“Persona e comunità familiare”
Salerno, 28 - 29 settembre 2012
Relazioni
POTESTÀ DEI GENITORI VERSUS RESPONSABILITY
FRANCESCO RUSCELLO
SOMMARIO: 1. Una premessa. – 2. Un chiarimento a livello di linguaggio. – 3. La
normativa internazionale. – 4. La normativa comunitaria. – 5. Dalla «potestà» alla
«responsabilità» dei genitori?. – 6. Per concludere.
1. Prima di entrare nel vivo delle mie riflessioni, due brevi considerazioni
preliminari. Sotto un primo aspetto, mi sembra vero che – per il destino proprio di
ogni disposizione normativa, di essere progettata ed emanata in un particolare
momento e di essere applicata in un momento successivo, talora anche molto distante
nel tempo – gli istituti del diritto familiare, forse piú ancora di altri, non possono non
risentire dell’evoluzione dei costumi e, in particolare, della qualificazione in termini di
«società naturale» della famiglia (art. 29 cost.). Va da sé che, anche a prescindere da
specifici interventi normativi, la loro disciplina non può non essere reinterpretata
storicamente e in relazione a un particolare modello sociale. Sotto un secondo profilo
– qui la seconda breve considerazione, ora particolare allo specifico argomento
affidatomi – proprio con riferimento alla potestà dei genitori mi sembra che questa
affermazione sia particolarmente pertinente. È vero, infatti, che, nella legislazione
successiva alla riforma del 1975, la potestà dei genitori non pare abbia avuto
particolari sviluppi; anzi, per molti aspetti, sembra addirittura impermeabile a ogni
mutamento. Salvo qualche sporadica aggiunta apparsa qua e là nel corpo di alcuni
pochi articoli del codice 1, le disposizioni specificamente destinate alla potestà dei
genitori non hanno ricevuto, se non indirettamente 2, alcuna attenzione da parte del
legislatore.
In quella dinamica storica e relativa propria degli istituti giuridici alla quale s’è
appena fatto cenno, per contro, è stato merito della dottrina e di alcuna parte della
giurisprudenza interpretare in maniera piú aderente agli sviluppi delle realtà familiari
disposizioni che, ormai, si avviano ai quaranta anni di età. Se, come ho precisato in un
ormai datato lavoro, la famiglia alla quale il codice del 1942 si richiama è una famiglia
che, per il vento di novità introdotto con la Carta costituzionale, «nasce già vecchia»,
la normativa attuale, per certi versi, sembra far rivivere quelle medesime sensazioni: da
un lato, una famiglia che si articola nella società civile attraverso variegati modelli e,
Penso, per esempio, alla previsione dell’allontanamento del genitore o del convivente dalla residenza
familiare nei casi di decadenza dalla potestà (art. 330 c.c.) o di provvedimenti nell’interesse dei figli (art. 333
c.c.).
2
Come nel caso dell’art. 317-bis c.c. immutato bensí, ma non del tutto insensibile alla modifica subita
dall’art. 155 c.c. a seguito del c.d. affido condiviso.
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dall’altro, una legislazione che, per alcuni rilevanti aspetti, stenta a tenerne il passo 3.
Eppure, volgendo anche soltanto un fuggevole sguardo all’evoluzione della posizione
dei figli all’interno della comunità familiare, non è difficile accorgersi che essa segue,
direi quasi per forza di inerzia, le trasformazioni che la famiglia stessa ha subito nel
corso del tempo: al graduale riconoscimento delle situazioni di libertà di entrambi i
coniugi, corrispondono, seppure a velocità diversa, le stesse affermazioni per i figli.
2. L’opera di «reinterpretazione» alla quale ho fatto cenno ha determinato, a un
tempo, un’altra evoluzione: quella linguistica. Anche nell’ambito dei problemi che
attengono al tema di queste mie riflessioni, da sempre piú parti si parla, e – direi – con
un crescente compiacimento, di «responsabilità genitoriale» in luogo della classica
«potestà dei genitori». Si introduce una locuzione – «responsabilità genitoriale» – a
tutta prima dagli effetti magici per la sua presunta idoneità ad aprire orizzonti prima
sconosciuti al rapporto genitori-figli.
Parlare di responsabilità e non piú di potestà dei genitori allontanerebbe il
rapporto genitori-figli da pericolose derive autoritarie – la potestà, indubbiamente,
evoca una contrapposta situazione di soggezione – per avvicinarlo a relazioni piú
coerenti al principio di eguaglianza e all’essere persona del figlio, quale membro di una
comunità all’interno della quale partecipa non come soggetto pur da tutelare, e che
nondimeno proprio per questo, per dir cosí, subisce l’azione dei genitori quali soggetti
deputati alla sua cura, ma come uno degli attori protagonisti di una comune
esperienza di vita. La potestà, quale situazione soggettiva di potere, sebbene vincolato,
cederebbe il posto a una posizione piú doverosa e, per ciò stesso, piú rispettosa della
funzione alla quale è chiamata. La nuova espressione, d’altro canto, sostituisce anche
quella di «autorità genitoriale», terminologia, invero, e almeno nella gran parte della
letteratura italiana, da anni ormai non piú utilizzata. In una parola, con la nuova
formulazione linguistica si abbandonerebbe l’idea asimmetrica e adultocentrica del
rapporto genitori-figli a vantaggio di una idea improntata all’eguaglianza di diritti e di
doveri e piú marcatamente puerocentrica. Sicché – potrei aggiungere – l’apparente
visione paternalistica che pur da alcuni si individua nell’art. 147 c.c. – intitolato, come
è noto, non «Diritti dei figli», ma «Doveri verso i figli», quasi che i primi fossero un
mero riflesso dei secondi – si dovrebbe allontanare dall’immaginario dell’interprete
per essere ribaltata. E, a ben vedere, detto soltanto incidenter tantum, di questo
ribaltamento si può anche rintracciare una prima significativa testimonianza nell’art. 1
3
Penso, soltanto a titolo esemplificativo, ai problemi riguardanti il c.d. terzo genitore nelle sue diverse
articolazioni di natura personale e patrimoniale. Uno per tutti, si può riflettere sulla disciplina dell’usufrutto
legale dei genitori in ipotesi di nuove nozze di uno di essi e all’incidenza che l’art. 328 c.c. può svolgere sulla
«identità» stessa della nuova famiglia nella quale il minore è inserito: una famiglia nella quale, stando al dato
testuale del disposto normativo, non esisterebbe una solidarietà familiare identica a quella presente nella
famiglia di origine, né sarebbe configurabile, se non unilateralmente, la stessa collaborazione nell’interesse
della famiglia. V., anche, testo e nota 16.
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della l. n. 184 del 1983, come modificato dalla l. n. 149 del 2001, che riconosce non
un diritto dei genitori, ma il diritto del minore «di crescere ed essere educato
nell’ambito della propria famiglia» 4.
Lo stesso nostro legislatore, in alcuni progetti di riforma della fine del secolo
appena passato 5, sembrava essere attratto da questa nuova terminologia; una
rinnovata terminologia che – voglio dire senza spirito polemico e in una prospettiva
piú generale – con sempre maggiore frequenza, anche in altri settori del diritto,
mutuiamo da altri ordinamenti imbarbarendo il già poco tranquillante linguaggio
normativo moderno.
Non è – il mio – provincialismo o attaccamento a un passato che l’incedere
impietoso degli anni ineluttabilmente allontana sempre piú. Semplicemente non credo
che una nuova terminologia, di per sé, possa avere effetti tali da mutare un quadro
normativo che, piaccia o non piaccia, e almeno per ciò che riguarda la potestà dei
genitori, è sempre identico. Specialmente in ambito familiare, il linguaggio tecnico
tende a confondersi con il linguaggio comune. Si pensi a termini come convivenza,
fedeltà o, addirittura, famiglia. Con ogni probabilità, anche per questo le disposizioni
che interessano la famiglia sono difficilmente addomesticabili sotto il profilo formale;
anche per questo, sono tali che affidarsi al dato testuale molto spesso è non soltanto
pericoloso, ma anche fuorviante 6.
I termini, d’altro canto, da soli considerati, molto spesso, nulla dicono. Cosí, per
esempio, il termine «ancora» può indicare sia il comando di ancoraggio sia l’attrezzo
necessario all’ormeggio sia l’avverbio, se accentato diversamente. Nella nostra lingua,
infatti, non di rado, si ha anche la necessità di ricorre ad accenti diversi per dar
significato a parole graficamente identiche: pèsca, per indicare il frutto, pésca, per
indicare l’azione; légge, per indicare l’atto normativo, lègge, per indicare l’azione, e
4
Non a caso, la stessa intitolazione della legge non è piú «Disciplina dell’adozione e dell’affidamento
dei minori», ma significativamente «Diritto del minore ad una famiglia».
5
Mi riferisco alla ormai datata (e dimenticata) proposta di legge n. 1731 del 1996, recante « Norme
per la tutela e lo sviluppo dei soggetti in età evolutiva », nella quale, tra l’altro, veniva appunto introdotta, in
coesistenza con la potestà genitoriale, la responsabilità genitoriale.
6
Posso pensare, soltanto a titolo esemplificativo, all’art. 129-bis c.c., a norma del quale, come è noto,
«Il coniuge al quale sia imputabile la nullità del matrimonio è tenuto a corrispondere all’altro coniuge in
buona fede, qualora il matrimonio sia annullato, una congrua indennità». Nel corpo di un medesimo comma e
con riferimento alla identica patologia di uno stesso atto si discorre indifferentemente di nullità e di
annullabilità. Le stesse ambiguità linguistiche, ancora soltanto per esempio, posso rilevare in alcune parti del
testo della riforma dell’art. 155 c.c., là dove, una per tutte, difficile è individuare le linee di demarcazione fra
collocazione abitativa, affidamento e potestà. Prima si contrappongono affidamento e potestà – cosí nell’art.
155-ter c.c., nei limiti entro i quali si attribuisce ai genitori il diritto di chiedere in ogni tempo la revisione, tra
l’altro, «delle disposizioni concernenti l’affidamento dei figli» e «l’attribuzione dell’esercizio della potestà su
di essi», come nell’art. 709 ter c.p.c., allorquando si ipotizzano controversie fra i genitori «in ordine
all’esercizio della potestà genitoriale o delle modalità dell’affidamento» – poi, e a un tempo, nel comma 2
dell’art. 155 c.c., si contrappongono affidamento e collocazione abitativa, riconoscendosi al giudice, tra l’altro,
la valutazione della «possibilità che i figli restino affidati a entrambi i genitori » e la determinazione dei tempi
e delle modalità «della loro presenza presso ciascun genitore».
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cosí enumerando. Ciò mi sembra possa valere anche per il termine «responsabilità»:
possiamo parlare, infatti, di «responsabilità civile», ma anche di «responsabilità
patrimoniale del debitore», attribuendo al termine «responsabilità» due diversi
significati. Opportunamente, la prima regola che il legislatore detta in tema di
interpretazione è quella di accertare il senso «fatto palese dal significato proprio delle
parole secondo la connessione di esse» (art. 12 disp. prel. c.c.).
Cosa succede quando affianchiamo il termine responsabilità ai genitori? In
quale prospettiva si deve inquadrare il problema quando si discorre di «responsabilità
genitoriale» (o, ma è lo stesso, «dei genitori»)?
3. Se si esclude la legge n. 176 del 27 maggio 1991, che ratifica la Convenzione
ONU sui diritti del fanciullo, approvata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite
nel 1989, il nostro ordinamento non richiama mai la responsabilità genitoriale se non
nei termini indicati dall’art. 2048 c.c. sulla responsabilità dei genitori per il fatto illecito
posto in essere dai figli minori. Per contro, quando si passino considerare la
normativa di origine comunitaria o altre esperienze europee, è immediata la
percezione anche di un diverso significato; un significato che, appunto per la presunta
magia del termine – non vorrei dire acriticamente, perché in ogni caso evocativo
proprio della potestà – si vorrebbe trasporre anche nel nostro ordinamento,
immaginando chissà quali sviluppi.
Se Jacques de La Palice non fosse morto, sarebbe ancora in vita. Ci sono
affermazioni tanto evidenti da risultare sin troppo ovvie. Una di queste è la mia
convinzione che, salvo offrire soluzioni de iure condendo, non possiamo far dire
all’ordinamento ciò che a noi piacerebbe che dicesse, ma soltanto ciò che può risultare
dall’attività interpretativa dei fatti da esso presi in considerazione nelle diverse
disposizioni normative. Sicché, in tanto si potrà reputare innovativa la nuova
formulazione, in quanto in essa si possano individuare, a livello normativo, elementi
di novità rispetto alla precedente e tradizionale espressione potestà dei genitori.
Mi sembra, allora, essenziale, innanzitutto, accertare cosa si intenda nelle
normative richiamate per responsabilità genitoriale e, successivamente, verificare se,
effettivamente, la nuova terminologia porti con sé elementi sostanziali di novità o non
sia, invece, un mero elemento di armonizzazione linguistica fra legislazioni; una
verifica che potrebbe nascondere piú di una insidia allorquando si rifletta che la stessa
potestà dei genitori, diversamente da altri sistemi – quali, per esempio, quello tedesco
7 – non è direttamente definita dal nostro legislatore, ma è individuabile soltanto
indirettamente, attraverso la posizione attribuita e imposta ai genitori.
Tutto ciò, ovviamente, nei limiti consentiti in questa sede.
7
Il § 1626 del BGB, infatti, dopo aver specificato che «I genitori hanno il dovere e il diritto di
prendersi cura del figlio minorenne» precisa, con una formulazione che da noi si può rintracciare per certi
aspetti nell’art. 320 c.c., che «La potestà genitoria comprende la cura della persona del figlio (potestà sulla
persona) e del patrimonio del figlio (potestà sul patrimonio)».
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Fedele a questo disegno, non entro nel merito delle legislazioni europee, che, a
partire dal Children Act inglese del 1989, sempre piú spesso, e pur con qualche
significativa eccezione 8, fanno riferimento a questa nuova qualificazione. Fermo
l’attenzione sulle sole principali disposizioni internazionali e di origine comunitaria
che potrebbero avere una incidenza sui nostri disposti interni.
A livello di diritto internazionale, la prima volta che appare il ricorso alla
locuzione responsabilità genitoriale è nei princípi sesto e settimo della Dichiarazione
ONU dei diritti del fanciullo approvata il 20 novembre 1959; dichiarazione che
anticipa, come si vedrà di qui a poco, quella del 1989. Nel Principio sesto, si stabilisce
che «il fanciullo, per lo sviluppo armonioso della sua personalità ha bisogno di amore
e di comprensione. Egli deve, per quanto è possibile, crescere sotto le cure e la
responsabilità dei genitori e, in ogni caso, in atmosfera d’affetto e di sicurezza materiale e
morale»; nel Principio settimo, si afferma che «Il superiore interesse del fanciullo deve
essere la guida di coloro che hanno la responsabilità della sua educazione e del suo
orientamento». Tralasciando la distinzione che sembrerebbe emergere tra «cura» del
minore e «responsabilità» dei genitori, è agevole rilevare l’introduzione di due elementi
di novità: da un lato, un parametro valutativo, per dir cosí, a vantaggio del minore,
cioè il suo superiore interesse; dall’altro, una responsabilità dei genitori in funzione
educativa, che sia capace di orientare il minore nelle scelte che dovrà affrontare nella
vita. Una «responsabilità educativa e di orientamento» che, con specifico riguardo al
nostro sistema familiare dell’epoca, urta con quella funzione spersonalizzante
attribuita alla «patria» potestà, ancora correlata a non meglio precisati «princípi della
morale».
Da questa dichiarazione, si può dire, traggono origine sia la Convenzione ONU
sui diritti del fanciullo del 1989, sia la Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei
minori, adottata dal Consiglio d’Europa a Strasburgo il 25 gennaio 1996, due
convenzioni che, come è noto, si richiamano a tutti i «diritti umani» della persona, in
precedenza astrattamente prefigurati per tutte le persone e, ora, espressamente
affermati anche a vantaggio della persona minore di età. È vero, però, che nella
Convenzione europea sull’esercizio dei diritti dei minori, pur accennandosi piú volte
alla responsabilità genitoriale, non soltanto mai ne viene fornita una definizione, ma,
se si escludono i riferimenti al superiore interesse del minore 9, alla determinazione
della residenza, al c.d. diritto di visita e alla «facoltà di rappresentare il minore» 10, per
8
È il caso del già ricordato § 1626 del BGB che, come il nostro codice, qualifica la posizione dei
genitori ancora in termini di «potestà genitoria» (elterliche Sorge).
9
V., in particolare, gli artt. 1, comma 2, 6, lett. a), e 10.
10
V., infatti, i richiami alla responsabilità genitoriale che si trovano negli artt. 1, comma 3 (nel quale,
visto il particolare campo di operatività della Convenzione – concedere ai minori di anni diciotto «diritti
azionabili e facilitarne l’esercizio facendo in modo che possano, essi stessi o tramite altre persone od organi,
essere informati e autorizzati a partecipare ai procedimenti che li riguardano dinanzi ad un’autorità
giudiziaria» (art. 1, comma 2) – si fa riferimento particolare alle questioni riguardanti la residenza e il «diritto
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rintracciare elementi utili all’individuazione di un significato, si deve fare ricorso ai
diritti riconosciuti dalla Convenzione stessa ai minori (artt. 3 ss.), diritti, tuttavia,
relativi alla fase processuale.
Il documento internazionale nel quale, non soltanto si affaccia la locuzione
responsabilità dei genitori, ma se ne può anche individuare un accenno di contenuto
è, invece, la ricordata Convenzione ONU sui diritti del fanciullo del 1989. Se, infatti, è
vero che, in questa Convenzione, direttamente destinata all’affermazione in capo al
minore di tutti i diritti riconosciuti alla persona adulta, la responsabilità dei genitori
non è individuata attraverso una definizione, è indubbio comunque che, di là dalla
necessità anche per i genitori di rispettare i diritti del figlio (ciò che, evidentemente,
non può non ripercuotersi sull’esercizio delle funzioni genitoriali), si forniscono, nel
corpo di diverse disposizioni, non pochi elementi sulla base dei quali è possibile
immaginare cosa si possa intendere per tale responsabilità dei genitori. Ci si accorge,
cosí, che l’art. 5 della Convenzione, riconosce ai genitori il dovere di dare al minore,
«in maniera corrispondente allo sviluppo delle sue capacità, l’orientamento e i consigli
adeguati all’esercizio dei diritti che gli sono riconosciuti dalla […] Convenzione»
stessa; che l’art. 18, riferendosi espressamente all’educazione e allo sviluppo del figlio,
specifica che, nello svolgimento di questi compiti (precisamente individuati con gli
artt. 27 ss.) 11, i genitori, di comune accordo, «devono essere guidati principalmente
dall’interesse preminente del fanciullo»; e che l’art. 27 riconduce ai genitori «la
responsabilità fondamentale di assicurare, entro i limiti delle loro possibilità e dei loro
mezzi finanziari, le condizioni di vita necessarie allo sviluppo del fanciullo», ciò che fa
sottolineare in dottrina che deve essere l’ambiente di vita ad adeguarsi al minore e non
viceversa.
Con l’affermazione dei diritti del fanciullo, i contenuti di questi diritti non
mutano. Poiché rivolti a un soggetto che, presuntivamente, versa in una situazione di
debolezza diversa rispetto a quella nella quale potrebbe versare un adulto, ciò che
muta è il rapporto del destinatario del diritto con il diritto stesso. Il «fanciullo» –
precisamente individuato nel minore di anni diciotto – ha bisogno, specialmente nella
piú tenera età, di garanzie e di precise affermazioni, di tutela e di protezione allo
scopo di superare gli ostacoli che si dovessero frapporre al godimento di quei diritti. I
di visita»), 2, lett. b), 4, comma 1 (nel quale si fa riferimento alla «facoltà di rappresentare il minore»), 6, lett.
a), 9, comma 1, e 10 (ancora riferito alla «facoltà di rappresentare il minore»).
11
L’art. 29, comma 1, in particolare, cosí recita: «Gli Stati parti convengono che l’educazione del
fanciullo deve avere come finalità: a) favorire lo sviluppo della personalità del fanciullo nonché lo sviluppo
delle sue facoltà e delle sue attitudini mentali e fisiche, in tutta la loro potenzialità; b) sviluppare nel fanciullo
il rispetto dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali e dei principi consacrati nella Carta delle Nazioni
Unite; c) sviluppare nel fanciullo il rispetto dei suoi genitori, della sua identità, della sua lingua e dei suoi
valori culturali, nonché il rispetto dei valori nazionali del paese nel quale vive, del paese di cui può essere
originario e delle civiltà diverse dalla sua; d) preparare il fanciullo ad assumere le responsabilità della vita in
una società libera, in uno spirito di comprensione, di pace, di tolleranza, di uguaglianza tra i sessi e di amicizia
tra tutti i popoli e gruppi etnici, nazionali e religiosi e delle persone di origine autoctona; e) sviluppare nel
fanciullo il rispetto dell’ambiente naturale».
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genitori sono i primi destinatari di questi compiti e funzioni, da svolgersi in
considerazione del graduale sviluppo del figlio, della sua capacità di discernimento, ed
è in questa prospettiva che viene loro riconosciuta una precisa responsabilità.
Si può registrare, dunque, in estrema sintesi, che la responsabilità genitoria
attribuisce ai genitori, sotto il profilo personale, una funzione educativa e, sotto il
profilo materiale, una funzione di mantenimento; funzioni entrambe, in quanto
reputate espressamente essenziali a tal fine, finalizzate allo sviluppo della personalità
del figlio ed entrambe da concretizzarsi non secondo un modello autoritario, ma,
proprio per il riconoscimento dei diritti ai quali s’è fatto cenno, attraverso
«orientamenti» e «consigli», corrispondentemente al grado di sviluppo personale del
figlio. Ai genitori, in una parola, è attribuito il compito di individuare le capacità e il
graduale sviluppo personale del figlio per modo da promuoverne le potenzialità
preparandolo alle responsabilità della vita.
4. L’esigenza di definire piú o meno precisi «statuti di responsabilità» attraverso
i quali individuare compiti giuridicamente rilevanti dei genitori nei confronti dei figli si
manifesta anche in Europa. Non soltanto i singoli Stati, è l’Unione stessa che inizia ad
avvertire la necessità di uniformare discipline che presentano ancora elementi di
distinzione piú o meno marcati. Il tentativo europeo è graduale, anche per le
resistenze di alcuni Stati 12, e – si può ben dire – per molti aspetti è ancora in via di
definizione.
Per quanto attiene, in particolare, alla responsabilità genitoriale, a livello
comunitario, le sue prime apparizioni risalgono agli inizi di questo secolo e si
manifestano in alcuni regolamenti che, destinati a disciplinare gli ambiti di
competenza, riconoscimento ed esecuzione delle decisioni in materia di potestà dei
genitori sui figli, discorrono di parental responsability 13. È vero, tuttavia, per un verso,
che in questi primi documenti, se si prescinde dal principio piú o meno esplicito di
salvaguardare il «preminente» interesse del minore, non si fornisce ancora alcuna
precisazione sul significato da attribuire all’espressione e, per un altro verso, che
parental responsability è tradotto nei testi italiani ancora con la formula potestà
genitoriale.
È nel 2003 (con l’art. 2, n. 7, del regolamento Ce n. 2201/2003, del 27
novembre 2003, meglio conosciuto come Bruxelles II) che, per contro, si affaccia un
seppur embrionale significato dell’espressione responsabilità genitoriale, quale insieme
dei diritti e dei doveri «di cui è investita una persona fisica o giuridica in virtú di una
decisione giudiziaria, della legge o di un accordo in vigore riguardanti la persona o i
12
Mi sembra inutile ricordare che la nostra stessa dottrina stenta a immaginare un «diritto europeo
della famiglia».
13
Il riferimento è, in particolare, al regolamento Ce n. 1347/2000 del 29 maggio 2000, relativo alla
competenza, al riconoscimento e all’esecuzione delle decisioni in materia di potestà dei genitori sui figli di
entrambi i coniugi.
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beni di un minore», aggiungendosi che «Il termine comprende, in particolare, il diritto
di affidamento e il diritto di visita». Una formulazione, come si può agevolmente
notare, volutamente generica, essendo finalizzata a porre le basi del processo di
armonizzazione europea anche in ambito familiare, e che, costatato il suo campo di
operatività 14, fa specifico riferimento all’«affidamento» e al «diritto di visita»,
espressamente individuandosi (art. 2, n. 10), con il termine affidamento, «i diritti e
doveri concernenti la cura della persona di un minore, in particolare il diritto di
intervenire nella decisione riguardo al suo luogo di residenza» e, con l’espressione
diritto di visita, «il diritto di condurre il minore in un luogo diverso dalla sua residenza
abituale per un periodo limitato di tempo».
Accanto alla generica definizione presente nel regolamento Bruxelles II –
formulazione alla quale dovremmo correttamente fare riferimento – nel 2007, si
proiettano all’attenzione di quanti si interessano al tema i lavori sulla responsabilità
genitoria della Commission on European Family Law, costituita allo scopo piú generale di
elaborare, nell’ambito di quella accennata esigenza di armonizzazione e in
considerazione pur sempre degli orientamenti consolidati negli ordinamenti dei
diversi Paesi, i «Princípi del diritto europeo della famiglia». Si tratta di princípi che, pur
destinati ai legislatori nazionali e, per ciò, non immediatamente applicabili, possono
essere tuttavia utili per individuare almeno una linea di tendenza interpretativa.
«La responsabilità genitoria» – si legge nel documento – «è l’insieme di diritti e
doveri finalizzati a soddisfare e garantire l’interesse del minore» e comprende: «a) la
cura, la tutela e l’educazione; b) la conservazione dei rapporti personali; c) la fissazione
della residenza; d) l’amministrazione del patrimonio; e) la rappresentanza legale»
(Principio 3:1). Ai fini che qui interessano, particolarmente significativa di questa
responsabilità genitoria – ora definita piú nel dettaglio – è la «cura, la tutela e
l’educazione» del minore che, per espressa indicazione (Principio 3:19) devono essere
svolte «conformemente alla sua personalità e alle esigenze legate al suo sviluppo». Un
compito che, a ben vedere, molto si avvicina, se non nella forma, nella sostanza, al
dovere imposto ai genitori dall’art. 147 c.c. di tener conto delle capacità,
dell’inclinazione naturale e delle aspirazioni dei figli, un dovere che, tenuto conto degli
anni in cui è stato introdotto – 32 anni prima dei ricordati lavori della Commission on
European Family Law – ben può mettere in evidenza la lungimiranza di quel legislatore.
Nella sintassi giuridica, ai doveri corrispondono, di regola, diritti. Sicché, a
questa posizione dei genitori corrispondono una serie di prerogative e diritti
espressamente riconosciuti in capo al minore: a) l’individuazione della realizzazione
del suo interesse quale criterio «principale» di valutazione (Principio 3:3); b) il
riconoscimento di una sfera di autonomia subordinata alle sue capacità e alle sue
esigenze di agire autonomamente (Principio 3:4); c) l’attribuzione del diritto di essere
14
Individuato nelle «materie civili, indipendentemente dal tipo di organo giurisdizionale» (punto 7 dei
Considerando), ciò che determina una disciplina della responsabilità genitoriale limitata alla fase processuale,
nonostante a essa vi si dedichi una intera sezione (artt. 8 ss.).
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informato e sentito, nonché di esprimere una sua opinione in tutte le questioni che lo
riguardano, conformemente alla sua età e maturità (Principio 3:6).
La titolarità di questa «responsabilità» è conferita sia ai genitori (Principio 3:8)
sia a terzi (Principio 3:9) e, relativamente ai genitori e con riferimento alle «decisioni
importanti relative a questioni quali l’educazione, il trattamento medico, la residenza
del minore o la cura del suo patrimonio» (Principio 3:12), è esercitata congiuntamente
«per quanto possibile» (Principio 3:11). Resta ferma la possibilità concessa ai genitori
di «concludere un accordo sull’esercizio della responsabilità genitoria» (Principio 3:13)
15 e di agire non soltanto disgiuntamente nelle questioni quotidiane (Principio 3:12),
ma anche autonomamente, se e nei limiti entro i quali vi sia un accordo in tal senso o
una decisione dell’autorità competente che lo consenta (Principio 3:15).
Come ho accennato, la responsabilità genitoria può essere riconosciuta, in tutto
o in parte, anche a terzi, in aggiunta a quella dei genitori o in loro vece (Principio
3:17), estendendosi anche al partner del genitore con il quale il minore convive, ma
soltanto per le decisioni quotidiane e sempre che l’altro genitore non si opponga
(Principio 3:18). Previsioni, queste ultime, che sebbene ancora in fase embrionale,
sono pur tuttavia destinate a situazioni alle quali il nostro sistema familiare non fa
alcun accenno e che, in quelle poche spie normative che indirettamente vi possono
fare riferimento, non sempre ricevono una risposta soddisfacente 16.
I princípi della Commission on European Family Law continuano, poi, con
l’elencazione dei contenuti specifici della responsabilità genitoria. Si tratta di principi
che si richiamano alla necessità, ancora una volta, di rispettare la personalità del
minore e le esigenze legate al suo sviluppo, e che – detto in estrema sintesi – regolano,
non molto diversamente da quanto previsto dagli artt. 320 ss. c.c., i poteri di
amministrazione del patrimonio del minore e la sua rappresentanza, nonché i rapporti
personali con i genitori e i suoi parenti, l’estinzione e la «revoca» della responsabilità
genitoria, quest’ultima possibile quando dal comportamento o dall’inerzia di uno o di
entrambi i genitori consegua «un grave pericolo per la persona o il patrimonio del
minore».
5. Tutto questo rilevato, seppure cosí sinteticamente, siamo, allora, di fronte a
ciò che si potrebbe meglio qualificare in termini di responsabilità genitoria?
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Sui contenuti del quale, tuttavia, non si scende nei particolari, pur rilevandosi la necessità del
controllo dell’autorità giudiziaria. Sembra verosimile, nondimeno, pensare che questi non possano oltrepassare
i limiti delle modalità di concretizzazione delle «responsabilità» attribuite ai genitori.
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Penso, per esempio, in tema di usufrutto legale dei genitori, ancora all’art. 328 c.c. che, in relazione
al passaggio a nuove nozze del genitore, non soltanto esclude l’altro genitore e gli eventuali figli di questo, ma
impone «di accantonare in favore del figlio quanto risulti eccedente rispetto alle spese per il mantenimento,
l’istruzione e l’educazione di quest’ultimo» e al mutamento di funzione dell’usufrutto stesso, prima destinato,
invece, al mantenimento della famiglia e all’istruzione ed educazione di tutti i figli (art. 324, comma 2, c.c.).
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Attesi i princípi appena accennati, a tutta prima non posso non rilevare una
analogia, per dir cosí, di massima con la disciplina della potestà quale risulta dal nostro
quadro normativo.
La potestà è esercitata congiuntamente dai genitori (art. 316 c.c.), tenendo
conto della capacità, delle aspirazioni e delle inclinazioni naturali della prole (art. 147
c.c., oggi implicitamente richiamato dal novellato art. 155 c.c.); i figli devono
mantenere rapporti continuativi ed equilibrati con entrambi i genitori (diritto, come
nella normativa europea, individuato nel nostro ordinamento in sede di patologia del
rapporto coniugale dall’art. 155 c.c., ma evidentemente, esistente a maggior ragione
nella fisiologia del rapporto familiare); i genitori possono disgiuntamente esercitare la
potestà per le questioni quotidiane (affermazione direi quasi pleonastica), mentre
d’accordo devono essere prese le decisioni relative a questioni di particolare
importanza (arg. ex art. 316, comma 3, c.c.); al minore, infine, con una sempre
maggiore frequenza anche da parte del legislatore, è ormai riconosciuta una certa
autonomia e, in non poche circostanze, deve egli stesso essere ascoltato.
Questi princípi, che si potrebbero definire fondamentali del rapporto genitorifigli, rintracciano le loro radici nel disposto costituzionale che, non per nulla,
vorrebbero attuare. Con l’avvento della Costituzione, si formalizza un modello di
rapporti familiari antitetico rispetto a quello prefigurato dal codice del 1942 e si
modifica, conseguentemente, anche il rapporto genitori-figli. Da relazioni fondate
sulla gerarchia dei ruoli e sulla autorità paterna e maritale, la potestà si esercita in un
rapporto contraddistinto da una funzione che, prima ancora di essere di gestione
patrimoniale, è educativa, tant’è che, proprio per esaltare questa nuova funzione, non
manca nemmeno chi, all’indomani della riforma del 1975, tende ad escludere dal
contenuto della potestà il dovere di mantenimento per limitarlo ai soli doveri di
istruzione ed educazione. Se già precedentemente alla riforma del 1975 la
giurisprudenza piú attenta al disposto costituzionale preannunciava soluzioni piú
conformi ai princípi fondamentali dell’ordinamento, anche con l’ausilio della nuova
normativa ordinaria, si può sottolineare che i doveri collegati ai genitori si concretano,
essenzialmente, nella promozione della personalità del figlio, con il soddisfacimento
delle sue esigenze materiali, morali e affettive.
Non è difficile cogliere il mutamento sostanziale del rapporto genitori-figli
rispetto al quadro offerto dal legislatore del 1942. All’interno della famiglia, si
eliminano le forme autoritarie – come del marito cosí, e conseguentemente, del padre
– a vantaggio di un rapporto in funzione educativa che sul dialogo e sulla
collaborazione fonda una correlazione di persone, tutte con pari dignità, in una
comunione di vita effettivamente capace di porsi quale strumento per lo sviluppo
della personalità di ciascun membro. Sicché, pur non dovendo, necessariamente e in
ogni tempo, subordinare le decisioni alle volontà – talvolta confuse e velleitarie –
manifestate dal minore, i genitori hanno il dovere, in ogni caso, di rispettare
l’individualità del figlio, sí da porre le condizioni per consentirgli di sviluppare e di
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accrescere una personalità completa ed armoniosa, che attualizzi tutte le sue
potenzialità. In una parola, i genitori hanno quella responsabilità di orientamento e di
consiglio che si è avuto modo di incontrare nella Convenzione dell’ONU sui diritti
del fanciullo. Si può ben sottolineare, allora, che la situazione di potestà riconosciuta
ai genitori costituisce uno degli «elementi» costitutivi della complessa posizione
genitoriale e, in quanto tale, si contrappone non a una mera situazione di soggezione,
ma a una altrettanto complessa posizione del figlio 17: l’una e l’altra destinate a
modificarsi in uno con l’evolversi della crescita personale del figlio. Non per nulla, la
dottrina piú recente non manca di sottolineare che, se non scompaiono del tutto,
sicuramente, a grado a grado, si attenuano le forme di pretesa dei genitori nei
confronti dei figli, sopravvivendo, in buona sostanza, soltanto quelle del rispetto e
dell’osservanza delle regole di convivenza.
Il dovere di rispetto sancito ancora oggi dall’art. 315 c.c. mi sembra
particolarmente significativo in questa nuova prospettiva. Personalmente, sono
convinto che, una volta eliminato il dovere di onorare quale retaggio di una visione
religiosa del rapporto, il dovere di rispetto del figlio si debba affiancare al dovere dei
genitori di tener conto delle capacità, delle inclinazioni naturali e delle aspirazioni dei
figli (art. 147 c.c.). Si tratta di formule, quelle espresse dalle disposizioni richiamate,
che, sebbene con linguaggio diverso, esprimono, a ben vedere, uno stesso concetto.
Le due disposizioni sono complementari proprio in quella visione comunitaria alla
quale ho fatto cenno. L’una – l’art. 147 c.c. – utile a dare significato all’altra – l’art 315
c.c. – altrimenti relegata, come quasi unanimemente si reputa in dottrina e in
giurisprudenza, nel limbo dell’irrilevante per assumere nulla piú che un mero
significato morale. L’una e l’altra, combinate nel rapporto familiare, indicano la
necessità di rispettare le personalità dei figli da parte dei genitori (l’art. 147 c.c.) e di
questi da parte dei figli (l’art. 315 c.c.), perché è soltanto il reciproco rispetto che può
rendere possibile la realizzazione della funzione all’attuazione della quale, per espresso
disposto costituzionale (art. 2 cost.), è chiamata la comunità familiare: essere lo
strumento primo e fondamentale per la realizzazione della personalità cosí dei genitori
come dei figli.
6. In un convegno da me organizzato lo scorso anno a Verona18, uno dei
relatori, evocando il detto «una rondine non fa primavera», si chiedeva quante rondini
fossero necessarie per aversi primavera e concludeva rilevando che, come in realtà noi
tutti sappiamo, non sono le rondini a far sí che arrivi la primavera, essendo le rondini
soltanto l’effetto di essa.
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Una complessità determinata, sotto altro verso, anche dalla possibile presenza di altri figli, gli
interessi dei quali potrebbero anche confliggere tra loro: circostanza, quest’ultima, molto spesso sottovalutata
se non, addirittura, nemmeno presa in considerazione.
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Contratti fra imprese e tutela dell’imprenditore debole (Verona, Facoltà di Giurisprudenza, 16 e 17
settembre 2011).
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Mi sembra che questa considerazione possa valere anche con riferimento al
tema in esame. I termini – si legge in molti lavori anche recenti in argomento – non
sono mai utilizzati a caso (io direi, però: non si dovrebbero mai utilizzare a caso),
lasciando quasi intendere, per ciò che concerne in particolare l’oggetto di queste
riflessioni, che il passaggio dalla potestà alla responsabilità genitoria comporti di per sé
anche una modificazione sostanziale delle situazioni soggettive dei genitori e dei figli.
In realtà – almeno a mio parere – in questo modo si corre il pericolo di confondere,
appunto, la causa con l’effetto, attribuendosi alla nuova espressione quella forza
magica prima evocata. A ben vedere, come le rondini con la primavera, cosí il
contenuto della potestà genitoria piú attento alle aspirazioni e ai bisogni della prole,
dunque alla loro personalità, non è, né può essere, la conseguenza della nuova
terminologia, peraltro ancora estranea alle disposizioni che il codice destina al
problema; è la nuova terminologia a porsi quale effetto del nuovo contenuto che, a
grado a grado, ha assunto la potestà dei genitori nel corso degli anni, a iniziare forse
anche prima della riforma del 1975 sotto la spinta di sempre piú convinti e consolidati
orientamenti giurisprudenziali e dottrinali.
Le parole indubbiamente sono significative, e la locuzione responsabilità dei
genitori, sotto questo aspetto, mi sembra senz’altro preferibile. Prima delle parole,
tuttavia, ciò che maggiormente mi sembra debba rilevare è la sostanza delle cose.
Certo, come si sottolineava già immediatamente dopo l’entrata in vigore della riforma
del 1975, non siamo (ancora) al de liberis liberandi: tutto è perfettibile. Non vorrei, però,
che anche noi fossimo paragonabili a quei giovani incompresi da Hercule Poirot, i
quali, cosí tanto intenti a battere i pugni sulla porta, non si accorgono che la porta è
aperta.
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