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© William Blake and Co. Edit, BP n° 4 F-33037 Bordeaux cedex France © Éditions Fédérop, F-24680 Gardonne – France © 2019 Edizioni San Marco dei Giustiniani, Genova Alessandro Parronchi IL GIUOCO DEL BARONE In 9 e più colpi di dadi Musicato da Valentino Bucchi LIBRETTO Edizione e postfazione a cura di Marino Fuchs Nota del curatore Il Giuoco del Barone fu rappresentato per la prima volta il 20 dicembre 1939 al Teatro Sperimentale del GUF di Firenze. Nel 1955 l’opera subì alcune modifiche in occasione della trasposizione radiofonica per il Terzo Programma RAI del 28 gennaio 1956, versione che approdò poi alla pubblicazione. La prima edizione del libretto fu: A. Parronchi, Il Giuoco del Barone in 9 e più colpi di dadi, musicato da V. Bucchi, Suvini Zerboni, Milano 1958 (da ora in avanti SZ58); lo stesso editore pubblicò anche la partitura: V. Bucchi, Il Giuoco del Barone in 9 e più colpi di dadi, Partitura, Suvini Zerboni, Milano 1955; e gli spartiti: Riduzione per canto e pianoforte (Suvini Zerboni, Milano 1955); Versione per due pianoforti (Suvini Zerboni, Milano 1975; da ora in avanti SZ75). Il libretto fu ristampato in occasione delle rappresentazioni al Teatro Comunale di Firenze nella stagione autunnale del 1989 (Il giuoco del barone – Giovanni Sebastiano, a cura del Teatro comunale di Firenze, 1989; da ora in avanti TCF89), e compare in I libretti d’opera, a cura di Marzio Pieri, Istituto Poligrafico dello Stato, Roma 2001, pp. 1061-1066. Nel Fondo Alessandro Parronchi del Centro Studi Franco Fortini dell’Università di Siena sono conservati i materiali preparatori del libretto, manoscritti e dattiloscritti, relativi alla versione del 1939 e a quella del 1955. Si segnalano in particolare il dattiloscritto del 1955 (UNISI, BLF, Fondo Alessandro Parronchi, Scritti letterari di Alessandro Parronchi, Cartella 4, Il giuoco del barone, ds. 14c., da ora in avanti DS55) e il dattiloscritto rilegato della trasposizione RAI (Fondo Parronchi, Scritti letterari di A. Parronchi, Cartella 9, Il Giuoco del Barone in nove e più colpi di dadi, ds., 18 c). 7 Il Fondo conserva anche un esemplare del libretto TCF89 con correzioni manoscritte di Parronchi. TCF89 presenta alcune varianti lessicali rispetto a SZ58, che trovano riscontro nel DS55 e in SZ75. TCF89 risulta essere la trascrizione della parte testuale dello spartito SZ75. Siccome l’edizione curata da Marzio Pieri nel 2001 riprende fedelmente SZ58, per la presente si è deciso di proporre il testo di TCF89, risalente all’ultima messa in scena alla quale partecipò lo stesso Parronchi, integrando le sue correzioni manoscritte. Oltre a correggere alcuni errori causati dalla trascrizione del testo dello spartito (Zingana matta > Zingana amata), Parronchi ripristina le vocali troncate (son > sono; cantar > cantare; vuol > vuole). Sono cassati da Parronchi alcuni versi ripetuti previsti nella partizione musicale: al quarto colpo di dadi: «Sangue è rosso come vino / di morir non ho paura! / La la ra la la ra la!»; all’ottavo colpo di dadi: «Il mio prego ora ascoltate…»). Per rispettare l’organizzazione della struttura poetica, si è deciso di non riproporre le ripetizioni funzionali alla drammaturgia musicale, lasciando solamente quelle non espunte da Parronchi nella correzione (le strofe dei Soldati). Parronchi cassa inoltre alcune aggiunte previste nella partizione musicale ma assenti in tutti i dattiloscritti ed edizioni a stampa: al quinto colpo di dado le esortazioni poste nel finale delle due strofe dei Bevitori («Bevi! Bevi! / Vieni a bere il vino!»; «Bevi! Bevi! Bevi! Bevi!») e la risposta parlata del Barone («No! No! No!»). Si segnala che in SZ58 e in DS55, l’ultima strofa dei Bevitori si conclude con la battuta: «Sì, col vino, sì, col vino!»; assente invece negli spartiti, nel dattiloscritto RAI e in TCF89. Siccome Parronchi non ha reintrodotto il verso nella correzione manoscritta di TCF89, esso non è stato accolto nella presente edizione. Oltre alle modifiche autografe il curatore ha eseguito i seguenti interventi: sono stati ripristinati i paragrafi secondo il DS55, le maiuscole delle parole-casella, in alcuni casi le virgole al posto dei punti di sospensione. Infine, sono state reintegrate le parole poste tra parentesi al lato del testo, indicazioni assenti nel libretto TCF89 ma presenti in tutte le edizioni e previste dalla didascalia iniziale. Si tratta dei nomi delle caselle del gioco sulle quali il Barone capita in seguito al lancio dei dadi. M.F. 8 Marino Fuchs Postfazione Indagare le vicende che portarono alla creazione del Giuoco del Barone significa anche ripercorrere la storia di due esordi artistici, quello musicale di Valentino Bucchi (Firenze, 1916 – Roma, 1976) e quello poetico di Alessandro Parronchi (Firenze, 1914 – ivi, 2007). Valentino Bucchi era figlio di musicisti e, appena ventenne, era già la speranza musicale del gruppo di giovani che a Firenze, tra il 1935 e il 1938, frequentavano il piccolo cenacolo letterario a casa di Piero Santi. Tra questi: Franco Fortini con cui aveva frequentato il Liceo Ginnasio Dante, Alessandro Parronchi, Giorgio Spini, Paolo Cavallina, Franco Calamandrei, Giacomo Diridelli, Giorgio Baccetti, Giancarlo Bertolini Salimbeni, Ferruccio Ulivi, ai quali si aggiungeva Carlo Cassola durante i loro soggiorni a Marina di Cecina. Bucchi nel 1938 inizierà a collaborare come critico musicale presso «La Nazione» di Firenze. Nel 1940 si diplomerà in filosofia all’Università di Firenze con una tesi di estetica musicale; nel 1944 otterrà il diploma in Composizione al Conservatorio Cherubini (fu allievo di Corrado Barbieri, Luigi Dallapiccola e Vito Frazzi). Ma già prima di tali traguardi, la vocazione musicale di Bucchi appariva evidente ai suoi amici, che sovente lo sollecitavano a comporre la propria musica. 49 Così, una notte dell’ottobre 1936, mentre Bucchi, Parronchi e Fortini stavano tornando a casa, attraversando il Ponte Rosso che collega il centro di Firenze alla zona oltre il torrente Mugnone dove i tre abitavano, Fortini sfidò gli amici a creare un’opera moderna su un soggetto popolare, come avevano fatto Igor Stravinskij e Charles-Ferdinand Ramuz con L’histoire du soldat. Per il soggetto si sarebbe potuto prendere spunto dal passatempo popolare del Giuoco del Barone. L’indomani Parronchi, spinto dalla curiosità, si recò in una piccola cartoleria presso il Ponte Rosso per comprare la tavola del gioco che non conosceva. Variante toscana del Giuoco dell’Oca, il Giuoco del Barone è un gioco di percorso con caratteristiche d’azzardo composto da 76 caselle numerate, su ognuna delle quali è rappresentata una figura, una didascalia con il nome e le azioni che il giocatore deve compiere. Ad esempio, le caselle 3 e 4 rappresentano rispettivamente il «Barone» e la «Zingana»; prevedono entrambe l’azione «T. 1», ovvero “tirare da tutti”, prendere da tutti un gettone o un soldo di gioco. Invece, la casella 8 raffigura la «Nave» e prevede «P.1 V.17»: “paga 1 al gioco” (la posta in gioco da porre al centro del tabellone e che costituirà la vincita finale), e “vai al 17”, ovvero la casella del «Porto». E così di seguito, passando per le caselle: «Fiume», «Ladro», «Palio», «Pazzarelli», «Prigione», «Matto», «Soldato», «Trappola», «Castello», «Bosco», e la temibile «Morte» che prevede il ritorno alla casella iniziale del gioco (la «Sepoltura»), fino al riquadro finale, il numero 76, in cui è raffigurato il personaggio del «Tiratutti» che consegna la vittoria e il sacchetto di monete al vincitore. Parronchi raccontò di avere passato la mattina al Giardino del Bobolino, abbozzando le disavventure del Barone e, in seguito, di avere battuto sulla Olivetti M 40 le strofe del libretto, presto consegnato a Bucchi per la strumentazione. A Parronchi la tavola 50 del Giuoco del Barone apparve subito colma di personaggi e situazioni, ancora più ricca di materiale simbolico rispetto al Giuoco dell’Oca. Un repertorio ideale dal quale attingere per l’invenzione narrativa. Innanzitutto il Barone, protagonista del gioco e dell’opera, più che il titolo nobiliare indica un «avventuriero da strapazzo», secondo l’antica accezione toscana del termine; la sua figura è l’unica che si ripete per sette volte a partire dalla casella numero tre. Segue un’altra figura chiave della cultura popolare: la Zingara o «Zingana». Il personaggio della Zingara, a partire dalle zingaresche in voga in Toscana nel Seicento fino alla grande fortuna delle eroine zingare nell’Ottocento, ha avuto un notevole sviluppo in letteratura fino a fissare nell’immaginario romantico il carattere di una donna fiera e indipendente, la cui capacità di seduzione provoca spesso la sventura degli innamorati. Anche nel Giuoco del Barone, sin dalle prime stesure, la Zingana è il motore dell’azione, l’oggetto del desiderio erotico e della delusione amorosa del Barone. Nonostante il breve periodo impiegato per la redazione, ci vollero svariati tentativi per arrivare alla versione del testo della prima rappresentazione. Nel primo abbozzo la Zingana è vedova (un dettaglio che sarà poi omesso): BARONE Oh mia Zingana se’ bruna come il falco sulla torre che accattiva le compagne. Oh bel fiore ch’io vo’ còrre; mentre scherzi; mentre giochi tuo marito è là che piagne, là che piagne là che clama: oh mia Zingana traditora! 51 ZINGARA Mio marito non mi clama che da tempo è in SEPOLTURA1. e rivela il suo nome al Barone, probabilmente inventato, tanto che il Barone lo ripete sbagliato: BARONE Oh mia Zingana il tuo nome…» ZINGARA Il mio nome è Landicemia BARONE Laodermiva, i tuoi capegli… ZINGANA Il mio nome è Landicemia Guai a chi non lo ricorda ai tuoi prieghi sono sorda io con te non ce vo’ està2. Caratteristiche rimosse nelle versioni successive, in cui diventa centrale il rifiuto della Zingana di rivelare il suo nome al Barone: «Il mio nome non ti vo’ dire / che di te nulla m’importa» (in alcune stesure intermedie il Barone tentava ancora di indovinarlo: «Qual è, Zingara, il tuo nome? / Rosa, Laura, Landomine?»). Parronchi, dunque, nel dattiloscritto che consegnò a Bucchi, rese via via più essenziale la caratterizzazione della Zingana e perentorio il suo rifiuto, accrescendo da una parte l’alone di mistero sulla sua figura e dall’altra snellendo e velocizzando l’azione scenica; una cifra dell’intera opera che vede susseguirsi e incatenarsi incontri e avvenimenti senza un’apparente soluzione di continuità, proprio come accade nel gioco di percorso. 52 Già a partire dal secondo abbozzo manoscritto venne introdotto il personaggio più importante dell’opera, il Tiratutti. Indicato come generico «coro» nella prima stesura, nel gioco toscano rappresenta la buona sorte; infatti, il Tiratutti è la casella finale che decreta la vittoria (la numero 76), ovvero quella che consente di “prendere da tutti” la posta in gioco. Nell’operina il Tiratutti impersona anche il fato, poiché, da vero e proprio deus ex machina, è colui che tira le fila delle vicende del Barone fino alla risoluzione finale. Parronchi sviluppò così progressivamente l’idea di rendere l’azione scenica sempre più aderente al funzionamento del gioco. Non accontentandosi semplicemente di un repertorio di figure e simboli, ma rendendo esplicito il meccanismo combinatorio dell’invenzione letteraria, Il Giuoco del Barone acquisì minuta dopo minuta il suo carattere sperimentale. L’idea precorse, pur con differenti motivazioni ideologiche e finalità artistiche, gli esperimenti narrativi degli anni Sessanta e Settanta (si pensi a Rayuela, Il gioco del mondo, di Julio Cortázar, 1963, Il Giuoco dell’Oca di Edoardo Sanguineti, 1967; Il castello dei destini incrociati di Italo Calvino, 1973; e ancora Il Giuoco del Monopoly di Giovanni Orelli, 1980). Nell’ultima stesura del 1936 del Giuoco del Barone si legge un’introduzione, poi espunta, in cui Parronchi evidenza l’aspetto sociale, ludico e combinatorio dell’invenzione narrativa: Prima di ascoltare il Giuoco del Barone, trasportatevi con l’immaginazione intorno a una tavola, in una casa toscana di un secolo fa. La cena è terminata da un pezzo. Molta gente è arrivata di fuori ed è qui riunita per la veglia. Sulla tavola è steso l’itinerario di quella che sarà la vicenda del Barone… intorno si fa silenzio… E il Giuoco incomincia. Come in tutti i giuochi, decidono i dadi. A ogni colpo di dadi il Barone è sbalzato lontano in situazioni, in incontri sempre nuovi, ora tristi ora lieti. 53 A chi segue il giuoco vien fatto di dare un senso alla storia, di costruire la vita del Barone secondo una logica continuità. Ed è quello che è anche involontariamente accaduto all’autore di questa operina, che ha visto a ogni colpo di dadi una “figura” apparire sullo “specchio magico” della sua fantasia… Ma… Illusione! La vita del Barone è una vita senza nesso, senza costrutto, a cui fanno da guida la Fortuna, che è una donna cieca, e l’Amore, che è un ragazzo cieco… E su cui pesa unicamente il volere di questo Signore, non bene identificato, che risponde al nome di TIRATUTTI3. Parronchi pensò infine di fornire, nella didascalia iniziale, alcune indicazioni circa l’allestimento scenico che avrebbe dovuto evocare direttamente il gioco. Nelle prime versioni, l’autore aveva pensato a una riproduzione dell’intero tabellone del gioco; nell’ultima stesura del 1936, come nella definitiva, previde l’impiego di uno schermo, una tela bianca «pendente a guisa di sudario» sulla quale proiettare le figure del gioco coinvolte nell’azione scenica (indicate tra parentesi a lato del testo); «queste diapositive potranno essere abilmente colorite a mano, a guisa dei vetri delle antiche “lanterne magiche”». Parronchi immagina il Tiratutti muoversi su un palco dissimulato dal lato superiore dello schermo, «specie di minuscolo e panciuto Zio Sam, che può essere impersonato da un mimo, che gettando dadi e facendo lazzi e capriole si comporti come una scimmia legata per un filo al suo trespolo, accentuando la mimica nei momenti in cui vengono cantate le sue parole. All’ultima battuta del terzo episodio questo personaggio entrerà in scena, con andamento dimesso e zoppicante, per consegnare al Barone il sacchetto della vincita». Il tono popolaresco, fedele all’immaginario del gioco di società, è conseguito da Parronchi mediante l’impiego di una «vivace coloritura lessicale (all’impazzata, viottole)» a cui «corrisponde un altrettanto efficace ordito di rime, povere ma non mec54 caniche», mentre l’ossimoro, figura retorica predominante, contribuisce «ad un regime sur-reale che nel colpo di dadi ha la sua unica legge, un regime di sospensione delle contraddizioni e di fantastica finzione»4. In ambito metrico, Parronchi predilige l’ottonario trocaico, un verso cantabile che per le sue qualità ritmiche ben si presta «a un testo fondato sulle partiture anaforiche e ritornellanti e a un’orchestrazione ampiamente basata sulle percussioni»5. A libretto terminato, le cronache narrano che Parronchi disconobbe l’opera quando venne a sapere che i progetti di Bucchi per Il Giuoco del Barone erano più ambiziosi di un semplice divertissement tra amici. Nel Natale 1936, Bucchi aveva già approntato una versione per voci con accompagnamento pianistico, con l’intenzione di definire poi la strumentazione in vista di una rappresentazione al Teatro Sperimentale del GUF allora situato in via Laura. Tuttavia, assorbito dagli studi universitari e del conservatorio, ritardò di due anni l’orchestrazione del Giuoco, completandola solo nel 1939. Bucchi scrisse allora una lettera a Parronchi nella quale si legge: Se ricordi avevamo deciso, due anni fa, di dare l’opera allo Sperimentale. Si tratta quindi soltanto di un involontario ritardo: breve ritardo dal momento che non abbiamo ancora i capelli grigi. Quanto al tuo nome io sarei molto contento che figurasse nel programma, tuttavia se ti secca, cosa che non spero probabile, metteremo soltanto l’Autore della musica6. Le speranze di Bucchi non si realizzarono. I due anni trascorsi erano stati densi di avvenimenti per il giovane Parronchi, impegnato negli studi di storia dell’arte e sempre più coinvolto nella società letteraria fiorentina. Gli anni tra il 1937 e 1939 furono infatti quelli delle intense frequentazioni al caffè Le Giubbe Rosse, dove trascorreva il tempo insieme a Mario Luzi, Piero Bigon55 giari, Vasco Pratolini, Eugenio Montale, Ottone Rosai, Alfonso Gatto e a molti altri intellettuali. Il ripensamento di Parronchi era dovuto alla cautela che egli aveva nel muovere i primi passi in un contesto letterario così fortemente connotato. Parronchi si introdusse pubblicando alcune poesie e prose per un pubblico ristretto e selezionato delle riviste «Il Frontespizio», «Corrente di vita giovanile», «Letteratura» e «Campo di Marte» di Pratolini e Gatto (attraverso la quale si fece conoscere anche per i suoi contributi di storia dell’arte). La prima poesia Eclisse uscì a insaputa di Parronchi su «Il Frontespizio» nell’aprile del 1938, preceduta da una presentazione di Carlo Betocchi; Parronchi prese così parte all’ermetismo fiorentino fino a diventarne uno dei protagonisti, grazie alla silloge d’esordio I giorni sensibili (Vallecchi, 1941). Considerate le ambizioni e le aspettative del giovane Parronchi, non sorprende quindi che il libretto del Giuoco del Barone fu da lui considerato un incidente di percorso, per via del tono popolaresco, del registro basso e anti-sublime, del tutto estraneo al clima ermetico di quegli anni. Il libretto dell’operina da camera, a lungo disconosciuto da Parronchi, ottenne però un successo indipendente dal volere dell’autore. Il Giuoco del Barone, privo del nome di Parronchi, fu rappresentato per volontà di Bucchi il 20 dicembre 1939 al Teatro Sperimentale di Firenze, ottenendo recensioni entusiastiche, a partire da quella di Bruno Barilli, uno dei critici musicali più influenti dell’epoca. Il merito fu anche del regista, il conte Nicolò Piccolomini, e del pittore Alessandro Brissoni responsabile delle scene e dei costumi, entrambi animatori della compagnia “Il Carro dell’Orsa Minore”. I due presero a cuore le strampalate vicende del Barone e, insieme a Bucchi, allestirono uno spettacolo riuscito, impreziosito da «buoni elementi vocali, il baritono Spartaco Marchi, il soprano Luisa Aliprandi, il basso Carlo Gasparini, gui- 56 dati dal direttore Luigi Colonna, con cui aveva collaborato nella preparazione del coro Luciano Bettarini»7. La recensione di Bruno Barilli fornisce spunti utili per comprendere anche il contesto in cui si svolse la prima rappresentazione. Barilli descrive in maniera brillante l’atmosfera sonnacchiosa e letargica di una Firenze invernale sulla quale pesa la mortifera «guerra alle porte». Per contrasto, il critico esalta la vitalità e la singolarità del Giuoco del Barone, capace per un attimo di risvegliare dal torpore «un pubblico fantastico di cento persone al più, stipate, ma scelte, una per una, tra la popolazione con le pinzette del gioielliere, tutte rare, preziose e provate, le perle del mondo intellettuale, i diamanti della più bell’acqua, un’assemblea così raffinata e graziosa quale può dare soltanto Firenze»8. Anche gli altri critici riconobbero il carattere sperimentale dell’operina di Bucchi e di Parronchi; la quale si differenziava, sia nella musica sia nel soggetto, dal resto delle produzioni teatrali di quell’ultimo scorcio del ventennio fascista, ricche «di miti romani, di vicende celebrative delle imprese belliche e dell’italianità»9. L’estetica tardo-verista esaltata dal regime prevedeva infatti «storie convenzionali, più sovente fosche tragedie sentimentali, magari calate in cornici paesane e meridionali (ad esempio La zolfara di Giuseppe Mulé)», e riduceva «a quella temperie soggetti di diversa origine, persino storici»10. L’opera appariva tra le più aggiornate dal punto di vista della costruzione strumentale e narrativa. A Bucchi si riconosceva «la essenzialità dei mezzi espressivi, la concisione drammatica, la discrezione del volume sonoro, la chiarezza tematica, l’incisività strumentale»11. Il Giuoco del Barone si inseriva in un tentativo di «rinnovamento autentico e complessivo del teatro in musica», anche per la scelta della materia narrativa che – per il «rifiuto delle tipiche vicende melodrammatiche, come pure il voler cogliere 57 nella favola, nel racconto fantasmagorico e nella trama da cantastorie, i possibili riflessi della vita stessa, calata in un clima surreale» – in quegli anni trovava riscontro in pochi altri lavori, come Capricci di Callot di Gian Francesco Malipiero (1942) e Il favorito del re di Antonio Veretti (1932)12. Prima dell’entrata in guerra dell’Italia, Il Giuoco del Barone fu rappresentato con successo in altre due occasioni: al Teatro delle Arti di Roma, il 20 aprile 1940, e al Teatro della Triennale di Milano, il 23 e il 24 maggio dello stesso anno. Frattanto il regista Nicolò Piccolomini venne richiamato alle armi e morì nel gennaio del 1942 durante una spedizione aerea. Lo spettacolo fu ripreso da Alessandro Brissoni, che lo mise in scena il 18 febbraio 1945 a Firenze, sempre nel teatro di via Laura 64, rinominato Centro Universitario Teatrale “Luigi Cherubini” (poi demolito nel 1959). In quell’occasione, Parronchi ebbe la possibilità di sentire e di vedere per la prima volta il lavoro di Bucchi e di riconciliarsi con lui. Un decennio dopo si presentò una nuova occasione per Il Giuoco del Barone; quando la RAI, nel luglio 1955, commissionò a Bucchi e a Parronchi una versione radiofonica dell’opera. I due autori, uniti da una rinnovata collaborazione, ebbero così la possibilità di ripensare quella loro opera prima, sia dal punto di vista del testo letterario che della parte musicale, dandole la forma attuale. Il cambiamento più vistoso fu il passaggio dalla forma tripartita del 1936, che contemplava tre macro-episodi (primo episodio: Zingana, Pazzerelli, Zingana; secondo episodio: Soldati, Bevitori, Pellegrini, Morte; terzo episodio: Negromante, Vittoria) a una suddivisione più puntuale dei singoli incontri; ciò per rendere ancora più aderente l’opera alle meccaniche del gioco a cui si ispirava, arrivando a coinvolgere gli spettatori nel destino dei perso58 naggi tramite il metaforico lancio di dadi all’inizio di ogni episo-dio. Nelle «note illustrative», che Parronchi redasse in quell’occa-sione, si legge: la piccola opera è divisa in nove episodi o “colpi di dadi”, che presentano le nove figure più importanti del giuoco. Così nella prima figura (la “Zingana”) il Barone viene rappresentato nella sua esperienza patetica: respinto con indifferenza prima dà in ismanie, poi si placa nelle sue abituali fantasticherie di sogni proibiti. Al secondo gittar dei dadi, dopo un fresco “madrigaletto” del Coro dei “Pazzerelli”, su cui vola in bizzarri arabeschi una voce di soprano, si sconsiglia il Barone di procedere oltre. Si avverte un’aura sinistra. Tuttavia il Barone, che come tutti i timidi possiede il coraggio della disperazione, prosegue. Ma al terzo colpo di dadi la mente del nostro eroe torna al sogno d’amor perduto, mentre il Coro lo spaventa con le sue lugubri sentenze, scandite sui pesanti rintocchi della morte e della pazzia. E così, via via, per altri cinque “colpi” (“la Battaglia”, i “Bevitori”, i “Pellegrini”, la “Prigione”, il “Negromante”). Capricciose e diverse e strabilianti vicende accadono al nostro Barone, sempre in cieca balia della sorte indicate dalle figure del giuoco, fino a che l’ultima avventura (nono colpo di dadi) egli l’avrà quando, seguendo la esortazione del Coro di superare le proprie vicende personali, i suoi pianti e le sue risa, abbandonandosi docilmente alla vita, perfezionerà il proprio destino, collocandosi nella casella finale della “vittoria”13. Per una maggiore fruibilità e comprensibilità dello svolgimento, anche in radio, Parronchi scrisse nuove battute per il Tiratutti, che oltre la funzione di mimo acquisì così quella di storico. Si tratta della battuta iniziale del Tiratutti e di quelle finali di ogni episodio, in cui il Tiratutti coinvolge il pubblico, riassume e introduce i nuovi incontri, trae delle massime dalle vicende del Barone14. Dal canto suo, Bucchi modificò la strumentazione «dato che 59 all’orchestra normale (quintetto d’archi, legni, ottoni) è stato sostituito un complesso solistico di 14 fiati, percussione, pianoforte e 2 contrabbassi, espressamente studiato in vista dell’utilizzazione radiofonica»15. Nella nuova veste, Il Giuoco del Barone fu presentato a Roma nella stagione pubblica del Terzo Programma, il 28 gennaio 1956, sotto la direzione di Bruno Bartoletti; e vinse nello stesso anno il Prix Italia, il più antico e prestigioso concorso internazionale per i programmi radiofonici. Tuttavia, l’occasione più importante per l’opera di Bucchi e Parronchi arrivò nel 1958, quando il Festival dei Due Mondi di Spoleto selezionò Il Giuoco come unica opera italiana contemporanea. Il Festival, che era alla sua prima edizione, inizialmente aveva affidato la regia a Luigi Squarzina per poi cedere il compito a Franco Zeffirelli, che curò anche le scene e i costumi della rappresentazione del 20 giugno 195816. L’opportunità permise agli autori di sollecitare finalmente la stampa del libretto presso la casa editrice Suvini Zerboni, che nel 1955 aveva pubblicato unicamente la partitura. L’opera ebbe un vivo riscontro anche nelle successive rappresentazioni al Teatro Puccini di Firenze nel 1982, per la regia di Cesare Orselli, e per il Maggio Musicale Fiorentino 1989 al Teatro Comunale di Firenze, per la regia di Stefano Vizioli. Nel 1996, Parronchi ripensò nuovamente al singolare percorso del Giuoco del Barone in occasione della redazione di un testo per i vent’anni dalla scomparsa di Valentino Bucchi. L’opera aveva attraversato il Novecento e si era rivelata per il musicista un’indovinata opera prima. Una felice intuizione degli anni giovanili che accompagnò Bucchi lungo l’intero suo percorso artistico, e dette il via a «una ricerca febbrile di nuovi mezzi espressivi», nella convinzione «che la tradizionale opera in musica faccia parte di un passato glorioso e indimenticabile, ma non più ripetibile»17. Se 60 Bucchi si rivelò affezionato a quell’opera prima, diverso fu il caso di Parronchi, che, nonostante «la riconciliazione» con il Barone, non ritenne opportuno includere il testo nell’edizione complessiva Poesie (Polistampa, Firenze 2000) né in altre antologie, perché da lui giudicato eccentrico rispetto alla sua produzione lirica. Parronchi, d’altronde, aveva affermato nel ricordo di Bucchi: Dopo di che, aspetto che qualcuno venga avanti e mi chieda: «Ma insomma, pensi sempre che il Barone sia una “sciocchezzuola”?» Certo, quando sarà programmata l’edizione nazionale delle mie opere complete, spero che non accada come a qualche mio più o meno coetaneo è successo, che gli juvenilia siano stampati insieme con le opere accettate. No, le “rifiutate” vanno stampate a parte. Ma forse, chissà, qualche critico a corto di argomenti potrà anche impegnarsi in un saggio dove il Barone sia indicato come la matrice di tutta l’opera futura18. Non si tratta dunque qui di avanzare tale ipotesi, ma di ribadire, come è stato osservato da più critici, il rilievo di un testo che è esplicativo della giovinezza creativa di Parronchi. Il libretto documenta infatti un periodo precedente all’immissione di Parronchi nell’ermetismo fiorentino, e ha più volte svolto un ruolo nel percorso del poeta. Dapprima agì sull’esordio letterario, anche se in negativo, per contrapposizione al tono popolaresco, al registro basso e anti-sublime di quella prima esperienza19. In seguito, incise nuovamente sulla poesia di Parronchi tramite il recupero di una «funzione melodrammatica»20 e di una vena narrativa che attraversano sotterraneamente la sua produzione, e che il poeta abbracciò più volte anche nel tentativo di emanciparsi dall’ermetismo. Nella sua peculiarità, Il Giuoco del Barone rappresenta dunque un episodio utile per comprendere i processi creativi di Parronchi, la cui poesia trae forza dai suoi molteplici interessi: la sto- 61 ria dell’arte, praticata come professione, il cinema, passione che coltivò anche in sede critica, e la musica. Un’apertura verso paesi, esperienze e discipline diverse che sarà necessario indagare ulteriormente, per comprendere più a fondo una produzione che, lungi dall’esaurirsi entro i confini dell’ermetismo fiorentino, nell’arco di settant’anni, offre elementi di interesse e di originalità da riscoprire, anche grazie agli spunti proposti dal Giuoco del Barone. Note 1 2 3 4 5 6 7 8 9 10 11 12 UNISI, BLF, Fondo Alessandro Parronchi, Scritti letterari di Alessandro Parronchi, Il giuoco del barone, Cartella 1, Il giuoco del barone, ds., 8 c. Ivi, Mss., fotocopie, 2 c. Ivi, ds. e ms., 22 c. LENZINI, L., Il «Giuoco del Barone», in Id., Sulla poesia di Parronchi, Edizione degli Amici, Arezzo 2005, pp. 69-70. MANIGRASSO, L., «Una lingua viva oltre la morte». La poesia “inattuale” di Alessandro Parronchi, Società Editrice Fiorentina, Firenze 2011, p. 135. Manigrasso rileva come, in seguito, Parronchi impiegherà raramente l’ottonario; ad esempio, sempre in rapporto con l’esecuzione musicale, nel Coretto dei visi (tratto dai Visi), uso che rinvia alla tradizione alta dell’ottonario, e in Città: «un poemetto dalla trama formale molto mossa, in cui oggi trova rappresentanza anche l’ottonario, declinato stavolta nella sua forma più tradizionalmente popolare, e cioè quello che Baldacci definisce il “canto carnascialesco” eseguito da una voce fuori-campo», ivi, pp. 136-137. UNISI, BLF, Fondo Alessandro Parronchi, Scritti letterari di Alessandro Parronchi, Il giuoco del barone, Cartella 4, Valentino Bucchi [Lettera s.d.], 1 c. ZANETTI, R., «Il giuoco del barone», in Il giuoco del barone – Giovanni Sebastiano, a cura del Teatro comunale di Firenze, 1989, pp. 29-30. BARILLI, B., Il Giuoco del Barone, in «Oggi», XVIII, 30 dicembre 1939, p. 23; ripubblicato nel presente volume a pp. 33-38. ZANETTI, R., op. cit., p. 30. Ivi, p. 31. PANNELLA, L., «Il Giuoco del Barone», in Ead., Valentino Bucchi. Anticonformismo e politica musicale italiana, La Nuova Italia, Firenze 1976, p. 8. Nel suo saggio Pannella ripercorre molte delle recensioni critiche che furono scritte a proposito del Giuoco del Barone, in seguito alle varie esecuzioni dell’opera. Zanetti, R., op. cit., pp. 31-32. 62 13 14 15 16 17 18 19 20 UNISI, BLF, Fondo Alessandro Parronchi, Scritti letterari di Alessandro Parronchi, Il giuoco del barone, Cartella 2, Nota illustrativa, ds., 2 c. In un primo momento Parronchi scrisse una nuova versione dell’opera affidando il ruolo di storico all’Oca, anche per coinvolgere un pubblico più internazionale, tuttavia l’idea fu in seguito abbandonata (ivi, Cartella 4. Il giuoco del barone, ds., 15 c.). Ivi, Cartella 2, Dichiarazione Bucchi-Parronchi, 1956, ds., 1 c. (lettera alla Direzione Generale RAI, Firenze, 16 maggio 1956). Cfr. PANNELLA, L., op. cit., pp. 16-18, per la ricezione critica dello spettacolo messo in scena da Zeffirelli, regia che non fu trovata «del tutto confacente al carattere dell’operina». Zeffirelli, ad esempio, aveva tagliato le nuove battute recitate dal Tiratutti, «lo “storico” che congiunge i vari episodi dell’azione (e che aveva reso persuasivo il Giuoco nella sua veste radiofonica)». Ivi, p. 19. PARRONCHI, A., Riconciliazione col Barone, in «Premio Valentino Bucchi», XX, 1 (2000), pp. 39-42. Cfr. LENZINI, L., op. cit., pp. 65-74. Lenzini ha per primo focalizzato l’importanza del Giuoco del Barone, «eterogeneo rispetto alla produzione lirica vera e propria», ma da considerarsi un dato di partenza destinato poi a riaffiorare a distanza, in concomitanza con il recupero del libretto negli anni Cinquanta e con il superamento dell’ideologia ermetica in Coraggio di vivere (All’insegna del pesce d’oro, 1956). Cfr. MANIGRASSO, L., op. cit., pp. 130-142. 63 Indice Nota del curatore 7 IL GIUOCO DEL BARONE 9 Bruno Barilli Il Giuoco del Barone 33 Valentino Bucchi Vent’anni dopo 39 Alessandro Parronchi Ricordo del Barone 43 Marino Fuchs Postfazione 49 QUESTA EDIZIONE STAMPATA IN CARATTERI SIMONCINI GARAMOND SU CARTA PALATINA DELLE CARTIERE FEDRIGONI È STATA CURATA DALLE EDIZIONI SAN MARCO DEI GIUSTINIANI IN GENOVA PER CONTO DELLA “FONDAZIONE GIORGIO E LILLI DEVOTO” LA TIRATURA È COMPOSTA DA 299 ESEMPLARI DI CUI 99 CONTRASSEGNATI IN NUMERI ARABI DA 1/99 A 99/99 INSERITI IN UNA CARTELLA EDITORIALE ESEGUITA A MANO CONTENENTE INOLTRE LA VERSIONE PER DUE PIANOFORTI DELL’OPERINA DI VALENTINO BUCCHI E LA TAVOLA A COLORI DE “IL GIUOCO DEL BARONE” DISEGNO ORIGINALE DI GUIDO ZIBORDI MARCHESI GENOVA – MARZO 2019 Esemplare n.