Il canto
dell’anima
A cura di
Gastón Fournier-Facio
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di G Sinopoli
La Cultura
1534
DELLO STESSO CURATORE
come autore
L’inizio e la fine del mondo. Nuova guida al «Ring» di Richard Wagner
(con Alessandro Gamba)
curatele
Gustav Mahler. Il mio tempo verrà
Claudio Abbado. Ascoltare il silenzio
Canti di viaggio (di Hans Werner Henze)
Il canto dell’anima
Vita e passioni di Giuseppe Sinopoli
A cura di Gastón Fournier‑Facio
Esperite le pratiche per l’acquisizione dei diritti di pubblicazione delle
immagini, la casa editrice rimane a disposizione di quanti avessero a
vantare ragioni in proposito.
© il Saggiatore S.r.l., Milano 2021
Sommario
gastón fournier‑facio
Prefazione
11
silvia cappellini sinopoli
Saluto
15
gastón fournier‑facio e giovanni sinopoli
Cronologia della vita di Giuseppe Sinopoli
17
L’UOMO UNIVERSALE
sandro cappelletto
Il cuore e la piuma
53
mario messinis
Il compositore: da Donatoni a Berg
L’ultima partitura: l’opera Lou Salomé
64
73
dino villatico
Die fröhliche Musik. Tentativo di leggere con gli occhi di
Nietzsche la non‑Tragedia
76
pietro bria
Freud, Sinopoli e la psicoanalisi
101
frederick mario fales
L’archeologia: una passione vitale
114
luciano berio
Ricordo
133
michele dall’ongaro
Il custode e le iene
134
IL DIRETTORE
sergio vela
Det uudsulkkelige (L’inestinguibile) (1978‑2001)
141
giorgio rampone
Progettualità, speranza e utopia di Giuseppe Sinopoli,
direttore d’orchestra in Italia (1975‑2000)
154
paolo baratta
Gli anni a Roma: un artista e la città (1983‑2000)
224
ninni panzera
Opera e Mito al Teatro Antico di Taormina (1988‑1997,
2005‑2010)
227
carlo fontana
Omaggio
230
riccardo muti
Uno splendido rapporto
232
paolo arcà
Alla Scala (1991‑2005)
233
gastón fournier‑facio, elena minetti
Il Maestro e i giovani
235
david whelton
Alla Philharmonia Orchestra di Londra (1983‑1994)
245
guido maria guida
Al Festspielhaus di Bayreuth: emozioni, ricordi, aneddoti
(1985‑1994)
268
leonetta bentivoglio
Il signore del Ring (2000)
282
eberhard steindorf
Alla Staatskapelle di Dresda (1987‑2001)
285
alard von rohr
Rivelazione internazionale
alla Deutsche Oper Berlin (1980‑2001)
Testimonianza raccolta da Gastón Fournier‑Facio
307
karl‑heinz bröβling
Morte a Berlino (1980‑2001)
Testimonianza raccolta da Gastón Fournier‑Facio
313
LE AFFINITÀ ELETTIVE
antonio rostagno
L’intellettuale Sinopoli e l’intellettuale Verdi
La psicoanalisi di Puccini secondo Sinopoli: musica e idee
323
365
sandro cappelletto
La scena invisibile: mito, memoria, rappresentazione
nel teatro musicale di Richard Wagner (gennaio 1999 ‑
settembre 2000)
388
gastón fournier‑facio
Mahler, Freud e la pulsione di morte
400
giangiorgio satragni
Strauss, attraverso Nietzsche
441
INTERVISTE
alberto sinigaglia
Il cammino e il canto dell’anima (1997)
463
giangiorgio satragni
A colloquio con Giuseppe Sinopoli (1997)
477
leonetta bentivoglio
Verdi e La forza del destino (1998)
489
carmelo di gennaro
L’ultima intervista: Il cavaliere della rosa, Turandot,
la laurea in archeologia (16 marzo 2001)
494
SCRITTI MUSICALI DI GIUSEPPE SINOPOLI
Autoritratto (1975)
Sogno e memoria nell’Incompiuta di Schubert (1984)
Alcune note su sanità e malattia nell’invenzione
schumanniana a proposito della Seconda Sinfonia (1984)
Individuazione e nascita della coscienza
nelle trasformazioni simboliche del personaggio
di Kundry nel Parsifal di Wagner (1996)
Humanitas quale rinuncia e compassione:
valori e simbolismo in La donna senz’ombra
di Hugo von Hofmannsthal e Richard Strauss (1997)
Wagner o la musica degli affetti (2001)
505
510
512
515
536
558
CATALOGHI
a cura di giovanni sinopoli
Il sito web giuseppesinopoli.com
Catalogo delle opere di Giuseppe Sinopoli
Discografia
Videografia
575
580
607
657
Gli autori
Ringraziamenti
Crediti
Indice dei nomi e delle opere
Indice delle opere di Giuseppe Sinopoli
669
673
675
677
697
Il canto dell’anima
frederick mario fales
L’archeologia: una passione vitale
1
In una conferenza di qualche anno fa presso il Fo‑
rum Austriaco di Cultura di Roma per celebrare la
nascita di Sigmund Freud, ricordavo come Freud
e Giuseppe Sinopoli abbiano avuto e dimostrato in
comune una vera e propria «passione per l’arche‑
ologia». Oggigiorno, rivedendo questa asserzione,
va sottolineato come il concetto e la prassi di «ar‑
cheologia» mostrino di aver subito ampliamenti a
dismisura e a tutto campo, sì da condurre in tem‑
pi recenti questo orizzonte delle scienze sociali e
umane verso sfere semantiche e applicative non
solo del tutto remote da quelle concepite da Freud
fin dal 1896,1 ma persino diverse da quelle accessi‑
bili a Sinopoli meno di due decenni fa.2
Intanto, «archeologia» ha assunto varie connotazioni nuove, an‑
che contrastive, persino contraddittorie, presso il pubblico di cultori
dell’Antichità di vario ordine e grado, dai meri frequentatori ai veri e
propri «addetti ai lavori». Un’informazione di base sulla storia e le tec‑
niche dell’archeologia e sul suo ruolo nella difesa del patrimonio cul‑
turale si trova ormai anche all’edicola della stazione; eppure, non passa
giorno che, proprio da giornali e telegiornali, apprendiamo come, ovun‑
que nel mondo, siti archeologici vengano distrutti, ora per ignoranza e
maldestra avidità, ora per eventi contingenti (lavori agricoli e industria‑
li, appalti criminosamente deviati), ora per eventi bellici.3 Lo studio del
mondo antico – come ci ricordano ad esempio le lucide analisi di Salva‑
tore Settis4 – non è più considerato uno strumento formativo priorita‑
12
L’uomo universale
rio per lo studente di qualsiasi livello; ma questa stessa Antichità viene
al contempo usata a ogni piè sospinto come tradizione fondante per ri‑
vendicare particolarità identitarie, etnico‑linguistiche e culturali, tra
nazioni o addirittura tra cantoni regionali.5 Vengono inaugurati con fie‑
rezza nuovi musei archeologici anche nei più remoti borghi, come segno
di modernità culturale e per attrarre un turismo d’élite verso i contesti
passati della propria regione; ma al contempo i proventi del commercio
clandestino di antichità, in una filiera variegata dal «tombarolo» loca‑
le al grande collezionista internazionale, sono ormai secondi solamen‑
te a quelli del narcotraffico – e si sospetta che un comparto malavitoso
si appoggi all’altro con allegra impunità.
Inoltre, a livello più teorico, il concetto stesso di «archeologia» in va‑
rie sfumature è ormai divenuto una componente del reticolo di artico‑
late discussioni, spesso rimaste del tutto aperte, su una serie di aspetti
storici e storico‑culturali che investono non solo l’Antico, ma soprat‑
tutto si rifrangono sulla valutazione del nostro tempo. «Archeologia» è,
ad esempio, un tema di fondo per chi cerchi tracce di una possibile glo‑
balizzazione mondiale di tipo tecnico o economico già nell’Antichità.6
«Archeologia» poi consente, insieme ad altre discipline (antropologia,
storia della scienza, ecc.), di riflettere sulla possibile scelta tra parametri
di giudizio «nostri», sovente concepiti come assoluti (= ‑etici), e altri ben
diversi, tipici delle singole culture delle zone studiate (= ‑emici).7 Anco‑
ra, l’archeologia è oggi riconosciuta come pedina importante dell’atteg‑
giamento colonialistico verso i paesi extraeuropei fin dall’Ottocento, ad
esempio tramite l’«Orientalismo» con i suoi obiettivi «civilizzanti» di ri‑
costruzione della storia antica del Vicino Oriente: un atteggiamento che
tuttavia si ritrova oggi combattuto da ideologie locali («occidentalisti‑
che») a base religiosa, fiere del proprio senso del tempo e della propria
visione degli umani destini (sì da sfociare, ad esempio, nella distruzio‑
ne della Palmira romana da parte dell’Isis).8
Infine, e più concretamente, l’archeologia ha ormai subito una modi‑
fica tecnica nuova, non‑invasiva, in scenari mondiali sempre più estesi,
sulla base dell’assunto che lo scavo archeologico distrugge per sua stes‑
sa natura i siti antichi una volta per sempre, ponendosi dunque come
procedura operativa non replicabile: e per ciò stesso estranea alle regole
di base dell’attività scientifica.9 Tale scelta «sul campo» – che si pone del
tutto in contrasto con l’ossessiva attenzione passata (attuata dall’Illumi‑
nismo in poi) per monumenti e reperti da esporre o prelevare – com‑
porta l’odierna rinuncia parziale o totale allo scavo e all’estrazione dei
reperti dal suolo; quest’ultimo viene invece osservato unicamente «da
L’archeologia: una passione vitale
13
fuori», con una somma di strumenti di visione/misurazione elettroni‑
ca (geomagnetica, georadar, geoelettricità, telerilevamento con uso di
fotografia aerea/satellitare, ecc.), tali da mettere in luce e poi georefe‑
renziare le potenzialità antropiche (insediative ed economiche) antiche
celate sotto la superficie, a livello di singole località o di interi territori.
In sostanza, questo insieme di azioni, temi e indirizzi di ricerca – di
cui ho evocato solamente alcuni esempi – presenta ormai in tutta evi‑
denza scarsissimi rapporti con l’archeologia ai suoi eroici primordi, pra‑
ticata con metodi di indagine ancora in via di definizione – a Troia, a
Efeso – sulla cui base Freud forgiò le sue ben note analogie tra lo scavo
dell’Antico e l’esame subsuperficiale della mente («saxa loquuntur!»). Ma
esso è altresì ben diverso dalla visione dell’archeologia extra‑europea (e
specie egizia) come pietra fondamentale di un confronto culturale con
il pensiero occidentale, di matrice greca, che Giuseppe Sinopoli tentò di
compiere attraverso media e attività diverse, come diremo più avanti.
Al contrario, del binomio iniziale, è l’aspetto della «passione» per l’o‑
rizzonte archeologico a rappresentare – a mio avviso – una parola chiave
su cui mettere l’accento in questa sede. È infatti il modo in cui il mondo
antico fu una componente analogica e metaforica fondamentale, situa‑
ta entro il complesso incrocio tra vita privata, elaborazioni teoriche, for‑
mazione giovanile e realizzazioni della maturità, che mi sembra l’aspetto
meno investigato e nell’insieme più interessante per istituire un confron‑
to tra questi due grandi intellettuali, posti a cavallo tra secoli successivi.
E proprio il doppio passaggio secolare, precluso a Freud – quello tra l’Ot‑
tocento e il Novecento, e quello tra Novecento e Duemila – ci sarà d’aiuto,
come una delle chiavi interpretative per intendere la visione estremamen‑
te originale dell’Antico da parte di Sinopoli.
Se l’interesse di Freud per l’Antico è stato oggetto da vari decenni di
attenzione seria e meditata, quello di Giuseppe Sinopoli non è stato fi‑
nora trattato sistematicamente – almeno in forma scritta. Altrimenti
detto, se si riesce ormai a valutare il raggio, l’esten‑
sione e le molteplici implicazioni del tema «Freud
e l’archeologia», sulla base di una serie ampia di
contributi a riguardo,10 con Sinopoli ci trovia‑
mo – fatalmente – a muovere i primissimi passi in
materia. Un domani, certo, le cose staranno diver‑
samente, con la pubblicazione dei vasti archivi e
materiali del Maestro; ma per ora converrà fare i
2
conti con la difficoltà di storicizzare appieno una
14
L’uomo universale
figura che ci ha tragicamente lasciato da pochi anni, peraltro stroncato
nel pieno del proprio tragitto intellettuale.
Insomma, l’analisi di Sinopoli come grande «appassionato» di arche‑
ologia sarà necessariamente più rada e più delicatamente chiaroscurale
di quella che si può istituire per Freud. Ma proprio da Freud vorrei parti‑
re, ricordando di aver notato, nell’ultimo incontro personale che ebbi con
Sinopoli, che nella biblioteca del suo studio a Roma l’opera omnia in die‑
ci volumi del padre della psicoanalisi era collocata appena sopra l’altret‑
tanto monumentale Dizionario assiro dell’Università di Chicago – cioè, lo
strumento professionale per eccellenza di uno studioso militante del Vici‑
no Oriente antico. Scaffali distinti, dunque, ma contigui; e vorrei partire
da questa «istantanea» logistica per riuscire a cogliere alcune linee guida
incentrate sul mondo antico nell’ambito della poliedricità degli interessi
di Sinopoli – una poliedricità che, come il presente volume dimostra, su‑
perava di gran lunga quella di Freud stesso.
Giuseppe Sinopoli, ricordiamolo,
dopo i primi studi di organo intra‑
presi da ragazzo con Alessandro
Gasparini a Messina, si era forma‑
to musicalmente al Conservato‑
rio «Benedetto Marcello» della sua
città natale, Venezia; ma in quello
stesso torno di tempo (i tardi anni
sessanta) studiava contemporanea‑
mente all’Università di Padova, ot‑
tenendo in successione una laurea in Medicina e una specializzazione in
Psichiatria. Sono anni di fervida attività, di pendolarismi accaniti tra se‑
di e discipline diverse, in cui è l’inesauribile entusiasmo del giovane Si‑
nopoli a fare da unico collante; lo vediamo così frequentare il festival di
Darmstadt e i seminari di composizione con i grandi dell’avanguardia
musicale, György Ligeti e Karlheinz Stockhausen, mentre in seguito, tra
il 1969 e il 1973, studierà ancora presso l’Accademia Chigiana di Siena
con Franco Donatoni.
Solo a questo punto, agli inizi degli anni settanta, Sinopoli compie
la scelta decisiva di dedicarsi professionalmente alla musica. Il resto del
decennio trascorre – si fa per dire – tra la frequentazione del concitta‑
dino Bruno Maderna poco prima della morte di costui, l’insegnamen‑
to di musica contemporanea ed elettronica a Venezia, la formazione di
un gruppo musicale intitolato a Maderna stesso e un furore di attivi‑
3
L’archeologia: una passione vitale
15
tà compositiva. Ed è come conclusione di questo periodo che emerge il
primo grande raccordo con il mondo tra la musica e la psicoanalisi: in‑
fatti l’opera di Sinopoli Lou Salomé – incentrata sulla figura della bel‑
la intellettuale russo‑tedesca che fu legata a Rilke e Nietzsche e divenne
paziente, confidente e giovane seguace di Freud – viene rappresentata in
prima assoluta alla Bayerische Staatsoper di Monaco il 10 maggio 1981.
Cos’era successo nel frattempo? Era successo che Sinopoli aveva
«scoperto» Vienna, dove si era recato per studiare direzione d’orche‑
stra con l’ormai anziano Hans Swarowsky, il maestro di Zubin Mehta,
Claudio Abbado e molti altri. E si era così rivelato anche a lui, per il tra‑
mite di un duro e profondo tirocinio musicale, linguistico e letterario,
il fascino della Bildung germanofona della seconda metà dell’Ottocento,
quella stessa che aveva incantato Freud e vari suoi contemporanei Ostju‑
den, dando loro l’ambizione di diventare «professori tedeschi». E anche
Sinopoli, come un meridionale di Venezia, e dunque non meno creati‑
vamente déraciné di costoro, riuscirà nell’intento che il moravo Mahler
si era prefissato: giungerà infatti a essere un «Maestro tedesco» – e ad‑
dirittura in molte diverse sedi d’orchestra della Germania.
Nonostante il grande successo ottenuto con Lou Salomé (che, si note‑
rà, risultava essere appena la ventinovesima «prima assoluta» a venire ese‑
guita al Teatro dell’Opera di Monaco dal 1753 in avanti), Sinopoli avrebbe,
da questo momento in poi, progressivamente abbandonato la composi‑
zione per dedicarsi alla direzione d’orchestra. Affido ad altri autori di
questo libro il non facile compito di tracciare tutta la sua brillante car‑
riera successiva, con la direzione di alcune delle maggiori orchestre euro‑
pee – dalla Philharmonia di Londra, all’Orchestra di Santa Cecilia a Roma
alla Staatskapelle Dresden – e di ricostruire le sue innumerevoli presen‑
ze per invito in molte altre sedi di grande prestigio della musica mondia‑
le; raggiungendo così una fama internazionale tale da meritare la nomina
a cavaliere di Gran Croce da parte del presidente Oscar Luigi Scalfaro. A
più qualificati specialisti lascio anche l’analisi delle sue predilezioni mu‑
sicali – quasi tutte di ambito mitteleuropeo e fin de siècle o appena suc‑
cessive – e del suo particolarissimo modo di interpretare i propri autori
preferiti, all’insegna di una raffinata lettura analitica che – come egli stes‑
so diceva – andava a cercare l’«antetesto» e il «sottotesto» dello spartito.
Vorrei invece ricordare che Sinopoli stesso affermò in un’intervista
che la composizione aveva cessato di soddisfarlo, in quanto la socie‑
tà di oggi era ormai inadeguata a celebrare nel presente l’eroicità della
creazione artistica, e si affidava unicamente alla memoria di ciò che era
«già» stato. E non a caso, dunque – pur se temeva in cuor suo che an‑
16
L’uomo universale
che la memoria potesse subire danni a causa di una fruizione mediati‑
ca eccessiva e logorante –, Sinopoli si imbarcò espressamente a questo
punto in un lunghissimo itinerario di ricostruzione della memoria, che
lo avrebbe occupato per il resto dei suoi giorni.
In sostanza, se da un lato è vero quello che è stato scritto da molti,
che egli era un «uomo del Rinascimento» per la vastità e varietà pro‑
teiforme degli interessi culturali e curiosità intellettuali, mi sembra che
in tal modo si rischia di mettere nell’ombra un «filo rosso» che, dagli
anni ottanta in poi, collega tutte le sue più diverse imprese: la ricostru‑
zione di una «memoria culturale», per usare la terminologia coniata da
un esimio egittologo, Jan Assmann.11 Una memoria culturale dell’idea
d’Europa e delle sue radici più recondite nella storia e nel mito, quale
si era affacciata, pur tra mille pulsioni nazionalistiche e xenofobe da un
lato, e dall’altro tra mille considerazioni critiche o addirittura dispe‑
rate circa la natura intima dell’uomo, a cavallo tra Ottocento e Nove‑
cento. A cavallo, insomma, tra Wagner, Nietzsche, Freud e Mahler – e
appena prima che Kafka, Picasso e Schönberg ci spiegassero che era‑
vamo ormai entrati in un secolo del tutto nuovo, denso di impulsi or‑
mai fatalmente alienanti e autodistruttivi.
Di questa «memoria culturale», in prima istanza, Sinopoli indagò
la presenza della grecità antica; una grecità che lo affascinava non solo
nel suo essere ma soprattutto nel suo farsi. Tale ricerca venne svolta, ol‑
tre che con vaste letture e arditi raccordi culturali, anche collezionando
più di un centinaio di reperti minoico‑micenei, greci e italioti di gran‑
de pregio, per lo più acquistati – come egli affermò con chiarezza – gra‑
zie ai proventi della direzione d’orchestra, e destinati a essere raccolti
in un museo pubblico.12
Specie per chi ha avuto l’occasione di visitare la collezione di Freud
nella sua ultima dimora a Maresfield Gardens, Londra, non può non
colpire un aspetto importante della raccolta di Sinopoli di arte classica
dal periodo arcaico all’Ellenismo, evidenziato fin dalla pubblicazione
in forma di elegante catalogo illustrato da parte del compianto Enrico
Paribeni, poi conclusa da Stefano Bruni per i tipi della veneziana Mar‑
silio nel 1995.13
Nella collezione di Sinopoli, nulla è più distante dalle «meine al‑
te und dreckige Götter» (mie divinità vecchie e sporche), come Freud
descriveva con ironia affettuosa la propria collezione di più di 2000
pezzi che riempiva ogni spazio libero delle proprie stanze da lavoro.
I pezzi di Sinopoli non hanno nulla a che fare con la folla di statui‑
ne egizie o greche o di scrigni cinesi – di pregio e prezzo vario – che
L’archeologia: una passione vitale
4
17
sorvegliavano come una variopinta coorte i
bordi del tavolo stesso dove Freud scriveva,
fungendo per lui da èidola o aide‑mémoires o
da sublimi «giocattoli» da accarezzare, men‑
tre ricordava o registrava a penna i sogni di
un paziente. Ben al contrario, il nome collet‑
tivo della raccolta di Sinopoli è aristaios, «il
meglio»: si tratta infatti di un insieme di pezzi
delicati e sceltissimi, di elevato valore estetico
e storico‑artistico, che denuncia già la rigoro‑
sa applicazione di Sinopoli allo studio dell’Antico – peraltro costi‑
tuendo una sorta di manifesto preventivo circa l’attenzione da vero e
proprio specialista che egli avrebbe riservato al Vicino Oriente in an‑
ni successivi.
Osserviamo dunque gli esemplari più significativi. Si passa dai re‑
perti del ii millennio a.C., come la brocca a corpo ovoide del Tardo Mi‑
noico iii (xiv secolo a.C.; Fig. 1), o la kylix micenea su alto stelo (Fig.
2), o gli idoletti – anch’essi micenei – a forma di fi o psi (Fig. 3), a quel‑
li dell’inizio del millennio successivo, come la pisside geometrica attica
con cavalli plastici sul coperchio (Fig. 4), alla oinochòe forse rodia con
figura di uccello dipinta sulla spalla (Fig. 5), alla olpe con fregi zoomor‑
fi con ritocchi policromi (Fig. 6) – tutti pezzi tra l’viii e il vii secolo.
La fase immediatamente successiva (vi sec.) è ben rappresentata da
pregevoli vasi di ceramica corinzia, quali un cratere a colonnette con
raffigurazione orgiastica (Fig. 7), oppure un alàbastron con rara rap‑
presentazione di leone con una grande ala (Fig. 8), oppure ancora un
secondo cratere caratterizzato da una sirena tra due cavalieri (ma due
sfingi decorano l’altra faccia). Della classica produzione attica (vi‑v
sec.), si distinguono in specie alcuni esemplari: un’anfora panatenai‑
ca (cioè che ricorda la vittoria atletica ai giochi panatenaici) con Ate‑
na armata e gradiente, un cratere a colonnette con Ulisse in fuga, sotto
l’ariete, dalla grotta di Polifemo, con una singolare spada sguainata
(datata al 480), e infine un’anfora a figure nere decorata con la scena
della caccia di Meleagro e i suoi compagni all’enorme cinghiale della
città di Calidone – l’animale inviato dall’irata dea Artemide, secon‑
do un racconto dell’Iliade.
Infine, la collezione Sinopoli mostra una serie di vasi dell’Italia me‑
ridionale, dal vi al iv secolo, sia di produzione indigena, sia di fabbri‑
ca italiota, ovvero greca dell’Italia meridionale. Vediamo così un’olla
daunia (cioè, della Puglia settentrionale) con protomi zoomorfe, a de‑
18
L’uomo universale
corazione bicroma. Ancora più rappresentativo della produzione dau‑
nia del v sec. a.C. è un cosiddetto «vaso‑filtro», ovvero un vaso in sui si
versavano – dal collo verso un beccuccio – liquidi per uso rituale, sem‑
pre a decorazione bicroma e con appendice plastica zoomorfa. Conclu‑
do con due esemplari raffinatissimi di produzione italiota: una pàtera
apula a figure rosse (donna con leprotto) con tralcio di vite sovradipin‑
to in bianco, e una lekanìs – verosimilmente ancora apula – raffiguran‑
te un giovane nudo seduto su un mantello.
Ma lo spirito che Sinopoli infuse in questa collezione non si esaurisce
unicamente nell’acribia e nel gusto della selezione e della raccolta. A
chi, infatti, ha scritto – come Joachim Raeder – che, salvo per un va‑
so attico a figure rosse, non vi sarebbe in essa alcun collegamento con
l’orizzonte dell’attività musicale del Maestro, risponderei appoggian‑
domi invece alla dotta introduzione del catalogo di Stefano Bruni, che
ricordava come l’Antico fosse stato patrimonio indispensabile e appan‑
naggio prezioso di vari grandi musicisti del passato. E tra questi, a ben
guardare, spiccano alcuni dei compositori più amati e maggiormente
eseguiti da Sinopoli.
Tratterò qui soprattutto di Richard Wagner, che – come si sa – fornì in
numerose occasioni definizioni dell’importante ruolo dell’Antichità nella
formazione dello spirito tedesco – e in particolare di quello del Deutscher
Volk, cui egli affidava il futuro della produzione e della memoria artisti‑
ca. Così, ad esempio, egli sostenne in una lettera al suo protettore Ludo‑
vico ii di Baviera (il ben noto Ludwig) che, a differenza degli italiani e dei
francesi, meri copiatori e rimodellatori dell’Antico, lo spirito tedesco era
stato il primo a comprendere la sua «reinmenschliche Originalität» («ori‑
ginalità puramente umana»), attuando cioè una conoscenza «intima»
dell’Antico. Attraverso tale comprensione, lo spirito tedesco era «giunto
alla capacità di riportare il Puramente‑umano
alla sua libertà primitiva»; in sostanza, «model‑
lando una nuova forma necessaria tramite l’u‑
so della concezione antica del mondo».14 Frasi,
queste, che oggigiorno possono anche suonar‑
ci ominose alla lontana; ma che Sinopoli tende‑
va a storicizzare, vedendo in esse la complessa
temperie della formazione di un’identità cultu‑
rale germanica attraverso la rielaborazione del
Classico nell’ultimo quarto del xix secolo, e ri‑
tenendo che l’ammirazione successiva del nazi‑
5
L’archeologia: una passione vitale
19
smo per Wagner fosse dovuta a un’appropriazione totalmente indebita e
fuorviata. Aggiungerò, da parte mia, che il caso del Maestro Hermann
Levi, figlio di un rabbino, che diresse per un ventennio devotamente il
tempio musicale di Bayreuth per conto dell’antisemita Wagner, mi sem‑
bra un’altra bella «spia» delle contraddizioni del tempo.
Come che sia, è all’«intima comprensione» dell’Antico enunciata
da Wagner che Sinopoli guardava, sia per capire Wagner stesso – co‑
me enorme «risorsa culturale» nella formazione dell’idea d’Europa,
anche dal punto di vista dell’identità sociale – sia per attuare una ri‑
lettura dell’Antichità medesima, e in specie dei miti di quest’ultima,
secondo una doppia lente d’osservazione: non limitata alle valenze
intrinseche di tali miti, ma altresì tesa a comprendere quanto di ta‑
li valenze si fosse trasferito con il tempo al mondo moderno, e aves‑
se contribuito a forgiarlo. Come si vede, torniamo in parte qui anche
al Freud che Sinopoli aveva studiato ai suoi esordi, specie quando egli
parla del rapporto «sonno‑sogno‑conoscenza» che scandisce l’ope‑
ra wagneriana; mentre, riguardo all’uso dei miti, Sinopoli sosteneva
con convinzione che Wagner aveva anticipato in pieno numerosi temi
freudiani nella costruzione delle proprie narrative d’opera.
Nello specifico, il legame tra Wagner e l’universo psicanalitico venne
affrontato da Sinopoli in una prestigiosa sede, il Museo Freud di Vien‑
na, ove annualmente, nel giorno della nascita del padre della psicoana‑
lisi, si tiene una conferenza su invito, a livello internazionale. Qui, il 6
maggio del 1996, Sinopoli trattò, unendo dottamente varie competenze
a sua disposizione, della «Formazione della coscienza e individuazione
nella trasformazione simbolica del personaggio di Kundry nel Parsifal
di Richard Wagner».15 Non è certo dunque casuale se, per questa sua ap‑
profondita comprensione di Wagner a tutti i livelli, oltre che per il suo
conclamato carisma di direttore d’orchestra, Sinopoli divenne il primo
italiano ad avere l’onore di essere scelto a dirigere il ciclo dell’Anello del
Nibelungo al Festival di Bayreuth nell’estate del 2000.
Ma il collegamento multiforme e profondo tra Sinopoli e Wagner,
mediato senz’altro anche dalla conoscenza di Carl Gustav Jung da par‑
te del Nostro, si spinse ancora oltre, fino al Bildungsroman. Proprio un
gioco di transfert tra sé e Wagner si trova infatti al centro di un pez‑
zo di fiction che – diavolo di un uomo! – Sinopoli diede alle stampe nel
1993,16 e che fu successivamente ripubblicato e tradotto in tedesco. Es‑
so va rievocato, a mio avviso, non solo per il suo interesse letterario, ma
anche perché vi si può ravvedere una situazione narrativa in qualche
20
L’uomo universale
modo parallela a quella della Gradiva freudiana – ovvero, quello di uno
scritto liberatorio e auto‑educativo circa un’amata ossessione culturale.
La trama è semplice e delicata, ma non per questo esile: una sera, il
Maestro Sinopoli, uscito dal teatro La Fenice dopo un’estenuante pro‑
va del Parsifal, si smarrisce nel labirinto delle calli, ponti e cul‑de‑sac di
Venezia. A questo temporaneo stato di alienazione dal suo territorio na‑
tio si accompagna il – diciamo – «rimbombo» della musica wagneriana
nella mente; il Maestro giunge dunque a interrogarsi sulla vita e sulla
morte, sulla topografia della città lagunare e le sue associazioni simbo‑
liche e mitologiche, e infine sul proprio ruolo rispetto a quello del per‑
sonaggio di Parsifal, il portatore della lancia del Graal e paladino della
redenzione. Nel centro ideale di Venezia, la città posta tra l’acqua e la
terra della filosofia presocratica, dove si svolge ogni anno la Festa del
Redentore, e al contempo nel wagneriano ursprüngliches Zentrum del‑
le cose, dove il futuro va cercato nei quadri del passato, Sinopoli ritro‑
va finalmente se stesso, al termine della notte.
Si potrebbe dire: un po’ «esoterico» questo breve romanzo, che non
riscosse peraltro giudizi particolarmente lusinghieri. E forse esoterico
in effetti lo è, ma proprio nel senso del sincretismo religioso dell’ulti‑
mo Wagner stesso; altrimenti, converrà usare con cautela questo termi‑
ne, che rischia di ricordarci il pensiero della New Age e l’uso distorto
che quest’ultima fa di Jung – nulla di più lontano dalla sofferta rifles‑
sività di Sinopoli. Partirei in ogni caso da qui per affrontare un altro
elemento della meditazione di Sinopoli sull’Antico, che a me non sem‑
bra essere stato finora messo chiaramente in luce. Per vie concettua‑
li diverse da Freud, e in parte anche da Jung, ma allo stesso tempo con
esiti in qualche modo simili, Sinopoli compie vaste circumnavigazio‑
ni culturali del problema metafisico, senza però volervi entrare tout
court. «Memoria», «mito», «mitologia», «filosofia della vita» – queste
sono tutte parole chiave che Sinopoli usa spesso, in relazione ai gran‑
di problemi dell’essere, come l’«esistenza» e la «morte». E, similmente
a Freud (e del resto, a Jung), anch’egli aveva piena coscienza e notevole
pratica degli antichi dèi: delle loro personalità e attributi, del loro peso
nella costruzione del mito, della complessità di significanti che li cir‑
condava e che aveva portato la mitologia antica a trasformarsi via via
in concezioni ancora vive e sentite – come quando Parsifal, alla fine
dell’ultimo atto, compie il gesto risolutivo che condurrà alla celebra‑
zione del Venerdì Santo.
Tuttavia, l’intima essenza di queste credenze viene da Sinopo‑
li – come anche da parte di Freud e Jung – ricondotta alla necessi‑
L’archeologia: una passione vitale
21
tà dell’Uomo di far fronte alle perenni questioni che lo tormentano,
come la vita e ciò che c’è dopo la vita; e non diventa, almeno palese‑
mente, oggetto di meditazione diretta. Insomma, cosa sia la vita, e chi
o cosa l’abbia creata, e perché – queste sono questioni che non esclu‑
do tormentassero Sinopoli, come spesso tormentano tutti noi; simil‑
mente ai primi psicanalisti, però, egli le metteva a fuoco in particolare
studiando come esse fossero state recepite dall’Uomo fin da tempi im‑
memorabili, e come avessero creato a loro volta sostanze intellettuali
umane (simboli, statue, culti), da cui la civiltà è rimasta condiziona‑
ta fino ai nostri giorni. Un grande e denso percorso di studio, insom‑
ma, sempre tenendosi ai bordi esterni della metafisica propriamente
detta: è in questo una delle più interessanti caratteristiche del pensie‑
ro del Nostro riguardo all’uso dell’Antichità.
6
Lo vediamo meglio che altrove, io penso, duran‑
te la fase – nel corso degli anni novanta – in cui
Sinopoli si dedicò allo studio dell’Egitto antico;
uno studio di cui i più sanno solamente per ac‑
cenni, o non sanno affatto (così, una delle sue
grandi ammiratrici, la storica dell’arte americana
Irene Winter, rimaneva stupita della definizione
di «egittologo» data negli annunci funebri). Ep‑
pure, a ben guardare, è proprio nella considera‑
zione della civiltà faraonica che Sinopoli fornì una
testimonianza abbastanza completa di quello che
pensava – sull’antichità, sulla musica, e sulla vita
in genere. Ma questa volta non lo fece con un li‑
bro; affidò invece i suoi pensieri al mezzo cinema‑
tografico, portandoci con sé nella Valle dei Re.
Nel lungometraggio The Two Eyes of Horus, ideato da Sinopoli stes‑
so con la regia di Barry Gavin, e girato in occasione di un tour musicale
della Staatskapelle Dresden in Egitto (1998), Sinopoli affida alla pellico‑
la interessanti dichiarazioni sull’importanza dell’Egitto per il suo pen‑
siero, mentre lo osserviamo vagare per le rovine del tempio di Ramsete
iii a Medinet Habu:
Qui si può iniziare a pensare, a meditare, o piuttosto a pensare in un
modo diverso, e quanto più lentamente e profondamente si medita, tan‑
to più si riuscirà a cogliere l’essenza di questa cultura. Questa cultura
22
L’uomo universale
non è sincretistica, e non è – come invece critici superficiali vorrebbe‑
ro farci intendere – una cultura, una religione caotica.
Vedo la mia relazione con l’Egitto come una sorta di work in progress.
È un’esperienza di vita, sviluppata nel corso degli anni, e un’esperienza
che continuerà fin tanto che vivrò. Ciò che mi interessa della mitologia
e della cultura dell’Egitto antico è il modus vivendi, e il modus cogitan‑
di. Esso è del tutto diverso dal nostro modo di pensare occidentale, che
è basato su una cultura razionale greca.
In sostanza, Sinopoli considerava la meditazio‑
ne sulla cultura egizia come una fonte di in‑
tuizioni cruciali, fondamentali, per il proprio
sviluppo interiore. Queste intuizioni lo con‑
ducevano – diceva – in un itinerario nel pro‑
prio subconscio. Come abbiamo sentito, nella
cultura faraonica Sinopoli trovava una libe‑
razione da quello che chiamava la «prigione
dorata» – la cultura occidentale che biologica‑
mente abbiamo ereditato, con il suo senso della dialettica, in specie ba‑
sato sulla contrapposizione tra vita e morte. In particolare, egli riteneva
che ciò che chiamava la «filosofia» dell’Egitto antico potesse restituir‑
ci una «libertà qualitativa», nella nozione – da lungo tempo perduta in
Occidente – dell’eterno.
Così, mentre dirigeva la Staatskapelle Dresden in Egitto, proponen‑
do pezzi di Strauss e Schönberg, affermava di sentirsi formare un tessu‑
to particolare tra la musica e le antichità del luogo. Dobbiamo qui per
caso cogliere una qualche contraddizione, rispetto allo studio preceden‑
te delle radici dell’Antichità in Wagner – un’Antichità che non poteva
che essere quella greco‑romana da cui lo spirito europeo si sarebbe for‑
mato? Io non credo; parlerei piuttosto di una fase in cui Sinopoli avver‑
te con chiarezza i limiti del Classico per una propria compenetrazione
completa con la musica da lui amata; e in cui vede – in un’ottica deci‑
samente junghiana – in questa musica valenze ancora più universali e
recondite di quelle raggiungibili con la pura e semplice storicizzazione
del pensiero dei musicisti prediletti:
Ritengo che quello che troviamo qui sia il silenzio – non il silenzio esterno,
ma un silenzio interiore, una pace e concentrazione nell’intimo. Questo
silenzio è incarnato nelle pietre; e entro queste pietre, si trovano silen‑
ti, eterne parole. Geroglifici – parole sacre che sono diventate scrittura.
7
L’archeologia: una passione vitale
23
Se suoniamo la musica del nostro tempo tra queste pietre – una musi‑
ca che, di per sé, non ha senso dell’eterno – una forte sensazione viene
evocata, un’intuizione che sopraffà la nostra epoca materiale e scien‑
tifica con un pensiero dialettico di ricerca. In questo mondo, dove tut‑
to è silente, dove regna un silenzio eterno, la nostra musica occidentale
sboccia dal silenzio; è liberata dalle leggi del tempo.
È così che anche Arnold Schönberg, che trovò la sua formazione nel‑
la fin de siècle viennese, giunge a ottenere una rivisitazione radicale tra
le rovine di Medinet Habu. Il suo sestetto Notte trasfigurata del 1899,
tratto da una poesia contemporanea, che nelle sue premesse narrative
rievoca alcuni quadri di Klimt, e che nella realizzazione musicale pre‑
senta ancora molti echi di Brahms e Wagner, acquista invece per Si‑
nopoli valenze del tutto originali nel confronto dialettico con il senso
egiziano dell’eterno:
C’è un senso in cui tutti noi abbiamo, in noi stessi, una mummia;
qualche tipo di corpo conservato. Può essere una memoria, un deside‑
rio, un rimpianto. Dobbiamo togliere le bende della mummia con qual‑
che forma di azione creativa. Non è facile, ma è possibile. Prendiamo
Notte trasfigurata; è basata su una poesia dell’austriaco Richard Dehmel.
Una donna che reca un figlio in grembo cammina attraverso una foresta
misteriosa di notte. È incinta del frutto di un’unione infelice con un uo‑
mo; così che il feto è un peso, già un cadavere, entro di sé. Ma mentre il
sole sorge, il compagno le porge la mano – quest’uomo che ha passato la
notte con lei – e c’è come la promessa di una nuova vita. Ci è concesso,
con l’atto della creazione, di trasformare il dolore, di liberare il cadave‑
re che è dentro di noi, così che la vita non sia distrutta.
E qui fa la sua comparsa un altro pensiero, quello della morte, che egli
stesso ricollega al periodo giovanile in cui componeva pezzi dai tito‑
li come Tombeau o Souvenir à la mémoire; e quando anche la sua Sym‑
phonie imaginaire era in forma di un requiem. Studiare le concezioni e
le forme della morte presso gli antichi Egiziani è tutt’uno con la deci‑
frazione dei loro testi in geroglifico; leggere le loro riflessioni sulla vita
significa capire il loro senso dell’eterno:
Le pietre hanno sempre simboleggiato l’eterno nelle culture antiche,
specie in Egitto; e naturalmente l’eterno è una caratteristica della mor‑
te. La morte significa sconfiggere il tempo, l’umanità; significa entra‑
24
L’uomo universale
re nell’eterno, il territorio dello stato divino. Non c’è stato divino senza
la morte. La morte è una conferma dello stato divino. Dio ha bisogno
dell’umanità. […]
Nel pensiero egiziano, non ci sono solo la vita e la morte, ma anche la
vita in morte e la morte in vita. Gli Egiziani non volevano sconfiggere
la morte. Sapevano che la morte non poteva essere eliminata. Ma essi
volevano vedere la morte come una forma diversa di vita. Sono sempre
più convinto che gli Egiziani avevano capito cosa significava la morte:
non una sensazione di esistenza, ma un modo diverso di essere.
In sostanza, la ricerca di assonanze plurimillenarie ha un notevole pe‑
so, in questa bella ed estesa riflessione su pellicola di Sinopoli; essa lo
condurrà ancora a legare originalmente le Metamorphosen di Richard
Strauss – un sestetto del 1945 improntato al lutto e alla malinconia per
le distruzioni belliche in Germania – a un atto della memoria che uto‑
pisticamente (come aveva detto anche Edward Said) reagisce e restaura,
in questo simile al perenne flusso – di vita e di morte – delle acque del
Nilo. Ma l’insieme dei messaggi affidati dal Maestro a questo documen‑
tario non si esaurisce qui. A un certo punto, infatti, egli enuncia con
precisione il rapporto che secondo lui lega la musica con l’archeologia:
Interpretare uno spartito significa, in un certo senso, farne l’archeologia.
Nella stratificazione delle note cerchiamo di rintracciare il messaggio
originale di un essere umano e di una cultura. Questo messaggio, que‑
sto significato, può essere altrettanto recondito di quelli che cercano gli
archeologi. Spesso sembrano strani, specie se trattano materie trascen‑
denti, che lottano per sopravvivere nel mondo moderno, materiale, un
mondo dove i simboli non esistono più, ma solo immagini e funzioni.
La «stratificazione» e la ricerca del «recondito»: queste parole ricorda‑
no senz’altro la conferenza di Freud di esattamente un secolo prima. Ma
una radicale differenza si trova nel tono. Infatti, Sinopoli, al contrario
del Freud elettrizzato dalle recenti scoperte di Troia e dalle loro implica‑
zioni per la civiltà,17 impiega la metafora dello scavo archeologico in un
contesto di grande pessimismo circa la capacità ricettiva del mondo at‑
tuale. Pur se negli stessi anni dichiarava ancora stoicamente in un’inter‑
vista «Noi siamo la nostra memoria», egli sembra qui aver ormai perso
fiducia nella capacità del mondo di oggi di conservarla, questa memo‑
ria, al di là di vuote maschere e roboanti protagonismi ad uso dei media.
Il solo rimedio è dunque perseguire l’archeologia come attività di ri‑
L’archeologia: una passione vitale
25
cerca gratificante e illuminante di per sé. Ma si tratta dell’attuazione di
un progetto che viene da lontano: «Quando ho smesso di comporre, e
mi sono rivolto all’archeologia, e specificamente all’Egittologia, mi di‑
venne chiaro che questo era un sostituto per il mio lavoro di composito‑
re, perché aveva un significato simile, un simile contenuto». Sinopoli, in
sostanza, ritiene che la musica e l’archeologia siano uniti in in uno sco‑
po comune: ricercare le tracce più recondite delle concezioni dell’Uo‑
mo, e in particolare del senso dell’eterno. Ce lo spiega con l’immagine
della perenne riedificazione dei templi:
La memoria consente di ricostruire dalle rovine; e le culture antiche la
usavano sempre. Da ogni tempio distrutto ne poteva essere ricostruito un
altro. Un tempio per un faraone precedente sarebbe stato rimpiazzato da
uno nuovo, per il nuovo faraone. Questa infinita trasformazione da ma‑
nufatto a rovina a manufatto ha luogo al bagliore del sole. Le metamorfo‑
si non hanno solo luogo quando la barca solare passa nella notte; hanno
luogo anche di giorno. Nel momento tra conscio e inconscio, le rovine
templari ritornano al loro stato primigenio, intatto. In questo modo, con
il sole della memoria, possiamo risvegliare la cultura antica a nuova vita.
*
Proprio la continua «trasformazione da manufatto a rovina a manufat‑
to» avrebbe costituito l’ultimo grande Leitmotiv della ricerca archeolo‑
gica di Giuseppe Sinopoli. Negli ultimi anni di vita, come ha scritto di
recente Paolo Matthiae, egli aveva spostato la sua attenzione da «quel
mondo così mirabilmente unitario, coerente ed armonico rappresenta‑
to dalla civiltà della valle del Nilo», all’«universo assai più problematico,
ambiguo, angoscioso» che presentano le culture del Vicino Oriente pri‑
ma dell’ellenismo. Nasceva così un progetto di tesi di laurea all’Univer‑
sità di Roma «La Sapienza» su un argomento di notevole interesse, anche
perché tuttora denso di zone d’ombra, nell’archeologia vicino‑orientale:
l’origine e lo sviluppo storico di una particolare struttura architettonica
in uso nei palazzi dell’Assiria tra il ix e il vii secolo a.C., contraddistinta
da un portico a colonne, che i re assiri chiamavano bit hilani, indican‑
done la natura non indigena, ma importata.
Una ricerca da stemperare nel tempo con serena tranquillità, o alme‑
no da confinare all’orario d’apertura delle biblioteche, si potrebbe pen‑
sare. E invece no; questo ulteriore impegno venne proiettato in pieno
nell’ambito della già vulcanica agenda lavorativa di Sinopoli, chiamato
26
L’uomo universale
da una direzione d’orchestra all’altra in continuazio‑
ne, ora a Taormina e il giorno dopo a Dresda, quando
non dedito alla vita familiare e a un po’ di godimen‑
to dell’amatissima villa sul mare a Lipari. E non è fi‑
nita: egli si era contemporaneamente impegnato in
un’associazione, Music for Archaeology, con la quale
era stato – tra l’altro – sostenuto l’importante scavo
italiano di Tell Barri, in Siria, diretto da Paolo Emi‑
lio Pecorella (che sarebbe scomparso nel 2005, all’im‑
provviso e nel pieno della sua indefessa attività come
il suo amico Sinopoli); e, nel frattempo, aveva scritto
racconti che celebravano Lipari stessa, oggi pubbli‑
cati con il titolo I racconti dell’isola. In mezzo a tut‑
to questo furore di attività diverse, egli trovava però
il tempo di dedicarsi alla tesi con l’entusiasmo di un
ventenne, lavorando, come egli disse, come «un monaco medievale», al‑
lo scopo di giungere finalmente a perfezionarsi – in maniera chiara e in‑
discutibile – in un ramo della sua amata archeologia.
Fu così che trovai il Maestro letteralmente sommerso, nello studio
della sua casa romana, da spartiti musicali frammisti, in un allegro di‑
sordine, a trascrizioni di testi cuneiformi, quando lo andai a trovare
in un bel mattino autunnale. Cordialissimo e accogliente come sem‑
pre, mi illustrò il progetto della tesi: quello di enucleare lo sviluppo del
modulo architettonico del bit hilani attraverso l’intero corso dell’edili‑
zia pubblica mesopotamica, controllando fonti scritte e documentazio‑
ne archeologica dal iii millennio – l’epoca di Ebla, per intenderci – fino
all’impero assiro, quasi 2000 anni dopo. Poiché aderisco – a volte, mio
malgrado – a uno scetticismo di ultima impronta positivistica, e poi‑
ché nella mia lunga esperienza di progetti di tesi di laurea ne ho senti‑
ti tanti, gli manifestai un sincero interesse, dubitando però in cuor mio
che un impianto d’analisi così vasto e audace avrebbe potuto portare ai
risultati puntuali che egli si prefiggeva. E così ci lasciammo, dopo mol‑
ti piacevoli caffè e scambi d’idee, con molti auguri per la sua ricerca e la
promessa precisa di rivederci, non appena fossi ripassato da Roma. Ora
sono trascorsi molti anni, e sono già mille volte ripassato da Roma, ma
non ho più potuto rivedere il mio amico. La sua tesi – incredibile fata‑
lità – non fu discussa per una questione di ore, e la laurea dovette esse‑
re conferita alla memoria. Per nostra fortuna, la tesi sarebbe stata poi
pubblicata dall’editore Felici nel 2005.18
Sinopoli era, in effetti, pienamente riuscito nel suo intento, anzi in
8
L’archeologia: una passione vitale
27
due intenti diversi ma correlati. Il primo, già di per sé ammirevole, era
quello di aver scritto una trattazione scientifica del bit hilani a vasto rag‑
gio temporale e geografico e di estremo approfondimento, osservando
questa forma architettonica nei complessi prodromi e in tutte le mani‑
festazioni di dettaglio che trovò nel Vicino Oriente antico. Il secondo
intento – il più straordinario, secondo me, dei due – era quello di ave‑
re inserito tutte le proprie istanze sulla memoria, e in particolare tutto
il complesso senso delle perenni associazioni simboliche e di significa‑
to che egli avvertiva nell’Antico, dentro la trattazione stessa. E questo
doppio registro interpretativo scorre piano, senza salti stilistici o logi‑
ci: abbiamo a che fare con uno specialista dell’antico Oriente che, pur
non tralasciando il minimo dettaglio a scapito del metodo positivisti‑
co‑filologico, vi aggiunge con estrema naturalezza la discussione delle
valenze più «alte» e durature che l’oggetto del suo studio mette in luce.
In sintesi, Sinopoli riesce a chiarire in questo libro come il mutamen‑
to delle concezioni della regalità condusse le successive culture della Me‑
sopotamia e della Siria a compiere diversi usi della struttura bit hilani.
Anzitutto, in età neosumerica (xx sec. a.C.), esso è appannaggio di un
sovrano divinizzato a capo di una struttura sacrale e imperiale; poi, nella
Siria del ii millennio, si porge a corredo di un mutato carattere del mo‑
narca, divenuto più accessibile e umano; e infine, nel periodo neo‑assiro
(x‑vii sec. a.C.), rappresenta un imprestito di prestigio «imperiale» dalle
regioni conquistate dell’Occidente, assoggettato peraltro a un rimesco‑
lamento di diversi moduli architettonici. Componenti fondamentali del
bit hilani sono poi le colonne, che per Sinopoli sono una simbolizzazione
della fertilità arborea legata all’acqua fluviale; i suoi fusti vanno correlati
ai tronchi di palma da dattero, i capitelli alla corolla vegetale della pianta,
e la base a un cuscino di ghirlande e petali. E infine, Sinopoli conclude
con un’innovativa lettura dei famosi rilievi di Assurbanipal che decora‑
vano il suo bit hilani a Ninive – la caccia al leone e il banchetto nel giar‑
dino – alla luce della «memoria culturale» che in essi era trasmessa a
celebrazione del carattere trascendente e mitologico della regalità assira.
Come si vede, e alla luce di quanto detto sopra, quello che ci con‑
segna Giuseppe Sinopoli nella sua prima e al contempo estrema incur‑
sione nella scienza archeologica, Il re e il palazzo, è il risultato di un
grandissimo «viaggio» che egli compì tra quelle centinaia di piante di
scavo e rilievi dei bit hilani di templi e palazzi, e tra tutti i documen‑
ti scritti contemporanei, trovando in questo materiale l’intima essenza,
il significato profondo in termini ideologici e simbolici di ciò che ave‑
va dettato la sopravvivenza e la trasformazione nel tempo di una par‑
28
L’uomo universale
ticolare forma architettonica vicino‑orientale. Insomma, un «viaggio»
nelle concezioni della regalità vicino‑orientali a cavallo tra tre millenni
non meno vissuto, intenso e illuminante di quello che ci ha lasciato in‑
ciso su pellicola in occasione del suo tour in Egitto.
È una prospettiva accettabile, quella che propone Sinopoli? Lo è
senz’altro in sé, ma non andrebbe neppure drammatizzata un’eventua‑
le opinione diversa, persino contraria: siamo tutti perennemente per‑
fettibili quanto a risultati, soprattutto trattando di realtà di 3000 anni
fa tra Egitto e Levante, e dunque in fin dei conti è la solidità dell’im‑
pianto del metodo di ricerca ciò che conta di più. E nel caso di Il re e il
palazzo di Sinopoli il metodo è assolutamente innovativo. Questo li‑
bro va dunque senz’altro adottato per i nostri corsi universitari; spe‑
cie agli studenti, sarà utilissimo prendere in esame non solo quello che
vi è scritto, ma come esso è scritto. Peraltro – vorrei dire in conclu‑
sione – tra i vari nuovi approcci odierni riguardo all’archeologia, di
cui si è parlato all’inizio di questo saggio, vi sono anche proposte di
rivedere l’evidenza di scavo alla luce dei «valori culturali» che in es‑
so erano rappresentati; la scuola dell’«archeologia cognitiva» di Lord
Renfrew a Cambridge è la punta di diamante di questa nuova prospet‑
tiva,19 ma non dobbiamo dimenticare anche altri tentativi di far «par‑
lare» i materiali attraverso prospettive concettuali, fino all’uso dello
stesso strumento psicologico. Nonostante il pessimismo dell’ultimo Si‑
nopoli, dunque, una qualche esigenza di «mito», di «eterno» e di «me‑
moria», ha ripreso dunque a manifestarsi tra i cultori dell’archeologia,
riportandoci in qualche modo ai primordi di questa scienza. Schade,
mein Freund, che tu non sia qua a godertelo.
note
S. Freud, «Etiologia dell’isteria», in Opere, vol. 2: Progetto di una psicologia
e altri scritti (1892‑1899), Bollati Boringhieri, Torino 1989, pp. 333‑360: testo
della conferenza tenuta il 2 maggio 1896 da Freud presso la Società di Psichiatria
e Neurologia di Vienna, in una seduta presieduta da Richard von Krafft‑Ebing.
Questo scritto rappresenta l’atto di nascita ufficiale della «metafora archeologica»
nel pensiero freudiano, in cui l’opera dell’analista viene confrontata con quella
dell’archeologo, impegnato nel recupero di reperti antichi dalle profondità del
terreno attraverso uno scavo sistematico. L’influenza su questa visione delle molte
e sorprendenti scoperte compiute pochi anni prima da Schliemann a Troia è una‑
nimemente riconosciuta.
2
V. ad es. D. Manacorda, Prima lezione di archeologia, Laterza, Roma‑Bari 2009.
1
L’archeologia: una passione vitale
29
3
V. ad es. F. Isman, I predatori dell’arte perduta. Il saccheggio dell’archeologia in
Italia, Skira, Milano 2014.
4
V. ad es. S. Settis, Italia S.p.A. L’assalto del patrimonio culturale, Einaudi,
Torino 2007.
5
V. ad es. M. Cuozzo, A. Guidi, Archeologia delle identità e delle differenze,
Carocci, Roma 2013.
6
V. ad es. T. Pievani, «Homo sapiens» e altre catastrofi. Per un’archeologia della
globalizzazione, Meltemi, Milano 2002.
7
V. ad es., V. Nizzo (a cura di), Archeologia e antropologia della morte. Storia
di un’idea, Edipuglia, Bari 2015.
8
V. ad es. E. Said, Orientalismo, Feltrinelli, Milano 1978: I. Buruma, A. Mar‑
galit, Occidentalismo, Einaudi, Torino 2004.
9
In pratica, la critica di fondo è che il sito archeologico scavato rimane «con‑
gelato» per il visitatore o l’utente odierno come fu lasciato da chi lo aveva messo
in luce, come frutto dei metodi di indagine, di documentazione e degli obiettivi
storico‑culturali del proprio tempo, spesso oggi considerati antiquati e fuorvianti.
Questa condizione è inemendabile o al massimo rimediabile in parte solo con
estrema difficoltà.
10
Rinvio al mio libro Freud e l’archeologia, in corso di pubblicazione per il
Saggiatore, con uscita prevista per il 2022.
11
J. Assmann, La memoria culturale, Einaudi, Torino 1997.
12
In effetti, questi pezzi, acquistati dopo la morte del Maestro dal ministero
dei Beni e delle Attività culturali e del Turismo, sono stati esposti dal 2012 in ele‑
ganti teche nel Museo Aristaios, in uno spazio di trecento metri quadri all’interno
dell’Auditorium Parco della Musica di Roma. Per i pezzi antico‑orientali della
collezione, v. i brevi ma utilissimi cataloghi scientifici in S. Di Paolo (a cura di), Il
collezionismo di antichità vicino‑orientali in Italia. Un rapporto tra pubblico e pri‑
vato, Cnr, Roma 2012, rispettivamente di R. Dolce (opere figurative, pp. 95‑113)
e M.G. Biga (pezzi iscritti, pp. 115‑129).
13
E. Paribeni (a cura di), Aristaios. La collezione Giuseppe Sinopoli, Venezia 1995.
14
R. Wagner, Cos’è tedesco?, in PW, iv, 155‑156.
15
Ripreso nella sezione «Scritti musicali» di questo libro.
16
G. Sinopoli, Parsifal a Venezia, Marsilio, Venezia 1993
17
V. supra la nota 1.
18
G. Sinopoli, Il re e il palazzo. Studi sull’architettura del Vicino Oriente: il
bit‑hilani, Felici, Roma 2005. La discussione della tesi da cui fu in seguito tratto
il libro doveva tenersi all’Università di Roma «La Sapienza» sotto la direzione di
Paolo Matthiae, professore di Archeologia e Storia dell’arte del Vicino Oriente
antico, proprio il giorno seguente al fatale malessere occorso a Sinopoli alla
Deutsche Oper di Berlino.
19
V.C. Renfrew, P. Bahn (a cura di), Archeologia. Teoria, metodi e pratica, Zani‑
chelli, Bologna 2016. Per l’Egitto, v. ora ad es. R. Fattovich, «L’archeologia egiziana
delle origini (ca. 4500‑2200 a.C). Proposta per un’archeologia cognitiva dell’Anti‑
co Egitto», in P. Buzi, D. Picchi, M. Zecchi (a cura di), Aegyptiaca et coptica. Studi
in onore di Sergio Pernigotti, Bologna‑Roma 2011, pp. 171‑181.