J-Movie: il cinema giapponese dal 2005 al 2015
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Anteprima del libro
J-Movie - Maria Roberta Novielli
J-MOVIE
IL CINEMA GIAPPONESE DAL 2005 AL 2015
A CURA DI
MARIA ROBERTA NOVIELLI
EUGENIO DE ANGELIS
EDIZIONI SIMPLE
Via Trento, 14
62100, Macerata
info@edizionisimple.it / www.edizionisimple.it
ISBN: 978-88-6924-195-6
Tutti i diritti sui testi presentati sono e restano dell’autore.
Ogni riproduzione anche parziale non preventivamente autorizzata costituisce violazione del diritto d’autore.
J-Movie - Il cinema giapponese dal 2005 al 2015
Copyright © 2016, Maria Roberta Novielli, Eugenio De Angelis
Prima edizione digitale: aprile 2016
Immagine di copertina a cura di Luca Pili
Diritti di traduzione, riproduzione e adattamento totale o parziale e con qualsiasi mezzo, riservati per tutti i paesi.
INDICE
Prefazione di Maria Roberta Novielli
Introduzione: Still Walking di Eugenio De Angelis
Avvertenze
Capitolo 1: The Book of the Dead di Davide Giurlando
Capitolo 2: Aogeba tōtoshi di Rene Maurin
Capitolo 3: Paprika di Giorgio Mazzola
Capitolo 4: Franz Kafka’s A Country Doctor di Susanna Roffredi
Capitolo 5: Carved: The Slit-Mouthed Woman di Alfredo De Vincenzo
Capitolo 6: German + Rain di Alejandra Armendáriz Hernández
Capitolo 7: United Red Army di Eugenio De Angelis
Capitolo 8: All Around Us di Stefano Locati
Capitolo 9: The Monster X Strikes Back di Federico Tombari
Capitolo 10: Tokyo Sonata di Eugenio Tassitano
Capitolo 11: Tokyo Gore Police di Sara Battilana
Capitolo 12: Air Doll di Marco Andronaco
Capitolo 13: Symbol di Giacomo Calorio
Capitolo 14: 13 Assassins di Alessandro Galletti
Capitolo 15: Confessions di Federica Cillani
Capitolo 16: Scabbard Samurai di Michele Senesi
Capitolo 17: The Lightning Tree di Gianpiero Mendini
Capitolo 18: Hard Romanticker di Silvia Galli
Capitolo 19: Himizu di Gloria Zerbinati
Capitolo 20: No Man’s Zone di Matteo Boscarol
Capitolo 21: Space is The Place di Giulio Tosi
Capitolo 22: Isn’t Anyone Alive? di Emanuele Mari
Capitolo 23: Fires on the Plain di Maria Roberta Novielli
Capitolo 24: Psycho Pass: The Movie di Davide Tarò
Gli autori
Bibliografia essenziale
PREFAZIONE
Maria Roberta Novielli
J-Movie - Il cinema giapponese dal 2005 al 2015 è un progetto innovativo e trasversale. Innovativo perché la proposta di dedicare un volume al più recente cinema nipponico ha trovato gradualmente consenso attraverso un rapido passaparola tramite un social network, riunendo così 24 autori a cui è stata affidata anche la scelta dei rispettivi titoli nel progetto complessivo. Trasversale perché presenta in tal modo differenti approcci, in particolare di quanti con il cinema dell’arcipelago ci lavorano, lo studiano o semplicemente vi si avvicinano per passione.
Il risultato è un volume vario per temi e visioni
, uno strumento utile per chiunque desideri recuperare le nuove tendenze o le pellicole di maggiore interesse del più recente panorama produttivo giapponese, attraverso analisi dettagliate e preziosi rimandi a generi e autori, in una rosa di titoli qui presentati cronologicamente. Infine, questo libro unisce quattro fondamentali macro aree filmiche, ovvero fiction, animazione, documentario e videoarte, offrendo così una panoramica tout court di quella che si rivela nella sua storia una delle cinematografie più ricche della scena internazionale.
INTRODUZIONE
STILL WALKING
Eugenio De Angelis
Ancora in cammino
. Prendo in prestito il titolo di una pellicola di Koreeda Hirokazu - tra i registi inclusi in questa raccolta - per tentare di riassumere il decennio 2005-2015 del cinema giapponese. Al fianco di autori veterani che hanno proseguito il loro lavoro e altri che hanno raggiunto la piena maturazione in questa decade, non sono stati molti i volti nuovi ad affacciarsi sul palcoscenico internazionale, così come sono mancate correnti
forti, anche se la tragedia del marzo 2011 ha portato numerosi registi a interrogarsi sull’accaduto. Un’industria chiusa in se stessa e poco incline al cambiamento ha permesso proprio negli ultimi anni il sorpasso da parte del cinema coreano nell’apprezzamento del pubblico asiatico, mercato di riferimento per l’esportazione dei film nipponici, a cui seguono festival e sale d’essai occidentali. D’altra parte però l’industria cinematografica giapponese rimane una delle più prolifiche e variegate al mondo, come testimoniano i 24 contributi che compongono questo volume, tanto nel suo cinema più autoriale, quanto in quello di genere o più dichiaratamente commerciale.
Tra i registi che dal 2005 in poi hanno raggiunto la definitiva consacrazione sia in terra nipponica sia all’estero, spicca su tutti proprio il già citato Koreeda Hirokazu, qui presentato da Marco Andronaco nel commento a Air Doll (2009), una fiaba metropolitana più vicina ai toni degli esordi che alle sue ultime opere. Autore di alcuni lavori interessanti, Nakashima Tetsuya è riuscito alla fine a ricevere importanti riconoscimenti grazie a Confessions (2010), un racconto cupissimo sull’adolescenza contemporanea a cui è dedicato l’articolo di Federica Cillani. Dopo una carriera nel cinema di genere, Kurosawa Kiyoshi si è rivelato autore di caratura internazionale con Tokyo Sonata (2008) che Eugenio Tassitano analizza nelle sue implicazioni sociologiche e non solo; un destino simile a quello di Hiroki Ryūichi che dopo decine di pellicole pinku (cinema erotico) o pensate per il V-cinema (mercato home video), ha trovato il suo posto tra i registi di primo piano, fino a produrre anche una delicata storia d’amore in costume come The Lightning Tree (2010), di cui scrive Gianpiero Mendini. Tra gli autori che hanno continuato a portare avanti una poetica ormai consolidata troviamo invece Tsukamoto Shin’ya, la cui opera più recente, Fires on the Plain (2014), analizzata da Maria Roberta Novielli, va ben oltre il mero remake del film di Ichikawa Kon, per affermarsi come un urlo anti-militarista molto importante, in un momento di rigurgiti nazionalisti da parte del governo Abe. Prolifico come sempre, Miike Takashi è entrato nell’ultimo decennio nel suo periodo più commerciale
, ma non per questo meno interessante, come testimonia il capitolo su 13 Assassins (2011) di Alessandro Galletti. Rene Maurin firma invece un grande elogio del cinema sussurrato
di Ichikawa Jun - venuto a mancare prematuramente - nell’analisi di Aogeba tōtoshi (2006), toccante storia sulla perdita che vede tre generazioni a confronto.
L’ultima decade ha permesso anche la riscoperta di autori veterani tornati grintosamente alla carica, come esplicita Emanuele Mari attraverso l’esempio di Ishii Sōgo che, dopo il cambio di nome in Gakuryū, ha donato nuova linfa al proprio cinema con il racconto apocalittico-adolescenziale di Isn’t Anyone Alive? (2012). Un discorso similare vale per il compianto Wakamatsu Kōji che con United Red Army (2007) ripercorre, nell’analisi del sottoscritto, i drammatici fatti a lui vicini dell’Armata Rossa Unita e raggiunge probabilmente l’apice di una carriera ultra-cinquantennale. Nel suo articolo Stefano Locati spiega invece come Hashiguchi Ryōsuke si sia allontanato dalle tematiche omosessuali che lo resero famoso negli anni novanta, per tratteggiare una crisi coniugale con inusitata grazia in All Around Us (2008).
Non di soli autori vecchi e nuovi ha però vissuto il cinema giapponese nell’ultimo decennio, facendo registrare l’esordio di alcuni registi interessanti: la scoperta più importante è stata probabilmente quella di Matsumoto Hitoshi - che condivide il background televisivo e comico con Kitano Takeshi, l’illustre assente di questa raccolta, il cui cinema ha perso d’interesse nell’ultima decade -, al quale sono infatti dedicati ben due interventi: quello di Giacomo Calorio per Symbol (2009) e quello di Michele Senesi per Scabbard Samurai (2010), coniugazioni diverse del mondo folle e immaginifico dell’autore. Tra i registi emergenti ci sono anche Yokohama Satoko, di cui troviamo l’opera prima German + Rain (2007) commentata da Alejandra Armendáriz Hernández, rappresentante di una corrente di voci femminili (Oh Mipo, Andō Motoko) che negli ultimi anni sta trovando il proprio spazio, e Gu Su-yeon, uno zainichi (giapponese di origine coreana) che, come spiega Silvia Galli nell’articolo su Hard Romanticker (2011), ha riportato all’attenzione del grande pubblico la questione etnica a un decennio dal pluripremiato Go (id., 2001).
Uno degli eventi che più ha toccato il cinema (e non solo, ovviamente) giapponese negli ultimi anni è stato il triplice disastro de l’11 marzo 2011 che ha prodotto moltissime riflessioni su tematiche a esso collegate: dal ritorno del terrore nucleare all’inquinamento ambientale, dalla disinformazione governativa al ruolo del cinema nella società. In questo volume troviamo un esempio sia sul versante della fiction sia su quello del documentario. Tra i primi a reinterpretare la tragedia in un’opera di finzione è stato Sono Shion che con Himizu (2011), qui analizzato da Gloria Zerbinati, aggiunge un tassello fondamentale al percorso che lo ha portato a venire sdoganato anche nei maggiori festival internazionali, fino a diventare una delle voci più importanti del suo paese. A rappresentare invece gli oltre 200 documentari sul tema, prodotti in meno di cinque anni, Matteo Boscarol sceglie uno degli esempi più significativi e complessi, No Man’s Zone (2011) di Fujiwara Toshi, che si ricollega alla grande tradizione documentaristica degli anni settanta per generare un’importante critica alla pornografia
dell’immagine del disastro.
Naturalmente non potevano mancare numerosi interventi dedicati al cinema d’animazione. Per una volta, però, questi non si concentrano sull’abusato binomio Ghibli-Miyazaki — che sembra peraltro essere giunto al capolinea —, ma analizzano quattro differenti aspetti di un’industria variegata che si estende ben oltre il creatore di Totoro: Davide Tarò con Psycho Pass: The Movie (2015) di Motohiro Katsuyuki ci introduce al mondo dei gekijōban, le conversioni in lungometraggi di anime di successo, prendendo a oggetto uno dei più recenti fenomeni di culto; Susanna Roffredi con A Country Doctor (2007) si concentra invece su uno dei lavori più rappresentativi di un grande maestro dell’animazione d’autore nipponica, Yamamura Kōji. Giorgio Mazzola commenta uno dei talenti narrativi e visivi più importanti dell’ultimo decennio, Satoshi Kon, venuto a mancare troppo presto, ma che con Paprika (2006) ha lasciato un segno indelebile nel recente cinema d’animazione, mentre Davide Giurlando rende un meritato tributo al maestro della stop-motion Kawamoto Kihachirō nel suo articolo su The Book of the Dead (2005), secondo e ultimo lungometraggio dell’autore, scomparso nel 2010, fortemente ispirato all’estetica tradizionale giapponese.
Una parte importante della produzione cinematografica giapponese dell’ultimo decennio è stata ricoperta, come da tradizione, dal cinema di genere. In particolare, nel limitato arco temporale di un lustro (all’incirca a cavallo tra i due decenni) si è assistito ad ascesa e caduta di prodotti molto peculiari, definiti Sushi Typhoon dalla sottoetichetta della Nikkatsu dalla quale la maggior parte di questi venivano prodotti. Si tratta di film di exploitation caratterizzati da violenza stilizzata, umorismo nonsense e stereotipi culturali, pensati esplicitamente per un pubblico occidentale assetato di stranezze giapponesi
, di cui Tokyo Gore Police (2008) di Nishimura Yoshihiro, commentato da Sara Battilana, è sicuramente uno degli esempi più riusciti e divertenti. Nello stesso periodo si è verificato anche il graduale declino del filone J-Horror che aveva invaso le sale di tutto il mondo all’inizio del nuovo millennio e che trova in Shiraishi Kōji uno dei suoi tardi interpreti con Carved: The Slit-Mouthed Woman (2007), classica storia di spiriti rancorosi di cui scrive Alfredo De Vincenzo. Terzo esempio di genere, non più sulla cresta dell’onda da anni, ma che in Giappone continua ad avere un folto seguito di appassionati, è quello dei kaijū eiga (film di mostri), presentati da Federico Tombari nell’articolo su The Monster X Strikes Back / Attack the G8 Summit (2008) di Kawasaki Minoru, il quale mescola parodisticamente geopolitica e invasioni spaziali.
Infine, una dettagliata analisi di Giulio Tosi ci porta a scoprire la nuova generazione di video-artisti giapponesi emersi nell’ultimi decennio, le cui opere, pur non rientrando nella categoria dei prodotti cinematografici strettamente intesi, sono importanti per comprendere le sperimentazioni visive più recenti, come dimostra Space is The Place (2011) di Sonoda Eriko. Tendenza da seguire con particolare attenzione, perché il cinema giapponese, dopo aver vissuto una decade di generale stagnazione, si può dire che sia ancora in cammino
per trovare una chiave di lettura a questo primo scorcio di secolo.
AVVERTENZE
Trascrizione
I sistemi di trascrizione seguiti sono lo Hepburn per il giapponese e il pinyin per il cinese. La divisione delle parole nella traslitterazione dal giapponese è del tutto arbitraria e di comodo. Si è optato per incorporare più elementi nella stessa parola, mentre in genere questi vengono indicati con una lineetta che però non esiste nell’originale. Quindi gendaigeki e non gendai-geki. Tutti i termini giapponesi sono resi al maschile in italiano. La lunga sulle vocali indica l’allungamento delle stesse, non il raddoppio. Alcuni termini giapponesi (sempre invariabili) ormai entrati nell’uso sono di conseguenza usati in tondo, mantenenagdo però le caratteristiche grafiche dell’originale. Ad esempio: anime, daimyō, geisha, haiku, kabuki, kimono, manga, nō, sake, shintō, shōgun, ukiyoe, yakuza, zen.
Pronuncia
La regola generale da seguire è: vocali all’italiana e consonanti all’inglese. Fare però attenzione ai casi seguenti:
ch è un’affricata come l’italiano c
in cena
g è sempre velare come l’italiano g
in gara
h è sempre aspirata
j è un’affricata (quindi jidai
va letto come fosse scritto gidai)
s è sorda come nell’italiano sasso
sh è una fricativa come l’italiano sc
di scena
u in su e in tsu è quasi muta e assordita
w va pronunciata come una u
molto rapida
y è consonantico e si pronuncia come l’italiano i
di ieri
z è dolce come nell’italiano rosa o smetto; o come in zona se iniziale o dopo n
.
Plurali
Il giapponese non ha né genere né numero, quindi il significato (maschile, femminile, singolare, plurale) è dato dal contesto.
E’ errato intervenire su termini giapponesi facendo il plurale all’italiana. Il plurale di geisha (dove il carattere gei sta per arte/talento
e quello di sha per persona
) sarà quindi sempre geisha in quanto significa persona (sia maschio che femmina) o persone in possesso di arte
: una geisha, delle geisha (e non geishe
).
Nomi di persona
I nomi sono dati all’uso giapponese: prima il cognome poi il nome.
Cronologia dei principali periodi storici
Periodo Asuka (dal tardo VI secolo al 710)
Periodo Nara (710-794)
Periodo Heian (794-1185)
Periodo Kamakura (1185-1333)
Restaurazione Kemmu (1333-1336)
Periodo Yoshino o Nanbokuchō (1336-1392)
Periodo Ashikaga o Muromachi (1392-1573)
Periodo Momoyama o Azuchi Momoyama (1573-1600)
Periodo Edo o Tokugawa (1603-1867)
Periodo Meiji (1868-1912)
Periodo Taishō (1912-1926)
Periodo Shōwa (1926-1989)
Periodo Heisei (1989-)
Capitolo 1
KAWAMOTO KIHACHIRŌ
THE BOOK OF THE DEAD
死者の書 - SHISHA NO SHO
IL LIBRO DEI MORTI
Davide Giurlando
Soggetto: Orikuchi Shinobu
Sceneggiatura: Kawamoto Kihachirō
Fotografia: Tamura Minoru, Itami Kunihiko
Musica: Hirose Ryōhei
Animazione: Oikawa Kōichi, Mori Masaaki, Kawamoto Kihachirō, Jurij Norštejn
Voci originali: Miyazawa Rie, Kanze Tetsunojo, Kishida Kyōko, Emori Tōru, Enoki Takaaki
Produzione: Sakura Motion Pictures, Kawamoto Productions
2005, 70’
Giappone, VIII secolo, periodo Nara. Iratsume, fanciulla di nobile famiglia, è ossessionata dal Buddhismo, disciplina proveniente dalla Cina e recentemente introdotta nell’arcipelago. La sua devozione è tale che la ragazza decide di sottoporsi a prove sempre più ardue per apprenderne gli insegnamenti. Spinta dalla fede ad avvicinare un essere ultraterreno che identifica con il Buddha, la ragazza abbandona la casa avita e trova rifugio in un tempio interdetto alle donne dove incontrerà lo spettro del principe Ōtsu, il quale rivede nella fanciulla l’immagine della donna da lui amata in vita.
Il secondo e ultimo lungometraggio di Kawamoto (1925-2010), maestro dell’animazione giapponese ed ex allievo del ceco Jiří Trnka e di Mochinaga Tadahito (produttore e regista assai attivo negli anni ’60) è, come la maggior parte dei suoi lavori, un film in stop-motion fortemente ispirato all’estetica del teatro kabuki e del nō. The Book of the Dead può essere considerato un suo testamento spirituale, che approfondisce le tematiche del precedente lungometraggio, Ren’nyo and His Mother (Ren’nyo to sono haha, 1981), incentrato su uno dei padri delle moderne discipline buddhiste, vissuto nel XV secolo e discendente di Shinran, fondatore di una delle principali correnti buddhiste in Giappone. Inoltre, dal mediometraggio Winter Days (Fuyu no hi, 2003), opera collettiva curata da Kawamoto e ispirata alle opere del poeta Bashō, il regista giapponese recupera il sodale Jurij Norštejn, qui animatore ospite.
A spingere il regista alla realizzazione di The Book of the Dead, basato sull’omonimo romanzo scritto nel 1943 dall’etnologo e poeta Orikuchi Shinobu, è stata, come dichiarato nel 2004 nel corso di un’intervista alla rivista on line Midnight Eye [1], la volontà di