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Luca Nivarra
Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Numero XII Anno 2019
www.teoriaestoriadeldirittoprivato.com
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Laura Solidoro
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80129 Napoli, Italia
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«onde mitigare il profondo malumore causato dalla mia situazione, incerta in
ogni senso, leggo Tucidide. Almeno questi antichi rimangono sempre nuovi»
K.Marx a F.Lassalle, 29 maggio 1861
DIRITTO SOGGETTIVO, OBBLIGAZIONE, AZIONE
(PARTE I)
SOMMARIO: 1. L’obbligazione come tecnica di attribuzione di un’utilità,
distinta, ma non diversa, dal diritto reale - 2. Segue: significato e portata della
sua ‘normale’ eseguibilità in forma specifica - 3. La tutela reale oltre il diritto
soggettivo - 4. Ingiustizia del danno e tipicità/atipicità dell’illecito civile – 5.
Interessi giuridicamente protetti e interessi giuridicamente rilevanti - 5.
Interessi giuridicamente protetti e interessi giuridicamente rilevanti - 6.
L’ambigua complementarietà di ‘reale’ e ‘risarcitorio’ - 7. Il danno aquiliano
- 8. Critica alla tesi della conversione del (diritto) ‘reale’ in (diritto) ’personale’
- 9. Intermezzo. Römisches e heutiges Recht: una relazione pericolosa - 10.
Conclusione. La ‘conversione’ alla prova del risarcimento del danno.
1. L’obbligazione si può presentare in una duplice postura,
così da rivestire, una prima volta, la forma della attribuzione di
un’utilità; una seconda volta la forma della risoluzione di un
conflitto mediante l’attribuzione di un’utilità. Questo ulteriore
modo di essere dell’obbligazione trova la sua incarnazione nel
paradigma aquiliano, dove l’attribuzione di un’utilità, mediata dal
riconoscimento del diritto soggettivo al risarcimento del danno,
persegue un fine che la trascende, riconducibile alla
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
compensazione della perdita patrimoniale1. Viceversa, nel primo
caso, l’attribuzione dell’utilità rappresenta la stessa ragion d’essere
dell’obbligazione, nel senso che quest’ultima individua il
dispositivo attraverso il quale arricchire il creditore, ovvero il
titolare del diritto. Di tale dispositivo si conoscono due epifanie:
qualora il debitore esegua la prestazione, ovvero adotti il
comportamento idoneo a trasferire nel patrimonio della
controparte l’utilità dovuta, l’obbligazione (o, per meglio dire, il
titolo sul quale essa poggia) è garanzia della irripetibilità
dell’attribuzione patrimoniale trasferita dalla prestazione2; qualora,
al contrario, il debitore non esegua la prestazione, l’obbligazione
individua il rapporto giuridico di diritto sostanziale (comprensivo
del titolo costitutivo di essa) il quale, dedotto e accertato in
giudizio, apre la strada, per il tramite della sentenza di condanna,
all’esecuzione forzata. Si può dire che, mentre nel primo caso,
l’obbligazione si atteggia a causa dell’attribuzione patrimoniale, nel
secondo caso l’obbligazione si atteggia a causa della sentenza di
condanna: in altri termini, nel primo caso l’‘accipiens’, in virtù
dell’obbligazione, è abilitato a trattenersi l’utilità percepita; nel
Si danno anche stati intermedi, nei quali l’obbligazione è al servizio di un
progetto restitutorio, nel senso che, suo tramite, viene ripristinato un equilibrio
patrimoniale modificatosi a seguito di circostanze che la legge reputa incongrue
allo scopo, ovvero in assenza di titoli idonei a giustificare quello spostamento
di ricchezza. Emblematico, al riguardo, il caso del pagamento dell’indebito, ma
anche quello dell’arricchimento ingiustificato. Più tormentato il profilo della
‘negotiorum gestio’, sebbene anche qui possa rinvenirsi una finalità di tutela
della integrità del patrimonio del gerito (A. DI MAJO, Obbligazioni e tutele,
Torino, 2019, 5). Il ‘restituire’ all’opera nei casi appena menzionati è un
‘restituire’ verace e non va confuso con la pseudo-restituzione collegata allo
spoglio, il quale, infatti, non figura tra le fonti dell’obbligazione. Sul punto v.
nt.88.
2 Non è un caso che, come ricorda A. DI MAJO, Obbligazioni, cit., 14, nel codice
civile del 1865 l’obbligazione figurasse tra i modi di acquisto della proprietà.
1
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
secondo caso l’attore, in virtù dell’obbligazione posta a base del
provvedimento di condanna, può procurarsi, attraverso la surroga
apprestata dagli organi statuali competenti, l‘utilità negatagli dal
debitore3.
2. L’obbligazione funziona sempre così, anche là dove rivesta
una finalità risarcitoria, quando l’arricchimento del creditore è
strumentale alla riparazione del danno subito. La coesistenza di
‘risarcitorio’ e ‘attributivo’ (cui consegue il declassamento del
secondo da ‘fine’ a ‘mezzo’) può spiegare, insieme ad altri fattori,
di ordine storico-ideologico, la ragione per la quale ancora oggi è
molto diffusa l’idea che i diritti reali e i diritti di credito descrivano
modalità attributive radicalmente distinte: e ciò in ragione del
diverso atteggiarsi del ‘dovere’ per rapporto all’interesse protetto.
Il soddisfacimento di quest’ultimo, trattandosi di diritti di credito,
esige l’osservanza del ‘dovere’ (che qui mostra i più definiti tratti
Una premessa doverosa. Nel corso di questo saggio si parlerà molto, e spesso,
dell’inadempimento e delle sue conseguenze, nella sua configurazione, diciamo
così classica, di parte generale del diritto delle obbligazioni. Tuttavia, come
bene è stato messo in luce ancora in un saggio recente (G. GRISI, Gli
inadempimenti, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio a S. Mazzamuto a
trent’anni dal convegno palermitano, a cura di G. Grisi, Napoli, 2019, 163 s.; ma in
questo stesso volume si v. anche S. PAGLIANTINI, Debito e responsabilità nella
cornice del XXI secolo, 525 s.), la nozione, a seguito di una serie di interventi
normativi accomunati, come spesso accade con la legislazione speciale, da una
spiccata tendenza all’‘aggettivazione’ ora del creditore ora del debitore, si è
abbastanza complicata, inevitabilmente smarrendo la sua originaria, relativa,
linearità. Ritengo, tuttavia, che una riflessione ‘in apicibus’ del tipo di quella qui
proposta conservi un interesse di ordine prospettico, se non di ordine
sistematico, nel senso che, quanto meno, essa può servire ad individuare un
criterio di misurazione del grado di eterogeneità di ciascuna singola ipotesi
rispetto al modello tradizionale.
3
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dell’‘obbligo’) imposto al debitore; viceversa, trattandosi di diritti
reali, l’attuazione dell’interesse protetto è complementare
all’esercizio del potere sulla cosa assegnato al proprietario, mentre
il ‘dovere’ traduce il generale precetto di intangibilità della sfera
giuridica altrui (‘alterum non laedere’)4.
La fedeltà con cui esso riproduce descrittivamente il suo
oggetto è garanzia della attendibilità dello schema, per di più
collaudato da secoli di storia. Tuttavia, al riguardo è possibile
formulare alcune osservazioni critiche. In primo luogo, il ‘dovere’
appare qui in due versioni differenti, così tanto differenti che
accostarle risulta davvero arbitrario. A ben vedere, infatti, il dovere
che, dall’esterno, presidierebbe i diritti assoluti, proprio perché si
colloca al di fuori del ciclo di vita delle prerogative riconosciute al
titolare del diritto, non intrattiene con il nucleo concettuale di
quest’ultimo alcun rapporto speculativamente apprezzabile.
L’interesse del proprietario trova senz’altro attuazione con
l’esercizio dei poteri di cui agli art. 832 cod. civ.
Si v., ad es., A. MOTTO, Poteri sostanziali e tutela giurisdizionale, Torino, 2012,
413, nt. 157 ad avviso del quale «mentre nel primo caso (diritti relativi)
l’interesse protetto è soddisfatto dall’assunzione del comportamento da parte
di colui che è investito del dovere, nel secondo caso (diritti assoluti) l’interesse
protetto è soddisfatto dal compimento dell’attività lecita, di guisa che
l’osservanza del dovere assume rilievo non in quanto l’assunzione del
comportamento prescritto sia necessaria per la soddisfazione dell’interesse,
bensì in quanto l’assunzione del comportamento dovuto è necessaria al fine di
non impedire lo svolgimento dell’attività lecita, il cui esercizio,
autonomamente, consente il soddisfacimento dell’interesse». È stata sostenuta
anche la posizione diametralmente opposta per la quale il vero contenuto del
diritto reale si identificherebbe e, quindi, si risolverebbe nei doveri di astensione
imposti ai consociati: ciò che avrebbe come conseguenza la larvalizzazione dei
poteri e delle facoltà attribuiti al titolare del diritto: v., ad es., S. PEROZZI, Servitù
e obbligazione, in Scritti giuridici, II, Milano 1948, 326 s.
4
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Al contrario, nel caso dei diritti relativi il ‘dovere’ (che ora
prende i nomi di obbligo e di obbligazione) si disloca lungo una
linea, ad un’estremità della quale si trova il fatto generatore del
rapporto e all’estremità opposta il soddisfacimento dell’interesse
(in senso ampio) creditorio. Esattamente a metà si trovano la
prestazione o, in alternativa, la sua surroga giudiziale le quali
entrambe mirano a procurare al titolare del diritto l’utilità promessa
o, comunque, dovuta5. Da questo punto di vista, osservo ‘per
V., con grande chiarezza, S. PUGLIATTI, Esecuzione forzata e diritto sostanziale,
Milano, 1935, 4. La perfetta equivalenza di adempimento ed esecuzione forzata
– equivalenza apprezzabile sotto il profilo del risultato conseguito e non dei
mezzi impiegati per conseguirlo - è già in F. CARNELUTTI, Diritto e processo nella
teoria delle obbligazioni, in Studi di diritto processuale, II, Padova, 1928, 218-219, al
quale, tra i ‘maiores’, possono aggiungersi. E. BETTI, Struttura dei rapporti di
obbligazione, in Teoria generale delle obbligazioni, II, Milano, 1953, 76 (che riproduce
Il concetto dell’obbligazione costruito dal punto di vista dell’azione, Pavia, 1920, ora
insieme al saggio di Carnelutti appena citato, in E. BETTI, F. CARNELUTTI,
Diritto sostanziale e processo, Milano, 2006); R. NICOLÒ, L’adempimento dell’obbligo
altrui, Milano, 1936, 68 s., 77 ss.; A. FALZEA, L’offerta reale e la liberazione coattiva
del debitore, Milano, 1947, 21 ss. È interessante osservare come l’idea
dell’equivalenza (di adempimento ed esecuzione forzata) sia il precipitato più
genuino, e speculativamente maturo, di quella forma di pensiero a cui siamo
soliti dare il nome di positivismo giuridico. Di questo ci si può rendere conto,
‘per differentiam’, se non ‘per oppositionem’, riflettendo sulla definizione che della
giurisdizione propone Alfredo Rocco (un autore insospettabile di cedimenti a
suggestioni di altro genere): «l’attività con cui lo Stato procura direttamente il
soddisfacimento degli interessi tutelati dal diritto, quando, per una qualunque ragione
(incertezza o inosservanza) non sia attuata la norma giuridica che li tutela» (A. ROCCO,
La sentenza civile, Milano, 1965, ma si tratta di una raccolta di saggi risalenti al
1905, 8). D’acchito, per il modo in cui è formulata, questa definizione non
presenta particolari motivi di interesse rinviando al convincimento, molto
diffuso, che compito della giurisdizione sia quello di rimediare ad un cattivo
impiego della libertà di cui godono i privati (cattivo uso che può assumere le
forme più diverse: spogli, inadempimenti, contestazioni, turbative, molestie
ecc.). Nella sua genericità, innocua e, se intesa in senso puramente descrittivo,
5
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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perfino accettabile (tanto è vero che qualche pagina dopo – l7 s. – Rocco
corregge il tiro). Tuttavia, vorrei richiamare l’attenzione su un punto, anche
questo di per sé abbastanza pacifico almeno secondo il modo corrente di
vedere le cose, e cioè che la giurisdizione, mirando a procurare direttamente il
soddisfacimento degli interessi tutelati dal diritto, presupporrebbe la mancata
attuazione della norma che quegli interessi ha inteso riconoscere. Insomma, la
sequenza destinata a culminare nel ricorso alla giurisdizione, avrebbe due
antefatti: la norma istitutiva della protezione degli interessi e la sua mancata
attuazione. Ora, impostato in questi termini, il discorso rivela una debolezza
logica gravissima che neppure la ben nota propensione del linguaggio giuridico
per la ‘figura’ può occultare: ci si deve chiedere, infatti, a che cosa si ricolleghi
la giurisdizione non semplicemente dal punto di vista causale
(l’inadempimento, lo spoglio ecc.), ma dal punto di vista della sua ragion
d’essere normativa. In altri termini, la domanda che ci si deve porre è non
quando entri in gioco la giurisdizione ma perché, ovvero a quale scopo. Negli
ordinamenti moderni, il fondamento della giurisdizione (civile) è il diritto
soggettivo, cioè la norma giuridica colta quando presiede all’attribuzione di
un’utilità: l’inevitabile corollario di questo è che, sempre nel moderno, il
processo attua un diritto soggettivo, con la conseguenza che non potrà mai
parlarsi, se non, appunto, in un senso puramente figurato, di inattuazione della
norma giuridica perché quest’ultima, in realtà, vestendo i panni del diritto
soggettivo, trova sempre attuazione nel processo. A mio avviso, questa idea della
giurisdizione come corollario del fallimento (inattuazione) della norma
giuridica è tributaria del paradigma imperativista per il quale la norma giuridica
opera mediante la creazione di doveri la cui inosservanza viene poi sanzionata
nella sede del processo. Applicato al rapporto obbligatorio, lo schema in
questione può funzionare soltanto a patto che, come accadeva nell’esperienza
giuridica romana (v. nt. successiva), il debitore venga condannato al pagamento
di una somma di denaro, essendo precluso al creditore l’attingimento, per via
di esecuzione forzata, dell’utilità dovutagli. Viceversa, quel medesimo schema
entrerà irrimediabilmente in sofferenza allorché il processo si rappresenti come
una semplice modalità, alternativa alla ‘solutio’, di adeguamento dello stato di
cose materiale alla regola giuridica attributiva dell’utilità. La normale eseguibilità
in forma specifica dell’obbligazione, in altre parole, non è un accessorio
puramente tecnico che si aggiunge all’obbligazione medesima ab extrinseco
(come, invece, sembra pensare A. DI MAJO, L’obbligazione “protettiva”, in Europa
e dir. priv., 2015, 2 e, ancora da ultimo, in A. DI MAJO, Obbligazioni, cit., 114 ss.),
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
incidens’, la formulazione dell’art. 1174 cod. civ., dove della
prestazione si parla come dell’«oggetto dell’obbligazione», può
risultare ingannevole perché, in realtà l’oggetto dell’obbligazione è
rappresentato dall’utilità assegnata al creditore. Se così non fosse,
il canone dell’equivalenza funzionale di adempimento ed
esecuzione forzata sarebbe irricevibile nella misura in cui la
prestazione (che dell’adempimento individua il profilo sostanziale)
è, per definizione, non suscettibile di surroga. Una conferma di
questo offre il modello dell’obbligazione romana nella quale,
quanto, piuttosto, il suo modo di essere moderno che ne performa la struttura
in conformità ai dettami imposti dalla definitiva concentrazione in capo allo
Stato della forza fisica e della produzione del diritto. Concludo su questo punto
osservando che anche l’elaborazione chiovendiana dell’azione come diritto
soggettivo autonomo (per la quale, oltre che alla celeberrima prolusione
bolognese del 1903 G. CHIOVENDA, L’azione nel sistema dei diritti, in Saggi di
diritto processuale civile, I, Milano, 1993, 3 s., rinvio a G. CHIOVENDA, Principi di
diritto processuale civile, Napoli, 1965 (ristampa dell’edizione del 1923), 46-49 e, in
particolare, all’efficacissimo diagramma della nt. 1 di p. 46), può essere letta
come una risposta al problema posto dalla coesistenza, anzi, della
complementarietà, di inattuazione della norma e di giurisdizione. L’asserita (e,
da allora, nella sostanza mai più messa in discussione) autonomia dell’azione,
assicura un robusto fondamento al processo (fondamento che diventerà tanto
più solido via via che l’azione guadagnerà in autonomia fino a completare per
intero la parabola che dal ‘concreto’ chiovendiano giunge all’‘astratto’
liebmaniano (su questo v. § 12) il quale processo, immune dalle disavventure
della norma giuridica inattuata e (che è la stessa cosa) del diritto soggettivo
frustrato, è chiamato, sempre e comunque, a svolgere il compito di restituire
integrità all’ordine infranto e, dunque, a salvare la pace sociale. Ora, questa
concezione melodrammatica del processo, di cui, come ho appena detto, si
danno epifanie più o meno marcate, rappresenta una costante del dibattito
svoltosi in seno alla sua scienza fin dai primordi quando, per le ragioni che
proverò ad indicare più avanti (§ 6) lo spazio occupato, nel passaggio dal heutiges
al römisches Recht, da una nozione pericolosamente destoricizzata di ‘actio’, finirà
per insediare nel cuore giuridico della modernità un bizzarro rigurgito di arcaico
del quale, ancora oggi, stentiamo a liberarci.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
7
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
effettivamente, l’oggetto del debito (non dell’‘obligatio’ che,
viceversa, cattura la più ampia dimensione della responsabilità, già
proiettata verso il processo) coincide con il ‘dare, facere, praestare’,
ovvero con il contegno del debitore il quale, di per sé, è
incoercibile6. In un sistema come quello romano, la non
6 V. E. BETTI, La struttura dell’obbligazione romana e la sua genesi, Milano, 1955, 24
«mancando…ogni coazione, è evidente che l’esatto adempimento del debito
primitivo dipende in ultima analisi dalla buona volontà dell’obbligato. In altri
termini, quel debito è inesigibile per via di esecuzione forzata. Per questo
rispetto ogni obbligazione in diritto romano classico ha un fondo comune con
quei vincoli di fatto dello schiavo che si qualificano ‘obligationes naturales’. La
differenza tra questa e le altre è che nelle obbligazioni civili al debito è
coordinata una responsabilità, nelle obbligazioni naturali, no: le obbligazioni di
fatto dello schiavo sono monche». Sul punto v., da ultimo, C. PELLOSO, Il
concetto di ‘actio’ alla luce della struttura primitiva del rapporto obbligatorio, in ‘Actio in
rem’ e ‘actio in personam’. In ricordo di M. Talamanca, a cura di L. Garofalo, I,
Padova, 2011, 167. Non del tutto chiara, almeno per me, la posizione di M.
TALAMANCA, Obbligazioni (dir. rom.), in Enc. dir., 29, Milano, 1979, 21-22 ad
avviso del quale «in seguito all’introduzione dell’esecuzione patrimoniale, la
responsabilità del debitore – o del terzo – diviene tendenzialmente omogenea
all’interesse economico del creditore, in quanto garantisce a quest’ultimo una
soddisfazione dell’interesse stesso, se non nella sua specificità, almeno per
equivalente». Riesce difficile, tuttavia, per il moderno conciliare questa
affermazione con quanto affermato poche righe dopo dall’illustre A. ad avviso
del quale «per il meccanismo della condemnatio pecuniaria, il diritto del
creditore, qualsiasi ne fosse stato precedentemente l’oggetto, si trova
trasformato in una pretesa, che è ancora un’obligatio, ad una somma di
denaro….Al livello dell’esecuzione forzata…..la prestazione oggetto
dell’obligatio rimane essenzialmente incoercibile, pur assicurandosi al creditore
una soddisfazione per equivalente economico». Non voglio essere irriguardoso
nei confronti di uno studioso del rango di Talamanca, ma un avverbio come
«tendenzialmente» è la spia linguistica di un discorso che dallo speculativo
scivola verso il retorico. Un ragionamento imperniato sulla tendenziale
omogeneità dell’interesse economico del creditore al suo soddisfacimento per
equivalente è comprensibile in un ordinamento come quello italiano, nel quale,
però, il c.d. ‘risarcimento’ subentra all’impossibilità sopravvenuta della
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
8
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
prestazione per causa imputabile al debitore (art. 1218 cod. civ.). Molto meno
comprensibile è in un ordinamento come quello romano, nel quale la
inesegibilità per via di esecuzione forzata della prestazione originariamente
dedotta ‘in obligatione’ non è conseguenza di un fatto successivo (appunto,
l’impossibilità sopravvenuta imputabile) ma è iscritta nelle regole di
funzionamento del sistema (nello stesso senso M. KASER, R. KNŰTEL,
Römisches Privatrecht, Mūnchen, 2008, 189: «“diese sekundäre Geldleistung tritt
also nicht nur an die Stelle der Primärleistung, wenn diese unmöglich ist und
dem Gläubiger erwünscht wäre. Insofern reichen mithin diese sekundären
Geldleistungen über die Fälle eines wirklichen Schadensersatzes”»; «questa
prestazione secondaria in denaro – scil. quella che mette capo alla condemnatio
pecuniaria – non subentra alla prestazione primaria soltanto quando questa sia
impossibile e il creditore conservasse interesse a riceverla. Sicché, dunque,
queste prestazioni secondarie in denaro si collocano al di fuori dei casi in cui si
ha un vero e proprio risarcimento del danno»). L’‘aestimatio rei’ non è il
succedaneo della prestazione, anche se quest’ultima può essere assunta a
parametro della liquidazione, quanto, piuttosto, la conseguenza della condanna.
Ed è questa anche la differenza fondamentale che passa tra sistemi nei quali la
condanna è «titolo esecutivo», ovvero rappresenta, vigente il divieto di ragion
fattasi, l’unico modo (in difetto di uno spontaneo adempimento) a disposizione
del creditore di appropriarsi della sua utilità, e sistemi (come quello romano)
nei quali la condanna presuppone un’obbligazione, ma ne fonda un’altra (v. la
nt. successiva). A considerazioni non molto diverse si presta C. PELLOSO, Il
concetto, cit., 258, nt. 35 per il quale, ad es., la ineseguibilità in forma specifica di
una prestazione infungibile non comprometterebbe la funzione ripristinatoria
del risarcimento per equivalente. Rinviando ad un momento successivo l’esame
delle questioni da tempo riassunte sotto la formula del ‘primato
dell’adempimento in natura’, qui mi limiterò a ripetere che significato e
funzione dell’equivalente pecuniario della prestazione mutano radicalmente a
seconda che il codice dominante sia quello della assegnazione dell’utilità al
creditore (attingibile, poi, per via di prestazione o per via di esecuzione in forma
specifica), ovvero, al contrario, quello della monetizzazione
dell’inadempimento. La incommensurabilità dei due codici pregiudica la
possibilità stessa di concepire una invarianza dell’interesse del creditore, che
nei sistemi dominati dal primo codice è interesse al godimento dell’utilità
attribuitagli dalla legge (esattamente come nel caso del proprietario), nel
secondo caso è interesse alla persecuzione (l’‘actio’) del debitore, inosservante
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
di un obbligo, cioè di una regola di condotta. In questa direzione va anche il
principio (‘natura tamen debitor permanet’) della irripetibilità della prestazione
eseguita successivamente alla litis contestatio o anche nel caso in cui il ‘reus’ sia
stato assolto (Paul. 3 quaest. D.12.6.60 pr. su cui pure si intrattiene C. PELLOSO,
Il concetto, cit., 252 s.): basti osservare, infatti, che per il diritto moderno quello
della irripetibilità della prestazione effettuata ‘manente iudicio o, perfino, ‘in limine
executionis’ è un problema che neppure si pone, attesa la perfetta, strutturale
fungibilità di ‘spontaneo’ e ‘coercitivo’; mentre la irripetibilità della prestazione
effettuata dal debitore ‘assolto’, al pari della prestazione effettuata dal debitore
‘prescritto’ sono fattispecie che noi decliniamo secondo il registro
dell’obbligazione naturale. Infatti, la differenza fondamentale che passa tra la
soluti retentio degli ‘antichi’ e la ‘soluti retentio’ dei ‘moderni’ è che mentre
quest’ultima è un effetto che prescinde dall’attribuzione di un titolo giuridico
fondativo della irripetibilità del prestato (e, del pari, essa non intrattiene alcun
rapporto con la interpellabilità della giurisdizione, là dove, come si è visto,
nell’obbligazione civile i due profili – irripetibilità e giustiziabilità – sono facce
della medesima medaglia, cioè del diritto soggettivo), la prima coesiste
(‘permanet’) e anzi, almeno nelle ipotesi richiamate in precedenza, presuppone
l’istaurazione di un giudizio finalizzato a procurare al creditore un’utilità diversa
da quella dovutagli. Per concludere sul punto è opportuno richiamare quanto
osservato ancora una volta da E. BETTI, La struttura, cit., 9 in ordine alla
circostanza per cui, in ogni caso, espressioni come «naturalis subest obligatio» (Ulp.
47 ad Sab. D.46.1.8.3) o, appunto, «natura debitum manet», «non avrebbero il
senso tecnico della obbligazione di fatto dello schiavo, bensì il senso di debito
pagabile ma non esigibile…Ciò vuol dire che in forza della litis contestatio il
debito primario, da obbligo di prestazione che era, diventa debito privo di
responsabilità per l’inadempimento, ma che il debitore convenuto può, se
crede, soddisfare. Vuol dire, in altri termini, che la deductio in iudicium opera una
scissione dei due elementi costitutivi dell’obbligazione: elementi che nel
primitivo dare oportere erano organicamente congiunti. Dall’un lato, resta il
debito primario, che sopravvive al di fuori del processo. Dall’altro lato, la
responsabilità, che si stacca dal debito e si converte in altro vincolo. Ciò che
propriamente si converte (si «consuma») in forza della litis contestatio è dunque
la sola responsabilità quale vincolo di ius civile: non anche il debito (secundum
naturalem significationem) per cui essa si era costituita. L’effetto «consuntivo» della
litis contestatio quale deductio in iudicium è uno dei fenomeni dai quali risulta nel
modo più evidente la relativa indipendenza che, entro il congegno dell’obligatio
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
attingibilità in forma specifica dell’utilità attesa dal creditore
conferisce al debito lo status di una norma di condotta la quale, se
osservata, libera l’obligatus dal vincolo cui è astretto e che, se
inosservata, incanala il rapporto verso la sequenza descritta da Gai,
III. 1807. Il passaggio a sistemi nei quali, viceversa, l’utilità è
attingibile forzosamente (cioè, anche in difetto della prestazione)
riconfigura dalle fondamenta il modo di essere dell’obbligazione:
fenomeno questo descrivibile in vari modi (allineamento di debito
e responsabilità, equivalenza funzionale di adempimento ed
esecuzione forzata, ecc.) ma convergente nella trasformazione del
debito (ormai divenuto obbligazione ‘tout court’) da regola di
responsabilità in dispositivo preposto all’attribuzione di un’utilità8.
romana, sussiste tra l’elemento del debito e l’elemento della responsabilità e la
debole congiunzione dell’uno con l’altro».
7 Tollitur adhuc obligatio litis contestatione, si modo legitimo iudicio fuerit actum. Nam tunc
obligatio quidem principalis dissolvitur, incipit autem teneri reus litis contestatione; sed si
condemnatus sit, sublata litis contestatione incipit ex causa iudicati teneri. Et hoc est quod
apud veteres scriptum est, ante litem contestatam dare debitorem oportere, post litem
contestatam condemnari oportere, post condemnationem iudicatum facere oportere. Per una
prima informazione di carattere generale su uno dei luoghi più dibattuti dalla
dottrina romanistica v. Gai Institutiones III. 88-181. Die Kontraktsobligationen, Text
und Kommentar von H.L.W. Nelson und U. Manthe, Berlin, 1999, 434-443. Al
riguardo v. R. SANTORO, Per la storia dell’‘obligatio’. Il ‘iudicatum facere oportere’ nella
prospettiva dell’esecuzione personale, in Antiqui Historia Iuris, I, 2009, 61 s. e ora in
Scritti minori, II, Torino, 2009, 657 s. nel quadro di una lettura ‘diacronica’
dell’obligatio volta a dimostrare come la dipendenza da essa dell’actio (nel senso
di esserne la fedele proiezione processuale) rappresenti solo il punto di un
arrivo di un’evoluzione secolare a lungo dominata dall’idea che l’oportere
individuasse non il fondamento ma l’occasione dell’actio medesima.
8 In un ordine di idee analogo I. PAGNI, Tutela specifica e tutela risarcitoria, Milano,
2004, 60 s. Ne approfitto per aggiungere e concludere, limitatamente al profilo
preso in esame, perché poi sulla questione tornerò più avanti, che, a contrario,
l’esattezza dell’assunto qui sostenuto – e cioè che l’oggetto dell’obbligazione
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Ora, il punto su cui vale la pena di soffermarsi è che, da
sempre, quando si parla della distinzione tra diritti assoluti e diritti
relativi, l’accento viene messo sulla circostanza per cui il
proprietario è già padrone dell’utilità assegnatagli dall’ordinamento
attraverso il titolo costitutivo del diritto, mentre il creditore
disporrebbe di un mezzo giuridico (la pretesa), mero e, almeno fino
al conclamarsi dell’inadempimento, abbastanza inerte riflesso
dell’obbligo gravante sul debitore9. In realtà, la prospettiva
andrebbe rovesciata e ci si dovrebbe chiedere, piuttosto, come mai
il creditore sia abilitato a trattenersi l’utilità pervenutagli per il
tramite della prestazione spontaneamente eseguita dal debitore,
ovvero come mai sia abilitato a procurarsi, sulla base di quello
originario, un nuovo titolo (la sentenza di condanna o equivalenti)
idoneo a promuovere la surroga forzata della prestazione.
La risposta a questa domanda è piuttosto semplice ed è che
il creditore, al pari del proprietario, è titolare di un diritto
soggettivo, il diritto soggettivo di credito, il quale, al pari del diritto
soggettivo di proprietà, nel momento stesso in cui attribuisce al suo
titolare un’utilità, lo munisce dei correlativi titoli: quello di
trattenersi l’utilità là dove il debitore adempia e quello di
deve ravvisarsi non nella prestazione ma nell’utilità – si ricava dal caso nel quale
l’equivalenza funzionale di adempimento ed esecuzione forzata viene messa in
crisi, almeno in apparenza, dalla immedesimazione di prestazione ed utilità (c.d.
infungibilità: v. anche art. 1180, comma 1 cod. civ.). Sul punto rinvio al
successivo § 9.
9 Come è ampiamente noto, tale inerzia segnerebbe, secondo una dottrina
ormai consegnata all’archivio delle idee (sarà sufficiente richiamare quanto
osservato al riguardo da L. MENGONI, L’oggetto dell’obbligazione, in Jus, 1952 e
ora in Scritti II, Obbligazioni e negozio, a cura di C. Castronovo, A. Nicolussi e A.
Albanese, Milano, 2011, 58), l’esclusione del credito dal novero dei diritti
soggettivi: D. BARBERO, Il diritto soggettivo, in Foro it., 1939, 4, 1 ss.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
appropriarsi forzosamente dell’utilità, quando il debitore si astenga
dall’eseguire la prestazione10.
Nel panorama degli orientamenti inclini a conservare un significato
robustamente costruttivo all’alternativa tra diritti assoluti e diritti relativi, una
posizione tutt’affatto particolare occupa S. SATTA, L’esecuzione forzata, in Tratt.
dir. civ., diretto da F. Vassalli, Torino 1952, 4 s. Come è noto, Satta muove dalla
distinzione di secondo grado tra situazioni finali e situazioni strumentali,
imperniata sull’assunto (chiaramente aprioristico) per il quale l’interesse del
proprietario è soddisfatto, mentre quello del creditore, che è lo stesso del
proprietario, ma ‘in nuce’, attende di esserlo: ne consegue, sempre ad avviso
dell’illustre Autore, che: « il diritto del creditore…si concreta nella aspettativa
di un bene da parte dell’obbligato, ed è un diritto appunto perché l creditore
può conseguire un bene anche se l’obbligato volontariamente non adempia.
Tutta l’obbligazione tende strumentalmente a questo fine: ma questo poter
conseguire non è intrinseco al diritto del creditore, come il poter conseguire il
possesso del bene è intrinseco al diritto di proprietà: esso attiene alla sua tutela».
Il punto di ricaduta, in termini di tutela giurisdizionale, è che mentre nel caso
dei diritti reali, la forma propria della tutela è l’accertamento cui fa seguito
l’esecuzione in forma specifica, che non è vera esecuzione ma esercizio del
diritto sotto il giudiziario controllo imposto dal divieto della ragion fattasi, nel
caso dei diritti di credito, la forma propria della tutela è la condanna la quale
apre la strada all’esecuzione per espropriazione, che è la sola vera esecuzione
forzata (sulla scia di Satta si pone L. MONTESANO, La tutela giurisdizionale dei
diritti, in Tratt. dir. civ., fondato da F. Vassalli, Torino, 1985, 146 s.). Ora, delle
molte cose che si potrebbero dire (e che sono state dette) a suffragio di una
critica della proposta sattiana (di cui, però, è impossibile non apprezzare la
forza di seduzione intellettuale), una si impone sulle altre ed è questa. Secondo
Satta, è vero che il creditore può conseguire il bene – ragione per la quale il
diritto di credito è un diritto, e in questo inciso si annida una grande intuizione
– ma il potere di conseguire «non è intrinseco al diritto del creditore, come il poter
conseguire il possesso del bene è intrinseco al diritto di proprietà: esso attiene alla sua tutela».
Questa affermazione è falsificata dalla circostanza per cui la prestazione del
debitore è irripetibile: e ciò significa che, al pari del diritto di proprietà, anche
il diritto di credito ha una vita fuori dalla dimensione della tutela giurisdizionale
e che, analogamente a quanto accade nel caso del diritto di proprietà, anche nel
caso del diritto di credito, il potere di conseguire è intrinseco al diritto.
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Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Speculare a quella di Satta è la posizione di Chiovenda (e di quanti si richiamano
al suo magistero) per il quale, viceversa, se sul piano sostanziale la distinzione
tra diritti reali e diritti di credito mantiene intatta la sua ragion d’essere, essa
scolora, fino a svanire, sul piano processuale dal momento che, una volta
spogliato, il proprietario dedurrà in giudizio il diritto personale alla restituzione
rispetto al quale il titolo di proprietà funge da diritto – presupposto
eventualmente oggetto, ove contestato di un accertamento incidentale (G.
CHIOVENDA, Istituzioni di diritto processuale civile, Napoli, 1960, 15 s. (ristampa
dell’edizione del 1935); G. CHIOVENDA, Principi di diritto processuale, cit., 34-39;
e v. già G. CHIOVENDA, Dell’azione nascente dal contratto preliminare, in Riv. dir.
comm., 1911 e ora in Saggi di diritto processuale, I, Milano, 1993, 115; E. ALLORIO,
Per una teoria dell’oggetto dell’accertamento giudiziale, in Jus, 1955, 247 s.; E.
GARBAGNATI, Azione ed interesse, in Jus, 1955, 316 s. e ora in Scritti scelti, Milano,
1988, 93 s.; A. ATTARDI, L’interesse ad agire, Padova, 1955, 95 s. Da ultimo, per
un esame approfondito della questione e ulteriori indicazioni di letteratura v.
A. MOTTO, Poteri, cit, 417 s.). Infatti, mentre per Satta il ‘prius’ è rappresentato
dalla contrapposizione di ‘finale’ e ‘strumentale’ e, sulla base di essa, il sistema
della tutela viene riletto traducendo ‘finale’ nel binomio accertamento –
esercizio del diritto, e ‘strumentale’ nel binomio condanna – esecuzione per
espropriazione, per Chiovenda (e per i suoi seguaci), il ‘prius’ è rappresentato
dalla inscindibilità del nesso condanna – diritto di credito perché, come dice
appunto Chiovenda (Dell’azione nascente ecc.) «ogni diritto, assoluto o relativo,
tendente a una prestazione, positiva o negativa, si presenta come obbligazione
al momento del processo». In altri termini, mentre il prius sattiano trasferisce
sul piano della tutela giurisdizionale la ‘Ur-trennung’ istituita sul versante del
diritto sostanziale, il prius chiovendiano intuisce la comune materia (la
coercizione) di cui sono impastati i diritti soggettivi e ne restituisce la forza
performatrice proprio attraverso la specola della condanna. Tuttavia, sebbene
preferibile, questo modello merita di essere corretto per un aspetto non
secondario: ma v. § 8. Per concludere, temporaneamente, sul punto, è
opportuno richiamare, nella dottrina più recente, I. PAGNI, Tutela, cit., 59 la
quale giustamente mette in guardia dal (perdurante) rischio di «giustificare la
differenza tra rimedi a carattere specifico e rimedi per equivalente sulla base di
una pretesa differenza di contenuto tra le situazioni soggettive (reali o
obbligatorie) cui tradizionalmente essi corrispondono».
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
3. L’attribuzione di un’utilità è l’ufficio proprio del diritto
soggettivo11. Lo stesso concetto può esprimersi dicendo che
quando l’interesse protetto dalla legge è quello all’attribuzione di
un’utilità, la forma che la protezione assume non può che essere
quella del diritto soggettivo. In considerazione di questo, la
circostanza per cui l’attribuzione veste, talora, i panni
Ritengo opportuno precisare che la prospettiva da me coltivata si distingue
nettamente da quelle riduzioniste, per le quali o i diritti di obbligazione vengono
assimilati ai diritti reali o i diritti reali vengono assimilati ai diritti di obbligazione
(per una panoramica di questi orientamenti, ormai archiviati v. L. MENGONI,
L’oggetto dell’obbligazione, in Scritti II cit., 54 s.; A. DI MAJO, Obbligazioni in generale,
Bologna,1985, 4 s.; M. COMPORTI, Diritti reali in generale, in Tratt. dir. civ. comm.
fondato da S. Cicu, F. Messineo, già diretto da L. Mengoni e proseguito da P.
Schlesinger, V. Roppo, F. Anelli, Milano, 1980, 1 s.). Naturalmente, io non
dubito affatto che i diritti reali funzionino in modo diverso dai diritti di credito
e credo che la ragione di ciò sia abbastanza banale, dovendosi rinvenire nella
eterogeneità degli interessi pratici che i due dispositivi sono chiamati a servire.
Penso, però, che i diritti reali e i diritti di credito siano, in primo luogo, dei
diritti soggettivi e che quindi, volendo ragionare in ‘verticale’ piuttosto che in
‘orizzontale’, ci si debba mettere alla ricerca di quanto li accomuna, piuttosto
che di quanto li distingue. Ora, a mio avviso, il diritto soggettivo individua la
tecnica della quale la legge si avvale affinché, date certe condizioni, anche
queste stabilite dall’ordinamento, taluno possa appropriarsi di un bene della
vita (nel senso di considerare quel bene come destinato e riservato a se
medesimo). Se ci si colloca da questa prospettiva, emerge con chiarezza la
profonda unità che caratterizza i sistemi giuridici moderni nei quali la ‘validità’
(art. 1322, comma 2 cod. civ., art.1325 cod. civ.) – ovvero, appunto, l’insieme
delle condizioni richieste ai fini dell’insorgere di un diritto soggettivo) - è
costitutivamente connessa con la tutela giurisdizionale (art.2907 cod. civ.),
attraverso il medio dell’art.1372 comma 1 cod. civ. (al riguardo v. L. NIVARRA,
La tutela giurisdizionale dei diritti, Torino, 2018, 7 s.). Il punto di massima visibilità
dell’intreccio appena descritto coincide con l’eseguibilità in forma specifica del
diritto di credito, la quale trasforma quest’ultimo da ‘pretesa’ (‘actio’,
‘Anspruch’) in diritto soggettivo, ossia da richiesta di un equivalente monetario
dell’utilità promessagli dal debitore in potere di attingimento forzoso (anche se
mediato dallo Stato) di quell’utilità.
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Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dell’appartenenza, talora quelli della spettanza, è un ovvio
corollario della eterogeneità degli interessi protetti: tale circostanza,
apprezzabile sul terreno classificatorio, non riveste alcun
particolare significato né sotto il profilo dogmatico né, tanto meno,
sotto il profilo teorico-generale. In questo contesto, la locuzione
‘attribuzione di un’utilità’ denota l’esclusiva che il diritto riconosce
ad un soggetto in ordine alla disponibilità di un bene12. Ciò spiega
la ragione per la quale, in buona parte dei sistemi giuridici moderni
(contrassegnati dal programmatico, e complementare, monopolio
statuale della forza e del ‘ius condendum’), diritto soggettivo è
sinonimo di tutela reale (in natura e per equivalente).
La tutela reale, però, non è una prerogativa del diritto
soggettivo. Talora l’ordinamento giuridico protegge interessi
diversi da quello all’attribuzione di un’utilità, secondo modalità che
sono ovviamente irriducibili allo schema del diritto soggettivo ma
che, in ogni caso, prevedono una soluzione giurisdizionale del
problema scaturente dalla violazione della regola di diritto
Nello stesso senso, nel quadro di una elaborata costruzione della categoria
del diritto soggettivo, E. FAZZALARI, Note in tema di diritto e processo, Milano,
1957, 86 s. Secondo Fazzalari il diritto di credito, in quanto diritto soggettivo,
si inquadrerebbe nello schema del diritto inattivo e relativo: inattivo (E.
FAZZALARI, Note, cit., 105), perché la norma vi collega solo l’obbligo altrui;
relativo perché l’obbligo è riferito ad un soggetto determinato (a differenza di
quanto accade nei diritti reali dove la preminenza assicurata al titolare del diritto
è la risultante del concorso di facoltà e obblighi di astensione generalizzati).
Fazzalari, tuttavia, è fautore di una lettura del diritto soggettivo (E. FAZZALARI,
Note, cit., 88-89) che, pur nella differente articolazione del modo in cui
l’ordinamento realizza la preminenza del soggetto riguardo ad un bene (quella
che io chiamo attribuzione di un’utilità), coglie in tale preminenza il tratto
proprio della figura e il fondamento della sua unitarietà. Ciò gli consente di
ravvisare nell’obbligo gravante sul debitore lo strumento tecnico di
inveramento della preminenza e, conseguentemente, di recuperarne la piena,
pari dignità con le facoltà riconosciute al proprietario, a loro volta integrate dai
doveri di astensione istituiti ‘erga omnes’.
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Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
sostanziale rispettosa del nucleo essenziale dell’interesse
selezionato. In via esemplificativa, si possono richiamare il
possesso e l’interesse legittimo. In entrambi questi casi, la legge
tutela un interesse che nulla ha a che vedere con l’attribuzione di
un’utilità – un interesse che attiene all’osservanza di regole di
comportamento: nel primo caso, la regola che vieta di spogliare in
modo violento o clandestino il possessore; nel secondo caso, la
regola, o l’insieme delle regole, che disciplinano l’esercizio della
discrezionalità amministrativa – e, tuttavia, il modo di questa
protezione implica il riconoscimento di poteri intesi ad ottenere il
ripristino dello stato di cose anteriore alla violazione (l’azione di
spoglio e di manutenzione; l’azione di annullamento)13.
Una terza tipologia di interessi ottiene protezione nella forma
del riconoscimento di un potere processuale (azione costitutiva)
finalizzato alla rimozione, tramite accertamento in giudizio
(sentenza costitutiva), del negozio deforme. Si può trattare di una
deformità originaria (nullità, annullabilità, simulazione, rescissione)
o sopravvenuta (risoluzione): in ogni caso, anche qui, vi è una piena
continuità tra l’interesse oggetto di tutela e lo strumento della sua
attuazione14.
4. Nel primo e nel secondo dei tre casi indicati, in quanto
protetti, gli interessi ‘toccati’ dal legislatore assumono giuridica
rilevanza: ciò che li rende idonei a fondare il giudizio di
Sul punto v. anche oltre, § 7. Come dice U. Mattei, I rimedi, in AA.VV., Il
diritto soggettivo, in Tratt. dir. civ. diretto da R. Sacco, Torino, 2001, 134-135 «la
tutela reale protegge un interesse in quanto tale, in modo indipendente tanto
dalle condizioni di riprovevolezza della lesione quanto da chi lo ha leso. La
tutela reale può azionarsi per se».
14 V.E. REDENTI, Sui trasferimenti delle azioni civili, in Riv. trim. dir. proc. civ., 1955
e ora in Scritti e discorsi giuridici di mezzo secolo, Milano, 1962, 102-103.
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Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
responsabilità civile imperniato sulla «ingiustizia del danno»15. Il
significato di questa formula risiede in buona parte nella sua storia,
contrassegnata, oltreché da una elaborazione dottrinale di
straordinaria ricchezza, da alcuni arresti della giurisprudenza i quali
hanno contribuito a mettere in luce il funzionamento del congegno
aquiliano. Ora, il modo in cui il dibattito intorno a quest’ultimo si
è venuto sviluppando negli ultimi cinquant’anni e, ancora di più, il
modo in cui quel dibattito è stato reintepretato, risente fortemente
del suo punto di partenza costituito dall’equazione danno ingiusto
– lesione di un diritto assoluto. Secondo questa impostazione
compito degli artt. 2043 ss. cod. civ. sarebbe stato, in definitiva,
solo quello di definire le condizioni di risarcibilità in concreto del
danno (nesso di causalità, criteri di imputazione), oltreché di
stabilire, attraverso il richiamo all’art.1223 cod. civ., la stessa
categoria normativa del danno. Viceversa, competenti in punto di
ingiustizia del danno, ossia in ordine al profilo della risarcibilità in
astratto del danno, sarebbero state le norme istitutive del rimedio
compensativo, le quali tutte, appunto, concernevano casi di
Vedremo più avanti che, a causa delle evoluzioni della giurisprudenza in
materia di responsabilità civile, le due locuzioni (‘interesse giuridicamente
protetto’ – ‘interesse giuridicamente rilevante’) non sono più integralmente
sovrapponibili. Quanto al terzo caso, qui la proiezione risarcitoria della tutela è
pura inosservanza di un obbligo di condotta (non dell’inesistente ‘alterum non
laedere’) autentico ‘wiederrechtliches’, tutto iscritto dentro la relazione in atto
(art. 1338 cod. civ.; art.1440 cod. civ.): ciò che ne decreta l’estraneità alla
relazione in potenza cui si riannoda il dispositivo aquiliano. In altri termini: una
prima volta (responsabilità contrattuale, contenitore dentro il quale trova posto
il terzo caso), l’obbligazione risarcitoria è mimesi imperfetta dell’obbligazione
primaria (questa davvero infungibile, come è tipico degli obblighi di
protezione); nel secondo caso, l’obbligazione risarcitoria è un quid novi investito
del compito di riparare alle conseguenze di un’interferenza occasionale.
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Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
pregiudizio arrecato ad un diritto soggettivo assoluto (artt.7,10,948,
949, 1079 cod. civ.)16.
Si spiega così la ragione per la quale uno, se non il più
importante, dei registri che hanno scandito il discorso sul torto
aquiliano sia stato quello della sua ‘tipicità’ e del progressivo
superamento della medesima. A ben vedere, però, quella della
‘tipicità/atipicità’ del sistema della responsabilità civile rischia di
essere una pista falsa, piuttosto che una bussola capace di segnare
il percorso. Infatti, già a partire dalla celebre pronunzia ‘Meroni’ le
ss. uu. ebbero modo di affermare che se, per un verso, l’esclusione
dei diritti di credito dalla tutela aquiliana non trovava alcuna
giustificazione positiva, per altro verso la lettura inclusiva
16 Questo è, verosimilmente, ciò che si intendeva dire quando si parlava dell’art.
2043 cod. civ. come di una norma ‘secondaria’. Il fatto che l’«ingiustizia» non
individui una norma ‘secondaria’ (cioè, solo riepilogativa dei casi nei quali il
legislatore, espressamente, prevede la riparazione del danno, non significa,
come moltissima parte della dottrina giuridica italiana ha mostrato, e, tuttavia,
mostra di ritenere (v., da ultimo, A. DI MAJO, Responsabilità civile (Problema e
sistema), in Le parole del diritto. Scritti in onore di Carlo Castronovo, III, Napoli, 2018,
1600) che l’ingiustizia sia ‘autoreferenziale’ e, quindi, in grado di patrocinare
«una valutazione comparativa degli interessi in conflitto e il loro
bilanciamento». Al contrario, deve ritenersi che compito dell’«ingiustizia» sia
quello di catturare e di rendere rilevanti, sotto la specie della risarcibilità, tutti
gli interessi ai quali l’ordinamento accordi la sua protezione,
indipendentemente (da) e, anzi, proprio con specifico riguardo, alle ipotesi nelle
quali la misura riparatoria non sia inclusa nel set delle tutele. Da questo punto
di vista, come provo ad argomentare nel testo (ma v. nt. 22), il binomio
tipicità/atipicità (o clausola generale) in conformità al quale è stato scandito il
discorso sul nostro sistema della responsabilità civile, sconta il modo, a mio
avviso erroneo, in cui è stato interiorizzato il distacco dal paradigma
carneluttiano, come se l’unica alternativa alla claustrofobia da
‘Enumerationsprinzip’ fosse la fuga in avanti nel vuoto pneumatico della
clausola generale.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dell’art.2043 «lascia(va) fuori dalla (sua) sfera di protezione quegli
interessi che non siano assurti al rango di diritti soggettivi».
Insomma, dopo ‘Meroni’17 i diritti di credito si affiancano ai
diritti assoluti, ma questo non ha molto a che vedere con la
questione della tipicità, non potendosi neppure immaginare la
possibilità di un diritto di credito ‘atipico’18. Esattamente ventotto
anni dopo, le ss. uu. proclamano la risarcibilità del danno da lesione
di un interesse legittimo sulla scorta di una fragorosa
riproposizione dell’alternativa ‘tipicità’/‘atipicità’ della regola di
responsabilità civile la quale, attraverso l’insistito richiamo alla
lettura dell’art. 2043 nei termini di una clausola generale, occupa
una parte cospicua della motivazione della sentenza. Sotto questo
profilo, colpisce il confronto con ‘Meroni’, di cui è impossibile non
apprezzare la sobrietà in punto di ingiustizia. Tuttavia, la
sovrabbondanza del discorso svolto dalle ss. uu. può spiegarsi
come un riflesso del timore che suscita nel giudice l’imminente
varco delle Colonne d’Ercole del diritto soggettivo e la estensione
della tutela aquiliana ad interessi protetti in una forma diversa,
appunto quella dell’interesse legittimo. Ciò non toglie che il
risultato al quale pervengono le ss. uu., ancorché molto
significativo sotto il profilo giuspolitico, non abbia molto (anzi,
Cass., ss. uu. 26 gennaio 1971, n.174, in Foro.it., 1971, 342.
Il diritto di credito, in quanto diritto soggettivo, individua una infrastruttura
del sistema e, in quanto tale, esso è sottratto all’influenza dell’autonomia
privata. Al massimo, si può immaginare una atipicità delle fonti
dell’obbligazione (ad es., i contratti di cui all’art. 1322, comma 2 cod. civ.) ma
una volta venuto in essere, il diritto di credito è emanazione pura del potere
costituito: e la stessa distinzione tra ‘norma agendi e facultas agendi’, per quello
che vale, è un chiaro indice della totale dipendenza del diritto soggettivo dal
diritto oggettivo. In questa direzione milita anche il ‘numerus clausus’ dei diritti
reali i quali, come dimostra il caso dei ‘minori’, presenterebbero un più elevato
grado di manipolabilità pattizia, con la conseguenza che l’ordinamento avoca a
sé anche il controllo sui titoli costitutivi.
17
18
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
20
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
non abbia nulla) a che spartire con il problema della
tipicità/atipicità del danno aquiliano e neppure con quello (che del
primo rappresenta solo l’altra faccia) della lettura dell’ingiustizia in
chiave di clausola generale.
Infatti, come nel caso dei diritti di credito, anche nel caso
degli interessi legittimi, è semplicemente impossibile immaginare
che la largizione della tutela risarcitoria rappresenti la causa, e non
solo l’effetto, della rilevanza giuridica degli interessi (ora) protetti
in sede aquiliana. In altri termini, proprio come nel caso dei diritti
di credito, anche nel caso degli interessi legittimi, la rilevanza
giuridica di questi ultimi è inscindibile dalla protezione che essi
ricevono sotto altra forma (potere di partecipare al procedimento
amministrativo, potere di impugnare l’atto della p.a. in tesi lesivo
del sotteso interesse sostanziale): ciò che, appunto, vale ad
escludere che la loro riconduzione entro il perimetro del risarcibile
aquiliano possa intendersi, e giustificarsi, attingendo al topos della
atipicità.
5. Arrivati a questo punto del discorso, ci si potrebbe
domandare se quella della tipicità/atipicità sia una lente non solo
riduttiva ma anche impropria. In realtà, a mio avviso, ci sono
margini per recuperare un uso conducente della nozione di atipicità
in relazione all’illecito aquiliano, purché si proceda ad una revisione
delle sue condizioni di impiego. A tal fine, è d’aiuto la
giurisprudenza in tema di danno non patrimoniale, là dove essa
propone, con riguardo alla (abbastanza fumosa, diciamolo
chiaramente) figura degli «interessi della persona di rango costituzionale»,
frutto della c.d. interpretazione costituzionalmente orientata
dell’art. 2059 cod. civ., l’idea che la tutela risarcitoria «costituisca la
forma minima di tutela», con la conseguenza che «una tutela
minima non è assoggettabile a limiti specifici poiché ciò si risolve
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
21
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
in rifiuto di tutela nei casi esclusi»19. Quindi, l’ordinamento
giuridico conterebbe al suo interno (fondamentalmente a causa di
una ‘Drittwirkung’ a compasso allargato) interessi giuridicamente
rilevanti anche se non giuridicamente protetti: tanto rilevanti da
meritare l’accesso alla tutela risarcitoria, ma privi del grado di
protezione corrispondente alla loro attuazione giudiziale, ovvero
privi della tutela reale.
Ora, per quanto la costruzione pretoria presti il fianco a varie,
possibili critiche, essa ha il pregio di portare alla luce un dato della
realtà ordinamentale spesso obnubilato, e cioè che l’atipicità non
può essere predicato riferibile agli interessi giuridicamente protetti,
cioè a quella tipologia di interessi di cui la legge, nelle forme
sommariamente indicate al § 3, prevede l’attuazione in forma
specifica20. Per dirla in altro modo, in sistemi giuridici come quelli
Cass., ss. uu. 11 novembre 2008, n. 26972. in https://www.altalex.com/. Come
è noto, alle spalle degli approdi della giurisprudenza di legittimità sta
l’elaborazione della Corte costituzionale, a partire da Corte cost. 14 luglio 1986,
n. 184, in Foro it., 1986, I, 2053 s., con nota di G. Ponzanelli, La Corte
costituzionale, il danno non patrimoniale e il danno alla salute.
20 La locuzione ‘attuazione in forma specifica’ sta ad indicare la fedeltà del
mezzo giurisdizionale (dall’accertamento mero, all’accertamento costitutivo,
all’accertamento che apre la strada all’esecuzione forzata, meglio noto come
condanna) al canone chiovendiano dell’effettività. Quest’ultima, a sua volta
può intendersi in due modi diversi, anche se strettamente collegati. In un primo
senso, l’effettività, appunto, esprime, sul versante della giurisdizione, l’impegno
assunto dall’ordinamento nei confronti del singolo allorché l’interesse di questi
sia divenuto oggetto di una ‘specifica’ protezione legale; in un secondo senso,
l’effettività sta ad indicare lo scarto tra la ‘specificità’ della protezione accordata
dall’ordinamento e la ‘effettiva’ ‘traduzione’ processuale di quella ‘specificità’.
Il problema, come è noto, riguarda fondamentalmente la tutela di condanna,
per la quale, costretta come è a misurarsi con la necessità di modificare stati di
cose fisici, la forza performativa degli enunciati normativi non è sufficiente a
conseguire il risultato voluto. Sul punto tornerò più avanti (§ 11), non senza
avere prima rammentato come in questa seconda accezione l’effettività abbia
19
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
22
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
moderni, i quali avocano a sé non solo il monopolio della
giurisdizione, ma anche quello della validità e della efficacia degli
rappresentato, tra gli anni ’70 e gli anni ’80, il motivo ispiratore di una intera
stagione di studi che aveva nell’art. 24 Cost. il suo riferimento primario (v.
AA.VV, Processo e tecniche di attuazione dei diritti, a cura di S.Mazzamuto, Napoli,
1987). Infine, oggi, si è consolidato un ulteriore uso di effettività, patrocinato
dalla giurisprudenza delle Corti europee. Sul punto v. I. PAGNI, Tutela, cit.,15
s.; I. PAGNI, Effettività della tutela giurisdizionale, in Enc. dir., Annali, 10, Milano,
2017, 355 s. In una chiave di generale rilettura del canone, v. ora Processo e tecniche
di attuazione dei diritti. Omaggio, cit. Un particolare interesse riveste, in questa
prospettiva, il denso saggio di M. LIBERTINI, Le nuove declinazioni del principio di
effettività, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 21 s., dal quale
emerge con chiarezza come: a) sulla macroscala dell’ordinamento, ‘effettività’
sia un significante sostanzialmente vuoto, impiegato dalle teorie generali di
vario orientamento per occultare un’ovvietà, e cioè che gli ordinamenti giuridici
ineffettivi sono semplicemente inesistenti; b) il discorso sull’effettività
(ri)guadagni un senso allorché venga messo in connessione con il diritto
soggettivo, proprio perché quest’ultimo, incarnando la sintesi di validità e tutela
(giurisdizionale) è il luogo nel quale l’effettività può essere misurata, senza
scadere nel melodramma della crisi di sistema (alle corte: abbiamo convissuto
per decenni con un ammanco di effettività della tutela del credito, ammanco
che si presentava nei panni del destino puramente risarcitorio
dell’inadempimento en general o, quanto meno, dell’inadempimento delle
obbligazioni infungibili, senza che questo mettesse a repentaglio la
sopravvivenza dell’ordinamento: del resto, dovrà pure esservi una qualche
differenza tra la presa del Palazzo d’Inverno e la mancata previsione
dell’astreinte); c) nell’orizzonte della governamentalità ordoliberale (la formula è
mia, non di Libertini), l’effettività restituita al diritto soggettivo prenda il nome
di «rimedio» e ponga capo ad una giurisdizionalizzazione del singolo rapporto
contrattuale che, di suo, obbedisce ad un disegno titanico di ‘Marktmässigkeit’
dell’autonomia contrattuale, da ampi settori della nostra dottrina
entusiasticamente scambiato, viceversa, per la resurrezione di un diritto a
prevalenza del formante giurisprudenziale. Su quest’ultimo punto mi permetto
di rinviare a L. NIVARRA, Relazione introduttiva, in Giurisprudenza per principi e
autonomia privata, a cura di S. Mazzamuto e L. Nivarra, Torino, 2016, 3 s.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
23
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
atti di autonomia privata, immaginare che vi siano interessi
giuridicamente protetti atipici significa incorrere in un’aporia.
Infatti, un atto valido ed efficace è, ipso iure, via d’accesso alla
giurisdizione (anzi si tratta del medesimo fenomeno riguardato da
due diverse prospettive), e alla giurisdizione si può accedere solo
quando si tratta di reclamare tutela per i diritti soggettivi (ovvero
per le situazioni equivalenti di cui sempre al § 3), ovvero, ancora,
soltanto quando la regola di diritto sostanziale sia proiettata verso
la mobilitazione della forza21. Viceversa, la giurisprudenza in
Questo non accade sempre: è il caso marginale ma non banale delle
obbligazioni naturali, ma anche quello, meno banale, dei diritti potestativi
autosufficienti (art. 1456 cod. civ.: L. MONTESANO, La tutela, cit., 132). La
‘forza’ di cui si parla nel testo non è solo quella, conclamata, in opera
nell’esecuzione forzata, ma anche quella, urbanizzata, che si presenta nelle vesti
dell’accertamento (e, tanto più, dell’accertamento costitutivo) assistito dalla
‘forza’ (guarda caso) del giudicato sostanziale (quella che i tedeschi chiamano
‘blosse Rechtskraft ohne Titulierung’: J. MÜNCH, Vorbeugender Rechtsschutz im
Zivilprozessrecht, in Prozessrecht und materielles Recht, hrsg. v. J. Münch, Tübingen,
2015, 242). L’‘urbanizzazione’ della forza garantita dall’accertamento
consacrato spiega i toni con i quali il Maestro di Premosello parla della tutela
di mero accertamento: «è questa veramente la funzione più elevata del processo
civile. Esso ci si presenta qui, anziché nella figura violenta e dura di un
organismo di coazione, nell’aspetto più perfezionato e più raffinato di
strumento di integrazione e specializzazione della volontà espressa nella legge
solo in forma generale ed astratta; di facilitazione della vita sociale mediante la
eliminazione dei dubbi che intralciano il normale svolgimento dei rapporti
giuridici» (G. CHIOVENDA, Azioni e sentenze di mero accertamento, in Riv. dir. proc.
civ., 1933, I, 5 s. e ora in Saggi di diritto processuale civile, III, Milano, 1993, 21). Nel
caso del possesso, l’accesso alla giurisdizione si riannoda all’esigenza di
preservare, e riaffermare, il monopolio statuale della forza (che qui, tra l’altro,
si presenta nella sua forma più cruenta, ossia quella dell’esecuzione coattiva,
allorché lo spogliante non ottemperi all’ordine di reintegra). L’idea tralaticia che
il possesso sia uno stato di fatto (idea che, di per sé, non significa niente perché
tutto quello che non è oggetto della performazione giuridica, è fatto, cioè un
segmento di realtà non attratto nell’orbita della realtà ‘parallela’ del diritto: ma,
21
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
24
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
appunto, non è questo il caso del possesso) nella sua trivialità coglie un punto
di vero: e cioè che la tutela giurisdizionale viene qui largita indipendentemente
dalla circostanza che il sistema effettui una valutazione del tipo di quella
incapsulata nell’art. 1325 cod. civ. o esplicitata nell’art. 1322, comma 2 cod. civ.
In altre parole, nel caso del possesso, la tutela si riannoda direttamente allo
stato di cose oggetto della valutazione normativa (lo spoglio violento o
clandestino: art. 1168 cod. civ.; le turbative e le molestie: art. 1170 cod. civ.):
ciò che consente di distinguere il possesso nell’ordine da 1) i fatti dei quali
l’ordinamento scrutina la pretesa di valere come regole (le transazioni
individuali) suggellati, là dove risultino idonei al test di ingresso nella realtà
‘parallela’, dal crisma della validità; 2) i fatti che, pur non avendo alcuna pretesa
regolatoria, l’ordinamento egualmente converte in diritti soggettivi poi
azionabili in giudizio ex art. 2907 cod. civ. (ad es. i modi di acquisto della
proprietà a titolo originario); 3) i fatti che l’ordinamento assume come pure
cause di attribuzioni patrimoniali irretrattabili (le ‘dationes’ socialmente o
moralmente assistite dell’art. 2034 cod. civ.). Il possesso si distingue da 1) e 2)
perché la protezione del corrispondente interesse non si traduce
nell’attribuzione di un’utilità di cui è indice solo il riconoscimento di un diritto
soggettivo; si distingue da 3) perché, comunque, la protezione dell’interesse ha
luogo nella forma dell’azione. A proposito di 3), cioè dell’obbligazione naturale,
l’idea, di matrice brinziana e di chiara ascendenza romana, ancora di recente
riproposta nel quadro di un’ampia trattazione del tema (R. FERCIA, Obbligazioni
naturali, in Tratt. delle obbligazioni, diretto da M. Talamanca e L. Garofalo,
Padova, 2010, 174 s.) secondo cui il ‘debito’ godrebbe di una propria autonoma
vita, distinta dalla ‘responsabilità’, appare irricevibile ove solo si consideri che
l’accesso alla tutela giurisdizionale (ciò che viene detta, in modo a mio avviso
non del tutto proprio, ‘coercibilità’) è inseparabile dalla assegnazione di
un’utilità in via esclusiva a taluno nella forma del diritto soggettivo. Nel caso
delle obbligazioni naturali questo, pacificamente, non accade, perché il
creditore ‘naturale’ non è titolare di un diritto soggettivo e, quindi, non è
abilitato ad interpellare il giudice. Questo non significa affatto che
l’obbligazione naturale sia un fenomeno extragiuridico, altrimenti resterebbe
davvero senza risposta la ‘soluti retentio’: significa che la sua giuridicità si
manifesta secondo un codice estraneo al binomio validità – tutela (L. NIVARRA,
La tutela, cit., 6-7).
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
25
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
materia di danno non patrimoniale, attraverso il lungo e
tormentato lavorio prima sul danno biologico, poi sul danno
esistenziale, ha portato alla luce una quarta tipologia di interessi alla
quale accede la sola tutela risarcitoria, che qui si presenta in purezza
e non nelle equivoche vesti di ancella della tutela reale22.
22 Come si è visto, la formula della «minima tutela risarcitoria» viene impiegata
dalle ss. uu. con riguardo ai c.d. ‘interessi della persona costituzionalmente
protetti’ i quali, sempre secondo l’avviso della Cassazione riunita,
rappresenterebbero l’evoluzione/sistemazione del danno esistenziale (secondo
l’insegnamento impartito da Cass. 31 maggio 2003, nn. 8827 e 8828, in
https://www.altalex.com. L’operazione consente al giudice di legittimità di
ricompattare la figura del danno non patrimoniale (il quale aveva condotto a
lungo vita da separato in casa, distribuito come era tra l’art. 2043 cod. civ. – il
danno biologico, prima, e il danno esistenziale, poi – e l’art. 2059 cod. civ. - il
danno morale soggettivo -); e, per altro verso, di proporre una lettura binaria
della responsabilità civile, articolata nei due sottosistemi del danno
patrimoniale, retto da una regola di atipicità (art. 2043 cod. civ.) e del danno
non patrimoniale, retto da una regola di tipicità (art. 2059 cod. civ.). Ci sarebbe
molto, se non da obiettare, quanto meno da discutere sulla ‘tipicità’ degli
interessi presidiati dall’art. 2059, una volta spalancata la strada
all’interpretazione costituzionalmente orientata di quest’ultimo. Mi limito solo
ad osservare che questa linea di ragionamento rivela la costitutiva ambiguità del
binomio ‘tipico/atipico’, una volta utilizzato per distinguere ciò che ‘naturaliter’
avrebbe avuto accesso alla tutela aquiliana da ciò che ne era escluso (diritti reali
vs. diritti di credito), ora utilizzato per designare ciò che al risarcimento avrebbe
accesso sempre naturaliter (art. 2059) da ciò che al risarcimento avrebbe
accesso per via di bilanciamento (art. 2043). Quanto al ‘naturaliter’ (sinonimo
di ‘tipico’, in questo idioletto un po’confuso), muta solo il modo di intendere
la ‘natura’: ieri la dogmatica (erede e depositaria del ‘Vernunftrecht’), oggi la
Costituzione (che, in effetti, incarna l’eterno ritorno del diritto naturale, nelle
spoglie consentite dai protocolli del diritto moderno, integralmente
positivizzato): sebbene debba osservarsi che, mentre la ragione dogmatica
provvedeva a ‘chiudere’ il sottosistema della responsabilità, la ragione
costituzionale ha operato nella direzione esattamente opposta, come, appunto,
la vicenda giurisprudenziale dell’art. 2059 si incarica di mostrare, con buona
pace della attendibilità della summa divisio patrocinata dalle ss. uu. Venendo, poi,
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
26
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
In altri termini, si può dire che la dottrina della «minima tutela
risarcitoria», formatasi a ridosso dei c.d. «interessi della persona
costituzionalmente protetti» ha portato alla luce, attraverso un uso
largo dell’argomento costituzionale, una quarta (rispetto alle tre già
menzionate al § 3) tipologia di interessi, caratterizzati dalla
occorrenza del solo rimedio aquiliano23. Questi interessi che
chiamerò ‘interessi giuridicamente rilevanti’ per distinguerli da
quelli affidati alle cure (anche) della tutela reale, ai quali, viceversa,
darò il nome di ‘interessi giuridicamente protetti’24, rivestono, a mio
avviso, un importante significato sul piano di un corretto
inquadramento della tutela risarcitoria per rapporto, appunto, alla
tutela reale: ed è su questo punto che vorrei ora soffermare
l’attenzione.
6. Come ho già ricordato, gli ‘interessi giuridicamente
protetti’, oltre che della tutela reale, godono anche della tutela
all’art. 2043, il quale, a differenza dell’art. 2059, tollererebbe una lettura
dell’«ingiustizia» capace di includere nel novero del risarcibile anche ipotesi non
espressamente previste dalla legge, escluso, per le ragioni indicate in precedenza
nel testo, che tali ipotesi possano identificarsi con il possesso o con l’interesse
legittimo, è verosimile supporre che la giurisprudenza di legittimità alluda a
quelle strane figure di torto aquiliano (il danno meramente patrimoniale, il
danno da perdita di chance, il danno da omessa o scorretta informazione ecc.) le
quali o sono del tutto eccentriche al sistema, oppure andrebbero meglio
ricondotte entro l’alveo della responsabilità ex contractu. Al riguardo v.,
compendiosamente, C. CASTRONOVO, La responsabilità civile, Milano, 2018, 299
s.; M. BARCELLONA, Trattato della responsabilità civile, Torino, 2011, 521 s.
23 Forse sarebbe più corrispondente al vero dire che questa dottrina, e la
giurisprudenza sulla scorta della quale essa è stata elaborata, ha ‘istituito’ la
classe degli «interessi della persona costituzionalmente protetti».
24 Si tratta, all’evidenza, di convenzioni verbali che, però, designano posture
regolatorie effettivamente differenti.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
risarcitoria. La coesistenza delle due forme di tutela ha
rappresentato, storicamente, una prerogativa dei diritti assoluti: e
ciò spiega la ragione per la quale, a lungo, si è potuto ritenere che
la norma di cui all’art. 2043 cod. civ. fosse una norma di carattere
secondario25. In prosieguo di tempo, il campo di applicazione
dell’art. 2043. si è andato allargando fino ad includere nell’area del
‘rilevante’ aquiliano, gli interessi legittimi. Tuttavia, come pure
chiarisce Cass. n. 500/1999, gli interessi legittimi, per quanto si
distinguano dai diritti soggettivi, condividono con questi ultimi
l’eccedenza della tutela dalla dimensione puramente risarcitoria26.
In altri termini, la parabola tenuta a battesimo da ‘Meroni’ si è
sviluppata per linee orizzontali, tutte interne alla classe degli
‘interessi giuridicamente protetti’: e ciò, naturalmente, ha
contribuito a preservare il convincimento secondo cui il rimedio
risarcitorio si iscriverebbe anch’esso entro l’orizzonte della tutela
dei diritti (e delle figure a questi equiparate sotto la specie
dell’accessibilità alla giurisdizione).
L’idea che ‘reale’ e ‘risarcitorio’ siano modalità
complementari di attuazione del disegno ordinamentale delle tutele
si alimenta di una pluralità di motivi, il primo dei quali è
rintracciabile nel nesso genealogico che lega l’illecito civile alla
Ciò deve essere inteso nel senso che la locuzione «danno ingiusto» veniva
descritta nei termini di un enunciato linguistico semanticamente debolissimo
(esso significava ciò che era già detto da altri enunciati normativi), chiamato ad
esplicare una funzione di mero richiamo all’interno di un sottocodice
linguistico (quello della responsabilità civile) a cui, però, il segno in questione
non aggiungeva nulla di nuovo.
26 Cass. ss. uu., 22 luglio 1999, n..500, in Foro.it., 1999, II, 569: «..l’ordinamento
assicura tutela all’interesse del danneggiato, con disposizioni specifiche (così
risolvendo in radice il conflitto, come avviene nel caso di interesse protetto
nella forma del diritto soggettivo….), ovvero comunque lo prende in
considerazione sotto altri profili (diversi dalla tutela risarcitoria…)».
25
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
28
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
lesione del ‘dominium’27. Sul piano più strettamente tecnico, un
importante precedente può ravvisarsi nella tesi di Chiovenda
secondo la quale il diritto di proprietà, una volta violato, si
presenterebbe all’appuntamento con il processo vestendo i panni
del diritto personale: ora alla restituzione, allorché si agisca in
rivendica, ora al risarcimento, allorché si agisca ‘ex lege Aquilia’28.
Come vedremo più avanti29, anche nel primo caso
(restituzione reclamata dallo spogliante) questa tesi è passibile di
critica. Tuttavia, è innegabile che essa catturi, pur non filtrandolo
speculativamente, un dato di realtà: la tutela di condanna, infatti, si
riannoda sempre ad una crisi di cooperazione30 e quest’ultima, a
sua volta, mette necessariamente capo alla trasformazione dello
‘jeder’ nel convenuto, il quale non può che avere un nome e un
cognome.
In altri termini, tanto lo spoglio quanto il danno implicano
che qualcuno sia uscito dal gruppo degli ‘omnes’ e abbia conseguito
una identità precisa: ciò accade perché la cooperazione messa in
crisi da evenienze di questo tipo è puramente e semplicemente
l’ordine sociale, ovvero il nulla, se passato ad un vaglio appena
appena affilato. Lo stesso nulla che affligge formule tipo ‘ius erga
omnes’ o ‘alterum non laedere’, le quali, nonostante i molti sforzi di
molte menti finissime, continuano a non significare nulla o a
Tutti e quattro i delicta menzionati nel manuale gaiano (Gai III. 182: furto,
rapina, danno e iniuria) presuppongono la lesione di un diritto assoluto.
28 V. nt. 10.
29 V. § 8.
30 A. PROTO PISANI, Appunti sulla giustizia civile, Bari, 1982, 43 s.
Incomprensibile, almeno per me, la posizione di chi, come A. ATTARDI,
L’interesse, cit., 98, trae dalla circostanza che il proprietario debba passare
attraverso le forche caudine dell’esecuzione per consegna o per rilascio
argomento per negare che il diritto fatto valere in rivendica sia quello di
proprietà.
27
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
29
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
significare quel che chi se ne avvale vuole che significhino: ciò che,
in definitiva, è la stessa cosa che non significare nulla. Il diritto
privato moderno presuppone l’ordine sociale (si tratta del nucleo
irriducibilmente hobbesiano della modernità), la costruzione e la
conservazione del quale è competenza esclusiva del diritto
pubblico, sotto la specie del diritto penale. I divieti istituiti da
quest’ultimo sono davvero ‘erga omnes’ perché il loro ambito di
applicazione coincide senza residui con l’esercizio della sovranità,
mentre quello corrispondente al diritto privato è uno spazio nel
quale la sovranità si esercita su fatti creativi di relazioni sociali, in
primo luogo le transazioni della c.d. autonomia privata. In altre
parole, lo spazio ‘penalistico’ è uno spazio rarefatto, popolato da
una socialità per la quale l’essere ridotta ad oggetto della
valutazione sovrana è senza alternativa e senza riscatto; mentre lo
spazio ‘privatistico’ è uno spazio denso, abitato da una socialità per
la quale l’assoggettamento al potere pubblico ne significa anche il
riconoscimento da parte di quest’ultimo, in termini di validità (dei
negozi) e di giustiziabilità (dei diritti).
Si spiega così perché l’illecito civile, in tutte le sue epifanie,
sia contatto sociale che, per quanto traumatico, l’ordinamento
converte in obbligazione, sulla falsariga del modus operandi delle
transazioni individuali (in questo, sia pure muovendo da
prospettive diversissime, colgono nel giusto sia Chiovenda, sia
Calabresi e Melamed). Ed è per questa stessa ragione che
soggettività indeterminate, nel diritto privato, non hanno
cittadinanza o hanno una cittadinanza così effimera da risultare,
alla fine, impalpabile. L’obbligazione restitutoria (su cui, però,
tornerò più avanti) e l’obbligazione risarcitoria non sono per nulla
le conseguenze della violazione di un ipotetico dovere gravante
super omnibus, quanto, piuttosto, gli effetti di una fattispecie (ciò che,
nel caso dell’illecito aquiliano è asseverato per tabulas dalla
formulazione dell’art. 1173 cod. civ.). Del resto, questi stessi
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
30
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
concetti si possono formulare dicendo che mentre l’inosservanza
della norma penale si traduce immediatamente in soggezione (alla
potestà punitiva dello Stato), l’inosservanza della norma civile
implica sempre un venire a contatto di sfere giuridiche determinate:
e qui l’ingresso in scena della potestà coercitiva è sempre asservito
ad un’esigenza di riproduzione dello stato di cose interferito31.
Molti dei fenomeni ai quali assistiamo (‘soft law’, ‘lex
mercatoria’, peso crescente della giurisprudenza arbitrale), possono
essere reinterpretati proprio nella chiave di un superamento del
paradigma hobbesiano per il quale, come si è detto, il diritto privato
Certo, anche l’omicidio può consumarsi solo se due corpi si avvicinano; o,
per scegliere un esempio meno cruento, anche il peculato può consumarsi solo
se un corpo (oggi, anche le sue protuberanze digitali) si avvicina ad un
patrimonio. Tuttavia, sulla scena del reato e della punizione si muovono
sempre corpi, mentre sulla scena dell’illecito civile e del(la)
reintegra/risarcimento si muovono sfere giuridiche. Può sembrare solo un
gioco di parole, mentre, invece, il punto è che mentre il diritto penale
(umanizzato, civilizzato, beccarizzato: tutti guadagni autentici, sia chiaro) è il
luogo beluino della conservazione della possibilità stessa di un ordine sociale, il
diritto civile è il luogo della riproduzione dell’ordine sociale di secondo grado
reso possibile dalla neutralizzazione (sempre parziale e imperfetta) dei corpi e
della loro obbedienza al desiderio di possedere corpi e cose altrui. L’enigma del
‘danno non patrimoniale’ e della sua risarcibilità nasce proprio dalla enorme
difficoltà di conciliare l’essenza criminale dell’intrusione patita dal danneggiato,
sempre diretta verso il suo corpo (non solo fisico, ma anche ideale: onore,
reputazione, privacy, stabilità psichica) e la pretesa di trattarla come una perdita,
ossia come un vulnus recato non a un corpo ma ad un patrimonio separato dal
corpo secondo la logica proprio del diritto civile. Si tratta di una pretesa
esigente, non facilmente governabile secondo schemi binari troppo rigidi, e,
tuttavia, qualche margine di mediazione per una ‘civilizzazione’ del ‘danno non
patrimoniale’ esiste (il punto andrebbe approfondito ma qui mi limito a rinviare
a L. NIVARRA, La tutela, cit., 69 s.): resta il fatto, ben noto a tutti, che l’art. 2059
cod. civ. ha rappresentato il classico ‘cavallo di Troia’, grazie al quale è stato
possibile evocare l’idea della polifunzionalità della responsabilità civile e, da
ultimo, invocarlo quale patrono del ‘danno punitivo’.
31
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presuppone istituito l’ordine sociale, nel senso che oggi il diritto
privato (o, meglio, il diritto dei privati) partecipa attivamente alla
costruzione (che, a differenza che nella protomodernità, è sempre
‘in itinere’) di quell’ordine. Ciò vuol dire che l’autonomia privata
(nome di battesimo aulico e familiare ai giuristi per alludere ai
grandi attori dell’economia e della finanza mondiali)
semplicemente non ha più bisogno della mediazione statuale e,
quindi, semplicemente stabilisce a quali regole e a quali giudici
affidare non la decisione ma la soluzione della controversia32. Il
‘mercato’ ipercapitalistico, come la civitas arcaica, si insedia nel
cuore della produzione dell’ordine, di talché tra ordine del mercato
(nel senso di ordine creato dal mercato) e ordine sociale vi è una
ormai perfetta corrispondenza (così come vi era una perfetta
corrispondenza tra ordine delle ‘gentes’ e ordine della città): e la
‘statualità’, intesa come controllo eteronomo del potere
economico, sempre più mostruosamente agglutinato, prende le
forme di una regolamentazione molecolare della concorrenza (il
diritto antitrust in senso lato, comprensivo della legislazione
consumeristica), finalizzato, almeno in apparenza, a promuovere
l’efficienza del mercato ma, in realtà, molto più preoccupato di
arbitrare il conflitto tra i grandi potentati economico-finanziari
(esattamente come il rex, attraverso le ‘legis actiones’ e, in particolare,
Per riprendere la distinzione che G. CHIOVENDA, Principi, cit., 1 proponeva
tra ‘decidere’ e ‘dirimere’ (dal Maestro formulata con riguardo al binomio
processo romano – processo germanico confrontati in epoca altomedievale) si
può dire che mentre il processo moderno – emanazione diretta della statualità
– è funzione della decisione, il processo romano (arcaico, ma questo tratto si
conserva, per quanto attenuato, nel tempo) – emanazione di un ‘pubblico’ dai
contorni molto meno definiti – è molto più proiettato verso la composizione
della lite. Più in generale, per alcune considerazioni sull’appassimento del
processo (che è quanto dire del diritto statuale) v., da ultimo A. ZOPPINI,
L’effettività in-vece del processo, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio,
cit., 53 s.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
la ‘legis actio sacramenti’ e la ‘legis actio per manus iniectionem’, disciplinava
il conflitto tra le ‘gentes’).
7. Detto questo, e riconosciuto il nucleo di verità sistemica
immanente alla tesi di Chiovenda, va subito aggiunto che nel caso
del risarcimento del danno, essa mette capo ad una forzatura
vistosissima perché la pretesa risarcitoria non intrattiene alcun
rapporto con il nucleo dei poteri di cui il proprietario si può
avvalere in quanto titolare del diritto. In altre parole, mentre il
(presunto) obbligo restitutorio gravante su chi ha effettuato lo
spoglio è simmetrico all’esigenza di ripristinare le condizioni
fattuali di esercizio delle prerogative proprietarie, è
sostanzialmente impossibile riannodare a queste ultime (ad un
vulnus loro inferto) l’obbligazione risarcitoria. Infatti, è banale ma
indubbio che il paraurti graffiato non impedirà al proprietario del
motorino di continuare a circolare o anche di vendere il mezzo:
certo, egli circolerà con un veicolo meno protetto e lo alienerà ad
un prezzo inferiore, ma «godere» e «disporre» sono intatti33. La
ragione di questo, a ben vedere, è piuttosto semplice: attribuire
un’utilità equivale ad investire taluno di un potere, a sua volta
scindibile in una gamma più o meno estesa di facoltà, tutte,
comunque, riconducibili a quella investitura. Si tratta, quindi, di
un’operazione interna al sistema giuridico e, quindi, non reversibile
se non sulla base di regole istituite da quest’ultimo. Ciò spiega
perché lo spoglio non priva il proprietario del diritto ma soltanto
dell’utilità che di quel diritto rappresenta il punto di contatto con
l’altro da sé, la sporgenza rispetto a ciò che non è formalizzabile,
Per puro scrupolo osservo che, allorché l’interferenza metta capo alla
distruzione della cosa, si riespande, senza mediazioni, la logica della tutela reale,
sia pure per equivalente, secondo quanto limpidamente previsto dall’art.948
cod.civ. dove la misura risarcitoria si aggiunge, appunto, a quella reale.
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Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
ma soltanto assoggettabile al dominio dell’astratto34. Discorso del
tutto diverso vale per il danno il quale rappresenta una forma di
Nella dottrina tedesca, questo punto è ben presente: v., ad es., E. BUCHER,
Das subiektive Recht als Normsetzungbefugnis, Tübingen, 1965, 106 - 107. Va detto,
però, che i tedeschi continuano a pensare all’ombra di Windscheid e del suo
onnipresente ‘Anspruch’ (v., al riguardo, A. MOTTO, Poteri, cit., 420) sicché poi,
attraverso la scomposizione del diritto reale in pretese (e correlativi obblighi)
finiscono per ricondurre l’illiceità – ossia, la violazione di un diritto soggettivo
- alla violazione di un obbligo (sicché l’ambito di operatività della nozione
eccede i limiti del ‘Sekundäranspruch’ come pretesa risarcitoria in luogo dello
‘Erfüllungsanspruch’: v., al riguardo, M.A. GOERG, Exécution en nature et specific
performance, Basel, 2017, 62-63). Viceversa, bisognerebbe accettare l’idea che
l’accesso alla giurisdizione non è mai realmente mediato dalla inosservanza di
un obbligo, ma sempre dalla inosservanza di uno stato di cose istituito dal
potere sovrano. Lo spoglio è illecito non perché chi lo effettua abbia violato
un obbligo ma semplicemente perché ha sottratto al dominus l’utilità assegnatagli
dalla legge; l’inadempimento è illecito non perché il debitore non abbia
ottemperato ad un obbligo ma perché ha impedito al creditore di godere
dell’utilità assegnatagli dalla legge. In questo secondo caso, poiché la
prestazione rappresenta la specifica modalità di arricchimento del titolare del
diritto, si può essere indotti a ritenere che la reazione dell’ordinamento trovi la
sua causa finale nella inosservanza dell’obbligazione. Ora, questo è vero
quando la reazione sia disallineata rispetto alla prestazione, ovvero quando essa
sia una vera e propria sanzione (ad es., il risarcimento del danno nel diritto
romano arcaico e classico); mentre è falso quando la reazione si disponga lungo
la medesima retta della prestazione, smettendo i panni della sanzione e
vestendo quelli della coercizione, ossia della attuazione forzosa del diritto. P.
KRÜCKMANN, Nachlese zur Unmöglichkeitslehre, in Jh Jb., 57 (1910), 47 s., per
distinguere le due ipotesi, parlava di ‘Haftung für’ e ‘Haftung an’ nel senso che
una volta la responsabilità è, appunto, l’effetto della violazione di un obbligo,
mentre un’altra volta la responsabilità è la forma che assume l’obbligo di
prestare allorché il debitore non abbia adempiuto spontaneamente. È chiaro,
però, che la conversione dell’obbligo in responsabilità modifica la stessa
grammatica dell’obbligo di prestazione nella misura in cui, appunto, la
responsabilità non segue l’obbligo (e la sua inosservanza) ma ne prende il posto
rivelandone la strumentalità e la fungibilità. Quando, poi, come nel caso delle
34
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
illecito intellegibile solo se posta in relazione diretta con quella
utilità, nel senso che non vi sarà illecito (nella semantica dell’art.
2043 cod. civ., là dove «danno» è abbinato a «risarcire») se non per
rapporto ad una diminuzione della ricchezza complessiva
accumulata dal danneggiato fino al momento in cui si verifica il
sinistro.
Tutto questo si può dire anche in un altro modo: i diritti
soggettivi sono strumenti finalizzati all’accrescimento della
ricchezza: ciò che è immanente all’idea stessa di attribuzione di
un’utilità, con la conseguenza che la tutela reale obbedisce
all’esigenza di preservare una chance35. Viceversa, la tutela
risarcitoria preserva ricchezza accumulata, ossia quanto deriva
dall’esercizio dei poteri di cui il diritto soggettivo è l’epitome:
quindi, l’oggetto della protezione giuridica non può che essere
diverso nei due casi e quindi, ancora, è semplicemente
inimmaginabile che le due basiche epifanie della tutela traggano
alimento dalla medesima ratio. Questo, naturalmente, non significa
che i due piani non dialoghino. Come ho appena finito di dire, la
ricchezza accumulata della quale può prendersi cura il risarcimento
è quella che discende dall’uso del diritto soggettivo; perché, in caso
contrario, l’ordinamento si disinteressa della perdita e, dunque, la
due responsabilità, l’obbligazione è puro strumento riparatorio di una perdita
patrimoniale (ossia, puro effetto), l’idea stessa di antigiuridicità evapora: nel
caso della responsabilità ‘ex contractu’ per via della irresistibile forza attrattiva
esercitata dall’art. 1218 cod. civ. sull’art. 1223 cod. civ.; nel caso della
responsabilità ‘ex delicto’, per via della evoluzione del dispositivo aquiliano e del
declassamento subito dalla colpa, da fondamento (soppiantata in questo dall’
«ingiustizia») a criterio (‘ex multis’) del giudizio di responsabilità.
35 Intendo dire che l’attribuzione di un’utilità, ossia la riserva esclusiva del
valore d’uso e del valore di scambio di un bene, è la precondizione per un
incremento della ricchezza complessiva del titolare: di tale incremento, una
volta effettivamente realizzatosi, la legge si prenderà cura ‘a valle’ attraverso la
somministrazione della tutela risarcitoria.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
addossa a chi la subisce. Si spiegano così formule come quella
dell’art. 2043 cod. civ. («danno ingiusto») o del § 823 BGB
(«chiunque dolosamente o colposamente leda in dispregio del
diritto (oggettivo) la vita, l’integrità fisica, la salute la libertà, la
proprietà o altro diritto di cui altri sia titolare, è obbligato a risarcire
il danno che da tale lesione discenda»). In altri termini, il danno (da
intendersi alla stregua degli artt. 2056 e 1223 cod. civ., e cioè nel
senso di perdita patrimoniale) potrà risarcirsi solo quando
correlabile a un cespite presente nel patrimonio del danneggiato in
ragione di un titolo giuridico36.
È opportuno precisare che se il cespite in questione viene
destinato al finanziamento di un’attività tipicamente rischiosa,
come quella di impresa (rischiosa, qui, per chi la esercita, non per
la collettività che ne subisca le ricadute negative), la soglia della
protezione si abbassa o, comunque, muta registro. Ad es., non
soltanto la legge non protegge il livello di profitto che l’impresa
pensa di realizzare sulla base dei risultati degli esercizi precedenti,
ma non protegge neppure il valore dei beni strumentali di proprietà
dell’impresa che la medesima fosse costretta a svendere per fare
fronte ad una crisi di liquidità indotta da un calo dei rendimenti di
mercato a sua volta provocato dall’ingresso sulla scena di un
competitore particolarmente abile e aggressivo. Questo fenomeno
si presta ad un duplice ordine di spiegazioni. Sul piano storico, il
‘downgrade’ (apparente) in termini di tutela riflette il passaggio da
un uso (in senso lato) del bene in cui godimento e scambio
individuano segmenti autonomi e distinti, ad un uso del bene in cui
il godimento è in funzione della produzione di beni destinati allo
scambio (merci). In altre parole, volendo scomodare Marx, il primo
Il danno non patrimoniale, ove se ne voglia preservare il radicamento entro
lo spazio aquiliano, mima le movenze di quello patrimoniale. Sul punto rinvio
ancora una volta a L. NIVARRA, La tutela, cit., 69 s.
36
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
tipo di uso corrisponde alla sequenza M-D-M; il secondo tipo di
uso alla sequenza D-M-D. Ora, in M-D-M. domina il binomio
valore d’uso – contratto (ciò non significa assenza ma sola
recessività del valore di scambio); in D-M-D domina il binomio
valore di scambio – concorrenza (ciò non significa assenza del
valore d’uso ma sua recessività, o strumentalità rispetto alla
produzione di valori di scambio). È evidente che, nei due contesti,
l’«ingiustizia» (o formule equivalenti) indica sempre la medesima
funzione pur essendo rappresa in un algoritmo diverso. Da qui il
passaggio, apprezzabile sul piano più propriamente giuridico, ad
una regola in cui la rilevabilità della perdita patrimoniale è funzione
del ‘modo’ in cui la libertà (del virtuale danneggiante) viene
esercitata e non più solo della sua riconducibilità ad un decremento
inferto ad un cespite assicurato iure al patrimonio del virtuale
danneggiato.
Infatti, la differenza che passa tra la prima e la seconda
sequenza è che mentre M-D-M individua una successione di atti
ciascuno dei quali è in sé compiuto, D-M-D individua un’attività la
quale, al contrario, è per definizione sempre in itinere e, quindi,
inabilitata ad attingere un equilibrio patrimoniale della cui tutela
l’ordinamento possa farsi carico collegando l’obbligo risarcitorio
ad una perdita di ricchezza visibile ‘sub specie iuris’ attraverso il
legame del cespite vulnerato con un diritto soggettivo. In altri
termini, nel primo caso oggetto della tutela è la ricchezza
accumulata in dipendenza dell’esercizio, appunto, di un diritto
soggettivo; nel secondo caso, oggetto della tutela è la possibilità di
accumulare ricchezza mediante lo svolgimento di un’attività
conseguente all’esercizio di una libertà ‘regolata’ (art. 2598 cod.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
civ.; artt. 2, 3, 33, comma 2 l. 287/1990, art.1, comma 1 d.lgs.
3/2017)37.
Dunque, nei due casi esaminati sin qui, il risarcimento
compensa ora la perdita di ricchezza accumulata attraverso
l’esercizio di un diritto soggettivo, ora il pregiudizio recato alla
possibilità di arricchirsi attraverso lo svolgimento di un’attività
lucrativa. Uno stato intermedio (nel senso che ora proverò a
chiarire) corrisponde al risarcimento del danno susseguente alla
lesione del possesso o di un interesse legittimo. In entrambe le
ipotesi, siamo in presenza, come ho già osservato, di interessi
giuridicamente protetti ma non in funzione dell’attribuzione di
un’utilità38: è lecito chiedersi, pertanto, su cosa poggi la loro ormai
assodata rilevanza aquiliana: tanto più che ad esse certamente non
si attaglia neppure il secondo paradigma, quello della ricchezza non
accumulata ma accumulabile tramite un’attività finalizzata al
profitto. Per rispondere a questo interrogativo, è necessario
rammentare che la tutela risarcitoria presuppone che taluno sia
stato privato di una quota del suo patrimonio, acquisita o
acquisibile in dipendenza della fruizione di un titolo giuridico
(diritto soggettivo o libertà regolata). Ora, se riguardati nella
prospettiva delle loro possibili ricadute economiche, l’interesse
legittimo e il possesso, per il modo in cui sono congegnati, lasciano
La distinzione accennata nel testo richiama quella proposta da M. Barcellona,
Struttura della responsabilità e «ingiustizia» del danno, in Europa e dir. priv., 2000; 444
s.; M. BARCELLONA, Trattato, cit., 165 s., tra conflitti occasionali e conflitti
modali. Va da sé che quando il capitalista distrae una quota di profitto da DM-D per indirizzarlo verso M-D-M, il regime del torto riassumerà le fattezze
usuali. Un chiaro indizio della incommensurabilità di tutela reale e di tutela
risarcitoria lo si ricava dalla circostanza che le utilità attribuite all’impresa,
dunque, i diritti soggettivi di cui essa sia titolare, se pregiudicate, danno luogo
al dispiegamento di misure ripristinatorie (art. 2599 cod. civ.).
38 § 3.
37
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
scorgere i tratti di un cespite acquisibile (o riacquisibile) al
patrimonio del titolare.
Si consideri, ad es., con riferimento all’interesse legittimo, la
nota distinzione tra interessi pretensivi e interessi oppositivi. Si
tratti dell’una o dell’altra epifania dell’interesse legittimo, è chiaro
che il suo esercizio mira o alla valorizzazione di un bene già
presente nel patrimonio del singolo (inclusione di un’area di
proprietà di quest’ultimo tra quelle edificabili) o al recupero di un
bene illegittimamente sottratto dalla p.a. (annullamento della
misura di esproprio)39. Quanto al possesso, la risarcibilità del danno
che ritrovi in quest’ultimo il suo fondamento in termini di
«ingiustizia» si spiega agevolmente in relazione alla circostanza per
cui, sebbene la presenza nel patrimonio del possessore di quel
cespite sia, per definizione, precaria, essa potrebbe consolidarsi e
convertirsi in un’attribuzione di utilità piena, ovvero nel diritto
soggettivo di proprietà40.
In conclusione. Quella del risarcimento del danno è una
dimensione nella quale il diritto soggettivo (e i suoi omologhi
funzionali, tutti già protetti a prescindere) degradano a segmenti di
una fattispecie più ampia, all’interno della quale occupano uno
spazio eminente (la perdita non è risarcibile se non è ‘ingiusta’) ma
non più decisivo, perché ciò che decide (ossia, ciò che mette in
39 La questione continua ad essere oggetto di un ampio e tormentato dibattito
ora accuratamente ripercorso da A. IULIANI, Obblighi strumentali e azione di
adempimento, Milano, 2018, 25 s. L’impatto sul ‘corpus’, e sulle consolidate
pratiche della giurisprudenza amministrativistica, della risarcibilità del danno da
lesione dell’interesse legittimo, viene vagliato, con condivisibile cautela, da M.
MAZZAMUTO, Le tecniche di attuazione dei diritti nel processo amministrativo, in Processo
e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 301 s.
40 Sul risarcimento del danno da lesione del possesso v. A. IULIANI, Note in tema
di tutela aquiliana del possesso, in Riv. crit. dir. priv., 2016, 363 s.; C. ATTANASIO, La
tutela aquiliana del possesso: profili sistematici, in Foro nap., 2017, 3 s. (e qui ampi
richiami alla giurisprudenza).
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
39
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
movimento il processo mentale destinato, se del caso, a culminare
nel giudizio di responsabilità) è il danno e il danno è una variabile
non iscritta nello statuto del diritto (e dei suoi omologhi
funzionali.). Ciò a differenza dello spoglio e anche
dell’inadempimento, in relazione ai quali la legge contempla forme
di tutela anticipata, sommaria, urgente: basti pensare all’ultimo
comma dell’art. 1168 cod. civ. («la reintegrazione deve ordinarsi dal
giudice sulla semplice notorietà del fatto, senza dilazione» o all’art.
700 cod. proc. civ. o al procedimento di ingiunzione (art. 633 ss.
cod. proc. civ.) per i crediti pecuniari. Solo stati di cose istituiti dalla
norma giuridica come emanazione diretta e immediata di se
medesima tollerano accertamenti contratti o anche del tutto assenti
(è quanto accade nel caso del possesso dove, come si è visto più
sopra, il ricorso alla tutela giurisdizionale esula da una
qualificazione del fatto in termini di validità)41. Il danno, viceversa,
è pura contingenza rispetto alla quale il sistema giuridico adotta una
strategia diversa, che non è quella di decretare di tutto principio la
rilevanza di un interesse e, dunque, la sua tutelabilità in sede
giurisdizionale, quanto, piuttosto, quella di fissare le condizioni di
compensabilità della perdita, l’accertamento delle quali è
demandata al processo42. Ecco perché quando si usa, come di
regola avviene, la locuzione ‘tutela giurisdizionale dei diritti’
includendovi tanto la tutela reale quanto quella risarcitoria si
consuma una improprietà, nel senso che solo nel primo caso il
processo è davvero funzionale all’attuazione del diritto soggettivo.
Al riguardo si vedano le acute osservazioni di C. MANDRIOLI, Appunti sulla
sanzione e sua attuazione giurisdizionale, in Scritti giuridici in memoria di Piero
Calamandrei, III, Padova, 1958 470-471.
42 Il carattere di contingenza assoluta propria del danno si attenua allorché,
distrutta integralmente la cosa, perimento e spoglio tendono a sovrapporsi (v.
nt. 33).
41
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
40
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Ciò non toglie che di quella locuzione ci si possa continuare
ad avvalere nei termini tradizionali purché, appunto, si tenga
presente la diversità delle ‘rationes’ che, nei due casi, permeano la
forma unitaria della giurisdizione.
8 Vanta una genealogia illustre (sebbene scandita da una
polifonia d’accenti: Savigny, Windscheid, Chiovenda, solo per fare
alcuni nomi) e una discendenza numerosa, l’idea che la violazione
di un di un diritto reale (ad es., lo spoglio) metta capo ad un diritto
relativo, correlato all’obbligo di restituzione (un ‘sekundäres
Recht’, dicono i tedeschi): con la conseguenza che il diritto fatto
valere in giudizio non sarebbe quello di proprietà ma il diritto di
credito alla prestazione restitutoria. Per le ragioni che ora proverò
ad illustrare questa idea non può essere accolta.
La prima ragione, la quale, per la verità, dovrebbe risultare da
sola sufficiente, è che se le cose stessero così, la sottrazione al
proprietario dell’utilità assicuratagli dalla legge costituirebbe una
fattispecie, ossia la fonte di un’obbligazione: sicché, là dove, ad es.,
volessimo trasferire sull’art. 1173 cod. civ. il paradigma della
‘conversione’ dell’assoluto in relativo, dovremmo dedurne che il
«fatto illecito» di cui parla il legislatore non sia soltanto l’illecito
aquiliano (art. 2043 e ss. cod. civ.) ma anche, appunto, fra gli altri,
lo spoglio43. Sarebbe facile appellarsi alla circostanza per cui,
Sul punto v., da ultimo, A.DI MAJO, Obbligazioni, cit., 5. Il BGB, che risente
fortemente dell’influenza di Windscheid e del paradigma dello ‘Anspruch’ (su
cui v. più avanti, nel testo) al § 985 prevede espressamente che «“Der
Eigentūmer kann von dem Besitzer die Herausgabe der Sache verlangen”» («il
proprietario può pretendere dal possessore la restituzione della cosa»). Si tratta
di un coerente sviluppo del riconoscimento, attuato in via generale anche se in
modo indiretto, della figura dello ‘Anspruch’, di cui al ben noto § 194 a mente
del quale «”Das Recht von einem anderen ein Tun oder Unterlassen zu
43
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
41
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
almeno a mia conoscenza, non si è mai pensato di assimilare lo
spoglio (che pure è un illecito) al danno extracontrattuale; così
come, trascorrendo dal piano della tradizione culturale a quello
dell’argomentazione
giuridica
propriamente
intesa,
ci
imbatteremmo in almeno due obiezioni insuperabili: l’una,
ricavabile dall’ultimo comma dell’art. 948 cod. civ. («l’azione di
rivendicazione non si prescrive, salvi gli effetti…»); l’altra, affidata
alla considerazione che, così ragionando, tutte le rivendiche
diverrebbero «rivendiche relative», ossia pseudo rivendiche,
imperniate su titolo attributivo di un diritto di credito (il comodato,
il deposito, la locazione) e non di un diritto di proprietà44.
A ben vedere, però, questa tesi può essere avversata sulla base
di un argomento di tipo logico-sistematico, ossia un tipo di
argomento più forte o, se si preferisce, più radicale, di qualsiasi
altro. Infatti, se davvero lo spoglio costituisse il presupposto della
pretesa restitutoria; se davvero, esso, in altri termini, si configurasse
verlangen, unterliegt der Verjährung”» («il diritto di pretendere da qualcuno un
fare o un non fare è soggetto a prescrizione»). Altrettanto coerentemente la
dottrina tedesca parla, con riguardo alla fattispecie contemplata dal § 985 di
«gesetzliches Schuldverhältniss» («obbligazione di fonte legale») (M. KASER, R.
KNŰTEL, Römisches, cit., 38. Un ragionamento analogo a quello sviluppato nel
testo con riguardo allo spoglio potrebbe ripetersi in relazione al ‘risarcimento
del danno’ di cui all’art. 1218 cod. civ. (che, come vedremo più avanti, è una
forma di risarcimento spurio) o, anche, in relazione al risarcimento del danno
genuino di cui all’art. 1223 cod. civ. Anche in questi casi, che il fatto generatore
dell’obbligo risarcitorio (l’inadempimento nelle sue varie configurazioni) non
figuri tra le fonti dell’obbligazione dipende dalla immanenza dell’ingiustizia alla
posizione di vantaggio assicurata al creditore mediante l’attribuzione del diritto
soggettivo: per dirla con D. MESSINETTI, Danno giuridico, in Enc. dir.,
Aggiornamento, I, Milano, 1997, 494 «il danno contrattuale non produce nuove strutture
giuridiche, diversamente dal concetto di danno che si fonda nell’agire extracontrattuale». Sul
punto v anche le osservazioni di T. PELLEGRINI, Interesse alla prestazione e
prevedibilità del danno, Torino, 2018, 156 s.
44 Sulle «rivendiche relative» v. L. MONTESANO, La tutela, cit., 188 s.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
alla stregua di un titolo attributivo di un diritto diverso dal diritto
di proprietà, ne discenderebbe che lo spoglio medesimo si
troverebbe, nello svolgersi dell’azione, ad interpretare due parti in
commedia: quella del titolo allegato quale fondamento del diritto
dedotto in giudizio; e quella del fatto giustificativo della richiesta del
provvedimento ripristinatorio. Lo spoglio, pertanto, nella
prospettiva in esame finirebbe per inerire tanto al piano della
legittimazione ad agire quanto a quello dell’interesse ad agire: un
esito, questo, la cui dubbia tenuta sul piano logico-sistematico,
appunto, risulta con immediata evidenza45. Viceversa, è da ritenersi,
sulla base di indici chiari offerti dal diritto positivo (ancora una
volta, è bene richiamare l’art. 1168 cod. civ.), che lo spoglio è
considerato dall’ordinamento un fatto, non un titolo, iscritto di tutto
principio nell’orizzonte della tutela giurisdizionale, nel senso che la
sua rilevanza si lascia apprezzare pressoché esclusivamente sul
terreno processuale, prima sotto il profilo della presa in esame della
domanda e poi del suo accoglimento46.
Certamente, l ’idea della ‘conversione’ ha dalla sua il fatto che
l’azione si indirizzi verso un soggetto determinato47. Dedurre da ciò
che a farsi valere in giudizio sia un diritto diverso da quello reale
Non è certamente un caso che la sovrapposizione venga colta, e poi
prontamente rimossa, da A. ATTARDI, L’interesse, cit., 131, nel quadro di una
lettura ‘depressiva’ dell’interesse ad agire.
46 Che le cose stiano così lo conferma anche l’ultimo comma dell’art. 1168 cod.
civ. dal quale si può desumere che ad uno spoglio qualificato (dalla violenza o
dalla clandestinità) corrisponde una tutela qualificata (dalla sommarietà). Lo
spoglio, come tutti gli illeciti che si consumano a carico di un diritto soggettivo
(e non di un patrimonio: sul punto v. oltre nel testo) non ha una vita
esoprocessuale: e questo non soltanto nel senso che esso non esplica effetti al
di fuori del processo, ma neppure nel senso che, sia pure dall’interno del
giudizio, esso entri come variabile oggetto di un bilanciamento e non di un
semplice accertamento.
45
47
V. § 6.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
43
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
leso, cioè il diritto di credito alla restituzione (lo ‘Anspruch’ di
Windscheid) rimane, comunque, un grave errore teorico.
All’origine di questo abbaglio si ritrova qualcosa non facile da
immaginare, ossia lo strisciante primato dell’obbligazione come
modalità privilegiata di costruzione dell’illecito civile. In altri
termini, la somministrazione della tutela giurisdizionale avrebbe
sempre come presupposto la violazione di un obbligo: ne
discenderebbe, così, che la posizione creditoria godendo del
vantaggio di riassumere in sé tanto il diritto quanto la pretesa,
rimarrebbe sostanzialmente insensibile all’inadempimento, nel
senso che quest’ultimo resterebbe confinato entro il perimetro del
puro fatto (illecito). Trattandosi, viceversa, di un diritto reale, lo
spoglio fungerebbe da levatrice dello ‘Anspruch’, acquisendo,
dunque, nel passaggio dall’utilità goduta all’utilità rivendicata, un
peso ben maggiore di quello riservato al suo omologo ‘relativo’
(intendo, l’inadempimento)48.
È interessante notare che questo schema trova applicazione
(ad es., nel canone chiovendiano) anche all’illecito
extracontrattuale dove il diritto di proprietà si trasformerebbe, una
È lo stesso B. WINDSCHEID, Die Actio des römischen Civilrechts vom Standpunkt
des heutigen Rechts, Dūsseldorf, 1856 (trad. it. L’«actio» del diritto civile romano dal
punto di vista del diritto odierno, in Polemica intorno all’ «actio» , a cura di G.Pugliese,
Firenze, 1954) a scrivere che «la pretesa obbligatoria coincide completamente col diritto
obbligatorio; mentre il diritto reale è del tutto diverso dalle pretese che ne nascono nei riguardi
di chiunque si metta in contrasto con esso, il diritto obbligatorio ha nella pretesa la sua
espressione del tutto esauriente» (57-58). V. anche B. WINDSCHEID, Diritto delle
Pandette, trad.it., a cura di C. Fadda e P. E.Bensa, I, Torino, 1925, 123. Sulla
dottrina dello Anspruch e sull’influenza da essa esercitata nel dibattito
sviluppatosi nella seconda metà dell’800 (e oltre) v. C. PELLOSO, Il concetto, cit.,
148 s. e, con accenti giustamente critici, G. PROVERA, Diritto e azione
nell’esperienza giuridica romana, in Studi in onore di A. Biscardi, IV, Milano,1983, 347348. Per una felice sintesi N. DI PRISCO, Pretesa, in Enc. dir., 25, 1986, spec. 362364.
48
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
44
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
volta aggredito ‘ex lege Aquilia’, nel diritto (relativo) al risarcimento
del danno. Nelle pagine precedenti ho già criticato questa idea dal
punto di vista della complementarietà della tutela risarcitoria e di
quella reale, cioè dal punto di vista dell’idea che restituzione e
risarcimento, al netto della accidentale differenza di contenuto, si
collochino sullo stesso piano49. Ora vorrei aggiungere un’ulteriore
considerazione, più a ridosso della questione di cui mi sto
occupando. In effetti, il «fatto illecito» (quello dell’art. 2043 cod. civ.)
produce un’obbligazione, l’obbligazione di risarcire il danno. Per
appaiare questa obbligazione e la restituzione incombente su chi
ha effettuato lo spoglio, sarebbe necessario eguagliare i presupposti
dell’uno e dell’altro dei due termini: ma, a ben vedere, questi due
termini sono ineguagliabili. Infatti, il presupposto del ‘restituire’
(mi astengo dall’usare la formula ‘obbligazione restitutoria’ per le
ragioni che da qui a breve proverò ad illustrare) è rappresentato dal
‘sottrarre’ (che può assumere le due forme, diverse empiricamente
ma non speculativamente, del ‘togliere’ e del ‘non dare’); il
presupposto del ‘risarcire’ è rappresentato da una complessa
fattispecie, la edificazione e la consacrazione della quale hanno
luogo nel giudizio. È questa la ragione per la quale l’illecito
aquiliano, a differenza dell’illecito ‘restitutorio’, figura tra le fonti
dell’obbligazione: nel senso che esso, al pari delle altre fonti, e,
appunto, diversamente dallo spoglio (e, ancor più,
dall’inadempimento), individua non un semplice fatto, ma un titolo
costitutivo di un diritto soggettivo e, quindi, attributivo di
un’utilità.
In altre parole, come ho detto proprio in principio di
ragionamento, nel caso del torto extracontrattuale la funzione
attributiva dell’obbligazione è posta al servizio di una finalità di tipo
riparatorio: ma l’obbligazione rimane, in primo luogo, una tecnica
49
V. § 7.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
45
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
(alternativa, nella forma ma non per lo scopo, al diritto reale) di
radicamento di un’utilità nel patrimonio altrui, esattamente come il
contratto, la promessa al pubblico, il pagamento dell’indebito ecc.
Viceversa, lo spoglio presuppone un diritto soggettivo
riconosciuto e, quindi, un’utilità trasferita: sicché, non vi è alcun
motivo (se non quello che da qui a breve indicherò) per
immaginare la necessità di una nuova obbligazione che dello
‘Anspruch’ rappresenta l’inevitabile corollario50. Lo stesso concetto
può essere formulato nel modo che segue. L’illecito aquiliano si
colloca all’inizio di un ciclo destinato a culminare nella attribuzione
di un diritto soggettivo; viceversa, lo spoglio interviene quando il
Come osserva G. PUGLIESE, Introduzione, in Polemica, cit., 32-13 «chiedendo
l’intervento del giudice e mettendo in movimento, se occorre, il meccanismo
coattivo dello Stato egli (il titolare del diritto) modifica realmente la situazione
giuridica che preesisteva e si mette in grado di conseguire risultati pratici
favorevoli. Ma si può dire che questo potere di agire in giudizio, qualunque sia
il nome con cui si voglia qualificarlo, rappresenti un potere di esigere da altri
un comportamento? La risposta negativa si impone, poiché nel processo non
si chiede e, comunque, non si ottiene il comportamento dovuto dal convenuto,
ma, nella migliore delle ipotesi, un risultato eguale a quello che avrebbe avuto
tale comportamento-risultato che sogliamo indicare con il nome di sanzione».
Difficile rendere meglio (salvo che per l’innocuo riferimento alla «sanzione»,
rivelatore della difficoltà, comprensibile anche in un romanista permeato dalle
suggestioni del ‘moderno’ quale è Pugliese, a intendere che nel diritto statuale
la prima epifania della ‘sanzione’ è la validità) l’idea della assoluta ridondanza
teorica dello ‘Anspruch’, al quale uno dei grandi traghettatori dal römisches al
heutiges Recht, affida il compito di costruire un ponte tra ‘sostanziale’ e
‘processuale’: e questo in ragione di un gioco di specchi a causa del quale i
‘moderni’ proiettano sugli ‘antichi’ un problema che, sia pure per ragioni
opposte, né gli ‘antichi’ (per i quali, a lungo, l’autonomia privata è un’insorgenza
sociale che va arbitrata ma non regolata, se non occasionalmente e
marginalmente), né i ‘moderni’ (per i quali l’autonomia privata, al di là delle
declamazioni di principio, è il corpo vivo su cui si esercita, riducendola a se
stessa, l’incontenibile pulsione regolatoria del potere sovrano) avrebbero avuto
motivo di porsi.
50
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
46
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
diritto soggettivo è già stato riconosciuto al singolo in uno dei tanti
modi previsti dall’art. 922 cod. civ. Ora, come è evidente, il
paradigma della ‘conversione’ di assoluto in relativo potrà trovare
applicazione in entrambi i casi soltanto alla condizione che torto
extracontrattuale e sottrazione dell’utilità (ovvero, la
‘Rechtsobjekstverletung’) siano integralmente parificati. Assunto,
quest’ultimo, smentito dalla circostanza che la ‘pretesa’ risarcitoria
e quella ‘restitutoria’ hanno un contenuto del tutto diverso e che
tale radicale diversità non è affatto accidentale (come si ritiene
allorché ci si mantenga fedeli all’idea che la tutela risarcitoria orbiti,
‘naturaliter’, nell’area del diritto soggettivo e, in specie, del diritto di
proprietà) ma è immediato riflesso della circostanza per cui il
risarcimento si coordina al pregiudizio recato ad un patrimonio,
mentre la restituzione si coordina alla lesione di un diritto
soggettivo. Soltanto nel primo caso, l’ordinamento può
sensatamente attribuire al danneggiato un diritto soggettivo e,
quindi, un’utilità, sia pure in una chiave di compensazione della
perdita patita, perché l’illecito aquiliano non è in rapporto di
continuità con un diritto soggettivo.
Infatti, quest’ultimo, quando si tratti di costruire il giudizio di
responsabilità, appare nella sola veste dell’‘interesse giuridicamente
protetto’, così come il possesso o l’interesse legittimo, tutte
autonome situazioni di vantaggio qui, però, declassate a semplici
misure dell’ingiustizia e a garanti della conseguente rilevanza
ordinamentale del danno51. E, del resto, non è un caso che, là dove
si consumi un’aggressione al diritto soggettivo in quanto tale
(spoglio, turbativa, ‘de facto o de iure’, minaccia, inadempimento,
depauperamento o mancato arricchimento del patrimonio del
debitore), la reazione predisposta dalla legge sia sempre diversa
(azione di rivendicazione, azione negatoria, azione confessoria,
51
V. § 7.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
47
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
azione di adempimento, azione revocatoria, azione surrogatoria),
cioè tarata sullo specifico tipo di pregiudizio selezionato dal sistema;
mentre là dove si tratti di riparare un danno, la risposta sia sempre
eguale (l’obbligazione risarcitoria). Una cosa, invero, è la negazione
di un ‘concreto’ aperto ad una sequenza di virtualità (riassunte,
secondo la inevitabilmente povera nomenclatura, del diritto, nel
«godere» e nel «disporre»); altra cosa, viceversa, è la distruzione di un
‘astratto’ ormai ossificato in una posta dell’ideale bilancio delle
economie individuali che di quel concreto virtuale è la traduzione
patrimoniale. Solo a queste condizioni, osservo ‘per incidens’, si può
giustificare l’uso del binomio ‘tutela specifica’ – ‘tutela generica’
come sinonimo di ‘tutela in natura’ e ‘tutela per equivalente’: alle
condizioni, cioè, per cui ‘specifico’ e ‘generico’, ‘in natura’ e ‘per
equivalente’ individuano il diverso oggetto, la diversa modalità e il
diverso scopo della tutela, non certo un diverso grado di effettività
perché, sotto questo profilo, ovvero sotto il profilo della continuità
e della coerenza esibite dal rimedio rispetto al pregiudizio subito,
la tutela è sempre specifica52.
Nello stesso senso v. U. MATTEI, I rimedi, cit., 109. Sotto questo profilo
l’assunto ancora oggi coltivato dalla giurisprudenza in ordine alla (presunta)
superiorità della tutela reale sulla tutela risarcitoria (v., al riguardo, G. LIOTTA,
Tutela reale e interessi superindividuali, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti.
Omaggio, cit., 253 s.) appare alquanto discutibile là dove, pur proclamando, in
nome dell’effettività, la ontologica primazia della tutela reale, ripropone
surrettiziamente l’idea della omogeneità delle due forme di tutela. Per le ragioni
che ho provato ad indicare nel testo, ‘reale’ e ‘risarcitorio’ non sono
comparabili: tuttavia, alla retorica della superiorità di un residuo di sensatezza
può ancora farsi credito tutte le volte in cui, l’accesso alla tutela reale è inibito
o sulla base di opzioni di tipo ideologico o sulla base di opzioni di tipo politico.
Nel primo caso, il ‘sillogismo dialettico’ (il ‘perlopiù’ dei ‘Topici’) è stato
sufficiente - si fa per dire – a smantellare il costrutto ricevuto: si pensi alla
travagliata parabola della tutela reale del credito; nel secondo caso, la questione
passa, per competenza, nelle mani delle Corti superiori.
52
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
48
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
9. In realtà, l’idea della ‘conversione’ è molto più interessante
come reperto culturale che non come costrutto dogmatico. A ben
vedere, infatti, la mediazione offerta dallo Anspruch è il frutto di
una sintesi (ovviamente impossibile sul piano delle architetture
concettuali) tra il codice genealogico posto a fondamento del
‘heutiges Recht’, e lo ‘heutiges Recht’ per quello che esso è nella
sua più intima sostanza53. Il paradosso (tale, a dire il vero, solo per
chi guardi al concreto farsi dei processi reali con l’occhio
dell’entomologo) risiede, difatti, nell’uso, per la costruzione del
nuovo edificio di materiali rivenienti da un’esperienza – il
‘römisches Recht’ – antitetico al paradigma dello heutiges, Per
quest’ultimo, infatti, è cruciale l’assoggettamento ad un’unica ‘ratio’
(quella della legge statuale) di tutto ciò che, viceversa,
nell’esperienza di base, era tenuto insieme da procedure le quali, di
sicuro, presentavano un certo grado di formalizzazione (le ‘legis
actiones’, i ‘verba concepta’) ma le quali, al contempo, incorporavano
Sul punto v. A. SCHIAVONE, Ius, Torino, 2005, 21-22 (ma dello stesso A. si
v. il pionieristico Storiografia giuridica e apologia del diritto moderno, in Democr. e. dir.
1973, 65 s. e ora in Storiografia e critica del diritto, Bari, 1980, 1980, 17 s., dove
nella ideologia della ‘continuità’ viene ravvisato il brodo di cultura di un usus
modernus pandectarum rinnovatosi fin dentro i confini della edificazione del
giuridico moderno); M. BRUTTI, Il diritto privato nell’antica Roma, Torino 2015,
85 s. Naturalmente, dal punto di vista della odierna romanistica, il discorso cade
sui costi che la sinergia di ‘römisches’ e ‘heutiges’ ha implicato in termini di
presa di coscienza della integrale storicità dell’oggetto ‘diritto romano’.
Tuttavia, senza nulla voler concedere ad un atteggiamento che sarebbe
parimenti antistorico, è indubbio che le manipolazioni imposte al primo per
rendere possibile la progressiva messa in forma del secondo abbiano lasciato
un deposito di «equivoci e concettualismi» (per riprendere S. MAZZAMUTO, Equivoci
e concettualismi nel diritto europeo dei contratti, in Europa e dir. priv., 2004, 1029 s.) dal
quale il secondo ha faticato, e tuttavia ancora fatica, a liberarsi.
53
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
49
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
l’idea di un ordine plurale in cui l’unità del sistema sociale (ancora
prima che giuridico) era il punto di arrivo, frutto di aggiustamenti
continui, e non il punto di partenza di una serie di operazioni
(negozi giuridici, sentenze) costantemente riproduttive della
matrice originaria.
Ora, un terreno sul quale la distanza tra i due modelli si
manifesta con particolare nettezza è proprio quello del rapporto
tra diritto sostanziale e processo, e questo per la ragione che
proverò ad indicare. I Romani, come ho già detto, erano animati
da un’idea mobile della giuridicità, nel senso che quest’ultima si
manifestava in una pluralità di forme: basti pensare che ancora
nelle Istituzioni, e, dunque, in una fase molto avanzata di
‘statualizzazione’ dei processi normativi, Giustiniano attribuisce al
‘ius gentium’ la paternità della compravendita, della locazione, del
mandato, della società, del deposito, del mutuo e di ‘alii
innumerabiles’; e che lo stesso «ius nostrum» viene presentato
attraverso l’indicazione di un elenco che, piuttosto che di fonti nel
senso moderno della parola, appare costituito, sempre per usare
una terminologia di nuovo conio, da formanti i quali agiscono
secondo schemi non riducibili all’idea di un primato istituito ex ante,
consegnato ad una regola di ‘collisione’ predefinita54. Inoltre,
l’essere la mentalità giuridica romana (il ‘Denken’),
‘aktionenrechtliches orientiert’, secondo me, si spiega con la
circostanza che i Romani fossero inclini a pensare l’effrazione di
un accordo, o anche l’effrazione del ‘meus’, come l’effrazione di un
ordine che è racchiuso, ma non è esaurito, dall’accordo (o dal
‘meum’), e che quindi essa dovesse ripararsi attraverso la mediazione
di un’autorità la quale, solo per il fatto di essere un’autorità, si
54
V.M. KASER, R. KNÜTEL, Römisches, cit., 20 s.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
50
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
faceva garante del ripristino di quell’ordine55. Il ricorso al rex,
prima, e al praetor, poi, sotto questo profilo, è molto più una
Naturalmente, questo non significa affatto che i Romani ignorassero la
differenza che passa tra ‘diritto’ e ‘morale’. Però, già a metterla in questi termini,
il rischio di equivoco è molto alto, un po’ come nel caso della
problematizzazione, moderna del rapporto tra diritto sostanziale e processo.
Perché tutto dipende dal luogo a partire dal quale una mentalità (un ‘Denken’)
si sviluppa. Per i Romani, il punto di partenza non è il diritto e, verosimilmente,
non è neppure la morale: si tratta, piuttosto, di un magma di credenze condivise
attorno al quale si costruisce la ‘civitas’. Via via, in funzione del grado crescente
di complicazione dei rapporti sociali e della parimenti crescente
consapevolezza patrizia di conservare un ordine vantaggioso per chi detiene
segmenti consistenti della ricchezza sociale, si impone la necessità di arbitrare
conflitti acquisitivi, in relazione ai quali l’alternativa che si propone è quella tra
l’‘unicuimque suum tribuere’ e la dissoluzione di quell’ordine (un disastro per i ‘beati
possidentes’ ma anche per i non ‘possidentes’). Da qui, appunto, il prendere forma
di una tecnica di controllo sociale incentrata sulla (anche se non esaurita dalla)
possibilità di affidare ad un giudice la decisione relativa alla sorte di un bene: e
sulla correlativa possibilità di ottenere, secondo modi mutevoli nel corso del
tempo, che la forza (in origine privata, successivamente pubblica) venga
impiegata affinché quella decisione trovi pratica attuazione. Sarebbe, però,
molto riduttivo, e ancora una volta frutto di una grave manipolazione
dell’oggetto storico, immaginare l’autonomia del ‘giuridico’ romano nei termini
di netta separazione dalla sfera della morale perché, viceversa, l’autonomia del
‘giuridico’ declinata secondo il registro della ‘Isolierung’ è una prerogativa della
modernità. Basti pensare ai due più accreditati modelli separatisti: quello
sviluppato in orizzontale da Kant e quello sviluppato in verticale da Hegel, i
quali entrambi assegnano al diritto e alla morale posizioni nettamente distinte
sia pure nell’ambito di uno spazio epistemologico comune, la ragion pratica, in
un caso, l’eticità nell’altro. In altre parole, mentre l’autonomia ‘romana’ non
sfocia mai in una ‘summa divisio’ proprio perché diritto e morale si alimentano
ad una medesima fonte (i ‘mores’, vincolanti per tutti gli attori che si muovono
sulla scena politica e sociale), l’autonomia ‘moderna’ è l’emblema stesso della
‘Isolierung’ e della conseguente ‘Trennung’. E quando, nel ‘900, le Costituzioni
lunghe riscopriranno, sotto forma di valori, i principi del diritto naturale, a parte
la distanza che separa il ‘Vernunftrecht’ da una prassi sociale in cui essere e
55
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
51
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
domanda di giustizia intesa a ribadire la perdurante vigenza di una
serie di valori (la rispettabilità della gens, l’integrità della civitas)56 che
dover essere sono intrecciati sino ai limiti della indistinguibilità, in ogni caso il
fenomeno a cui si assiste è quello di un’appropriazione del principio morale da
parte del diritto e della sua positivizzazione (quindi, in realtà, l’un termine
riduce a se stesso l’altro, cannibalizzandolo). Per un primo approfondimento
delle questioni alle quali qui è stato possibile solo accennare v. G. FALCONE,
La definizione di obligatio tra diritto e morale. Appunti didattici, Torino 2017.
Secondo T. GIARO, Privatrecht als Technik der Gerechtigkeit, in Konzeptionen der
Gerechtigkeit (Hrsgg. H.Münkler, M.Llanque) (Baden – Baden, 1999), 69 s. ciò
che specificamente caratterizzerebbe il diritto romano sarebbe «il suo modo di
produzione come tecnica giurisprudenziale della giustizia» sicché, prosegue
l’A., «i giuristi non si chiedevano “che cosa è la giustizia?” quanto, piuttosto,
“come posso fare per ottenere un diritto più giusto?». Da questo modo di
procedere trarrebbero origini tutte le sottili differenze di ordine dogmatico
introdotte progressivamente dalla giurisprudenza romana: proprietà/possesso,
azioni personale e azioni reali, obbligazione e atto di disposizione ecc.(76).
56 Come scrive E.BETTI, L’obbligazione, cit., 28 «Ma dobbiamo pensare che lo
stato moderno...è il grande Leviathan che tende ad accentrare in sé tutta la
potenza materiale della società e a provvedere in conseguenza, come a suo
compito esclusivo, all’attuazione delle norme giuridiche ch’esso pone. La antica
civitas di Roma, per contro – stato di città venuto su dalle preesistenti autonomie
delle genti e delle famiglie – presuppone e riconosce, in misura tanto più larga
quanto più si risale verso le origini, l’autonomia dei privati patres familias. essa
non rivolge le forze proprie se non alla conservazione e all’incremento di quegli
interessi che la concernano direttamente: quanto al resto, si tien paga di
richiedere l’osservanza di certe formalità e di disciplinare l’autotutela dei privati
col restringerla entro certi limiti che garantiscono la conservazione della pace
sociale» (le ‘quaedam imitationes violentiae’ nelle quali i ‘primi rerumpublicarum
fundatores ius maiorum gentium commutarunt’, come dice G.B.Vico, ‘De universi iuris
uno principio et fine uno’, Opere giuridiche a cura di P. Cristofolini, Firenze, 1974,
Liber Unus, Caput CXXIV, Ius Quiritium Romanorum Fabula Iuris Gentium). Sul
punto v. anche le sintetiche ma illuminanti osservazioni di M. KASER, K.
HACKL, Das römische Zivilprozessrecht, München, 1996, 26 s. ove si distingue tra
‘Selbsthilfe’ e ‘Eigenmacht’ ossia tra la ragion fattasi in senso stretto e la tutela
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
52
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
non l’affermazione di quello che oggi noi chiamiamo un diritto
soggettivo57. Con il passare del tempo, con le grandi trasformazioni
imposte dall’acquisizione dello status di potenza egemone dell’area
del Mediterraneo, per non parlare poi degli sviluppi successivi e
della creazione di un impero mondiale, assistiamo alla laicizzazione
(come la chiamano gli stessi romanisti) di un pensiero costretto a
misurarsi con una realtà sempre più complicata e sempre meno
leggibile secondo i moduli ‘arcaici’; ciò non toglie che il processo
romano conserverà, indelebile, almeno fino a quando non sarà
trasformato in una emanazione del potere imperiale, i caratteri di
una tecnica di composizione di un conflitto tra ‘privati’ che non
sono, però, solo privati (almeno nel senso moderno della parola):
la loro ‘regola’, infatti, partecipa di un ordine più generale alla
costruzione del quale essa concorre vestendo i panni del ‘valore’
piuttosto che quelli della ‘fattispecie’.
Certo, i Romani conoscono la differenza tra ius publicum e ius
privatum (basti pensare alla celebre definizione di Ulpiano) ma, a
differenza di quello che accade nel diritto moderno (da intendersi
nel senso di diritto dello Stato, o, meglio, diritto posto dallo Stato),
il ius privatum è pensato, ancora prima che in funzione del suo oggetto
(l’insieme delle faccende che interessano i privati) e, pertanto, sotto
questo profilo, come contrapposto al ius publicum (l’insieme delle
faccende che interessano lo statum rei Romanae), in funzione della
sua genesi, ovvero dei poteri dei quali i privati si avvalgono per dare
delle proprie ragioni, attuata pur sempre in via diretta dall’interessato ma ora
sotto giudiziario controllo.
57 Se l’esperienza giuridica romana conoscesse il diritto soggettivo o qualcosa
di simile è questione notoriamente dibattutissima. Sul punto, per un efficace
riepilogo e per una risposta (condivisibilmente) scettica rinvio a E. STOLFI,
Riflessioni attorno al problema dei “diritti soggettivi” fra esperienza antica ed elaborazione
moderna, in Studi sen., 2006, 120 s.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
53
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
regola ai propri interessi, cioè, ancora, dell’autonomia privata58.
Ora, sarà anche vero che, neppure in questa prospettiva, come
ricorda Kaser, gli atti di autonomia privata possono considerarsi
fonti del diritto (sebbene, sommessamente osserverei che la
utilizzabilità stessa della nozione di ‘fonte del diritto’ presuppone
un ordine giuridico retto da una esplicita e programmatica ‘regola
di collisione’); così come è indubbio che ‘ius publicum privatorum
pactis derogari non potest’, nel senso che il potere pubblico è più forte
del potere privato: ma, aggiungerei, anche nel senso che entrambi
sono poteri. Tuttavia, a me sembra altrettanto indiscutibile che il
diritto romano incarni un modo di essere della relazione tra
‘pubblico’ e ‘privato’ molto diverso da quello proposto dal diritto
moderno, dove il ‘pubblico’ riduce il ‘privato’ ad un oggetto
inquadrabile tra i fatti che alimentano la dinamica giuridica e
sociale59. Savigny, d’acchito, sotto l’influenza di Kant, ma anche e,
verosimilmente, molto più sotto quella del ‘römisches Recht’,
pensava che gli effetti del negozio scaturissero dalla famosa
‘Willenserklärung’: come è noto, però, questo modello ha avuto
una vita abbastanza breve e la volontà, nonostante il
riconoscimento tributatole dal BGB, rapidamente decadde ad
elemento di una fattispecie legale, la cui efficacia è condizionata
dalla sua validità.
Tornando alla questione da cui ho preso le mosse – il
rapporto tra diritto sostanziale e processo – si può dire che essa
V., al riguardo, M. KASER, Das Privatrechtsakt in der römischen Rechtsquellenlehre,
in Festschrift fūr Franz Wieacker zum 70. Geburtstag, Göttingen, 1978, 90 s., spec.
103-104.
59 V., al riguardo, le osservazioni di M. BRUTTI, Il diritto, cit., 42-45. Sul punto
v. anche F. GALLO, L’‘officium’ del pretore nella produzione e applicazione del diritto,
Torino, 1997 100 s., a proposito del modo in cui funzionava la recezione
‘moribus’ la quale, di per sé, allude ad un’articolazione del rapporto ‘pubblico’‘privato’ irriducibile al paradigma moderno.
58
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
54
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
rappresenti un punto di vista privilegiato per illustrare il corto
circuito di ‘römisches’ e ‘heutiges’ In primo luogo, direi che è
proprio la concettualizzazione secondo questa chiave a risultare
oltremodo problematica. I due termini, infatti, nel diritto romano
individuano, per dirla con Hegel, ‘ein Alles’, mentre nel diritto
moderno essi individuano ‘ein Ganzes’60 In altre parole, nel diritto
G.W.F. HEGEL, Il così detto «franmento sistematico», in I principi, a cura di E. De
Negri, Firenze, 1979, 41 s. A proposito di Hegel, la sua imponente riflessione
sullo Stato consente di scorgere, meglio di quanto non sia possibile attraverso
la specola del contrattualismo, la dinamica agglutinatoria dello stato moderno,
che non è riduzione delle altre sfere dell’eticità a mera emanazione del vertice
del sistema (come accade nelle varianti autoritarie e fasciste dello stato etico),
quanto, piuttosto, il loro compimento dentro un orizzonte di razionalità (quella
dello Spirito Oggettivo) che ingloba ognuno di questi passaggi, Stato incluso,
ciascuno dei quali si legittima in ragione della sua corrispondenza ad uno stadio
del pensiero (G.W.F. HEGEL, Lineamenti di filosofia del diritto, a cura di G. Marini,
Roma Bari, 2000, § 261, 201-202). In questa prospettiva, la legge individua, per
così dire, la ‘verità’ immanente al «sistema dei bisogni» catturando la domanda di
ordine che emerge da quest’ultimo, il quale d’acchito si presenta come una
disordinata molteplicità di determinazioni particolari, restituendola trasfigurata
in una regola coercitiva plasmata, però, sulla falsariga della regola privata. La
questione è enorme, sicché mi limiterò a rinviare all’ormai risalente lavoro di
A. SCHIAVONE, Alle origini del diritto borghese. Hegel contro Savigny, Roma-Bari,
1984 (risalente ma sempre attuale). Personalmente sono convinto (ma, per
varie ragioni, mi è impossibile allestire qui una adeguata argomentazione di
questo mio convincimento) che la concezione hegeliana dello Stato possiede il
«concetto della cosa» perché Hegel vede, mantenendosi all’interno dell’ordine
borghese (per mutare davvero registro sarà necessario l’intervento sulla scena
della veduta marxiana) che quello che la linea di pensiero liberale presenta come
il luogo di fondazione, e di giustificazione, dello Stato moderno (cioè, il
mercato) è, effettivamente, ciò che i contrattualisti (da Hobbes a Kant) dicono
che sia, con una solo apparentemente marginale differenza, e cioè che lo Stato,
nel momento stesso in cui riconosce quell’ordine, se ne appropria e lo
performa. In altri termini, la ragion d’essere dello Stato moderno è il sistema
dei bisogni, ma esso apporta al mercato un surplus di razionalità, senza del quale
il mercato rimarrebbe preda e vittima del suo immanente disordine e del suo
60
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
romano (quello che noi chiamiamo) il diritto sostanziale e (quello
che noi chiamiamo) il processo si dislocano all’interno di un ordine
dove l’unità patisce un molteplice lasciato nella sua separazione,
con la conseguenza che qui l’unità medesima si presenta nella
forma di un mediato non dialettico di cui i ‘certa verba’, prima, e
l’Editto, poi, rappresentano il punto di emersione. Viceversa, nel
diritto moderno, il diritto sostanziale e il processo descrivono
un’unità reale, cioè dialettica, nel senso che il primo (diritto
soggettivo) contiene, sotto la forma di una negazione (illecito), il
secondo (giudizio); mentre il secondo, dal canto suo, contiene,
sotto la forma di una affermazione (sentenza), anche il primo. A
qualcuno potrà apparire una spiegazione semplicistica (amen!), ma
la radice del mutarsi di ‘Alles’ in ‘Ganzes’ deve rinvenirsi
nell’avvento del mercato capitalistico e nell’esigenza da
quest’ultimo posta al potere politico (allo Stato) di una uniformità
di regolazione non soltanto dal punto di vista dei contenuti ma
anche, e direi fondamentalmente, dal punto di vista della istituzione
di un ordine nel quale il ‘giuridico’ è sempre eguale a se stesso, da
qualunque prospettiva lo si guardi (diritto sostanziale – diritto
processuale; diritto pubblico – diritto privato61.
perdurante ed ineliminabile ancoraggio con lo stato di natura. Il luogo in cui
precipita questa razionalità dello Stato che sa prendersi cura del mercato più
del mercato stesso (è in fondo questo il senso delle parole di M. FOUCAULT,
Nascita della biopolitica, Milano, 2005,111-112) è la legge, sintesi, come dice
Hegel, di ‘universale’ e di ‘determinato’.
61 Sul punto rinvio a L. NIVARRA, La tutela, cit., 41. Questo modo di presentare
le cose appare in contrasto con l’idea, ancora oggi molto diffusa, secondo la
quale il diritto romano sarebbe caratterizzato da un elevato grado di unitarietà,
documentata, proprio dal primato dell’‘actio’ come figura dove ‘sostanziale’ e
‘processuale’ convergono e convivono in un amalgama inestricabile; mentre il
diritto moderno avrebbe vissuto l’esperienza della scissione e il dramma della
separazione del diritto processuale civile e della sua scienza, per riprendere la
celebre espressione di Orestano (v. C. PELLOSO, Il concetto, cit., 139-140). Ora,
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Il punto è decisivo. Nell’esperienza romana, dove il
‘giuridico’ si manifesta in quella pluralità di forme che ne fanno,
come detto, ‘ein Alles’, l’unità del sistema o, più prosaicamente, ma
anche più realisticamente, la sua effettività, dipende dalla
circostanza che i vari attori comunichino attraverso un codice
comune, quello riassunto nei tre ‘praecepta’ ulpianei. Ciò spiega, in
è chiaro, questioni di così grande portata non possono essere liquidate
semplicemente evocando le incommensurabili differenze che dividono il
‘römisches’ dal ‘heutiges’ (un’autentica banalità, ormai). Resta il fatto che a)
tutto ciò che dura nel tempo necessita di un certo grado di coesione (i mille
anni romani sono un ottimo esempio); b) il modo in cui gli aggregati sociali
durano nel tempo dipende molto dal modo in cui in cui gli aggregati sociali si
costituiscono, cioè dalla loro genealogia. Date queste premesse, anche loro non
particolarmente originali, dovrebbe risultare evidente che il tratto tipico della
statualità moderna, impossibile da rintracciare nella statualità romana, è la
‘reductio ad legem’, ossia l’affermazione dell’idea che il motore primo della
coesione sociale sia rappresentato dalla legge. Da questo punto di vista, sia
detto con il massimo della considerazione, il dramma della scienza del processo
si rivela, più che altro, una commedia: una commedia delle parti, nella quale
l’autonomia dell’azione, così tenacemente perseguita dalla dottrina italiana e da
quella tedesca, in realtà, a ben vedere, rappresenta solo il completamento del
disegno di programmatico assorbimento dell’autonomia privata e, più in
generale, della vita associata entro l’orizzonte della statualità e, dunque, della
legge. In altri termini, il sistema non si scinde ma si articola a partire dalla
proiezione soggettiva della norma (il diritto soggettivo) alla quale l’ordinamento
affida il compito di suturare (e, quindi, di unificare) con tutta l’energia che può
sprigionarsi da un’impostazione così radicalmente riduzionista validità e tutela
(giurisdizionale), diritto sostanziale e diritto processuale (in un ordine non
dissimile, mi sembra, si collocano le importanti riflessioni di E. ALLORIO,
L’ordinamento giuridico nel prisma dell’accertamento giudiziale, in L’ordinamento giuridico
nel prisma dell’accertamento giudiziale e altri scritti, I, Milano, 1957, 51 s.; 72 s.). La
circostanza che l’istaurazione del giudizio possa non coincidere con la titolarità
del diritto soggettivo, secondo il disegno divisato dall’art. 2907 cod. civ., è un
corollario del modus operandi di organizzazioni di questo tipo e in ogni caso, essa
risulta, dal punto di vista costruttivo, molto sopravvalutata (v. infra, § 12).
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generale, l’enorme rilievo che figure come la ‘bona fides’, l’‘aequitas’,
il ‘bonum’, l’‘honestum’ ecc. rivestono nell’ambito di quell’esperienza
rappresentando il punto di sutura di sottosistemi (la prassi
negoziale, i responsa prudentium, gli Edicta) che, certo, si pensano
l’uno in funzione degli altri ma non secondo una logica di
subordinazione decisa ex ante che, di per sé, escluderebbe (come ha
escluso nel moderno) la necessità di un terreno comune al quale
affidare l’addomesticamento dell’attrito. E questo spiega anche la
ragione per la quale l’interpello (‘actio’) al ‘rex’ (o al ‘praetor’) si
presenti sotto la forma di una ‘pretesa’, di una domanda di giustizia,
come ho già detto, che ripete il suo senso dalla naturale
condivisione di credenze che incombono sulla vita di tutti e da cui
tutti si aspettano una risposta. In altri termini, il ‘giuridico’ romano,
pur presentandosi alquanto articolato nelle sue manifestazioni,
recupera una interna, mobile, coerenza in ragione della immanenza
alla vita sociale di un’idea forte di ‘dovere’, di un’idea così tanto
forte da escludere che la sua inosservanza possa essere surrogata
‘manu militari’. Questo, a prima vista, può apparire un paradosso,
ma, a ben vedere, la circostanza che l’obbligo primario (il ‘debitum’)
si configuri sempre alla stregua di un’obbligazione naturale (nel
limitato senso della sua infungibilità), di talché il creditore potrà
ottenere dal giudizio soltanto una condanna al pagamento di una
somma di denaro, rivela l’ autosufficienza funzionale di cui esso
gode rispetto alle applicazioni moderne, per le quali, come si è
visto, l’obbligazione è, in primo luogo, tecnica di attribuzione di
un’utilità alternativa al diritto reale. Intendo dire che il ‘dovere’
degli antichi (compendiato nell’‘unicuique suum tribuere’ e nell’‘alterum
non laedere’, suggellati dallo ‘honeste vivere’), nella misura in cui, ove
inadempiuto, mette capo ad una sanzione (e non ad una surroga),
incorpora un paradigma genuino di osservabilità; mentre il ‘dovere’
dei moderni, là dove, per definizione, è fungibile attraverso
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l’esecuzione in forma specifica, non può essere osservato per la
stessa ragione per la quale non può essere violato62.
Provo a chiarire un punto di vista che può risultare di non
immediata intuizione. La differenza tra ‘antico’ e ‘moderno’, qui, è
riconducibile al fatto che, nel primo caso, il creditore si aspetta che
il debitore adotti un comportamento coincidente con quello
prescritto; in altre parole, per il creditore è cruciale che il debitore
esegua la prestazione, sia perché questo è l’unico modo attraverso
il quale potrà ottenere ciò che davvero gli interessa di avere, sia
perché l’osservanza dell’obbligo vale, in pari tempo, conferma e
aumento dell’autorità della gens e, per traslato, della ‘civitas’. Certo,
A riprova di quanto affermato nel testo si può richiamare il fatto che la
posizione del convenuto, in un’‘actio in personam’, venga comunemente descritta
nei termini di un onere (l’‘oportere’ conterrebbe, pertanto, un grado di
vincolatività meno intenso della necessità immanente all’idea compiuta di
‘obligatio’: v. R. SANTORO, Omnia iudicia absolutoria esse, in Collana della Rivista di
Diritto romano – Atti del Convegno “Processo civile e processo penale nell’esperienza
giuridica del mondo antico in memoria di A. Biscardi”. Siena. Certosa di Pontignano
13-15 dicembre 2001 (s.l. e s.d. ma 2002) 3-4 e ora in Scritti minori, II, cit., 633634). Certo, anche del debitore moderno si potrebbe dire che, una volta
convenuto in giudizio, egli sia gravato da un onere, nel senso che, ove mai
volesse sottrarsi all’esecuzione forzata, potrebbe pur sempre adempiere
spontaneamente. Tuttavia, tra i due ‘oneri’ esiste una differenza fondamentale:
l’onere ‘moderno’ evoca un’alternativa – quella tra adempimento ed esecuzione
forzata – la quale, essendo immanente al rapporto obbligatorio, non è una vera
alternativa, e, dunque, per questa ragione, non può essere colta attraverso la
specola dell’onere (a meno di non voler fare di ‘onere’ una parola polisensa,
poco interessante sotto il profilo ricostruttivo). Al contrario, l’onere ‘romano’
prende forma all’interno di una sequenza non lineare, contraddistinta da
un’alternativa autentica, tra l’esecuzione spontanea della prestazione e la
‘condemnatio pecuniaria’, sicché descrivere la posizione processuale del debitore in
termini di ’onere consente di apprezzare il diverso modo di essere delle due
polarità che compongono quell’alternativa. Risiede qui il limite della pur
suggestiva proposta ricostruttiva di G. BRUNETTI, Norme e regole finali nel diritto,
Torino, 1913, 150 s. prontamente segnalato da E. BETTI, Struttura, cit., 133.
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anche il creditore ‘moderno’ si augura che il debitore adempia
spontaneamente: ma questo non perché altrimenti non potrà avere
ciò che è già suo, ma soltanto perché dovrà rivolgersi ad un
avvocato, sostenere dei costi e, cosa ancora più grave, aspettare che
la giustizia civile faccia il suo corso; per non dire, poi, che, a
nessuna persona sana di mente, verrebbe in mente di immaginare
che l’inadempimento, tanto per l’una quanto per l’altra delle due
parti, rivesta un significato eccedente la dimensione puramente
economica della microstoria racchiusa nel loro rapporto. Questa
differenza può essere espressa anche dicendo -e si tratta, con ogni
probabilità, dell’aspetto più significativo dell’intera questione – che
mentre, per gli antichi ciò che davvero contava erano il dare, facere,
praestare, per i moderni, in primo piano sta l’utilità che, già attribuita
al creditore mediante il riconoscimento del diritto soggettivo, deve
ora essergli procurata nella sua materialità63. Da qui la infungibilità
dell’obbligazione romana la quale, appunto, si impernia sulla
condotta del debitore, per definizione infungibile e, quindi,
insurrogabile; e la ordinaria fungibilità dell’obbligazione moderna
la quale, imperniandosi, viceversa, sull’utilità da procurare al
creditore attraverso il medio della prestazione, risulterà
insurrogabile nei soli casi in cui prestazione ed utilità siano
indistinguibili l’una dall’altra64.
È venuto il momento di tirare le fila del discorso. La
programmatica, e storicamente inevitabile, ibridazione di
‘römisches’ e ‘heutiges’ genera, sul versante del rapporto tra diritto
sostanziale e processo, alcuni evidenti equivoci di cui la dottrina
della conversione di ‘reale’ in ‘obbligatorio’ è uno degli esempi più
L’adempimento serve a rendere il fatto conforme al diritto: e questo spiega
la sostanziale simmetria di inadempimento e spoglio i quali, entrambi, privano
il creditore e il proprietario dell’utilità loro attribuita in base ai rispettivi titoli
giuridici (diritto di credito, diritto di proprietà).
64 V, nt.8. Ma v. anche § 11.
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vistosi65. Intanto: l’attore romano, in effetti, ha motivo di
‘pretendere’ che il ‘reus’ sia punito, cioè sia condannato a pagargli
una somma di denaro; invece, non è ben chiaro che cosa abbia a
pretendere l’attore moderno, posto che il sovrano gli ha già
assegnato quanto, secondo le regole interne al sistema giuridico
(che funziona come qualsiasi gioco, anche se, dal punto di vista
sociale, il diritto incide più del ‘bridge’) gli spetta. Da questo punto
di vista, una formulazione come quella contenuta nell’art. 2907
cod. civ. («alla tutela giurisdizionale dei diritti provvede l’autorità
giudiziaria su domanda di parte…») è di una chiarezza
inequivocabile: se inquadrata nella giusta prospettiva, la norma si
mostra per quello che è, ovvero una felicissima epitome del modo
di funzionare degli ordinamenti moderni – caratterizzati dalla
integrale statualizzazione del diritto – nei quali vedersi attribuire
un’utilità nella forma di un diritto soggettivo e vedersi attribuito il
potere di esigerne, ed ottenerne, la tutela (giurisdizionale) sono
esattamente la medesima cosa per la semplice ragione che quel
diritto e quel potere attingono ad una medesima fonte.
Due rapide considerazioni prima di procedere oltre. Come è
ovvio, anche a Roma il diritto è un gioco socialmente
rilevantissimo: tuttavia, le sue regole non solo presentano un grado
di formalizzazione inferiore a quello proprio degli ordinamenti
giuridici moderni ma, ed è questo l’aspetto più significativo, esso è
la risultante dell’azione di soggetti (privati, pretore, giurisperiti,
senato, comizi ecc.) i quali, pur riconoscendosi nella varietà dei
Rapporto (quello tra diritto sostanziale e processo) che, per il modo in cui è
stato affrontato dalla dottrina tedesca, prima, e da quella italiana, poi, individua
il contraddittorio paradigma di questa ibridazione a cagione della quale i
‘moderni’, nel loro lavoro di orientata sistemazione del lascito degli ‘antichi’, si
imbattono in un problema che, però, non era percepito come tale da questi
ultimi e di cui, invece, essi – cioè i ‘moderni’ – si appropriano facendone,
addirittura, una delle teste di capitolo della ‘scientia iuris’.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
ruoli e nella disimmetria dei poteri (‘conditio sine qua non’ della
pensabilità stessa di un ordine civile), tuttavia godono di una
legittimazione politica autonoma. La seconda considerazione,
invece, attiene all’esperienza moderna. L’idea che il giudice fosse
un mero ripetitore della ‘voluntas legis’ è stata oggetto, fin dai suoi
esordi, di critiche che ne hanno portato alla luce, per un verso,
l’insostenibilità sul piano epistemologico (il passaggio dall’astratto
al concreto, dall’enunciato al caso, è denso di un così elevato
numero di variabili da rendere il paradigma del tutto inattendibile)
e, per altro verso, ne hanno rivelato la compromissione sul piano
ideologico. Tuttavia, se ci si pone dal punto di vista del processo,
anzi, del giudizio, per il ruolo che esso è chiamato a svolgere in
seno al dispositivo di governo di cui è emanazione, il funzionario
pubblico che lo amministra è davvero, soltanto, e non può essere
altro, che ‘bouche de la loi’66.
V., esattamente negli stessi termini, E. BETTI, La creazione del diritto nella
‘iurisdictio’ del pretore romano, in Studi in onore di G. Chiovenda (Padova 1927), 68,
nt.2. La lotta ingaggiata contro il carattere puramente dichiarativo della
interpretazione (e, in particolare, della interpretazione giudiziale) ha dalla sua
ottime ragioni, che traggono alimento dalla storia, dalla teoria della conoscenza,
dalla politica. Resta il fatto che, nel senso più profondo della cosa, la sentenza
è un atto di intelligenza e non un atto di volontà (A. ROCCO, La sentenza, cit.,
28-30) e non può essere altro, perché i maiores avevano intuito una cosa
fondamentale, e cioè che qualunque linea di lettura il giudice abbracci, si tratta
sempre di una variazione sul tema, e mai del tema. In altri termini, il formalismo
interpretativo è una contromisura di ordine politico-ideologico, adottata dalle
borghesie continentali allo stato nascente (diciamo, l’equivalente di quello a cui
pensava Marx quando parlava di dittatura del proletariato: una profilassi
temporanea, necessaria ad evitare il ritorno degli spodestati), ma del tutto
periferica, sotto il profilo del nucleo sostantivo che presiede al funzionamento
dei diritti di marca statuale, per i quali l’ordine è fissato una volta per tutte (‘ein
Ganzes’, appunto, e non solo ‘ein Alles’). A suffragio di questo basterà
richiamare la circostanza che Kelsen, il quale non era esattamente un
sovversivo, propone una teoria dell’interpretazione che fa perno sulla
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Ripeto, sotto questo profilo, la formulazione dell’art. 2907
cod. civ. non può lasciare adito a dubbi, se non a pensatori deboli,
o, per meglio dire, confusi: il giudice (fisica incarnazione della
angelicata giurisdizione: in questo, forse, Carnelutti non aveva tutti
i torti) provvede alla tutela dei diritti soggettivi, cioè reitera
un’operazione sempre eguale a se stessa, almeno nelle intenzioni
de «lo buon geomètra dell’Universo». Che poi, nel far questo, il
giudice ci metta (non possa fare a meno di metterci) del suo, è,
come ho già detto, fuor di dubbio: è, altrettanto indubbio, però,
che tra il ‘denegare actionem’ o, a maggior ragione, l’accordare l’azione
o il rimedio (si pensi all’‘exceptio doli’) non previsti dal ‘ius civile’, da
parte del ‘praetor’, e il rigettare la domanda da parte del giudice,
esiste una differenza enorme, riconducibile al fatto che nel primo
caso il pretore esercita un potere certo connesso al ‘munus’ al quale
accede, ma radicato in uno spazio di senso più ampio di quello
descritto dalla regola di preposizione all’ufficio67, mentre, nel caso
del giudice, tra l’ufficio che egli riveste e il potere che egli esercita
vi è una continuità assoluta (l’art. 102, comma 2 Cost. vuol dire
anche questo). Riprendendo la nota coppia weberiana, si potrebbe
anche dire che per il pretore legalità e legittimazione si muovono
discrezionalità del giudice, destinata a muoversi dentro il ‘Rahmen’, istituito dal
potere, con effetti significativi sulla vita delle persone in carne ed ossa coinvolte
nel giudizio, ma del tutto incapace di produrre uno scarto rispetto al sistema
costituito.
67 Il rinvio è sempre a E. BETTI, La creazione, cit., 71 s. il quale parlava della
‘iurisdictio’ come di un potere legislativo a contenuto negativo perché inteso alla
disapplicazione del ‘ius civile’ aggiungendo poi che «secondo la concezione
romana, il potere discrezionale del magistrato giusdicente inerisce alla sua stessa
iurisdictio ed è parte integrante della sua potestà di comando e di decisione, del
suo imperium: poiché la iurisdictio non è che un aspetto, una funzione specifica
dell’imperium. Esso potere non è qualcosa di prestato e di concesso dalla legge;
ma è altrettanto proprio ed originario del magistrato quanto l’imperium: vale a
dire, certo più antico della legislazione comiziale e virtualmente primitivo».
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
su piani differenti, mentre per il giudice esse coincidono senza
residui68.
10. Riprendendo il filo del ragionamento, il proprietario
spogliato, dunque, deduce in giudizio, e non come diritto –
presupposto, oggetto di accertamento incidentale, ma come diritto
in relazione al quale, recta via, si chiede al giudice di provvedere, il
diritto di proprietà69. In altri termini, l’esito della causa – e la
conseguente condanna del convenuto alla restituzione – dipenderà,
appunto, dall’accertamento del diritto di proprietà: e a legittimare
il proprietario all’esercizio dell’azione (cioè, alla proposizione della
domanda ai sensi dell’art. 163 cod. proc. civ.) non sarà la violazione
di fantasmatici doveri riflesso degli ancora più impalpabili iura erga
omnes; e neppure l’inosservanza dell’etereo ‘alterum non laedere’, alla
quale la legge (come mai?) non riconosce, qui, la dignità di fonte
dell’obbligazione. Accade, piuttosto, solo questo: che qualcuno si
impossessi del ‘Rechtsobject’; o che il debitore non adempia; o che,
di nuovo, qualcuno si introduca nel fondo Corneliano; o che,
Lo stesso concetto si può esprimere così. L’accesso all’ufficio del pretore
avviene sulla base di una norma di legge ma il potere che il pretore esercita trae
la propria legittimità da una fonte (in senso doppiamente figurato) diversa da
quella a cui si riannoda l’atto di preposizione. Viceversa, l’accesso all’ufficio da
parte del giudice avviene sulla base di una legge (quella che disciplina le
modalità di reclutamento dei magistrati ordinari) e dei c.d. atti derivati, ma il
potere che egli esercita (il potere di applicare la legge) è integralmente
sovrapponibile a quello che gli ha reso possibile pronunziare valide sentenze in
nome del popolo italiano. Appunto, come dice Betti in due parole, il potere del
pretore «non è qualcosa di prestato e di concesso dalla legge». Questo caso rende, con
grande chiarezza, la differenza che passa tra Alles e Ganzes a cui accennavo poco
sopra nel testo. Sul punto v. anche quanto scrive F. GALLO, L’‘officium’, cit.,125.
69 Alla medesima conclusione perviene A. MOTTO, Poteri, cit., 422, nel quadro
di una ricostruzione ancora tributaria, se intendo bene, dell’idea che i poteri e
le facoltà del proprietario siano presidiati da un obbligo di astensione: un’idea
alla quale viceversa, a mio avviso, si dovrebbe definitivamente rinunciare.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
sempre qualcuno, neghi che Sempronio sia il proprietario di quel
fondo: si tratta sempre di puri e semplici fatti, ai quali
l’ordinamento consente di vivere nella sola specola del processo
attraverso il medio dell’art. 100 cod. proc. civ. Quanto alla
circostanza che la domanda, sempre ex art. 163 (comma 2) cod.
proc. civ., si indirizzi verso un soggetto determinato, essa è solo un
banale corollario della centralità processuale del fatto costitutivo
(almeno nella prospettazione attorea) dell’interesse ad agire: trarne
argomenti a sostegno della tesi della ‘conversione’, anzi farne
l’argomento decisivo, è soltanto il frutto di un abbaglio a causa del
quale il modello (semplificato) di conflitto iscritto nella logica
dell’obbligazione viene generalizzato e trasferito, attraverso le
mediazioni di cui si è detto in precedenza, in una sorta di terra di
mezzo nella quale la inaggirabile bilateralità del processo si ribalta
nella bilateralità (di risulta) del diritto reale70.
Il modello (semplificato) di conflitto di cui parlo nel testo è il nucleo di verità
racchiuso nelle righe di Windscheid riportate alla nt. 48 Significa che l’utilità
può essere sottratta al titolare del diritto soltanto dal debitore, sicché il fatto –
inadempimento non aggiunge nessuna informazione su chi debba essere
convenuto in giudizio. Viceversa, lo spoglio ha un contenuto più ricco, perché,
oltre a dare un fondamento all’interesse ad agire, individua il destinatario
dell’azione. In realtà, si tratta di un puro effetto ottico, riflesso della tecnica di
attribuzione dell’utilità che il processo azzera (come aveva visto bene
Chiovenda), senza da questo doverne ricavare le conseguenze che ne trae la
dottrina della conversione. Anche Ulp. sing. reg. D.44.7.25 pr. offre, a questo
riguardo, interessanti spunti di riflessione. Qui, infatti, Ulpiano, nel riproporre
un po’sulla falsariga di Gaio, 4,5, la distinzione tra actio in rem e actio in personam
individua il tratto differenziale dei due rimedi nella circostanza per cui il primo
viene esercitato «semper adversus eum.. qui rem possidet», mentre il secondo «semper
adversus eundem locum habet» (v. M. TALAMANCA, Processo civile (dir. rom.), in Enc.
dir., 36, Milano, 1979, 47 s.). Non sono in grado di valutare l’originalità della
formulazione prescelta da Ulpiano: però mi sembra interessante la sua scelta di
porre l’accento, in punto di legittimazione passiva, sulla (cripto)ambulatorietà
dell’actio in rem e sulla (verace) fissità dell’‘actio in personam’. L’ambulatorietà della
70
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Ancora meno lo schema della ‘conversione’ si addice alla
tutela risarcitoria. Qui, come si è visto, l’illecito, a differenza di
quanto accade nel caso dello spoglio o dell’inadempimento, non è
un mero fatto, la cui rilevanza è apprezzabile, in primo luogo, nella
prospettiva del giudizio; quanto, piuttosto, un fatto-fonte,
produttivo di quell’ importante effetto sostanziale rappresentato
dalla istaurazione di un rapporto obbligatorio e, quindi, dal
riconoscimento di un diritto soggettivo di credito. Quest’ultimo, in
altre parole, meno che mai potrebbe vestire i panni del diritto
converso perché, una volta definitivamente ripudiata l’idea che
quello compensativo sia rimedio complementare alla tutela del
diritto reale (o di qualsiasi altro diritto soggettivo), la conversione
(già di per sé dogmaticamente irricevibile) non disporrebbe di alcun
fondamento sul quale poggiare.
Infatti, come bene hanno avuto modo di chiarire le ss. uu.,
«La titolarità del diritto fatto valere in giudizio è un elemento
costitutivo della domanda. Gli elementi costitutivi possono
‘actio in rem’ è ‘cripto’ perché, a veder bene, il metro sulla base del quale viene
individuato il reus è sempre uguale a se stesso, ovvero il fatto di possedere la
cosa, mentre la fissità dell’‘actio in personam’è verace perché soltanto il debitore
può non eseguire la prestazione. Ora, l’invarianza del metro, speculativamente
parlando, è tutto, mentre la mutevolezza del convenuto è nulla, nel senso che
anche in sistemi mobili come quello romano, l’apparire sulla scena di un titolo
giuridico (ossia, di una regola sociale dotata di una specifica forza performativa)
ha un effetto di cristallizzazione, nel senso che Numerio Negidio non è più
‘quel’ Numero Negidio, ma è una pura forma istituita dalla regola. In altri
termini, vero è che ‘in rem’ viene convenuto chi si trova a possedere la cosa (il
quale potrebbe non coincidere con l’autore dello spoglio), mentre ‘in personam’
può essere convenuto solo il debitore: ma, nonostante l’apparenza contraria
(quella a partire dalla quale prende corpo la dottrina della conversione), in
entrambi i casi l’individuazione del convenuto è sempre un puro riflesso del
modo in cui è conformato il titolo giuridico richiamato nella intentio (per il
diritto romano) o nella domanda (per il diritto moderno).
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
consistere in meri fatti o in fatti-diritto. Per chiedere in giudizio il
riconoscimento di un diritto è necessario allegare e dimostrare una
serie di fatti: ad esempio, per il riconoscimento di una pensione di
inabilità bisogna presentare un certo grado di inabilità e un reddito
inferiore a determinati livelli. Ma tra gli elementi costitutivi di un
diritto possono esserci anche altri diritti. Nel caso in esame, il
diritto oggetto della domanda è il risarcimento del danno subito da
un immobile e tra gli elementi costitutivi della domanda vi è il
diritto di proprietà sul bene danneggiato. Per chiedere in giudizio
il risarcimento del danno la parte deve dimostrare, oltre ad una
serie di elementi materiali (il danno, il nesso di causalità), anche di
essere titolare di un diritto reale sul bene danneggiato. Il diritto di
proprietà non è il diritto oggetto della domanda, e quindi della
tutela giudiziaria, ma è un elemento costitutivo di quel diritto»71.
Cioè, a differenza di quanto riteneva Chiovenda, nei giudizi
di responsabilità civile, il diritto di proprietà (ma oggi anche il
diritto di credito, l’interesse legittimo, il possesso) non individua il
presupposto del diritto al risarcimento del danno, ma solo uno
(l’‘ingiustizia’) degli elementi costitutivi della sua fattispecie,
provando la sussistenza della quale si sarà dimostrata la rilevanza
giuridica e, dunque, la risarcibilità della perdita subita. Il punto è
che nel caso dell’azione ex art. 2043 cod. civ. proprio perché ad
essere dedotto in giudizio è un diritto (quello al risarcimento del
danno) che è conseguenza, e non presupposto, della lesione
(diversamente da ciò che accade con lo spoglio e con
l’inadempimento), i confini tra legittimazione ed interesse ad agire
perdono di limpidezza: nel senso che mentre lo spoglio e
l’inadempimento sono, in astratto, certamente degli illeciti, sicché
all’attore basterà dimostrare di essere titolare del diritto di cui si
Cass. ss.uu. 16 febbraio 2016, n. 2951, in www.dirittocivilecontemporaneo.it. Sul
punto v. L. NIVARRA, La tutela, cit., 51-55.
71
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
predica la lesione per ottenere dal giudice il provvedimento
richiesto, il danno, viceversa, ha uno statuto ambiguo, nella misura
in cui la sua risarcibilità dipenderà dalla circostanza che il giudice
ne abbia accertato l’ingiustizia.
Da questo punto di vista, la dottrina della ‘tipicità’, a
prescindere dai suoi risvolti ideologici e delle imperfezioni del
concetto, assolveva ad una funzione molto importante, che era
quella di avvicinare quanto più è possibile, il danno – allo spoglio
(e all’inadempimento), e, per conseguenza, giudizio di risarcibilità
(della perdita) e giudizio di reintegrabilità (del diritto). La parabola
della responsabilità civile, sfociata nella consacrazione di una classe
di ‘interessi giuridicamente rilevanti’ nella sola forma della «minima
tutela risarcitoria» ha reso visibile la piena autonomia della
funzione compensativa e la sua non riducibilità alla misura di una
variante puramente pecuniaria della protezione offerta dalla legge
al prediletto dei suoi figli, cioè al diritto di proprietà72.
DIRITTO SOGGETTIVO, OBBLIGAZIONE, AZIONE
(PARTE II)
SOMMARIO: 11. Ancora sul primato dell’adempimento in natura - 2. Per
concludere: qualche (non innocente) considerazione su azione ‘in concreto’
e azione ‘in astratto’
Riprendendo considerazioni già svolte in precedenza (§ 5), si può dire, quindi,
che la polarizzazione del dibattito intorno alla coppia tipicità-atipicità ha
occultato il fatto che la posta in gioco non fosse tanto l’allargamento in
orizzontale del campo di operatività della tutela risarcitoria, quanto, piuttosto,
quella della sua autonomia rispetto alla tutela reale.
72
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
11. Vorrei ora accennare ad un tema che riaffiora
carsicamente nel dibattito giuridico: alludo al c.d. ‘primato
dell’adempimento in natura’. La formula, che secondo un’opinione
autorevole, sarebbe stata tenuta a battesimo (anzi «inventata» da
Mazzamuto)73 sta a designare la circostanza in forza della quale (mi
avvalgo di una parafrasi il più possibile neutra), il sistema sarebbe
congegnato in modo da assicurare al creditore proprio ciò che gli
spetta. La prima osservazione è questa: chiunque l’abbia
«inventata», la formula è, comunque, affetta da una certa dose di
ambiguità. L’adempimento, in quanto tale, è sempre «in natura», è
così tanto sempre «in natura» che predicarne l’essere «in natura»
pone capo ad un giudizio analitico a priori. Per convincersi di
questo è sufficiente richiamare gli artt. 1181 («Adempimento
parziale») e 1197 («Prestazione in luogo dell’adempimento») del
codice civile, dai quali si ricava, de plano, che il debitore non si libera
dall’obbligazione (cioè, non si sottrae alla condanna e
all’esecuzione forzata) se non procurando al creditore quanto a
questi spetta in ragione del titolo costitutivo del diritto, a meno che
il creditore non acconsenta a ricevere qualcosa di meno o qualcosa
di diverso: ciò che, però, sta a significare, molto semplicemente,
che quel titolo avrà subito una modificazione (per non parlare, poi,
della novazione, allorché il titolo originario viene soppiantato da
una nuova causa). Insomma, se per adempimento in natura (e
correlativo primato) si intende che il debitore scampa
all’attingimento forzoso dell’utilità dalla legge attribuita al creditore
solo quando, sua sponte, adotti il comportamento idoneo a far
C. CASTRONOVO, Spigolature da Processo e tecniche di attuazione dei diritti, in
Processo e tecniche di attuazione dei diritti, Omaggio, cit., 712. S. MAZZAMUTO,
L’attuazione degli obblighi di fare, Napoli,1978, 120 s. parla di «c.d. priorità
dell’adempimento in natura».
73
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
ottenere alla controparte quel risultato (ovvero, quando esegua la
«prestazione»), si dice una cosa in sé abbastanza ovvia.
Un passo in avanti nella decifrazione della formula lo si
compie riportandola ad una temperie culturale in cui la posta in
gioco era rappresentata, per un verso, dall’estensione al diritto di
credito dell’esecuzione in forma specifica74 e, per altro verso, dal
superamento del dogma della correlazione necessaria tra condanna
ed esecuzione forzata75. Riguardata da questa angolatura, il
«primato» intercetta, sino ad identificarvisi, lo spazio teorico,
politico ed ideologico della «effettività» per come essa venne intesa a
partire dagli anni’70, ovvero come ellissi delle pratiche
ermeneutiche e applicative ispirate dall’art. 24 Cost. Tuttavia, anche
a voler mettere il «primato» sotto l’ombrello della tutela
giurisdizionale, le ambiguità, se non le aporie, della formula non si
dissipano, perché, come è ovvio, l’accesso alla tutela, da un lato,
presuppone l’inadempimento e, dall’altro lato, come insegna la
dottrina dell’equivalenza, il risultato che essa appresta al creditore,
sotto il profilo funzionale, è certamente il medesimo di quello che
sarebbe disceso dall’ adempimento, ma per il tramite di un
dispositivo (una ‘machinery’, l’esecuzione forzata) alternativa a
quest’ultimo. Insomma, ‘ex ante’, cioè in pendenza
dell’adempimento, la formula è cognitivamente povera là dove
74 Si ricorderà che secondo Satta (v. nt. 10), le norme in materia di esecuzione
in forma specifica descrivono le modalità attraverso le quali il proprietario (per
meglio dire: il titolare di una situazione finale) esercita, sotto giudiziario
controllo, il suo diritto, mentre solo l’espropriazione è autentica esecuzione
riservata al diritto di credito in quanto diritto sprovvisto dell’energia necessaria
a garantirne l’autoapplicazione.
75 Il punto era stato bene intuito da L. MENGONI, Discussioni, in Processo e tecniche
di attuazione dei diritti, cit., 152. I due volumi che raccolgono gli atti del convegno
palermitano del 1987 offrono una panoramica pressoché completa di quella
stagione e, quindi, ad essi si rinvia per gli approfondimenti di dettaglio.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
pretende che «in natura» aggiunga qualcosa ad «adempimento»; ex post,
ad inadempimento consumatosi, la formula diviene ingannevole
perché «in natura» è qualità predicabile della forma di tutela
giurisdizionale (nel nostro caso, l’esecuzione in forma specifica) e,
per le ragioni già dette, non certo dell’adempimento.
Fermo restando tutto questo, e ribadito che l’idea del
«primato» fiorisce in un contesto culturale caratterizzato
dall’esigenza di ammodernare il sistema delle tutele specie sul
versante delle sattiane «situazioni strumentali» (esigenza che traeva un
forte dall’alimento dall’ingresso sulla scena rimediale degli artt.18 e
28 Stat. lav.), un contributo decisivo ai fini di un migliore
inquadramento della formula venne da alcune, poche pagine di
Luigi Mengoni, del quale vale la pena di riportare per esteso quello
che a me sembra il passaggio cruciale del suo ragionamento. Scrive
Mengoni: «Il principio dell’adempimento in natura risultante
dall’art. 1218 ha una rilevanza sostanziale indipendentemente dalla
coercibilità della prestazione…. Anzitutto il principio in parola
significa che il creditore può domandare la condanna del debitore
al risarcimento del danno in luogo della condanna
all’adempimento, salvo… l’art. 1453, solo se dimostra
l’impossibilità sopravvenuta della prestazione. L’impossibilità
sopravvenuta ha dunque una funzione liberatoria in ogni caso: se
non è imputabile al debitore libera quest’ultimo dall’obbligazione;
se è imputabile libera il creditore dal vincolo del principio di
adempimento in natura. Così interpretato, questo principio forse
non varrà…a scalzare il principio processuale di tipicità
dell’esecuzione specifica, ma certo ne dimostra l’incoerenza, lo
scarto rispetto al diritto sostanziale; comunque fornisce almeno un
criterio ermeneutico che legittima una interpretazione che allarghi
al massimo il campo di applicazione degli artt. 2931 e 2933 cod.
civ., oltre il limite che sembra segnato dalla norma di
strumentalizzazione processuale dell’art. 612 cod. proc. civ. il quale
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
71
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
sembra limitare l’esecuzione forzata degli obblighi di fare o di non
fare a quelli il cui oggetto consiste in un’opera»76.
Queste poche righe di Mengoni, complice, al di là
dell’autorevolezza e dell’acutezza dello Studioso, pure, ripeto, uno
spirito del tempo ancora fortemente impregnato degli umori
dell’«effettività» costituzionale (siamo nel 1987) – circostanza,
questa, che, sul piano delle prassi di pensiero, si traduceva in una
sistematica ibridazione di ‘sostanziale’ e di ‘processuale’77 - hanno
L. MENGONI, Discussioni, cit., 152. Nella pagina precedente Mengoni scriveva
«Come sottolinea la relazione al codice, l’art. 1218 è speculare all’art. 1256 e
intende dire che l’impossibilità della prestazione sopravvenuta per causa
imputabile al debitore non estingue l’obbligazione, ma la converte nel
risarcimento dei danni; che è quanto dire che, se fino a quando la prestazione
sia possibile, la pretesa di adempimento in natura non può essere sostituita con
la pretesa di risarcimento dei danni, salvo, per le obbligazioni derivanti da
contratto con prestazioni corrispettive, l’art. 1453, il quale consente alla parte
non-inadempiente di domandare, anziché l’adempimento, la risoluzione del
contratto e il risarcimento dei danni quando l’inadempimento dell’altra parte
sia di notevole importanza».
77 È opportuno precisare che l’ibridazione di ‘sostanziale’ e ‘processuale’ non è
certo una scoperta della effervescente cultura giuridica degli anni ’70. Infatti, è
difficile immaginare una pratica dell’ibridazione più radicale di quella
patrocinata da Satta il quale, semplicemente, costruisce una teoria
dell’esecuzione forzata a partire dall’idea che vi siano diritti di ‘serie A’ e diritti
di ‘serie B’. L’ibridazione ‘anni 70’ (chiamiamola così solo per intenderci), però,
presenta una serie di caratteristiche molto diverse. In primo luogo, per quanto
questo possa apparire d’acchito molto sorprendente, si tratta di un'ibridazione
che esibisce una inequivocabile coloritura giuspositivistica (prende le mosse,
come ho già ricordato, dagli artt. 18 e 28 Stat. lav. in cbn. disp. con l’art. 24
Cost.); in secondo luogo, si tratta di una ibridazione al contrario, per così dire,
nel senso che la domanda di «effettività» scaturente da quelle norme, e suffragata
da quel principio, rimette in discussione la gerarchia civilistica, nel senso che
cessa di considerare quest’ultima un vincolo dogmatico e la declassa ad
impedimento ideologico.
76
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
72
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dato la stura ad un dibattito dottrinale ancora oggi non placatosi78.
Vorrei ripartire da esse per meglio mettere a fuoco alcuni punti
cruciali, almeno ai fini del mio ragionamento. Nella prospettazione
fornitane da Mengoni, il «primato» si presenta, appunto, nei panni
di una regola di diritto sostanziale in forza della quale, sulla base di
quanto disposto dall’art. 1218 cod. civ., la prestazione primaria e la
prestazione ‘risarcitoria’ non sono fungibili o alternative, nel senso
che né il debitore potrà liberarsi (cioè sottrarsi all’esecuzione
forzata) corrispondendo al creditore una somma di denaro
equivalente al valore dell’utilità a quest’ultimo assegnata dalla legge
mediante l’attribuzione del diritto soggettivo, né il creditore, dal
canto suo, potrà esigere dal debitore la prestazione pecuniaria:
questo, almeno, fino a quando la prestazione primaria non sia
divenuta impossibile per causa imputabile al debitore (mentre,
come ancora ricorda Mengoni, se la prestazione diviene
impossibile per causa non imputabile al debitore, l’obbligazione
semplicemente si estingue ai sensi dell’art. 1256 cod. civ.).
Assoggettata ad una lettura integrale, che, cioè, ne metta in
esponente il ruolo di anello di congiunzione tra i due assi sistemici
– la ‘validità’ e la ‘tutela’ – questa regola, da un lato, cattura la
intangibilità delle convenzioni private (art. 1372 cod. civ.) e, più in
generale, dei titoli attributivi di diritti soggettivi ammessi
dall’ordinamento79; e, dall’altro lato, rideclina, sul piano sostanziale,
78 Gli ultimi due capitoli di questa intrigante disputatio li hanno scritti, a
trent’anni di distanza, C. CASTRONOVO, Spigolature, cit., 711 s: S. MAZZAMUTO,
Postfazione, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 795. s.
79 Intangibilità, per così dire, unilaterale, nel senso che a ciascuna delle parti è
inibita la possibilità di modificare unilateralmente, appunto, il contenuto del
titolo che le impegna. In questo senso, il c.d. ‘primato’ è esattamente l’altra
faccia della irricevibilità della teorica dell’‘efficient Breach’ su cui torna,
attingendo ad un registro connotato da un grado crescente di problematicità
(crescente rispetto al contributo consegnato agli atti del convegno del 1987) R.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
73
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
il canone moderno di allineamento del debito alla responsabilità
(passaggio dalla ‘Haftung fűr’ alla ‘Haftung an’) per il quale al
debitore è inibita la possibilità di liberarsi corrispondendo al
creditore l’aestimatio rei80. L’art. 1218 cod. civ., tuttavia, almeno ad
un primo esame, restituisce un’immagine semplificata delle crisi
alle quali il rapporto obbligatorio è esposto: per un verso, infatti,
esso si affida ad una idea di inadempimento di chiara impronta
naturalistica; per altro verso, proprio perché così fortemente
condizionata da questa impronta, la regola in questione sembra
chiudere il creditore dentro un’autentica camicia di Nesso, da cui
soltanto l’impossibilità sopravvenuta della prestazione, se
PARDOLESI, Tutela specifica e tutela per equivalente nella prospettiva dell’analisi economica
del diritto: trent’anni dopo, in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit.,
739 s. Come è noto, il diritto tedesco ha accolto, a seguito della riforma, una
nozione di impossibilità liberatoria molto più ricca di quella proposta dal
legislatore italiano del ’42 (§ 275 BGB) e, per di più, organicamente collegata
alla disciplina della risoluzione (§ 326 BGB). Per quanto dilatata, la disciplina
dell’impossibilità liberatoria rimane pur sempre una regola di diritto sostanziale
distinta (anche nell’ipotesi di cui allo Abs.III, della prestazione da eseguire
personalmente) da quella di infungibilità (‘nicht vertetbare Handlungen’) del §
888 ZPO che, invece, rileva sul piano processuale. Questo, ‘ex latere debitoris’:
come vedremo più oltre, invece (§ 11), i due piani – quello dell’impossibilità e
quello della infungibilità - tendono ad avvicinarsi ove si ragioni ‘ex latere
creditoris’.
80 Come si è visto, nel diritto romano classico, l’‘aestimatio rei’ costituiva il
contenuto inevitabile della ‘condemnatio’, fermo restando che il debitore si
sarebbe liberato (ossia, avrebbe impedito al creditore di agire in giudizio), solo
attraverso il dare ‘facere praestare’ originario. Nel diritto moderno, e, certamente,
nel nostro, l’inidoneità della prestazione pecuniaria a restituire al debitore la
piena disponibilità del suo patrimonio è un riflesso della normale eseguibilità
in forma specifica del diritto del creditore; tuttavia, ciò che dovrebbe colpire
l’attenzione dell’interprete è che la regola ‘sostanziale’ è un puro riflesso della
regola ‘processuale’ che non significa affatto primato della ‘tutela’ sulla
‘validità’, ma, molto più semplicemente, della perfetta sovrapponibilità, se non
identità, dei due piani.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
74
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
imputabile al debitore, può svincolarlo81. In realtà come è noto, il
quadro è più movimentato: e questo grazie all’art. 1453 cod. civ.
dettato con riguardo ai contratti a prestazioni corrispettive. Qui alla
‘parte non inadempiente’, a fronte dell’inadempimento della
controparte, è permesso di scegliere tra l’azione di adempimento e
l’azione di risoluzione: e che di un’autentica alternativa si tratti è
suffragato dal fatto che i due rimedi siano disposti orizzontalmente
e non verticalmente, come accade, invece, con l’art. 1218 cod. civ.
dove il ‘risarcimento del danno’ presuppone la maturata
inattingibilità della prestazione primaria.
A ben vedere, però, i rimedi in questione sono sì veracemente
alternativi l’uno all’altro, ma non sono omogenei, nel senso che le
81 Emblematica della sensazione claustrofobica che la formula dell’art. 1218
cod. civ. può ingenerare è la circostanza per cui addirittura Mengoni è indotto
a ravvisare nella sopravvenuta impossibilità della prestazione imputabile la
fattispecie che ‘libera’ il creditore dal vincolo dell’adempimento in natura. Si
tratta di un’evidente concessione al fascino della simmetria, perché parlare di
una «liberazione» del creditore risulta problematico da un duplice punto di vista.
In primo luogo perché, a seguito della distruzione della cosa, al creditore non
resta che il c.d. ‘risarcimento del danno’; ovvero una soluzione di risulta,
integralmente sottratta alla ‘facultas eligendi’ del titolare del diritto. Il punto è che
il creditore, come non è libero ‘prima’, non è libero neppure ‘dopo’: aggiungo
che non è del tutto chiaro cosa c’entri la ‘libertà’ quando lo spazio in cui le parti
si muovono è quello della ‘libertà’ consumata perché già esercitata o perché, di
tutto principio, estranea a quell’orizzonte di senso (titoli obbligatori non
negoziali). In questa storia, l’unico che può ‘liberarsi’ (cioè, non vedersi
recapitare a casa un atto di citazione o un decreto ingiuntivo) è il debitore per
il quale l’impossibilità sopravvenuta della prestazione non imputabile è l’eguale
e contrario del frammento di vita in cui egli si era andato a cacciare in origine,
volontariamente o involontariamente. In secondo luogo, non capisco come si
concili il «primato» con la ‘liberazione’: è uno strano «primato» quello il venire
meno del quale (per meglio: il venire meno della possibilità fattuale di
avvalersene) coincide con una ‘liberazione’, ossia con il conseguimento con
uno stato di cose preferibile a quello che lo precede.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
75
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
loro rispettive ragion sufficienti sono irriducibili; mentre, al
contrario, i rimedi contemplati dall’art. 1218 cod. civ. sono
omogenei ma non alternativi, proprio perché essi condividono la
ragion sufficiente. A questo punto è opportuno fornire al lettore
uno schiarimento sull’uso di ‘omogeneo’ e di ‘alternativo’.
‘Omogeneo’ sta ad indicare la perdurante identità del fine, pur nella
contingente variabilità del mezzo. Il ‘risarcimento del danno’ di cui
parla l’art. 1218 cod. civ. è tecnicamente un succedaneo dell’utilità
che il creditore avrebbe conseguito se tutto fosse andato liscio: e si
spiega così il motivo per il quale ad esso può farsi ricorso solo una
volta costatata l’impossibilità della prestazione originaria.
‘Alternativo’, in questo quadro, ha un significato molto diverso,
perché, tramite l’uso di questo segno, si indica non la mutevolezza
del mezzo, ma il mutamento del fine: e la risoluzione, a ben vedere,
individua un fine radicalmente alternativo all’adempimento.
Attraverso la risoluzione, infatti, la ‘parte non inadempiente’ mira
a sbarazzarsi del titolo da cui aveva tratto origine il rapporto
obbligatorio: al punto tale che lo stesso legislatore, consapevole
della circostanza per cui la scelta a favore della risoluzione proietta
l’intera vicenda fuori dall’orbita del ‘vinculum iuris’, si affida ad una
terminologia oscillante parlando ora di «contraenti», ora di
«inadempiente»82. La circostanza non è casuale perché essa sta ad
indicare proprio la non ibridabilità delle due ragion sufficienti – la
tutela del credito e la tutela del contratto – ciò di cui ci si può
agevolmente rendere conto avendo riguardo alla posizione che
l’inadempimento riveste nell’economia dei due giudizi, quello di
adempimento e quello di risoluzione.
Nel comma 1 dell’art. 1453 cod. civ., là dove il legislatore istituisce
l’alternativa, prevalgono i «contraenti»; nel comma 3 – che fotografa con grande
efficacia la irreversibile transizione dal piano del rapporto a quello del contratto
- rispunta l’«inadempiente».
82
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
76
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Nel primo caso, l’inadempimento è tutto interno ad una
procedura finalizzato a sostituirlo attraverso il ricorso
all’esecuzione forzata (in forma specifica o per espropriazione, a
seconda che il creditore, essendo ancora possibile la prestazione,
agisca in vista di questa, oppure, resosi impossibile il ‘dare facere
praestare’, debba mirare al suo equivalente pecuniario): ciò che,
processualmente,
si
traduce
nella
sicura
iscrizione
dell’inadempimento entro l’orizzonte dell’interesse ad agire e della
configurazione del diritto di credito come oggetto del processo.
Nel secondo caso, l’inadempimento occupa uno spazio
ambiguo, nel quale si rispecchia l’asimmetria tra il suo essere ciò
che giustifica l’appello alla giurisdizione e la finalità perseguita
dall’attore che è quella di togliere al contratto la sua forza di legge.
Sotto questo profilo, cioè sotto il profilo del modo di atteggiarsi
del congegno propriamente processuale, potrebbe azzardarsi un
accostamento del rimedio risolutorio a quello aquiliano. Nell’un
caso e nell’altro, infatti, ad integrare gli estremi della legittimazione
ad agire concorrono un titolo giuridico – il quale, però, entra in
gioco non come fonte attributiva del diritto fatto valere in giudizio,
ma come mero presupposto della fondatezza della domanda – e un
fatto – il danno, l’inadempimento – che costituisce la materia dello
specifico accertamento del giudice83.
83 È questa la ragione per la quale la tesi, ancora oggi dominante, secondo la
quale il danno da risoluzione coinciderebbe con il c.d. ‘interesse positivo’, cioè
con il danno da inadempimento (comprensivo del finto risarcimento dell’art.
1218 cod. civ. e del risarcimento genuino dell’art. 1223 cod. civ.) è inaccoglibile.
È del tutto evidente, infatti, che quando si agisce ex art. 1218 cod. civ. si fa
valere lo stesso diritto che si farebbe valere ove mai la prestazione fosse ancora
possibile, ancorché non adempiuta; quando si agisce ex art. 1453, in
risoluzione, si fa valere un diritto diverso, del tutto disallineato rispetto
all’inadempimento (ancora possibile o non più possibile e, quindi, supplito dal
‘risarcimento’ sostitutivo). In altri termini, la scelta pro risoluzione azzera
l’equivalenza di adempimento e ed esecuzione forzata, ovvero denuncia una
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
77
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Insomma, mi sembra abbastanza evidente che attraverso
l’azione di risoluzione si chiede allo Stato protezione per un
interesse radicalmente diverso da quello tutelato dal diritto di
credito, anche se, come ho già accennato, l’attore allegherà il
correlativo titolo quale presupposto imprescindibile della
pronunzia risolutoria84. Se questo è vero, abbiamo conferma del
eterogenesi dell’interesse dell’attore, molto più radicale di quella che si consuma
allorché questi, senza smettere i panni del creditore, agisca per l’equivalente
pecuniario della prestazione in presenza di un inadempimento non assoluto ma
definitivo: chi agisce in risoluzione non è più un creditore ma un contraente
deluso per il quale il contratto degrada dallo status di transazione sociale ‘valida’,
ovvero presidiata dall’art. 1372, comma 1 cod. civ. a contatto sociale foriero di
interferenze dannose. Non mi soffermo sulla questione, complementare a
quella di fondo, della integrabilità del danno da risoluzione, una volta
asseveratane la sua irriducibilità al danno da inadempimento, entro lo schema
dell’‘interesse negativo’ (per una accurata disamina del punto rinvio a v. F.
PIRAINO, Danno da risoluzione, in Scritti in onore di C. Castronovo, cit., II, 476 s.
sulla scorta del fondamentale saggio di C. CASTRONOVO, La risoluzione del
contratto nella prospettiva del diritto italiano, in Europa e dir. priv., 1999, 838 s.): resta
assodato che l’inadempimento, quando si agisce per attuare il vincolo (in natura
o per equivalente) occupa la casella corrispondente all’interesse ad agire; mentre
quando si agisce in risoluzione, esso opera come fatto costitutivo sia del diritto
(potestativo) di chiedere lo scioglimento del contratto, sia del diritto a chiedere
il risarcimento da violazione del ‘pactum’ che rappresenta una sorta di
inosservanza della buona fede ex art. 1337 cod. civ. al quadrato.
84 Non voglio affrontare la questione relativa alla configurazione del diritto
esercitato dal contraente non inadempiente nei termini di un diritto potestativo.
Certo, bisognerà pure dare un nome al fenomeno per cui, proposta l’azione di
adempimento, l’accertamento dell’inadempimento apre la strada, tramite la
mediazione della condanna, all’attuazione forzosa del medesimo diritto fatto
valere in giudizio, mentre, proposta l’azione di risoluzione, l’accertamento
dell’inadempimento completa la fattispecie costitutiva del diritto allo
scioglimento del contratto. S. MAZZAMUTO, Postfazione, in Processo e tecniche di
attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 796, incidenter tantum, ossia nel quadro di una
discussione avente un oggetto in parte differente e su cui anch’io mi soffermerò
più avanti, accenna all’idea secondo cui «la risoluzione completa la fattispecie
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
78
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
fatto che i due rimedi contemplati dall’art. 1453 cod. civ. sono
davvero alternativi, nel senso chiarito in precedenza, e che, quindi,
a dispetto dell’apparenza, lo stesso art. 1453 propone al creditore,
in quanto creditore, esattamente la stessa scena scolpita dall’art.
1218 cod. civ., tanto è vero che da sempre si guarda all’art. 1453
come alla norma nella quale si parla dell’azione di adempimento,
ovvero della genuina traduzione processuale del «primato». Certo, il
creditore può spogliarsi dei suoi panni e vestire quelli del
contraente deluso, ormai deciso a mandare monte il matrimonio
con la controparte infedele: ma se accade questo, è perché cambia
la scena, sicché ogni tentativo di omogeneizzare ciò che è, per sua
natura, alternativo, va respinto.
Semmai, la disciplina della risoluzione potrebbe risultare
interessante, sempre nell’ottica del dibattito sul ‘primato’, da un
altro punto di vista, qualora, cioè, da essa potessero trarsi
indicazioni utili circa un indebolimento della nozione rigida di
inadempimento – rigida perché fortemente pregiudicata dal tributo
alla natura – accolta dall’art. 1218 cod. civ. In realtà, la questione si
presenta alquanto perplessa. È vero, infatti, che l’art. 1455 cod. civ.
mette in circolo l’inadempimento di non scarsa importanza (che,
già d’acchito, sembrerebbe un ‘minus’ rispetto alla catastrofe
dell’inadempimento da impossibilità sopravvenuta): e, tuttavia, lo
fa con riguardo all’ipotesi in cui il creditore si è già trasformato nel
contraente non inadempiente desideroso di agire per la risoluzione.
Sicché, si potrebbe liquidare la questione appellandosi al fatto che
l’«interesse» del contraente non inadempiente di cui parla l’art. 1455
cod. civ. è qualitativamente diverso dall’ «interesse» del creditore di
cui parla l’art. 1174 cod. civ.: e, in effetti, questo è vero, là dove ciò
che, agli occhi del legislatore, rende la posizione del primo non
dell’inadempimento». È vero, probabilmente, il contrario: e cioè che
l’inadempimento (il suo accertamento) completa la fattispecie della risoluzione.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
assimilabile alla posizione del secondo è il suo interesse a
recuperare l’investimento effettuato stipulando il contratto. Si
potrebbe, però, ragionare in altro modo e ricavare dall’art. 1455
cod. civ. uno spunto di metodo che vada nel senso di una
dialettizzazione dell’idea di «interesse» A questo scopo torna utile
ripartire dall’art. 1218 cod. civ. per il quale, come è noto,
l’impossibilità sopravvenuta della prestazione (liberatoria o non
liberatoria) è collegata con l’inadempimento o con il ritardo. Ed è
su quest’ultimo che vorrei brevemente soffermarmi.
La prima (ovvia) osservazione da fare è che, in modo
alquanto contraddittorio rispetto all’impianto generale del
dispositivo, il quale poggia su una nozione naturalistica di
inadempimento, il ritardo si apre ad una considerazione qualitativa
dell’interesse del creditore. Intendo dire che, a differenza di quanto
accade nel caso in cui l’inadempimento dipenda dal perimento o
dallo smarrimento della cosa85, là dove esso dipenda dal ritardo, la
prestazione, materialisticamente intesa, sarebbe ancora possibile.
Se è così, è evidente che il ritardo altera la primitiva sequenza
causale imperniata sul nesso inadempimento – impossibilità (o,
meglio, impossibilità – inadempimento) in ragione della quale il
venir meno dell’interesse del creditore alla prestazione è un mero
riflesso del venir meno della prestazione: prende corpo, allora, una
architettura di quell’interesse non più appiattita sulla sola coppia
possibile/impossibile, ma inclusiva di un valore terzo, che,
stipulativamente, andrebbe ricondotto entro l’area della
‘convenienza’. In altre parole, il trascorrere del tempo può, di per
sé, usurare l’aspettativa del creditore e ‘liberarlo’ (non dall’onere di
Parlo di ‘cosa’ per non appesantire il discorso, ma in realtà il fenomeno in
questione riguarda l’utilità generalmente intesa attribuita al creditore: si pensi al
grande pianista che, il giorno prima del concerto, abbia voluto affrontare la
scalata di una ripidissima parete e abbia riportato, a seguito di una caduta, la
frattura del metacarpo.
85
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
esigere la prestazione primaria a favore del risarcimento del danno
ma) dall’obbligazione tout court restituendogli la possibilità di
procurarsi l’utilità altrove o, più semplicemente, inducendolo a
immaginare un business plan che non contempli quella utilità. Una
lampante conferma di quanto precede si ricava dall’art. 1256,
comma 2 cod. civ. a mente del quale «se l’impossibilità è solo
temporanea, il debitore, finché essa perdura, non è responsabile del
ritardo nell’inadempimento. Tuttavia, l’obbligazione si estingue se
l’impossibilità perdura fino a quando, in relazione al titolo
dell’obbligazione o alla natura dell’oggetto, il debitore non può più
essere ritenuto obbligato a eseguire la prestazione, ovvero il
creditore non ha più interesse a conseguirla».
Il chiaro indice di una fuoriuscita dell’inadempimento
dall’orbita naturalistica nella quale lo aveva relegato l’art. 1218 cod.
civ. si rinviene nell’uso, da parte del compilatore, del periodo
ipotetico dell’eventualità, il quale istituisce un ordine di significati
irriducibile all’automatismo che accompagna il binomio
impossibilità – inadempimento. Insomma se l’apodosi
«l’obbligazione si estingue», dipende da una protasi «se
l’impossibilità perdura fino a quando…il creditore non ha più
interesse a conseguirla (la prestazione)», fortemente interferita dalla
inevitabile valutazione del giudice (nascosta, appunto, nella sintassi
del periodo ipotetico), è evidente che il ritardo può sperare di
attingere la dignità di fattispecie estintiva del vincolo soltanto in
combinazione con un giudizio circa la razionalità della permanenza
in vita di quest’ultimo per rapporto all’interesse del creditore.
Certo, nel caso dell’art. 1256, comma 2 cod. civ., il ritardo – inteso
come epifania qualitativa dell’inadempimento – viene in
considerazione nella prospettiva della estinzione della
obbligazione: tuttavia, mi sembrerebbe abbastanza naturale
supporre che analoga configurazione qualitativa debba
riconoscersi al ritardo dell’art. 1218 cod. civ.: sicché quando
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
l’inerzia (questa volta imputabile) del debitore avrà provveduto ad
interrompere il nesso prestazione – interesse istituito dall’art. 1174
cod. civ.86, per il creditore si aprirà la strada del ‘risarcimento del
86 Naturalmente non sempre il ritardo presenta questi caratteri di ultimatività.
Anzi, di regola, il ritardo, il quale, appunto, descrive un caso di inadempimento
conservativo, prelude allo sbocco giudiziario della crisi del rapporto
obbligatorio sotto la specie dell’azione di adempimento. La denominazione
adottata dall’art.1453 cod.civ. è infelicissima ed equivoca nella misura in cui
lascia intendere che la domanda del creditore miri ad ottenere l’adempimento
da parte del debitore: ciò che, va da sé, è una pura insensatezza, posto che
scopo dell’attore è l’acquisto del titolo esecutivo (fermo restando che il
processo, prima, e la notifica del titolo in forma esecutiva, poi, possono indurre
la controparte ad eseguire le prestazione, sulla base di un calcolo di convenienza
economica, sociale ecc.: ma si tratta di un effetto collaterale, non
formalizzabile). In altri termini, l’inesecuzione della prestazione, nel perdurare
della sua possibilità naturale, eccitando il ricorso alla giurisdizione da parte del
creditore, spinge fuori dalla scena l’adempimento, il quale, da allora in poi,
menerà una vita puramente larvale, all’ombra del processo (è questa il succo
della dottrina dell’equivalenza). Di contrario avviso C. CASTRONOVO, Il
risarcimento in forma specifica come risarcimento del danno, in Processo e tecniche di
attuazione dei diritti, cit., 492 s. (e, da ultimo, C. CASTRONOVO, Spigolature, cit.,
714 s.) per il quale «la condanna all’esatto adempimento, nei contratti a
prestazioni corrispettive, è in realtà una condanna al risarcimento on forma
specifica. Il presupposto sostanziale della relativa domanda giudiziale è infatti
che “uno dei contraenti non adempia(a) le sue obbligazioni (art. 1453, 1
comma), dunque l’inadempimento. E l’effetto giuridico indefettibile
dell’inadempimento è la responsabilità concretizzantesi nella obbligazione di
risarcimento del danno (art. 1218)». Questo è certamente vero, quando la
prestazione sia divenuta impossibile per causa imputabile al debitore. Ma se la
prestazione (l’utilità che, nel migliore dei mondi sarebbe stata trasferita
spontaneamente dal debitore al creditore) è, in rerum natura, ancora attingibile,
perché chiamare in causa il risarcimento del danno (sia pure in forma specifica),
tanto più quando, come nel caso di Castronovo, si nutre il fermo (e
condivisibilissimo) convincimento che la riparazione in natura sia soltanto una
‘species’ del ‘genus’ risarcimento? Il risarcimento, nelle sue varie forme, è un modo
di riscrivere la regola di diritto sostanziale (ragione per la quale il ‘risarcimento
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
danno’ pur nella astratta, perdurante disponibilità materiale della
‘res’87.
Provo a riassumere il senso del discorso sviluppato sin qui.
In primo luogo, a differenza di quanto si potrebbe ritenere
d’acchito, l’art. 1453 cod. civ. rappresenta sì un’alternativa all’art.
1218 cod. civ., ma solo entro i limiti chiariti in precedenza. Ciò
significa che l’art. 1453 cod. civ., per una parte - quella consacrata
all’azione di adempimento – reitera il disposto dell’art. 1218 cod.
civ.; mentre per la parte in cui apre la strada all’azione di
risoluzione, esso, come ho già detto, individua un’alternativa
verace alla tutela in natura del credito, ma così tanto verace da
distaccarsene del tutto, di talché il confronto perde qualsiasi
del danno’ dell’art. 1218 cod. civ. non è un risarcimento genuino: v. infra, nt.
88): a volte si tratta di un procedimento complesso (come nel caso del torto
aquiliano), a volte di un procedimento abbreviato (come nel caso del torto
contrattuale) ma, in entrambi i casi, si ripara una perdita, non si attua un diritto
soggettivo (da questo punto di vista mi sembra debba sempre tenere presente
l’insegnamento di Renato Scognamiglio (per il quale rinvio a R.
SCOGNAMIGLIO, Responsabilità civile e danno, Torino, 2010) Autore al quale si
deve una messa a punto, pressoché definitiva, della distinzione tra risarcire e
reintegrare). Nella ritrosia ad ammettere che non vi sia alcuna mediazione tra il
fallimento della spontaneità e il prendere campo della coattività mi sembra di
riscontrare qualche analogia tra la posizione di Castronovo e quella di L.
MONTESANO, La tutela, cit., 162 s.
87 Davvero, per dirla con il giovane Hegel, la prestazione sradicata dal nesso
che la legava all’interesse del creditore, appare come «morta positività»,
destinata ad esaurirsi nella misura estrinseca della ‘aestimatio rei’. Dubbi sulla
pertinenza del richiamo all’art. 1256, comma 2 cod. civ. esprime P. TRIMARCHI,
Il contratto: inadempimento e rimedi, Milano, 2010, 61-62. A mio avviso, pur nella
diversità dei contesti, «non scarsa importanza» e «non più interesse a
conseguirla» (la prestazione) esprimono la medesima tendenza ad emancipare
l’impossibilità, nel senso di sopravvenuta inidoneità della prestazione a
soddisfare l’interesse del creditore, dalla declinazione naturalistica abbracciata
dall’art. 1218 cod. civ.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
credibilità già solo sul piano di una logica elementare88. D’altra
parte, non si vede per quale motivo si dovrebbe precludere al
Un corollario di quanto appena affermato nel testo è che il creditore
‘corrispettivo’, al pari del creditore ‘a senso unico’, allorché decida di vestire
ancora i panni del creditore, rinunciando ad indossare quelli del contraente non
inadempiente, avrà accesso, una volta divenuta la prestazione impossibile per
causa imputabile al debitore, al ‘risarcimento del danno’ di cui si parla all’art.
1218 cod. civ. Tale ultima affermazione presuppone l’adesione ad una lettura
del medesimo art. 1218 – e, appunto, del suo ‘risarcimento del danno’ – sulla
base della quale il rimedio in questione, a dispetto del nomen legis, sarebbe cosa
diversa dalla misura genuinamente compensativa prevista dall’art. 1223 cod.
civ., collocandosi, piuttosto, nell’orizzonte della tutela reale, sia pure per
equivalente (L. NIVARRA, Alcune precisazioni in materia di responsabilità contrattuale,
in Europa e dir. priv., 2014, 76 s., 91 s. e ora anche in Nuovi orizzonti della
responsabilità contrattuale, Torino 2015, 124 s., 138 s.). Dissente la prevalente
dottrina alle perplessità della quale ha dato voce da ultimo F. PIRAINO, Il
risarcimento sostitutivo tra adempimento in natura e risoluzione del contratto, in Processo e
tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 574 – 575. Piraino muove dall’assunto
secondo il quale io avrei sostenuto che il c.d. risarcimento sostitutivo mira ad
attuare la prestazione inadempiuta (574) o che sempre il medesimo
risarcimento sostitutivo sia assimilabile all’adempimento in natura (575, nt. 92).
In una certa misura, il dissenso è più apparente che reale nella misura in cui
l’interlocuzione investe piani diversi. Le mie riserve sulla riconducibilità del
‘risarcimento del danno’ ex art. 1218 cod. civ. entro l’alveo della tutela
risarcitoria traggono origine dal tentativo (da me perseguito) di tracciare una
netta linea di demarcazione tra il ‘risarcire’ e il ‘reintegrare’. Ridotta
all’essenziale, una volta adottata questa prospettiva, la questione può essere
formulata così: il risarcimento di cui parla l’art. 1218 cod. civ. è una ‘species’ del
‘genus’ risarcimento del danno, oppure è un modo di mimare la prestazione
originaria? C’è un argomento inoppugnabile, a mio avviso, contro l’idea
secondo cui il ‘risarcimento’ dell’art. 1218 cod. civ. sarebbe un risarcimento
autentico e cioè che il risarcimento autentico compensa una perdita, mentre il
risarcimento sostitutivo supplisce alla lesione di un diritto soggettivo.
Diversamente opinando, ove cioè si aderisse alla prospettiva indicata da
Piraino, ne verrebbe compromessa l’unitarietà della nozione di danno, in
quanto pregiudizio neutralizzabile attraverso lo specifico rimedio risarcitorio:
88
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
unitarietà suggellata, come è noto, dal cbn. disp. degli artt. 1223 e 2056 cod.
civ. Infatti, il danno riflesso nello specchio delle due norme testé richiamate e
sottratto all’incertezza incombente sulla parola, ha un significato preciso
riducibile alle rigorose condizioni di uso della nozione che il legislatore ha
provveduto ad istituire, e identificabili nella «perdita subita» (danno emergente)
e nel «mancato guadagno» (lucro cessante). Orbene, se davvero il danno di cui
parla l’art. 1218 cod. civ. fosse il medesimo danno di cui parlano gli artt. 1223
e 2056 cod. civ., ne discenderebbe che il lucro cessante, una volta sta ad indicare
la perdita, intesa nel senso di mancata messa a profitto del cespite sottratto al
creditore attraverso l’inadempimento, un’altra volta sta ad indicare la perdita
intesa nel senso della sottrazione del cespite in quanto tale (al riguardo si
vedano gli illuminanti rilievi di A. BELFIORE, Il binomio «causalità giuridicacausalità materiale» e i criteri di determinazione del danno da risarcire, in Europa e dir.
priv., 2017, 117 s. spec.126. Sulla distinzione, di matrice angloamericana, tra
danno ‘generale’ e danno ‘conseguenziale’, G. SMORTO, Il danno da
inadempimento, Padova, 2005. Forti riserve sulla tenuta della categoria esprime
ora T. PELLEGRINI, Interesse, cit., 180-184). Si tratta, all’evidenza, di usi diversi
del medesimo segno: e questo è un chiaro indice, a mio avviso, della necessità
di distinguere i danni-conseguenza di cui all’art. 1223 cod. civ., dal «danno» di
cui all’art. 1218 cod. civ. il quale, non essendo un danno ‘stricto sensu’, neppure
può essere rimediato per via risarcitoria. Quanto all’argomento per cui il
risarcimento sostitutivo condividerebbe con il risarcimento dei danni
consequenziali «la medesima causa di esonero: l’impossibilità della prestazione
derivante da causa non imputabile al debitore» (F. PIRAINO, Il risarcimento, cit.,
575, nt. 92), esso è sicuramente condivisibile, ma a patto di chiarire che sono
questi ultimi a subire la ‘vis attractiva’ del primo, e non viceversa, come sembra
lasciar pensare il discorso di Piraino. Ne approfitto per provare a rispondere ad
un’altra obiezione che mi è stata mossa, relativamente all’idea (formulata in
alcuni scritti, compreso quello richiamato appena sopra) che il ‘risarcimento del
danno’ di cui parla l’art. 1218 cod. civ. troverebbe il suo omologo (art. 948
cod. civ.) nella corresponsione del valore della cosa cui è tenuto l’autore dello
spoglio quando, per fatto di quest’ultimo, la cosa sottratta al dominus sia andata
perita o smarrita (S. MAZZAMUTO, Le nuove frontiere della responsabilità contrattuale,
in Europa e dir. priv., 2014, 742 s.; F. PIRAINO, Sulla natura non colposa della
responsabilità contrattuale, in Europa e dir. priv., 2011, 1097 s.). Ora, sempre che
non ne abbia frainteso il senso, a me pare che questa critica, in definitiva, tragga
alimento dalla pura e semplice riproposizione della summa divisio tra diritti reali
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
e di diritti di credito, alla quale corrisponderebbe, sul piano rimediale, la
intraducibilità di obbligazione restitutoria e di obbligazione risarcitoria.
Secondo la prospettiva in esame, in altri termini, nel caso dello spoglio, la
sopravvenuta inattingibilità della res darebbe ingresso ad una restituzione per
equivalente, mentre nel caso dell’inadempimento (da impossibilità
sopravvenuta della prestazione per causa imputabile), quella medesima
inattingibilità aprirebbe la strada ad un risarcimento sostitutivo: le due misure,
cioè, avrebbero in comune di essere entrambe un ripiego, ma, se è chiaro in
che senso lo sarebbe la prima la quale mimerebbe un dispositivo l’obbligazione restitutoria - finalizzato a reintegrare un diritto soggettivo (il
diritto di proprietà), non si capisce (davvero, non si capisce) di cosa
prenderebbe il posto la seconda. Premesso che già qualche sospetto lo
dovrebbe destare il fatto che il medesimo congegno - la ‘sostituzione’ – venga
posto al servizio di forme di tutela per definizione irriducibili l’una all’altra, la
tutela reale e la tutela risarcitoria, sul piano della semplice logica, poi, non si
vede in che modo possa applicarsi l’idea di ‘sostituzione’ (pecuniaria) ad un
rimedio – il risarcimento – immaginato dal legislatore come pecuniario ex se, se
non concedendo che il ‘sostituto’ intrattenga con il ‘sostituito’ un rapporto assai
più intimo di quanto, secondo le vedute correnti, non si sia disposti a
concedere: voglio dire che, mentre ha un senso predicare la ‘equivalenza’ o la
‘sostitutività’ della misura consistente nel pagamento del valore monetario della
cosa spogliata, posto che essa, in effetti, subentra alla reintegra, l’idea di un
risarcimento che sostituisce….un risarcimento è una vera e propria
contraddizione in termini. Se, invece, si tiene ferma l’idea che il compito del
‘risarcimento’ ex art. 1218 cod. civ. è di apprestare l’equivalente monetario non
dell’adempimento ma dell’utilità riservata al creditore in quanto titolare di un
diritto soggettivo, ne discenderà che, qui, il ‘risarcimento’ tiene luogo
dell’attingimento forzoso della res (esattamente come accade alla
corresponsione del valore della cosa dell’art. 948 cod. civ. dove, peraltro, tutto
è reso molto più limpido dalla esplicitazione – attraverso l’inciso «oltre a
risarcirgli il danno» - della ovvia autonomia di cui gode il rimedio
autenticamente compensativo). Quindi, siccome il ‘sostituto’ non può
distinguersi dal ‘sostituito’ se non per il modo in cui il fine viene raggiunto e
giammai per il fine in sé, il ‘risarcimento’ dell’art. 1218 cod. civ. sarà destinato
a iscriversi nell’orbita della tutela reale, sia pure per equivalente e, ancora, a
svincolarsi da qualsiasi rapporto con l’art. 1223 cod. civ. (il quale, nell’economia
della tutela del credito genericamente intesa, occupa il medesimo spazio che,
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
creditore ‘corrispettivo’ - il quale preferisca, nel caso concreto,
mettere l’accento su ‘creditore’ piuttosto che su ‘corrispettivo’ l’accesso al risarcimento sostitutivo (che, per le ragioni richiamate
alla nt.88, non è vero risarcimento), una volta che si siano verificate
le condizioni dell’art. 1218 cod. civ. Esempio. Supponiamo che
nell’economia della tutela della proprietà, sempre ‘lato sensu’, occupa quell’ «oltre
a risarcirgli il danno» richiamato poco sopra). Della rilevanza sistematica
dell’inciso si avvede F. PIRAINO, Sulla natura, cit., 1100-1101 il quale, però, se
ne serve per rimarcare la differenza che, a suo avviso, passerebbe tra
restituzione per equivalente e risarcimento sostitutivo, ancora una volta nel
presupposto che l’inesecuzione della prestazione integri gli estremi del danno
emergente: con la conseguenza che il ‘risarcimento’ dell’art. 1218 cod. civ., in
tal modo, viene ‘recta via’ assimilato al risarcimento dell’art. 1223 cod. civ.. Ma,
mi permetto di osservare, questo è esattamente ciò che andrebbe dimostrato e
non soltanto assunto come vero. Beninteso, tutto questo perderà di significato
se, come accade ai miei interlocutori, la premessa maggiore del discorso è
costituita dal fermo, incrollabile convincimento che i diritti reali siano i diritti
reali e i diritti di credito, i diritti di credito (dove la copula esprime tutta la
pregnanza ontologica del verbo ‘essere’ ereditata dalla tradizione aristotelica).
Infine, basta mettere a confronto l’art. 948 cod. civ. e gli artt. 2037-2038 cod.
civ. per rendersi conto della differenza che passa tra il ‘restituire’ allorché esso,
in quanto funzionale alla reintegra del diritto di proprietà, soggiace al criterio
di imputabilità del «fatto proprio» dell’autore dello spoglio; e il ‘restituire’ allorché
esso, in quanto funzionale al ripristino di un equilibrio patrimoniale (obiettivo
rispetto al quale le disposizioni testé richiamate operano alla stregua di una
regolamentazione postuma del contatto sociale istituito dalla traditio), soggiace
al solo criterio della buona o della mala fede Al riguardo v. le osservazioni di
A. IULIANI, La fisionomia del danno e l’ampiezza del risarcimento nelle due specie di
responsabilità, in Europa e dir. priv., 2016, 169; ma già nello stesso senso C.
ARGIROFFI, Delle azioni a difesa della proprietà, in Il codice civile. Commentario,
fondato e già diretto da P. Schlesinger, continuato da F.D. Busnelli, Milano,
2011, 150 s. Il significato e il valore sistematici della formula «fatto proprio», in
altre parole, non tollerano ridimensionamenti perché ad essa è consegnata la
inesorabilità del destino che incombe sull’autore dello spoglio il quale, al pari
del debitore, potrà sottrarsi alla condanna solo provando il caso fortuito o la
forza maggiore.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Tizio abbia acquistato da Caio un quadro il cui valore di mercato è
pari ad Euro 100.000,00 pagandolo, per motivi i più disparati, Euro
70.000,00. Supponiamo, altresì, che il quadro vada distrutto per
una causa imputabile a Caio. Ora, è evidente che Tizio potrebbe
non avere alcun interesse a sbarazzarsi del contratto: pagherà i suoi
Euro 70.000,00, incamererà Euro 100.000,00 (l’‘aestimatio rei’ del
quadro) con un guadagno di Euro 30.000,00, e, in più, come
precisa l’art. 1453, comma 1 cod. civ., senza lasciare adito a dubbi,
potrà chiedere il risarcimento del danno (art. 1223 cod. civ.), ossia
le spese sostenute per organizzare la mostra che avrebbe dovuto
ospitare il quadro e i mancati guadagni, facilmente stimabili sulla
base di serie storiche legate al nome dell’autore, alla location (come
si dice oggi), ai flussi turistici, ecc.
In secondo luogo, si è visto che il «ritardo» dell’art. 1218 cod.
civ., specie se letto alla luce dell’art.1256, comma 2 cod. civ.,
introduce, all’interno della disciplina dell’obbligazione, un ordine
di considerazioni simile a quello che ispira l’art. 1455 cod. civ. là
dove la risolubilità del contratto è subordinata alla circostanza che
l’inadempimento sia di non scarsa importanza «avuto riguardo
all’interesse» dell’altra parte. È vero, come ho già detto, che
l’interesse del creditore (quello di cui parla, programmaticamente,
l’art. 1174 cod. civ.) non è assimilabile a quello del contraente non
inadempiente, nel senso che la valutazione dell’interesse di
quest’ultimo deve, per forza di cose, farsi carico della variabile
rappresentata dal suo investimento nel contratto. Tuttavia, a mio
avviso, almeno un segmento di quella valutazione rimane confinata
entro il perimetro tracciato dall’art. 1174 cod. civ., nel senso che il
giudice dovrà, per un attimo, fare astrazione dalla circostanza che
l’attore agisca nella veste di contraente piuttosto che in quella di
creditore, per poi proseguire dando ingresso alle specifiche ragioni
imposte dal desiderio dell’attore medesimo di sbarazzarsi del
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
contratto89. Ad ogni modo, resta il fatto che «ritardo» e
«inadempimento di non scarsa importanza» condividono un
approccio qualitativo all’inadempimento, nel senso che entrambi i
criteri emancipano l’inadempimento dal vincolo naturalistico
istituito dall’art. 1218 cod. civ.90. L’inadempimento qualitativo (o
definitivo) è motivo di grande angustia per la dottrina: e ciò si
spiega agevolmente, ove si consideri che, uscita di scena la natura
sotto forma di perimento o smarrimento della res, sembrerebbe
riprendere campo l’arbitrio (a seconda dei casi, del creditore o del
contraente non inadempiente)91. In realtà, si tratta di un mero
effetto ottico, perché la fuga arbitraria da un vincolo giuridico (si
tratti di un rapporto obbligatorio o di un contratto) è inibita dalla
legge (basti pensare a quanto dispone l’art. 1372 cod. civ.), sicché
l’opzione, a favore del risarcimento sostitutivo o della risoluzione,
sarà ammissibile solo quando sia venuto meno la stessa ragion
d’essere di quel vincolo: stato di cose, questo, che non godendo
più del potente ombrello dell’evidenza assicurata dalla materialità
In concreto, questo significa che un inadempimento il quale appaia
compatibile con la conservazione del rapporto obbligatorio esigerà, poi, una
motivazione qualificata ai fini della risoluzione del contratto. Del resto, se così
non fosse, la conseguenza, paradossale, sarebbe che il giudizio
sull’inadempimento in vista della risoluzione finirebbe per appiattirsi sul
giudizio sull’inadempimento in funzione dell’adempimento (cioè, del
‘risarcimento’ ex art.1218 cod. civ.); o, per converso, finirebbe per fluttuare in
una sorta di vuoto pneumatico, del tutto immemore della genesi ‘obbligatoria’
della vicenda.
90 Si tratta degli inadempimenti definitivi di cui parlava Giorgianni (M.
GIORGIANNI, L’inadempimento, Milano, 1975, 120 sui quali torna da ultimo G.
GRISI, Responsabilità e risoluzione del contratto, in Scritti in onore di C. Castronovo, cit.,
III, 1665 s., nel quadro di un’analisi dei rapporti tra l’art. 1218 cod. civ. e l’art.
1453 cod. civ. largamente convergente con quella sviluppato da me.
91 Angustie delle quali si fa interprete da ultimo F. PIRAINO, Il risarcimento, cit.,
555 s.
89
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dei processi fisici, dovrà per forza essere rimesso
all’apprezzamento del giudice secondo lo schema delineato dall’art.
1455 cod. civ. ma implicito anche nel riferimento al ritardo di cui
all’art. 1218 cod. civ.92.
92 Un interessante tentativo di performare legislativamente la classe degli
inadempimenti definitivi, in tal modo riducendo sia l’arbitrio del creditore, sia
la discrezionalità del giudice, può ravvisarsi nel §281 BGB – in genere addotto
come prova della generale tendenza dei sistemi giuridici più evoluti a coltivare
la fuga dal c.d. adempimento in natura – a mente del quale, al cospetto di un
inadempimento o di un adempimento inesatto, il creditore potrà chiedere il
risarcimento del danno in luogo della prestazione, purché egli abbia
preventivamente fissato un termine adeguato per l’esecuzione della prestazione
o per la sua ripetizione. È chiaro che l’onere imposto al creditore ha come
effetto quello di ritualizzare, di rendere percepibile oggi al debitore, domani al
giudice e, quindi, in ultima analisi, di oggettivizzare, l’incombente perdita di
interesse del creditore alla ricezione della prestazione (v. P. BYDLINSKI, H.P.
WESTERMANN, R. WEBER, BGB. Schuldrecht allgemeiner Teil, Karlsruhe, 2010,
158-159). Ad una logica non troppo diversa risponde, da noi, la diffida ad
adempiere (su cui v., da ultimo, C. GRANELLI, Uno strumento (di dubbia efficacia)
di risoluzione stragiudiziale: la diffida ad adempiere, in La risoluzione per inadempimento.
Poteri del giudice e poteri delle parti, Bologna, 2018, 195 s.), anche se, in quest’ultimo
caso, l’iniziativa del creditore prelude alla risoluzione del contratto e non alla
sua conservazione, sia pure per equivalente. In generale, poi, si può osservare
che gli ‘avvertimenti’ (le Mahnungen tedesche) indirizzati dal creditore alla
controparte rivestono un duplice significato: da un lato, ne testimoniano il
perdurante interesse a ricevere la prestazione; dall’altro, ne segnalano
l’incombente deficit di pazienza. Questa duplicità di significati si traduce, ‘recta
via’, in una duplicità di funzioni: per la parte in cui l’‘avvertimento’ segnala la
perduranza dell’interesse, si può dire che esso agisca da misura di coercizione
indiretta (A. DI MAJO, Le tutele contrattuali, Torino, 2009, 227 s.); per la parte in
cui l’‘avvertimento’ prelude al cambio (parziale o totale) di scena, esso agisce
da istitutore della definitività dell’inadempimento. Considerazioni analoghe
valgono per la costituzione in mora: al riguardo v. F. PIRAINO, Adempimento e
responsabilità contrattuale, Torino, 2011, 202 s. Per tornare poi al punto cui
accennavo inizialmente – ripudio del primato dell’esecuzione in natura da parte
del diritto tedesco dopo la riforma - si può richiamare l’autorevole opinione di
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
90
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Da questo discorso si possono trarre, a mio avviso, due
conclusioni. La prima è che quella del ‘primato’ dell’adempimento
in natura appare oggi una formula decisamente ridondante perché
essa, in realtà, è solo un modo un po’enfatico di evocare
l’intangibilità ab uno latere del rapporto obbligatorio. Certo, come
ho già ricordato, l’enfasi fu pienamente giustificata in un tempo in
cui la riaffermazione, sul piano del diritto sostanziale, del ‘primato’
rispondeva all’esigenza di allineare il credito alla proprietà in punto
di tutela giurisdizionale e, in specie, in punto di tutela esecutiva,
attuando così un’operazione di segno eguale e contrario a quella
agglutinata nella summa divisio sattiana. Venuta meno quell’esigenza
R. ZIMMERMANN, The New German Law of Obligations, Oxford, 2010, 43 il quale
sottolinea come, nonostante le numerose vie di fuga offerte tanto al creditore
- §§280-283 BGB – quanto al debitore §275 BGB – l’esecuzione in natura resti,
per il diritto tedesco, il principio ispiratore. E questo per una ragione molto
semplice: e cioè che mentre gli altri sono ‘rimedi’, l’esecuzione in natura è
ancora considerato un effetto parimenti naturale del contratto, secondo una
logica che da noi precipita nell’art. 1372 cod. civ. Concludo osservando che il
(presunto) appassimento del principio dell’esecuzione in natura (che, in realtà,
è solo un modo per descrivere malamente le tecniche adottate dai legislatori
continentali di maggior peso per accertare il perdurare dell’interesse del
creditore alla ricezione della prestazione, ovvero per evitare che l’attingimento
materiale dell’utilità promessa o, comunque, dovuta, comporti costi intollerabili
per il debitore e, quindi, per la collettività), trova una clamorosa smentita
nell’art.1221 nCCFr a mente del quale «“le créancier d’une obligation, apres
mise en demeure, en poursuivre l’exécution en nature sauf si cette exécution
est impossible ou s’il existe une disproportion manifeste entre son coût pour
le débiteur et son intérêt pour le créancier”». Del resto, durante tutto il XX
secolo la dottrina e la giurisprudenza francesi avevano lavorato nel senso di una
limitazione della portata applicativa del art. 1142 CCFr. (eco del ‘nemo ad factum
praecise cogi potest’) alle sole ipotesi in cui l’esecuzione forzata degli obblighi di
fare e di non fare di cui ai successivi artt. 1143 e 1144 avesse messo a
repentaglio l’integrità della sfera esistenziale del debitore (M.A. GOERG,
Exécution, cit., 90 s.).
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
91
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
e definitivamente acquisita all’ordinamento la coercibilità del
diritto di credito (basti pensare all’art. 614 – bis cod. proc. civ.), il
‘primato’ (e il dibattito intorno ad esso) perde gran parte del suo
interesse e, anzi, rischia di alimentare l’equivoco di un creditore
prigioniero della prestazione fino alla sopravvenuta impossibilità di
quest’ultima.
Si tratta di un equivoco tanto più ingiustificato - e veniamo
così alla seconda conclusione – perché, come si è visto, il raggio
d’azione dell’inadempimento ‘liberatorio’, cioè propedeutico al
‘risarcimento del danno’ di cui all’art. 1218 cod. civ. supera i confini
dell’impossibilità sopravvenuta e include gli ‘inadempimenti
definitivi’ (o qualitativi), i quali azzerano l’interesse del creditore a
riceversi la prestazione anche là dove quest’ultima, nella sua
materialità, resti ancora possibile.
Il tema del ‘primato’ dell’adempimento in natura il quale, sul
piano della storia e della cultura, intreccia quello dell’effettività
della tutela giurisdizionale con riguardo, in primo luogo, ai diritti di
credito, mi consente di accennare ad un’altra questione, in passato
molto dibattuta nella dottrina processualistica e, poi, anche
civilistica, e cioè quella della necessaria correlazione tra condanna
ed esecuzione forzata93. La sua genesi è, appunto, tutta interna
all’orizzonte del processo, dove l’idea che la sentenza di condanna
ripeta il proprio fondamento dall’attitudine a costituirsi come titolo
esecutivo incespica in quei casi nei quali la prestazione fa corpo
unico con l’utilità attribuita al creditore, ovvero, come si suole dire,
la prestazione è infungibile. Il punto è alquanto aggrovigliato
perché le sue implicazioni teoriche e (gius)politiche (in particolare
queste ultime) ne eccedono i confini epistemologici. Cosa intendo
Per un riepilogo della quale v. ora A. CHIZZINI, La tutela giurisdizionale dei
diritti. Art.2907, in Il codice civile. Commentario fondato da P. Schlesinger e diretto
da F.D. Busnelli, Milano, 2018 688 ss.
93
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dire? Ad es., che le indubbie difficoltà cui va incontro il canone
chiovendiano tutte le volte in cui prestazione e utilità si
immedesimano sono state attratte entro un ordine del discorso
dominato dall’esigenza di deprimere, anzi, di negare, la vocazione
del credito ad essere attuato in forma specifica. In altre parole, un
vincolo naturalistico (uno dei tanti nei quali si imbatte,
inevitabilmente, un costrutto – il diritto - che intrattiene con la
natura rapporti molto tormentati) è stato convertito in un vincolo
dogmatico, poi invocato a riprova della (presunta) congenita
inferiorità del credito rispetto alla proprietà.
Lo sconfinamento può assumere una seconda forma (molto
meno arbitraria, nel senso che esso si mantiene entro i limiti di una
controversialità inerente alla cosa, ma che, in pari tempo, si espone
al rischio del truismo) agglutinata attorno al carattere
necessariamente patrimoniale della prestazione (art. 1174 cod.
civ.), inossidabile garanzia dell’accesso all’esecuzione per
espropriazione e, dunque, presidio, parimenti inscalfibile, del nesso
condanna - esecuzione94. Infine, la ricaduta dell’infungibilità sul
nesso condanna – esecuzione può essere trattata alla stregua di un
problema di ordine pratico (ovvero di politica legislativa) e non
come modalità di riscrittura di quel nesso destinata a sfociare nella
selezione di una sottospecie di sentenze di condanna, che, in realtà,
non sono più sentenze di condanna ma di accertamento. È la via
chiovendiana all’effettività prima maniera95, poi tornata in auge
negli anni’70, grazie, fondamentalmente alla riflessione di Proto
Pisani96 il quale, a prescindere dalla maggiore o minore
È la prospettiva privilegiata da A. CHIZZINI, La tutela, cit., 697 s. Sulla
questione in generale v., da ultimo, T. PELLEGRINI, Interesse, cit., 173 s.
95 G. CHIOVENDA, Istituzioni, cit., 247 s.
96 A. PROTO PISANI, Appunti sulla tutela di condanna, in Riv. trim. dir. proc. civ.,
1978, 1104 s. e poi in A. PROTO PISANI, Appunti, cit., 121 s. Una notazione di
gusto eminentemente filologico: la critica che Proto Pisani sviluppa nei riguardi
94
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
93
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
condivisibilità delle soluzioni tecniche proposte (il presidio penale
dell’ordine del giudice) coglie del nesso la portata prescrittiva e non
puramente fenomenologica97, in questa operazione certo aiutato
della dottrina della correlazione necessaria (A. PROTO PISANI, Appunti, cit.,
134-136) investe chiaramente la declinazione ‘fenomenologica’ e non quella
‘prescrittiva’ di tale dottrina (sulla distinzione v. nt. successiva).
97 ‘Prescrittivo’ v. ‘fenomenologico’, qui, può essere rideclinato nei seguenti
termini. In una prospettiva di tipo chiovendiano, la circostanza che la condanna
sia la via d’accesso all’esecuzione forzata rappresenta, per così dire, la premessa
maggiore del sillogismo, sicché da allora in poi, là dove l’attingimento forzoso
dell’utilità (non ricalcolata secondo il suo valore di mercato) incespichi, come
ho già detto, nell’infungibilità, si tratterà di trovare un espediente pratico
idoneo ad aggirare l’ostacolo (cosa che, alla fine, ad es., nell’esperienza italiana
è avvenuta con l’art. 614 – bis cod. proc. civ.). Nella prospettiva
‘fenomenologica’ (per citarne solo un alfiere: Attardi, ma da ultimo, lo stesso
Chizzini), il nesso è predicabile solo se, in concreto, la condanna sia attuabile
‘manu militari’, sicché l’inciampo proposto dall’infungibilità viene aggirato, in
questo caso, o scartando sulla necessaria patrimonialità della prestazione
(garanzia della sua liquidabilità e, dunque, della sua presa per equivalente),
oppure declassando la condanna ad accertamento, dimentichi del fatto che una
mossa di questo genere avrebbe la singolare conseguenza di immutare lo stato
di cose consegnato al processo dal diritto sostanziale. Voglio dire questo: ci
sono stati di cose introdotti nel processo, l’accertamento dei quali equivale a
soddisfare il programma icasticamente delineato dall’art. 2907 cod. civ.
(accertamenti meri: artt. 949, 1079 cod. civ.; accertamenti costitutivi: artt. 2900,
2932 cod. civ.), ma si danno anche stati di cose – ad es., l’affermazione della
esistenza di un titolo attributivo di un’utilità sottratta al creditore – rispetto ai
quali l’accertamento, nelle sue due versioni, è quantomeno inadeguato. In altre
parole, a decidere della natura di un provvedimento giurisdizionale sono le
caratteristiche del rapporto sostanziale dedotto in giudizio: a nessuno verrebbe
in mente di ventilare la possibilità che la domanda di risoluzione venga accolta
da una sentenza di condanna! Il ragionamento può essere sviluppato anche a
prospettiva invertita, nel senso che una sentenza può dirsi di mero
accertamento solo là dove l’accertamento effettuato dal giudice consente al
processo di attuare la tutela giurisdizionale. Ne discende che l’idea di un mero
accertamento tale per sottrazione – ovvero, la condanna meno il nesso con
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dal disgelo costituzionale, dalla ‘scoperta’ dell’art. 24 Cost., dall’art.
18 Stat. lav.
Dei tre profili, solo il secondo e il terzo presentano ancora
interesse, risultando ormai del tutto improponibile un uso in chiave
l’esecuzione forzata – suona abbastanza bizzarra, perché, alla fine, l’unico
risultato che otterremo sarà una strana sentenza la quale accerta senza dirimere
o condanna senza surrogare. Per tornare alla distinzione tra ‘prescrittivo’ e
‘fenomenologico’, sembrerebbe che, delle due declinazioni del nesso, la prima
soggiaccia ad una forma di pensiero essenzialista, là dove predica l’immanenza
del mezzo esecutivo più appropriato al provvedimento di condanna, ovvero,
in altri termini, iscrive nello statuto logico della condanna il suo destino di titolo
esecutivo; mentre la seconda esibirebbe il volto accattivante di un approccio
pragmatico, capace di articolare la grammatica delle forme di tutela in funzione
del dato di realtà. A ben vedere, però, questo è uno di quei casi nei quali
l’ossequio alla natura, che qui si presenta nei panni dell’infungibilità, è pura e
semplice violazione della nota legge: e un infallibile indicatore del vulnus
arrecato proprio alla grammatica delle forme di tutela si ritrova nella
conversione di condanna in accertamento. Viceversa, la fedeltà chiovendiana
al nesso prescrittivamente inteso è fedeltà non ad ‘un a priori’, ma ad uno dei
costrutti fondativi dello Stato moderno, ovvero il diritto soggettivo, figura nella
quale si concentra, come in un immenso buco nero, tutta la violenza avocata a
sé dal nuovo soggetto. I suoi inciampi – si chiamino spoglio, inadempimento,
infungibilità – sono gli (apparenti) ostacoli che, temporaneamente, si
frappongono alla presa sulla realtà di un ordine che si autoconcepisce come
totale. In questo Chiovenda è un grande interprete della modernità: sicché, le
critiche rivoltegli da G. TARELLO, Quattro buoni giuristi per una cattiva azione, in
Materiali storia cult. giur., 1977, 455 s., ora in Dottrine del processo civile. Studi storici
sulla formazione del diritto processuale civile, a cura di R. Guastini e G. Rebuffa,
Bologna, 1989, 109 s., si alimenteranno certamente di buone ragioni filologiche,
ma hanno il solo, piccolo, difetto di non tenere conto della storia.
Contrapporre, al netto delle beghe accademiche e politiche raccontate da F.
CIPRIANI, Storie di processualisti e di oligarchi, Milano, 1991, Mortara (campione
del pensiero liberale) a Chiovenda (campione del pensiero statalista e
autoritario) significa, a mio sommesso avviso, trascurare che statalista e
autoritaria non era la dottrina, quanto, piuttosto, la realtà che, attraverso quella
dottrina, trovava compiuta espressione.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
interdittiva della correlazione tra condanna ed esecuzione forzata.
Prendiamo in esame, in primo luogo, la questione della
patrimonialità della prestazione. Ora, che tutti i salmi finiscano in
gloria: in altri termini, che l’‘aestimatio rei’, cioè lo spurio
‘risarcimento del danno’ di cui parla l’art. 1218 cod. civ., preservi la
vocazione esecutiva della condanna, è tanto vero quanto ovvio.
Impostato in questi termini, però, il discorso va, per così dire, oltre
se stesso, finendo per attribuire alla pecuniarizzazione dell’utile
riservato al creditore il compito di garantire la giuridicità del
vincolo. Scrive, ad es., Chizzini: «In quanto nell’ordinamento
vigente non si conoscono altri mezzi di tutela rispetto a quelli
definiti dal sistema processuale…funzionali a realizzare in via
coattiva l’obbligazione stessa, si riconosce rilevanza solo a quei
vincoli che sono riducibili a una valutazione economica, al fine di
assicurare sempre – in caso di inadempimento – quella residuale
tutela che è data dall’attuazione del processo per espropriazione…
Per il sistema sostanziale, che si struttura sull’art. 1174 cod. civ.
dovrà, allora, operare in generale la conversione nel risarcimento
del danno, data la valenza patrimoniale dell’obbligazione.
Altrimenti non c’è tutela proprio perché non c’è obbligazione
giuridicamente rilevante»98.
Tutto questo è incontrovertibilmente vero: ma, ed è questo il
punto decisivo, è vero in generale, cioè per ogni sorta di
obbligazione, e non soltanto per quelle obbligazioni che hanno ad
oggetto prestazioni infungibili; così come, del resto, il dispositivo
pseudo - risarcitorio contemplato dall’art. 1218 cod. civ. con
riguardo all’ipotesi della sopravvenuta impossibilità imputabile
trova applicazione sempre e non soltanto quando la prestazione sia
infungibile. In altre parole, la patrimonialità è sempre un requisito
performativo dell’obbligazione e non soltanto in alcuni casi
98
A. CHIZZINI, La tutela, cit., 697 - 698.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
particolari. Ne discende che far dipendere dalla sua risarcibilità la
circostanza che la prestazione ‘infungibile’ possa essere dedotta in
obbligazione risulta, sul piano interpretativo, una mossa
quantomeno ambigua, perché il ‘risarcimento del danno’ non è
pensato in funzione dell’infungibilità rivestendo, come ho già
detto, una portata generale. Tra l’altro, questo modo di
argomentare presenta, almeno ai miei occhi, un ulteriore limite
nella misura in cui sembra accreditare l’idea secondo la quale,
trattandosi di infungibilità, l’approdo alla misura sostitutiva si
consumerebbe senza transitare attraverso l’experimentum crucis
dell’impossibilità sopravvenuta: come se, cioè, nel caso in esame,
l’inadempimento desse luogo, di per sé, al prendere campo del
‘sekundär Anspruch’. Si tratta, però, di un esito non conforme al
sistema: nel senso che il sistema pone, anche qui senza distinguere
tra fungibile e infungibile, quale condizione per il ricorso
all’equivalente la circostanza che l’inadempimento (o il ritardo)
dipenda da una sopravvenuta impossibilità imputabile al debitore.
Se le cose stanno così, e ci si vuole mantenere fedeli al
sistema, senza cedere alla lusinga delle scorciatoie, è necessario
chiedersi cosa significhi ‘sopravvenuta impossibilità imputabile’
allorché la prestazione sia infungibile. Per rispondere, è necessario
tornare al punto di partenza, ossia ad un caso della vita in cui
(beninteso, mantenendosi fedeli all’idioletto del giuridico) non è
più possibile distinguere tra la sostanza e il suo predicato. Intendo
dire questo. Si prenda, ad es., l’obbligazione di consegnare gravante
sul venditore ai sensi dell’art. 1476, n. 1 cod. civ. la quale, in linea
di massima, si presta ad essere adempiuta in vari modi: trattandosi
di un quadro di medie dimensioni, il venditore potrà recapitarlo di
persona al domicilio dell’acquirente oppure potrà affidarlo ad un
corriere. Naturalmente, al variare della modalità di consegna
prescelta, varierà anche il corredo di dati empirici su cui è destinato
ad esercitarsi il giudizio di responsabilità. Così, se il venditore ha
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
97
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
optato per la prima soluzione – consegna ‘brevi manu’ – ed il quadro
è andato distrutto nell’incidente automobilistico in cui il medesimo
venditore è rimasto coinvolto durante il tragitto, si tratterà di
ricostruire la dinamica del sinistro per stabilire se egli debba o non
debba sopportare le conseguenze del perimento della cosa; se,
invece, il venditore si è affidato alla seconda soluzione – consegna
tramite corriere – nel caso del perimento della cosa, si dovrà
appurare, in primo luogo se la scelta del trasportatore aveva tenuto
conto della speciale professionalità imposta dalla delicatezza della
consegna.
Proprio la diversità fattuale dei due contesti aiuta a vedere
come, quando la prestazione sia fungibile, si registri una
divaricazione tra l’inadempimento – pura e semplice inesecuzione
della prestazione - e l’impossibilità sopravvenuta, ellissi di tutto ciò
che sta alle spalle di quel singolo, puntuale episodio. Potremmo
anche dire, avvalendoci di un paradigma descrittivamente facile,
che, nella prospettiva dell’art. 1218 cod. civ., l’inadempimento
consegue (è l’effetto) dalla impossibilità sopravvenuta (che, dunque,
dell’inadempimento, individuerebbe la causa). Chiediamoci, ora, se
questo schema elementare valga anche con riguardo alla
prestazione infungibile, riconsiderando il caso che, a occhio e
croce, sembrerebbe più approssimarsi alla grammatica primaria
dell’art. 1218 cod. civ.: quello del pianista che, alla vigilia del
concerto, si cimenti in una scalata e si fratturi il metacarpo. Se
volessimo spingere l’analogia fino in fondo, dovremmo dire che il
metacarpo sta all’adempimento dell’obbligazione scaturente dal
contratto d’opera, come il quadro sta all’adempimento
dell’obbligazione di consegnare scaturente dal contratto di
compravendita. Si tratta di una conclusione assurda, di per sé indice
della circostanza per cui, allorché la prestazione sia infungibile,
diversamente da quanto accade nel caso della prestazione fungibile,
non è dato dissociare le condizioni dell’adempimento
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dall’adempimento medesimo. In altri termini, se, in positivo,
l’infungibilità, come detto, è sinonimo della perfetta
compenetrazione di prestazione e utilità, in negativo, essa mette
capo alla piena compenetrazione di impossibilità e inadempimento,
nel senso che qui è l’inadempimento a rendere la prestazione
impossibile, e non viceversa: ovvero, per riprendere lo schema
causale proposto in precedenza, si assiste, nel caso in esame, ad un
ribaltamento dei due termini, sicché sarà l’inadempimento a
presentarsi come la causa, e non come la semplice conseguenza,
dell’impossibilità.
Tutto questo significa che, sia pure attraverso un percorso
apparentemente (chiarirò subito perché ‘apparentemente’) più
tortuoso, anche la prestazione infungibile, al pari di quella
fungibile, è, ex se, soggetta alla conversione nell’ equivalente
pecuniario del suo valore di mercato: di talché, sotto il profilo
dogmatico, l’enfasi posta sulla patrimonialità della prestazione
quale condicio sine qua non della giuridicità del vincolo può risultare
fuorviante, quasi che sull’infungibilità, a causa della nota ritrosia ad
una coercizione diretta, incombesse il fantasma della ‘naturalis
obligatio’99.
Si può aggiungere anche dell’altro (e così veniamo all’
‘apparentemente’). L’art. 1218 cod. civ., a differenza di quanto si
potrebbe credere d’acchito, è congegnato in modo alquanto
complesso, perché le tipologie di inadempimento che la norma
prevede sono tre, mentre l’impossibilità generatrice della
sostituzione per equivalente sembrerebbe individuare
(dell’inadempimento) il corollario invariabile. In realtà, ad un
esame più ravvicinato, emerge come esista una stretta correlazione
tra il modo di essere dell’inadempimento e il modo di essere
dell’impossibilità. Il caso più semplice è quello nel quale
99
V. nt. 6.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
l’inadempimento è pura inesecuzione della prestazione,
conseguente al perimento o allo smarrimento della cosa (in senso
lato: non solo il quadro dell’esempio precedente, ma anche il
pullmann con cui il tour operator avrebbe dovuto condurre i suoi
clienti in giro per la città). Già il ritardo si sottrae a quella linearità,
e ne è chiaro indizio la sua attitudine a proporsi come paradigma
degli inadempimenti qualitativi, o definitivi. Infatti, il ritardo, come
si è visto, non compromette la prestazione nella sua materialità, ma
può spezzare il nesso che la collega all’interesse del creditore.
Questo può avvenire in due modi diversi, a seconda che la ‘solutio’
promani da un’attività più o meno complessa alla quale il debitore
sovrintende e della quali, in pari tempo, è chiamato a rispondere
(ad es., trattandosi di consegnare via mare, entro una certa data,
una partita di merce, il debitore il quale si affidi, al solo scopo di
risparmiare sui costi di trasporto, ad un cargo che, per avere
imprudentemente violato le acque territoriali del paese X, viene
posto sotto sequestro per un periodo tanto lungo da consumare
l’interesse del creditore a ricevere il carico, dovrà senz’altro
rispondere della sopravvenuta impossibilità della prestazione);
ovvero che la ‘solutio’ sia nella piena disponibilità non solo giuridica
ma anche effettuale del debitore (ad es., trattandosi di consegnare
al creditore la copia di un libro, questi – il debitore – per pura
negligenza tardi sino al punto da, ancora una volta, azzerare
l’interesse della controparte alla prestazione).
Ora, in questo secondo caso, la posizione del debitore
‘fungibile’ non è molto diversa da quella del debitore ‘infungibile’
e questo perché il ritardo può rendere la prestazione impossibile
solo quando il tempo faccia corpo unico con l’utilità attesa dal
creditore: e il tempo è una variabile che solo il debitore controlla,
esattamente come la prestazione nella quale quella utilità sia
incapsulata, senza che possibile separare l’una dall’altra.
Naturalmente, per il modo (variabile) in cui il tempo si pone in
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
relazione con l’interesse del creditore, le conseguenze del ritardo
possono essere molto diverse. Ad es., il ritardo può sottrarre valore
alla prestazione ma non distruggere l’interesse del creditore alla
‘solutio’: qui siamo fuori dal novero degli inadempimenti definitivi,
sicché l’inesecuzione andrà ‘risarcita’ per equivalente solo ‘pro
quota’100; oppure, a causa del ritardo, il creditore perde interesse alla
prestazione nel suo insieme, per cui il ‘risarcimento’ coprirà per
intero il valore di quest’ultima. Viceversa, allorché l’infungibilità
copra per intero la prestazione, l’inadempimento darà ingresso alla
misura ‘risarcitoria’ nella sua interezza.
L’evenienza è meno fantasiosa di quanto si possa immaginare d’acchito.
Supponiamo che, sulla base di una serie storica consolidata, tutte le transazioni
finanziarie relative a titoli del mercato agricolo che si perfezionino tra le 10,00
e le 11,00 a.m. di dati giorni della settimana, incorporino, a Wall Street, a
Francoforte o dove si vuole, l’incremento di valore che lo strumento ha
conseguito nella precedente ora di negoziazioni. Supponiamo, altresì, che Tizio
abbia acquistato, la sera prima, da Caio titoli di quel tipo per un importo pari
ad Euro 100.000,00 sapendo che rivendendoli la mattina dopo, lucrerà
comunque una plusvalenza. Supponiamo, infine, che Caio adempia
l’obbligazione tardivamente, cioè trasferisca i titoli alle 11,00 a.m. (quando
ormai, almeno per quel giorno, la possibilità di acquisire il differenziale è
sfumata) e non alle 8,00 a.m., come pattuito. In un caso di questo genere,
l’acquirente conserva l’interesse ad acquisire i titoli, sapendo che, almeno nel
‘breve’, la serie non è destinata ad interrompersi; tuttavia, se il giorno ancora
successivo, la plusvalenza ammonterà ad Euro 8.000,00, mentre il giorno prima
ammontava ad Euro 10.000,00, Tizio potrà chiedere a Caio un ‘risarcimento’
pari ad Euro 2.000,00. Sarebbe un grave errore, a mio avviso, riportare questi
Euro 2000,00 al lucro cessante di cui all’art. 1223 cod. civ. – in altre parole, al
danno – conseguenza – perché ciò significherebbe confondere il valore di un
cespite con la sua messa a profitto. Per proseguire nell’esempio: l’acquirente
potrà chiedere anche il risarcimento (questa volta senza apici) del danno patito
per non aver potuto acquistare, smobilizzando subito tutti gli Euro 10.000,00
che avrebbe incassato se la prestazione fosse stata adempiuta puntualmente,
una rara edizione del ‘Principe’ solo per quel giorno in vendita a metà del suo
prezzo ufficiale.
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Il discorso sviluppato più sopra mostra piuttosto
chiaramente come l’infungibilità si insinui nelle pieghe della
prestazione anche quando il bene che essa è destinata a procurare
al creditore sia attingibile, riguardato nella sua morta obiettività, in
via esecutiva. Il tempo è (o può essere) parte integrante del valore
della prestazione e, per conseguenza, della idoneità di quest’ultima
a soddisfare l’interesse del creditore: la sua perdita, cioè il ritardo,
è definitiva e non rimediabile se non nelle forme del ‘risarcimento’
sostitutivo. Se rideclinato secondo la grammatica della correlazione
di condanna ed esecuzione specifica, quello che ho detto sul ritardo
mette in luce come lo scarto tra i due piani sia una costante del
rapporto tra la cognizione (il luogo del processo in cui il diritto
continua a celebrare la sua artificialità, nome, vagamente
dispregiativo con cui non di rado si ama battezzare il rapporto
tormentato che il diritto intrattiene con l’effettualità) e
l’esecuzione, dove la proporzione tra artificio ed effettuale si ribalta
a favore di quest’ultimo. Basterebbe appropriarsi davvero di questo
ordine di idee, per liquidare una volta e per sempre l’idea che le
difficoltà patite a seguito della inevitabile sua discesa agli inferi
rappresentino una buona ragione per mettere in dubbio lo statuto
di condanna del provvedimento che accoglie la domanda del
creditore. Viceversa, un approccio corretto dovrebbe assumere
l’indefettibilità dello scarto come problema da risolvere al fine di
accorciare, nei limiti del possibile, la distanza che separa la
condanna dalla misura ideale della sua effettività (l’approccio
seguito da Maestri del rango di Chiovenda e di Carnelutti),
piuttosto che fare leva su quella distanza per trasformare in mero
accertamento di un credito ciò che entra nel processo come
rivendicazione di un’utilità assegnata all’attore dal diritto
sostanziale.
Quest’ultima osservazione introduce il terzo dei tre punti
attorno al quale, come ho detto, si agglutina il nodo della
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
102
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
infungibilità, quello relativo alla c.d. esecuzione indiretta, cioè
all’adozione delle misure di coercizione della volontà del debitore
tese, nella sostanza, a rendere l’adempimento conveniente al di là
dei vantaggi connessi alla liberazione dal vincolo101. In assenza di
una norma di carattere generale102 la dottrina, almeno quella di
matrice chiovendiana, si era variamente ingegnata alla ricerca di un
modo per sopperire alla oggettiva debolezza di uno strumentario
satisfattivo tutto sbilanciato dal lato delle ragioni di tutela della
libertà del debitore (si trattasse della proposta di Proto Pisani,
F. CARNELUTTI, Processo di esecuzione, I, Padova, 1929, 7 s. aveva chiarito
come, a differenza dell’esecuzione forzata, la misura coercitiva indiretta non
mira a sostituirsi al debitore (secondo i canoni della dottrina dell’equivalenza)
ma a indurre il debitore ad eseguire spontaneamente la prestazione.
Nonostante talora la giurisprudenza mostri qualche incertezza, la misura di
esecuzione indiretta obbedisce ad una ratio del tutto eccentrica rispetto a quella
risarcitoria. V.S. MAZZAMUTO, L’esordio della comminatoria di cui all’art.614-bis
c.p.c. nella giurisprudenza di merito, in Giur.it., 2010, 637 s. e, da ultimo, nello stesso
senso, M. ZACCHEO, Le misure di esecuzione indiretta, in Processo e tecniche di
attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 75. Chiarissimo, invece, l’orientamento delle
corti francesi per le quali l’‘astreinte’ oggi disciplinata agli artt. L131-L.134
CPCE «“est una mesure de contrainte entièrement distincte des dommagesintérêts, et qui n’est en définitive qu’un moyen de vaincre la résistance opposée
à l’exécution d’une condamnation, n’a pas pour object de compenser le
dommage né du retard….”» (Cass. civ., 20 ottobre 1959, in Recueil Dalloz, 1959,
537. Per un esame aggiornato del tema v., da ultimo, M.A. GOERG, Exécution,
cit.,112 – 113.
102 Più generoso, talora, il legislatore ‘secondo’: si pensi alla ricca di messe di
tecniche di questo tipo storicamente rinvenibile in seno al diritto industriale.
Vocazione all’effettività che ora trova conferma nell’art. 9 d.lgs. 2018/63 sulla
protezione del ‘know-how’ riservato e delle informazioni commerciali riservate
(segreti commerciali) contro l’acquisizione, l’utilizzo e la divulgazione illeciti, il
quale dispone l’applicazione dell’art. 388 c.p. per il caso in cui taluno eluda
l'esecuzione di un provvedimento del giudice che prescriva misure inibitorie o
correttive a tutela dei diritti di proprietà industriale). Per non parlare, poi, dello
storico art. 18 Stat. lav.
101
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
103
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
incentrata sulla valorizzazione del dispositivo penale o di quella di
Mazzamuto il quale rinveniva un effetto compulsorio anche nella
incombenza della esecuzione per espropriazione)103. Oggi, però, a
seguito dell’entrata in vigore dell’art. 614-bis cod. proc. civ., il
quadro di riferimento ha subito una profonda trasformazione della
quale è impossibile, a mio avviso, sottovalutare la portata. Qui la
coercizione indiretta si attua per il tramite della fissazione, all’atto
della condanna e su istanza di parte, di una somma di denaro che
l’obbligato dovrà corrispondere «per ogni violazione o
inosservanza successiva, ovvero per ogni ritardo nell’esecuzione
del provvedimento». La norma, oggi, dopo la riforma del 2015,
rubricata «misure di coercizione indiretta», in origine era stata
pensata con riguardo ai soli obblighi di fare infungibili e a quelli di
non fare.
Già di per sé l’estensione della misura ad ogni tipo di
condanna, tranne quelle al pagamento di una somma di denaro,
restituisce
un’immagine
sdrammatizzata
della
coppia
fungibilità/infungibilità, ora appaiate nel comune destino di
assoggettamento a strategie di contenimento dei costi addossati
sulla collettività dal ricorso al processo esecutivo. In altri termini,
si può dire che l’oltrepassamento delle colonne d’Ercole
A ben vedere, infatti, non tanto rispetto alla violazione degli obblighi di fare
o di non fare - l’esecuzione in forma specifica dei quali finisce per avvalersi
proprio della esecuzione generica (così come la costitutività della sentenza è
posta al servizio dell’esecuzione in forma specifica dell’obbligo di concludere
un contratto: si tratta di tutte ipotesi di quella dissociazione tra tecnica e forma
di tutela illustrata a suo tempo da Di Majo (A. DI MAJO, Forme e tecniche di tutela,
in Processo e tecniche di attuazione dei diritti, cit., 11 s.) - quanto, piuttosto, rispetto
all’attuazione forzosa degli obblighi di consegna e rilascio, l’esecuzione ex art.
2740 cod. civ. esibisce un grado di non comparabile invasività che, di per sé,
dovrebbe offrire al debitore una buona ragione per presentarsi in teatro e
suonare piuttosto che vedersi pignorato l’intero patrimonio o anche solo una
parte di esso.
103
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
104
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dell’infungibilità tradizionalmente intesa (‘fare’ e ‘non fare’ non
surrogabili attraverso la tecnica della traslazione delle spese sul
debitore) sta a significare almeno due cose: 1) la realistica presa
d’atto della circostanza che tutte le prestazioni ancora possibili,
rimanendo nella disponibilità del debitore, sono ‘lato sensu’
infungibili. Questo tratto di più lasca ‘infungibilità’ si accentua, poi,
proprio in funzione dell’obiettivo giuspolitico di ridurre la massa
dei procedimenti esecutivi: obiettivo che viene perseguito,
appunto, attraverso il ricorso a misure capaci di indurre il debitore
ad un adempimento ‘spontaneo’104. In altri termini: esplicitamente
assunta entro un orizzonte sistemico che trascende, in pari tempo
conservandolo, il piano del rapporto obbligatorio puntualmente
riguardato, l’infungibilità esibisce, con ancora maggiore chiarezza,
il suo profilo chiovendiano di busillis di ordine squisitamente
pratico; 2) il dileguamento, si direbbe definitivo, della ‘vexata
quaestio’ del nesso (condanna – esecuzione forzata) in conseguenza
del fatto che il ventaglio delle opzioni ordinamentali intese a
trasferire sul piano dell’effettualità l’ordine del giudice (e, quindi, a
garantirne l’effettività), si è allargato (con la riforma del 2015) ben
oltre il limite, tradizionale, della infungibilità in senso stretto (‘fare’
e ‘non fare’ non traslabili, in termini di costi, sul debitore). Intendo
dire che in un sistema nel quale la condanna rappresenta il
presupposto per la somministrazione di misure di coercizione
Si spiega così il perché, anche dopo la riforma del 2015, le obbligazioni
aventi ad oggetto una somma di denaro sono rimaste fuori dal perimetro
dell’‘astreinte’, posto che, nell’ottica di un loro adempimento ‘spontaneo’, esse
possono già fidare sull’effetto compulsorio riconducibile alla prospettiva di
un’aggressione generalizzata al patrimonio. Nella medesima direzione indicata
dal testo mi sembra che vadano le brevi ma acute osservazioni di C. CONSOLO,
Obblighi a contrarre (e anche solo a rinegoziare): gli artt.2932,2908 e 2009 c.c. e
l’alternativa posta sall’art.614 – bis c.p.c. (ante e post riforma del 2015), in Processo e
tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 83-84.
104
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
105
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
indiretta anche quando la prestazione sia fungibile, non ha più
molto senso continuare a declinare il nesso nella chiave
fenomenologica di cui parlavo in precedenza: perché questo
equivarrebbe ad avallare un’autentica aporia a causa della quale, pur
in presenza di effetti omogenei, la medesima parola finirebbe per
designare oggetti diversi, e, cioè, una volta, una condanna verace e,
un’altra volta, una condanna che maschera un mero accertamento.
12. A conclusione del mio discorso, vorrei accennare, ad un
altro tema classico, quello del rapporto tra diritto soggettivo e
azione o, se si preferisce la formula oggi corrente, quello della
concezione ‘astratta’ o ‘concreta’ dell’azione105. Da tempo, ormai, il
dibattito – incandescente dalla seconda metà dell’Ottocento fino,
e oltre, la seconda metà del Novecento - è sopito, all’insegna della
netta prevalenza dell’‘astrazione’. Secondo questo modo di vedere,
l’azione sarebbe un potere del tutto autonomo dal diritto
soggettivo dedotto in giudizio, inteso ad ottenere dal giudice non
un provvedimento «favorevole» (come voleva Chiovenda), ma un
provvedimento tout court. Questa idea dell’azione – cui, appunto,
viene contrapposta quella detta dell’azione ‘in concreto’, per la
quale l’azione medesima si identificherebbe o, almeno,
conserverebbe un legame, con la originaria posizione di vantaggio
– intrattiene un chiaro rapporto genealogico con la costruzione
chiovendiana dell’azione come diritto soggettivo (potestativo) di
natura processuale, distinto dal diritto soggettivo sostanziale,
sebbene posto al servizio di quest’ultimo Se ne distacca, però, là
dove, appunto, essa ritiene di ritrovare la ragion d’essere dell’azione
105
Per una sintesi rinvio di nuovo a A. CHIZZINI, La tutela, cit., 140 s.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
106
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
non nella tutela dell’interesse protetto ex ante dalla legge, ma nel
puro e semplice potere di eccitare l’esercizio della giurisdizione106.
Questo modo di presentare le cose è inattaccabile, perché, in
effetti, una volta investito, il giudice deve pronunziarsi, sia pure
attraverso una sentenza di puro rito che, per es., si limiti ad
accertare l’insussistenza delle condizioni dell’azione. Però, non
vedo in che modo la rilevazione di questo fatto possa risultare
decisivo ai fini di un corretto inquadramento del rapporto tra
diritto soggettivo e azione. Supponiamo che al conservatore dei
registri immobiliari venga presentata domanda per la trascrizione
di un atto di acquisto immobiliare che non sia in possesso dei
requisiti richiesti dalla legge ai fini del rilascio della nota di
trascrizione: in un caso siffatto il conservatore potrà, anzi dovrà,
ricusare di riceversi la nota (art. 2674, commi 1 e 2 cod. civ.)107 in
tal modo precludendo al richiedente l’accesso ai registri e, quindi,
ai vantaggi assicurati della pubblicità.
Ora, seguendo la logica dell’azione in astratto, dovremmo
immaginare un diritto strumentale ad investire l’apparato statale, e
istituito allo scopo di tutelare il diritto di proprietà sotto la specie
della certezza giuridica somministrata in una forma diversa da
quella del giudicato108, del tutto autonomo rispetto alla posizione
sostanziale destinata a beneficiare della trascrizione. L’analogia
Per citare solo alcuni degli esponenti più autorevoli dell’indirizzo in esame:
A. ROCCO, La sentenza, cit., 78 s.; E.T. LIEBMAN, L’azione nella teoria del processo
civile, in Problemi del processo civile, Napoli, 1962, 43 s. (Liebman è l’Autore a cui
si deve la formulazione più compiuta della dottrina); E. ALLORIO,
L’ordinamento, cit., 32 s.; G.A. MICHELI, Giurisdizione e azione. Premesse critiche
allo studio dell’azione nel processo civile, in Scritti giuridici in memoria di P. Calamandrei,
Padova, 1958, 498 s.
107 G. GABRIELLI, Idoneità dei titoli ai fini della pubblicità immobiliare, in Riv. dir. civ.,
I, 1996, 153 s.
108 F. CARNELUTTI, Tutela dei diritti, in Riv. dir. proc., 1943, 13.
106
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
107
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
potrebbe apparire forzata nella misura in cui il controllo del
conservatore è circoscritto ai soli profili formali dell’atto
trascrivendo, sicché, a differenza di quello che accade con l’azione,
l’autonomia della quale si spinge sino a sopportare il peso di un
rigetto della domanda nel merito, qui sembrerebbe che, in ogni
caso, l’effetto amministrato dalla regola sostanziale si sia
perfezionato. Questo è vero fino ad un certo punto. Intanto, come
è noto, ai sensi dell’art. 2674-bis cod. civ., allorché «emergano gravi
e fondati dubbi sulla trascrivibilità di un atto o sulla iscrivibilità di
un’ipoteca, il conservatore, su istanza della parte richiedente,
esegue la formalità con riserva»109. Si apre, così, in seno alla
procedura di trascrizione/iscrizione, un vero e proprio incidente,
introdotto dal reclamo di cui al comma 2 dello stesso art. 2674-bis
e disciplinato dall’art. 113 – ter disp. att., all’esito del quale
potrebbero risultare travolti non solo gli effetti sostanziali dell’atto,
ma anche i suoi aspetti qualificanti (in caso di rigetto o mancata
proposizione del reclamo: art. 113 – ter ultimo comma)110. In
secondo luogo, si pensi a tutte le ipotesi di nullità ‘edilizie’ nelle
quali l’irricevibilità dell’atto per inosservanza dell’art. 2657 cod. civ.
si sovrappone al vizio documentale dell’atto medesimo
erroneamente rogato dal notaio111. In entrambe queste ipotesi lo
109 Quanto alla latitudine dei poteri di controllo riservati al conservatore e al
correlativo potere di rifiutare la trascrizione, ovvero di procedere con riserva v.
G.P. FREZZA, Annotazioni. Cancellazioni. Titolo e nota di trascrizione. Formalità e
procedimento. Artt.2654-2682, in Il codice civile. Commentario fondato da P.
Schlesinger e proseguito da F.D. BUSNELLI, Milano, 2017, 445 s., G. OBERTO,
Rifiuto di trascrizione e trascrizione con riserva nel sistema della l.27 febbraio 1985, n.52,
in Riv. dir. civ., 1990, I, 258 s.
110 P. ZANELLI, M. D’ORAZI FLAVONI, L. FERRI, Trascrizione. Artt. 2643-2696,
in Comm. c.c. Scialoja-Branca, diretto da F. Galgano, Roma, Bologna, 1995, 468469.
111 Mi riferisco all’art.30, comma 2 d.P.R. n. 380/2001 che espressamente
preclude la trascrizione per gli atti tra vivi aventi ad oggetto il trasferimento (o
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
108
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
schermo rappresentato dal controllo di mera legalità si rivela un po’
una foglia di fico, perché, in realtà, la procedura ben potrebbe
essere stata avviata pur in difetto del diritto soggettivo tutelando,
esattamente come quando il giudizio si concluda con una
pronunzia negativa nel merito.
Insomma, tanto il ricorso alla giurisdizione, quanto quello alla
trascrizione, possono prescindere dalla effettiva titolarità del diritto
tutelando, nel senso che, come si è detto, i due apparati pubblici
deputati alla somministrazione delle due diverse forme di certezza
giuridica vengono messi in movimento anche da domande
provenienti da chi non ha titolo per accedere alla tutela. Posto che
tutto questo è assolutamente inoppugnabile, ci si dovrebbe però
chiedere se davvero tra il ‘diritto civico’112 che spetta ad ogni
cittadino di interpellare la giurisdizione, costringendo il giudice a
chiudere con una decisione, di rito o di merito, il processo istaurato
attraverso la proposizione della domanda, e l’azione, come potere
di ottenere tutela per il diritto soggettivo di cui si è titolari,
intercorra il rapporto di immedesimazione predicato dalla teorica
‘astratta’. Ora, questo modo di impostare il ragionamento presenta,
a mio avviso, un vero e proprio buco nel tessuto connettivo del
discorso che, tradizionalmente, lo sorregge: un buco riconducibile,
in primo luogo, ad una mistione di piani che, viceversa, andrebbero
tenuti distinti. Come si evince agevolmente dalla lettera dell’art.
la costituzione o lo scioglimento della comunione) di diritti reali relativi a
terreni qualora al titolo non sia allegato il certificato contenente le prescrizioni
urbanistiche relative all’area interessata. La disposizione appena richiamata
riveste un particolare significato anche in relazione alla possibilità di ‘sanare’
successivamente la carenza di allegazione del certificato di destinazione
urbanistica (comma 4 - bis).
112 L. MONTESANO, La tutela, cit., 87 s. Formule equivalenti a quella del diritto
civico (potere civico, diritto pubblico soggettivo ecc.) sono ricorrenti tra tutti
gli autori che aderiscono alla dottrina oggi dominante.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
109
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
2907 cod. civ., la tutela giurisdizionale per ottenere la quale il ‘civis’
deve (stante il divieto della ragion fattasi) rivolgersi all’autorità
giudiziaria ha per oggetto i diritti soggettivi: in altre parole, il
fondamento stesso, politico-istituzionale, dell’autorità giudiziaria,
risiede, almeno per quanto riguarda questo comparto del sistema
giuridico, nella tutela dei diritti soggettivi. Orbene, se l’autorità
giudiziaria è lì, con tutto il suo corredo di procedure, uomini,
edifici, macchinari, risorse, anche finanziarie, per tutelare i diritti
soggettivi, sarebbe veramente bizzarro abbracciare una prospettiva
per la quale, viceversa, l’autorità giudiziaria è lì per vagliare le
istanze che il ‘quisque de populo’, più o meno a suo piacimento,
azionando il famoso diritto civico, riterrà di sottoporle. Certo,
questo è quello che accade: ci si deve chiedere, però, in che
rapporto stia l’accesso alla giurisdizione attraverso il medio
dell’esercizio del diritto civico e l’accesso alla giurisdizione nelle
forme dell’esercizio dell’azione (un quesito, ricordiamolo, che se ci
si colloca dal punto di vista ‘astratto’ non ha motivo di porsi,
perché i due piani, appunto, si sovrappongono fino a identificarsi).
Un buon punto di avvio per rispondere alla domanda è
rappresentato dalla regola sulla capacità d’agire, per cui, come è
noto, tutti gli atti giuridici compiuti da chi è munito del requisito di
cui all’art. 2 cod. civ. reclamano di essere vagliati dalla legge: essi
cioè, attingono, già solo per il loro manifestarsi, la soglia della
rilevanza. Quest’ultima, a seconda dei casi, può preludere alla
definitiva consacrazione statuale (validità e poi efficacia); ovvero
può subire un drastico ridimensionamento ad opera del giudizio di
invalidità (nelle due forme della nullità e dell’annullabilità), preludio
della parimenti definitiva inefficacia dell’atto, indice, a sua volta,
del legame solo estrinseco che l’atto medesimo può vantare con un
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
110
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
esercizio autentico della libertà negoziale113. In altri termini, la
capacità d’agire individua il generico presupposto richiesto
dall’ordinamento per la partecipazione del singolo al traffico
giuridico ma, lungo la strada che conduce alla stipulazione di un
atto valido, si ritrovano ulteriori e più specifiche condizioni in
difetto delle quali lo sbocco sarà inevitabilmente negativo.
Si potrebbe obiettare che anche l’atto compiuto dall’incapace d’agire
guadagna subito la soglia della rilevanza giuridica, risultando, però, fin dal suo
venire in essere molto più esposto alla retrocessione che non alla evoluzione
positiva cui sono destinati i negozi immuni da vizi, posto che qui il giudizio
invalidità si risolve in un accertamento pressoché solo burocratico (infatti,
siamo ai limiti della volontaria giurisdizione) del difetto del requisito di validità.
D’altra parte, questo controllo postumo ed eventuale in ordine alla sussistenza
della capacità d’agire è solo l’ovvio riflesso del modo in cui opera il dispositivo
che presiede al riconoscimento della capacità d’agire medesima, imperniato su
un automatismo generalizzato. L’altra obiezione, di carattere più generale, che
si potrebbe muovere è che quando la rilevanza ha in grembo l’annullabilità, il
destino dell’atto può essere mutato attraverso il ricorso alla convalida (art. 1444
cod. civ.). Tuttavia, bisogna chiedersi su cosa verta la convalida, ossia se la
convalida, la quale è certamente un atto di autonomia privata (art. 1444, comma
3 cod. civ.), verta su un atto di autonomia privata, o se, come a me sembra più
plausibile, verta su un segmento di esistente deforme (agli occhi della legge)
molto più prossimo, per questa ragione, al magma sul quale si esercitano,
ordinariamente, i poteri ordinatori delle parti che non ad una fattispecie
compiuta ma bisognosa di un’ultima integrazione per raggiungere lo stato di
perfezione (si pensi, ad es., al caso del c.d. preliminare improprio). La differenza
consiste in questo: che, mentre nel caso della convalida (e, in una certa misura,
anche della conversione) ciò che viene recuperato è un fatto al quadrato, ossia
una transazione sociale solo abbozzata e destinata, in linea di massima, ad
essere risospinta prima verso l’inefficacia e poi verso l’irrilevanza, nel caso del
‘compromesso’, viceversa, non è questione di riutilizzo di materiale grezzo ma,
appunto, di perfezionamento di un processo avviato correttamente ma non
completato. In altre parole, nel primo caso la vicenda ha un andamento
verticale, nel secondo orizzontale.
113
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
111
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
Naturalmente, un ragionamento di questo tipo implica il
rigetto di una concezione giusnaturalistica o, comunque, originaria,
del potere di autonomia privata, nel senso che il potere esercitato
dai privati non individua un ‘prius’ rispetto all’insieme delle regole
che, volta per volta, presiedono alla somministrazione della validità
perché quelle regole, in realtà, sono esse stesse costitutive di quel
potere. L’idea di un potere ‘anteriore’ alle condizioni di un suo utile
esercizio può applicarsi in modo coerente alla sfera pubblica dove,
in effetti, le attribuzioni di cui sono titolari i singoli uffici rivestono
un carattere di originarietà che discende dalla loro diretta
emanazione dalla legge: qui, pertanto, si tratterà di stabilire se il
potere di cui l’ufficio è investito in ragione della sua stessa
istituzione sia stato dispiegato in modo conforme ai fini in vista dei
quali l’investitura ha avuto luogo. Lo schema, però, non trova
applicazione alla sfera privata la quale, proprio perché esterna a
quella statuale, può dialogare con quest’ultima soltanto sulla base
di un algoritmo integralmente fissato dalla legge. Insomma, la
stipulazione di una compravendita immobiliare priva del requisito
della forma scritta è una vicenda che non si lascia descrivere nei
termini di un potere giuridico spettante al privato ‘ab origine’ (non è
neppure del tutto chiaro in quale ipotetico luogo – reale o mentale
– questa misteriosa ‘origine’ si collocherebbe) il quale, nonostante
la sua intrinseca e primitiva giuridicità, andrebbe incontro ad una
sconfitta a causa del suo esercizio difforme, quanto, piuttosto, nei
termini di un conato sociale destinato, dopo un inevitabile (per le
ragioni che si sono viste prima) e larvale passaggio attraverso la
giuridicità, ad essere respinto lontano dall’approdo dell’art. 1372,
comma 1 cod. civ. proprio perché incapace di farsi potere giuridico
e, in quanto tale, decifrabile dalla legge.
Del resto, una riprova della plausibilità di questa linea di
discorso ce la offre il caso in cui la piena inoperosità giuridica
dell’atto dipenda dalla carenza, in capo al privato, di un potere, per
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
112
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
così dire, di secondo grado quale è, ad es., il potere di disposizione.
Parlo di un potere di secondo grado perché, a differenza di quanto
accade allorché a venire in considerazione sia l’esercizio ‘in
purezza’ del potere di autonomia (si pensi alla stipula di un
contratto di mandato da parte del mandatario), il potere di
disposizione rinvia ad una pregressa vicenda traslativa e/o
acquisitiva (a titolo derivativo o a titolo originario: artt. 832 e 922
cod. civ.) e può, a sua volta, innestarsi su una sequenza negoziale
presidiata da un potere giuridico. È il caso classico, attorno al quale
tanto ci si è affaticati, di una compravendita immobiliare che
presenti tutti i crismi di validità ma che sia stata conclusa da chi
non era legittimato a disporre del bene. Qui è stato esercitato un
potere giuridico ‘pieno’ (donde la validità dell’atto), la cui efficacia,
tuttavia, viene inibita, appunto, dall’insussistenza in capo allo
pseudo-alienante del potere di disposizione di cui parla l’art. 832
cod. civ.114.
Supponiamo di voler trasferire lo schema ora delineato, cui
dobbiamo il rivelamento della insopprimibile (anche se non
sempre duratura) vitalità delle manifestazioni dell’autonomia
privata – vitalità che, come si è detto, trova la sua scaturigine prima
nella regola di cui all’art. 2 cod. civ. – all’azione: quest’ultima,
nonostante sia molto più rumorosa di un comune negozio
giuridico, già solo perché implica un impegno fisico
114 Come è noto, l’alienazione ‘a non domino’, impotente a produrre gli effetti
propri di un atto traslativo compiuto, viene riciclata e inclusa in una più ampia
fattispecie di acquisto del diritto a titolo originario (artt. 1153 e 1158 cod. civ.).
Si tratta di fenomeni (analoghi, sotto questo riguardo, a quelli che si attuano
per il tramite della conversione o della convalida) di ripeschaggio di materia
deforme, in linea con il principio di economia dei mezzi giuridici, qui rafforzato
o, addirittura, motivato da specifiche esigenze di tutela dell’affidamento
dell’‘accipiens’ o di valorizzazione della continuità nell’uso della cosa da parte del
possessore.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
113
L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
dell’ordinamento115, rimane pur sempre, almeno per il modo in cui
io vedo le cose, un atto di autonomia privata, nel senso in cui lo è
l’esercizio del potere di disposizione ex art. 832 cod. civ.116 Ciò
significa che, esattamente come nelle ipotesi nelle quali la posta in
gioco sia la validità, anche nel caso dell’azione, dove la posta in
gioco è la tutela (giurisdizionale)117, è necessario che tra la capacità
d’agire e il conseguimento dell’effetto utile (cioè, appunto, la
somministrazione della tutela) trovi spazio un tassello intermedio
rappresentato, nella specie, dalla titolarità di un potere giuridico
dalla legge ‘ex ante’ attribuito al soggetto sotto forma di diritto
soggettivo. E, ancora una volta, esattamente come nelle ipotesi
nelle quali la posta in gioco sia la validità, anche qui l’assenza, in
capo all’attore, della titolarità del potere giuridico richiesto per il
conseguimento del risultato in vista del quale si agisce, non sarà, di
tutto principio, d’ostacolo al prendere forma di un singulto di
Quello che voglio dire è che mentre la somministrazione della validità è pura
immaterialità, la somministrazione della tutela segna la rivincita della
corporeità: la ricerca dell’avvocato, il cliente trepidante che si reca allo studio
del suo patrono, la cauta prognosi sull’esito della causa, il versamento
dell’acconto, la fissazione dell’udienza e, finalmente, la legge che parla
attraverso il suo ventriloquo, il giudice in carne e ossa.
116 Come scrive W. HENCKEL, Prozessrecht und materielles Recht, Gōttingen, 1970
«“Wir sehen also den Prozess als ein Verfahren zur Ausübung subjektiver
Privatrechte und privatrechtlicher Interessen vor dem Gericht und mit Hilfe
des Gerichts und dementsprechend das Prozessrecht als Ordnung und
Schranke dieser Rechtausübung. Der Prozess dient also dem Zweck einer
qualifizierten Rechtsausübung”» («dobbiamo ravvisare nel processo il
procedimento per l’esercizio di un diritto soggettivo privato o di un interesse
giuridicamente protetto, da svolgersi davanti al giudice e con l’ausilio del
giudice, e corrispondentemente a ciò, il processo ci appare come ordinamento
e limite dell’esercizio del diritto. Il processo, dunque, ha come scopo quello di
assicurare un esercizio qualificato del diritto»).
117 Sul nesso che, organicamente, lega validità e tutela (giurisdizionale) mi sono
intrattenuto in L. NIVARRA, La tutela, cit., 7 s.
115
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
vitalità giuridica, sotto la specie di un giudizio la cui ragion d’essere,
a quel punto, si esaurirà, però, nell’accertamento della insussistenza
dello stato di cose fatto valere originariamente118.
Del resto, questa linea di ragionamento è anche quella che
meglio si accomoda al disposto, di per sé chiarissimo, dell’art. 2907
cod. civ. per il quale, molto semplicemente, l’autorità giudiziaria
provvede alla tutela giurisdizionale dei diritti: con la conseguenza
per cui, quando l’autorità giudiziaria provvede sebbene il processo
sia stato istaurato da chi non è titolare del diritto, ci troviamo in
presenza di una vicenda che può spiegarsi nei termini che ho
Come ho già osservato (v. nt.115) il fallimento in punto di tutela
giurisdizionale è molto più fragoroso di quanto non lo sia il fallimento in punto
di validità, perché la somministrazione di quest’ultima si consuma all’interno di
uno spazio ideale (condensato nella formula dell’art. 1372, comma 1 cod. civ.:
«il contratto ha forza di legge tra le parti»), mentre la somministrazione della
tutela avviene in un contesto decisamente più ibrido, scandito da una
successione di atti, posti in essere dalle parti e dal giudice, ciascuno dei quali
presuppone un’autonoma manifestazione di volontà e, quindi, un alternarsi di
corporeo e di immateriale che, appunto, fa del giudizio un procedimento.
Tuttavia, in entrambi i casi, il fallimento si accompagna comunque, ad
un’attività ordinamentale: si tratti del movimento, tutto ideale, che, prendendo
le mosse dalla ‘rilevanza’ dell’atto, si svolge tra i due estremi dell’acquisizione
della validità o del verdetto di invalidità/inefficacia (a partire dal quale vengono,
ove possibile, avviate le operazioni di recupero di cui ho parlato, appena più
sopra, nel testo); ovvero, si tratti di un intero processo il quale culminerà
nell’accertamento della insussistenza del potere giuridico abusivamente
invocato per interpellare la giurisdizione. Dandosi questa ultima scena, il
giudicato risulterà un sottoprodotto della nomodinamica (il prodotto di prima
qualità è il giudicato che accerta il diritto soggettivo introdotto nel giudizio) il
quale, però, meccanicamente ossequioso della tendenza, immanente al sistema,
a recuperare gli scarti, serve, comunque, ad irrobustirne (del sistema medesimo)
la tenuta sotto il profilo della certezza. In un ordine di idee non troppo distante,
mi sembra, da quello qui proposto si muove T. CARNACINI, Tutela giurisdizionale
e tecnica del processo, in Studi in onore di E. Redenti nel XL anno del suo insegnamento,
II, Milano, 1951, 742 s.
118
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
provato ad illustrare più sopra ma che, non può essere ricondotta
entro l’alveo della tutela giurisdizionale dei diritti, se non al prezzo
di una grave forzatura. Sotto questo profilo, infatti, la teorica
dell’azione ‘in astratto’, nel registrare l’attività che il giudice, in ogni
caso, è chiamato a svolgere una volta che la parte abbia presentato
la sua domanda, incorre in un equivoco perché dissocia ciò che,
proprio sul piano della grammatica istituzionale, non può essere
dissociato: ovvero, l’azione dalla tutela giurisdizionale del diritto
soggettivo. In altri termini, a me sembra molto difficile accettare
l’idea che l’azione recida ogni legame con il diritto soggettivo e
prenda a fluttuare in una sorta di vuoto, il singolo, concreto
processo, soltanto all’esito del quale sarà dato di sapere se essa era
stata esercitata in funzione della tutela, ovvero in funzione di un
dispiegamento della giurisdizione che, con la tutela, non intrattiene
alcun rapporto.
Certo, l’idea che l’azione fosse cosa diversa dal diritto
soggettivo rappresenta il cuore della proposta teorica di
Chiovenda, per il quale, tuttavia, l’azione individuava pur sempre
un potere (un diritto potestativo) attribuito dalla legge in vista della
tutela di un diritto soggettivo (teorica dell’azione ‘moderatamente
in concreto’). Il retroterra politico – culturale dell’autonomia
predicata da Chiovenda è ben noto: si trattava di assicurare un
solido fondamento alla ‘diversità’ del processo civile (e della sua
‘scienza’, destinata, ormai, ad essere nomata ‘diritto processuale
civile’) rispetto all’imponente blocco delle regole che il diritto della
modernità (ovvero, i codici civili) avevano destinato alla disciplina
dell’autonomia privata. Qui si istaura un singolarissimo corto
circuito, sul quale ho detto qualcosa in precedenza119, ma sul quale
bisognerebbe indagare con ben altra acribia, tra il römisches (già
V. § 9. Di «corto circuito fra antico e moderno» parla A. SCHIAVONE, Alle
origini, cit., 63.
119
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
filtrato dalla tradizione romanistica) e lo heutiges Recht: cioè, tra un
mondo dove, almeno per molto tempo, la pretesa di una disciplina
coercitiva della vita sociale come forma di vita
programmaticamente separata dal suo oggetto si presenta ancora
allo stato magmatico, e un mondo dove, viceversa, la separatezza
del ‘giuridico’ è parte integrante di un progetto di governo
‘verticale’ del mondo e di riduzione a sé della realtà sociale. Sotto
questo profilo, pertanto, l’autonomia ‘debole’ dell’azione
propugnata da Chiovenda, pur rivestendo il grande significato che
sul piano della storia delle idee le viene generalmente, e
giustamente, riconosciuto, appare minata da una interna
contraddizione: perché, in effetti, o si recide del tutto il legame con
il diritto soggettivo, finendo, però, per fare dell’azione un potere
dai contorni alquanto vaghi, la cui (autistica) ragion d’essere si
esaurisce nello stimolo impresso alla giurisdizione; oppure, la si
riconduce al diritto soggettivo, secondo una logica che non è quella
(assurda) del primato della sostanza sulla procedura (uno dei
giganteschi equivoci in cui è incorso un pensiero giuridico spesso
inconsapevole del radicale riduzionismo che contraddistingue il
diritto della modernità), quanto, piuttosto, quella che governa il
binomio validità – tutela, ovvero una logica unica (neppure
soltanto unitaria), puro e semplice rispecchiamento della
incontenibile forza performativa della legge.
Se si accoglie questa prospettiva, e si desoggettivizza, per così
dire, il diritto soggettivo, il riconducimento dell’azione al diritto
soggettivo non avrà luogo all’insegna del primato di quest’ultimo
(prima il diritto soggettivo, poi l’azione, alla maniera di Savigny, per
il quale quest’ultima era il modo di atteggiarsi dell’uno quando,
consumatasi la violazione, spettasse all’altra irrompere sulla scena.),
quanto, piuttosto, all’insegna di una visione unitaria dove il campo
della validità e il campo della tutela (giurisdizionale) designano una
costellazione di effetti traducibili in una gamma di poteri tutti
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
funzionali a garantire, a chi ne è titolare, l’esclusiva intorno a un
bene della vita, ad una utilità. In altri termini, validità e tutela, diritto
soggettivo e azione sono nomi che impieghiamo per descrivere, da
angolature diverse, il fenomeno riassunto dall’art. 1372, comma 1
cod. civ. e che può, a seconda delle contingenze cui quell’utilità è
esposta, assumere configurazioni diverse. Così, ad es., la giuridicità
del potere attribuito al riservatario del bene, a seconda dei casi,
prenderà le forme della irretrattabilità della prestazione eseguita dal
debitore, della efficacia dell’atto di disposizione, della trascrizione
dell’atto medesimo e, infine, dell’accoglimento, da parte del
giudice, della domanda attraverso la proposizione della quale
l’attore ha inteso avvalersi cogliere l’opportunità offertagli dall’art.
2907 cod. civ.120.
Per quanto assoggettata a critiche acuminate, la tesi di Ross (A. ROSS, TûTû, in Harvard Law Review, 70 (1957; 5 s.; trad. it., in Diritto e analisi del linguaggio,
a cura di U. Scarpelli, Milano, 1976, 165 s.), per la quale il diritto soggettivo è
un classico caso di concetto intermediario, deputato fondamentalmente a
descrivere e riassumere il nesso che collega il titolo ai suoi effetti, mi pare che
conservi una sua indiscussa vitalità teorica. Più in generale, il movimento di
pensiero che, articolatissimo al suo interno (da Kelsen a Hohfeld alla teoria
analitica del diritto nelle sue varie espressioni), ha contribuito in maniera
decisiva alla desostanzializzazione (ovvero, alla loro riduzione a fenomeni
puramente linguistici) di alcuni concetti giuridici fondamentali, tra i quali quello
di diritto soggettivo, individua un punto di non ritorno teorico. Beninteso, la
linguisticità di questi costrutti non è sinonimo di irrealtà (come alcune tendenze
estreme, animate dal desiderio di ridurre ogni cosa a linguaggio cosale,
vorrebbero lasciar intendere) perché, anzi, il loro impiego sistematico (nel
duplice senso di sistematico: - 1) sistematico, nel senso, banale, di frequente; 2)
sistematico, nel senso, meno banale, di ordinatorio e semplificatorio – una
mnemotecnica, si potrebbe dire – di insiemi di norme (alludo ai codici,
ovviamente), molto estesi, abbastanza eterogenei dal punto di vista delle
materie regolate ma, in pari tempo, caratterizzati da una pretesa, costitutiva
della loro stessa identità, di completezza e di autosufficienza) - è il segno
inconfondibile della effettualità di un ordine giuridico così tanto proteso verso
120
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
È del tutto ovvio, pertanto, che, per il modo in cui è
congegnata la tutela e, ancor più, per lo scopo che l’ordinamento
le assegna, la domanda medesima debba indicare il diritto dedotto
in giudizio e gli elementi di fatto e di diritto costituenti le ragioni
poste a fondamento dell’iniziativa dell’attore (artt. 99,100, 163, n.
4 cod. proc. civ.). Infatti, solo sulla base della allegazione e, poi, se
del caso, della prova di queste circostanze, il titolare del diritto
potrà ottenere dal giudice il provvedimento che concretizza la
tutela. Il fatto che chi esercita il potere debba esibire i suoi quarti
di nobiltà dipende solo dalla fisicità del giudizio (come anche della
trascrizione), affidato ad un funzionario pubblico in carne ed ossa
sul quale grava l’onere di fermare le macchine quando si accorga
che le condizioni del processo non siano state soddisfatte121.
Particolare rilievo riveste, in una simile prospettiva, la norma
sull’interesse ad agire: qui il legame (che poi, è, nella sostanza,
sovrapposizione) tra diritto soggettivo e azione emerge, a mio
avviso, con particolare chiarezza là dove l’interesse di cui parla l’art.
100 cod. proc. civ. può rettamente intendersi solo se riferito all’art.
1174 cod. civ. L’opinione contraria, sostenuta da dottrina
il dominio sul mondo da riscrivere una sintassi del reale a proprio uso e
consumo. Per alcune considerazioni al riguardo mi permetto di rinviare a L.
NIVARRA, Le parole del diritto: finzioni, in Europa e dir. priv., 2005, 389 s. Rinvio
anche a G. TERRANOVA, Diritti soggettivi senza sovranità (a proposito di bail-in cramdown e altro), in Processo e tecniche di attuazione dei diritti. Omaggio, cit., 103 s. dove,
sebbene la tessitura del discorso non sia perfettamente sovrapponibile a quella
proposta qui, la distinzione tra ‘grappoli’ (titolarità) e ‘racimoli’ (legittimazione)
mi sembra presentare una qualche non secondaria assonanza con il
ragionamento sviluppato nel testo.
121 V. nt. 118. Peraltro, sia pure in casi eccezionali, può accadere che il potere
giuridico attribuito al titolare dell’esclusiva sul bene debba rispondere di se
stesso anche quando si muove all’interno del circuito – puramente formale –
della validità: si pensi al disposto dell’art. 1392 cod. civ. sulla giustificazione dei
poteri del rappresentante.
Teoria e Storia del Diritto Privato – XII – 2019
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
autorevolissima122, si fonda solo sull’assunto della pretesa
autonomia/astrattezza dell’azione123 e incappa, quindi, in un chiaro
V., tra gli altri, E. BETTI, Struttura, cit., 123 – 124.
L’argomento correlato, rintracciabile anche in Chiovenda (G. CHIOVENDA,
Principi, cit., 46 s.) è quello per cui l’azione è soggetta ad una legge regolatrice
diversa da quella alla quale è sottoposto il diritto soggettivo (E. BETTI, Struttura,
cit., 123). Se devo essere sincero, non capisco che cosa questo esattamente
significhi, ovvero che peso possa avere questa circostanza nell’ottica di una
Trennung, più o meno marcata, tra diritto soggettivo e azione. I poteri di cui
diritto soggettivo e azione sono ellissi si esercitano nei contesti più diversi; ad
es., se devi trascrivere, ti imbatti nelle regole sulla trascrizione, quindi, a seguire
quella logica, esisterebbe un potere di chiedere la trascrizione distinto dal
potere giuridico di trascrivere, così come, appunto, esisterebbe un potere
giuridico (l’azione) di chiedere al giudice un provvedimento, piuttosto che
chiedere al giudice di tutelare il tuo interesse. Sarebbe sufficiente entrare
nell’ordine di idee che diritto soggettivo e azione non sono che il modo in cui
chiamiamo l’insieme delle regole statuali che istituiscono e governano
l’esercizio di un potere giuridico. Come scrive S. SATTA, Interesse ad agire e
legittimazione, in Foro. it., 1954, IV, 171 «…l’interesse tutelato al godimento di un
bene…può concretarsi nell’interesse al regolamento dei confini, o nell’interesse al recupero del
bene, o nell’interesse all’accertamento, quando sorgano i fatti corrispondenti, previsti dalla
legge. Ma tutti questi interessi non sono altra cosa, interessi diversi dall’interesse al godimento
(concepito come diritto), sono lo stesso interesse che assume un contenuto in relazione alla
situazione di fatto e che legittimamente possiamo concepire e qualificare come diritto. Questo
interesse è quello che si fa valere in giudizio, mediante l’azione, perché esso trova la sua tutela
concreta nella sentenza favorevole del giudice, e l’azione è appunto postulazione di giudizio
favorevole». Poi Satta, come può capitare ai grandi pensatori, va un po’oltre e si
fa prendere la mano dalla mistica del ‘concreto’ (si v. l’ultimo capoverso, 178)
la quale provvede a cancellare dal mondo quello che i comuni mortali chiamano
‘diritto sostanziale’. Ciò non toglie che Satta veda giusto e che, sotto questo
profilo, non colga nel segno la replica di E. GARBAGNATI, Azione, cit., 73 s. il
quale, a sostegno della autonomia dell’interesse ad agire rispetto all’interesse
protetto dalla norma sostanziale, per un verso, adduce l’argomento della
‘conversione’ (nel senso che il proprietario farebbe valere un interesse, quello
alla restituzione, diverso da quello tutelato dal diritto di proprietà); e, per altro
verso, invoca il caso della sostituzione processuale, dove la scissione tra
122
123
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L. NIVARRA – Diritto soggettivo, obbligazione, azione
vizio logico, perché la non riducibilità dell’interesse di cui parla il
codice di rito all’interesse di cui parla la norma sostanziale è un
corollario dell’assunto secondo il quale l’azione sarebbe cosa
diversa dal diritto soggettivo: assunto che, a sua volta, andrebbe
fondato su basi diverse da quelle, fragilissime, su cui poggia la
teorica dell’astrazione. Viceversa, una volta restituita l’azione alla
casa – madre (che non è tanto il diritto soggettivo inteso come
sostanza separata, quanto piuttosto la costellazione di poteri di cui
l’una – l’azione, appunto – e l’altro – il diritto soggettivo medesimo
– sono la sintesi verbale), il requisito posto dall’art. 100 cod. proc.
civ. ripeterà la sua piana ragion d’essere dall’esigenza di misurare la
coerenza del provvedimento richiesto al giudice con il diritto
dedotto in giudizio.
ABSTRACT
Il saggio ruota attorno all’idea che la normale eseguibilità in forma
specifica dell’obbligazione “moderna”, consenta di promuoverne
una visione intesa a valorizzarne la funzione attributiva propria del
diritto soggettivo. Sulla scorta di questa ricostruzione, che si avvale
anche di un confronto con l’esperienza giuridica romana, l’autore
avanza l’ipotesi che l’azione, lungi dall’essere un potere autonomo
titolarità dell’azione e titolarità del diritto soggettivo dedotto in giudizio si
presenterebbe in una forma esemplare. Sulla ‘conversione’ mi sono già
intrattenuto criticamente più sopra; quanto alla sostituzione, vero è che il
creditore in surrogatoria deduce il diritto del debitore inerte ma a tutela di un
interesse sostanziale proprio, quello alla integrità della garanzia patrimoniale.
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dal diritto soggettivo, ne rappresenti la traduzione nella sede del
processo.
The essay revolves around the idea that the normal
executability in a specific form of the "modern" obligation, allows
to promote a vision intended to enhance the function attributed to
the subjective right. On the basis of this reconstruction, which is
also witnessing a confrontation with the Roman juridical
experience, the author puts forward the hypothesis that legal
action, is not an autonomous power from the subjective right,
represents the translation in the center of the process.
LUCA NIVARRA
Professore ordinario di Diritto Civile
Università degli Studi di Palermo
E-mail: luca.nivarra@unipa.it
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