nei momenti di guardia,
perché in quella babele di lingue, culture e etnie che furono le Waffen-SS, come
dice il volontario Innenhofer: «vi era così l’opportunità di una piacevole chiacchierata1264». Il volontario Ireneo Orlando racconta: «il rapporto coi sudtirolesi era
ottimo, io talvolta li chiamavo per scherzo “montanari”, ma non abbiamo mai
avuto problemi legati a quello che il fascismo aveva fatto nelle loro terre1265».
I volontari italiani mostrano un elevato grado di accettazione delle specificità
sudtirolesi anche nel narrato che riguarda la situazione politica del dopoguerra.
Il principio del rispetto delle identità locali sembra, dunque, essere parte
integrante di quella ideologia fascista, frutto di un sincretismo tra differenti
fascismi, alla quale sentono di dare la propria adesione anche dopo la sconfitta.
È presente però anche un’eccezione come quella del volontario Walter Morini
che nel dopoguerra fu fondatore del Movimento Sociale Italiano a Bolzano. Il
figlio Diego dichiara un certo stupore per alcune posizioni politiche del padre nel
dopoguerra: «dopo la guerra come fondatore del MSI a Bolzano voleva reagire con
fermezza ai terroristi sudtirolesi che facevano saltare i tralicci e per lui i confini
erano i confini, avendo lui accettato l’esperienza delle Waffen-SS non capivo
perché si legava così fortemente ai confini, ma parlando con lui mi sembrava che
dipendesse anche da una reazione al comunismo che metteva in dubbio persino
l’accettabilità del concetto di patria1266».
Al mantenimento del clima di fratellanza maturato all’interno delle WaffenSS non contribuirono certamente le politiche di italianizzazione che si verificarono anche nel dopoguerra. Tanto che alcuni volontari sudtirolesi aderirono al
movimento Schützen, un’organizzazione politica e culturale, rifondata alla fine
degli anni Cinquanta, che rivendica l’autodeterminazione del Sudtirolo e si
oppone all’italianizzazione1267. Se le vicende storiche hanno determinato nel
dopoguerra casi isolati di arroccamento nazionalistico tra gli italiani e di forte
rivendicazione identitaria tra i sudtirolesi, ciò che emerge dalle interviste è come
entrambe i sottogruppi di volontari, nella loro generalità, sostenessero e sostengano un riconoscimento delle patrie e degli indipendentismi.
Ma quale ideologia accomunò, se veramente vi fu un collante ideologico, i
volontari italiani e quelli sudtirolesi nella loro adesione alle Waffen-SS? Gli
intervistati sudtirolesi aderirono al nazionalsocialismo, e di conseguenza alle
Waffen-SS, perché in esso videro un movimento che promuoveva le identità locali
e la giustizia sociale, «combattendo contro un capitalismo ingiusto e affamatore
1264
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1266
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
1267
Fontana 2000; von Hye 2002. È il caso raccontato da Josef e Hans Tappeiner: «Ci fu una
grande festa degli Schützen nel ’59 e lo chiamarono a dirigere la compagnia. Mi ricordo una gran
discussione in famiglia se mettere le medaglie di guerra ottenute con le Waffen-SS o no. Noi in
quegli anni volevamo acquisire la cittadinanza italiana, lui non aveva optato per la tedesca, ma
i suoi genitori sì. Allora bisognava dare disdetta dai tedeschi che loro la cedevano e noi per tanti
anni non esistevamo, né tedesca né italiana. E con il suo coinvolgimento con gli Schützen non gli
lasciarono l’italiana. L’Italia l’ha sempre respinto e allora abbiamo ripreso la tedesca. C’è ancora
una gran confusione e abbiamo due fratelli gemelli e uno è italiano e l’altro tedesco». Intervista
del 17 ottobre 2009 al volontario Josef Tappeiner e al figlio Hans Tappeiner.
1265
251
dei popoli1268» e contro «un comunismo vissuto come tentativo di appiattire tutti
in un proletariato indifferenziato1269».
Anche la tematica dell’antisemitismo è vissuta dai volontari sudtirolesi
intervistati allo stesso modo degli italiani. Mai in modo razziale, ma piuttosto in
senso sociale, secondo un punto di vista all’interno del quale l’ebraismo viene
identificato con l’ipercapitalismo e l’ingiustizia sociale. Comune, se non addirittura più radicato, è inoltre il culto della natura come manifestazione del sacro che
anima la visione del mondo dei volontari sudtirolesi. Si può pertanto asserire che,
a livello di pensiero politico, tra volontari italiani e sudtirolesi nelle Waffen-SS
emergano concezioni che possono essere considerate pressoché comuni.
Certo è che la critica al colonialismo fascista e al mancato riconoscimento
delle identità locali, formulata dai volontari italiani, diventa nei sudtirolesi una
condanna assoluta del fascismo come esperienza di governo. Questa è la principale differenza, che non può però impedire di notare come le componenti del
pensiero dei due gruppi possano essere considerate sovrapponibili e collocabili
nel medesimo filone ideologico.
Un’ideologia che rientra nel quadro di quel fascismo sincretico, frutto
dell’unione e della commistione dei differenti fascismi europei, precedentemente
ricostruito e citato. Non vi è dubbio che il distacco dal particolarismo nazionalista, maturato con forza nei volontari italiani nelle Waffen-SS, abbia contribuito,
all’interno di un’ideologia che non può più essere definita né fascista né nazionalsocialista in modo esclusivo, ma appunto sincretica, all’unione di differenti
identità che durante il periodo di governo fascista non avrebbero potuto coabitare
gli stessi spazi politici.
1268
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
1269
252
5
IL VISSUTO E LE CONTINGENZE STORICHE
Il 25 luglio e l’8 settembre 1943
Dopo aver preso in esame l’apparato socioculturale e gli elementi ideologici
che caratterizzano i volontari italiani nelle Waffen-SS è importante contestualizzarli all’interno del vissuto dei principali eventi storici che caratterizzarono il
periodo e che si correlano alla decisione di volontariato. Si tratta di eventi che,
citati spontaneamente dagli intervistati, sembrano rivestire un ruolo importante nelle dinamiche decisionali e nello sviluppo del pensiero politico dei volontari.
Come messo in evidenza in precedenza, gli intervistati si caratterizzano per
un vitalismo attivo che li spinge a partecipare in prima persona agli eventi, si
potrebbe dire, nel quadro del concetto di destino ricostruito, a fare la storia.
Anche alla luce di ciò assume particolare rilevanza comprendere quali eventi
rappresentarono, nel vissuto degli intervistati, un richiamo al dovere dell’azione.
Gli anni che precedettero, accompagnarono e seguirono l’esperienza di volontariato si presentano come complessi e convulsi nella loro densità di accadimenti:
l’entrata in guerra dell’Italia; la caduta di Mussolini; l’armistizio; la nascita della
RSI; la sconfitta militare e politica; la guerra civile che prosegue oltre il conflitto;
la nascita della Repubblica italiana nel nuovo scenario della guerra fredda. Si
tratta non di riscrivere quegli eventi secondo la testimonianza dei volontari, che
è ovviamente soggettiva, ma di comprendere l’impatto di questi accadimenti
sull’universo rappresentato dagli intervistati, ed eventualmente determinare il
ruolo dei volontari al loro interno.
Raramente nel loro narrato i volontari citano date precise, neppure quella del
loro arruolamento. Un evento quest’ultimo che tendono piuttosto a collocare in
rapporto di relazione e consequenzialità con alcuni accadimenti storici e con
l’insieme di emozioni e reazioni che a partire da essi maturarono nel loro animo.
Vi sono due date che i volontari italiani citano spontaneamente all’interno del
proprio racconto: il 25 luglio e l’8 settembre del 1943.
Il 25 luglio del 1943 è il giorno in cui il Gran Consiglio del fascismo depone
Mussolini, che viene poi arrestato per ordine del re. Il Duce non solo perde la
guida del Paese, ma subisce l’onta della prigionia. La liquidazione di Mussolini
ha un forte impatto sulle relazioni italo-tedesche e le dichiarazioni di fedeltà
all’alleanza di Badoglio vengono ritenute puramente strumentali dai vertici
nazionalsocialisti, certi che in verità il nuovo governo italiano stia preparando il
tradimento. Le truppe tedesche cominciano subito a muoversi verso l’Italia ed il
primo agosto varcano la frontiera del Brennero, composte anche da soldati delle
Waffen-SS, alcuni dei quali portano sull’elmetto la scritta “Viva il Duce”. Sin dai
primi di agosto i tedeschi si mobilitano, inoltre, per organizzare un controgoverno
253
italiano e Himmler suggerisce a Hitler che uno dei primi atti del controgoverno
sia quello di rivolgere ai militari italiani un appello che li autorizzi a tornare a
casa. Dato che “con l’esercito attuale non c’è niente da fare, perché i soldati
fuggono”, il capo delle SS ritiene più opportuno ricostruire un esercito fatto di
volontari1270.
Se i tedeschi compresero da subito la gravità degli eventi del 25 luglio è ancor
più utile valutare quale sia stato, all’epoca, il giudizio dei futuri volontari sulla
deposizione di Mussolini ed anche quale la valutazione politica e storica successiva. Il volontario Pasquale Scarpellino, ad esempio, racconta: «ero nella 112ª
Legione quindicesima e subito dopo la caduta del Duce, che all’inizio non fu chiaro
come avvenne, il 25 luglio o un paio di giorni dopo ci levarono dalla divisa i fascetti
e ci misero le stellette che aveva l’esercito, questo mi insospettì molto. Avvennero
anche pesanti sfottò da parte di coetanei che la pensavano diversamente da noi
e ci deridevano perché avevamo perso il fascio sulla divisa. Come è possibile che
nell’Italia fascista, subito dopo che il Duce non è più al comando, con una guerra
in corso qualcuno tra i vertici militari si preoccupi di bandire i fascetti dalle
divise? Significava da subito che la rimozione del Duce voleva dire bandire il
fascismo?1271».
Anche il volontario Giuliano Bortolotti afferma di aver vissuto il 25 luglio con
apprensione: «quando seppi che nella notte tra il 24 e il 25 luglio il Gran Consiglio
sfiduciò Mussolini, rimasi molto sorpreso, ma ancor più quando si seppe che era
stato arrestato, ma la cosa che mi preoccupò maggiormente fu che a guida del
nuovo governo non vi fosse un fascista, ma Pietro Badoglio, e temetti ciò che si
verificò, un doppio gioco con l’alleato tedesco e gli angloamericani, mi chiedevo
come mai non fosse a capo del governo un fascista1272».
Il volontario Pietro Ciabattini, che ha pubblicato un saggio sugli eventi del
25 luglio 1943 insignito del fiorino d’argento del Premio Firenze per il contributo
alla cultura1273, afferma: «il 25 luglio fu una data particolare, rimasi malissimo
nel vedere persone che fino a poche ore prima si dichiaravano fasciste prendere
il fascio e buttarlo nella latrina, ma ancor più mi stupì che al Duce avessero dato
il benservito addirittura dei quadrumviri, ossia quelli che avevano fatto la
marcia su Roma, e il genero, quel Galeazzo Ciano che si metteva le vesti di un
moderno Bruto, e soprattutto mi allarmò che a capo del nuovo governo non fosse
posto un fascista ma Badoglio, non fu una cosa da poco, perché significava che la
deposizione di Mussolini non era avvenuta in seno al fascismo o per divergenze
all’interno di una concezione fascista della nazione, ma c’erano di mezzo altri, ne
fui veramente allarmato e quando seppi che il Duce era stato arrestato fui preso
da un grande sconforto1274».
Dal narrato di coloro che citano spontaneamente gli eventi del 25 luglio 1943
si evidenzia come l’attenzione dei futuri volontari fosse focalizzata soprattutto
sugli esiti della guerra, sia per coloro che già vi erano coinvolti come soldati sia
per quelli che, ancora troppo giovani, non vestivano l’uniforme. Lo scontro in atto
1270
1271
1272
1273
1274
254
De Felice 1998: 45-51.
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
Ciabattini 2006.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
è vissuto come determinante per il futuro della patria. La deposizione di
Mussolini non fu un evento immediatamente chiaro, per le dinamiche che la
causarono, ai volontari che si trovavano impegnati al fronte. Quelli che ancora
non erano in armi, e si trovavano in Italia, furono insospettiti da alcune
manifestazioni di giubilo per la caduta del Duce.
La deposizione di Mussolini determinò uno stato di preoccupazione nei futuri
volontari, ma il sentimento prevalente sembra essere stato quello dell’incredulità. In primo luogo l’incredulità che all’interno dello scenario di guerra il fascismo
non riuscisse a superare le crisi interne per tutelare i destini dell’Italia. E poi
un’incredulità mista a paura, i volontari temono, ma non riescono a credere, che
la deposizione di Mussolini comporti anche la caduta del fascismo. Piccoli
provvedimenti, come la sostituzione dei fasci littori con le stellette sull’uniforme
della Milizia, diventano indici di una defascistizzazione dell’Italia temuta, ma
anche non ritenuta possibile in un così breve arco di tempo.
È evidente che il fascismo sia per i volontari qualcosa che va oltre la sola
figura del Duce, per il quale, come visto, essi nutrono grande ammirazione e
stima, e ciò renda improbabile a loro avviso un suo sfaldamento in un momento
cruciale per la nazione. Ma il fatto che il nuovo governo sia guidato da Badoglio,
un militare e non un fascista, viene interpretato con una chiave di lettura
ambivalente dai futuri volontari.
Da un lato il timore che la nomina di un militare, e non di un fascista,
rappresenti il tentativo di defascistizzare il Paese, dall’altro il prendere in
considerazione la possibilità che tale nomina derivi dalla volontà di una gestione
della guerra. Afferma il volontario Paolo Bortolotti:«quando nominano Badoglio
ci chiediamo se è perché deve condurre la guerra o perché vogliano far fuori il
fascismo, ma tutto fu chiaro dopo con l’8 settembre1275».
Il volontario Ferdinando Gandini racconta: «appresi con delusione della
deposizione di Mussolini, ma c’era la guerra e Badoglio aveva detto nel proclama
che non si scioglieva l’alleanza coi tedeschi, io ci credetti, era un militare, e ricordo
che ero a Roma ferito e non vedevo l’ora di continuare la guerra, poi le cose
andarono diversamente e più tardi, dopo essere scappato a Milano, andai ad
arruolarmi da un soldato tedesco, erano le SS1276». Pietro Ciabattini: «all’inizio
ricordo che si parlò delle dimissioni di Mussolini e quindi ci chiedevamo cosa fosse
successo, ma poi c’era anche l’arresto, oltre alla nomina di un militare cialtrone,
ruffiano e incapace a capo del governo, il caos era completo e in tutto questo
marasma dicevano che la guerra continuava1277».
1275
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
Intervista del 25 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini. Per quanto riguarda le
vicende del volontario, esse sono ricostruite, con toni retorici, in una “autobiografia” che ha per
autore d’Auria (2011).
1277
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini. Per quanto concerne le
valutazioni del volontario sulla figura di Badoglio, aldilà dei toni accesi dell’intervistato, esse
sembrano trovare un certo riscontro nelle ricostruzioni del De Felice che scrive: “Badoglio, che
dopo la sua destituzione da capo di stato maggiore generale, ostentava negli opportuni ambienti
un deciso antifascismo, ma che non poteva vantare certo un passato limpido né sotto il profilo
militare (per le sue responsabilità nello sfondamento di Caporetto) né sotto quello politico (per
i suoi rapporti col fascismo e la sua acquiescenza di fronte a Mussolini in tante occasioni e che
era noto per il suo carattere ambizioso, vendicativo, interessato e ambiguo” (De Felice 1996: 11581159).
1276
255
Emerge, dunque, un’approssimativa comprensione degli eventi in corso e
una preoccupazione evidente che viene però frenata sia dall’attenzione posta al
proseguimento della guerra sia dal fatto che non viene ritenuto possibile un
totale sfaldamento del fascismo con la deposizione di Mussolini. Tali atteggiamenti si inseriscono in una situazione che è di proseguimento della guerra, in un
quadro di preoccupazione per gli intervistati che si trovavano al fronte, e di
smarrimento per coloro che si trovano come civili in Italia. Anche nei giorni
successivi, quando, grazie alle maggiori informazioni che cominciarono a circolare, la preoccupazione dei futuri volontari crebbe d’intensità, nessuno degli
intervistati ritenne che si sarebbe potuto verificare ciò che poi invece avverrà:
l’armistizio con gli angloamericani.
Non vi è dubbio che i futuri volontari il 25 luglio 1943 e nei giorni successivi
si trovarono in un limbo, preoccupati che la guerra proseguisse nonostante la
caduta del Duce e increduli, nonostante il timore che ciò stesse accadendo, che il
fascismo potesse sfaldarsi senza possibilità di reazione e rigenerazione. Non vi
è dubbio che l’attenzione alle sorti della guerra in corso contribuì a porre i futuri
volontari in una situazione di stallo e di mancata reazione: «la priorità venne
data alla continuazione della guerra nella quale l’Italia era in difficoltà piuttosto
che in inutili faide interne che potevano avere gravi ripercussioni militari, certo
qualcuno aveva festeggiato la caduta del Duce e ciò faceva male, ma al fronte non
c’erano gli strilloni ma i soldati che stavano combattendo per l’Italia, certo non
potevamo immaginarci che si stesse preparando un’infamità come quella dell’8
settembre1278».
È proprio l’8 settembre del 1943, con l’armistizio che conteneva la vaga
formula che invitava le truppe italiane a reagire ad eventuali attacchi da
qualsiasi altra provenienza, preceduto dalle circolari dello stato maggiore che
indirizzavano ad agire con grandi unità o raggruppamenti mobili contro le truppe
tedesche, ad animare tutti i racconti dei volontari italiani nelle Waffen-SS. Un
evento, questo, che risulta intimamente correlato con la decisione di volontariato.
La prima risultanza che emerge dalle interviste è l’elevato coinvolgimento
emotivo dei volontari, anche a tanti anni di distanza, negli accadimenti dell’8
settembre. La struttura grammaticale del narrato risulta più complessa, più
lunga e arricchita dal maggior uso di avverbi, negazioni e ausiliari, rispetto alle
precedenti tematiche, evidenziando come si tratti di una narrazione che ancora
oggi si lega ad emozioni negative. La fluidità del narrato si riduce e la struttura
temporale del racconto presenta numerosi salti tra il passato e il presente,
derivati da nessi di causalità individuati dagli intervistati tra quegli eventi e la
situazione presente, mentre la descrizione degli eventi stessi vissuti in prima
persona l’8 settembre 1943 è ricca di dettagli e informazioni su persone e luoghi
ai quali il racconto fa riferimento.
Non vi è dubbio che parlare dell’8 settembre determini nei volontari un alto
livello di emozionalità. Le parole, aggettivi e sostantivi, maggiormente adoperate per descrivere quegli eventi sono: vergogna, tradimento, infamia, vigliaccheria, fango, dramma, disonore, ignobile, sofferenza, fuggiasco, fellonia, viltà,
abbandonati, scempio e onta. Quelle che essi adoperano più frequentemente per
1278
256
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
descrivere la propria reazione, che comporta la spinta al volontariato, sono:
patria, patriottismo, onore, fedeltà, cameratismo, alleati, riscatto, reazione, fede
politica, ideali, dignità, colpa, sacrificio, amore, rispetto, ribellione, morire e
difendere. Le parole adoperate per descrivere il proprio volontariato, presentato
anche come reazione agli eventi dell’8 settembre 1943, confermano non solo un
forte coinvolgimento emotivo, ma anche politico.
I volontari sentono che, in quanto italiani, sono stati loro stessi «trascinati nel
fango dalle decisioni vergognose di Badoglio, dalle conseguenze di un tradimento
dettato dalla vigliaccheria e dall’opportunismo che richiede una reazione in nome
della patria e degli ideali1279». Si evidenzia l’esistenza di un concetto di onore che
si muove all’interno di due piani: uno personale ed uno collettivo. Come emerso
in precedenza, la patria, che è un ente spirituale, «non può macchiarsi del
disonore di tradire l’alleato tedesco nella difficoltà1280» e alle persone, che la patria
compongono e dovrebbero amare, è attribuito il «dovere del sacrificio e dell’azione
per il bene della patria gettata nel fango dalla vigliaccheria1281».
Le azioni del governo Badoglio, il cambio di alleanza, non solo vengono
considerate dagli intervistati come contrarie all’interesse dell’Italia, ma responsabili di gettare la patria nel fango e nella vergogna, con conseguenze che secondo
i volontari si protrarranno nel tempo, minando la credibilità della nazione nel
contesto internazionale. L’idea condivisa da tutti gli intervistati è, come precedentemente emerso analizzando altre tematiche, che sia «preferibile un’amara
e cocente sconfitta militare piuttosto che l’onta perenne di aver tradito le alleanze
che getta in discredito un popolo e una nazione1282». La reazione a tale situazione
percepita, che si concretizza nel volontariato nelle Waffen-SS, appare una
risposta coerente coi modelli culturali propri dei volontari sinora ricostruiti.
Alla patria vengono traslati comportamenti che devono essere coerenti con
quelli dell’eroe, primo tra tutti il rispetto della parola data. Emerge, inoltre, un
insieme di valutazioni che si inserisce in un ragionamento più schiettamente
politico e ideologico. Il tradimento dell’8 settembre non è analizzato e considerato
dagli intervistati esclusivamente sotto il profilo militare. L’alleanza tra Italia e
Germania è vissuta come un’alleanza tra fascismi, come comunione ideale tesa
alla costruzione di un futuro migliore per il mondo. Tradire l’alleanza con la
Germania nazionalsocialista significa anche tradire il ruolo che i fascismi
andavano assumendo nello scenario internazionale, ossia quello di controproposta, in termini di perseguimento della giustizia sociale, al materialismo capitalista e marxista.
Il coinvolgimento emotivo che gli eventi dell’8 settembre determinarono
negli intervistati deve essere analizzato facendo ricorso al loro narrato, in modo
da ricostruire in modo accurato e comprendere il più a fondo possibile l’intreccio
di meccanismi emozionali e di valutazioni storiche e politiche nel quale maturò
la scelta di volontariato. Il volontario Mario Lucchesini, relativamente ai
sentimenti provati, afferma: «i fatti dell’8 settembre pesarono molto sulla mia
scelta, ricordo benissimo quel giorno e che ho pianto per la vigliaccheria e il
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Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
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tradimento commesso1283».
Ireneo Orlando descrive in dettaglio lo stato d’animo nel quale si trovò:
«ancora oggi fatico a parlare dell’8 settembre, fu una vergogna, un governo
fuggiasco, un capo fellone, un’alleanza tradita, fu uno scempio della nostra
patria, ci ritrovammo nel fango, ma dopo lo sconforto nacque tanto entusiasmo
e voglia di riscatto, certo però in quel momento sentii su di me tutto il peso del
disonore1284». Le altre dichiarazioni presentano lo stesso tono ed evidenziano una
dinamica per la quale il disonore riservato all’Italia si trasla in automatico sui
volontari in prima persona: la vergogna nazionale diviene a tutti gli effetti anche
una vergogna personale. È all’interno di tale dinamica che la scelta di volontariato si tinge anche di connotazioni emotive personali: «fu terribile e ovviamente
la scelta fu anche emotiva, volevamo lavare via il fango che il re e Badoglio ci
avevano scaricato addosso, ci fu un fattore emotivo e volevamo vendicarci
dell’armistizio, i gerarchi traditori al muro e fuori i Savoia1285».
Afferma il volontario Francesco Scio: «arrossivo di vergogna per il tradimento, per la fellonia dei Savoia e di rabbia per quello che era riuscito a fare Ciano,
mascalzone, traditore, vile1286». Anche il volontario Scano parla con toni sdegnati
della fuga del re e afferma: «sulle mie scelte pesarono certamente le decisioni del
governo Badoglio che considerai un tradimento, un’infamità verso l’alleato, e
pesò anche l’ignobile fuga del re che gettava nella vergogna l’Italia1287».
La rabbia verso i gerarchi che deposero Mussolini si inasprisce proprio in
occasione dell’8 settembre, proprio perché in quella data i timori che la deposizione del Duce si tramutasse in uno smantellamento del fascismo si concretizzano
chiaramente agli occhi dei volontari. La fuga dei Savoia e di Badoglio a Sud
rappresenta, inoltre, un’aggravante del tradimento all’alleato tedesco, un caso di
viltà e di incapacità di assumersi una responsabilità personale e politica delle
decisioni prese che i volontari considerano indispensabile per delle figure di
governo e comando. Se dunque è il tradimento dell’8 settembre a generare una
vergogna definita come nazionale che, vissuta anche come personale, necessita
un riscatto, è importante comprendere a fondo di quali dinamiche si componga
la tematica del tradimento.
L’attuazione di un tradimento comporta il fatto che vi siano dei traditori, in
questo caso identificati nei gerarchi che sfiduciarono Mussolini, nel governo
Badoglio e nella monarchia, e dei soggetti, i traditi, che subiscano tale tradimento. La comprensione di chi fossero, ad avviso dei volontari, i traditi consente di
valutare ancora più in dettaglio il peso che gli eventi dell’8 settembre rivestirono
sul fenomeno del volontariato italiano nelle Waffen-SS. Uno dei soggetti che gli
intervistati considerano aver patito il tradimento è senza dubbio l’alleato
tedesco.
I volontari che al momento delle decisioni dell’armistizio erano già impegnati
in guerra con la divisa italiana ricordano con commozione, disagio ed amarezza
il fatto di essersi trovati a fianco dell’alleato tedesco e di aver appreso di doverlo
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Corrispondenza del 15 dicembre 2006 col volontario Mario Lucchesini.
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
considerare improvvisamente come nemico. Francesco Scio afferma: «dopo aver
diviso le asprezze della guerra, condiviso il cibo, le paure, tutto ciò che la guerra
comporta, con gli alleati tedeschi, all’improvviso qualcuno pretendeva che li
considerassimo nemici1288». È un momento questo che rimane scolpito nella
memoria dei volontari, che ricordano esattamente il luogo in cui si trovavano al
momento della notizia dell’avvenuto armistizio, le persone che li circondavano,
i nomi dei camerati tedeschi che erano con loro, ed ogni piccolo dettaglio di quegli
accadimenti.
Il volontario Rutilio Sermonti, come precedentemente citato, descrive in
dettaglio come nello scenario di guerra greco un superiore arrivato appositamente sul posto gli avesse richiesto di provvedere a disarmare i tedeschi che stavano
riposando assieme a loro all’ombra di alcune frasche dopo giorni di battaglia
condivisa.
Francesco Scio racconta: «come posso dimenticare l’8 settembre, avevo
cominciato il corso ufficiali a Navacchio quando quel mascalzone di Badoglio
tradì e il nostro comandante ci mandò a Pisa per prevenire attacchi dei tedeschi.
Durante il tragitto incontrammo un sottufficiale tedesco che parlava italiano che
ci chiese come mai avevamo combattuto assieme fino ad allora e poi noi avevamo
tradito. Era così, io avevo combattuto anche in Grecia fianco a fianco coi tedeschi,
mi vergognai e gli dissi che non era colpa nostra e quando mi chiese di
consegnargli i moschetti io gli dissi che noi eravamo con loro e con loro sono
andato ad Ortona e poi a Cassino1289». Per chi ha vissuto il cameratismo di guerra
coi soldati tedeschi, il tradimento assume una valenza personale inaccettabile:
non si può considerare nemici coloro coi quali si è condivisa la guerra e tutte le
sue asprezze.
A subire il tradimento non è dunque soltanto l’alleato tedesco, ma sono anche
i soldati italiani. Secondo i volontari non si può chiedere ad un soldato di tradire
se stesso cancellando quella fratellanza d’armi e quel cameratismo maturati in
anni di guerra condotta fianco a fianco. È ancora una volta evidente come il
cameratismo sia un valore centrale all’interno del pensiero dei volontari e come
la figura del soldato ideale sia lontana da quella del mero esecutore di ordini
altrui.
Il soldato, secondo gli intervistati, ha un codice morale che non può essere
violato e travalicato da alcun ordine superiore che lo obblighi a tradire se stesso
mancando di rispetto alla parola data all’alleato e al cameratismo nato in
battaglia. A queste due dimensioni del tradimento, dell’alleato tedesco e della
propria natura di soldato, se ne aggiunge una terza che si muove all’interno di
un’ottica politica e ideologica.
Si tratta di un tradimento politico che, come visto, secondo i volontari viene
attuato nei confronti del fascismo e dei suoi obiettivi: «era inconcepibile il fatto
che all’improvviso avremmo dovuto considerare il nazionalsocialismo come un
nemico per abbracciare gli inglesi, gli americani che rappresentavano il colonialismo, la plutocrazia, il nemico principale dei fascismi1290». Ad essere stato tradito
secondo gli intervistati non è soltanto il fascismo italiano, inteso sia come
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Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
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pensiero politico sia come esperienza di governo, ma il fascismo come ideologia
internazionalmente valida che aveva determinato alleanze tra differenti nazioni.
Un altro soggetto, come già anticipato, che patisce il tradimento è la patria.
Il volontario Alessandro Scano afferma: «ritenevamo una vergogna quello che
era successo, sapevamo che la guerra era persa, ma ciò che è accaduto era una
vergogna, una guerra la si può anche perdere e questo si sa nel momento stesso
in cui la si comincia, ma cambiare alleanza in corso, tradire l’alleato, è qualcosa
che getta una nazione nel fango per sempre, è un tradimento della patria che
resta macchiata per sempre dall’infamia1291».
Giorgio Bernagozzi dichiara: «ricordo ancora la vergogna e il dolore che
provai, perché è meglio perdere una guerra combattendo che vincerla nell’inganno e nel tradimento e far cadere la vergogna sulla patria1292». Il volontario
Giuliano Bortolotti non ha dubbi sull’8 settembre: «quel giorno è avvenuto un
tradimento, certo dell’alleato tedesco, ma soprattutto dell’Italia, stavano uccidendo la patria gettandola nella vergogna internazionale, le colpe ricadevano su
tutti gli italiani che sarebbero diventati per sempre una nazione di quaquaraquà1293».
Il termine quaquaraquà, di natura fonosimbolica mutuato dalla lingua
siciliana, è usato per identificare persone dall’elevata loquacità ma dalla scarsa
affidabilità, una descrizione questa che, secondo il volontario, sarebbe ricaduta
sulla patria e gli italiani tutti in conseguenza dell’incapacità di mantenere la
parola data e di continuare a combattere nonostante una sconfitta ormai
considerata imminente.
Questa tematica del tradimento della patria, nonostante non vi siano dubbi
che per diversi intervistati quest’ultima coincida col fascismo, esula però da
implicazioni esclusivamente ideologiche. Il suo fondamento è piuttosto da rilevare nel concetto di patria proprio degli intervistati, secondo il quale esiste un codice
d’onore che anche le nazioni devono rispettare piuttosto che perseguire con
l’inganno un tornaconto valutato nell’immediato. Mancare ai patti stipulati tra
nazioni, in quest’ottica, significa violare un codice d’onore che pone la patria fuori
dalla storia e la rende additabile dagli altri Stati a «simbolo di truffaldineria e
inaffidabilità1294».
Il volontario Pio Filippani Ronconi scrive come l’8 settembre sia a suo avviso
un «dramma della nostra Nazione in quel momento storico, dramma che tuttora
non si è esaurito1295» e in una intervista puntualizza: «l’Italia fu messa in coda alle
ultime nazioni del Mediterraneo e di tutto il mondo1296». Ancor più esplicito è
Pietro Ciabattini: «con l’8 settembre è morta la patria, l’Italia, non solo il fascismo
e l’Europa che venne divisa per aree di influenza sovietiche e americane dopo la
guerra, è morta la patria perché l’Italia non era più credibile, quella che volevano
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Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
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Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
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Intervista telefonica del 11 giugno 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
1295
Filippani Ronconi, L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un vecchio uomo d’arme.
(La 29° Divisione Granatieri SS), APCP, Sez. 30/6, pp. 1-3, Reg. 169-171.
1296
Capano 2001.
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260
e vogliono farci credere sia stata una vittoria contro i fascismi fu, se lo fu e io non
credo, una vittoria ma nel disonore del tradimento, dell’inganno dell’alleato che
rendeva l’Italia una nazione inaffidabile nel contesto internazionale, una nazione di opportunisti e di traditori incapace di accettare con onore la sconfitta, molti
italiani se ne infischiarono di combattere e come loro il governo Badoglio che
sperava solo che gli americani facessero presto e la guerra finisse1297».
Secondo le testimonianze dei volontari vi sarebbe un ulteriore tradimento
che si realizzò l’8 settembre del 1943 e nei giorni successivi. Quello operato dalle
gerarchie militari e dagli ufficiali nei confronti delle proprie truppe. Rutilio
Sermonti racconta: «ci trovammo in Grecia e non arrivavano ordini su cosa fare,
nessuno ci informava su cosa stesse succedendo, i comandi militari ci abbandonarono pensando solo a se stessi1298».
Il volontario Francesco Scio racconta: «fu un tradimento generale, anche gli
ufficiali ci tradirono, molti si tolsero la divisa e se la svignarono1299». La figlia del
volontario Carlo Gionzer ricostruisce attraverso i racconti del padre l’accaduto:
«mio padre raccontava di come si trovò in una situazione in cui erano abbandonati, senza ordini, senza sapere cosa fare, a fianco di quelli che erano alleati e poi
sarebbero dovuti diventare all’improvviso nemici1300».
Emblematico è il caso di Cirillo Covallero che in occasione dell’8 settembre
non riceve nessuna informazione sul da farsi e festeggia la fine della guerra. Si
arruolerà volontario successivamente, una volta fatto prigioniero dai tedeschi,
evidenziando un forte disprezzo per gli ufficiali italiani che «anche nel campo di
prigionia mantenevano un atteggiamento di superiorità e miravano a vivacchiare1301». Ferdinando Gandini esprime un’opinione molto netta: «mi sentii tradito,
ci lasciarono senza informazioni, senza istruzioni, io ero ferito e non sapevo cosa
stesse succedendo, ma Badoglio se la svignò a Sud lasciandoci tutti nei guai, ci
abbandonarono al nostro destino1302».
Non c’è dubbio che coloro che già vestivano un’uniforme e combattevano al
momento dell’8 settembre si siano sentiti traditi dai vertici militari italiani e
dagli ufficiali. Un comportamento che molti intervistati mettono poi a confronto,
come visto in precedenza, con quello ritenuto esemplare tenuto dagli ufficiali
delle Waffen-SS e che inasprisce la sensazione di essere stati abbandonati,
traditi, dal proprio stesso esercito e rinforza di contro il mito dell’esercito tedesco
e delle sue truppe di élite.
Sono, dunque, cinque i tradimenti che secondo quanto ricostruito dalle
testimonianze degli intervistati compongono il tradimento dell’8 settembre
1943: il tradimento dell’alleato tedesco; il tradimento della morale del soldato al
quale viene richiesto di combattere contro quello che fino a pochi istanti prima
era un camerata; il tradimento dell’ideologia fascista e della sua missione
internazionale; il tradimento della patria; e il tradimento dell’esercito da parte
dei vertici militari e di parte degli ufficiali.
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Intervista
Intervista
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Intervista
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Gionzer.
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Intervista
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Intervista
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del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
del 10 settembre 2009 al volontario Francesco Scio.
telefonica del 24 ottobre 2009 a Renata Gionzer, figlia del volontario Carlo
del 2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
del 15 ottobre 2009 al volontario Ferdinando Gandini.
261
L’intreccio di tali tradimenti rende comprendibile il fatto che ancora oggi, a
tanti anni di distanza dagli eventi, gli intervistati considerino l’8 settembre 1943
un momento decisivo per la loro scelta di volontariato nelle Waffen-SS. Non vi è
dubbio che l’armistizio e gli accadimenti dei giorni successivi rappresenteranno
una spinta indiscutibile al volontariato, ma non sufficiente di per sé a spiegare
la scelta delle Waffen-SS. Vi era infatti anche la possibilità di continuare a
combattere dalla medesima parte ideale arruolandosi all’interno dell’esercito
della RSI.
Non vi è dubbio che nei volontari scattò anche un meccanismo di solidarietà
con l’alleato tedesco che favorì la scelta delle Waffen-SS. «Mi sono arruolato nelle
Waffen-SS a sedici anni forse per sentirmi più vicino ai camerati tedeschi, pesò
il fatto che arruolandomi avrei fatto parte dell’esercito tedesco1303», afferma il
volontario Mario Lucchesini. Se certamente, dunque, il cameratismo maturato
con l’alleato tedesco negli anni di guerra giocò un ruolo nella scelta della
destinazione del proprio volontariato in correlazione ai tradimenti dell’8 settembre, le motivazioni profonde che portarono gli intervistati ad arruolarsi nelle
Waffen-SS, piuttosto che nell’esercito della RSI, vanno inquadrate però nelle più
ampie dinamiche culturali e ideologiche precedentemente ricostruite.
La difesa della patria contro l’invasore
Un accadimento che segna il ricordo dei volontari è quello del bombardamento aereo dell’Italia. I volontari intervistati raccontano come i bombardamenti
angloamericani sulle città italiane, ai quali assistettero e che descrivono ancora
oggi con rabbia e sgomento, li avessero feriti nel loro amore per la patria
determinando un incentivo all’azione. Anche lo sbarco delle truppe angloamericane sul suolo italiano determinò una spinta al volontariato per coloro che ancora
non erano impegnati sullo scenario di guerra.
Albarosa Tosi Malossi racconta: «mio fratello diceva sempre di portare odio
per gli inglesi che erano distruttori di case, che uccidevano i civili con bombardamenti a tappeto indiscriminati e questo non lo sopportava come italiano1304». Nel
narrare il pensiero del fratello, Albarosa, che assistette da bambina ai bombardamenti, afferma: «anch’io ricordo le sirene e i bombardamenti, dovevamo
fuggire nella confusione generale, e io nel fuggi fuggi generale dicevo sempre a
mia mamma, “oh! Ci sono anch’io”, perché era tanta la paura1305».
Anche Agostino Taffon, nipote del volontario Antonio Taffon, racconta sia del
ruolo che i bombardamenti giocarono nella scelta di volontariato dello zio sia delle
paure che destarono in lui: «mio zio Antonio, fratello di mio padre, è nato a Ceggia,
in provincia di Venezia, e il paese è stato soggetto a bombardamenti e mitragliamenti alleati sullo zuccherificio Eridania, io avevo sette anni e ricordo che ci
nascondevamo nel fiume per evitare mitragliamenti e bombardamenti pesantis-
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Intervista telefonica del 1° ottobre 2006 al volontario Mario Lucchesini.
Intervista del 16 giugno 2008 ad Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio
Tosi.
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Tosi.
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Intervista del 16 giugno 2008 ad Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio
simi e quando gli rimaneva qualche bombetta volevano centrare anche il ponte
minore del paese, ricordo ancora il suonare dell’allarme che voleva dire buttarsi
nel fosso e buttavano giù bombe argentee che brillavano al sole e in un campo
distrussero un’intera famiglia. Sganciavano anche le bombe a farfalla e ci
giocavamo, le aprivamo e chiudevamo, ricordo la rabbia, le imprecazioni e il
dolore di mio zio per quei bombardamenti. Aveva una fidanzata bellissima, ma
decise di andare volontario per difendere l’Italia1306».
Il ricordo dei bombardamenti è ancora presente in chi ha vissuto l’esperienza
di guerra e nel narrato emerge come all’interno delle famiglie dei volontari le
bombe angloamericane non fossero viste in alcun modo come portatrici di una
liberazione dal fascismo, ma come foriere di morte e paura ed anche come
testimonianza che l’Italia era stata invasa e viveva momenti di difficoltà.
I volontari stessi raccontano l’impatto emotivo che i bombardamenti ebbero
su di loro e come l’aver assistito ad essi li spinse all’azione. Il volontario
Alessandro Scano afferma: «io vedevo le fortezze volanti americane che bombardavano continuamente e lanciavano anche giocattoli bomba, dovevo fare qualcosa per la mia patria1307». Adolfo Simonini racconta: «era un bombardamento
continuo, sganciavano bombe ovunque e continuamente, io dopo la guerra non
potevo nemmeno dimostrare che mi avevano fatto sottotenente nell’esercito
italiano, perché quei figli di puttana di americani hanno distrutto tutto coi loro
bombardamenti a tappeto, non le fabbriche d’armi ma tutto, case e città con
migliaia di morti civili, e che cosa dovevamo fare noi, stare a guardare?1308».
I ricordi dei volontari intervistati e dei loro famigliari concordano nel
descrivere i bombardamenti angloamericani come indiscriminati e «mirati non
solo a colpire obiettivi militari ma la popolazione italiana nella convinzione di
togliere supporto al fascismo1309».
Il volontario Cirillo Covallero afferma: «vidi le formazioni di fortezze volanti
che riempivano il cielo e mi pareva di vedere i piloti che sorridevano nel vedere
il nostro treno, non riesco ancora oggi a descrivere il terrore che si prova nel veder
venire giù le bombe da mille chili, il loro sibilo faceva terrore e poi c’era lo scoppio
e lo spostamento d’aria e perdevi il fiato, ma eri vivo e quando ti rialzavi stremato
vedevi morte e sangue tutto intorno a te, ricordo una vecchietta che piangeva, le
avevano distrutto tutto, la casa, il bestiame, tutto quello che aveva anche se era
lontana dal ponte, gli alleati, criminali di guerra, bombardavano a tappeto1310».
Anche Erich Priebke racconta di essere stato colpito dall’intensità dei
bombardamenti angloamericani e dal dolore che essi provocarono negli italiani
e di averne avuto descrizione, prima di assistervi di persona, da un italiano che
effettuava spedizioni per l’esercito tedesco: «ricordo che il Duce era caduto e mia
moglie era partita per Vipiteno con tutti i diplomatici accompagnati da un
italiano che quando tornò mi disse che i bombardamenti erano terribili e che non
voleva più accompagnare nessuno e che non bastava che gli pagassimo il triplo
perché i bombardamenti colpivano tutto e tutti e erano stati fortunati a arrivare
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Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
del
6 giugno 2008 ad Agostino Taffon, nipote del volontario Antonio Taffon.
2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
2 agosto 2008 al volontario Cirillo Covallero.
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vivi, anche se tutto il materiale spedito era andato distrutto, aveva visto migliaia
di persone nella disperazione di chi ha perso tutto, sia le cose materiali che la vita
dei propri parenti ed era spaventatissimo1311».
I racconti dei volontari sui bombardamenti angloamericani trovano riscontro
nelle ricostruzioni di De Felice che mette in risalto come tra gli italiani fosse
maturato un odio per i bombardamenti indiscriminati sulle città e per i mitragliamenti dei contadini sui campi e di gente comune sulle strade. Lo storico reatino
riporta come esempio quello che un uomo di cultura, non certo di sentimenti
fascisti come Antonio Delfini, ammoniva il 18 dicembre del 1944: “Mussolini
aveva dunque ragione quando ci ordinava, con la faccia feroce, di odiare gli
inglesi? È certo che noi, poveri italiani, stiamo soffrendo il soffribile. Abbasso
dunque l’Inghilterra! Spero, anzi Credo nella Provvidenza. Viva Libertà, Indipendenza, Dignità. Abbasso la Germania e, soprattutto, l’Inghilterra!”1312.
Oltre ai bombardamenti, vi è un altro evento che sembra giocare un ruolo
centrale nella mobilitazione dei futuri volontari, sia di quelli che ancora non
vestono un’uniforme sia di coloro che dopo l’8 settembre si trovano prigionieri dei
tedeschi. Si tratta della violazione del territorio nazionale da parte di truppe
nemiche. Il sapere che il territorio nazionale è stato violato e che le truppe
nemiche stanno avanzando da Sud verso Nord in una conquista territoriale che,
seppure lenta, non sembra destinata ad essere arrestata, diviene fattore di
mobilitazione.
Il volontario Pasquale Scarpellino afferma: «ci rendemmo conto, mentre
eravamo di stanza a Viterbo nella Milizia, che gli angloamericani erano alle porte
di Roma e sentimmo dentro di noi che bisognava respingerli. A me, a mio fratello
e ad altri tre giovani non piaceva per nulla come stavano andando le cose, non ci
piaceva la storia di essere fermi a Viterbo e allora, come si diceva all’epoca,
“disertammo in avanti” e ci arruolammo nelle SS per respingere gli invasori1313».
Pietro Ciabattini racconta: «gli invasori erano gli inglesi e gli americani, erano
loro che bombardavano e stavano risalendo pericolosamente la penisola, noi
volevamo combattere contro gli invasori, contro gli inglesi e gli americani, per
fermarli, erano sul nostro territorio nazionale, conquistavano le nostre città e
perciò era normale che volessimo fermarli, cosa avremmo dovuto fare come
italiani se non cercare di combatterli?1314».
Anche Paolo Cavalletti durante l’intervista è molto chiaro in proposito:
«volevamo combattere e difendere la nostra terra invasa da molti nemici, per cui
facemmo domanda di servizio militare volontario, io mi trovavo in Germania per
lavoro e andai dalle SS, le squadre speciali d’assalto, io non avevo fanatismo
politico, quando avevo lasciato l’Italia per andare a lavorare in Germania non
esistevano ideologie, c’era una nazione in guerra, e ora quella nazione era invasa
dal nemico e bisognava difenderla, bisognava difendere il nostro territorio
nazionale dagli invasori1315». Nelle testimonianze di tutti i volontari la presenza
degli angloamericani sul suolo nazionale viene descritta come un fattore impor-
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Intervista del 15 ottobre 2009 a Erich Priebke.
De Felice 1998: 103.
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
tante nella propria motivazione al combattimento e, in alcuni casi, come un
elemento decisivo nel processo decisionale che portò al volontariato.
Se dal punto di vista ideologico il capitalismo viene considerato dai volontari
come il nemico principale del fascismo, dal punto di vista militare gli angloamericani, che della mentalità capitalistica sono considerati gli esportatori, diventano il nemico che più di altri gli intervistati desiderarono combattere. Emerge una
sovrapposizione del piano ideologico con quello militare e le motivazioni al
combattimento appaiono accresciute da questo duplice aspetto.
Il volontario Pietro Ciabattini, parlando del nemico, puntualizza: «alla fine
della guerra hanno scritto in troppi dell’anticomunismo che ci avrebbe animati,
ma l’anticomunismo per noi non era molto sentito, per noi gli invasori erano gli
inglesi e gli americani che avevano cominciato a menar strage e che già avevamo
odiato come capitalisti a capo della Società delle Nazioni, bombardatori, invasori
e capitalisti, erano il nemico numero uno1316». Anche Pasquale Scarpellino è
esplicito in proposito mentre parla della situazione di guerra nella quale svolse
la sua opera di volontario nelle Waffen-SS: «dopo la guerra era tutto un parlare
che noi eravamo contro i partigiani e contro i comunisti, ma noi non sapevamo
neanche che esistessero, a Viterbo i partigiani non li avevo mai visti. Il discorso
della lotta contro i partigiani e contro il comunismo è venuto fuori dopo, più per
tutte le ricostruzioni retoriche dei partigiani che per altro, perché per noi loro
facevano il gioco degli inglesi, aiutavano chi stava invadendo l’Italia, e quindi
erano come loro, ma il nemico nostro erano gli angloamericani1317».
Il volontario Alessandro Scano, parlando del nemico, introduce dei distinguo
tra la situazione vissuta al momento della guerra e le condizioni geopolitiche
createsi dopo il conflitto: «dopo la guerra alcuni hanno scelto il cosiddetto male
minore tra gli americani e il comunismo, ma c’era la guerra fredda e il mondo era
cambiato, posso capire che alcuni abbiano fatto una scelta nella nuova situazione, ma durante la guerra per tutti noi gli americani erano i nostri nemici, quelli
ci bombardavano e avevano invaso l’Italia, loro comunque sono sempre stati i
miei nemici1318».
Pressoché tutti i volontari concordano nell’identificare il proprio nemico
principale con gli angloamericani, colpevoli di bombardare a tappeto le città e di
aver invaso l’Italia. A giudizio di molti intervistati «la retorica sull’anticomunismo delle SS italiane è nata dopo la guerra con le memorie dei partigiani che
volevano darsi importanza e perché la destra neofascista voleva legittimarsi in
funzione anticomunista durante la guerra fredda1319». Il fatto che il nemico
principale che i volontari desiderarono combattere fossero gli angloamericani
appare credibile non solo dal punto di vista storico-militare, erano quelle le
truppe che effettivamente stavano avanzando in territorio nazionale, ma anche
per la coerenza con l’ideologia degli intervistati ricostruita in precedenza.
1316
1317
1318
1319
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini.
26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
265
La guerra civile
Gli intervistati non si soffermano a descrivere in dettaglio le operazioni
militari alle quali hanno partecipato. Se si escludono la battaglia di Anzio contro
gli angloamericani ed alcuni scontri con le truppe americane nei pressi di
Piacenza, che pur non venendo descritte in dettaglio vengono citate con un certo
orgoglio come tentativo di bloccare l’avanzata degli Alleati, le vicende di guerra
restano sullo sfondo all’interno del flusso narrativo. Come precedentemente
ricostruito la guerra è considerata dagli intervistati un evento non solo traumatico, ma anche contrario alla stessa natura umana. Non traspare alcun tentativo
di accreditarsi come combattenti valorosi da parte dei volontari, ma piuttosto
una collaborazione nello spiegare le ragioni della propria scelta di volontariato
e di partecipazione agli eventi storici in corso.
Per quanto concerne la guerra civile, spesso citata come guerra fratricida,
essa viene introdotta spontaneamente nel narrato come l’evento più traumatico
al quale si è avuto in sorte di partecipare. La principale ragione, se non l’unica,
che gli intervistati citano come determinante per combattere i partigiani è
rappresentata dal fatto che questi, con le loro operazioni, facilitassero l’invasione
nemica. I volontari considerarono i partigiani come nemici soprattutto in virtù
dell’appoggio che, con sabotaggi e imboscate, essi offrivano all’invasore, contribuendo così a complicare lo sforzo profuso nel contenere e respingere l’avanzata
angloamericana sul territorio nazionale.
Il volontario Giorgio Bernagozzi dichiara: «il mio nemico, più che i partigiani,
erano gli inglesi e gli americani che avevano invaso l’Italia, io penso che senza
l’intervento americano gli inglesi li avremmo piegati, ma i partigiani dovevamo
combatterli perché aiutavano l’invasore1320». Emerge una prima differenza tra
quello che è un vero e proprio desiderio dei volontari, combattere gli angloamericani, e il dover contrastare i partigiani che ad essi forniscono collaborazione. Per
chi combatté al confine orientale italiano, la lotta antipartigiana assume natura
di difesa del territorio nazionale, ma anche qui i partigiani italiani sono
considerati come collaboratori di quelli agli ordini di Tito che mirano ad annettere
parti del territorio Italiano alla futura Jugoslavia: «anche sul fronte orientale
dovevamo difendere la patria perché la Resistenza italiana, che in quella zona
era composta da molti comunisti, si pose alle dipendenze del IX Corpus di Tito e
svolse attività anche di propaganda a favore del diritto di annessione dell’intera
Venezia Giulia da parte di Tito, il nostro compito, dunque, sia a San Daniele del
Friuli e poi a San Daniele del Carso era quello di sloggiare i titini, di cacciarli dal
territorio italiano per non mettere a repentaglio l’integrità della patria1321».
Non vi è dubbio che i partigiani italiani divennero nemici agli occhi dei
volontari in quanto «collaboravano con coloro che avevano invaso l’Italia1322». Il
partigiano diventa un nemico in quanto favorisce l’avanzata da Sud del nemico
angloamericano e, sul confine orientale, l’azione del IX Corpus dell’esercito
jugoslavo che avanza rivendicazioni territoriali nei confronti dell’Italia. È l’attenzione all’elemento territoriale, all’integrità del territorio italiano, più che quello
1320
1321
1322
266
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
ideologico a far sì che i partigiani italiani divengano dei nemici per i volontari.
Non vi è alcuna dichiarazione degli intervistati che faccia riferimento a
motivazioni ideologiche per quanto concerne lo scontro con la Resistenza. Ciò,
peraltro, appare compatibile e coerente col fatto che l’anticomunismo non
rappresentasse l’elemento cardine dell’ideologia dei volontari italiani nelle
Waffen-SS. Anche quando, soprattutto al confine orientale italiano, gli intervistati si trovarono a combattere contro le brigate partigiane comuniste italiane
alleate con quelle di Tito, nel narrato non compare acrimonia verso l’ideologia del
nemico, ma piuttosto una delusione nel constatare che «alcuni connazionali
erano disposti a nuocere alla patria arrivando ad ipotizzare di cedere, in nome
dell’ideologia comunista, parti di Italia1323».
Interessanti sono le dichiarazioni del volontario Alessandro Scano: «noi
volevamo difendere l’Italia e se i partigiani fossero comunisti, cattolici, monarchici, ce ne fregava ben poco. Poi quando abbiamo catturato dei partigiani
abbiamo capito che volevano il comunismo, ma quello che ci stupì non era cosa
volevano, ma che non credevano nell’Italia, non è che volessero il comunismo in
Italia, ma che credevano al comunismo al posto dell’Italia. Noi comunque
dovevamo fermarli perché collaboravano con chi stava invadendo l’Italia1324».
Si può asserire, dunque, che le implicazioni ideologiche che alla guerra civile
sono state ricondotte dalla storiografia del dopoguerra, ricostruite nella prima
parte del presente studio, non furono così determinanti tra le motivazioni dei
volontari italiani nelle Waffen-SS a combattere i partigiani.
In quest’ottica diviene ancor più interessante comprendere come venne
vissuta dai volontari la guerra contro i partigiani, come il compito di fronteggiare
la Resistenza venne recepito dagli intervistati. La quasi totalità dei volontari era
animata dal desiderio di combattere contro gli angloamericani e accolse il
compito di operare contro le bande partigiane con scarso entusiasmo. Il volontario Francesco Scio afferma: «noi volevamo andare al fronte, contro l’invasore, non
fare i rastrellamenti contro i partigiani, ma stare nelle SS significa anche
disciplina e capire che i partigiani andavano fermati per rendere possibile una
difesa contro l’invasore1325».
Interessante, in proposito, anche la testimonianza del volontario Giuliano
Bortolotti che racconta: «ricordo ancora quando ci dissero che avremmo lasciato
Mariano [Comense] per una missione, era già il 1945, eravamo tutti impazienti
di andare al fronte, ma fummo destinati ai rastrellamenti in Val Trebbia e la
delusione scese su tutti noi, ma il fine di quell’incarico era di proteggere il
territorio attorno alla via Emilia, zona chiave per la presenza di pozzi di petrolio,
e il fine dell’incarico ci restituì un poco di fiducia1326».
Oltre al fatto che gli intervistati ambissero a combattere direttamente contro
gli angloamericani come era avvenuto ad Anzio, emerge una sofferenza per il
dover affrontare in combattimento dei connazionali. La moglie del volontario
Mauro Vivi dichiara: «Mauro diceva sempre che la guerra fratricida è una brutta
1323
1324
1325
1326
Intervista
Intervista
Intervista
Intervista
del
del
del
del
19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
267
cosa1327». Il volontario Alessandro Scano, parlando delle operazioni contro la
Resistenza, afferma: «non posso certamente testimoniare io per il fratello
partigiano, ma sono testimone della mia parte e di come la guerra civile, perché
di questo si trattò, sia la peggior sventura che possa abbattersi su un popolo
contrapponendo fratelli contro fratelli in modo crudele e insidioso1328».
Tra le tante giova riportare un’ultima testimonianza, quella di Paolo Cavalletti che afferma: «invidio quei popoli che non hanno sofferto la guerra civile, era
bruttissimo combattere tra fratelli, ma dovevamo farlo per fermare gli invasori
e noi potevamo farlo meglio dei tedeschi perché conoscevamo la lingua e anche
il modo di fare degli italiani, dunque fu una cosa triste che dovemmo però fare per
l’Italia1329».
È evidente che se il desiderio di combattere contro gli angloamericani può
essere annoverato tra le ragioni che spinsero molti giovani ad arruolarsi nelle
Waffen-SS, che come truppe d’assalto essi consideravano le prime che sarebbero
state inviate al fronte, le operazioni contro la Resistenza non rappresentarono in
alcun modo un motivo per arruolarsi, ma piuttosto vennero accettate, con una
certa sofferenza, come compito per fermare coloro che collaboravano all’avanzata
angloamericana.
Nessuno dei volontari annovera tra le ragioni del suo volontariato il desiderio
di combattere contro i partigiani e vi è ancora oggi tristezza nel dover affrontare
la tematica dello scontro fratricida. Anche il narrato si connota per un elevato uso
di lessico emozionale e per una struttura di tipo espressivo, intesa come
manifestazione esteriore sia verbale sia non verbale delle emozioni, e i volontari
non si soffermano a raccontare il contenuto degli episodi vissuti.
Non vi è dubbio che la guerra civile rappresentò per gli intervistati una
sofferenza. Ma nonostante ciò vi sono degli aspetti, per quanto concerne le
modalità operative in cui tale scontro avvenne, che inaspriscono il giudizio dei
volontari nei confronti dei partigiani e della Resistenza in generale.
Le modalità combattentistiche adottate dalla Resistenza sono giudicate
incompatibili col concetto di guerra che è fatto proprio dai volontari italiani. Il
volontario Alessandro Scano descrive in questo modo le modalità combattentistiche adottate dai partigiani ed introduce un distinguo assai interessante all’interno del fronte resistenziale stesso: «era inaccettabile per me, per noi, che i
partigiani agissero protetti dall’anonimato dell’abito borghese, era per loro
certamente più facile e meno rischioso sparare alle spalle di un militare isolato
e poi sparire, o anche sparare ad un militare dei nostri che pensava di trovarsi
di fronte un civile, ma ciò per me era vigliaccheria. Solo dopo la guerra ho saputo
dell’azione di Edgardo Sogno che travestito da Gestapo aveva compiuto un’azione
di guerra a Torino per liberare dei partigiani, lui si veste da tedesco e rischia la
vita in una azione di guerra, non si nasconde senza uniforme sparando alle spalle,
io Sogno lo rispetto come nemico, ma i partigiani coi quali ebbi a che fare io si
nascondevano senza uniforme per sparare alle spalle e questa non è guerra, è
vigliaccheria1330».
1327
Intervista telefonica del 9 settembre 2009 a Bruna Vivi, moglie del volontario Mauro Vivi.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1329
Intervista telefonica del 11 giugno 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
1330
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1328
268
Nelle parole del volontario emerge tutta la disapprovazione per le modalità
combattentistiche partigiane, ma anche il rispetto per coloro che, invece, pur
combattendo sul fronte opposto, lo fecero senza ricorrere al vantaggio del non
vestire un’uniforme. Anche il volontario Giuliano Bortolotti narra come le
modalità combattentistiche dei partigiani fossero considerate da lui e dai suoi
camerati come inaccettabili: «gli scontri coi partigiani erano terribili, non dal
punto di vista militare, perché grandi azioni non ne fecero mai, ma perché la
maggior parte delle volte ci sentivamo fischiare addosso i proiettili da gente in
borghese che poi fuggiva nei boschi. Invece di combattere a viso aperto e in
uniforme come si fa in guerra capitava che mentre entravi in paese qualcuno
vestito come un civile si affacciava a una finestra lontana o su una strada che
passava sopra e bam bam, ti sparava addosso per poi fuggire1331».
Tutte le testimonianze condannano le modalità combattentistiche adottate
dai partigiani ed anche il volontario sudtirolese Luis Innenhofer narra: «la
guerra contro i partigiani era difficile, non avevano uniformi e agivano con
agguati, tu li vedevi pochi minuti prima in abiti civili e poi ti sparavano addosso,
ricordo che ero a bordo di un camion e vedemmo dei civili lungo la strada, poi dopo
poco i partigiani ci tirarono una bomba di fabbricazione italiana, di quelle che
facevano un rumore enorme, e fui colpito ad un braccio e alla schiena, avevo 158
schegge nella schiena e 30 ce le ho ancora. Ricordo anche di alcuni camerati che
si erano attardati e uno lo trovammo ucciso con un colpo alle spalle, avevano
sparato delle persone in borghese, questa non è guerra1332».
Anche il figlio del volontario Walter Morini asserisce: «mio padre diceva che
gli inglesi erano dei combattenti spietati, in Africa ad esempio capitava che ti
sparassero anche se ti eri arreso, ma dei partigiani gli ho sentito dire le cose più
terribili e soprattutto che ne aveva visto solo il culo perché scappavano sempre
dopo averti sparato senza nemmeno vestire una divisa nascondendosi in mezzo
alla popolazione civile. Diceva che la loro non era guerra, che era un modo
vigliacco di combattere che va contro ogni codice di guerra1333».
Le ragioni che portano gli intervistati ad una condanna delle azioni partigiane sono dunque derivate da due considerazioni: l’illegittimità di combattere
senza vestire un’uniforme e l’immoralità di condurre una guerra in modo sleale.
Nello studio dei conflitti, ma anche nelle appendici legali che accompagnano e
seguono le guerre, è generalmente accettata la distinzione tra lawful combatant
e unlawful o unprivileged combatant. Col termine unlawful combatant sono
identificati tutti coloro che prendono parte alle ostilità senza averne titolo e che
non possono essere classificati come prigionieri di guerra quando cadono in mano
nemica. In tale categoria rientrano i civili che partecipano alle ostilità e i membri
delle milizie, incluse quelle organizzate in movimenti di resistenza, non integrate
in forze armate regolari. Coloro che combattono senza vestire un’uniforme
dedicandosi alla distruzione di beni e vite umane sono considerati come unlawful
combatant1334.
1331
1332
1333
1334
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
Intervista del 18 ottobre 2009 al volontario Luis Innenhofer.
Intervista del 16 ottobre 2009 a Diego Morini, figlio del volontario Walter Morini.
Dörmann 2003: 44-47.
269
Il trattamento dei belligeranti che prendono parte ad una guerra secondo tali
modalità è ancora oggi questione ampliamente dibattuta1335, ma non vi sono
dubbi sulla distinzione tra coloro che combattono vestono un’uniforme all’interno
di forze armate regolari, lawful combatant, e coloro che invece non rispettano tali
requisiti. La valutazione degli intervistati, che riconduce l’esperienza resistenziale alla classificazione di unlawful combatant, trova fondamento in un triplice
atteggiamento: l’interpretazione legale di tale distinzione; la rabbia per le
difficoltà patite nel dover fronteggiare combattenti privi di uniforme; e la
delegittimazione del nemico. Ma un importante movente della condanna espressa nei confronti delle modalità combattentistiche partigiane sembra potersi
ricondurre non soltanto all’interpretazione del codice di guerra, ma alla concezione della guerra propria dei volontari ricostruita in precedenza.
Nella concezione eroica della guerra, in alcuni casi si potrebbe dire cavalleresca, il vestire l’uniforme e il combattere apertamente è, aldilà del fronte al
quale si appartiene, meritevole di rispetto, come abbiamo visto nelle parole che
il volontario Scano dedica al partigiano Sogno. La mancata adozione dell’uniforme assume, agli occhi degli intervistati, la natura del sotterfugio, dell’inganno
che non appartiene e non è degno, nel quadro dei riferimenti culturali ricostruiti,
della figura del soldato e dell’eroe.
È del resto Claudio Pavone a far notare come nel fronte antifascista non si
riuscì mai ad organizzare un corpo di volontari italiani che combattesse affianco
agli angloamericani e come nei resistenti le modalità combattentistiche adottate
originino valutazioni talvolta opposte: se per alcuni la fuoriuscita della guerra
partigiana dai regolamenti genera “il vago scrupolo che l’imboscata sia pur
sempre una guerra un po’ a tradimento”, per altri “ogni imboscata sulla strada
era salutata con una disumana ilarità”1336.
La generale concordanza nelle valutazioni di condanna espresse dagli
intervistati sulle modalità combattentistiche adottate dalla Resistenza potrebbe
indurre a pensare che il comportamento dei volontari italiani nelle Waffen-SS sia
pressoché uniforme al momento della cattura dei nemici partigiani. Le testimonianze, invece, evidenziano comportamenti eterogenei, si potrebbe dire talvolta
dicotomici. Il trattamento dei prigionieri è argomento ancora ad oggi ritenuto
delicato o scottante da ambo le parti, come si è avuto modo di appurare nel corso
di questa ricerca. Nel tentativo di raccogliere testimonianze partigiane di coloro
che durante la guerra potevano aver avuto modo di interrogare alcuni volontari
italiani nelle Waffen-SS, interessante sarebbe stato ascoltare le risultanze degli
interrogatori ai volontari, è stato ricevuto più volte un diniego.
Indicativa è la testimonianza telefonica, accompagnata da richiesta di
anonimato, di un partigiano oggi responsabile di una sede ANPI in una regione
fortemente interessata da scontri tra Resistenza e truppe costituite da volontari
italiani: «spesso non venivano nemmeno interrogati, o venivano passati per le
1335
Watkin 2003; Dörmann 2003; Watkin 2005. Ernst Nolte sull’argomento fa notare come
il fatto di poter distinguere chiaramente tra eserciti e popolazione civile venne pregiudicato già
all’inizio della prima guerra mondiale quando una parte della popolazione belga, che riteneva
essere stata aggredita, passò alla guerra dei franchi tiratori, provocando così rappresaglie
tedesche (Nolte 2008: 519).
1336
Pavone 2009: 67, 427.
270
armi immediatamente o trattenuti per organizzare scambi di prigionieri1337 se
alcuni dei nostri erano stati catturati, era così da entrambe le parti, non c’è molto
da aggiungere1338». Se come visto Mussolini definì la guerra civile come una
jungla, queste parole ben rappresentano quelli che Pavone, pur definendo il
fascismo come un filone politico più adatto ad attrarre i crudeli e i sadici, definisce
gli “scivolamenti” nel “di più di violenza” che contraddistinsero anche la Resistenza durante il conflitto, uno scivolamento “del quale i reduci di tutte le guerre
preferiscono in genere non parlare”1339.
Per quanto riguarda le testimonianze dei volontari i comportamenti sembrano uniformarsi a due differenti modalità. Da un lato coloro che, come il volontario
Giuliano Bortolotti asseriscono: «coi partigiani applicavamo la legge marziale,
quando catturavamo qualcuno lo impiccavamo e dall’altra parte loro ogni volta
che catturavano un legionario SS lo passavano subito per le armi1340». Dall’altro
coloro che invece descrivono una situazione più complessa ed eterogenea nel
trattamento dei prigionieri partigiani, che comprende, come dall’intervista da
parte partigiana, la modalità del trattenimento in prigionia. Racconta il volontario Francesco Scio: «facemmo un grande rastrellamento in Piemonte e arrestammo vari partigiani ed anche un giovane studente al secondo anno di filosofia,
eravamo colleghi universitari, si chiamava Roberto Stranieri, ed era un idealista,
fui felice quando poi i tedeschi lo usarono per uno scambio di prigionieri1341».
Le descrizioni di tali eventi si caratterizzano per un narrato dal quale
traspare come ancora oggi evocare la violenza della guerra civile comporti per gli
intervistati una sofferenza e un forte coinvolgimento emotivo. Il volontario
Alessandro Scano, condividendo la descrizione dell’avvenuto rifiuto di un volontario a far parte del plotone di esecuzione, approntato per fucilare un partigiano,
afferma: «era un periodo molto forte e complesso a livello morale, emotivo e
politico, anche per le singole persone. Ricordo che si presentò al nostro reparto un
giovane che disse di essere andato in montagna coi partigiani e di aver capito poi
che il suo posto non era con loro e di volersi arruolare con noi. Ricordo bene le sue
parole: “se mi volete, il mio posto è qua”. Morì in azione tre giorni dopo. E non
posso dimenticare che un mio camerata era perfettamente a conoscenza che nella
zona in cui agivamo operava la “Banda Moscatelli” di cui faceva parte suo
fratello1342».
Complessivamente emerge nel narrato degli intervistati un senso di repulsione nei confronti della guerra civile e delle violenze che essa comportò. Se il
combattimento contro gli angloamericani era auspicato dai volontari, si potrebbe
certamente dire ricercato, quello contro i partigiani avvenne nel compimento del
proprio dovere e con la finalità di interrompere il supporto che questi con le loro
azioni fornivano alle truppe d’invasione.
1337
Il trattenimento in prigionia finalizzato allo scambio di prigionieri con la parte avversa
trova riscontro in alcuni documenti dell’epoca per quanto riguarda, ad esempio, il torinese (ACS,
Ministero dell’Interno, Gabinetto RSI (1943-1945), b. 45).
1338
Intervista telefonica del 28 ottobre 2006 al partigiano X., operante contro le Waffen-SS.
1339
Pavone 2009: 427.
1340
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
1341
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
1342
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano. Cino Moscatelli è stato uno
dei più noti capi partigiani (Colombara 2006).
271
Le asprezze e le violenze che a tali scontri si accompagnarono sono ancora
oggi causa di turbamento: «non posso testimoniare io per il fratello partigiano,
ma sono stato giornalmente testimone del travaglio dei miei camerati, che,
ogniqualvolta si usciva per un rastrellamento, partivano con la morte nel cuore,
alcuni trattenendo a stento le lacrime, senza comunque mai accampare scuse per
non partecipare all’azione, perché la guerra civile è la peggior disgrazia per un
popolo1343». Anche il volontario Paolo Cavalletti, parlando dell’asprezza e disumanità della guerra civile, dichiara: «invidio quei popoli che non hanno conosciuto il dolore delle guerre fratricide1344».
Quanto alle rappresaglie ad opera delle Waffen-SS sul territorio italiano,
nessuno dei volontari nega il fatto che esse fossero effettivamente messe in atto
all’interno di una strategia di guerra e tutti gli intervistati, pur evitando di
narrare o negando il proprio coinvolgimento diretto, sostengono la legittimità di
tali azioni secondo il codice militare1345. Ciò che emerge nel narrato dei volontari
è la necessità avvertita da questi di specificare come le rappresaglie fossero, a loro
avviso, ben diverse da quanto «la retorica e la memorialistica partigiana abbia
poi ricostruito nel dopoguerra1346».
Come fa notare Carlo Gentile nel suo studio sulle rappresaglie attuate dalla
16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS, esse erano azioni organizzate, non semplici eccessi improvvisi, che seguivano una logica militare1347. Una tesi
questa che trova conferma nelle parole degli intervistati che spiegano come le
rappresaglie fossero attuate presso quei paesi nei quali le loro truppe erano state
aggredite, subendo perdite, da uomini in borghese spalleggiati dai locali.
Tali azioni sono qualificate come risposta militare alle modalità combattentistiche della Resistenza ed i volontari pongono in risalto come esse fossero
praticate soltanto quando si fosse riscontrata una collaborazione dei civili che,
coprendo e spalleggiando l’operato dei partigiani, belligeranti senza uniforme,
erano ritenuti complici di un atto di guerra in violazione delle regole. I volontari
specificano che «non era consentito alcun atto di violenza gratuita pena la corte
marziale1348».
Questa tematica si pone in correlazione con quella analizzata in precedenza
del rapporto tra i volontari e la popolazione civile che evidenzia situazioni
eterogenee: talvolta, come visto, si riscontrano sentimenti di vicinanza, altre
volte di ostilità. La ricostruzione effettuata dagli intervistati delle dinamiche alla
1343
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista telefonica del 20 agosto 2008 al volontario Pietro Cavalletti.
1345
Sulle rappresaglie tedesche in Italia sono state condotte molte ricerche (Andrae 1997;
Pezzino 1997; Schreiber 2000; Franzinelli 2002; Klinkhammer 2006a), meno approfondita
l’analisi specifica sulle Waffen-SS se si escludono la 1ª SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS
Adolf Hitler, la 16ª SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS e l’SS-Wehrgeologen-Bataillon
500 (Gentile 1995; Gentile 2003; Valente 2007).
1346
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti. Da fonti d’archivio
emergono casi, come quello di Cumiana (Torino), nei quali i militi delle SS italiane partecipano
all’incendio delle abitazioni in cui si erano asserragliati i partigiani e prelevano degli ostaggi per
organizzare uno scambio con i commilitoni fatti prigionieri, ma si rifiutano di eseguire le
fucilazioni degli ostaggi attuate dopo il mancato accordo di scambio (ACS, Ministero dell’Interno,
Gabinetto RSI (1943 – 1945), b. 45).
1347
Gentile 2003.
1348
Intervista del 15 maggio 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
1344
272
base delle rappresaglie contribuisce a rendere meglio comprensibile il fatto, posto
in evidenza da Pavone, che talvolta le popolazioni civili rimproverassero ai
partigiani di averle compromesse senza saperle poi difendere, giungendo in
alcuni casi a mostrare benevolenza verso le truppe impegnate nei rastrellamenti
che, nonostante le azioni partigiane, non attuarono rappresaglie1349.
Se la rappresaglia viene considerata un legittimo atto di guerra, all’interno
di quella spirale di azioni partigiane, rappresaglie e controrappresaglie ricostruita nella prima parte dello studio, i volontari specificano però come spesso alle
Waffen-SS siano state attribuite violenze e razzie che a loro avviso non trovano
riscontro nella realtà. Afferma il volontario Francesco Scio: «quando ci accusano
di razzia vado su tutte le furie, anche volendo parlare di un cosiddetto diritto di
razzia era applicato solo e strettamente in quei casi in cui si era svolto un conflitto
a fuoco e un combattimento, allora prendevamo il cibo e ciò che ci era utile, mentre
se c’erano appropriazioni non giustificate si finiva davanti al plotone di esecuzione1350».
Anche il volontario Giuliano Bortolotti racconta come la disciplina militare
fosse ferrea all’interno delle Waffen-SS e come gli inganni fossero puniti con la
pena capitale. L’intervistato ricorda: «un SS-Rottenführer aveva raccontato di
un sacerdote della Val Chisone che in combutta con alcuni paesani avrebbe
organizzato una imboscata e per rendere ancora più credibile la storia egli aveva
nascosto una pistola nella casa del parroco, sotto il cuscino del letto. Voleva
scatenate una battaglia e acquisire il diritto di razzia, ma alle verifiche la pistola
era poi risultata, dal numero di matricola, essere stata una di quelle che aveva
in consegna lui. Fu condannato a morte. Le regole delle SS erano ferree, se in un
paese si teneva uno scontro a fuoco col nemico, se gli abitanti ci sparavano
addosso, allora potevamo impadronirci dei generi alimentari una volta entrati in
paese, ma se dal paese non veniva alcuna resistenza fare una razzia veniva
considerato un furto e la pena per il furto era la fucilazione1351».
I comportamenti di correttezza rivendicati dai volontari intervistati trovano
un certo riscontro anche in alcuni studi riguardanti l’operato delle Waffen-SS in
Italia1352. Non si possono però generalizzare a tutti i volontari, dato anche il
contesto di violenza che caratterizzò la guerra civile.
La guerra civile italiana nel vissuto dei volontari si compone di due periodi:
quello concomitante alla seconda guerra mondiale e un proseguimento di essa
dopo la fine delle ostilità. Ciò che per gli intervistati è ancora oggi inaccettabile
è lo sconfinamento delle violenze partigiane dopo che la guerra era terminata e
1349
Pavone 2009: 482.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
1351
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti, che ricostruisce in
dettaglio l’accaduto anche nella sua autobiografia (Bortolotti 2007: 46-50). Sovrapponibili alle
precedenti ricostruzioni sono anche le affermazioni del volontario Rutilio Sermonti: «i tedeschi
erano grandi combattenti ma anche molto rigorosi. Il furto e il saccheggio erano puniti con la corte
marziale, c’era un forte rispetto delle regole di guerra. Ricordo che a Trieste un sergente era
entrato in una casa di partigiani e li abbiamo catturati. Un sergente ha preso una sciabola alla
parete e lo hanno processato perché la sciabola non era dei partigiani ma dei proprietari della
casa. I tedeschi erano scrupolosissimi, altro che le sciocchezze che mangiavano i bambini»
(Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti).
1352
Valente 2007: 80, 87, 165.
1350
273
il fascismo sconfitto: «la persecuzione subita a guerra finita con una caccia
all’uomo che è avvenuta a Nord è stata una vergogna1353». Il volontario Rutilio
Sermonti afferma: «la guerra è violenza, la guerra si fa con la violenza, è normale,
purtroppo è così, ma loro [i partigiani] la violenza la fecero anche dopo la guerra,
a guerra finita non puoi dare la caccia e uccidere il nemico sconfitto e indifeso1354».
Alessandro Scano, che come già ricostruito vide la sua famiglia martoriata
dalle rappresaglie dei partigiani che uccisero i suoi zii, suo padre e tentarono di
uccidere anche lui, racconta: «spesso i testi parlano di valori della Resistenza, ma
è un valore uccidere a sangue freddo gli sconfitti? Io ricordo il caso della Banda
Moscatelli, e di uno di questi, Moranino, che fu candidato alle elezioni dal PCI
[Partito Comunista Italiano] diventando deputato, se non sbaglio, dal 1953 al
1958, e quando fu rinviato a giudizio per omicidio plurimo in seguito a approfondite indagini, perché aveva massacrato dei partigiani non comunisti per rubargli
del denaro, il PCI si rese complice della sua fuga in Cecoslovacchia1355».
Anche i parenti dei volontari italiani nelle Waffen-SS raccontano quanto
difficile fosse la situazione nel dopoguerra. Stefano Monti, nipote del volontario
Benito Scarazzini, afferma: «dovette buttare tutte le sue foto per paura che
trovandole i partigiani lo avrebbero ucciso, e dopo la guerra volevano umiliarlo
più volte, lo volevano obbligare a sputare sulla foto del Duce, lo deridevano al bar,
lo seguivano quando tornava a casa, e tentarono anche di ucciderlo, ma diventò
capitano di lungo corso e lasciò il paese1356».
L’ultima storia, tra le altre, che giova ricordare è quella di Albarosa Tosi
Malossi che, per riavere il corpo occultato del fratello giustiziato dai partigiani
dopo la cattura, dovrà pagare molti anni dopo un’ingente somma ad un ex
partigiano che nel frattempo ricopriva una carica pubblica in una amministrazione locale1357.
Se il giudizio espresso dagli intervistati sulla Resistenza è critico per quanto
concerne le modalità combattentistiche da questa adottate durante la guerra,
l’estendersi delle violenze partigiane nel dopoguerra determina nei volontari un
inasprimento di tale giudizio. Afferma in proposito il volontario Ireneo Orlando:
«i partigiani in guerra li ho combattuti e basta, poi quelli che si definiscono storici
ma non lo sono, mi hanno descritto come un criminale e hanno celebrato i
partigiani, loro che mi hanno ucciso un fratello. Non nascondo che dopo la guerra
ho iniziato a odiarli e disprezzarli perché capaci di uccidere chi era stato sconfitto
quando non c’era più la guerra1358».
Anche il volontario Scano racconta: «quella che era una critica, anche rabbia
per il modo di combattere dei partigiani senza una uniforme, è diventata dopo la
guerra qualcosa di più aspro, perché mi hanno ucciso il padre quando la guerra
era finita, hanno ucciso persone che si erano arrese, che erano state sconfitte,
credo sia normale definire odiosi e vili questi comportamenti e invece no, noi
eravamo i criminali e loro i liberatori1359».
1353
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
1355
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1356
Intervista del 29 settembre 2009 a Stefano Monti, nipote del volontario Benito Scarazzini.
1357
Intervista del 16 giugno 2008 a Albarosa Tosi Malossi, sorella del volontario Vittorio Tosi.
1358
Intervista del 12 settembre 2009 al volontario Ireneo Orlando.
1359
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1354
274
È dunque possibile asserire che il vissuto dei volontari italiani nelle WaffenSS per quanto concerne la guerra civile si componga di una valutazione critica
relativa agli anni della guerra, quelli in cui le due parti si affrontarono anche
duramente all’interno della più ampia vicenda della seconda guerra mondiale, e
di una valutazione che si arricchisce di toni di disprezzo nei confronti della
Resistenza per il protrarsi delle violenze partigiane dopo la cessazione delle
ostilità.
Nel narrato degli intervistati la definizione di “guerra civile” viene adoperata
per descrivere il primo periodo, quello dello scontro armato interno alla seconda
guerra mondiale, mentre il protrarsi delle violenze partigiane viene ricondotto a
comportamenti di mera violenza che, non essendo correlabili ad una condizione
di guerra, vengono considerati come «semplicemente criminali1360».
Una distinzione che emerge con chiarezza nel narrato del volontario Pietro
Ciabattini che, rievocando gli scritti di Gianpaolo Pansa, afferma: «oggi si riesce
a parlare di guerra civile, ma fino a qualche anno fa quella definizione non era
mica accettata. Ma la guerra civile è quella in cui ci si scontra armati, e quel
periodo c’è stato, ma è finito con la fine della guerra, le violenze e gli omicidi dei
partigiani nel dopoguerra non sono più guerra civile, quello è il periodo del sangue
dei vinti1361». Dunque la più larga definizione di guerra civile viene scomposta dai
volontari in due periodi: la guerra civile che si caratterizzò per lo scontro tra
italiani antifascisti e fascisti nel corso della seconda guerra mondiale e «il periodo
del sangue dei vinti», che indica invece gli anni successivi alla guerra in cui
perdurarono le violenze partigiane.
Nel narrato dei volontari inerente la guerra civile appaiono forti critiche a
ricostruzioni storiche giudicate di parte e eccessivamente politicizzate. Le
ricostruzioni sulla guerra civile analizzate nella prima parte di questo studio,
riconducibili ad una politicizzazione della storia e ad un suo uso politico nel
secondo dopoguerra italiano, hanno certamente contribuito, come ammettono i
volontari stessi, ad un inasprimento del giudizio da questi formulato sul fenomeno resistenziale.
Il volontario Adolfo Simonini, ad esempio, afferma: «dopo la guerra anche noi
delle Waffen-SS diventammo per tutti dei Polizei, e questo posso anche capirlo,
perché dovevamo fermare i partigiani, eravamo noi che dovevamo prenderli, ma
ci descrissero e ci descrivono ancora come criminali per questo, ma noi dovevamo
fermare chi aiutava gli americani, era il nostro compito, io ho combattuto anche
direttamente contro gli americani, ma ci hanno bollato come criminali perché
combattevamo contro i partigiani, e loro non combattevano contro di noi senza
vestire nemmeno un’uniforme?1362».
Il volontario Pietro Ciabattini racconta come il Comune di Firenze abbia
ritirato il proprio patrocinio al premio attribuitogli per i suoi studi, in polemica
con la sua figura di volontario nelle Waffen-SS ed afferma: «questa vicenda mi
rese molto triste, io non avevo mica scritto la storia delle SS? Anche se poi nel
dopoguerra molti storici della Resistenza erano stati partigiani, in quel caso non
1360
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 7 giugno 2007 al volontario Pietro Ciabattini. La definizione di «periodo del
sangue dei vinti» è mutuata dal titolo della pubblicazione citata di Pansa (2009a).
1362
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
1361
275
c’era un conflitto di interessi? Io ho scritto sul 25 luglio, ma al Comune non
andava bene, in Italia la storia la scrivono i vincitori e i giullari del potere, così
hanno scritto la storia della guerra civile. Non posso nascondere che ciò ha
aumentato la mia ostilità verso la Resistenza, non è possibile voler fare credere
che il male sia stato tutto da una parte1363».
La totalità dei volontari lamenta una criminalizzazione subita nelle ricostruzioni storiche postbelliche, la paura di «essere processati per il solo fatto di aver
militato nelle Waffen-SS1364», e attribuisce con franchezza a ciò un inasprimento
del proprio giudizio storico e morale negativo sulla Resistenza. Già Claudio
Pavone aveva del resto fatto notare come una facile e inconsapevole crudeltà
nell’uccidere, che cade nell’omicidio non necessario, non fu solo tratto dei fascisti
della RSI all’interno della guerra civile, ma anche dei partigiani e come l’orgoglio
resistenziale non avrebbe dovuto rimuovere affrettatamente questo atteggiamento1365.
Se a ciò, alla differente valutazione delle violenze di una parte rispetto a
quelle dell’altra, si aggiunge il mancato ricorso a fonti orali, che come auspicava
De Felice, dessero voce ai vinti per studiarli e capirli1366, l’atteggiamento nei
confronti della storiografia sulla guerra civile degli intervistati, che di quegli
eventi furono tra i protagonisti, risulta ora spiegato.
La sconfitta e il dopoguerra
La sconfitta militare patita non determina nei volontari quegli atteggiamenti, solitamente ricondotti alla maggioranza dei reduci della RSI, di estraneazione
dal tessuto sociale che conducono alla condizione di esuli in patria1367. Le radici
di tale rifiuto ad estraniarsi sembrano collocarsi direttamente nel culto dell’eroismo che anima gli intervistati. L’eroe non è un vincitore a tutti i costi, ma
piuttosto colui che si sacrifica per una causa ritenuta superiore aldilà delle
ragionevoli possibilità di vittoria.
Afferma il volontario Rutilio Sermonti: «mi onoro di essere un criminale, mi
vergognerei di essere dalla parte giusta. Chi è fedele è immortale, chi si considera
fedele a qualcosa di superiore è immortale perché va oltre la propria pelle. La vera
suddivisione è tra fedeli ed infedeli, si può essere fedeli a tante cose diverse, ma
l’uomo si distingue tra chi sa essere fedele a qualcosa di altro da sé e chi no. Per
me sono state importanti cose e valori al di sopra della mia individualità, e io la
guerra la ho continuata con altre armi, perciò non muoio, rientro nel tutto di cui
faccio parte1368».
Emerge un modello eroico che rimanda alla cultura germanica piuttosto che
a quella italiana. Per dirla con Rudolf Steiner, antroposofo particolarmente caro
ai volontari della cerchia esoterica, si tratta di un eroismo animato dal senso del
1363
1364
1365
1366
1367
1368
276
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista telefonica del 25 settembre 2009 al volontario Giorgio Bernagozzi.
Pavone 2009: 417.
De Felice 2005, Prefazione 1983: XXIV.
Tarchi 1995: 26-29.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
tragico nel quale, a differenza dei popoli greco e romano, dove l’eroe della saga era
colui che vinceva su un piano esteriore, l’eroismo consiste qui nel mantenere
salda la propria anima.
Un concetto dell’eroe che Steiner colloca nei popoli germanici e slavi, il cui
cuore non batte per coloro che vengono favoriti dalla fortuna, ma per coloro che
esteriormente cadono, ma che tuttavia mantengono salda l’anima. È il coraggio
nel dolore e nella rovina e non la vittoria a divenire elemento cardine dell’eroismo1369. I volontari pur attribuendo, come visto, carattere di faziosità alle
ricostruzioni storiche del dopoguerra, affrontano questa nuova fase della propria
vita non alla ricerca di un riconoscimento che venga dall’esterno, da terzi, ma
perseguendo un modello eroico secondo il quale rispondono a se stessi, ai propri
ideali, aldilà della sconfitta.
Il vissuto dei volontari rispetto alla sconfitta patita appare caratterizzarsi
per una certa serenità d’animo derivante dalla consapevolezza di aver compiuto
il proprio dovere. Non vi è dubbio che vi sia tristezza per la sconfitta, ma non vi
è rammarico, perché i volontari hanno la certezza di aver fatto tutto quanto era
in loro potere in nome di una coerenza personale, ideale o militare.
La sconfitta patita non rappresentò, inoltre, una sorpresa per gli intervistati,
dato che, come fanno notare, al momento del proprio arruolamento nelle WaffenSS le sorti della guerra erano considerate segnate: «quando ci siamo arruolati
sapevamo di combattere in una posizione difensiva e contro un’alleanza internazionale invincibile, ma era una cosa che andava fatta e basta, che dovevamo fare
per la patria, per l’idea e per noi stessi1370». Si può asserire che i volontari
intervistati accettino con serenità la sconfitta, comprendendo come con essa si
chiuda una fase storica, quella dei fascismi, e se ne apra una nuova, necessariamente differente e ispirata dalle ideologie uscite vincitrici dal conflitto.
Gli intervistati descrivono la nuova situazione storica e sociale come difficile
dal punto di vista dell’integrazione: «già se eri stato nella RSI diventavi un
cittadino di serie B, la Repubblica italiana si basava sul mito della Resistenza,
quindi sia la Democrazia Cristiana che il PCI, anche se uno era filo atlantista e
l’altro filo sovietico, erano antifascisti, dovevi essere sveglio e darti da fare se
volevi trovare un lavoro e non potevi davvero raccontare che eri nelle SS, dovevi
affrontare la vita muovendoti nelle nuove regole del gioco1371». Nel dopoguerra
alcuni degli intervistati si finsero appartenenti alla RSI, perché, come racconta
Alessandro Scano: «se già le cose erano complicate come soldato della RSI, se
avevi fatto parte delle SS diventava impossibile1372».
I volontari intervistati raccontano la propria determinazione nella ricerca
del lavoro, nel comprendere e muoversi all’interno della nuova società. Non c’è né
voglia né tempo da dedicare alla nostalgia. È stata la storia ad emettere la
propria sentenza come dichiara il volontario Giuliano Bortolotti: «non c’era
dubbio, eravamo i vinti della storia1373».
Gli intervistati restano fedeli all’ideologia fascista che li contraddistingue,
1369
1370
1371
1372
1373
Steiner 1998: 42.
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista del 10 settembre 2008 al volontario Francesco Scio.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 19 gennaio 2008 al volontario Giuliano Bortolotti.
277
con le peculiarità precedentemente evidenziate, e se perseguono con determinazione un inserimento sociale e lavorativo nella nuova realtà, anche dal punto di
vista politico non restano estranei alla nuova situazione determinatasi. Fedeli al
proprio pensiero, lo collocano però in un rapporto dialogico con la nuova realtà
politica e geopolitica appassionandosi a tematiche che attirano la loro attenzione.
Gli intervistati condannano ogni forma di reducismo e nostalgia pur restando
fermi nel loro giudizio storico positivo sul fascismo e nelle convinzioni ideologiche
maturate. Afferma in proposito Pietro Ciabattini: «è normale che di politica
parlavi soprattutto con quelli che erano fascisti, o dicevano d’esserlo, ma io non
ho mai capito quelli, e erano tanti, che continuavano con la nostalgia del fascismo,
del Duce, di quello che era stato e non c’era più. Ma come, tu hai la guerra fredda,
cambia tutto il mondo economico, nascono nuovi Stati, ne spariscono di vecchi,
l’Italia entra nella NATO, fanno la comunità del carbone e dell’acciaio e tu resti
prigioniero del passato? Le idee camminano con gli uomini, ma le idee non
possono mica avere il torcicollo, bisogna guardare al futuro1374».
Il volontario Paolo Cavalletti racconta: «io sono di destra, ma tutta la
nostalgia del fascismo non la capivo. Certo io allora mi sacrificai per la patria ma
per questa non lo farei. C’era la guerra fredda, le fabbriche erano cambiate, c’era
l’odio tra connazionali per motivi politici, l’Italia non contava più nulla nel mondo
e alcuni strizzavano l’occhio agli americani e altri ai sovietici. Come potevi
restare fermo al fascismo, certo avere le tue idee quello di sicuro, ma dovevi
confrontarti con un mondo tutto diverso1375».
A tutti gli effetti dalle interviste effettuate prevale nei volontari la volontà di
capire la nuova fase storica scaturita dalla guerra e il desiderio di essere partecipi
con le proprie idee, che non sono vissute in modo statico e nostalgico, nella
consapevolezza delle limitazioni che comporta la condizione di volontario nelle
Waffen-SS all’interno del nuovo scenario politico.
La maggior parte degli intervistati non si dedica ad alcuna attività all’interno dei partiti nel dopoguerra, ma alcuni decidono di impegnarsi nel Movimento
Sociale Italiano (MSI), partito di ispirazione neofascista, ed uno, col quale per
motivi di salute è stato possibile realizzare una sola breve intervista telefonica,
nella Democrazia Cristiana1376.
Coloro che parteciparono all’attività del MSI lo fecero cercando di promuovere un’azione politica in rapporto con la modernità, senza intenti nostalgici o di
restaurazione, ma abbandonarono delusi l’impegno dopo aver tentato una sfida
al movimento dall’interno. Impegnati prima in una sfida di modernizzazione di
un partito che descrivono arroccato su posizioni nostalgiche e di conservatorismo
poco rispettoso dei principi di giustizia sociale attribuiti all’ideologia fascista, i
volontari si trovano poi concordi nel respingere la trasformazione del partito,
attuata da Gianfranco Fini, che porterà alla nascita del nuovo soggetto politico
Alleanza Nazionale1377.
Il volontario Rutilio Sermonti afferma: «nel MSI c’era incapacità di compren1374
Intervista del 9 giugno 2006 al volontario Pietro Ciabattini.
Intervista telefonica del 11 giugno 2008 al volontario Paolo Cavalletti.
1376
Intervista telefonica del 20 marzo 2006 al volontario anonimo N. A..
1377
Per la storia del MSI e la sua evoluzione politica: Ferraresi 1996; Ignazi 1998; Parlato
2006; Baldoni 2009.
1375
278
dere e confrontarsi con la modernità, incapacità di elaborazione di un concetto di
giustizia sociale legato al presente, le sezioni pullulavano di nostalgici e di
persone che del fascismo non capivano nulla, bastava essere anticomunisti per
sentirsi fascisti, un disastro1378».
Quando nel 2003 Gianfranco Fini, durante una visita in Israele, dichiara di
considerare il fascismo come parte del male assoluto1379, la reazione dei volontari
che parteciparono alla vita politica del MSI è ferma e decisa. Il volontario
Alessandro Scano afferma: «non mi interessa se Fini tradisce la sua coerenza
personale, ma che rinnega qualcosa che non ha alcun senso rinnegare. Io non ho
mai guardato al fascismo come a un regime da restaurare, io guardavo al
fascismo come pensiero politico da rinnovare. Io stesso ho mosso critiche al
fascismo, ma proprio non capisco che senso ha rinnegare il passato, tra l’altro un
passato al quale lui nemmeno ha partecipato, il passato si studia per creare
qualcosa di migliore. Non si può dare un calcio ad un’ideologia così, tanto per
ricominciare senza sapere da dove e da cosa. Il primo a volere qualcosa di nuovo
anche all’interno del MSI ero io che il fascismo lo avevo vissuto e che avevo lottato
fino alla sconfitta, ma prima se criticavi il fascismo eri emarginato, poi il fascismo
all’improvviso è diventato il male assoluto. Si chiama opportunismo questo1380».
Dello stesso tono sono le dichiarazioni del volontario Pasquale Scarpellino:
«io non sono mai stato animato da nostalgismo, ma quelli che prima alimentavano il culto della nostalgia, riducendo il fascismo all’ordine e ai treni in orario,
poi abbracciano l’economia capitalista e il liberismo dimenticando che la prima
missione del fascismo era la giustizia sociale. Tutti si dichiaravano neofascisti,
tutti prigionieri del passato, e poi in due minuti volevano cancellare un’ideologia.
Si può cancellare il marxismo? Non si può. Piuttosto avrebbero dovuto impegnarsi prima a creare delle idee al passo coi tempi1381».
Il volontario Rutilio Sermonti dichiara: «l’MSI era già la morte dell’idea, un
partito di nostalgici che volevano riproporre il fascismo degli anni Trenta. Io lo
dicevo che non si poteva diventare i custodi del museo, che occorreva sviluppare
un pensiero fascista al passo coi tempi. Nostalgico avrei potuto essere io che quel
periodo lo avevo vissuto, ma mi trovai con nostalgici imberbi che il fascismo
neanche lo avevano visto. Va bene che il presente fa schifo, ma se la tua risposta
è rifare il passato vuol dire che sei un perdente. Devi trovare un modello nuovo.
E oggi cosa è rimasto del neofascismo nostalgico? Una banda che si è messa al
servizio dell’egoismo capitalista e qualche noioso gruppetto di nostalgici. Una
pena, senza idee. Io è da tempo che ho buttato via la rubrica con tutti i
contatti1382».
Il pensiero di quella minoranza di volontari che militò all’interno del MSI critica
dunque l’incapacità di rinnovamento del partito neofascista muovendo alcune
critiche sovrapponibili all’analisi del politologo Marco Tarchi in quanto all’ostracismo delle forze egemoni del movimento nei confronti di ogni abbozzo di evoluzione
e all’incapacità di autocritica come fondamento di innovazione politica1383.
1378
1379
1380
1381
1382
1383
Intervista del 19 settembre 2009 al volontario Rutilio Sermonti.
La Repubblica 2003; 2003b.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
Intervista del 8 giugno 2008 al volontario Rutilio Sermonti.
Tarchi 1995: 73.
279
Se nel 1995 Tarchi avanzava perplessità sulla metamorfosi del partito
neofascista, compiuta in un solo colpo in occasione della cosiddetta svolta di
Fiuggi, senza che mai in precedenza il partito si fosse posto seriamente il
problema di un ripensamento critico del proprio retroterra storico-ideale, avanzando il dubbio che tutto potesse assumere la natura della rivincita politica degli
ex-reietti, pronti a sposare un progetto di destra conservatrice disposta a patti
con le idee liberali e liberiste pur di partecipare alla nascita del nuovo regime
politico1384, i volontari, sia quelli che militarono nel MSI sia la maggioranza degli
intervistati che non si impegnarono in partiti, ritengono che sia successo proprio
quello che il politologo fiorentino sospettava.
Ciò che contraddistingue i volontari intervistati è la continua partecipazione
al proprio tempo e la capacità di calarsi nella contemporaneità. Nel dopoguerra
il fascismo è vissuto dagli intervistati come ideologia che necessita di porsi al
passo con la società contemporanea scaturita dalla guerra, mai come nostalgia
di un regime del quale non si auspica il ritorno.
Nel secondo dopoguerra i volontari intervistati si trovarono a vivere in una
realtà dominata dalla guerra fredda e le loro posizioni ed esperienze divergono
su tale aspetto. Sebbene tutti gli intervistati asseriscano di aver continuato a
ritenere che il capitalismo, rappresentato dagli Stati Uniti, e il comunismo,
dall’Unione Sovietica, rappresentassero qualcosa di antitetico all’ideologia fascista, che reputavano però incapace di mettersi al passo coi tempi, emergono
comportamenti dicotomici. Mentre la maggioranza degli intervistati all’interno
della guerra fredda decide di non parteggiare per nessuno dei contendenti, una
ristretta minoranza si orienta alla collaborazione col «male minore1385» rappresentato dagli Stati Uniti.
Alcuni riprenderanno, infatti, servizio nell’esercito italiano in funzione
antisovietica e anticomunista con incarichi militari presso il confine orientale e
addestramenti periodici per prepararsi a fronteggiare una eventuale invasione
dell’Italia o un’insurrezione armata comunista1386. Tutti e tre i volontari che
maturano questa scelta subirono lutti o assistettero in prima persona a violenze
per mano dei partigiani comunisti nel dopoguerra. Il «periodo del sangue dei
vinti», per usare un’espressione cara ai volontari, sembra aver pesato in modo
determinante sulla decisione di collaborazione di costoro in funzione anticomunista. Ma ciò non si tradusse in adesione al pensiero capitalista che, anche come
fatto presente dagli intervistati, continuava e continua ad essere considerato
antitetico ad ogni principio di giustizia sociale. In tutti i volontari intervistati
sono, infatti, ancora oggi presenti forti toni di avversione al capitalismo giudicato
come promotore dell’egoismo individuale e delle più gravi ingiustizie sociali sia
in patria sia all’estero.
L’anticapitalismo dei volontari si riflette anche nel dopoguerra sulla condotta di vita adottata. Se come si è detto i volontari incontrarono difficoltà nel
1384
Tarchi 1995: 74.
Intervista del 2 agosto 2008 al volontario Alessandro Scano.
1386
Durante la guerra fredda da parte dei paesi della NATO in Europa venne costituita
un’organizzazione, Stay-behind, nelle singole nazioni da poter attivare in seguito ad una prevista
invasione Sovietica e di forze del Patto di Varsavia o alla presa del potere da parte dei partiti
comunisti locali (Cavalleri 2006).
1385
280
reperimento di un’occupazione, una volta riusciti in ciò mantennero un atteggiamento omogeneo nei confronti del lavoro, pur trattandosi dei lavori più disparati
che comprendono l’agricoltore, il medico, l’avvocato, l’operaio.
La descrizione della propria attività lavorativa occupa uno spazio limitato
nel narrato degli intervistati, anche in coloro che riscossero un certo successo
professionale. Il volontario Pasquale Scarpellino afferma: «un uomo non è il suo
lavoro, o il suo guadagno ma un insieme di ideali, di sentimenti, di passioni che
va oltre le cose materiali1387». In tutti gli intervistati si palesa un concetto della
vita e dell’uomo di forte impronta antimaterialista che si traduce nella concezione
del lavoro come mezzo di sostentamento che non deve privare l’uomo dei propri
spazi di realizzazione spirituale e di libertà.
L’attività lavorativa svolta rimane sempre in secondo piano nel narrato
lasciando ampio spazio narrativo alla descrizione di un tempo libero che assume
la connotazione di vera e propria realizzazione identitaria. È interessante,
pertanto, esaminare il narrato degli intervistati per quanto concerne la tematica
del rapporto lavoro-tempo libero.
All’interno di una società italiana in veloce trasformazione, caratterizzata
dal vertiginoso sviluppo economico e dall’urbanizzazione, permane nei volontari
un legame intimo e profondo con la natura che assume i tratti della fuga, del buon
ritiro, da una società dominata dall’economicismo. Altre volte tale rapporto si
trasforma in scelta di vita, con alcuni volontari che decidono di dedicarsi ad una
attività lavorativa agricola, a tempo pieno o integrativa, che consenta un
continuo contatto con la natura. La vita vera è concepita come integrazione
dell’uomo nella natura e il tempo libero è sovente dedicato alla montagna, al mare
e al «lavoro nei campi come momento di libertà1388».
Come precedentemente fatto presente vi è tra i volontari anche chi, come
Karl Nicolussi-Leck, dedicherà una parte della sua vita al ruolo di consigliere per
lo sviluppo agricolo in diversi paesi del Sud America e dell’Africa, tentando di
promuovere e diffondere un concetto di sviluppo integrato con l’ambiente. In
questo quadro narrativo che lascia spazio alla descrizione del tempo libero a
contatto con la natura, il lavoro viene descritto come mezzo di sostentamento,
come elemento strumentale per garantire la qualità di vita, ma non diviene mai
elemento identificativo della propria persona. I volontari non descrivono la
propria persona e il proprio ruolo sociale nel dopoguerra facendo riferimento al
lavoro svolto, ma piuttosto cercando di spiegare le dimensioni spirituali e
ideologiche che li contraddistinsero in quella fase della vita. Anche coloro che
riscossero un certo successo professionale, un medico primario ed un avvocato, ad
esempio, non identificano in questo aspetto una forma di riscatto alla sconfitta
patita sul campo di battaglia, il lavoro resta relegato a mera fonte di sostentamento.
I volontari specificano come per loro l’uomo sia altro dalla professione che
svolge, e ciò si inquadra all’interno di un sentire ideologico che, come visto, è
ancora oggi molto critico nei confronti del capitalismo e che considera il sistema
economico e sociale vigente come frutto iniquo della mentalità capitalistica.
Un altro tratto che emerge con forza nella descrizione del tempo libero è il
1387
1388
Intervista del 26 settembre 2009 al volontario Pasquale Scarpellino.
Intervista del 1° settembre 2009 al volontario Adolfo Simonini.
281
rapporto dei volontari con la creatività, con l’arte, la pittura, la musica. I
volontari raccontano il loro impegno in una serie di attività che dimostrano uno
spiccato senso artistico e una passione per l’arte. È interessante in proposito
esaminare maggiormente in dettaglio le descrizioni dei volontari e dei loro
familiari. Rutilio Sermonti nel dopoguerra svolge attività di scenografo cinematografico specializzato nella costruzione di ambienti naturali e di figure animali.
Egli, inoltre, si afferma come pittore e incisore di soggetti ispirati dalla natura ed
i suoi quadri vengono ad oggi venduti da alcune gallerie d’arte1389. In questo
volontario l’amore per l’arte si fonde con la succitata passione per la natura che
accomuna molti intervistati.
Il volontario Paolo Cavalletti scrive: «sono pittore e costruttore di modellismo
di navi, ho vinto i campionati europei e sono stato invitato ai mondiali, sì, posso
dire di essere un artista, di avere la passione dell’artista per pittura e modellismo,
e ho fatto sempre tutto e camminato da solo, ho più di ottant’anni ma non posso
stare fermo, non mi rendo conto di quante cose faccio e quando ne faccio una penso
già alla prossima, il tempo mio è quasi dedicato tutto all’arte, dipingo come dio
comanda!1390».
Tra gli intervistati emerge un vitalismo artistico elevato nel quale l’uomo si
rapporta col bello, con la ricerca della bellezza. Il volontario Karl Nicolussi-Leck
matura una vera e propria passione per l’arte contemporanea e, grazie al
successo professionale raggiunto, finanzia numerosi artisti e contribuisce attivamente alla fondazione del museo di arte contemporanea di Bolzano. Di lui
racconta il nipote: «il suo carattere era di responsabilità e entusiasmo, era un
visionario capace di analisi, un uomo di cultura che ha fatto il militare e in lui
sfociò la passione per l’arte dopo la guerra, ma è sempre stato un umanista,
leggeva anche durante la guerra, al fronte, e quando ebbe soldi per il successo
professionale raggiunto supportava gli artisti lasciandoli liberi di creare. Io ogni
tanto gli dicevo che non tutti gli artisti favoriti da lui meritavano la sua
attenzione, ma lui rispondeva “li lascio fare sennò non è arte, bisogna lasciarli
liberi di creare perché l’arte è nella libertà del pensiero, nello spirito artistico, non
nel prodotto”1391». È evidente la connotazione antimaterialista che il volontario
affida all’arte.
L’impegno artistico descritto dai volontari assume connotati quasi escatologici, di liberazione dalla società industriale dei consumi per divenire perseguimento della bellezza e della poesia insita nella vita. Il figlio del volontario Mario
Mullon racconta: «in famiglia è indubbiamente presente una forte vena artistica,
i genitori di mio padre erano violinisti e lui scriveva poesie e faceva disegni, era
uno spirito artistico fin dalla gioventù, anche in guerra quando poteva disegnava
e scriveva poesie, dopo la guerra si è dedicato molto all’attività lavorativa, ma
quando io scrivo una poesia è il primo ad ascoltarla e farmi sapere cosa ne pensa.
Io parlando con lui mi sono fatto un’idea che il nazismo, come penso il comunismo,
sono ideologie visionarie e si sposano bene coi caratteri visionari ed artistici come
mio padre1392».
1389
Si vedano alcune opere del volontario riprodotte nell’appendice fotografica.
Corrispondenza del 19 agosto 2008 col volontario Paolo Cavalletti.
1391
Intervista del 15 ottobre 2009 a Heiner Nicolussi-Leck, nipote del volontario Karl
Nicolussi-Leck.
1392
Intervista telefonica del 2 settembre 2009 a Lorenzo Mullon, figlio del volontario Mario
1390
282
Il volontario Wainer Novellini, racconta il nipote: «era noto in famiglia per
essere un ragazzo molto bello che cantava e ballava molto bene, cantava alla
radio ed era appassionato di musica, era una persona superpositiva, con grande
voglia di vivere e una persona come lui è chiaro che non poteva stare in mezzo al
gregge1393». L’artisticità e la visionarietà dei volontari emerge con forza nella
descrizione della vita del dopoguerra, ma nel narrato si evidenzia come essa fosse
presente anche durante l’esperienza nelle Waffen-SS. Alcuni volontari anche
durante la guerra dedicarono il tempo libero al disegno, alla poesia e alla lettura.
L’arte sembra assumere una valenza ideologica nelle storie ricostruite,
diviene elemento caratterizzante dell’adozione di uno stile di vita che mira al
rifiuto del materialismo e dell’economicismo.
Un altro tratto comune a diversi volontari nella descrizione degli anni del
dopoguerra è rappresentato da un vitalismo fisico importante. Emergono una
serie di attività intraprese che comprendono immersioni, nuoto, arrampicata,
trekking, pugilato, ju jitsu, sci di fondo, atletica leggera, motociclismo e anche
brevetti di volo. Gli intervistati si caratterizzano per la dedizione ad attività che
denotano una cura del corpo e un attivismo fisico che si abbina a quello
intellettuale.
L’interesse per le dinamiche sociali e politiche in corso nel dopoguerra è molto
forte, tanto che una minoranza degli intervistati vi prenderà parte attraverso la
militanza politica, foriera di delusioni, e la partecipazione agli eventi della guerra
fredda, ma nella maggior parte delle storie ricostruite si assiste ad un predominante ritiro nella sfera personale. Il pensiero politico, ricostruito come caratteristico dei volontari, diviene norma di condotta di vita all’interno di una sfera che
è però quella dell’individuo e non più collettiva. Non vi è nostalgia dell’esperienza
di guerra, perché i volontari ritengono che soltanto chi la guerra non la ha
combattuta possa sentirne la mancanza.
Mullon.
1393
Intervista telefonica del 21 settembre 2009 a Walter Oggioni, nipote del volontario
Wainer Novellini.
283
284
CONCLUSIONI
Nel presente studio è stato esaminato il narrato di un gruppo di volontari
italiani appartenenti a più divisioni delle Waffen-SS che ha consentito di
valutare le dinamiche culturali, sociali, politiche e ideologiche che li hanno
condotti all’esperienza di volontariato. L’inquadramento del pensiero dei volontari negli eventi coevi e nelle esperienze personali del dopoguerra ha consentito
di comprendere, inoltre, come la militanza nelle Waffen-SS sia stata vissuta e
interiorizzata. Si è pertanto ottenuta una chiara risposta all’interrogativo del
perché italiani di differenti provenienze sociali, culturali, nonché di diversa
provenienza geografica, abbiano maturato tale decisione di arruolamento. Si è
evidenziata una poliedricità ad oggi completamente ignorata per quanto concerne le leve personali e di identità soggettiva che determinarono questa esperienza.
Dall’analisi della sfera personale di microlivello, resa possibile dall’adozione
dell’intervista come fonte primaria, e dall’aggregazione delle testimonianze
individuali in un prospetto d’insieme, sono state identificate una serie di
dinamiche di carattere politico e ideologico che consentono di muovere dalla sfera
del personale a quella del collettivo e di gettare uno sguardo sull’ultimo fascismo,
sinora poco investigato nei suoi elementi costitutivi e genericamente ricondotto
alla cosiddetta nazificazione o germanizzazione del fascismo.
Se troppo a lungo si era ignorato l’apparato culturale e ideologico dei
volontari italiani nelle Waffen-SS, riconducendolo ad un superfascismo apologetico o ad un nazifascismo demonologico, la ricerca condotta consente, invece, non
solo di gettare luce sul pensiero politico dei volontari, ma anche di comprendere
come tale pensiero contribuì all’ideologia fascista del crepuscolo. Se come fa
notare De Felice le trasformazioni dell’ideologia fascista dalla nascita all’ascesa
al potere, al mantenimento di esso e alla caduta, evidenziano un fascismo che si
caratterizzò per un percorso nel quale una fase divenne persino incompatibile con
l’altra, come nel caso del fascismo rivoluzionario delle origini con quello del
regime, la comprensione degli elementi ideologici del “fascismo-SS” arricchisce le
interpretazioni di un’ideologia della quale ancora si dibatte la natura.
Emerge dallo studio un’ideologia fascista che accomuna i volontari nel
recupero, ma anche nella modernizzazione e adattamento alla contemporaneità,
del fascismo sociale e rivoluzionario delle origini. Un processo ideologico questo
che arricchisce il fascismo dei volontari anche di tematiche nuove e inaspettate,
come il rifiuto del razzismo biologico e la polemica anticolonialista. Le differenti
componenti ideologiche del pensiero politico dei volontari italiani denotano una
forte interdipendenza che si articola attorno al principio della giustizia sociale.
Ed è proprio il perseguimento di questa che trova declinazione in un sentito
anticapitalismo e in un antisemitismo di chiara matrice sociale che prende le
distanze da ogni connotato di razzismo biologico.
I volontari sono prevalentemente animati da un radicalismo politico capace
285
di coniugare valori tradizionali, come il culto della natura, con la modernità. Un
pensiero che si potrebbe per certi aspetti definire anche romantico, ma di un
romanticismo mobilitante vissuto all’interno di una prospettiva di scontro di
civiltà: da un lato il fascismo, ma sarebbe più corretto dire i fascismi, dall’altro
le concezioni materialiste di matrice capitalista e marxista. Il fascismo dei
volontari appare una dottrina politica totalizzante, si potrebbe dire un modello
esistenziale, una “religione politica” che, come tale, viene vissuta come antitetica
non solo al capitalismo e al comunismo, ma anche al cristianesimo. È all’interno
e a partire dalla concezione di scontro di civiltà che il fascismo dei volontari si
distacca anche dal nazionalismo e diviene una dottrina che assume respiro
internazionale.
I volontari, sposando una concezione deterritorializzata e spirituale di
patria, collocano il proprio fascismo in una dimensione europeista, ma ancor di
più internazionalista. Il cameratismo vissuto al fronte, con volontari di diverse
nazionalità, etnie, culture e religioni, contribuisce a rafforzare e creare un sentire
fascista che si può definire sincretico, come contributo delle diverse esperienze
fasciste. È anche a partire da questa fratellanza d’armi che divengono comprensibili il rigetto di ogni razzismo biologico e una manifesta solidarietà per tutti i
popoli, dell’Europa ma anche dell’Africa e dell’Asia, che lottano per la propria
indipendenza nazionale.
Volendo definire il fascismo dei volontari lo si potrebbe considerare un
socialismo internazionale delle patrie, che guarda all’Europa ma non solo. Un
socialfascismo che, elaborando un concetto proprio di giustizia sociale inteso in
senso antimaterialista, ambisce a combattere il capitalismo, il marxismo e il
giudaismo su scala globale.
Nel sistema di pensiero dei volontari italiani si riscontrano, inoltre, alcune
peculiarità, alcuni elementi distintivi rispetto a quanto evidenziato da studi su
volontari di altra nazionalità, il principale dei quali è rappresentato dalla scarsa
presenza di un sentire anticomunista. La “crociata contro il bolscevismo” non
diviene per gli italiani un fattore mobilitante, perché è nel capitalismo e nel
giudaismo che vengono identificati i nemici principali. Le ragioni della scelta di
volontariato sono piuttosto da ricercare, tenendo in considerazione quelli che
sono definiti i tradimenti dell’8 settembre 1943, nel sistema culturale ricostruito,
che evidenzia anche un certo e interessante distacco dalla retorica e dai rituali
del regime fascista.
Alla base della scelta di arruolamento nelle Waffen-SS si riscontrano
dinamiche riconducibili principalmente, oltre che alla sfera del pensiero politico,
all’adozione dei modelli culturali ed eroici evidenziatisi. Un eroismo che sembra
dovere più a Salgari, al romanzo e fumetto d’avventura, ai miti nordici e al mito
del soldato tedesco che ai rituali e alla propaganda del regime.
È possibile asserire che, se come sostiene Emilio Gentile il tentativo fascista
di creare un uomo nuovo fallì a livello collettivo davanti alle prove della storia,
sui fronti di guerra, all’interno delle Waffen-SS, i volontari italiani osservati
rappresentino, nel loro insieme, la nascita e l’esistenza di un “uomo nuovo” a sé
stante che, più che ricalcare il modello perseguito dal fascismo italiano, origina
dal connubio delle diverse influenze politiche e culturali dei fascismi europei e si
cementa nel cameratismo.
I volontari non sono definibili né come avventurieri né come soldati politici
286
(intesi come gelidi esecutori e spietati combattenti per l’ideale), ma piuttosto
come “avventurieri politici”, animati da un connubio di socialfascismo universale
e da un vitalismo eroico che diviene desiderio, se non vero e proprio dovere, di
partecipare come attori della storia al proprio tempo. Anche coloro, la minoranza,
che si distinguono per una minor consapevolezza o elaborazione politica appaiono
animati da un vero e proprio stile di vita fascista, fondato sulla capacità e volontà
di agire e di osare, inquadrabile in un’ideale antiborghese dell’esistenza e in una
concezione organica della società.
Un modello di uomo nuovo che presenta certamente echi di quelli promossi
dal fascismo italiano, dal futurismo e dal nazionalsocialismo, ma anche elementi
ispirati dall’eroismo salgariano, da modelli eroici mutuati direttamente dall’esempio dei propri camerati in guerra e da una cultura dell’eroismo interna alle
Waffen-SS.
Non vi è dubbio che l’esperienza maturata all’interno delle Waffen-SS abbia
segnato la vita dei volontari, anche in conseguenza di ciò che le SS in generale
rappresentano nell’immaginario collettivo dal dopoguerra, e che ciò si rifletta
anche nel narrato degli intervistati. Per alcune tematiche si è infatti resa
necessaria un’interpretazione critica, come nel caso delle conseguenze dell’antigiudaismo o dello scontro con i partigiani sul quale, come in generale sulla
descrizione delle azioni di guerra, si è riscontrata una certa difficoltà anche
emotiva ad entrare nel dettaglio. Resta però sorprendente, forse anche in
conseguenza del fatto che sino ad oggi la loro testimonianza era rimasta
inascoltata e di conseguenza non interpretata, la franchezza nel descrivere
invece il proprio sentire politico anche quando “politicamente scorretto”. Ciò
consente di attribuire un valore maggiormente retrospettivo alle testimonianze
raccolte.
287
288
ENGLISH SUMMARY
This study examines the experiences of the Italian volunteers in the Waffen-SS
troops using in-depth interviews with former volunteers as the main primary source.
The final years of the Second World War (1943-45) led in Italy to a bloody civil war
which divided the Italians into two opposite blocs that persisted for decades and
which, to some degree, continue to have an impact on the current political environment.
In September 1943, as the Allied were warmly welcomed by millions of Italians,
others were ready to remain on the losing side and join Mussolini’s final attempt to
reconstruct a fascist state in Northern Italy, the Social Republic of Italy (R.S.I. or the
so called Salò Republic) while others, quite unexpectedly, volunteered in the German
Waffen-SS troops. It was not a rare exception but a phenomenon that involved,
depending on the source, some 15 000-20 000 Italian men. This phenomenon has been
hitherto largely unknown to historical research even if dimensionally significant.
While the political and social events of the antifascist Resistance-movement have
been the object of broad interest among scholars, the enlistment of Italians into the
Nazi troops has not been investigated in depth before. The available literature on the
Italian volunteers, mainly written by military history enthusiast journalists and
methodologically weak, concentrates principally on the combat operations and
military organization and offers a rather stereotypical profile of the volunteers,
describing them as “fanatics” ready to sacrifice themselves in the name of a perfunctorily
and generically defined Nazi-fascist ideology. There has been no attempt to explain
the phenomenon, to discover the social, cultural and political background of the
Italian volunteers or how this experience was lived and, eventually, described later;
nor the reasons behind the decision to enlist.
This study does not aim to reconstruct the military history of the different
divisions of the Waffen-SS in which Italian volunteers operated, but to examine the
subjective, private and intimate experience of the volunteers in order to apprehend
the motivations, attitudes, beliefs and cultural and family background, as well as
their political ideas. The main objective of my research is to discover the ideological
precepts of the volunteers’ political credo. As the last phase of fascism and its ideology,
often defined as the “Germanisation” or “Nazification” of fascism, is still the object of
wide academic debate, a better understanding of the volunteers’ ideology contributes
to deepening overall knowledge of the nature of this last phase. This key objective is
achieved via many sub-questions on the mechanisms and elements of construction of
the volunteer’s ideology and political identity: what kind of readings and other
cultural products contributed to the creation of the volunteers’ concept of life and
society; did the volunteers have an idea of a “good life” or of a “righteous lifestyle”;
were they motivated by a racist ideology and if yes, how do they describe their ideas
on race; who did they consider as an enemy and which enemy(ies) did they intend to
fight; who were their heroes (if they had any) and why; how did they integrate with
volunteers of different nationalities inside the Waffen-SS; what was their view of the
historical events that preceded, accompanied and followed their enlistment decision;
289
and what kind of opinions did they have on the fascist regime?
The theoretical frame of the study lies in oral history, in particular in the
postmodernist approach to oral history, through which I reconstruct the volunteers’
ideology. In-depth interviews with former volunteers are the main primary source,
but multiple data collection methods have been adopted. Phone interviews and
correspondence with the volunteers have also been considered as primary sources. In
addition to interviews and correspondence, family archives consisting of diaries,
correspondence with the volunteers’ relatives and photographic material have also
been collected and examined. An ethnographic observation of the volunteers’ domestic
spaces has been conducted during the in-depth interviews. Photo self-elicitation
techniques have been used in cases where the volunteers were willing to share their
photographs. The postmodernist approach sees oral history as a way to repair the
historical record by including the voices of participants outside the mainstream of
society. Many more voices may be included in oral history projects of our time that
were systematically excluded during the past century, and this was the case for the
Italian volunteers in the Waffen-SS. The topic is very much a marginal one since the
fear of legal prosecution of former members of the SS-organisations have precluded
the volunteers from telling their story and sharing their political thoughts. Finding
former Waffen-SS volunteers to interview was complicated, especially since there is
no official, nor unofficial, list or register of the volunteers or an association of Italian
Waffen-SS veterans that could have worked as an informer in finding the interviewees.
On the other hand, the presence of an organized veteran-association could also have
addressed a “formal” and “politically correct” statement-policy which could have been
very difficult to break in the interviews. This has significantly helped in maintaining
the subjectivity of the volunteer’s statements.
The interviewees have been found and selected by collecting the names of the
Italian volunteers appearing in related books, web-pages (e.g. the Axis History
Forum) and archive materials (e.g. morning reports, circulars, Avanguardia, the
weekly journal of the Italian Waffen-SS) and by looking for a name/residencecompatibility in the telephone directory. Subsequently the selected persons have
been contacted, first by letter and at a distance of some weeks, by phone. 1028 letters
have been sent out, although only a very few of these contacts actually resulted in an
interview since in many cases the volunteer was already deceased, while in other
cases they refused any collaboration due to a fear of legal consequences or because the
rest of the family “didn’t want them to give any interviews”. In some cases in which
the volunteer was already deceased, the wife or some other close family member (son,
daughter, brother or sister) was available for collaboration. The family member’s
interviews have been accepted as primary sources, taking into account that they most
likely have not had first-hand experience of the events. In some cases, for fear of legal
consequences, the volunteer was available for an interview but only if complete
anonymity was guaranteed.
I have collected data on a total of 39 Italian volunteers from different Waffen-SS
troops (1. SS-Panzer-Division Leibstandarte-SS Adolf Hitler; 4. SS-PolizeiPanzergrenadier-Division; 5. SS-Panzer-Division Wiking; 8. SS-Kavallerie-Division
Florian Geyer; 16. SS-Panzergrenadier-Division Reichsführer SS; 24. Waffen-GebirgsKarstjäger-Division der SS; 29. Waffen-Grenadier-Division der SS; SS-WehrgeologenBataillon 500), the data including different regional roots, military ranks (from
290
Officers to Privates), age distribution (from 15 to 60 years at enlistment moment) and
social and educational background. Interviews took place with 20 volunteers and 19
family members, often followed by postal correspondence and/or telephone
conversations. In many cases, the veteran has been interviewed more than once and
in all cases there have been multiple contacts (interview, correspondence, telephone
conversations). The average interview lasted for approximately 2 hours. The interviews
were conducted with open-ended discussion questions that allowed interactivity and
a free exchange of opinions and ideas. The volunteers’ narrative on the experience in
the Waffen-SS has been analyzed whilst taking into account the preceding, contemporary and succeeding social and historical contexts.
The complexity of the outcomes of the analysis of the collected source materials,
with the many different cultural and ideological thematics identified frequently
overlapping and recurring in the volunteers’ narrative flow, have required a particular
effort in the adoption of a logical organization and presentation of the results. Four
key thematic clusters have been identified: social and cultural apparatus (social
background, cultural interests, models of heroism etc.); elements of the political
ideology; historical events experienced; and narrative style. The first three clusters
have been presented as single chapters, while the analysis of the volunteers’
narrative style has been covered throughout the entire study flow as it is important
to identify and explain the most difficult issues (anti-Semitism, violence etc.) that
have resulted in narrative adjustments in the volunteers’ expositions.
The results of the research are particularly relevant both for the comprehension
of the Italian phenomenon of volunteering in the Waffen-SS and for the reconstruction
of the ideological dynamics of the last fascism. An exhaustive portrait of the
ideological structure of the volunteers has been obtained in addition to one of the
cultural and social origins of the values that contributed to the rise and adoption of
this ideology. Further, the volunteers’ motivations to enlist have been clearly
reconstructed, together with their cultural, political, social and military backgrounds.
The outcome of the analysis of the volunteers’ political and ideological system, which
can be defined as Italian SS-fascist ideology, conflicts with the vaguely-described
ideological profile offered by previous studies that describe the volunteers as
generically “super fascist”, and also offers the opportunity for a deeper understanding
of the final fascist ideological trajectory, currently defined, not without a certain level
of approximation, as the “Germanisation” or “Nazification” of fascist ideology.
According to Renzo De Felice, the various phases of fascist ideology’s development and its rule are in some cases incompatible, as for example in the case of the
revolutionary fascism of the origins (Sansepolcrismo) with the fascist ideology and
rule of the regime. In consequence of this complexity, the interpretations of fascist
ideology are still today far from finding an academic consensus, and the increased
understanding of the Italian SS-Fascist ideology has been therefore useful for
establishing not only the very ideological nature of the volunteers’ political credo, but
also for deepening knowledge of the overall fascist ideology.
The primary purposes of the fascist ideology of the Italian volunteers in the
Waffen-SS are to recover the social and revolutionary roots of the fascist origins and
simultaneously to adapt fascist ideology to present and future social and political
challenges. In this ideological and programmatic framework, the volunteers’ fascist
291
ideology broadens its horizons to unexpected thematics, never mentioned in previous
publications on the subject, such as the repudiation of biological racism or the
rejection of the European, and also fascist, colonialist policy and practice. The central
idea regulating the ideological proposition of the volunteers and organizing the
different thematics of their political credo into a coherent ideology is to be found in
the principle of social justice as they saw it. Undoubtedly, the predominant element
of the Italian SS-Fascist ideology is the concept of social justice, so much so that
volunteers even consider the existence of the State and the Nation legitimate only
with regard to the pursuit and realization of social justice. From the volunteers’
perspective, every social organisation gains legitimacy for its existence and operations only when its course of action conforms to the goal of social justice.
My research enables the reconstruction of the constitutive social, cultural,
political and personal elements of the principle of social justice that was adopted,
lived and experienced by the volunteers. The two principal thematics on which the
idea of social justice is based are represented by anti-capitalism and an economic antiSemitism that refuses any connotation of biological racism. The interviewees describe
in detail their anti-Semitism and its correlation with the adopted concept of social
justice. First of all, it is necessary to point out how the volunteers consider the term
“anti-Semitism” inappropriate as it is associated with racial prejudices. According to
the volunteers’ perspective, the Jews are not an ethnoreligious group and every
person who adheres to capitalism becomes potentially and behaviourally a Jew.
Starting from this perspective, in the Italian SS-Fascist ideology, every person who
pursues a personal economic interest instead of or more than a collective one based
on the principle of social justice becomes a “Jewized” (“ebreizzato”) person. “AntiHebraism” is the term prevalently adopted by the Italian volunteers in the WaffenSS to define this ideological perspective. This understanding of the volunteers’ antiHebraism not only helps to deepen the knowledge of their ideological system, but also
provides a contribution to the broader academic debate on the legacy of fascist antiSemitism.
As fascism is a radical political ideology, it is important to define what exactly
constitutes political radicalism in the volunteers’ experience and ideology. This
radicalism results in the combination of traditionalistic values, for the most part
derived from a pagan vision of life as in the case of the volunteers’ cult of Nature, with
a modernist approach to society. Modernity itself is very much accepted and desired
by the volunteers, who declare their admiration for Futurism and for fascist
modernisation in Italy, but only within a path in which Téchne is not conceived as an
ideology in itself but instead represents an important element and tool of the fascist
ideology. This reasoning can undoubtedly be defined as romantic, a romanticism that
is not merely introspective but leads to mobilization in a political context that is
experienced and described as struggle of civilisations: on the one side fascism, on the
other side the two materialistic doctrines, capitalism and Marxism. The volunteers’
political ideology is a totalizing experience, a political religion antithetic not only to
capitalism and Marxism, but also to Christianity. In coherence with this political
frame, the fascist ideology of the volunteers drifts away from the narrow national
perspective and becomes an international ideology. Taking into consideration the fact
that fascism has always been defined as an ideology based on nationalism, this
internationalisation of the Italian SS-Fascist ideology is highly relevant beneath the
ideological perspective and influences the concept of nation and homeland adopted by
292
the volunteers. The Italian volunteers in the Waffen-SS adopt a deterritorialized and
spiritual idea of homeland and situate their political project at the European and
international level. The camaraderie experienced on the front line with volunteers of
different nationalities, cultures and religions contributes evidently to the
transcendence of the Italian national dimension of fascism and to the adoption of an
international syncretic fascism that combines different fascist experiences. This
internationalization of the fascist ideology and the large intercultural camaraderie
experienced in the Waffen-SS correlates strongly with the volunteers’ refusal of any
form of biological racism and appears coherent with their experiences. Also, the
declared full support of the volunteers for all those populations who fight for their
independence in Europe, Africa and Asia is part of the internationalization of their
fascist ideology and political perspective. Synthetically, the volunteers’ fascist
ideology can be defined as an international socialism of the homelands, a social
fascism that aims to fight capitalism, Marxism and Judaism – considered as a super
capitalism – on a global scale.
If the Italian volunteers in the Waffen-SS consider Marxism an ideological
enemy, capitalism is certainly their most hated enemy to fight against. The volunteers
accuse the active members of the communist parties of pursuing a wrong and
misunderstood idea of social justice, but capitalists are considered the real ideological
enemies of any form of social justice. The “crusade against communism”, the
justification for Operation Barbarossa, was consequently not a relevant factor behind
mobilization in the case of the Italian volunteers. The key reasons for volunteering
in the Waffen-SS are strictly correlated with Italian political and military events, in
particular with the betrayals of the 8th September 1943, when Italy changed its
allegiance, as well as with ideological motivations. Another thematic area that had
a determinant influence on the decision to volunteer as well as on the construction of
the ideology of the volunteers is represented by the adoption of a cultural system in
which models of heroism play an important role. The model of heroism followed by the
volunteers owes more to writer Emilio Salgari’s adventure novels, contemporary
adventure cartoons, Nordic mythology, and the myth of the German soldier than to
the rituals of the Italian fascist regime.
The Italian volunteers in the Waffen-SS do not indeed spare their criticism in
describing the fascist regime and its rhetorical rituals and parades. These instruments
of education and propaganda are assessed by the volunteers as bourgeois, tedious,
and even contrary to the very social nature of fascist ideology. The great majority of
the volunteers also openly criticize the Italian Fascist youth organization that
functioned as an addition to school education and was intended by fascism as a
method of promoting the concept of the New Man (Uomo Nuovo). During their youth,
many of the interviewed volunteers attended the rituals of the fascist youth organisation
only sporadically and preferred to organise their free time independently.
Unexpectedly, the cultural and educational rhetoric of the regime did not decisively
influence the volunteers’ cultural system, and they always maintained a critical
perspective, expressing and involving an analysis of the merits and faults of the
fascist rule. The volunteers do not mention any fascist leader (gerarca) among their
models of heroism, with the exception of Ettore Muti, a troublesome and unconventional fascist leader well known for his heroism in battle, his desire to bring fascism
back to its revolutionary and social roots, and his aversion to the rhetorical practices
of the fascist regime. In addition, the cult of the Duce, considered in many respects
the unifying force of the fascist regime, is not part of the cultural system of the
293
volunteers either. Benito Mussolini is held in high esteem by the volunteers for his
crucial role in the development of fascist ideology, his efforts in enacting social
legislation during the first years of the fascist rule (Charter of Labour of 1927) and his
support of the modernisation of Italy, but he is also intensely criticized for having
reached a compromise with the Conservatives, the industrialists and the Catholic
Church. All these aspects undoubtedly confirm a political and ideological profile of the
volunteers far from that generically depicted in previous studies, of super-fascists
blindly dedicated to defend Nazi-fascist rule.
If on the one hand, the fascist regime’s attempt to create the New Man decidedly
failed at a collective level, as Emilio Gentile points out in his studies; on the other
hand, the Italian volunteers in the Waffen-SS can certainly be seen as representing
the embodiment of a particular model of the New Man: a multi-faceted model that
derives its decisive constitutive elements from the volunteers’ model of heroism, the
ideological influence of the different European fascist experiences, SS ideology, and
the camaraderie experienced at the front line. Looking at the more relevant cultural
influences at the basis of this model of the New Man adopted by the volunteers, even
if some echoes of the fascist model are present in their narrative, other decisive traces
of the origins of their model of New Man directly and syncretically refer to the concept
of the New Man of the Nazi culture, to the New Man of Futurism and to the model of
heroism of Salgari’s adventure novels. This new conceptualisation of the New Man
grows and finds its corroboration in the volunteers’ experience of war lived in the
typical sacrificial heroism and camaraderie of the Waffen-SS culture.
The previous studies on the subject often refer to the Waffen-SS volunteers as
“political soldiers”, in the meaning of mere stone-cold executors, or merciless
“adventurers” inspired by an “evil ideology”. According to my research, these definitions
are neither accurate nor correct. The proper synthetic definition for the Italian
volunteers in the Waffen-SS could be that of political adventurers: persons that adopt
an approach to life made of a social fascist ideology combined with a heroic vitality
conceived as the desire and duty to actively participate in the events of their times.
Further, there is a minority of volunteers that reveal a less elaborate reasoning
behind their adhesion to fascist ideology evidence and declare that their adoption of
a fascist lifestyle was conceived as a will for action and daring. The volunteers’
lifestyle is incontrovertibly anti-bourgeois and situated in an organicistic conception
of life and society. Any social organization should not violate the eternal principles
of Nature, since the universe and its parts are an organic whole and a living organism.
No human achievement, in the volunteers’ perspective, is allowed to violate the
principles of Nature, and all mankind should collaborate to the edification of a better
future that is not merely a human matter. The Italian volunteers in the Waffen-SS
are, in fact, passionate in the fight against the exploitation of natural resources. Their
fascist ideology can certainly be defined, according to these aspects, also as ecofascism. It is important to specify how this organicistic conception of life reinforces the
volunteers’ aversion towards any form of biological racism: as different human races
and ethnic groups exist in nature, no one is allowed to rank one race as superior or
inferior to the others. From the volunteers’ perspective, the differences between two
men are exclusively ideological.
294
APPENDICE FOTOGRAFICA
295
296
Adolfo Simonini
Il giovane Adolfo Simonini durante il
Corso Cadetti assieme all’amico Furio.
Alcune immagini dell’esperienza militare nei bersaglieri precedente quella nelle
Waffen-SS.
297
298
Con l’uniforme delle Waffen-SS.
Nel dopoguerra nella Polizia stradale.
299
Cirillo Covallero
Nel corpo degli alpini, prima dell’8 settembre 1943, seduto a destra.
Berlino, 1943.
300
Con l’uniforme delle Waffen-SS in Grecia, al centro mentre imbraccia il fucile.
301
Ottobre 1944, il rientro in Italia.
Dicembre 1944, durante l’esperienza
nella X Mas.
302
Josef Tappeiner
Nel 1940.
Durante una licenza databile al 1941.
303
Durante una licenza databile al 1943.
1966: nozze d’oro. Il volontario (il primo a sinistra) assieme a Theo G. (destra) che
lo ha aiutato ad uscire vivo dalla battaglia di Budapest ed è stato suo testimone
di nozze.
304
Luis Innenhofer
Al momento dell’arruolamento.
Un anno dopo, all’età di 19 anni, dopo
la promozione a caporale.
305
Gradisca, dicembre 1943: “Hanno fatto buio del tutto e c’era l’albero e una
candela per ogni caduto.”
306
1944 / 1945: “Con il maresciallo tedesco Wutke, eravamo amici, avevamo un buon
rapporto.”
“Il cimitero di Conegliano Veneto era un cimitero della Prima guerra mondiale e i nostri
li avevamo seppelliti insieme a
loro.”
307
In licenza a Merano nel luglio 1943: “Ho fatto un cappello con tutte stelle alpine,
quando si va in montagna si raccolgono, si conosce dove sono. La stella alpina era
anche il simbolo della nostra Divisione. La portavamo sul braccio e sul cappello.”
“Anche quello che diventerà mio cognato, Francesco Kaufmann, era nelle
Waffen-SS. Lui era un carrista.”
308
Wainer “Wagner” Novellini
Walter Novellini nella natura e durante la precedente esperienza militare
nell’esercito italiano.
309
Walter Novellini con l’uniforme del SS-Wehrgeologen-Bataillon 500.
310
Valli del Pasubio, 2 dicembre 1944: funerali per la morte di Wainer Novellini.
311
Walter Morini
Con l’uniforme italiana nella precedente esperienza di guerra, volontario in
Africa nel 1935.
Con la divisa delle Waffen-SS.
312
Nel dopoguerra, il giorno delle nozze sulle amate montagne.
313
A Caserta nel 1953, durante gli anni della guerra fredda e dell’impegno per la
difesa del confine orientale.
314
Rutilio Sermonti
Una foto giovanile del 1940, all’età di 19 anni.
A Verona nel 1941, soldato in fanteria
(il terzo da sinistra).
315
1942, Ufficiale della Divisione motorizzata Piave.
Un autoritratto con l’uniforme delle
Waffen-SS (le foto originali sono state
distrutte dal volontario per paura di
rappresaglie, come avvenuto per molti
altri intervistati).
316
La rappresentazione ad opera del volontario della scena di guerra che portò al
ferimento del volontario Ferri, “guarito dal cameratismo”.
Alcune opere del volontario con soggetti tratti dalla natura.
La natura della Finlandia, Paese visitato dal volontario.
317
Il quadro che ritrae
una pantera.
Il disegno di un alce.
318
Alessandro e Davide Scano
Alessandro Scano prima dell’arruolamento.
1943, il giovane Marò Alessandro Scano
a Massa.
319
Alessandro Scano dopo l’8 settembre 1943, volontario nella Tagliamento.
Alessandro Scano nel dopoguerra in una foto con
Giorgio Almirante, segretario del MSI.
320
Davide Scano, padre di Alessandro,
anch’egli volontario nelle Waffen-SS,
all’epoca della prima guerra mondiale
quando militò negli arditi.
Davide Scano, maresciallo dei carabinieri.
Davide Scano (primo a sinistra) con
Carlo Federico degli Oddi (al centro)
durante il volontariato nelle WaffenSS.
321
Ireneo e Antonino Orlando
16 settembre 1944, Ireneo Orlando.
16 febbraio 1945 foto di
gruppo a Rodengo Saiano, il volontario indossa
la camicia nera.
322
Meda, aprile 1945. Si noti sull’uniforma del volontario la mostrina della 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS.
Antonino Orlando, fratello minore
di Ireneo, uno dei più giovani volontari nelle Waffen-SS, intervistato nel
febbraio 1944 su “Signal”, verrà ucciso dai partigiani in un’imboscata.
323
Benito Scarazzini
Il piccolo Benito saluta romanamente.
Due immagini del dopoguerra. Per evitare rappresaglie il volontario ha distrutto tutte le immagini in uniforme.
324
Karl Nicolussi-Leck
Due immagini dal fronte russo.
Nel dopoguerra Karl Nicolussi-Leck è animato da una forte passione per l’arte
contemporanea.
325
Pio Filippani Ronconi
Il giovane volontario assieme a Carlo Federico degli Oddi.
Il volontario posa con l’uniforme sulla quale porta le mostrine della 29ª
Waffen-Grenadier-Division der SS.
326
Andrea Taffon
Il funerale del volontario a Trieste.
327
Alamiro Lottici
Il giovane volontario diserterà per un fatto disciplinare passando ai partigiani
per poi disertare anche dalla Resistenza.
328
FONTI E BIBLIOGRAFIA
FONTI PRIMARIE
1. Interviste effettuate dall’autore
Bernagozzi Giorgio, volontario nelle Waffen-SS: 25 settembre 2009
Bortolotti Giuliano, volontario nelle Waffen-SS: 19 gennaio 2008
Bottero Paola, nipote di Oreste Culasso, partigiano impiegato come guardia a
San Sabba: 5 settembre 2009
Cavalletti Paolo, volontario nelle Waffen-SS: 11 giugno 2008; 20 agosto 2008
Ciabattini Pietro, volontario nelle Waffen-SS: 15 maggio 2006; 9 giugno 2006; 7
giugno 2007
Costa Ugo, volontario nella Wehrmacht: 4 settembre 2009
Covallero Cirillo, volontario nelle Waffen-SS: 2 agosto 2008
di Robilant Enrico, figlio di Carlo Manfredo di Robilant, volontario nelle WaffenSS: 10 giugno 2008
Famigliari [anonimato] di Asvero Gravelli, volontario nelle Waffen-SS: 8 agosto
2008
Figlio [anonimato] di volontario [anonimato] nelle Waffen-SS: 20 maggio 2007
Gandini Ferdinando, volontario nelle Waffen-SS: 25 ottobre 2009
Gionzer Renata, figlia di Carlo Gionzer, volontario nelle Waffen-SS: 1° settembre
2009; 24 ottobre 2009
Innenhofer Luis, volontario nelle Waffen-SS: 18 ottobre 2009
Lottici Mauro, figlio di Alamiro Lottici, volontario nelle Waffen-SS: 5 giugno 2008
Lucchesini Mario, volontario nelle Waffen-SS: 10 settembre 2006; 1° ottobre
2006
Menchicchi Luciano, figlio di Riccardo Menchicchi, volontario nelle Waffen-SS:
11 giugno 2008
Monti Stefano, nipote di Benito Scarazzini, volontario nelle Waffen-SS: 4 giugno
2009; 9 settembre 2009, 10 settembre 2009, 11 settembre 2009; 29 settembre 2009
Moglie [anonimato] di Ferdinando Salutin, volontario nelle Waffen-SS: 9 settembre 2009
Moglie di Josef Tappeiner, volontario nelle Waffen-SS: 29 settembre 2009
Morini Diego, figlio di Walter Morini, volontario nelle Waffen-SS: 16 ottobre 2009
Mullon Lorenzo, figlio di Mario Mullon, volontario nelle Waffen-SS: 2 settembre
2009
Nicolussi-Leck, Heiner, nipote di Karl Nicolussi-Leck, volontario nelle WaffenSS: 15 ottobre 2009
Oggioni Walter, nipote di Wainer “Wagner” Novellini, volontario nelle WaffenSS: 21 settembre 2009
329
Orlando Ireneo, volontario nelle Waffen-SS: 12 settembre 2009
Partigiano X [anonimato], operante contro le Waffen-SS: 28 ottobre 2006
Priebke Eric, SS Hauptsturmführer: 15 ottobre 2009
Scano Alessandro, volontario nelle Waffen-SS: 2 agosto 2008
Scarpellino Pasquale, volontario nelle Waffen-SS: 26 settembre 2009
Scio Francesco, volontario nelle Waffen-SS: 10 settembre 2008
Sermonti Rutilio, volontario nelle Waffen-SS: 8 giugno 2008; 19 settembre 2009
Simonini Adolfo, volontario nelle Waffen-SS: 1° settembre 2009; 2 ottobre 2010
Taffon Agostino, nipote di Antonio Taffon, volontario nelle Waffen-SS: 6 giugno
2008
Tappeiner Hans, figlio di Josef Tappeiner, volontario nelle Waffen-SS: 13 ottobre
2009; 17 ottobre 2009
Tappeiner Josef, volontario nelle Waffen-SS: 17 ottobre 2009
Tosi Fulvio, cugino di Vittorio Tosi, volontario nelle Waffen-SS: 16 giugno 2008
Tosi Malossi, Albarosa, sorella di Vittorio Tosi, volontario nelle Waffen-SS: 16
giugno 2008
Tua Rivoli Pierina, sorella di Andrea Tua Rivoli, partigiano impiegato come
guardia presso la Risiera di San Sabba: 10 settembre 2009
Vivi Bruna, moglie di Mauro Vivi, volontario nelle Waffen-SS: 9 settembre 2009
Volontario N. A. [anonimato], volontario nelle Waffen-SS: del 20 marzo 2006
Volontario A [anonimato] nelle Waffen-SS, [spiega i motivi di rifiuto a partecipare allo studio]: 1° novembre 2009
Volontario B [anonimato] nelle Waffen-SS, [spiega i motivi di rifiuto a partecipare allo studio]: 7 luglio 2006
Volontario C [anonimato] nelle Waffen-SS, [spiega i motivi di rifiuto a partecipare allo studio]: 19 febbraio 2007
Volontario D [anonimato] nelle Waffen-SS, [spiega i motivi di rifiuto a partecipare allo studio]: 22 febbraio 2007
2. Corrispondenza con l’autore
Bortolotti Giuliano, volontario nelle Waffen-SS: 23 giugno 2008; 7 luglio 2008
Bottero Paola, nipote di Oreste Culasso, partigiano impiegato come guardia a
San Sabba: 5 settembre 2009
Cavalletti Paolo, volontario nelle Waffen-SS: 23 maggio 2008; 19 agosto 2008
Ciabattini Pietro, volontario nelle Waffen-SS: 19 giugno 2006; 7 luglio 2007
Costa Ugo, volontario nella Wehrmacht: 6 settembre 2009; 12 giugno 2010
Covallero Cirillo, volontario nelle Waffen-SS: 2 agosto 2008: 2 settembre 2008
Gionzer Renata, figlia di Carlo Gionzer, volontario nelle Waffen-SS: 15 settembre 2009; 20 ottobre 2009
Lottici Mauro, figlio di Alamiro Lottici, volontario nelle Waffen-SS: 6 giugno
2008; 20 ottobre 2008
Lucchesini Mario, volontario nelle Waffen-SS: 15 dicembre 2006
Maringgele Hilde, nipote di Hermann Maringgele, volontario nelle Waffen-SS: 3
ottobre 2009
Monti Stefano, nipote di Benito Scarazzini, volontario nelle Waffen-SS: 4 maggio
2009; 11 gennaio 2011
Morini Diego, figlio di Walter Morini, volontario nelle Waffen-SS: 19 ottobre
330
2009; 26 ottobre 2009; 29 gennaio 2011
Oggioni Walter, nipote di Wainer “Wagner” Novellini, volontario nelle WaffenSS: 8 ottobre 2009; 19 ottobre 2009; 30 novembre 2009
Scano Alessandro, volontario nelle Waffen-SS: 16 giugno 2008; 5 ottobre 2009;
5 settembre 2010; 8 settembre 2011
Simonini Adolfo, volontario nelle Waffen-SS: 16 settembre 2009.
Tappeiner Hans, figlio di Josef Tappeiner, volontario nelle Waffen-SS: 26 ottobre
2009; 2 febbraio 2010
Tosi Malossi Albarosa, sorella di Vittorio Tosi, volontario nelle Waffen-SS: 11
febbraio 2010.
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Covallero Cirillo (2007): In maniche di camicia, Tipografia Menin, Schio
Filippani Ronconi Pio (s.d.): L’aspro sapore della giovinezza. I ricordi di un
vecchio uomo d’arme. (La 29a Divisione Granatieri SS), Dattiloscritto,
Archivio Privato Cipriano Porcu - APCP, Sez. 30/6, pp. 1-11, Reg. 169-179
Filippani Ronconi Pio (s.d.): Le confessioni di Pio detto “Maometto”, Dattiloscritto
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Scano Alessandro (2005): Legionario! Dalla Tagliamento alle SS Italiane, Effepi,
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gennaio 2001, Anno VI, n. 26
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Archivio Centrale di Stato - ACS, Ministero dell’Interno, Gabinetto RSI (19431945), Busta 45
332
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Giovanili e corrispondenza
Archivio Famigliare Renata Gionzer – Volontario Carlo Gionzer: Atti relativi alla
Commissione Provinciale di Epurazione
Archivio Privato Cipriano Porcu - APCP, Sez. 20/6
Archivio Privato Cipriano Porcu - APCP, Sez. 30/0
Archivio Privato Cipriano Porcu - APCP, Sez. 30/1
Archivio Privato Cipriano Porcu - APCP, Sez. 30/5
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FONTI SECONDARIE
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Cultura Fascista, Roma
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“Signal, Tomo 2, 1941-42” (1975), Ciarrapico Editore, Roma
“Signal, Tomo 3, 1942-43” (1975), Ciarrapico Editore, Roma
“Signal, Tomo 4, 1943-44” (1976), Ciarrapico Editore, Roma
“Signal, Tomo 5, 1944-45” (1976), Ciarrapico Editore, Roma
“Signal, Tomo 6, Finis Germaniae” (1976), Ciarrapico Editore, Roma
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presso la «Scuola di cultura operaia» dal 18 ottobre al 29 dicembre 1904]” in
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Pinerolo
Zucconi Vittorio (1993): “Shali, un padre nelle SS”, in “La Repubblica”, 28 agosto
1993
360
L’AUTORE
Nicola Guerra (Massa, 1969) ha conseguito la laurea in Economia e Commercio, con una tesi in geografia economica sull’emigrazione italiana, presso l’Università degli studi di Pisa e il titolo di dottore di ricerca in Lingua e Cultura
italiana presso l’Università di Turku in Finlandia. Lo stesso ateneo finlandese
dal gennaio 2014 gli ha conferito il titolo di docente in Storia e Società dell’Italia
moderna. Le sue ricerche in ambito storico, incentrate sul metodo della storia
orale e della history from below, riguardano il fenomeno dell’emigrazione italiana
all’estero, del Controrisorgimento e del volontariato militare italiano nelle
Waffen-SS. Lo studio della società italiana moderna, in ambito linguistico e
sociolinguistico, si incentra prevalentemente sui fenomeni del graffitismo e del
muralismo, della sottocultura ultras e dei radicalismi politici.
361
362
INDICE
INTRODUZIONE .................................................................................................. 5
1
INQUADRAMENTO STORICO E STORIOGRAFICO ........................................ 9
Le Waffen-SS italiane negli studi internazionali ............................................................. 9
Nascita, sviluppo e internazionalizzazione delle Waffen-SS ........................................ 10
Definizione di volontario italiano nelle Waffen-SS e modalità di arruolamento ........ 22
Le Waffen-SS italiane nella storiografia e nei media nazionali ................................... 28
Gli anni della guerra civile come oggetto di studio ....................................................... 28
La storiografia nazionale sui volontari italiani nelle Waffen-SS ................................. 36
Stigma sociale, giornalismo e processi ............................................................................ 42
2
FONTI E METODOLOGIA ................................................................................... 47
L’intervista come metodo di ricerca ................................................................................. 47
Il ritardo nell’uso dell’intervista nella storiografia italiana ......................................... 51
La raccolta dei dati e il profilo degli informanti ............................................................ 52
Una metodologia integrata ............................................................................................... 58
Flusso dell’analisi .............................................................................................................. 58
3
APPARATO SOCIALE E CULTURALE DEI VOLONTARI ITALIANI ............ 61
Inquadramento sociale, famigliare e istruzione ............................................................. 61
Fascinazioni letterarie ...................................................................................................... 73
Spirito d’avventura ............................................................................................................ 85
Inserimento sociale, interazione con la popolazione e sentimenti amorosi ................ 96
Figure di riferimento ed eroi .......................................................................................... 104
Il mito del soldato tedesco e delle SS ............................................................................. 116
Spiritualità, religiosità e culto della natura ................................................................. 125
La cerchia esoterica ......................................................................................................... 140
La guerra e la morte: il destino ...................................................................................... 148
Cameratismo e comunitarismo ...................................................................................... 158
4
IL PENSIERO POLITICO ................................................................................... 173
Fascisti, nazisti, nazifascisti? ......................................................................................... 173
Giustizia sociale ............................................................................................................... 175
Anticapitalismo ................................................................................................................ 179
Antisemitismo, antigiudaismo, antiebraismo ............................................................... 185
363
Concezione razziale ......................................................................................................... 206
Anticomunismo ................................................................................................................ 212
Patriottismo, europeismo, internazionalismo .............................................................. 222
Quale fascismo? ............................................................................................................... 232
Echi futuristi e modernizzazione del Paese .................................................................. 232
Riformismo sociale ........................................................................................................... 235
Deriva conservatrice e critiche ...................................................................................... 237
Mussolini e il mussolinismo ........................................................................................... 239
Fascismo, patria e Sudtirolo ........................................................................................... 246
5
IL VISSUTO E LE CONTINGENZE STORICHE ............................................. 253
Il 25 luglio e l’8 settembre 1943 ..................................................................................... 253
La difesa della patria contro l’invasore ......................................................................... 262
La guerra civile ................................................................................................................ 266
La sconfitta e il dopoguerra ............................................................................................ 276
CONCLUSIONI ................................................................................................ 285
ENGLISH SUMMARY ..................................................................................... 289
APPENDICE FOTOGRAFICA ........................................................................ 295
FONTI E BIBLIOGRAFIA ............................................................................... 329
FONTI PRIMARIE .......................................................................................................... 329
1. Interviste effettuate dall’autore ................................................................................. 329
2. Corrispondenza con l’autore ....................................................................................... 330
3. Memorialistica dei volontari edita e inedita ............................................................. 331
4. Interviste ai volontari pubblicate .............................................................................. 331
5. Pubblicazioni dei volontari italiani ........................................................................... 332
6. Fonti d’archivio ............................................................................................................ 332
FONTI SECONDARIE .................................................................................................... 333
7. Scritti e pubblicazioni coeve o antecedenti ............................................................... 333
8. Bibliografia ................................................................................................................... 335
L’Autore .............................................................................................................. 361
364
I DIAMANTI
1
Fabrizio Di Lalla
L’IMPERO BREVE
Vita e opere degli italiani in A.O.I.
[ISBN-978-88-89756-64-5] - Pagg. 424 - Euro 30,00
2
Piero Nicola
L’OTTIMISMO ERETICALE
Giovanni XXIII - De Lubac - Teilhard de Chardin
teologicamente accomunati
[ISBN-978-88-89756-99-7] - Pagg. 496 - Euro 35,00
3
Filippo Giannini
MUSSOLINI NELL’ITALIA DEI MIRACOLI
[ISBN-978-88-89756-87-4] - Pagg. 264 - Euro 22,00
4
Fabrizio Di Lalla
IMMAGINI DELL’IMPERO
Storia fotografica degli italiani in A.O.I.
[ISBN-978-88-7497-728-4] - Pagg. 336 + 16 ill. a col. - Euro 30,00
5
Gianfranco Ianni
RAPPORTO CEFALONIA
Gli uomini della Divisione Acqui
[ISBN-978-88-7497-727-7] - Pagg. 528 - Euro 38,00
6
Luca Pignataro
IL DODECANESO ITALIANO 1912-1947
I - L’occupazione iniziale: 1912-1922
[ISBN-978-88-7497-712-3] - Pagg. 248 - Euro 20,00
365
366
7
Fabrizio Di Lalla
UN POSTO AL SOLE
La colonizzazione demografica in A.O.I.
[ISBN-978-88-7497-766-6] - Pagg. 440 - ill. - Euro 30,00
8
Luca Pignataro
IL DODECANESO ITALIANO 1912-1947
II - Il Governo di Mario Lago: 1923-1936
[ISBN-978-88-7497-713-0] - Pagg. 648 - Euro 40,00
9
Paolo Pasqualucci
UNAM SANCTAM
Studio sulle deviazioni dottrinali
nella Chiesa Cattolica del XXI secolo
[ISBN-978-88-7497-813-7] - Pagg. 440 - Euro 34,00
10
Fabrizio Di Lalla
LE ITALIANE IN AFRICA ORIENTALE
Storie di donne in colonia
[ISBN-978-88-7497-834-2] - Pagg. 336 - ill. - Euro 30,00
11
Nicola Guerra
I VOLONTARI ITALIANI NELLE WAFFEN-SS
Pensiero politico, formazione culturale
e motivazioni al volontariato
Una storia orale
[ISBN-978-88-7497-858-8] - Pagg. 368 - ill. - Euro 30,00
367
Finito di stampare nel mese di Aprile 2014
dalla Universal Book di Rende (CS)
per conto delle Edizioni Solfanelli
del Gruppo Editoriale Tabula Fati
66100 Chieti
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