Hospiton
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Info su questo ebook
In questo romanzo la precisione dei dettagli storici e la ricostruzione fedele dell’epoca – le vicende politiche, i rapporti sociali, la religione, l’arte militare, la vita di servi e signori nelle città e nei villaggi – si alternano all’invenzione narrativa che coinvolge il lettore calandolo pienamente in quel periodo storico così intenso e poco conosciuto. Un passaggio travagliato nella grande vicenda del Mediterraneo tra politica, religione, magia, usi e costumi degli antichi sardi.
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Anteprima del libro
Hospiton - Vindice Lecis
a Michele, mio figlio
a Francesca e Guido, miei nipoti
(da Lettere dal carcere, Einaudi, 1965)
«Papà, spiegami a che serve la storia
Così, pochi anni or sono, un ragazzo che mi è molto vicino, interrogava suo padre, uno storico. Vorrei poter dire che questo libro rappresenta la mia risposta, perché non credo ci sia lode migliore, per uno scrittore, che di saper parlare, con il medesimo tono, ai dotti e agli scolari.»
Marc Bloch, Apologia della storia o mestiere di storico
(Einaudi, 1969)
«Nella letteratura italiana hanno scritto che se la Sardegna è un’isola, ogni sardo è un’isola nell'isola e ricordo un articolo molto comico di uno scrittore del Giornale d’Italia che nel 1920 così cercava di spiegare le mie tendenze intellettuali e politiche. Ma forse un pochino di vero c'è...»
Antonio Gramsci, Lettera alla moglie Giulia, 5 gennaio 1937
(da Lettere dal carcere, Einaudi, 1965)
«Quando la si osservi retrospettivamente, la transumanza è stata la conclusione di una lunga evoluzione, il probabile risultato di una precoce organizzazione del lavoro. Alcuni uomini, ed essi soltanto, con i loro aiutanti e i loro cani, custodivano le greggi, raggiungevano alternativamente i pascoli elevati poi quelli più in basso... Si è così costituita una categoria a parte di uomini, uomini al di fuori delle regole comuni e quasi della legge. Le popolazioni delle regioni delle pianure, contadini o arboricoltori, li osservano passare con timore e ostilità. Per essi e per gli abitanti delle città, sono dei barbari, dei semiselvaggi.»
Fernand Braudel, Il Mediterraneo
(Newton Compton, 2002)
Vindice Lecis
Hospiton
romanzo
ISBN 978-88-7356-917-6
Condaghes
Indice
Hospiton
Principali luoghi del romanzo
I
II
III
IV
V
VI
VII
VIII
IX
X
XI
XII
XIII
XIV
XV
XVI
XVII
XVIII
XIX
XX
XXI
XXII
XXIII
XXIV
XXV
XXVI
XXVII
XXVIII
XXIX
XXX
XXXI
XXXII
XXXIII
XXXIV
XXXV
XXXVI
XXXVII
XXXVIII
XXXIX
XL
XLI
XLII
XLIII
XLIV
XLV
XLVI
XLVII
XLVIII
XLIX
L
LI
LII
LIII
LIV
LV
LVI
LVII
LVIII
LIX
LX
LXI
LXII
LXIII
LXIV
LXV
LXVI
LXVII
LXVIII
LXIX
LXX
LXXI
Appendice
Bibliografia essenziale
Nota storica dell'Autore
Glossario minimo
L'Autore
Estensione dell'Impero romano d'Oriente
La collana I Dolmen
Colophon
Hospiton
I
Carales, settembre 593
Il vescovo con un gemito si alzò dalla sedia. Dal fondo scuro della stanza, dov’era assorto in silenzio, si avvicinò alla finestra per godere del soffio tiepido dell’estate che declinava. Aggrottò la fronte e strinse gli occhi feriti dalla luce intensa di settembre. Il suo sguardo debole abbracciò la distesa irregolare di tetti, fino alla linea vaga dove si fondevano le acque dello stagno e del mare. Gianuario, vescovo di Carales e metropolita della Sardegna, quel giorno era inquieto. Possedeva un istintivo senso, quasi animale, nell’avvertire i pericoli e scorgere per tempo le incombenze sgradevoli. Serrò le labbra sottili mentre osservava la grande nave che, poche ore prima, aveva gettato l’ancora in rada. Il suo segretario Pascasio gli aveva già comunicato che faceva parte della flotta della prefettura d’Africa, ma inalberava le insegne papali. Che cosa trasportava dunque quel dromone? Gianuario sperava vivamente che non si trattasse dell’ormai abituale messo papale con una nuova epistola di Gregorio. Il pontefice era certo di salute cagionevole ma gli appariva instancabile ed eccessivamente zelante. Pensava Gianuario che, quelle raccomandazioni, non si potessero definire paterne quanto invece ruvide reprimende. In tre anni aveva ricevuto una pila di lettere di rimproveri, consigli e, sovente, minacce nemmeno velate. Invecchiava così, stretto da tanti nemici implacabili pensando quanto fosse difficile amministrare anime e poteri nell’isola di Sardegna! Ma era ritenuto l’unico in grado di governare la navicella della Chiesa in quella provincia, tra gli scogli rappresentati dai pagani, dai barbari ariani, dagli esosi rappresentanti dell’amministrazione imperiale.
Gianuario sospirò alla vista dell’arciprete. L’uomo aveva tra le mani delle pergamene che sapeva essere fitte di nomi e numeri: si trattava della relazione sugli ospizi e le opere caritatevoli che dovevano essere discusse e approvate. Ma non voleva stare a sentirlo perché i suoi pensieri vagavano altrove. Così, quando Pascasio entrò nella stanza, il vescovo congedò l’arciprete con un cenno deciso della mano. Gli disse che degli xenodochia avrebbero discusso nei giorni seguenti.
– Il messo papale attende di essere ricevuto – sussurrò il segretario chinandosi verso il prelato.
– Fallo entrare – rispose Gianuario restando inchiodato alla sedia. Si aspettava brutte notizie. Era turbato e ansioso. Ma non voleva che nessuno se ne accorgesse.
Si fece avanti un uomo di giovane età. Indossava una tunica di lino adornata con nastri colorati, una bandoliera che sosteneva fodero e spada e portava brache di marina. Poggiò un ginocchio sul pavimento. Gianuario gli porse lentamente il dorso ossuto della mano, attraversata da vene bluastre. Il messo baciò il grosso anello. Ma il vescovo lo lasciò in quella posizione oltre il tempo dovuto, prima di concedergli di rialzarsi.
– Eccellentissimo, questa lettera è di sua santità Gregorio – disse l’uomo sollevandosi e consegnando a Pascasio una pergamena sigillata con cera rossa.
– Molto bene. Se non hai altre incombenze puoi essere nostro ospite per qualche giorno, – esclamò con gelida cortesia il segretario, non prima di aver scambiato un’occhiata con il vescovo – nel caso che l’eccellentissimo Gianuario decida di rispondere con sollecitudine al santo padre.
– Aspetterò qui a Carales, ma solo alcuni giorni. Ho altri incarichi da portare a termine e…
– Andrai anche dal duca Zabarda? – La voce di Gianuario si fece udire per la prima volta. Tagliente, per nulla incrinata dall’età.
– Certamente eccellentissimo, devo recarmi a Chrysopolis.
Gianuario aggrottò ancora la fronte e il reticolo di rughe alterò il suo volto, sovrastato da capelli candidi.
– Roma ha qualche richiesta particolare?
– Non saprei che cosa rispondere. Posso solo descrivere il clima di guerra attorno a noi. Roma non riceve aiuti militari e derrate dall’esarcato di Ravenna ma dalla lontana prefettura d’Africa. E i Longobardi ci minacciano.
Gianuario chiuse gli occhi dondolando lievemente il capo. Per ora non avrebbe chiesto altre notizie. Congedò freddamente l’inviato papale, che uscì dalla stanza con un grande inchino.
– Leggi finalmente questa lettera di Gregorio – ordinò al suo segretario tormentando il crocefisso di legno che gli pendeva sul petto.
Pascasio spezzò il sigillo. Gianuario inclinò la testa per ascoltarlo meglio.
– Fratello Gianuario, – esordì il segretario – ci è sembrato che tu difenda poco i monasteri femminili situati in Sardegna, sebbene sia stato disposto saggiamente dai tuoi predecessori che dei chierici di valore se ne prendano cura e provvedano ai loro bisogni. La tua negligenza…
Gianuario alzò la mano. Il volto si era irrigidito per l’ira e la sorpresa.
– Negligenza? È sempre così affettuoso il santo padre con il capo della sua Chiesa in Sardegna. Deve avere spie e informatori. Ma ci vuole sopportazione… prosegui Pascasio – esclamò con voce rotta dalla tensione. Pensava sempre di essere nella ragione, qualsiasi cosa accadesse.
– … la tua negligenza – proseguì il segretario con un lieve imbarazzo – è stata tale che, con il servizio di persone pubbliche e per adempiere un incarico attribuito ad altri, le stesse donne dedite a Dio sono costrette ad andare in villae e domini e a occuparsi di affari da uomini per i quali non sono tagliate, tutto per soddisfare i diritti del fisco.
Alzò lo sguardo dal foglio di pergamena. Il vescovo era rannicchiato come un piccolo felino. Il volto segnato da matasse di rughe era impassibile anche se una sorda rabbia lo agitava. Non tremava quando ingaggiava scontri con i proprietari, con il duca o il praeses. O quando guidava con decisione i suoi preti riottosi sui quali esercitava un potere assoluto. Ma le lettere di Gregorio lo agitavano. Fece cenno di proseguire, gli occhi come fessure e le labbra serrate.
– La tua fraternità – proseguì Pascasio con voce cantilenante e monocorde – metta dunque fine a questa brutta cosa con una riforma accomodante: invia rapidamente un uomo dalla vita e dai costumi ineccepibili, di età e di rango tali da non sollevare sospetti, il quale, nel timore di Dio, possa assistere i monasteri affinché queste donne non debbano più andare qua e là, contro le regole, fuori dai luoghi venerabili per un qualche motivo privato o pubblico. Tutto quel che si dovrà fare per loro sarà fatto dalla persona che invierai. Che costoro, lodando Dio ed emendandosi nei monasteri, non forniscano più ai fedeli alcun pretesto per cattivi sospetti.
– Hai finito? – chiese alzandosi finalmente dalla sedia. La sua figura esile era come un’ombra davanti alla finestra.
– No, la lettera è ancora lunga…
– La leggerò dopo ma non risponderò subito. A volte mi chiedo se il santo padre abbia l’esatta cognizione di come si esigano i tributi. Tuttavia ho già individuato l’uomo che sostituirà le religiose. Ma ne riparleremo. Ora ho un impegno.
– Ma… tra poco abbiamo la funzione in Santa Cecilia.
– La terrà l’arcidiacono. Ora lasciami.
Pascasio uscì, offeso perché non gradiva essere tenuto all’oscuro delle incombenze del vescovo. Tagliarlo fuori era intollerabile, pensava discendendo le strette scale.
Il vescovo guardava i pulviscoli danzare impazziti nel fascio di luce morente, come pensieri che si accavallavano. L’età era avanzata ma la fragilità apparente del suo corpo non doveva trarre in inganno. Era un combattente energico che non esitava a contraddire persino il papa. Il duca Zabarda, ferrigno capo dell’esercito in Sardegna, lo rispettava e, per sua fortuna, trascorreva molti mesi a Chrysopolis ad arginare gli indocili barbaricini. Del praeses non si occupava eccessivamente, tanto era privo di poteri anche se circondato da un’affollata corte di dipendenti dell’amministrazione civile.
Ora che il sole di settembre tramontava rapido, una penombra languida invadeva quel rifugio privo di comodità. Dall’unica stretta finestra Gianuario osservò ancora lo spicchio di laguna scintillante al tramonto, sulle cui rive sorgeva il quartiere con gli edifici della curia. L’ora stava per giungere. Chiamò un servo e ordinò che gli portasse una cena frugale a base di legumi. Quando il buio e il silenzio avvolsero il palazzo, Gianuario si alzò con un’energia insospettabile, come spinto da una forza nascosta. Scese con passo sicuro le strette scale di legno e raggiunse, al piano inferiore, la sua stanza privata. Si chiuse in un mantello di feltro col cappuccio ben calato sul capo e percorse il corridoio deserto. I chierici in quel momento celebravano nella cattedrale, e così anche i devoti funzionari del suo ufficio. Una grande credenza di legno massiccio addossata a un muro occultava una porta segreta. La aprì con una chiave, richiudendola alle sue spalle. L’aria fresca lo fece trasalire. Uscì nella stradina sabbiosa e buia nel retro dell’edificio. La percorse sostenendosi col bastone sino a un alto steccato. Una vegetazione disordinata nascondeva un cancelletto, una delle uscite segrete dell’area episcopale. Conosceva bene quelle modeste opere di difesa poiché ne era il responsabile. Si diresse verso alcune capanne di cui si indovinava il profilo irregolare e incerto tra cespugli e dune. Si strinse nel mantello. Un brivido di inquietudine lo assalì. Pensò alle certezze che gli dava la fede. Bisognava possederne una buona quantità, rifletté.
– Chierico, sono qui.
Una voce cupa e decisa che proveniva dal profondo dell’oscurità lo fece sobbalzare.
– Sei già arrivato? – rispose. – Seguimi, qui non siamo al sicuro.
II
Chrysopolis
Il duca Zabarda dormiva poco. Si consumava in insonnie febbrili, studiando manuali militari e leggendo le lettere che riceveva dai più diversi uffici. Erano pergamene con ordini e richieste di informazioni inviate dalla meticolosa amministrazione imperiale di Costantinopoli, dal magister militum Africae, comandante supremo dell’esercito e superiore diretto, o dal prefetto del pretorio di Cartagine. Sul suo tavolo si accumulavano anche gli scarni rapporti dei tribuni a capo dei numeri delle città e dei responsabili delle guarnigioni sparse nei luoghi di confine. Da appena un anno l’esarca Gennadio, d’intesa con l’imperatore Maurizio, lo aveva nominato dux dell’exercitus Sardiniae, in sostituzione di Teodoro, impreparato ad arginare le incursioni delle temibili popolazioni barbaricine. Quella nomina gli era costata cara: doveva infatti sborsare trenta soldi di canone annuo. Ma l’emolumento che gli garantiva la prefettura di Cartagine, più di 1.500 soldi, al quale si aggiungevano generose regalie imperiali, lo stava abbondantemente ripagando. Non era però venale come il praeses che risiedeva a Carales o come molti dei suoi ufficiali subalterni, autentici accumulatori di tangenti. I suoi obiettivi erano più elevati, almeno quanto le sue ambizioni.
Al baluginante chiarore della lucerna, Zabarda si alzò dallo scrittoio. Sfinito, si stropicciò gli occhi arrossati. Alloggiava nel modesto edificio a un piano che ospitava il comando, nel quartiere dove erano impiegati anche i componenti del suo officium e i membri della guardia personale. Chrysopolis, l’antica Forum Traiani, era una città protetta da una cinta muraria, ancora incompleta ma ben munita, fatta erigere al tempo dell’imperatore Giustiniano. Un luogo strategico scelto come sede del quartier generale militare della Sardegna e dal quale dipendevano le guarnigioni di castra e presìdi. Quella città custodiva anche il tesoro erariale della provincia: monete d’oro e d’argento, gioielli, oggetti preziosi erano conservati dentro ampi forzieri. La città splendeva di una nuova luce. Al ruolo secolare di grande crocevia di mercati e commerci si era affiancato quello di piazzaforte militare, frequentata incessantemente da reparti in transito. Fondamentale era la strada che da Carales conduceva al nord e che l’attraversava. Molti sardi, provenienti da diverse località, vi si recavano per utilizzare l’acqua calda delle sue sorgenti a scopo terapeutico. Ma anche, segretamente, per officiare riti magici. Tuttavia, oltre i monti che chiudevano l’orizzonte a oriente, cupi di vegetazione e incisi da valli nascoste, viveva il nemico. Tribù considerate barbare che, da decenni, danneggiavano le attività economiche della provincia e ne minacciavano la sicurezza, sfregiando l’unica religione con la loro idolatria.
Zabarda era un soldato di lunga esperienza. Alle spalle aveva avuto comandi di una certa importanza come anche quello dei reparti d’assalto alla roccaforte persiana di Chlomaron. Questo era però l’incarico più gravoso. Aveva a disposizione truppe mobili di fanteria e cavalleria per controllare una provincia strategica, una sorta di confine occidentale dell’impero. Ma il numero dei soldati non era sufficiente per il piano che aveva in mente: pacificare e controllare l’intera isola. Aveva pertanto richiesto rinforzi al quartier generale. Non bastavano più i limitanei, soldati coloni che lavoravano terre a loro concesse ma obbligati per contratto a difenderle. Con nuove unità di rinforzo avrebbe sferrato il colpo di grazia ai barbaricini. Il prefetto del pretorio di Cartagine e il magister militum di Costantinopoli gli avevano promesso un contingente scelto che, vista l’incertezza internazionale, non era ancora arrivato.
Si stropicciò gli occhi e sbadigliò. Orinò in un pitale di metallo decorato con incisioni a sbalzi. Era l’alba e aveva fame. Dondolò il collo da destra a sinistra facendo schioccare le articolazioni. Addentò un residuo della cena, un pezzo di carne fredda smarrita in un recipiente di ceramica. Zabarda era piccolo di statura, con i capelli corti e sfrangiati sulla fronte. La barba ben curata e spruzzata di bianco. Su un volto di forma triangolare emergeva un naso sottile e lungo e risaltavano sopracciglia folte, quasi unite tra loro. Le labbra erano ben disegnate. I movimenti del suo corpo emanavano forza febbrile.
Bussarono. Apparve sulla porta Costantino, il tribuno, l’ufficiale designato alla guida dei collaboratori militari e amministrativi. Si trattava di un affollato apparato al servizio del duca che rivaleggiava con quello del praeses, spesso sovrapponendosi, nelle rispettive competenze. Ma i componenti del suo ufficio erano meglio pagati dei colleghi amministrativi. Zabarda, per affrontare le numerose incombenze imposte dal suo ruolo al vertice della provincia, aveva alle dipendenze il consigliere giuridico Flaviano e un cancelliere di nome Giorgio, un greco efficiente e ben istruito. Con loro lavoravano molti altri impiegati di rango inferiore che si occupavano della contabilità. E militari di carriera che governavano i circa mille uomini dell’esercito regolare. Nei ranghi operavano anche ufficiali delegati al comando dei reggimenti di fanteria, della cavalleria e i commissari addetti al vettovagliamento.
Costantino era accompagnato da due degli otto biarchi, ciascuno con una cesta zeppa di fogli arrotolati. Zabarda li osservò con occhio incerto e interrogativo. Che volevano a quell’ora? Desiderando dare di sé l’impressione di essere sempre vigile e attento, li fece entrare.
– Arrivo con i due commissari per le vettovaglie – esordì Costantino. Costui era un ufficiale sardo con una lunga esperienza in unità mobili di fanteria, già impegnate contro gli Avari e in campagne militari nella penisola italiana. Recentemente si era distinto nella battaglia di Perugia, città strappata ai Longobardi.
– Vi aspettavo – rispose Zabarda che parlava il greco e il latino, anzitutto, ma ora faceva pratica anche di antichi e persi idiomi sardi.
– Cinquecento uomini saranno concentrati qui a Chrysopolis entro due giorni.
– Bene – rispose. Ma il suo tribuno voleva dirgli altro. Lo invitò a parlare.
– Se mi permetti avrei una proposta da fare, in via preliminare.
– Hai una proposta… avanti, esponila.
– Dobbiamo anticipare le operazioni previste. Azzardare una mossa a sorpresa.
– Anticipare che cosa?
Zabarda aveva incrociato le braccia sul petto e osservava il suo ufficiale. Era inquieto per quella guerra continua e aspra contro un nemico che lo teneva in scacco da mesi. I barbaricini colpivano di frequente e fuggivano quasi senza subire perdite. Erano abili, divisi in bande a cavallo, nel tendere agguati improvvisi a convogli e pattuglie isolate. Oppure compiendo incursioni feroci e rapide nelle pianure, avvicinandosi spavaldi alla capitale Carales, per depredare fattorie e spogliare i contadini. Erano imprendibili ed evitavano gli scontri campali. Le spie che riusciva a far filtrare nel loro territorio negli ultimi tempi gli avevano comunicato movimenti frequenti di uomini armati. Ma sembrava che Costantino ne sapesse di più.
– Propongo un’azione rapida…
– Prima dell’arrivo degli ultimi battaglioni di limitanei? Non se ne parla! – affermò Zabarda. Ma era incuriosito. Era un cultore dell’arte militare e studioso dello Strategikon che gli ufficiali dovevano conoscere e applicare in modo quasi letterale. E quel manuale, sopra tutto, predicava la prudenza.
– Sì duca. Dobbiamo agire prima che le tribù barbaricine si mettano sotto le insegne di un unico capo.
– Quelle di Hospiton.
– Sì, proprio lui. Le spie ci segnalano frequenti incontri in località di montagna tra i capi. Se penetrassimo, come abbiamo deciso, con il grosso dei limitanei e con i battaglioni dell’esercito mobile, saremmo intercettati e bloccati poche miglia dopo Chrysopolis.
– Che cosa proponi? Fammi capire meglio.
– Affidami mezzo battaglione di soldati scelti. Con loro entrerò nel territorio barbaro. Saremo invisibili. Gli esploratori ci hanno confermato una imminente riunione dei capi tribù in una zona a ridosso della vallata di Alalè. Tutti insieme, che splendida occasione per ucciderli. Li conosco bene i barbaricini: fanno sempre una festa dove bevono e discutono. E spesso, se non raggiungono accordi, si scannano tra loro.
– Non divagare – replicò Zabarda. Quel piano gli sembrava ardito ma lo interessava.
– Perdonami duca, ma in un colpo solo potremmo uccidere tutti i comandanti delle tribù, quando saranno ubriachi e sfiniti.
– Dove si trova questo luogo?
– In una vallata interna di Alalè. Devono festeggiare l’annata agraria che è appena ripresa e confermare un’alleanza. Almeno così si dice.
– Quando?
– Entro l’ottavo giorno di questo mese, quando nella Sardegna dei Romei si siglano i contratti agrari.
– Mancano pochi giorni.
– Quando gli esploratori ci daranno il via libera, saremo in grado di partire nel giro di poche ore. Sono venticinque miglia di cammino da percorrere tra le montagne.
Zabarda rifletté. Il rischio era molto elevato. I suoi piani erano diversi e non prevedevano azioni così azzardate. Se l’operazione si fosse risolta con una disfatta, il duca avrebbe perso il nerbo della sua truppa di comitatenses, una cavalleria specializzata e professionale. Ma, se avesse avuto anche una piccola parte di successo, avrebbe consentito di far crollare il mito dei barbaricini invincibili e imprendibili.
Guardò Costantino e i due addetti. Forse era giusto, bisognava osare con le truppe regolari di professione. I limitanei erano soldati a volte raccogliticci, spesso impreparati e infastiditi dall’ordine di mobilitazione proprio nei giorni dell’inizio dell’annata agraria. E potevano giocare brutti scherzi.
– Sta bene – sentenziò. – Partirai non appena riceveremo la conferma della riunione dei capi tribù. Hai sufficiente intelligenza e una buona dose di follia. Scegli personalmente non più di cinquanta uomini, uno per uno, e ordina loro la massima segretezza. Devi essere pronto a partire un’ora dopo l’arrivo degli esploratori. Nel frattempo – aggiunse sorridendo – voglio che tutto l’esercito sia schierato sotto le mura per una parata con i preti a benedire gli stendardi. Le spie barbaricine sentiranno ciò che avrò da dire. Si convinceranno che aspettiamo rinforzi prima di muoverci.
I due ufficiali addetti al vettovagliamento furono invitati a predisporre le razioni per la missione.
III
Il vescovo Gianuario raddrizzò il busto incurvato, appoggiandosi al bastone. I suoi occhi deboli incontrarono quelli scintillanti di chi gli stava di fronte. I due entrarono in una vicina capanna di canne e fango.
Una torcia resinosa fu accesa rischiarando un ambiente maleodorante, ingombro di attrezzi per la pesca. Gianuario osservò con apprensione un uomo tarchiato con un’ampia muscolatura. Le spalle e il petto larghi, le braccia possenti. Si capiva quanto fosse allenato alla difficile vita della guerra e all’esistenza nell’aspro territorio delle montagne. Il volto aveva tratti marcati, spigolosi, tale da sembrare intagliato nella pietra. I capelli lunghi cadevano sciolti sulle spalle. Indossava una tunica di lana grezza, con un cappuccio. Un mantello, chiuso al collo da un fermaglio, gli copriva le spalle. Una corta spada e un pugnale pendevano dalla cintura con una grande fibbia di corno di cervo. Unico vezzo una serie di armille ai polsi. Le gambe erano fasciate da brache infilate in calzature di pelle che coprivano la caviglia.
– Finalmente ci incontriamo – esordì il vescovo.
– Ho dunque davanti il più potente della Sardegna. Un uomo di Chiesa! – rispose.
– Io